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il resto di niente

ventiquattro racconti di
Emiliano Bertocchi
e.bertocchi@tiscali.it

“il resto di niente” - © Emiliano Bertocchi by www.sillabesparse.net

1
1. IL DEMENTE

Mi accendo una sigaretta mentre aggiungo un nuovo punto alla lista dei miei
fallimenti.
Continue porte chiuse in faccia, manoscritti di cui non so più niente, nessun posto di
lavoro di merda per tirare su qualcosa.
Costretto nella mia camera giustifico mentalmente le mie azioni.
Se spingo sugli avambracci scopare diventa qualcosa di più profondo, di meno
vulnerabile.
Strappo pagine alle riviste, preferisco quelle con donne con gambe accavallate, tacchi
alti o piedi scoperti.
Mi affliggo nella mia stessa incapacità.
Rimango incollato allo schermo, divoro film, costruisco parole sulle mie visioni.
Spedisco le mie parole, non sortiscono nessun effetto.
Un’ altra piccola sconfitta.
Un altro scalino verso il fallimento.
La mia meta preferita.
Il traguardo di ogni giorno.
Mi applico nella mia carriera di scrittore, una carriera che esiste solo nella mia mente.
Cerco riconoscimento.
Cerco il mio nome stampato da qualche parte.
Non trovo nessuno che sappia chi sono.
Io sono il demente.
Chiuso nella mia stanza continuo a scavare, continuo a brancolare nel buio, mi perdo
nei labirinti della mente.
All’improvviso sono con il cazzo in mano pronto a sborrare.
Poi con gli occhi chiusi perso in un sogno.
Poi dolce e delicato come tu mi conosci.
Poi sono al volante della mia macchina con una confezione da sei sotto i tuoi piedi e
mentre stappiamo birra e ridiamo e corriamo veloci nel caldo dell’estate sembra che
la vita abbia assunto una sua dimensione.
Poi tornano i giorni dell’incertezza, tornano i volti di cui non ho più bisogno e voglia,
tornano le strade a girarmi intorno, piene di persone, di negozi, di macchine.
Strade piene di nulla.
A volte non mi rimane che indossare la maschera dell’idiota e scendere tra queste
persone e cercare di fare qualcosa.
Niente e poi niente esce dalla mia bocca.
Se non parole d’amore per te.
Se non tutta la mia dolcezza per la tua pelle.

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Ripenso a tutto quello fatto fino adesso.
Mi sembrano importanti le cose scritte, le decisioni prese, gli immancabili incubi che
mi perseguitano.
C’è chi parla ancora di rivoluzione, chi crede in un cambiamento, chi professa la sua
fede politica o religiosa.
Io vedo solo caos.
Intorno a me.
Dentro di me.
Un caos multiforme in preda al panico.
Un qualcosa che sta crescendo e che tra non molto ci ingoierà tutti quanti.
A volte mi soffermo su quanto sia bello e dolce e poetico farsi succhiare il cazzo.
Su quanta bellezza c’è nello scopare.
Nel sudore, nelle mani che si intrecciano, nel mio dito che gioca con il tuo buco del
culo.
Poi sono di nuovo me stesso.
Sono di nuovo quello che sono sempre stato.
A volte le paure prendono il sopravvento.
A volte sono tutto quello di cui ho bisogno.
Poi ti prendo per mano e attraversiamo una strada o camminiamo sotto la notte
stellata e finalmente mi accorgo di stare bene, di poter vivere in una maniera decente.
Ma è ancora lungo il percorso sul quale ci siamo incamminati.
E’ ancora oscuro e incerto.
Dobbiamo avere coraggio e proseguire, dobbiamo fidarci l’uno dell’altra e andare
avanti.
E forse tra le macerie di questo mondo potremmo costruire qualcosa.
Con le nostre mani e le nostre emozioni.
Qualcosa che non sia ombra o tenebra o confusione.
Qualcosa di dolce e personale.
Qualcosa che un domani ci apparirà quello di cui abbiamo sempre avuto bisogno.
In fondo.

2. IL GIORNO IN CUI TUTTO ANDO’ A PUTTANE

La vita è ingiusta, lo so.


Scopri che la vicina che ti salutava ogni mattina è morta di cancro.
Scopri che le persone con cui hai vissuto per dieci anni se ne sono andate senza dirti
nulla.
La vita è ingiusta.
Tua madre scopre le tue passioni masochistiche.

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Tuo padre si sofferma sulla lista dei siti porno che hai visitato negli ultimi tre mesi.
Quattrocento pagine piene zeppe di nomi impossibili.
Eppure non ti tiri indietro.
Ti rendi conto delle tue debolezze e non le nascondi.
Non hai paura di ammettere che ti piace infilarti un dito nel culo quando ti masturbi.
Non ti vergogni ad ammettere di godere meglio con il cazzo legato.
Che ti piace leccare i piedi.
Che ti piace leccare il buco del culo.
Ne sorridi.
Potresti addirittura andarne fiero.
La vita è ingiusta, lo so.
Tutto il tempo che spendi in qualcosa non è detto che ti venga restituito.
O che ti venga pagato.
Senti le tue energie che vengono assorbite dal mondo circostante.
Scarti il lavoro e la quotidianità.
Sembra che un uso giusto delle tue forze sia per lo scopare, per il bere e per leggere
libri.
Sdraiato nel parco alle dieci e un quarto di mattina, quando gli sgobboni sono chini
sulle loro scrivanie.
Con il libro del tuo autore preferito in mano.
Quel libro che hai aspettato da quasi un anno.
Seduto sotto un albero hai ancora i postumi delle canne e di quell’ottimo vino di ieri
sera.
Sei giustamente in rotta con tutto quello che hai intorno.
Le persone, i vecchi, i bambini.
Con i cani hai qualche familiarità, i gatti li lasci stare.
Sfogli le prime pagine e sei subito immerso in quello che più ti piace.
Le parole.
La scrittura.
Ormai non saluti più nessuno, ti limiti a farti gli affari tuoi.
La vita è ingiusta, lo so.
Puoi scoprire che il tuo migliore amico è affetto da una malattia dalla quale
difficilmente potrà guarire.
Puoi guardarti tutti quei tagli sulle mani e lungo le braccia.
Piccole cicatrici che cercano di rimarginarsi.
Ne sarà poi valsa veramente la pena?
Quando sei al minimo delle tue forze trovi il momento giusto per scrivere.
Quando tutto va a puttane.
Quando ti incazzi, quando sei in preda al panico, quando il dolore ti pervade.
Eccolo il momento migliore per scrivere, per mandare a fare in culo tutto il vicinato.
Undici di sera.

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Gli sgobboni davanti alla televisione.
Dalla finestra aperta della tua stanza una musica infernale esce fuori e distrugge tutto.
E tu bruci mentre batti le dita sui tasti.
Bruci di vita e di passione e di tutto quello che la vita sembra nasconderti.
Ma tu finalmente lo hai scoperto.
Sembra un momento unico e irripetibile.
Ma questo è un momento unico e irrepetibile.
E mentre sei di nuovo nudo ed eccitato davanti allo specchio ti metti a ridere e a
cantare.
E non te ne frega più un cazzo di tutti quegli stronzi giudizi.
Del pensiero delle persone, delle loro opinioni.
Tu bruci.
E sei vivo.
E mentre ti accorgi di non avere più paura della tua anima, ti immagini un fiore che
sboccia.
Uno stupendo fiore.
Che cresce esile e meraviglioso da un mare di merda.
Proprio quel mare in cui cercano di farti affogare.

3. VIAGGIO MENTALE N.1

Ad occhi aperti fisso il soffitto della mia stanza. Denso di nulla, carico di vecchie
aspettative. Le ragnatele affollano gli angoli, penzolano distratte nell’aria stantia che
hanno intorno. Piccoli arabeschi di fumo salgono verso il buio. Incensi, candele,
sigarette. E’ troppo tardi o troppo presto per rollarsi un’altra canna, non ne sono
sicuro. La mente ha vagato nei suoi antri, mi ha portato in un mare caldo di ricordi.
Come quella volta che un aereo è affondato nel lago o quella volta in cui ho visto il
mondo esplodere.
Il mondo esplodere.

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Potrei tranquillamente sedermi su una sdraia e guardare lo spettacolo – ho pensato.
Mi bastano solo un paio di occhiali scuri.
La sceneggiatura del prossimo film.
Coca candida come la neve da aspirare in continuazione.
Mai andato d’accordo con la coca.
Ma il copione vuole questo.
Vuole coca e una piscina e belle donne intorno.
Il copione vuole una luce abbagliante.
Ecco come immagino il futuro. Un’architettura asettica inondata di luce.
Arredamento minimalista, luce accecante e fuori l’azzurro del cielo e dell’ acqua
immobile della piscina.
Ma anche caldo e pelli abbronzate.
E odori di creme e liquori e una mosca che vola rincoglionita non si sa dove.
Basta aspettare, mi hanno consigliato.
Ma torniamo alla stanza.
In un angolo un’ombra improvvisa ha mosso la coda, i denti del demonio hanno
sorriso, l’occhio mi ha guardato.
Strano ma vero, c’è un occhio che mi osserva da dietro le persiane della casa che ho
di fronte.
Un unico grande e immenso occhio.
Rosso come il fuoco, senza palpebre.
Nell’aria che dovrei cambiare circolano ancora i maledetti ricordi.
Mi accarezzano la mente e vorrebbero farmi ridere. Tornano alcune voci che mi
hanno fatto piangere, voci che mi hanno fatto disperare.
Come ero debole e fragile.
Come sono debole e fragile.
La stanza è sempre più buia e se tocco il pavimento qualcosa di freddo e mortale mi
afferra la mano.
Ma non ci credo, non ci credo.
Sul copione mi avevano assicurato parecchie scene di sesso.
Grandi scopate orgiastiche.
Sul copione i corpi promessi erano snelli e accattivanti.
Nella stanza torno mentalmente alla prima sequenza.
Io nudo steso sul letto.
Dissolvenza incrociata sul buio del soffitto.
Movimento di macchina sulle fluorescenze delle ragnatele.
Poi tre stacchi veloci e improvvisi.
L’ombra nell’angolo che muove la coda.
I denti del demonio.
L’immenso occhio rosso.
Poi nuovo stacco e il mio corpo nudo sul letto.

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Attaccano i titoli di apertura.
Colonna sonora composta per l’occasione.
Non rivelo il titolo e l’autore.
Ad occhi aperti fisso il soffitto della mia stanza, incapace di dormire, incapace di
riflettere.
Guardo nella scatoletta e di fumo ce ne è ancora parecchio.
L’ultimo affare è andato bene.
Una preoccupazione di meno.
Inutile pensare e aspettare. Rollo un’altra canna e fumo silenzioso nel buio.
Un primo brivido lungo la schiena.
Poi tossisco.
Un altro paio di tiri.
Spengo tutto.
Cervello, testa, cuore, cazzo.
Spengo tutto.
Poso il copione.
Scompare la piscina, il sole, i miei occhiali da sole.
Spengo tutto.
Rimango solo.
Fisso di nuovo il soffitto.
E le ragnatele della mia anima continuano lente a formarsi.

4. VERSO NORD

Stacco dal turno alla pompa di benzina verso le otto di sera. Oggi è giorno di paga e il
capoccia dopo che mi sono cambiato mi allunga l’assegno settimanale.
Questi quattro soldi di merda per pagarmi l’affitto e da mangiare.
Questi soldi di merda per campare.
Mentre mi allaccio la giacca pesante e alzo lo sguardo verso il cielo, i colori sono già
più tenui e sento la notte avanzare.
Mentre mi allaccio la giacca pesante pesco una sigaretta dal pacchetto e l’accendo.
L’assegno è nella tasca interna della giacca.
Intorno a me la Città.

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Lampioni che si accendono, una brezza che si alza da nord, persone che battono i
piedi alla fermata di un autobus.
Oggi ho visto alcuni ragazzi passarsi un giornaletto porno e una bottiglia di whisky.
Avranno avuto quattordici anni.
Ridevano, sembravano felici.
Avrei voluto essere uno di loro.
Mentre con la pompa riempivo di benzina l’ennesima anonima macchina.
Mentre meccanicamente con la voce salutavo l’ennesimo anonimo volto.
Mi fermo in un bar per comprare una confezione da sei di birra.
Poi con la busta in mano e la giacca chiusa mi incammino verso la mia stanza.
Un’altra settimana di merda è finita.
Non ho amici con cui stare, donne a farmi compagnia, allegria da spartire.
Ho me stesso.
Il mio universo.
Ho tutto quello di cui non ho bisogno.
Me stesso.
Aprendo la stanza della camera mi accorgo di quanto faccia schifo il posto dove vivo.
Sparsa per il pavimento c’è la biancheria di un’intera settimana.
Sparsi per il pavimento ci sono i resti delle sbronze di almeno una settimana.
Cadaveri vuoti e tristi.
Mi butto sul letto senza neanche levarmi la giacca.
Ultimamente non ho pagato il riscaldamento e dentro la stanza fa un freddo boia.
Ho una piccola stufa.
Ma non ho voglia di metterla in funzione.
Mi stappo una lattina e accendo una sigaretta.
Mi avvicino alla finestra della mia stanza.
Secondo piano su una strada.
Guardo di fuori.
La notte si è impossessata della città.
Ancora lampioni.
Poche persone.
Mi soffermo sui fari delle macchine.
Sembra che almeno loro abbiano un posto dove andare.
O qualcosa da illuminare.
Apro la seconda lattina e continuo a guardare fuori.
Respiro l’aria fredda.
Mi entra nelle narici e riesce sotto forma di vapore dalla mia bocca.
Penso al Grande Nord.
Ai boschi e ai laghi e agli alberi sempreverdi.
Penso ad un viaggio verso quelle terre.
Un viaggio forse in autostop.

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Invece di questi quattro soldi di merda per campare.
Questa gabbia, questa prigione.
Butto la cicca fuori dalla finestra.
Poi apro un’altra lattina e così siamo a tre.
Apro l’armadio della stanza.
Trovo la mia valigia e la butto sul letto.
Poi la apro.
Prendo i miei pochi vestiti e li infilo dentro.
Prendo le mie povere cose e le infilo dentro.
Un paio di libri in versione economica.
La roba per il bagno.
Un paio di quaderni dove appunto i miei pensieri.
Tiro fuori l’assegno dalla giacca e lo guardo.
Quanta miseria.
Quanta miseria per tutto il tempo in cui devo lavorare senza che me ne freghi un
cazzo.
Da sotto un cassetto strappo una busta attaccata con lo scotch.
Dentro tutti i miei averi.
Li butto nella valigia e chiudo.
Poi sono per strada.
Sono per strada.
Mi incammino di nuovo verso nord.
Il Grande Nord.
Guardando le stelle.
Sperando che mi indichino una direzione.
Poi sono al bordo di una strada abbastanza trafficata.
Soprattutto camion e macchine.
Ma cosa altro ci potremmo aspettare di vedere sopra una strada?
Cammino al bordo della striscia bianca fino alla prima stazione di rifornimento.
Entro nel bar e ordino un caffè.
Poi esco. Sotto la giacca una bottiglia da una pinta di whisky.
L’ho rubata e l’ho fatta franca.
Mi avvicino ad un camionista.
Parlottiamo.
Guardo di nuovo le stelle.
Una brilla più delle altre.
Deve essere la mia stella fortunata.
Il camionista mi fa salire e mi dice che per un pezzo di strada potrò viaggiare con lui.
Poi è solo buio e velocità e due coni di luce che illuminano la strada.
Mi stringo ancora di più nella giacca.

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E viaggiando verso Nord finalmente mi dimentico di quanto la vita possa essere
merdosa e stupenda allo stesso tempo.

5. ANCHE ALLE STELLE PIACE FARSI LE CANNE

Quando mi alzo la mattina, di solito, sono sempre troppo stordito per


rendermi conto di quanto succede. E' colpa della notte. Non posso farci
niente. Qualcosa accade sempre. E tu corri dietro a questa puttana velata di
illusioni. E bevi, fumi e corri verso una nuova alba. Seguendo l' andamento
della tua macchina. Più o meno è quello che mi capita la notte. Non riesco
mai a dire di no. Non riesco a darmi una regolata. Mi lascio andare e mi piace
vedere cosa succede. Se non ci fosse la follia la vita sarebbe una cosa
insopportabile. La follia ti sconvolge i piani, ti crea nuove direzioni. Tutti i
tuoi programmi se ne vanno felicemente a fare nel culo e ti senti più libero.
Alla fine le cose inaspettate sono sempre le migliori. Le cose che ti stupiscono
non finiranno mai di piacermi.
L' altra notte sono andato con la mia ghenga al mare. Mi sono preparato bene.
Ho comprato un paio di dozzine di bottiglie di birra. Avevo del fumo. E
questo è quanto. Fumo e birra vanno bene insieme. Basta non esagerare. Basta
saper danzare sul limite tra le due ebbrezze. E non è sempre facile. Ti puoi
ritrovare stordito da un momento all' altro. E quello che erano risate può
diventare delirio. Quello che erano scherzi e battute, una triste paranoia. A
volte, le volte brutte, funziona così. Capita, un po’ come per il resto delle
cose. Ma in questa notte ho retto l' attacco della birra e del fumo e ho
cavalcato bene l' onda. Non mi sono lasciato andare. Mi sono divertito e sono
stato bene. Non so per gli altri intorno a me. Ad un certo punto li ho visti
spaesati. Forse si erano persi. E io non sono stato capace di ricondurli su una
strada più tranquilla, o perlomeno accettabile. Ho cercato di stare vicino a
tutti. Ho cercato di non lasciare nessuno da solo. Ma facendo così, forse, sono
stato io a rimanere da solo. Strano no?
Ad un certo punto si decide di tornare a casa. Ma la cosa non mi piace per
niente. Sono in vena di pazzia questa notte e l' andare a casa mi sembra solo
una perdita di tempo. Una inutile perdita di tempo. Anche perchè per strada

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c'è un traffico infernale, sembra l' ora di punta di un giorno lavorativo e
invece è solo mezzanotte e mezza di sabato sera.
Non c'è da stupirsi. Il divertimento è un lavoro, in un certo senso.
Rimango in spiaggia insieme ad un altro pò di persone. Il resto della ghenga
sfancula. Li saluto e li lascio andare.
Che ognuno sia libero di essere ciò che vuole.
Che ognuno segua la sua strada.
Che la notte possa non finire mai.
Mi stappo un' altra birra e rollo un' altra canna. L' onda continua a spingermi
in alto e non ho nessuna intenzione di cadere. Mi sdraio per terra. Le stelle
sono offuscate da nuvole viola. Non importa. Parlo con Marco e Stefano e
diciamo cazzate. Mi piace dire cazzate. Sulla spiaggia e quando fumo. Mi fa
sentire il gusto assurdo della vita. Quando riesci a ridere delle cose che ti
capitano allora non c'è niente che può farti male. L' ironia è la migliore difesa
contro il mondo. Non c'è nulla di cui non si possa ridere e questa è la nostra
unica speranza.
Le cazzate mi arrivano sulla bocca ed escono fuori alla grande. Stiamo
ridendo come matti e ne sono contento.
Poi silenzio.
Continuiamo a bere e a fumare mentre le casse dello stabilimento vicino
sparano musica di merda. Non che l' ascoltassi, ma è musica proprio di
merda. Però non rovina l' ambiente. La birra continua a scorrere fredda e
perfetta nella mia gola. Mi alleggerisce la mente. Questo carico che ci preme
sulla testa per tutta la vita. Che insopportabile peso. Le droghe servono per
alleviare questo peso. In un modo o nell' altro.
Quelle che uso o che ho usato mi hanno sempre fatto fare belle esperienze.
Anche se brutte sono state belle. E mi hanno sempre insegnato qualcosa su
me stesso, sugli altri e sul nostro rapporto con il mondo. Che più finto di così
non potrebbe essere.
Il fumo modula le mie percezioni. E dona magia alla notte. E bellezza al mio
sguardo.
Si è fatta una certa ora. E di ridere e chiacchierare non mi va più. Raccolgo i
miei amici e le nostre ragazze e risaliamo in macchina. La fila sembra essere
sparita e ringrazio le divinità di non farmi affrontare questo incubo. Sono
rimaste alcune birre che io e Marco ci beviamo nel viaggio di ritorno.
A casa l' onda sta ancora muovendosi e io sopra di essa.
E la birra, il fumo e la notte
e il mare e le onde e l' amore

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e tutto questo vuoto incolmabile
mi danno una nuova occasione per chiudere
gli occhi e addormentarmi.
Verso un nuovo giorno
di cui non vergognarmi.

6. DOVE IL BUIO FINISCE E LA LUCE NASCE

Qui mi sto sbattendo di nuovo.


E le cose non vanno, non vanno e non vanno.
Mi ritrovo sempre da capo.
Sempre.
Mi ritrovo tra persone che mi annoiano, tra volti che non mi capiscono, tra mille e
mille cose che non voglio fare.
E io provo, perdio.
Ci sto provando.
A sbattere le dita con furia e dolcezza su questi tasti.
Ci provo a tirare fuori quello che ho dentro.
Ma a volte i colpi ti arrivano sotto la cintura, sul mento, dritti in faccia e ti stendono.
Ti stendono.
Provi a rialzarti.
Con sempre più fatica.
Ma un sorriso di scherno è sempre presente sul mio volto.
Se solo sapeste quello di cui potrei essere capace.
La mia è rabbia repressa.
La mia è amarezza.
La mia è una bottiglia piena di benzina.
E’ una pietra in una mano.
E’ una carica di dinamite.
Aspetto il momento giusto per esplodere.
Aspetto il momento giusto per distruggermi.
Così.
Per la gioia di vedere cosa accade.

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Qui mi sto sbattendo di nuovo.
Il merito per i miei studi è andare ad attaccare locandine sui muri.
Rispondere al telefono.
Girare in macchina.
Per i miei studi mi ricompensano facendomi fare l’attacchino.
Il faccendiere.
Ma ogni volta che abbasso il capo, la rabbia sale.
Ogni volta che mi sottometto, che obbedisco, io divento più forte.
Ogni volta che sono docile, divento più feroce.
Ogni volta che sono adorabile, divento più cattivo.
E’ l’ anima che si sta levigando.
E’ il dolore e la sofferenza che ti rendono migliore.
E allora di nuovo le dita sui tasti.
Di nuovo nero su bianco.
Di nuovo il cuore che batte più forte.
E le parole che prendono forma, le parole che sono bombe e molotov e inni anarchici.
Le parole che sono tutto quello di cui ho bisogno.
E più ingoio merda e più loro escono fuori veloci.
Sempre più forti.
Poi ci sono io che mi calmo.
Che ritorno me stesso.
Pacifico e riflessivo.
Ma questi momenti, i momenti in cui scrivo, io mi trasformo.
Io divento quello che non avrei mai creduto possibile.
E parole, parole e ancora parole.
Fino a quando ne avrò bisogno.
Fino a quando loro avranno bisogno di me.
Fino alla gloria.
La mia e di tutti quelli che mi hanno sputtanato.
Mi avete dato forza.
Mi state facendo crescere.
Non avrei mai immaginato che più in fondo andassi, più sarebbe stata salda la mia
volontà.
Che più equilibri avessi distrutto, più stabilità avrei trovato.
E adesso nel buio della mia camera mi preparo per la notte.
Che come sapete è fatta di viaggi e droghe e risate.
E’ fatta di amore, sesso e sempre mutevoli illusioni.
La notte che io amo.
L’unica che ancora non mi ha abbandonato.
Quando oscura le mie ultime speranze.
Ricordandomi che l’alba sarà sempre pronta ad aspettarmi.

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Là dove il buio finisce
e la luce nasce.

7. IL VOLTO

Certe volte sono stanco del mio volto.


Soprattutto quando mi guardo troppo allo specchio.
Sono stanco dei lineamenti, delle piccole rughe, delle borse sotto gli occhi.
Mi sembra che quel volto riflesso, di mattina, nello specchio del bagno, da troppo
tempo mi stia fissando.
Divento sospettoso. Irritabile.
Cerco delle imperfezioni, cerco particolari che mi siano sfuggiti.
Ma ritorno sempre alla solita conclusione.
Quello sono io.
Quella è la mia faccia.
Cerca di essere qualcosa di diverso.
Qualcosa di inaspettato.
Due occhi mi fissano.
Due labbra ammiccano.
Sento una voce nel cervello.
Una voce galleggiare nel cervello.
Dice cose non proprio belle, dice cose cattive.
Mi suggerisce di prendere un rossetto e di truccarmi le labbra.
Dice di prendere una lama e farmi tagli sul viso.
Potrei anche scendere e aprire uno squarcio che arrivi fino all’orecchio.
Potrei mettermi delle ciglia finte.
Trasformare la mia voce.
Potrei provare con una maschera.
Un volto orrendo e terrificante.
Un volto che susciti paura e timore.
Potrei essere un’antica divinità, un demone ormai dimenticato.
I brividi iniziano a correre lungo la schiena.
Un misto di eccitazione e proibito e sofferenza.
Decidere il momento della propria tortura.
Decidere il momento della propria sottomissione.
Guardo di nuovo gli occhi.

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Mi sembrano impassibili e glaciali.
Mi fissano.
Mi osservano.
La voce continua a parlare nel mio cervello.
Dice le cose che potrei fare.
Essere qualcosa di diverso.
Qualcosa di inaspettato.
Mi libero dal mio stesso sguardo e vado a vestirmi nella mia stanza. Opto per i miei
soliti quattro stracci. Cerco di dimenticare quello che la voce mi ha suggerito.
In un attimo sono fuori.
Nel sole lucente delle strade e nei riflessi accecanti delle vetrate.
Il sole mi confonde.
Mi rivela verità a cui non vorrei credere.
Ho sentito parlare di una mostra di quadri.
Di gente in preda alle allucinazioni del troppo bere, al delirium tremens. Gente in
preda a psicosi suicide, a scissione della personalità. Gente che vede cose che la
maggior parte della gente non vede.
A queste persone hanno permesso di dipingere.
Come una sorta di cura.
Ho sentito dire che per un periodo, negli anni settanta, hanno cercato di curare le
malattie mentali con l’acido.
Ho sentito dire che puoi campare partecipando a film sadomaso in cui ti pagano per
farti torturare.
Non ho nessuna voce nella testa.
Nessuno che mi dice cosa fare.
Sono le cose che ho letto sui giornali della sera, edizioni difficili da trovare, ma pur
sempre reperibili se si cerca nei posti giusti.
Negli angoli bui.
In quelle zone dello specchio che non riflettono la tua immagine.
Lascio stare la mostra dei quadri, troppo lontana, difficile arrivarci.
Sono stanco di me stesso.
Di quello che sono sempre stato.
Girovago per la città come un idiota. Mi fermo, parlo da solo, poi continuo a
camminare.
Decido per la libertà assoluta, quella dell’annullamento.
Quella della perdita di se stessi.
Devo toccare il fondo.
Toccare il fondo.
Ecco quello che devo fare.
Potrei scegliere i metodi della mia caduta.
Devo annullarmi.

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Annullarmi.
Torno di nuovo a casa e sono nudo davanti allo specchio.
Non ho idea del giorno e dell’ora e dell’anno in cui mi trovi.
Ho perso i contatti.
Ho semplicemente lasciato perdere.
Nella mano ho un coltello.
Dovrei ferirmi.
Psicosi.
Allucinazioni paranoiche.
E poi potrei dipingere quello che vedo, quello che vedo e che nessun altro vede.
Potrei farmi rinchiudere e passare il resto dei miei giorni a dipingere i mostri della
mia mente.
Sono ancora davanti allo specchio.
Mi guardo.
Due occhi mi guardano.
La vittima e il carnefice.
Il dio e l’agnello.
Il boia e la sua vittima.
Poi parte il colpo.
Il coltello.
Dritto negli occhi di chi mi guarda.
Mille frammenti di me.
Mille occhi che mi guardano.
Sangue.
Sangue.
Che scivola dalla mano.
Dalla lama del coltello.
Mille frammenti.
Poi mi allontano. Indietro.
Fino a che le mie spalle sbattono conto un muro.
Sembra che le pareti sia allontanino.
Mio dio.
Allucinazioni.
Mi vedo in mille modi diversi.
Vedo talmente tante parti di me stesso da averne paura.
Potrei prendere un pezzo di carta e disegnare.
Psicosi.
Paranoie.
Delirium tremens.
Dissociazione della personalità.
Chi siete?

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16
Cosa volete?
Non più una voce, ma mille voci nella testa.
Caccio un urlo.
Le mie mani che sanguinano, le mie mani che sanguinano.
Le voci che mi dicono tutte cosa fare.
Sono pronto. Mille strade verso il nulla.
Quello che sto cercando.
Tra le gabbie geometriche della mente.
Il nulla.
Per essere quello che non ho mai osato pensare.
Per non essere più quei due occhi che da troppo tempo ormai mi osservano, senza
avere più niente da dirmi.

8. GLORY HOLE

Me ne sto in uno di quei bar proprio fuori la Città. Più che altro mi trovo in un
periodo di stallo. Le donne e il lavoro mi sembrano quanto di più lontano possa
esistere da me. Mi limito a tirare avanti con quello che la vita riesce ad offrirmi.
Praticamente nulla.
Faccio piccoli lavoretti.
Piccoli lavoretti da delinquente.
Porto pacchi di droga, valigette con dei soldi. Qualche volta mi ritrovo con una
mazza da baseball in mano a sfondare le gambe di qualcuno. Altre volte do fuoco ai
negozi, oppure spacco le vetrine di quelli che non pagano gli strozzini locali.
Lavori di merda per una vita di merda.
In qualche modo le cose seguono una loro logica.
Sta di fatto che in questo periodo, mentre io sono seduto al bar, è tutto una calma
piatta.
Sembra che i carnefici non abbiano più vittime da colpire.
Sembra che i cattivi non abbiano più persone da tormentare.
Quindi io me ne sto con le mani in mano, senza contribuire a peggiorare questo
mondo.
Me ne sto in uno di quei bar proprio fuori la Città. Appollaiato su uno sgabello con il
mio terzo boccale di birra davanti. La schiuma del primo sorso mi ha imbiancato la
barba sopra il labbro. Con un movimento della bocca l’ho risucchiata, producendo un

“il resto di niente” - © Emiliano Bertocchi by www.sillabesparse.net

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rumore che mi è molto caro, insieme a quello che fa il dito quando si muove
nell’orecchio alla ricerca del cerume. E poi all’improvviso si sente quel rumore come
di un tappo che parte, di una bottiglia che si stappa.
Sento sempre un senso di vittoria quando mi sturo con successo le orecchie.
Sono alla ricerca di particolari, qualcosa da trasformare in una storia.
Nel tempo morto, tra un lavoro di merda e l’ altro, provo a scrivere.
Provo a buttare giù le mie idee, la mia personale visione del mondo.
Qualche rivista underground ha anche pubblicato le mie cose.
Queste sono le mie gioie, le mie vittorie personali.
Far leggere la mia roba, dire agli altri come la penso.
Sono alla ricerca di particolari.
Mi soffermo sui piedi di una donna a qualche sgabello da me, ne potrebbe partire una
buona storia di quelle sporche e arrapanti.
Mi soffermo su una mosca che beve della birra caduta sul bancone.
Mi soffermo sulla foglia di una pianta ornamentale.
Sono a caccia di dettagli, di particolari.
Mi soffermo sull’ elica ferma del ventilatore.
Mi soffermo sulla musica del locale, un pezzo dei System of the Down.
Niente.
Tutti questi pezzi, questi particolari, questi dettagli non mi servono a un cazzo.
Ritorno sulla mia birra.
In attesa dell’illuminazione o della morte.
Fanculo.
Un tipo mi si siede accanto con la sua birra e anche se non sono molto espansivo mi
ci metto a parlare.
In fondo l’ispirazione non si sa mai da che parte arrivi.
Ad un certo punto il discorso si fa interessante.
Non so come arriviamo a parlare di cessi dei bar.
Il tipo mi dice che in questo stesso bar i bagni delle donne e quelli degli uomini
hanno una parte in comune.
In che senso - domando io.
Lui mi risponde che hanno fatto un buco nel muro.
Un buco nel muro che divide il bagno maschile (quello con la tazza) da quello
femminile.
Un buco sul muro - rifletto tra me e me e poi successivamente tra me e la birra.
Un buco sul muro.
A cosa mai potrà servire?
La mia mente malata inizia subito le sue sporche e oscene supposizioni.
Dico al tipo – A cosa cazzo serve un buco sul muro?
Per spiare quelli che pisciano e cacano, forse?
Il tipo mi dice – Guarda che il buco è più grande, molto più grande di uno spioncino.

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Do un altro sorso alla birra e quasi mi viene un colpo.
Mi arriva l’ illuminazione.
Non mi dirai che uno ci infila il cazzo dentro? – faccio al tipo.
E quello mi dice – Giusto amico, ci infili il tuo uccello dentro e dall’altra parte se c’è
una che c’ha voglia della tua nerchia se la prende in bocca e te la succhia.
Ti fanno un pompino? – chiedo sbalordito – Così come se niente fosse?
Non solo un pompino, se ci trovi quella arrapata magari se lo mette anche nella fica o
nel culo.
Fantastico - faccio io.
Tu lo hai provato? - chiedo.
Certamente, mi hanno fatto una pippa da prosciugarmi.
La cosa bella di tutto il gioco – continua lui - è che tu non sai chi ti sta facendo venire
e la donna dall’altra parte si prende di te solo quello che gli interessa veramente.
E’ uno scambio equo dopo tutto.
Perdio – dico io.
Finisco la terza birra e l’alcool sommato alla storiella del tipo mi hanno fatto
diventare il cazzo discretamente duro.
Mi dico – Cazzo. Prova anche questo, magari ti diverte.
Mi alzo e sorridendo al tipo gli dico che vado a farmi una pisciata, lasciando
sottintendere non so cosa.
Mentre mi dirigo verso i bagni sorrido alla tizia a cui prima avevo osservato i piedi,
nella ricerca di un particolare.
Ma fanculo i particolari e i dettagli e la scrittura, ora ho la possibilità di farmi una
bella sborrata.
E a confronto tutto passa in secondo ordine.
Entro nel cesso e mi dirigo verso l’ultimo bagno, quello che presumo abbia il buco e
sia attaccato al bagno delle donne dalla parte opposta.
Entro ed effettivamente il buco è proprio lì.
Con tutte intorno una serie di scritte oscene.
Con tutte intorno una serie di frecce.
Come se non si capisse cosa farci con quel buco.
Bene.
Eccomi qui.
Mi sbottono i pantaloni e mi tiro fuori l’uccello.
E’ rosso e pulsante.
Cosa fare?
Lo infilo dentro.
Lo infilo dentro la buco.
Fregandomene di malattie, germi e cazzate varie.
Qui si parla di sborrare ed è un po’ di tempo che la cosa non la faccio con altri.
Ultimamente sono stato anche troppo autosufficiente.

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Il cazzo è dentro il buco già da un paio di minuti che non succede nulla.
Inizio quasi a sospettare che sia tutta un balla che mi ha raccontato il tipo.
Poi il miracolo.
Una mano afferra il mio cazzo e una bocca lo inizia a succhiare.
Quasi mi prende un colpo.
Sento il cuore che mi schizza a mille.
Come succhia sta stronza.
Tutta saliva e lingua.
Formidabile.
Tutta labbra e gengive.
Sembra che non c’abbia manco i denti per quanto va veloce.
Dopo neanche cinque minuti di sto risucchio formidabile le lascio dentro la bocca una
bella dose di sborra con gli interessi.
Perdio.
Erano anni che non sborravo a ‘sti livelli.
Ritiro il cazzo dal buco e mi viene la curiosità di vedere chi cazzo m’ha fatto sto
lavoretto.
Mi abbasso e sbircio nel buco, ma vedo solo una borsetta marrone che si trascina
fuori dalla porta.
E una mano che regge sta borsetta.
Una mano con anelli d’ oro.
Mi sembra un po’ grinzosa, ma forse mi sbaglio.
Esco anche io dal cesso e ritorno verso il bancone per commentare con il tipo la mia
formidabile esperienza.
Mentre mi avvicino al mio sgabello mi guardo intorno riappacificato con il mondo.
Le endorfine rilasciate dalla mia schizzata sono in circolo e io mi sento bene.
Mi soffermo di nuovo sui particolari, hai mai visto che mi venga pure l’ idea per una
storia.
Una schizzata e una nuova storia.
Sarebbe perfetto.
Mi soffermo su una foto di Marylin che fa i pesi su una panca, vestita in maniera
militare.
Mi soffermo su una bottiglia di vodka dall’etichetta fantastica.
Ho bisogno di particolari, tracce, spunti per le mie storie.
Poi mi soffermo su una borsetta posata sul bancone.
Poi su una mano piena di anelli che la afferra.
Poi su una signora che si gira e mi guarda.
Avrà circa settant’anni.
Non ci posso credere.
Non ci posso credere.
Mi sono fatto spompinare da una vecchia.

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Quella mi sorride e aprendo la bocca la vedo infilarsi la dentiera.
Non è possibile.
Per questo succhiava così bene, sta troia.
Faccio finta di niente e tiro avanti leggermente sconvolto.
Arrivo al mio sgabello e il tipo se ne è andato.
Rimango di nuovo solo e inutile.
Esco dal bar e monto in macchina.
La vita continua a prendersi gioco di me.
Metto in moto e sono di nuovo sulla strada.
Verso dove?
La mia illuminazione o la mia morte.

9. LA FECCIA DEL MONDO

Sono fuori.
Cazzo.
Non è possibile.
Sono fuori e sto correndo.
Ho il fiato corto, i polmoni che mi bruciano, le lacrime agli occhi.
Le mie gambe vanno come saette.
L’ adrenalina mi schizza in tutto il corpo.
Corro.
Cazzo.
Ce l’ ho fatta.
Sento il fischio di due proiettili.
Ce l’ ho fatta.
Forse non del tutto.
Nell’ attimo preciso in cui mi giro per guardarmi dietro mi scontro contro una
vecchia del cazzo.
La sbatto per terra.
Impreco.
Continuo a correre.
Dietro due guardie mi stanno inseguendo.
Rettifico i miei pensieri.
Ce la devo ancora fare.
L’adrenalina mi da lucidità.

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Le mie gambe vanno come saette, nella mano destra ho una pistola.
Nella sinistra una valigetta.
Corro.
Pensa, cazzo, pensa a qualcosa.
Sbatto contro una donna.
Questa cade per terra, io continuo a correre.
Altri fischi di proiettili.
E’ come se mi vedessi dall’ esterno.
E’ come se mi vedessi correre.
Pensa, cazzo, pensa a qualcosa.
Svolto dietro un angolo.
Svolto dietro un angolo e le gambe mi cedono per un momento.
Mi appoggio al muro.
Adesso.
Vai.
Adesso è il momento.
Salto di nuovo sulla strada e inizio a sparare.
Le due guardie sono colte allo sprovvisto.
A una la prendo in mezzo agli occhi e crepa sull’ istante.
L’ altra la ferisco.
E cade per terra.
Ringrazio dio.
Ringrazio dio per la fortuna.
Le preghiere servono a qualcosa, dopotutto.
Mi rimetto a correre.
Sento le sirene della polizia in lontananza, sento il cuore che mi esplode, sento che
sto correndo.
E’ come se mi vedessi dall’ eterno.
E’ come se mi vedessi correre.
Pensa, cazzo, pensa.
Vedo una macchina che sta arrivando.
Mi ci butto sopra.
La macchina inchioda.
Apro con furia lo sportello.
Dentro un ragazzo sui venti.
Capelli biondi.
L’ unico particolare di cui mi accorga prima che gli spari in testa.
Poi prendo il suo corpo morto e pieno di sangue e lo butto fuori dalla macchina.
Monto e come un razzo sono sulla strada.
Sento ancora le sirene.
Sento ancora il mio cuore battere.

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E’ una sensazione incredibile.
Non mi sono mai sentito così vivo.
Ogni secondo è lungo come un secolo.
Ogni millimetro della tua pelle è teso verso la vita.
Stai lottando per la tua sopravvivenza.
Questo non è un gioco.
Se ti beccano è la morte.
Se ti beccano non avranno pietà, come tu non ne hai avuta con loro.
Mi spingo nel traffico.
Cerco di calmarmi.
Non voglio calmarmi.
Voglio questa overdose di adrenalina che mi sta facendo impazzire.
E’ la paura.
E’ l’ esaltazione.
Non ci capisci un cazzo, eppure non sei mai stato così lucido in vita tua.
Senti ancora le sirene, ma ti sembrano più lontane.
Esco dal traffico.
Imbocco un vicolo.
Parcheggio la macchina e scendo.
Dove andare?
Cosa fare?
Segui l’ istinto, cazzo, segui l’ istinto.
Una manica della mia giacca è imbrattata del sangue del ragazzo che ho appena
ucciso.
Mi allontano dalla macchina.
La mia faccia domani sarà su tutti i giornali.
I bastardi mi hanno visto.
Esco dal vicolo.
La pistola infilata dentro i pantaloni, sotto la maglietta.
In una mano la valigetta.
Potrei essere un giovane uomo d’ affari con la sua ventiquattrore.
Potrei essere uno studente che va all’ università.
Potrei essere il padre che torna a casa da sua figlia.
Respiro.
Respiro.
Respiro.
Le sirene sono distanti.
Forse i bastardi stanno cercando da altre parti.
Domani la mia faccia sarà su tutti i giornali.
Forse ho fatto perdere le mie tracce.
Respiro.

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L’ adrenalina inizia a diminuire.
Mi prende un cerchio alla testa.
E’ la tensione che scende.
Che cazzo ho fatto?
Niente sensi di colpa. Niente puttanate di questo genere. Hai ucciso due uomini.
Hai ucciso due uomini.
Si.
Li ho uccisi.
Voce bastarda della mia mente, scompari.
Respiro.
Cerco di calmarmi.
Dove andare?
Cosa fare?
Non lo so.
Non sento più le sirene della polizia.
Mi sfilo la pistola e la butto in un secchione.
Poi sono di nuovo io.
Sorrido e mi sistemo i capelli.
Sono di nuovo io.
Un assassino.
Un ladro.
La feccia del mondo.
Sono di nuovo me stesso, mentre cammino sotto il sole lucente della città.
Mentre sorrido ad una bambina che gioca con le sue amiche.
Mentre allungo uno spicciolo ad un barbone steso all’ angolo.
Mentre mi siedo su una panchina.
Sono di nuovo io.
Mentre mi chiedo distrattamente quanto potrà andare avanti questa vita.
Forse non molto.
Forse più di quanto possa sperare.
Sono io.
La feccia di questo mondo.

10. LE VENE AZZURRINE DELLA MIA MANO

Mi ritrovo davanti ad un palazzo in rovina. Uno scheletro di colonne e ferro e pietra.


Le vetrate come occhi vuoti mi guardano. Una colonna ricorda antichi splendori e

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antiche glorie che il tempo ha fatto dimenticare. C’ è un albero immenso davanti a
me, leggermente più a sinistra rispetto al palazzo. I rami sono ricurvi e nodosi. L’
albero sembra maestoso e carico di memoria. Nel cielo il sole continua a brillare. Le
nuvole vanno e vengono. Sono bianche. Il cielo è azzurro.
Semplici parole per semplici emozioni.
Nel prato ci sono margherite e nell’ aria sento quell’ odore di primavera. Manca
ancora del tempo, ma le stagioni continuano ad arrivare.
Come le nuvole nel cielo.
Come la vita degli uomini.
Mi ritrovo davanti ad un palazzo in rovina. Sento i corvi chiamarsi. Sento altri uccelli
dialogare tra loro. Forse parlano di me. Di me seduto a scrivere davanti a tutto questo.
Un corvo si posa sul tetto devastato del palazzo. Antiche voci riecheggiano nella mia
mente. Discorsi di grandezza e dominio. Discorsi carichi di passione, violenza, odio.
Discorsi che hanno incendiato l’ animo umano fino a fargli commettere le atrocità più
impensabili. Le atrocità che ci contraddistinguono da qualsiasi altra bestia.
Le mie dita battono veloci sui tasti.
Sopra di me passa un aereo. Una scia argentata nell’ azzurro del cielo. Poi una nuvola
oscura il sole. Il vento si alza e un gatto randagio si struscia contro la mia gamba.
Semplici parole per semplici emozioni.
La gente continua ad affaccendarsi su questa terra. A volte i problemi sembrano
insormontabili.
Come montagne sul tuo sentiero.
Come frane sulla tua strada.
A volte ti lasci alle spalle i dispiaceri e i rancori. E il sole torna a splendere.
Come in una giornata d’ estate.
Come nella tua stanza da bambino la domenica mattina.
Tiro fuori dalla tasca un pacchetto di carta. Lo apro. All’interno del pacchetto ci sono
dei funghi. Ce ne sono cinque. Sono grandi quanto le mie dita. Cinque dita di una
mano magica. Li poso sul palmo della mia mano. Li accarezzo. Mormoro parole di
ringraziamento e di buon auspicio. Me ne metto uno in bocca e lentamente inizio a
masticare. E così faccio per i restanti quattro. Mastico lentamente. Ad occhi chiusi.
Liberan do la mia mente dai pensieri negativi. Rilassando il mio respiro. Mastico e
cerco calma e lentezza dentro di me.
Poi bevo un sorso d’ acqua e mi sdraio sotto l’ albero dai rami enormi. Con il palazzo
sventarto alle mie spalle.
Se il passato è un cumulo di macerie, che il futuro sia radioso e pieno di colori.
L’ albero serve a proteggermi.
E’ il mio aiutante.
Le sue radici mi danno potere, le sue foglie mi danno linfa vitale.
Chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi il più possibile.
Il tempo inizia a rallentare e io a sentirmi più leggero.

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Senti una strana sensazione di nausea allo stomaco. Bevi un altrro pò di acqua e ti
soffermi sul tuo respiro.
Aria che entra ed esce.
Aria che entra ed esce.
Senti che lo stomaco torna ad essere normale, senti che la nausea svanisce, senti nella
tua testa e nel tuo corpo calore.
L’albero ti protegge, il passato è dietro di te.
Poi ci sono i colori che iniziano a formarsi dentro i tuoi occhi chiusi.
Colori caldi e splendenti come il rosso e l’ arancione e il viola.
E tu sei sempre più leggero.
Continui a respirare in maniera lenta e regolare e la tua mente inizia a muoversi.
Il tuo corpo perde consistenza, diventa così volubile che ti chiedi sorpreso dove siano
finite le tue gambe e le tue braccia e il tuo torace. Guardando tra le foglie degli alberi
vedi solo onde positive che prendono forma e ti fanno stare bene. Insieme al calore
del sole e ai colori della tua mente.
Poi apri gli occhi e vedi.
Poi chiudi gli occhi e vedi.
E capisci che fai parte di questo mondo. Che non ci sono divisioni tra te e quello che
hai intorno.
Senti il mondo entrare dentro di te e tu entrare dentro di esso.
E continui a respirare.
Poi apri gli occhi di nuovo e tutto inizia a capovolgersi. L’ albero inizia a girare ed è
ovunque davanti a te. Poi diventa più piccolo, poi immenso, poi ti sembra di arrivare
fino al cielo e subito dopo di essere minuscolo come una formica.
Ma non hai paura, fondamentalmente stai vivendo qualcosa di unico e irripetibile.
Questa è la tua esperienza.
Questo il tuo momento magico.
Ti guardi la mano. Puoi vederci attraverso. Puoi vedere il sangue nelle vene azzurrine
scorrere. Lo puoi vedere. Capisci quanto il tuo corpo sia sacro e in perfetta sintonia
con il mondo che hai intorno.
Chiudi di nuovo gli occhi e continui il tuo viaggio.
Dovunque andrai e chiunque incontrerai non hai più paura. Perchè sai che un viaggio
non deve essere mai giudicato.
Ma solamente affrontato.

11. SMACK MY BITCH UP

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Un giorno. Un altro giorno. Un altro ancora. Fino a quando non viene sera.
Notte.
Mi preparo.
Una birra. Stappo. Mi infilo i calzoni. Una camicia. Un paio di scarpe. Sorso di birra.
Accendo lo stereo. Smack my bitch up. Sorso di birra. Mi stendo sul letto. Guardo l’
orologio. Mi alzo dal letto. Botta di coca. Finisco la birra.
Esco.
Mi fermo a mangiare un big mac. Coca cola. Vado al cesso. Piscio. Botta di coca.
Esco dal cesso. Esco da mac. Sono per strada. Mi specchio in una vetrina. Mi dirigo
verso il Bad Dharma.
Entro.
Mi faccio spazio. Vado vicino al bancone. Un whisky. Un altro whisky. Un altro
ancora. Mi vado a sedere su un divanetto. Tocco le gambe di una signora. Mi arriva
uno schiaffo. Mi alzo. Vado a ballare. Mi struscio contro una ragazza in mini. Lei mi
lascia fare. Il cazzo mi si indurisce. Vado al bancone del bar. Un whisky. Un altro
whisky. Un altro ancora. Entro barcollando nella sala dove si balla. Vado addosso a
un tipo. Mi strattona. Gli do un pugno in faccia. Poi un altro allo stomaco. Poi un
altro ancora. Il tipo cade per terra. Arriva un buttafuori. Mi prende. Mi da un pugno
allo stomaco. Mi piego in due. Vomito sulle sue scarpe. Il buttafuori si scansa
bestemmiando. Mi rimetto in piedi. Riesco ad uscire.
Sono per strada.
Mi fermo ad un angolo. Vomito. Mi asciugo la bocca. Mi faccio un tiro. Entro in un
bar. Una birra. Vado al cesso. Piscio. Esco. Esco dal bar. Sono per strada. Mi fermo
in una cabina del telefono. Cerco di chiamare qualcuno. Non ci riesco. Mi accendo
una sigaretta. Vedo uno strip bar. Entro. Vado al bancone. Un whisky. Un altro
whisky. Un altro ancora. Mi siedo davanti alle ragazze. Una mi fa vedere tutto. La
fica. Il buco del culo. Mi si arma di nuovo il cazzo. Cerco di afferrarle un piede. Mi
arriva un calcio in faccia. Mi alzo. Cerco di salire sul palco. Lei scappa. Arriva un
buttafuori. Gli do un pugno nello stomaco prima che faccia qualcosa. Non gli faccio
niente. Quello si incazza. Prendo una bottiglia da un tavolo. Gliela spacco in testa.
Scappo.
Sono per strada.
Mi fermo ad un bar. Mi accendo un sigaretta. Ordino una birra. Riesco dal bar.
Mangio un hot dog. Mi accendo un’ altra sigaretta. Mi fermo ad un angolo. Vomito.
Mi rimetto in piedi. Guardo l’ orologio. Non capisco un cazzo. Entro di nuovo in una
cabina telefonica. Trovo un numero di una puttana. Chiamo. Lei mi dice l’ indirizzo.
Chiamo un taxi. Do l’ indirizzo. Mi accendo una sigaretta. Il tassista dice che non si
può fumare. Esco dal taxi. Pago.
Salgo dalla puttana.

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Mi spoglio. Mi faccio leccare il cazzo. Le palle. Il buco del culo. Mi faccio legare al
letto. Mi faccio scopare. Mi slega. Le monto in faccia. Le sborro in bocca. La pago.
Mi offre da bere. Rimango. Le offro da tirare. Bevo una vodka. Un’ altra vodka e un’
altra ancora. Sono al cesso. Mi siedo. Caco. Mi pulisco il culo. Esco. Saluto la
puttana.
Sono per strada.
Le gambe non mi reggono. Barcollo. Riesco a montare su un taxi. Mi porta a casa.
Lo pago. Scendo. Salgo le scale. Apro la porta. Sono sul letto. Spengo la luce. Sono
fermo. Disteso.
Tutto continua a girare.

12. SPIRITO DI OSSERVAZIONE

Alla mia destra un ragazzo e una ragazza si muovono in maniera strana.


Tanto strana che mi giro e inizio a guardarli.
I loro movimenti sono innaturali, precari, a scatti.
Come se stessero camminando in bilico su qualcosa.
Poi si fermano e con aria stupita si guardano intorno.
Poi ridono.
Poi cadono per terra e con le mani fanno strani gesti.
Come se stessero nuotando.
La mia curiosità sale.
Inizio a domandarmi quale tipo di droga abbiano assunto.
Non mi sembrano ubriachi.
Quindi scarto il vino.
Erba e fumo non ti danno un tale stato.
La mia scelta ricade su una pasticca o un acido.
Opto per il secondo.
Credo proprio che si siano presi un acido e abbiano le allucinazioni.
Ritorno a guardali.
Ora sono seduti per terra.
Il ragazzo si guarda intorno ma credo che capisca ben poco di quello che sta
succedendo.
Naturalmente lui è in un’ altra realtà che io non posso vedere.

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Quindi non giudico i suoi gesti.
Anche se mi possono sembrare strani.
Più semplicemente le nostre realtà in questo momento non sono le stesse.
La ragazza urla – E’ buonissima.
Penso all’ eroina.
Forse si sono fatti una pera.
Ma da quanto ne so la roba non ti fa questo effetto.
Ritorno sull’ acido.
O una pasticca.
Poi la ragazza si vomita addosso.
E continua ad urlare – E’ buonissima.
Qualcosa di strano, forse?
Tutte le droghe possono causare vomito.
O per lo meno gli allucinogeni.
La ragazza continua a vomitarsi addosso.
Per fortuna un’ altra ragazza la aiuta.
Lei continua ad urlare – E’ buonissima.
Poi si accascia al suolo e credo che entri in un viaggio introspettivo e psichico.
Il ragazzo si trascina verso una fontanella.
Sempre muovendosi a scatti e con un equilibrio precario.
Io intanto mi sono rollato una canna e inizio a fumarla.
Intorno a me c’è molta gente.
Sono in un parco.
C’è un bel sole.
E l’ aria è elettrica e carica a causa delle vibrazioni musicali.
Sono vicino ad un concerto.
Il ragazzo arriva alla fontanella ma non sembra riconoscerla, la studia e alla fine si
butta in ginocchio e beve come un cane.
Io continuo a guardarlo, sempre più convinto che sia l’ acido la droga che ha assunto.
Poi cambio inquadratura e mi fisso su un altro ragazzo che continua a parlare
ininterrottamente.
Solo che i suoi discorsi mi sembrano sconclusionati e senza senso.
Qui opterei per delle anfetamine.
Infatti il tipo si muove in maniera schizzata e con la bocca fa strane smorfie.
Se dovessi puntare dei soldi sulla droga che il ragazzo ha assunto punterei sull’
anfetamina.
Con un pò di alcol in aggiunta.
Una loquacità incredibile lo ha assalito.
Frammenti di discorso mi arrivano alle orecchie.
Mi incastro su storie di droga e spaccio e pasticche fatte in casa.
Su questi ragazzi alla deriva, su queste vite così distanti dalla mia.

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Intanto continuo a fumare.
Poi fermo un ragazzo di colore e mi faccio dare un paio di lattine di birra che la gola
mi è diventata secca e la bocca pastosa.
Poi cerco di tornare sui due sotto acido.
Faccio una panoramica di trecentosessanta gradi ma non riesco a trovarli.
Ne faccio un ‘ altra e scopro che sono sdraiati per terra.
Il loro viaggio interiore sembra continuare.
Non so assolutamente dove si trovino adesso.
Posso solo augurargli buona fortuna e sperare che non si perdano troppo nel loro
universo interiore.
Do una lunga sorsata alla mia birra.
Poi mi alzo da dove sono seduto e mi sgranchisco un pò le gambe.
Mi guardo intorno.
Tra le droghe più usate dalla gente intorno a me c’è il fumo e l’ erba.
Poi viene l’ alcol.
Di nascosto non so se qualcuno si stia facendo qualche tiro di coca o si stia calando
una pasticca.
Io parlo di quello che vedo sotto la luce del sole.
L’ odore del fumo e dell’erba si mischiano con quello della primavera.
Faccio un altro tiro dalla mia canna e mi rimetto seduto.
La giornata è veramente bella.
E la musica del concerto mi arriva dritta nel cuore.
Sento le vibrazioni calde dell’ aria.
Sono fatto, ma in maniera decente.
Mi limito al fumo e alla birra.
Le sensazioni del mio cuore sono pace e tranquillità e benessere.
I pensieri del mio cervello sono assenti.
Mi lascio fluire.
Mi lascio trasportare dal momento presente.
Un altro tiro di canna e nuova panoramica di trecentosessanta gradi, questa volta non
trovo situazioni interessanti e mi fermo a guardare l’ erba sulla quale sono seduto.
Poi guardo la ghiaia.
Poi alzo gli occhi e guardo il cielo azzurro e fresco.
Bevo un sorso di birra e penso all’ estate.
E il mondo diventa, finalmente, un posto meraviglioso nel quale stare.

13. MI ASCOLTI QUANDO PARLO?

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Mi ascolti quando parlo?
Mi ascolti o fai finta di niente?
La canna della pistola spinge ancora di più contro le sue tempie. Un filo di sudore
scivola piano dalla sua fronte calva e va a posarsi sul suo collo arrossato.
Esamino meglio la mia vittima.
Io sono il carnefice.
Sono il cattivo.
Io sono l’ uomo nero.
Mi ascolti quando parlo?
Allora dove eravamo rimasti?
Iniziamo tutto da capo per l’ ennesima volta.
No.
E’ inutile che ti agiti.
Non uscirai mai da qui.
Almeno che non sia io a volerlo.
Hai capito?
Puoi pisciarti sotto se vuoi, quello te lo concedo.
Mi hai capito?
Guardami.
Adesso.
In questo preciso istante.
I suoi occhi sono verdi. Sono fieri. Sono gli occhi di un uomo.
Un uomo che io sto torturando.
Psicologicamente e fisicamente.
Ma non posso fare altrimenti.
Io sono dall’ altra parte della barricata.
Nel mio cuore non c’è spazio per la compassione o per il perdono.
Il mio cuore è un luogo oscuro e ostile.
La canna della pistola imprime un solco ancora più profondo nel suo collo arrossato.
La mia vittima è seduta su una sedia.
Ha le mani e i piedi legati.
Il luogo dove siamo è una stanza.
Fa caldo e la stanza è completamente bianca.
Siamo sotto delle luci alogene che ci danno uno splendore quasi divino.
Forse è così che si sentono le persone al cospetto di dio.
Forse dio non è buono.
Forse è cattivo.
Forse noi siamo stati fatti a sua immagine e somiglianza.
Esseri cattivi in perenne lotta fra di loro.
Ricominciamo da capo.

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Ricominciamo dalle ultime cose che mi hai detto.
Ripetile.
Punto per punto.
Con precisione.
Una parola dopo l’ altra.
Fai il bravo.
Gli do uno schiaffo in faccia.
Ti fa male?
Senti il dolore?
Gli do un altro schiaffo in faccia.
Poso la pistola ai miei piedi.
Nel mio cuore non sento nulla.
E’ incredibile.
Mentre i suoi occhi sono fissi nei miei non sento nulla.
Un altro schiaffo.
Un altro schiaffo.
Il mio cuore è nero e buio.
L’ esatto contrario di questa stanza.
Lo vedo fremere e sudare.
Io sono il carnefice.
Io sono l’ uomo nero.
Queste cose esistono.
Succedono nelle cantine, nei commissariati di polizia, nelle prigioni.
Gente legata a sedie e torturata.
Gente incolume che deve subire senza giustizia.
Questo è il vero dominio.
Questa la vera sottomissione.
Lo faccio alzare e lego le sue mani ad un anello che scende dal soffitto. Inizio a
frustarlo e sento le sue grida, i suoi gemiti di paura.
Allora ricominciamo tutto da capo.
Mi senti?
Mi ascolti quando parlo?
Devi dirmi di nuovo tutte le cose, punto per punto.
Avanti.
E continuo a frustarlo sulla schiena.
Lividi viola sulla pelle.
Lividi viola nel mio cuore.
Quanto posso spingermi in basso è la domanda che mi porto dentro.
Quanto posso essere cattivo è la domanda che mi porto dentro.
Quanto.
Guardo il mio orologio, è passata quasi mezzora dall’ inizio dell’ interrogatorio.

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Do un’ ultima frustata e poi slego il prigioniero.
Lui si massaggia i polsi e poi si gira verso di me.
I suoi occhi adesso sono di nuovo fissi nei miei.
E’ così che lo hai immaginato? - gli chiedo.
Si – fa lui.
Bene.
Hai avuto paura? – gli chiedo.
Si, ma mi è anche piaciuto - risponde.
E dalle tasche della giacca tira fuori duecento euro e me li mette in mano.
Giuda non deve essersi sentito tanto diverso.
Lo vedo rivestirsi e dolorante uscire dalla porta.
Prima di richiuderla mi fa – Ci vediamo la settimana prossima?
Io annuisco e mi infilo i soldi in tasca.
Ciao – mi dice.
Ciao – dico io.
E sotto le luci alogene della stanza mi sento di nuovo solo e inutile.
Poi raccolgo da terra la pistola, la controllo, è scarica naturalmente e me la infilo nei
pantaloni.
E per quanto cerchi di essere cattivo e orribile sono ancora troppo buono per far del
male veramente ad una persona.

14. IL COMPLEANNO

Qui nella Casa la vita si svolge sempre uguale a se stessa.


Ho una Stanza nella quale vivere, una piccola Stanza di due metri per tre.
Oramai ci vivo da quasi dieci anni.
C’è la televisione, un letto, un lavandino e un tavolino.
Su una parete c’è un armadio con dentro i miei pochi vestiti.
Domani è il giorno del mio compleanno.
Ci sono altre Stanze dentro la Casa.

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In ogni Stanza c’è un uomo o una donna.
Un uomo o una donna che si domanderanno sui perchè della loro vita, su come sono
finiti dentro queste Stanze.
Alcuni hanno trovato una stabilità qui dentro.
Alcuni si sono semplicemente rassegnati.
Io mi limito a tirare avanti.
Durante le notti cado in una strana dimensione.
Dove i ricordi assumono vita e mi vengono a trovare.
I ricordi di volti, di persone, delle donne che ho amato.
Potreste dirmi che la vita continua sempre e comunque.
Potrei rispondervi che avete ragione.
Ma non posso farci niente.
La notte vivo in questa dimensione ed è una cosa che non dipende dalla mia volontà.
Abbiamo una mensa in cui possiamo mangiare.
Qualcuno cucina da solo.
Qualcuno preferisce mangiare nella sua Stanza con altre persone.
Qualcuno sono anni che non esce dalla Casa.
Altri il pomeriggio passeggiano fuori dalla Casa e poi rientrano per dormire.
Io non mi muovo più.
Non è ho voglia.
Rimango dentro la mia Stanza per la maggior parte del tempo.
Non ho fatto amicizia con gli altri uomini e le altre donne.
Eppure sono quasi dieci anni che vivo qui dentro.
Ci crediamo liberi, ma la libertà in cosa consiste precisamente?
Il sabato vengono alcune ragazze a pulire le nostre Stanze.
Per il corridoio della Casa c’è un odore di disinfettanti, di ammoniaca, di detersivi per
pulire.
Alcuni si puliscono la Stanza da soli.
Io non sono fra questi.
Lascio alle ragazze questo compito.
Io vado nella sala lettura della Casa e mi leggo un giornale o qualche pagina di un
libro.
Domani è il giorno del mio compleanno.
Molti uomini e molte donne passano il loro tempo davanti alla televisione.
Ce ne è una per ogni Stanza.
Tranne che nella mia.
Un’ amica per ognuno di loro.
Molti sono quelli che ci hanno abbandonato, ma lei è l’ unica che alcuni hanno
sempre vicino.
Strana la vita, no?

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La notte può portarti mille domande e mille ricordi, può farti vedere tutta la tua
esistenza.
Ma la mattina sei sempre qui.
Sempre più stanco di alzarti.
Sempre più stanco di fare le stesse cose.
Di ripetere gli stessi gesti.
Che cosa è la vita se non un lungo e perenne ripetersi?
Anche domani lo passerò da solo.
Domani.
Il giorno del mio compleanno.
Non ho molta scelta.
I miei figli hanno deciso per me.
Hanno deciso di darmi questa Stanza in questa Casa.
Domani compirò ottantasette anni e da dieci anni nessuno di loro mi viene più a
trovare.
Qui nella Casa Di Riposo la vita scorre ormai sempre uguale a se stessa.
E l’ ultima amica che aspetto è la morte.
Una dolce amica che non si scorderà mai di me.

15. IL MIO PICCOLO VORTICE DI VITA QUOTIDIANA

Cerco risposte ai miei fallimenti.


Il mio piccolo vortice di vita quotidiana.
Questo qualcosa che credo di avere solo io.
Cerco una risposta.
All’ inadeguatezza, alle continue frustrazioni, alle continue porte chiuse.
Mi sbatto tra fogli e recensioni e pagine fitte di parole.
Sempre alla ricerca di qualcosa.
Non trovo appagamento.
Non trovo realizzazione.
Il mio piccolo vortice di vita quotidiana.
Fatto di mille pensieri, delle solite illusioni, dei miei sogni.
Tutte queste frasi e queste immagini nella mente.
Che si mischiano, si confondo, si rincorrono.
I giorni passano inesorabili.

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Lentamente.
A volte più veloci.
Qualcuno continua a ripetere che ti devi sbrigare.
Che devi trovarti un lavoro.
E io continuo a scrivere e a vedere film e a sperare.
Che tutto quello che ho fatto fino adesso non vada sprecato.
Che tutte queste parole non svaniscano come nebbia in una giornata di sole.
Hai bisogno di una casa.
Di uno stipendio.
Di una macchina.
Ma parole come mutuo, prestito, cambiale mi fanno venire il voltastomaco.
Pensare di lavorare trenta anni per comprarmi una casa mi fa venire il voltastomaco.
Ma non credo di avere molte possibilità.
Le mie sono solo illusioni che la vita sta aspettando di distruggere.
La vita è bastarda, lo so.
Ma non posso farci niente.
Continuo ininterrottamente ad illudermi.
Ad ascoltare inerme le voci nella mia testa.
Che mi parlano di luoghi e persone e storie.
Poi quando non ce la faccio più le butto fuori.
Le butto su un foglio bianco.
E mi sembra che qualcosa abbia preso forma.
Qualcosa di mio.
Qualcosa di speciale.
Ma i dubbi dopo poco tempo ritornano.
E mi tormentano.
Pensieri che si trasformano ininterrottamente.
Il mio piccolo vortice di vita quotidiana.
Le mie frustrazioni.
Le mie delusioni.
Tutto si mischia e a volte prende il sopravvento.
E io divento triste e cupo e chiuso.
Ma non più come prima.
Prima era diverso.
Accadeva più spesso.
Ora mi conosco meglio.
So come difendermi dal mio disfattismo.
E dall’ angoscia.
E dalla paura del domani.
Le parole mi danno forza e mi dicono di andare avanti.
Di sperare in questa vita così meravigliosa che potrebbe capitarmi.

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Di tutto quello che hai nascosto nel cuore e che aspetti di vedere reale.
La vita è bastarda, lo so.
Ma fino a che punto?
Fino a che punto puoi soffrire e gioire?
Fino a che punto avrai il coraggio di affrontare tutto questo?
Non lo so.
Non so rispondere.
Io continuo ad aspettare.
Ma il futuro si fa sempre più vicino.
E il mio coraggio è sempre appeso ad un filo.
Il mio coraggio è come una lama.
Non mi rimane altro che correrci sopra.
E vedere, con gli occhi bene aperti, cosa succede.
Forse la morte.
Forse la gloria.

16. IL SILENZIO

Oggi mi rode parecchio il culo. Sarà che c’è troppo sole per i miei occhi, sarà
che ho un dopo sbronza di quelli cattivi e brutali. Comunque sia inforco gli
occhiali da sole e scendo giù in cortile, portandomi appresso una bottiglietta
d’ acqua. Ho la bocca pastosa e asciutta da far schifo. Mi infilo una gomma da
masticare in bocca e cerco di restarmene tranquillo per quanto la mia
situazione lo permetta. A casa non ho neanche una pasticca per il mal di
testa. Pazienza, aspetterò che questo disagio e questa confusione passino per
conto loro. Spero solo di non fare gli incontri sbagliati.
Appena nel cortile non faccio in tempo a capire cosa succede che un volto
noto mi si para davanti.
Buongiorno Emiliano – dice una voce.
Fanculo, è quel testa di cazzo del mio vicino. Tra tutte le persone che non
vuoi incontrare in un dopo sbronza lui è il primo. Al secondo posto c’è una
bionda, moglie di un medico, che oltre a parlottare e a dire stronzate al
portiere non mi sembra in grado di fare molto altro.
Spero solo di non fare gli incontri sbagliati.

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Questa voce fastidiosa ripete buongiorno emiliano in attesa di una mia
risposta.
A mezza bocca dico buongiorno e allungo il passo cercando di svignarmela.
Ma la voce mi segue e continua a dire – Allora quanto manca all’ università?
Mi fermo e mi giro – Non molto – cerco di dire nella maniera più naturale
possibile, ma mi esce fuori un borbottio alquanto incomprensibile. Infatti la
voce ripete – Allora quanto manca?
La mia mente pensa – Ma i cazzi tuoi ti costa molto farteli?
La mia voce dice – Non molto, ho quasi finito, per dicembre penso di avercela
fatta.
Intanto un’ ombra si materializza alle mie spalle. Vedo il vicino che alza la
testa momentaneamente distratto dall’ ombra e dice – Buongiorno signora –
con il suo fare meschino e servile.
Mi giro impaurito.
E’ la bionda-testa-di-cazzo-moglie-del-medico.
Spero solo di non fare gli incontri sbagliati.
E invece, vaffanculo, stamattina li ho proprio fatti.
Saluto anche lei con il mio tono basso e rauco da dopo sbronza – Buongiorno.
La stronza manco mi risponde e saluta il mio vicino e poi si ferma ad
aspettare non so cosa.
Ecco la situazione.
Emiliano: nel pieno di una fase ad alto rodimento di culo.
Il Vicino: nel pieno della sua quotidiana mediocrità e inutile esistenza.
La Signora Bionda: nel pieno della sua eccitante vita di condomina attenta ai
problemi del palazzo.
La stronza fa al mio vicino, ignorandomi completamente - Allora queste
antenne quando le leviamo? - Poi dice - E i tecnici dell’ ascensore ancora non
sono venuti? E’ una vergogna.
E qui una presa di posizione decisa e autoritaria. Come se i problemi di
condominio fossero una buona causa per vivere e respirare.
Il vicino attacca con la sua disquisizione che mi da l’ occasione per
andarmene a fare un giro e scappare da questa situazione insostenibile.
Strisciando lungo i muri mi dileguo e riesco ad andarmene.
Finalmente.
Salto temporale di quaranta minuti nei quali ho bevuto un succo di frutta, mi
sono seduto su una panchina a prendere un po’ di sole e ho fumato una
sigaretta.

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Ritorno verso casa, il mal di testa è un po’ diminuito e io sono abbastanza
rilassato.
Fuori dal portone mi si presenta un’ immagine di quelle che fanno paura.
Il portiere che parla con il mio vicino che parla con la signora bionda che
parla con suo padre. Un vecchio rincoglionito che oltre a rompere le palle al
portiere e a stare ininterrottamente fuori dal portone non mi sembra in grado
di fare altro.
Per tornare a casa mi serve passare attraverso i quattro.
Tiro il fiato e spero che non mi rompano i coglioni.
Proprio mentre passo a testa bassa sperando che non mi notino il mio vicino
fa ad alta voce.
- Allora quando esce il prossimo film?
(lo stronzo sa che studio cinema e gli piace fare l’ ironico)
Non l’ avesse mai fatto.
Oggi non era proprio la giornata giusta per certe battute.
Mi avvicino a lui in modo che anche gli altri tre mi vedano e mi schiarisco la
voce.
Poi mi alzo gli occhiali da sole, in modo che veda i miei occhi iniettati di
sangue e inizio a parlare.
- Tra poco dovrebbe uscire.
- E’ un film porno di quelli seri. Mi mancano alcune scene e lei potrebbe
partecipare. Mi manca uno che si faccia inculare da un cavallo, sa è una scena
un po’ forte, ma il genere animal adesso va per la maggiore.
- Che cosa dice, sarebbe disponibile per la parte?
Il vicino mi guarda sconvolto.
Il silenzio e l’ imbarazzo degli altri tre si potrebbe tagliare con un coltello.
Mi giro verso la signora.
Dico – Per lei invece ho una bella parte in un’ orgia. Ci sono quattro uomini
di colore con delle nerchie da venticentimetri l’ uno. Se uno se lo prende in
bocca, uno al culo, uno in fica e ad un altro gli fa una sega mi risparmio i
soldi per le attrici.
- Cosa dice? Le interessa o è troppo indaffarata nelle sue battaglie
condominiali.
La signora bionda mi guarda sconvolta.
Al vecchio e al portiere non dico niente, non vorrei infierire ancora di più
sulla loro vita di merda.
Dico – Buona giornata a tutti.
Mi rifaccio cadere gli occhiali sul naso e me ne vado verso casa.

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Dietro di me il silenzio.
Proprio quello che ho sempre voluto.
Proprio quello che le persone non rispettano mai.
Riempendoti di continuo le orecchie con le loro inutili, noiose e merdosissime
parole.

17. L’ ALTRO DIO

Mi inginocchio.
Ma non sono in una chiesa e non sto pregando.
O forse si.
Non lo so.
Sono in ginocchio.
Sono prostrato.
Con la testa tocco il freddo cemento della strada.
Le mie mani sono inermi oltre la mia testa.
Davanti a me una ciotola.
Come quella dei cani.
Sto aspettando.
Se per caso qualcuno di voi passasse per strada mi vedrebbe in questa posizione.
In preghiera.
Per qualche spicciolo, qualche spicciolo del cazzo.
Questa è la mia preghiera quotidiana.
Per circa quattro ore ogni giorno sono in questa posizione.
Ma non parlo con dio.
Non parlo con me stesso.
Quando sono in questa posizione mi annullo.
Annullo il mio corpo.
Solo la mia volontà esiste.
E la volontà dice di rimanere in questa posizione.
Dice che non mi devo alzare.
Dice che per quattro ore devo rimanere così.
Quando sono prostrato davanti al mondo il tempo diventa qualcosa di estremamente
relativo.
Mi perdo in un oblio nero e profondo.
Non sento nulla.

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Non vedo nulla.
La mia volontà dice di rimanere in questa posizione e basta.
E io questo faccio.
Ma non sto pregando nessun dio.
Non sto implorando nessuna divinità.
Se per caso qualcuno di voi passasse per strada vedrebbe solamente un uomo
prostrato per terra come ce ne sono tanti.
Uomini vestiti di stracci.
Uomini sporchi e alla deriva.
Uomini che chiedono qualche spicciolo.
Chiamatela carità.
Chiamatela un modo per tirare avanti.
Chiamatela come cazzo vi pare – basta che mi lasciate qualche spicciolo nella ciotola.
Solo qualche spicciolo.
Dopo quattro ore rialzo la testa e torno su questo mondo.
E la realtà riesce di nuovo a sorprendermi.
Guardo il sole pallido e mi sembra più brillante di quanto avessi mai pensato.
Guardo le foglie e mi sembrano lucenti e meravigliose.
Guardo il cielo e mi sembra di non avere mai visto il cielo.
Poi i miei occhi vanno alla ciotola.
Vanno a quanti spiccioli ci sono dentro la ciotola.
Poi ci sono le mie mani che li raccolgono e li infilano nelle tasche scucite della mia
giacca.
Poi ci sono le miei ginocchia e le mie gambe che indolenzite mi fanno rialzare in
piedi.
Poi c’ è la mia schiena che tenta di raddrizzarsi.
Poi c’è il dolore.
Un dolore dell’ anima.
Un dolore incurabile.
Dopo quattro ore in questa posizione non senti più il tuo corpo.
Diventi un’ entità astratta.
Diventi un nulla carico di silenzio.
Prima che il mio corpo torni ad assumere una posizione corretta passa quasi un’ altra
ora.
E io devo prostrarmi tutti i giorni, con il freddo e il vento che soffia bastardo.
Nelle giornate di sole.
Quando piove.
Sempre alla ricerca di qualche spicciolo.
Sempre pronto ad annullarmi.
Sempre pronto a mettere alla prova la mia volontà.
Poi sono di nuovo in piedi e sto camminando.

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E le mie scarpe sono bucate e i miei capelli sono unti e appiccicosi e non so da
quanto tempo non mi cambi i vestiti che ho addosso.
Non che abbia molta importanza, dopotutto.
Oggi ho finito di pregare.
Senza parlare con dio.
Senza parlare con nessuno.
Poi ci sono io davanti ad un negozio di liquori, un negozio da quattro soldi.
Un negozio dove vanno per la maggior parte barboni e tossici e puttane.
Dove la miseria del mondo trova un’ accoglienza.
Dove gli avanzi del genere umano trovano una consolazione.
Entro nella mia chiesa e chiedo del mio dio.
Una bottiglia di vodka mi arriva tra le mani.
Gli spiccioli si sono trasformati in una bottiglia di vodka.
Questo è un miracolo.
Questa è la mia religione.
Apro la bottiglia e apro il mio cuore.
Butto giù il liquore e per questa giornata l’ ho sfangata di nuovo.
Torno al mio cantuccio, sotto coperte di cartone, dove i topi ballano e gli scarafaggi
danzano.
Mi attacco alla bottiglia.
E bevo fino a quando perdo completamente i sensi.
E il dolore si offusca finalmente nella voce del mio dio.

18. I PROFESSIONISTI

C’ è puzza di merda qua dentro – faccio a Valerio dopo neanche che sono entrato.
C’è puzza di merda e questo posto ha lo stesso aspetto, di merda.
Valerio mi guarda sconvolto come se gli avessi detto chissachè.
Per terra c’è un mosaico di bottiglie vuote, cartacce unte di panini inghiottiti
strafatto alle tre del mattino. Ci sono giornaletti porno schizzati di sborra,
profilattici usati.
La puzza di merda presumo che arrivi direttamente da un paio di scarpe che
non sono state pulite.
Dico – Amico vedi di darti una ripulita che abbiamo da fare.
Gli dico – Cazzo questo posto avrebbe bisogno di una pulita.

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Hai mai pensato a cose chiamate straccio e secchio?
Eh?
Valerio mi guarda sconvolto come se gli avessi detto chissachè.
Mi accendo una sigaretta e gli dico di sbrigarsi.
Valerio si allontana e va verso il cesso che neanche per un milione di pompini
ci entrerei e non c’ ho neanche voglia di pensare a come sta messo, visto il
casino che c’è per casa.
Mi viene un piccolo scrupolo su dove ciccare, cosa che mi passa subito dopo
che la prima cenere cade sul merdaio ai miei piedi.
Nella valigetta al mio fianco ho due chili di coca da consegnare.
Valerio arriva dopo una doccia di cinque minuti e per fortuna ha il buon
gusto di mettersi un vestito decente per il nostro lavoro.
Gli dico – Ma le fiche ti ci entrano qua dentro?
Gli dico – Ma dove te le scopi, tra un giornaletto porno e un quarto di pizza
di un paio di settimane fa?
Gli dico – Apri la finestra che così cambia aria.
Valerio mi guarda sconvolto come se gli avessi detto chissachè.
Butto la cicca di sigaretta per terra vicino a una buccia di banana e a un
profilattico. Mi chiedo se le due cose abbiano avuto in questa casa una
qualche relazione. Mi dico che forse è meglio non approfondire.
Prendo la valigetta ed esco.
Valerio mi segue e chiude la porta.
In ascensore dico – L’ hai preso il pezzo?
Quale pezzo? - mi fa lui.
Quello di merda vicino al tuo letto – faccio sarcastico.
Coglione – mi fa lui, capendo a cosa mi riferisco.
La pistola l’ ha lasciata dentro al comodino. Non è che dovesse pensare a
molto. Vestirsi decente e prendere la pistola. La prima cosa l’ ha fatta, la
seconda no.
Dopotutto forse alla mattina non è al suo massimo.
Spingo il bottone d’ arresto e poi di nuovo il quinto. Il piano di Valerio.
Ma accade qualcosa che non doveva accadere.
L’ ascensore rimane ferma.
Spingo di nuovo il tasto tondo con il numero cinque.
Niente da fare.
Cazzo succede? – faccio.
Non lo so amico – fa lui.
Cazzo succede a questa ascensore dimmerda? – dico.

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Cazzo ne so, non chiederlo a me – fa lui.
Beh amico ci siamo io e te qui dentro, a chi cazzo lo dovrei chiedere?
Valerio alza le spalle e rimane in silenzio.
Sento il nervosismo che mi sale da dietro le spalle lungo la colonna vertebrale
e bussa al cervello. Vorrei non farlo entrare, ma questo rompicazzo se ne
frega di quello che penso, butta giù la porta ed entra.
Io sbrocco.
Porca puttana amico, dobbiamo fare una consegna, ti pare possibile che
rimaniamo chiusi qua dentro?
Valerio mi guarda sconvolto come se avessi detto chissachè.
Inizio a prendere a cazzotti l’ ascensore e questa magicamente riparte.
Non che creda nella violenza ma qualche volta funziona.
Valerio sorride e fa - Calma amico vedi che con la pazienza si ottiene tutto.
Un vaffanculo mi parte dal cuore ed esce gioiosamente dalla mia bocca per
arrivare dritto dritto nelle sue orecchie.
Al quinto piano la porta dell’ ascensore si apre di nuovo e mentre io la tengo
bloccata Valerio vola in casa, prende il pezzo e riesce.
Spingo di nuovo il piano terra e scendiamo.
Fuori dal portone a pochi passi da me arriva uno stronzo di piccione come un
proiettile.
Alzo un pugno al cielo e dentro di me faccio
Brutto bastardo di un uccello dimmerda...
Cerco di richiamare il mio selfcontrol ma questo non sembra rispondere.
Inizio a sudare e questo mi rende ancora più nervoso.
Le nocche intorno al manico della valigetta sono bianche e fredde.
Dico - Senti dove hai messo la macchina?
Valerio fa – E’ qui davanti non la vedi?
Alzo gli occhi e il rosso della sua auto mi convince che ha ragione, che devo
darmi una calmata.
Valerio infila la chiave ed apre. Salgo e richiudo la porta.
La valigetta fra le gambe.
Valerio mette in moto e io mi accendo una sigaretta e cerco di rilassarmi,
penso all’ affare che ci porterà un bel po’ di soldi, penso alle prossime
settimane di divertimento insieme a lui e agli altri della banda.
Luca e Lorenzo hanno un altro affare di cocaina oggi pomeriggio.
Lavoriamo sempre in quattro e le coppie cambiano in base ai lavori che
dobbiamo fare.
Oggi con Valerio ci incontriamo a casa di un cliente che conosciamo bene.

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Quindi effettivamente ha ragione lui e non devo preoccuparmi. Non devo
incazzarmi per ogni stupidata che capita.
Cicco un po’ di cenere fuori del finestrino mentre Valerio mette in moto e
parte.
Attraversiamo la città senza problemi e senza parlare troppo.
Guardando fuori dal finestrino ripenso alla nostra amicizia, agli anni di
scuola, agli scazzi e a come siamo arrivati a questo lavoro.
Penso che non è da tutti rimanere amici per così tanto tempo. Penso che alla
fine la vita è bastarda ma ti lascia cose buone se le sai prendere.
Mi gratto le palle e accendo un’ altra sigaretta.
Valerio fa la stessa cosa.
Nel senso che si accende una sigaretta.
Una macchina della finanza ci passa accanto.
Spero che i bastardi crepino in qualche incidente mortale.
Un pensiero incoraggiante che mi fa sorridere.
Io ho due chili di coca e Valerio una pistola in tasca.
Visto che il cliente lo conosciamo, la pistola serve se le guardie ci fermano e la
situazione si mette male.
Non il migliore dei lavori, ma un modo di tirare avanti.
E poi non è detto che si debba fare questo per tutta la vita.
Sorrido e butto la cicca.
E una stronzo di piccione si spiaccica indifferente sul vetro della nostra
macchina che corre veloce verso questo nulla che abbiamo intorno e ci fa
vivere.

19. NON C’E’ DOMANI

Nella stanza la situazione è abbastanza tesa. O forse non è esattamente così. Forse
sono io ad essere teso e a vedere le cose in maniera differente. Mi accendo una
sigaretta e do una sorsata dal bicchiere di martini con fetta di arancio sul tavolino
basso davanti a me. Accavallo le gambe.
Valerio dice – Non dovremmo preoccuparci troppo del futuro.
Io dico – Detto così sembra tutto estremamente semplice, ma io non ci riesco.
Luca dice – Ha ragione Valerio, non dovremmo preoccuparci troppo, lasciamo che le
cose vadano e poi si vedrà.

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Discorsi del cazzo, penso dentro di me, e intanto appoggio le gambe sul tavolino
basso proprio vicino al bicchiere di Valerio.
Non so se lo ho fatto apposta per farlo incazzare.
Nella stanza la situazione è abbastanza tesa.
O per lo meno è come appare a me.
Le pareti sono di un rosso scuro e fa caldo. E oltre a me nessuno sta sorseggiando
niente.
Valerio dice – Perchè non togli i piedi dal mio bicchiere?
E io dico – Non dovremmo preoccuparci troppo del nostro futuro.
E Valerio dice – E questo che cazzo significa?
Io dico – Significa che visto che non stai bevendo non dovresti preoccuparti del tuo
bicchiere.
Valerio dice – Sei sempre il solito stronzo.
Io sorrido e do un altro sorso al martini e avvicino un pò di più il mio piede al bordo
del bicchiere di Valerio.
Dal bagno esce Lorenzo con la testa completamente rasata.
Ci guarda e dice – Allora?
Allora un cazzo – dico io – allora ci dobbiamo sbrigare e non dire stronzate sul futuro
e il domani e tutte queste puttanate.
Lorenzo dice – Chi mi versa un bicchiere di martini ?
Valerio dice – Ci penso io così mi prendo anche il mio di bicchiere.
La situazione è decisamente tesa o forse sono le paranoie e l’ attesa o forse più
semplicemente ci stiamo solo prendendo per il culo.
Valerio porta il bicchiere a Lorenzo, che si siede su una poltrona con il cranio rasato e
arrossato, il torso nudo che mostra il suo bel fisico e un paio di jeans.
Anche Luca si siede e io rimango al mio posto.
Cala il silenzio e rimaniamo a sorseggiare il martini.
Hai visto che tette la bionda di ieri sera? – dice Valerio.
Non so a chi fosse rivolto e infatti nessuno risponde.
Io dico – Certo amico, non ti ha staccato gli occhi di dosso.
Valerio dice – Vaffanculo.
Io dico – Guarda che sto dicendo la verità chiedilo a Luca.
Luca rimane impassibile e dice - Ha ragione Emiliano, era fatta, se solo ti fossi fatto
avanti te le saresti sbranate quelle tette.
Io dico – Era fatta.
Lorenzo da un sorso al martini e si accende una sigaretta.
Poi dico – Non c’è domani, c’è solo il qui e ora e chiunque è con te.
Guardo Valerio e dico – Questo significa che quelle tette non le vedrai più e che il qui
e ora è con noi, adesso e non pensare ad altro.
Valerio dice – Il domani è un ombra che cammina e cammina senza che possiamo
toccarla mai.

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Io dico – Il domani è una finestra chiusa.
Lorenzo dice – Il domani è carico di stronzate.
E qui sbottiamo a ridere e ci riempiamo di nuovo tutti e quattro i bicchieri di martini.
Luca si alza e prende una valigetta. La apre e la posa sul tavolino basso. Dentro ci
sono quattro pistole e quattro passamontagna neri.
Luca dice – Vi ricordate bene le cose che dobbiamo fare? I ruoli di ciascuno, le parti
che dobbiamo recitare?
Io dico – Certo capo.
Valerio dice – Capito.
Lorenzo non risponde e lascia salire nell’ aria una nuvoletta azzurra di fumo. Poi
allunga una mano e prende una pistola e la controlla.
Io dico – Allora il colpo è per domani alle dieci. Che facciamo fino a domani?
E Valerio dice – Non c’è domani.
E Luca dice – Usciamo e vediamo cosa succede.
Lorenzo dice – Andiamo al Bad Dharma, è un locale che conosco, ci beviamo un paio
di bicchierini e vediamo come è il movimento.
Io sono d’ accordo, penso ai soldi che faremo domani e...
ma non c’è domani e quindi inutile pensarci.
Mi alzo e vado a pisciare al cesso mentre sento che una discussione sul tempo e le sue
conseguenze inizia nell’ altra stanza.
Non so se voglio entrare nei loro discorsi e quindi chiudo la porta del bagno e mi
siedo sulla tazza. Lo specchio è davanti a me. Non che sia uno spettacolo vedermi
cagare ma nell’ inquadratura che mi rimanda lo specchio ci sono io fino al petto. Poi
c’ è il lavandino e basta.
E seduto sulla tazza sorrido e mi sento bene.
E cerco di non pensare al domani e a quante cose dovranno ancora accadere.
A quante cose potranno stupirmi e ferirmi.
Poi mi alzo e tiro l’ acqua.
Mi lavo il culo e le mani e poi esco.
La discussione sembra continuare, io mi siedo e li ascolto parlare.
Ed è una cosa che mi è sempre piaciuta.
In alcuni momenti, rimanere in silenzio a guardarli.
A sentirli parlare.
A sentirmi parte di qualcosa.
Poi mi accendo una sigaretta e sorrido di nuovo.
E aspetto, come al solito, che il domani tradisca tutte le nostre aspettative e le nostre
inutili speranze.

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20. LOUNGE ROOM

Quegli anni sono andati e basta – faccio a Lorenzo mentre inizio a rollare una canna
d’ erba all’ interno della lounge room del Bad Dharma.
Sono anni che hanno sgocciolato dai muri fino a riempire ogni angolo della mia
squallida esistenza – faccio con un tono troppo cupo e misterioso.
Gli anni sono andati – concludo.
Lorenzo ha il cranio rasato di recente, una camicia aperta sul petto e una catena d’ oro
intorno al collo. Sorseggia un martini con arancio e ghiaccio.
Nella lounge room ci siamo io e lui e stiamo aspettando che arrivino le ragazze e che
qualcuno porti un pò di coca e delle bottiglie di champagne.
Ad un tratto entra il dj e mi chiede se ho portato il cd con la mia musica, mi dice che
nelle altre sale la gente si sta divertendo da matti, dice che la mia musica sta facendo
impazzire tutti. Tiro fuori dalla giacca un cd dentro una custodia bianca. Lo do al dj e
intanto finisco di rollare la canna. Quello esce e sono sicuro che anche queste dodici
tracce faranno uscire di testa quelli che stanno ballando. Sarà che sono in un
momento creativo particolare, ma è come se la musica mi uscisse dal buco del culo.
Non mi rimane altro che farla crescere, aggiungere qualche effetto e poi qualcosa di
magico e ipnotico riempie gli angoli di ogni sala, gli angoli di ogni mente e questa
musica ti entra dentro e ti inizia a far ballare e ti muovi e salti e niente finalmente ha
più importanza.
Accendo la canna e dico a Lorenzo – Avresti mai pensato di arrivare fino a qui?
Avresti mai pensato che questo sarebbe stato il nostro futuro?
Lorenzo dice – Non far sgocciolare troppo la speranza dal tuo muro.
Potresti affogare.
Non dire cazzate bello, non dirlo nemmeno per scherzo, adesso siamo qui e il mondo
è nelle nostre mani.
Non ci rimane che spingere il bottone e farlo esplodere.
Lorenzo dice – Il mondo è già bello che esploso da un pezzo solo che non ce ne
siamo accorti,
Forse hai ragione - dico e mi faccio altri due tiri dalla canna.
Nel frattempo entrano due ragazze vestite come due troie che portano una bottiglia di
champagne e si siedono vicino a noi. Accavallano le gambe e non è difficile
immaginare il resto. Non è difficile immaginare cosa facciano qui, non è difficile
immaginare che qualcuno le abbia pagate per farci divertire.

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Non la vita che avresti sognato, ma nemmeno tanto schifosa da sputarci sopra.
Alla fine abbiamo tutto. La questione è se accontentarsi o no.
Se mettere un limite o continuare a spingere e a scavare.
Non mi sono mai piaciuti i limiti.
Allungo una mano su una gamba di una delle ragazze e dico – Versami da bere.
Dico – E già che ci sei versa un bicchiere anche al mio amico.
Passo la canna a Lorenzo e rimango in silenzio a guardarlo.
La musica nella lounge room è molto rilassante, le luci sono soffuse e questo è un
ambiente perfetto per sentirsi padroni di se stessi. Non saprei pensare ad un posto
migliore.
Sento che le pareti mi proteggono, la musica mi protegge e lo stesso fanno le luci
rosse e blu.
E i divani e le poltrone di pelle nera, caldi e accoglienti.
Bevo un sorso di champagne e tolgo la mano da una delle gambe delle ragazze.
Che oltre a farci vedere quanto sono fiche sembra che non siano capaci di fare altro.
Visto che al momento la mia voglia di scopare è quasi nulla dico loro di andarsi a
fare un giro e di tornare dopo.
Lorenzo sembra che la pensi come me e infatti non dice niente.
Vedi amico - gli faccio - non è la fica o i soldi o tutto questo dannato benessere a
darci la spinta per fare quello che facciamo.
Lorenzo beve un sorso di champagne e mi passa la canna.
E’ qualcosa di più profondo - continuo io - è qualcosa che abbiamo dentro e che
spinge per uscire.
Spinge per uscire.
Ci sono stati anni di buio e anni in cui le nostre speranze sembravano nulle, eppure
siamo andati avanti e siamo ancora vivi e adesso la vita sembra meno bastarda di
quanto avessimo mai creduto.
Senti bello – dice Lorenzo – è tutto a posto, stiamo andando alla grande, ci siamo
riusciti e finalmente le cose si sono aggiustate.
Godiamocela.
Godiamocela - ripeto io e per un momento mi sento consapevole di non so che cosa.
Poi si apre la porta imbottita della lounge room ed entrano Sean Paul, Moby e Gwen
Steafni.
Sono tutti e tre su di giri. Moby si siede accanto a Lorenzo e gli passa un ‘ altra
canna. Sembra che abbiano qualcosa di cui discutere.
Sean Paul si siede vicino a me e prende un bicchiere di champagne, poi tira fuori una
bustina con una sostanza bianca e la inizia a tagliare sopra un tavolino.
La vita è buona quando vuole – penso.
Poi ci sono le lunghe gambe di Gwen che si incrociano e la sua bocca che inizia a
muoversi e noi due che iniziamo a parlare mentre mi tiro una lunga striscia di coca
offerta gentilmente da Sean.

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Tra non molto forse arriverà altra gente.
Tra non molto forse inizierà una festa o un’ orgia o forse tutti se ne andranno e noi
rimarremo da soli.
Non che me ne preoccupi.
Le cose vanno e vengono e a noi non resta che vivere nel mezzo.
Tristezza, gioia, piacere, delirio.
Cocaina, erba, acidi, alcool.
Bocchini, inculate, seghe, baci sulla cappella.
Ci ritroviamo accerchiati da una moltitudine di vita.
Da una moltitudine di cose che quasi mai capiamo.
E’ come tenersi a galla.
E’ come non affondare.
Tutte queste cose appetitose, queste mele proibite.
La vita è un eden senza dio.
O forse l’ eden è una vita senza dio.
Difficile dirlo.
Guardo Lorenzo.
I suoi occhi mi fissano.
Sorride.
Io gli sorrido.
E la coca che mi arriva come un treno nel cervello non è altro che un minuto passato.
E i miei occhi che si allontanano dai tuoi non sono altro che un minuto passato.
E la mia mano su una gamba di Gwen non è altro che un minuto passato.
Mentre lei sorride e dolcemente scansa la mia mano dalla sua gamba al bicchiere di
champagne.
Do un sorso.
Mi arriva una canna.
Sean inizia a tagliare altre strisce di coca.
Musica rilassante e tranquilla.
Un ambiente accogliente.
Sento le gocce scivolare dai muri.
Sento le gocce degli anni scivolare dai muri.
Chiudo gli occhi.
E tutto esplode dentro di me.
E io, in questo preciso istante, sono vivo.
Sono vivo.
E basta.

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21. LA CASA

Quando io e Lorenzo insieme a Valerio e Luca siamo andati a vivere insieme le cose
sembravano abbastanza semplici.
Tutto quello che dovevamo fare era prendere i nostri dieci chili di coca mensili,
tagliarli e poi venderli.
La casa era un grande laboratorio per il taglio della coca.
La vita era una cosa bellissima.
E semplice.
Avevamo delle cartine stradali con segnati i posti di blocco più probabili.
Avevamo delle armi.
Due pistole 9 mm e un fucile a pompa.
I giorni che ricordo meglio erano quelli verso la fine del mese.
Quando per una settimana potevi startene tranquillo e goderti la grana senza pensare
al lavoro.
Ripulivamo la casa.
Facevamo scomparire tutte le tracce di quanto avevamo fatto per le tre settimane
precedenti.
La cosa più bella era prendere i soldi e spenderli.
Organizzare feste.
Andare nei locali.
Vestirsi bene.
Avere sempre la possibilità di fare tutto.
Donne. Cocktail. Coca gratis.
Grandi scopate. Intere sere a parlare.
Non volevamo tanto.
Solo stare bene tra di noi.
Solo avere un luogo magico e unico nel quale stare.
La nostra casa.
I soldi erano tutti nascosti in una grossa valigetta.
Ci fidavamo l’ uno dell’ altro.
E penso che nella vita sia importante avere qualcuno di cui fidarsi.
Le feste iniziavano verso le dieci di sera.
Io mi divertivo a preparare i cocktail per i miei amici e le ragazze che venivano a
ballare.
O forse solo a tirare la coca gratis.
O forse piacevamo veramente e avevamo qualcosa di particolare.
E la gente sembrava accorgersene.
Preparavo bicchieri di tequila sunrise, gin tonic, cuba libre.

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La musica era di solito un funk molto elegante oppure della house direttamente dai
migliori club d’ europa..
Le casse rimbombavano contro i muri.
E l’ aria era satura.
La gente ballava e si divertiva.
Sui tavolini c’ erano sempre strisce di coca per ognuno.
Io preparavo bicchieri di vodka e martini, screw driver, white russain.
Le luci erano rosse e blu.
E andavano al ritmo della musica.
Verso le due di notte smettevamo con la musica.
La casa era isolata.
Ma comunque era meglio non fare troppo bordello.
A fine serata la maggior parte della gente se ne andava.
A volte alcune ragazze rimanevano.
Di solito ci chiudevamo nelle nostre stanze a scopare.
Strafatti e vigliacchi.
Storditi e impazienti.
La voglia di scopare è sempre la più difficile da controllare, ma a volte è anche l’
attesa più bella.
Altre volte rimanevamo noi quattro a parlare fino a mattina.
A progettare i viaggi che avremmo fatto con i soldi della coca.
Senza preoccuparci minimamente di un possibile arresto.
Della prigione.
Della fine di tutto questo.
Eravamo consapevoli di noi stessi.
O forse più semplicemente non ce me fregava un cazzo.
Rimanevamo a parlare di tutto quello che ci passava per la testa.
Rollavamo qualche canna d’ erba per far scendere l’ effetto della coca.
Per non vedere gli scarafaggi camminare lungo le pareti della propria anima.
Per non vedere i topi ballare sui resti della nostre miserie.
L’ erba ci rilassava.
E la notte faceva il resto.
E quando l’ alba arrivava sentivamo ancora una volta qualcosa di unico e di magico.
Eravamo noi.
Eravamo ancora insieme.
E nulla aveva più importanza.

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22. NON CAMBIERAI MAI IL MONDO

Bisogna partire dai fatti.


Ogni volta sempre e comunque.
I miserabili fatti della nostra vita.
Bisogna indagare sui come e i perchè e i quando.
Bisogna iniziare un discorso e documentarsi.
Sempre dai fatti.
Bisogna ascoltare le testimonianze, i pareri, le mille voci della gente comune.
Bisogna raccogliere notizie, versioni, ottiche diverse.
Ci rimane il compito di assimilare le informazioni, di trascriverle, di cercare di dare
un senso.
Come se avessimo la reale capacità di poter spiegare.
Come se ci fosse stato fatto dono della capacità di poter comprendere.
Ci limitiamo a dare interpretazioni.
Creiamo teorie.
Cerchiamo di mettere insieme i fatti e di farli combaciare.
Ci impossessiamo della morte e del dolore e delle stragi come se nulla fosse.
Ogni voce è una testimonianza.
Ogni grido, ogni urlo, ogni parola un pezzo di un puzzle sempre più difficile da
ricomporre.
Partiamo dai fatti per arrivare nel migliore di casi al nulla
Un nulla rivestito di immagini e musiche.
Un nulla messo in bella mostra, che cerca di spiegare.
Un nulla di volti e lacrime e sensazioni di plastica.
Cerchiamo continuamente informazione.
Persone che ci tengano al passo con quanto accade nel mondo.
Palestina. Afghanistan. Tsunami.
Strage. Bosnia. Eutanasia.
Israele. Intifada. Torri Gemelle.
Parole prendono potere.
Catturano la nostra attenzione.
Parole diventano il centro del nostro mondo.
Parole che neanche capiamo.
Ci affrettiamo di canale in canale per avere un quadro della situazione.
Prendiamo giornali, apriamo pagine web, passiamo attraverso stazioni radio.
Sempre alla ricerca di notizie.

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Alla ricerca di fatti.
Ascoltando persone che li colleghino per noi.
Crollo della borsa. Armi atomiche. Distruzione di massa.
Gas nervino. Ebola. Il muro del pianto.
Parole e sempre stupide parole.
Catturano la nostra attenzione.
Ci danno una senso di presenza.
Di partecipazione.
Stupide e sempre stupide parole.
Stupidi e sempre stupidi fatti.
Nessuno di noi sarà mai in grado di cambiare il mondo.
Siamo insetti, formiche, ruote di un ingranaggio che ci sovrasta.
Nessuno di noi potrà mai cambiare il mondo.
Tu non potrai mai cambiare il mondo.
E’ questa la frase più ricorrente che ascolto.
Tutte le persone che non credono in me.
E continuano a ripetermelo.
Tu non potrai mai cambiare il mondo.
Non mi interessa.
Non mi interessa.
Campi Di Concentramento. La Casa Bianca. Crollo Del Muro.
Pedofilia. Scorie Radioattive. Esplosione Nucleare.
Stupide e sempre stupide parole.
E io che non posso fare niente.
Tu non potrai mai cambiare il mondo.
E’ questo quello che mi dicono.
E i fatti che mi si affollano intorno, che premono nella testa.
Parole che creano immagini che creano senso.
Abbiamo il compito di essere perennemente informati.
Abbiamo il compito di comprare giornali, ascoltare notizie, essere perennemente al
corrente di quanto succede.
E poi?
Siamo sempre gli stessi.
Bombardati da quanto gli altri ci vogliono far credere.
Non cambierai mai il mondo.
Ma per lo meno ho smesso di cambiare canale e di lasciarmi influenzare.
Ho smesso con le notizie e i fatti e le supposizioni.
Non cambierai mai il mondo.
Va bene.
Ho capito.
Non cambierò mai il mondo

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Ma questo non vuol dire che abbia smesso di provare
a farlo.

23. LUNA

Un timido raggio di luna entra dalla finestra. Illumina una parte di pavimento, una
rivista di un paio di settimane fa e la manica di una camicia.
Poi nell’ oscurità posso indovinare la presenza delle mie scarpe, di una bottiglia di
vino rosso e di un paio di mutandine da donna.
Con la mano cerco di afferrare il raggio di luna.
Una cosa particolarmente difficile da fare.
Vedo che si forma un cerchio di luce azzurrina sul palmo della mia mano. In un certo
senso potrei ritenermi soddisfatto e continuare a pensare.
In un certo senso la luna mi ha sempre affascinato.
Dalle casse dello stereo esce fuori Pictures of you dei Cure.
Poi mi prendo il cazzo in mano e inizio a masturbarmi pensando alla luna.
Non mi era mai capitato prima.
La immagino così dolce e protettiva eppure allo stesso tempo misteriosa e ambigua.
La immagino con lunghi capelli fluenti.
La mia mano inizia a muoversi più velocemente.
Ed anche il mio cuore.
La immagino accanto a me in questo preciso istante.
Mentre mi sussurra parole dimenticate.
Parole d’ amore.
Con la mano sinistra accarezzo il raggio di luce.
Con la destra diminuisco il mio movimento e inizio a dare dei colpi più lenti e ritmati.
Lei continua a sospirare sul mio collo con tutta la sua femminile magia.
Mi ammalia.
E penso a quante cose non ci siamo mai detti, a quanto sei inutilmente lontana e a
quanto io potrei essere il miglior uomo della tua vita.
Lei inizia a gemere e la mia mano a muoversi di nuovo più veloce.
La sento ansimare nelle mie orecchie, la sento leccarmi i capezzoli, la sento che vuole
farmi godere.
Un essere così fragile e antico.
Un sortilegio della mente.
Un profumo delicato e perduto tra le dune d’ oriente.

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Mi accorgo che sto per venire.
Mi accorgo di stare amando qualcuno.
Forse la luna.
Forse più semplicemente me stesso.
E quando sento qualcosa di caldo colare tra le mie dita sento il cuore che per un
attimo si ferma.
E nella mia mente ci sono immagini.
Immagini d volti, di luoghi, di bambini che ridono.
Nella mia mente ci sono degli occhi, e il lento rollio del mare e le tue mani che mi
sfiorano le guance e mi dicono che devo andare via.
E poi mentre sento il cuore colmo di gioia e il mio respiro pieno e regolare allungo la
mano verso il raggio di luce.
E nel pallore del tuo sguardo un filo della mia sborra cade inutile sul pavimento.
E io spalanco la finestra e completamente nudo con il cazzo ancora duro ti guardo.
Ti guardo in tutta la tua bellezza.
E sospirando mi sento vivo.
Sospirando mi metto a piangere.
E per quanto tu sia lontana e irraggiungibile c’è ancora chi cerca di amarti.
Qualcuno che amando la tua essenza ha imparato ad amare se stesso.

24. TRA LE MIE BRACCIA

Quanto tempo perso appresso a ipotetiche scopate. Quanto tempo ho lasciato andare
tra inutili discorsi e falsi sorrisi. Sempre cercandoti, sempre sperando in una tua
parola.
Come siamo stupidi quando crediamo di amare senza sapere cosa è l’ amore.
E poi quei lunghi silenzi di incomprensione. Sempre cercando qualcuno che potesse
capirmi.
Chiudendoti nel tuo mondo speravi che le cose potessero andare meglio.
Chiudendoti nel tuo mondo eri tu il centro dell’ universo.
Attraverso tutti quei giorni aspettavi che la vita ti regalasse qualcosa.
Confondevi solitudine con amicizia,
Confondevi impegno con stupidità.
Poi ti sei accorto di come le cose funzionavano, hai smesso di farti vedere in giro, hai
scavato nel fondo della tua anima.
Tutto quel tempo a cercare qualcosa di importante.

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Qualcosa di unico.
Quanto eri sciocco nei tuoi inutili tentativi di piacere.
Quanto eri stupido nell’ aver paura dello stare da soli.
Ma crescere significa avere paura.
Fino a quando le paure diventano certezze e non possono più spaventarti.
Tutti quei giorni di pioggia, quelle lacrime versate inutilmente, quei tonfi profondi
nel tuo cuore.
Cosa aspettavi?
Cosa credevi che la vita ti riservasse?
E adesso nel chiuso della mia stanza e della mia vita non sono poi così tante le cose
di cui ho bisogno.
Mi sono allontanato.
Ho chiuso alcune porte.
Ho lasciato crescere la mia anima fino a che riempisse tutto il vuoto che avevo
dentro.
Poi sei arrivata tu.
Qualcosa di unico.
Qualcosa che avevo cercato inutilmente per anni.
Sono arrivati i tuoi occhi, la tua presenza, i tuoi silenzi.
E’ arrivato quello che volevo più di ogni altra cosa.
Una persona da amare.
Una persona che mi amasse.
Come siamo stupidi quando crediamo di amare senza sapere cosa è l’ amore.
Adesso l’ ho capito.
E mentre le nuvole continuano a passare e le persone a nascere e a morire e i giorni a
trasformarsi in notti le nostre mani continuano a tenersi.
Le nostre labbra continuano a cercarsi.
E tutto quel tempo sprecato forse è solo servito per arrivare fino a te.
Tutte quelle ipotetiche scopate, tutti quegli inutili incontri.
Come se dovessi sempre cercare senza mai trovare nulla.
A cosa serve l’ amore se non hai nessuno con cui condividerlo.
E adesso sotto le stelle e la luna, sulla spiaggia o tra le onde del mare scopare non è
più qualcosa di ipotetico.
Scopare e amare sono diventate la stessa stupenda cosa.
Adesso che non devo più nascondermi non c’è altra vita che vorrei vivere.
Adesso.
Proprio adesso.
Mentre ti addormenti dolcemente tra le mie braccia.
Sono felice.

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