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Una Splendida Scon itta

Parte prima
Una Via d’Uscita
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1.
Conosciamo una città in sogno, ancora prima di camminare per le sue
strade. Ancora prima del risveglio sappiamo di esserci persi, di avere
incontrato persone, di aver visitato luoghi in questo doppio onirico,
un’altra città oltre lo specchio, che la luce del giorno può rendere
reale o solamente un ricordo sbiadito.
Il verde intenso dei prati nelle mattine nebbiose, le forme delle chiese
di pietra che appaiono sfuocate nell’aria grigia, le case basse e le vie
silenziose, gli alberi spogli, i bambini che giocano sull’erba
inseguendo un pallone, le bambine hanno lunghi capelli biondi e
guance arrossate e piccole voci melodiose che si perdono nell’attesa
che qualcosa succeda. Le parole fuggono, senza nessun signi icato,
centinaia di storie sconosciute, il sole è un’apparizione improvvisa, il
calore delle sue dita dietro al collo, come delicate carezze di una
giovane amante.
Anche se non dovessi trovare nessuna strada, ogni nuova direzione
sarà una cura per guarire dall’abitudine di giornate che avevano
ucciso il loro senso, le ore passate a non fare nulla rinchiuso dentro
una stanza, tra gli sguardi e i discorsi di fantasmi e maschere.
Ci meritiamo una possibilità, la meraviglia di un sogno, conosciamo
metropoli smarrite nell’alba, vi camminiamo solitari, anche se nulla
di tutto questo è realmente esistito, sappiamo, nel nostro cuore, che
ogni cosa che è destinata a svanire porta con sé il respiro di una
nuova vita.

2.
Il sole è un’ostia bianca in un cielo grigio e sconsacrato. Attraverso un
parco in una mattina solitaria, uno scoiattolo e la sua sagoma
immobile al lato di uno stretto sentiero di pietra, poi i suoi movimenti
spiraliformi, scie luminose che si attorcigliano intorno al tronco
dell’albero su cui si sta arrampicando, gli spazi verdi, le colline, un
ponte sospeso sul vuoto, altri sentieri, la terra rossa, piante che
esplodono come fuochi d’arti icio in un fermo immagine psichico, gli
echi delle parole risuonano nei pensieri notturni, sempre più lenti,
ino ad un punto di arresto, i loro contorni che si confondono in una
foschia autunnale. L’ora del tramonto, i colori in lontananza della luce
che iltra attraverso le nuvole, i quadri di Constable, camminiamo in
un mondo di cui non conoscevamo neppure l’esistenza mentre ne
osserviamo la realtà e poi la sua improvvisa riproduzione pittorica
sulla nostra tela mentale.
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3.
Gli alberi hanno occhi e antichi volti e sono piegati e immobili
nell’aria fredda della mattina. Poi il pomeriggio, vagando per le
strade, senza pranzare, le mie percezioni che diventano più acute
mentre la città si mostra, con le sue case, i palazzi, i giardini, i ponti e
gli specchi d’acqua, le alte torri, giallo ocra, stagliate contro un cielo
grigio e blu, tonalità marine e improvvise ferite di luce.
Sono sdraiato su un prato, in un parco, alcuni ragazzi ascoltano
musica trance, giocano con un frisbee e fumano erba, il suo odore mi
arriva pungente nelle narici, dipinti meravigliosi sulla tela mentale,
gli scoiattoli che corrono sui rami degli alberi, cibandosi delle gemme
che stanno nascendo, le anatre si muovono lente, nei piccoli stagni, i
colori intensi delle loro piume bagnate, sfumature incredibili che
brillano nei ri lessi del sole, piante e giardini e i gradini a spirale di
una torre, percorso psichico verso l’alto, i pensieri che si attorcigliano
per poi liberarsi nella visione aerea della città, le campagne in
lontananza, i boschi e poi la sagoma di un antico veliero ancorato nel
porto.
Discese e voli dell’immaginazione, nuove sequenze montate in ordine
casuale, il tessuto sonoro degli ambienti è ricco di dettagli uditivi,
echeggiano i richiami dei gabbiani lungo i docks, le imbarcazioni con i
vogatori che scivolano sull’acqua e le incitazioni del timoniere, i colpi
dei remi e il ritmo coordinato dei movimenti, le navi ancorate, il
sartiame che vibra, i sussurri di una spessa corda di canapa contro le
pietre grigio ardesia del molo, le bitte arrugginite, la voce del
capitano che richiama il suo equipaggio, un volta fuori dalle braccia
del porto ci saranno solo le stelle a guidare il nostro cammino.

4.
Le piante grasse nei loro vasi davanti alla inestra, la realtà
all’esterno, da scoprire giorno dopo giorno, le pareti bianche della
stanza, le case di mattoni. Alcuni alberi avevano già i loro piccoli iori,
li osservavo, complessi e meravigliosi, creazioni perfette di una
coscienza superiore, li tenevo nella mia mano, così delicati e fragili, il
loro odore, come quello della tua pelle di ragazza. Camminavo di
notte, lungo vie sconosciute, mentre i luoghi visti nei giorni
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precedenti iniziavano a trovare una loro collocazione nelle mie
mappe mentali, che, durante la notte, si sovrapponevano a quelle
oniriche, creando così nuove direzioni meta isiche da scoprire.
Due vecchi alcolizzati seduti in un pub, bevono una pinta di dark side,
la mia voce rallentata mentre cerco di parlargli.
I segni di intesa che ancora non riuscivo a capire, così misteriosi
anche se espliciti ed evidenti, i primi contatti visivi, gli occhi azzurri
di una ragazza spagnola, le sue gambe velate dalle calze che si
muovevano sotto il tavolo, la mia attenzione veniva turbata, rimanevo
isso nel suo sguardo anche se i miei coglioni la pensavano
diversamente.
Con il tempo si imparava a controllare questo tipo di cose, è un gioco,
il teatrino dei gesti e delle parole per scoparsi qualcuna.
Una donna inglese all’angolo di una strada, ci guardiamo, una
puttana, le sorrido e tiro dritto.
Le vie silenziose e i graf iti, l’odore dell’erba, le vibrazioni nel basso
ventre ogni volta che riconosco un luogo in cui posso trovare delle
sostanze.
Sono seduto su una panca di legno all’interno del Full Moon, bevo una
three hops, la musica elettronica e la visione di una ragazza che
esprime tutta la sua femminilità con i suoi movimenti, il modo in cui
cerca di sedurre un ragazzo, i suoi baci, le lunghe braccia che fa
scivolare dietro al suo collo, c’è qualcosa di ipnotico in quei gesti ed è
il modo in cui tutti noi, prima o poi, saremo fregati. Finita quella
magia rimarremo a chiederci solamente una cosa, ne è valsa
veramente la pena?

5.
Mi sono seduto su un muretto, vicino a un cespuglio, in uno spazio
rotondo, circondato da palazzi grigi, un’oasi di piazzole verdi e alberi
in iore e graf iti sui muri. Ho mangiato un paio di sandwich, ero a
stomaco vuoto dalla mattina, il sole esplodeva tra due alti edi ici di
vetro, un ragazzo di colore stava giocando a ping pong con una
ragazza bianca, sembravano divertirsi, ridevano e lui fumava erba. Ho
trovato una bustina vuota con il disegno stilizzato di un cane. Alcuni
ragazzi erano già ubriachi, in piedi accanto ad un muro, i poster e le
scritte sui mattoni, l’aria fredda in faccia, mi sono alzato e ho
camminato per Stokes Croft, i locali, le locandine musicali, gli indirizzi
da ricordare. Ho vagato per St. Paul, pochi inglesi, i volti cambiavano,
le prospettive anche, case basse, a due piani, tutte uguali, alcune
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colorate, altre opache, i piccoli giardini davanti, le donne e le bambine
con il velo, tanti somali, i loro negozi, mi tornava in mente la mia
classe e tutto il tempo che avevo passato con i miei studenti, non ho
più saputo niente di loro, tutta la merda che avevo visto in quegli
anni, tutto lo schifo, l’arroganza, la mediocrità di chi avevo intorno.
Arrivo su Grosvenor Road, l’odore dell’erba nell’aria, un vecchio rasta
mi fa un cenno di intesa, scuoto la testa, non ho soldi appresso e la
situazione non mi sembra tranquilla, due ragazzi arabi iniziano a
litigare con lui, non so per quale motivo, ci sono altri uomini di colore,
lì vicino, che a loro volta insultano i ragazzi arabi, sono fermi davanti
al Dad’s Cab, insegna rossa e possibile copertura per traf ici
clandestini.
Mi allontano un poco, mi siedo su una panchina in Ashley Road, mi
passa davanti una coppia di vecchi freaks, lui ha un paio di occhiali
con le lenti sfumate da colori psichedelici, si siedono sulla panchina
vicina alla mia, lei tira fuori un thermos e si versa del tè, poi accende
una lunga sigaretta di tabacco rollata a mano.
Un altro freak sta mettendo della roba dentro una macchina
parcheggiata sul lato opposto della strada, un ragazzo mi passa
davanti fumando una canna d’erba enorme. Poi arriva un rasta in
bicicletta, ci guardiamo, mi dice qualcosa che non riesco a capire,
rimango seduto, poi mi alzo e continuo a camminare. Un albero dai
iori rosa, ho freddo e decido di tornare indietro.
Alcuni ragazzi stanno provando delle parti teatrali in un piccolo
parco, mi fermo a guardarli, silenzioso. In cucina bevo una tazza di tè,
osservo le sagome di una chiesa fuori dalla inestra, non c’è nessuno
nella casa o forse sono solo io che non ho più voglia di ascoltare le
voci del mio passato.

6.
Le strade erano lucide e le ombre si muovevano misteriose lungo le
facciate di mattoni dei palazzi e una leggera pioggia accarezzava le
super ici della notte. Le persone dentro ai pub, al caldo, bevevano
birra e sidro e parlavano fra di loro, fuori, sui marciapiedi, alcuni
senzatetto erano rinchiusi nei loro sacchi a pelo, insetti dalle
sembianze umane dentro bozzoli di vestiti e coperte sporche, non
c’era nessuna metamorfosi ad attenderli, solo il freddo e il vuoto del
futuro.
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Lo sguardo isso di una donna in una mattina grigia e ventosa, i suoi
occhi penetravano il nulla e lo oltrepassavano in visioni oscure e
impossibili da capire, premonizioni e presagi, silenzi e misteri.
Sono arrivato a Stokes Croft, continuava a piovere, seguivo il lusso
dello spazio e del tempo, una porta bianca, sono entrato, una stanza
con un pavimento ricoperto da assi di legno, strani quadri alle pareti,
due ragazzi seduti dietro un tavolo, vicino alla porta, gli ho dato
cinque pounds e loro mi hanno disegnato un punto interrogativo
dorato sul dorso della mano. Sono andato in un’altra stanza, c’era un
uomo che suonava la chitarra e alcune persone che lo ascoltavano,
sedute per terra, su grandi cuscini colorati. L’atmosfera mi piaceva e
allora sono uscito velocemente per andare a comprarmi una birra, la
strada era ancora lucida, sono entrato in un off license, c’era un arabo
dietro alla cassa, agli immigrati gli toccavano gli stessi lavori di merda
che li aspettavano nel mio Paese, si dovevano accontentare, non
sarebbe mai cambiato nulla, ogni società imponeva ai propri schiavi
le sue catene. Mi faccio stappare la birra e torno dentro la porta
bianca, la musica continua a luire, mi sento a mio agio, bevo e cerco
dei contatti visivi. Una ragazza mi si avvicina, metà del suo volto è
nascosto da una cascata di lunghi capelli ricci, ha un orecchino alla
narice destra, il rossetto sulle labbra, la sua presenza è piacevole, ogni
tanto ci guardiamo, senza parlare, poi lei comincia a cantare,
sottovoce. Finisco la birra, esco e vado a comprarne un’altra, quando
torno lei è seduta su un piccolo mobile bianco, mi metto dietro di lei,
in piedi, è così vicina che posso sentire il profumo dei suoi capelli.
Finisco la birra e devo andare a pisciare, attraverso un paio di piccole
stanze, trovo il cesso, ci sono due ragazze in ila, stanno guardando
dei quadri alle pareti, mi metto ad osservarli anche io, ce ne è uno con
un enorme fungo dipinto, i suoi colori cambiano lentamente,
illuminati da una lampada in un angolo, come in una esperienza
psichedelica, le due ragazze stanno parlando proprio di questo, mi
chiedo quando sarà il prossimo trip, mi auguro presto, anche se qui,
ogni giorno che passo ha quella stessa incredibile densità.

7.
Il verde era ondulato e variava in diverse tonalità, quando la luce lo
abbracciava e i con ini delle colline toccavano i limiti di un cielo basso
e azzurro, dove le nuvole erano sospese e assumevano forme
grottesche. Gli alberi oscillavano, con i iori che sussurravano le dolci
parole della primavera, piccole case di pietra e mattoni, sedute sui
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bordi delle strade. Nuove aperture dello sguardo, le staccionate di
legno a dividere la terra, i paesaggi conosciuti in sogno, l’ombra di
una mano che si allunga nel giorno ino a s iorare le gemme dei rami
ancora spogli. Gli occhi azzurri di un uomo anziano, le sfumature
meravigliose di un mare interiore, il silenzio di un’antica libreria, le
miniature nei vecchi manoscritti, le illustrazioni anatomiche, i codici
medievali simili a mandala buddisti. Le macchie di colore sul
pavimento di una chiesa e la musica che riempie le alte navate, ho
acceso una candela e recitato nella mia mente una preghiera, per
tutte le persone a cui avevo donato il mio tempo negli ultimi anni e
che erano scomparse, ci eravamo incontrati in una maniera così
imprevedibile, non ricordavo più i loro nomi, erano stati così tanti,
centinaia di volti, occhi, respiri e voci. Che io possa proseguire ancora
sulla mia strada, che possa essere uno straniero come voi lo siete stati
nella mia terra, solo un’ombra solitaria che passa silenziosa tra
migliaia di corpi senza nome.

8.
Le ombre delle bottiglie di vino disegnate sulla pareti bianche della
mia camera, le immagini notturne sullo schermo di un cinema
onirico, piccoli vinili che girano sui piatti, le luci rosse nella sala e le
tavole di legno del palco, i sedili sfondati, l’odore dell’erba nei vicoli,
gli uomini neri nascosti negli angoli, gli edi ici obliqui, le vie di fuga
dello sguardo verso punti immaginari, i capelli di una giovane ragazza
tedesca e i suoi occhi azzurri che racchiudono qualcosa a cui nessuno
dovrebbe mai credere. Cammino di notte e ho freddo, la birra in
mano, un uomo mi chiede delle sigarette, scorrono luide le ore
trascinandomi con loro, luoghi e spazi che cambiano, le nuvole che mi
accompagnano ovunque, i sorrisi luminosi del cielo, i miei silenzi, la
sola possibilità che le divinità mi abbiano mai offerto, gli anni fuggiti,
ero sempre io dovunque andassi, ci mettevo poco a trasformare le
cose che avevo intorno, continuavo ad evitare le persone, aspettavo
semplicemente i segnali da seguire, non riuscivo ancora a capire dove
sarei arrivato, avevo dimenticato tutte le domande, perdersi era un
nuovo modo per continuare, non esisteva nessuna disciplina, solo i
respiri, quel vuoto e quella meraviglia, passo dopo passo, il vento che
ascolta i sospiri dell’erba, il mio corpo che non ha più peso.
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9.
Ancora gli occhi di una ragazza così giovane, gli sguardi che non
hanno bisogno di parole, era così nitida l’immagine delle mie dita fra i
capelli di Lynn, quando la tenevo stretta fra le braccia, pioveva fuori
dalla macchina, non sapevo neanche rispondere alle sue domande,
non ho mai saputo dire le cose al momento giusto, me ne sono
sempre rimasto in silenzio, perché l’importante non era quanto
avremmo preso dalla vita, ma tutto quello che saremmo stati in grado
di lasciarci alle spalle. Me ne stavo seduto su una panchina davanti ad
un canale dei docks, bevevo una birra e guardavo le nuvole nel cielo,
scivolavano veloci e sfumavano con le loro forme l’ultima luce del
giorno, la vita passata mi sembrava adesso così falsa, solo una lunga
illusione da cui mi ero inalmente liberato, trascorrevo le giornate
senza programmare nulla, attimo dopo attimo, non c’era compagnia
migliore della mia solitudine, mi sentivo così a mio agio, tranquillo e
rilassato. Avevo tenuto un bigliettino dove la ragazza tedesca aveva
scritto il suo nome, era così meraviglioso il modo in cui l’essenza
femminile continuava ad apparire nella mia vita, vedevo dentro le
donne e sapevo che loro facevano lo stesso con me, saremmo mai
riusciti a trovare un equilibrio? Saremmo mai riusciti ad amarci senza
volere nulla l’uno dall’altra? I colori del tramonto si nascondevano
oltre i miei pensieri, i gabbiani attraversavano il cielo, le gemme sugli
alberi, ognuna con la sua bellezza e i suoi segreti, ho accarezzato la
tua pelle, quella notte, solo per non poterla s iorare mai più.

10.
Il venerdì sera la merda era la stessa, forse con più alcolici nel sangue,
a seguire le cosce delle ragazze velate dalle calze, i maschi che
pensavano alla ica e al modo per averla. Fuori dai locali gli uomini
neri facevano la loro parte, mentre i bianchi si divertivano, gli
stranieri con i soldi, i giovani che venivano a studiare, c’erano
bancomat ogni venti metri, a momenti pure dentro i cessi dei pub
potevi prelevare, sta schifezza me la sarei ritrovata ovunque. Le cose
cambiavano nei parchi, negli spazi verdi, lì era veramente diverso,
potevo sedermi sotto un albero e stare bene, senza rotture di coglioni
di alcun tipo, c’era il vento e la voce delle foglie e la luce e le nuvole e
l’aria fredda e gli scoiattoli e l’erba che fremeva nel vento e rimanevo
in silenzio, con gli occhi chiusi, respirando lentamente e il pensiero
svaniva ed io ero qualcosa che non mi apparteneva più, come avevo
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potuto resistere dentro le stanze di un uf icio, dentro classi senza
inestre? Chi era quell’uomo che aveva vissuto la mia vita? Chi l’aveva
messo nel mio corpo? C’erano persone sedute dentro una sala e ritmi
tribali e due donne che danzavano, i movimenti luidi della pelle, ho
scambiato sguardi con una di loro e quando mi è passata vicino me lo
ha fatto venire duro, mi piacevano le donne più grandi e anche quelle
più piccole, ancora non riuscivo ad esprimermi bene nella loro lingua,
non che fosse importante, in realtà non ero mai stato in grado di farlo
in nessun modo.

11.
Eravamo ad una stazione dei pullman e dovevamo tornare a Santiago e
Giancarlo ci ha salutati, era così calda e rassicurante la sua presenza.
Un uomo borbotta nel sedile dietro al mio, scarabocchiando qualcosa
su un foglietto di carta strappato, il volto crepato e arrossato
dall’alcol. Ci muoviamo lenti, fermata dopo fermata. Stavo solo
aspettando che mi tornasse la voglia o il semplice desiderio di parlare
con gli altri, non so quando e se sarebbe successo e non volevo
mettermi fretta. Non sapevo neanche se un ambiente urbano, anche
se piccolo e intelligentemente organizzato come quello di Bristol,
fosse quello giusto, continuavo a cercare luoghi isolati, strade senza
rumori, preferivo la compagnia degli alberi, dei iori e dei piccoli
animali, ci capivamo io e gli alberi e loro mi abbracciavano con i rami
e le foglie, la luce che le attraversava e baciava il mio volto, l’ombra e i
fruscii, un linguaggio che avevo imparato a conoscere, così
armonioso, che mi parlava, ogni volta, sempre più in profondità.

12.
Teste di pesce lignee sbucavano dalle cortecce degli alberi,
attraversate da bagliori arancioni, luminosi e pulsanti, i rami si
muovevano come serpenti nell’aria, le radici scavavano la terra,
tentacoli vivi e striscianti, le gemme iorivano in mandala colorati. La
torre si ergeva sulla sommità della collina e la sua altezza variava da
un momento all’altro, la vedevo toccare le nuvole e superarle e
perdersi oltre la sfera celeste, poi diventare minuscola, come il pezzo
di una scacchiera. Intorno i paesaggi vibravano in movimenti
ondulati, estendendosi verso linee perdute d’orizzonte, una luce
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smeraldina veniva emanata dalle foglie e risplendeva cambiando di
intensità nelle loro nervature, le nuvole si formavano e scomparivano
a grande velocità, ridisegnando i miei pensieri in astrazioni azzurre e
grigie, un cane aveva quegli stessi colori mentre correva sul ianco
della collina, lasciando scie d’argento nell’aria. Uomini e donne
camminavano lenti, risalendo i pendii, avevano strane vesti medievali,
lunghe e colorate, alcuni con dei cappucci calati sulle teste e volti
invisibili. Una ragazza suonava un’arpa e cantava, la sua voce era
leggera e lucente come i suoi capelli, ili dorati che ondeggiavano nel
vento, i versi degli uccelli, i minuscoli pollini che punteggiavano lo
sguardo, le meraviglie del presente, la loro in inita quiete, una goccia
di pioggia in controluce a illuminare gli arcobaleni del mio silenzio.

13.
Le parole non arrivavano, si perdevano da qualche parte nella mia
bocca o forse più semplicemente non avevo nulla da dire. Tirava
vento sulla collina e stranamente il cielo era senza nuvole, si erano
nascoste da qualche parte, nell’attesa di tornare a mascherare lo
spazio azzurro. Avevo passato una notte in discoteca a ballare, ero
tornato a casa alle cinque di mattina, la luce stava nascendo e s iorava
i contorni degli edi ici, non mi ricordavo neanche quanto avessi
bevuto, avevo provato a toccare il corpo di una ragazza, con
delicatezza, le avevo messo le mani sui ianchi, non so perché era così
vicina a me, poi si è staccata e mi ha detto qualcosa che non sono
riuscito a capire, però ci guardavamo, in alcuni momenti e credo che
lei fosse lì con un altro uomo e poi l’ho cercata, quando non l’ho vista
più, avevo la sensazione che si fosse creato un contatto e volevo
rincontrarla, solo per sentire la sua presenza vicino alla mia.
Mi svegliavo tutti i giorni presto, la stanza sembrava la cella di un
monaco, leggevo e studiavo, praticavo il silenzio e la meditazione,
continuavo in questa disciplina, non avevo rapporti sessuali, mi
masturbavo quando era il momento, i miei bisogni diventavano
sempre di meno, ero curioso di vedere dove mi avrebbe portato
questa strada, l’esperienza mi aveva mostrato che quasi mai le
direzioni scelte corrispondevano con i punti di arrivo.
Nei sogni un uomo mi rimproverava di avere guardato dei siti
pornogra ici e una donna grassa dai capelli neri mi faceva vedere i
suoi giocattoli sadomaso, un apparecchio per l’elettricità, mi aveva
detto che era il suo favorito, mi era salita sopra, voleva scoparmi?
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I pensieri si formavano e svanivano e per me non avevano nessuna
importanza, mi sarei mosso per trovare un luogo tranquillo in cui
vivere, sapevo che mi bastava poco.
Parlare rapidamente mi sembrava un’enorme stronzata, si rischiava
così solo di aumentare il numero delle cagate che si dicevano, ma qui
tutti volevano fare uscire fuori le parole ad alta velocità, a me piaceva
farlo lentamente, quando ne avevo voglia, a ogni parola il un suo peso,
un suono che si espande e può creare signi icati, altrimenti è solo
melodia o rumore.
Mi incuriosivano le ragazze sudcoreane, così tranquille e pacate,
silenziose ed ordinate, i loro volti erano maschere e gli occhi delle
fessure che si aprivano sui loro mondi interiori, era dif icile entrarci,
erano misteriose eppure ogni tanto qualcosa usciva fuori, una
scintilla in quegli opali, un bagliore inaspettato di bellezza e passione.

14.
Ho preso una bottiglia di thatchers katy dal frigo, sono uscito e sono
andato verso l’osservatorio di Clifton, ho attraversato un parco, tra le
ombre e il silenzio, sono salito su una collina e il cielo era scuro, ad
ovest le ultime sfumature del giorno, ho camminato un altro po’, gli
alberi avevano forme bizzarre, ogni tanto mi fermavo e davo un sorso,
poi la città è apparsa, distesa in lontananza, le sue luci che
tremolavano nel buio, quelle di un ponte, sospese sul vuoto, mi sono
seduto su una panchina e ho inito di bere, poi ho alzato gli occhi, le
stelle mi guardavano, loro sapevano cosa fosse veramente
importante, era un segreto che tenevano nascosto ino al termine
della notte, nell’in inta distanza tra il loro brillare e il resto.

15.
Il rumore leggero della pioggia e le gocce che scivolano sul vetro della
inestra, la stanza bianca e i suoi segreti. Ho attraversato un centro
commerciale nel silenzio della notte. Il tatuaggio di un pavone sulla
spalla di una donna dai capelli viola, inginocchiato ai suoi piedi
mentre le baciavo le scarpe dal tacco alto, legato su un letto rosso, i
polsi e le caviglie incatenate, l’elettricità viola che pungeva il mio
corpo, il ricordo improvviso di una vecchia sensazione, quando mi
tatuarono la gamba e l’ago produceva quello stesso identico dolore
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misto a piacere. I suoi sguardi improvvisi, brevi, come se fosse
intimidita dalla mia presenza, dai miei occhi, era strano visto i ruoli
che avevamo, quelle stanze oscure mi facevano sentire a mio agio,
non avevo nessuna paura, nessun timore, mi sentivo vivo in una
maniera così profonda, non sarei mai riuscito a spiegarlo ad altri,
come tante cose, del resto. L’ombra del mio corpo schiacciata su un
pavimento, il tempo svaniva, le immagini delle persone che
danzavano nei bagliori elettronici, ipnotici e ritmici, i movimenti
rallentavano, chiudevo gli occhi, ero ancora lì, il culo delle ragazze che
s iorava la mia mano, erezioni nelle mutande, erano così vicine le loro
schiene e i loro capelli, i colli da baciare, tenevo le mie distanze, ino
al punto in cui avrei potuto sentire l’odore della loro pelle.

16.
C’era un uomo nel bosco che dipingeva una tela, aveva i capelli e la
barba lunghi, striati di bianco e grigio. La sua bicicletta era poggiata a
un albero e aveva delle piume di uccello legate al manubrio e la luce
era meravigliosa mentre passava tra le foglie e lui era calmo e
silenzioso e teneva il pennello fra le dita quando i nostri sguardi si
sono incrociati per un breve attimo.
Continuavo a vagare ovunque, per le strade della città e per i sentieri
delle colline e non avevo la minima idea di cosa fare, continuavo ad
andare avanti, a scivolare tra i ri lessi del mondo. Gli alberi mi
chiamavano con la loro voce e i iori con i loro profumi e il cielo con il
suo azzurro e i prati con il loro verde e non avevo nessuna voglia di
rinchiudermi di nuovo dentro ad un uf icio, non adesso, non ora, la
mia anima era così quieta quando era avvolta dai quei paesaggi e
poteva camminare silenziosa insieme al mio corpo. Avrei solo dovuto
seguirla, avrebbe saputo lei la direzione da prendere. Non volevo più
scegliere, non volevo più discutere, sarei arrivato in quel luogo, lo
sapevo, dove i suoi respiri sarebbero stati identici ai miei.

17.
Un uomo dagli occhi azzurri cerca di vendermi della coca, fuori da un
locale. Poi entriamo, prendiamo da bere e iniziamo a parlare. Lui
vuole convincermi che ho bisogno della sua roba, gli dico di no, che
non mi serve, lui insiste, alla ine gli dico che devo andare a pisciare e
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lui mi dice che mi aspetterà per strada. Torno dal cesso e lui non c’è
più, compro un'altra pinta, entro in una piccola stanza, la musica che
sbatte contro le pareti nere, l’odore della birra e del sudore, il corpo
di una ragazza vicino al mio, le nostre braccia che si s iorano. Avevo
dimenticato il tuo contatto e cosa signi icasse sentire la tua pelle
sotto la punta delle mie dita. Qualcuno mi fa fumare mentre sto
tornando a casa e io che non mi ricordo più niente, solo il suo volto
che si avvicina, al rallentatore, la sua mano che passa oltre la mia
schiena e mi s ila il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans, io che
provo a correre, a inseguirlo, senza riuscirci, le gambe che diventano
di gomma, la mente che cancella i pensieri. Il giorno dopo non
rimaneva più nessuna traccia di quello che era successo, solo un
corpo vuoto, lontano e perduto.
Camminavo per la città e quando ero stanco mi sdraiavo sull’erba in
un parco e mi addormentavo sotto lo sguardo del sole, passavano i
minuti e le nuvole nel cielo e poi ero di nuovo sveglio e mi alzavo e
continuavo a vagare, fra gli alberi, la luce che iltrava tra le foglie, le
parole di una persona cara scritte in un biglietto di auguri, parole che
portavo con me, come una benedizione, nei momenti bui, quando mi
sentivo solo, lontano da tutti, eppure questa era stata una mia
decisione e avevo voluto provare cosa signi icasse vivere così,
lasciarsi trasportare, dimenticare ogni giorno, appena la notte lo
travestiva di ombre e sospiri.
Quando ho attraversato un centro commerciale completamente
vuoto, poco prima dell’alba, tutto quel silenzio e i negozi senza voce, i
pavimenti lucidi, le vetrine in attesa di occhi che le facessero
splendere, l’architettura trasformata di un sogno, le porte che mi
avrebbero fatto entrare in altri luoghi, i passaggi proibiti, gli incontri
che sarebbero svaniti dalla memoria, i lash improvvisi, la mattina,
mentre quelle immagini venivano proiettate tra i frammenti lucenti
della realtà, le lacrime che arrivavano e il senso di solitudine e i
pensieri, ancora, come trappole che si aprivano nello spazio che
avevo intorno e ritornavo nel passato, nei corridoi, negli echi di
discorsi che volevo solamente scordare, tra i volti di chi avevo deciso
non avrebbe più dovuto fare parte della mia vita e ancora il dolore,
quando i ricordi si fermavano e c’era il tuo viso e la sua tristezza e
anche tutti i momenti in cui ti ho amata, in cui sapevo perfettamente
il motivo della mia scelta e perché eri stata così importante.
C’era bisogno di tempo e di distanze, di altri addii e altre separazioni
e la pioggia che arrivava con il suo leggero sussurrare e tutte le cose
che avevo voluto perdere e anche le domande, se avessi fatto bene, se
le mie decisioni fossero state quelle giuste e sapevo, dentro di me, che
sarei solamente dovuto andare avanti, che non aveva senso ripetere
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gli stessi errori di sempre. C’erano inganni di cui non volevo più fare
parte, c’erano respiri che avrei voluto far diventare ancora più lunghi
e intensi, seduto tra le radici scoperte di un albero, la mia e la sua
esistenza, diverse eppure identiche, ci ascoltavamo senza parlare,
aprivo gli occhi, il giorno aveva domande a cui non avrei risposto,
guardavo fuori dalla inestra, le montagne che non esistevano
apparivano in tutta la loro bellezza.

18.
I giorni non avevano più nome e mi accoglievano con le prime luci
dell’alba, cercavo di attraversarli senza troppi pensieri, misurando il
tempo in attimi ma qualcosa iniva sempre per distogliere la mia
attenzione da quello che avevo davanti: i ricordi, i sogni, le voci nella
mente, le misere preoccupazioni, le inutili aspettative. Anche le
persone continuavano ad avvicinarsi troppo e io sapevo, dentro di
me, che non le avrei lasciate entrare, ancora non ero pronto, ancora
gli echi del passato mi raccontavano storie che non avevo più voglia di
ascoltare. Poi c’erano i corpi delle giovani ragazze che mi attraevano e
che non volevo toccare, mi bastava sentire la loro presenza accanto
alla mia, i capelli che mi s ioravano, il fugace contatto delle loro
braccia, brevi istanti in cui era la pelle a parlare e in ognuna di loro
c’era anche Lynn ed era strano quanto fosse diventata irreale, ora che
ero venuto nel suo mondo, cercando di imparare una lingua che mi
scivolava nel cervello, senza rimanerci, senza modi icarne i
movimenti. Avevo solo bisogno di andare avanti, senza portare nulla
con me. Nelle città le cose mi sembravano troppo simili a quelle che
mi ero lasciato dietro e i soldi, il lavoro, le bocche fameliche e
lampeggianti dei bancomat continuavano ad impaurirmi mentre gli
alberi mi colmavano di serenità, dovevo distaccarmi un po’ alla volta,
spostarmi verso luoghi più remoti, solitari e sperduti, così come era la
mia anima, quando respirava e le lasciavo spazio e tempo per
espandersi e crescere e le parole, ancora loro, scritte su un foglio, così
intime e familiari, così capaci di esprimere quello che veramente
provavo e i treni in arrivo alla stazione, una panchina di legno, uno
zaino e una valigia, gli avvisi e i gabbiani che regnavano incontrastati
nei loro mondi di onde e spazzatura e le nuvole dipinte nel cielo, il
richiamo del mare, i saluti che ero stanco di fare, gli sguardi oltre la
vista, gli occhi di Pete, quando per brevi secondi ci eravamo guardati
dentro, meravigliandoci a vicenda, perché nulla era più importante di
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quella intimità, così reale e stupenda, che non aveva bisogno di
nessuna parola e di nessuna lingua per essere espressa e capita.

19.
Minuscoli insetti vibravano nell’aria, dividendola in segmenti
invisibili di traiettorie asimmetriche. Piccoli sassi levigati
componevano mosaici sulla sabbia in attesa dell’interpretazione di un
indovino. Una nave all’orizzonte, piatta e immobile, ancorata
nell’azzurro. Il mare parlava senza fretta con i suoni ciclici del suo
linguaggio di acqua e spuma e poi le nuvole, sospese sopra le scintille
di luce che vivevano sulla super icie blu del mondo. Distendevo i
pensieri, li allargavo in spazi bianchi di aria e di cielo, oltre i con ini
stessi della terra e delle sue linee. La spiaggia era silenziosa e c’erano
orme che nessuno aveva lasciato, così come le parole che non
venivano mai pronunciate perché i loro segreti erano troppo profondi
per essere rivelati. E gli occhi di Christiane, così celesti, come tutto
quello che adesso avevo davanti e ci siamo subito riconosciuti, io e lei,
anche se gli anni passati avevano segnato il suo volto senza però
oscurare lo splendore della ragazza che era stata. Ci abbandoniamo
agli inganni del tempo, ai suoi travestimenti e alle sue maschere,
abbiamo da sempre passeggiato lungo questi sentieri di solitudine,
abbiamo dimenticato i nostri passi, il mistero di una vita e di quella
successiva, forma dopo forma, corpo dopo corpo, un’unica essenza
dai mille colori, le sfumature di uno sguardo, l’immagine di un volto e
dei suoi capelli d’argento sparsi fra le dita della luna.

20.
Le rocce nere e un castello sospeso nel cielo, scenari di nuvole e
acqua in movimento, le persone appaiono e camminano, le
dimensioni ridotte dei loro corpi, misurabili nella distanza tra pollice
e indice.
I barattoli di vetro riempiti con misteriose erbe e polveri, una barca
arenata in un sogno deserto dove non c’erano voci a disturbare il
compiersi di una luminosa visione. Il vento ha tagliato le rocce nere
seguendo le sue geometriche e millenarie direzioni, cerchiamo
signi icati inesistenti eppure tangibili nelle bianche ferite di pietra e
nelle loro grottesche angolazioni, qualcosa di immobile e antico, torri
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di aria che scompaiono lungo una retta immaginaria che chiamiamo
orizzonte. Esistono un ordine e un disordine che è solo la nostra
mente a creare e oltre i suoi con ini si formano mondi che aspettano
solo di essere scoperti.
Oltrepasso un piccolo cancello di legno e la vista viene avvolta
dall’intenso verde di un prato, la spuma delle onde sussurra i suoi
ricordi e le foglie sospirano quiete, i iori tropicali si innalzano
giganteschi e brillanti, ogni singolo ilo d’erba è vivo e oscilla nel
vuoto, la luce è negli occhi e l’ombra nella mano, i contorni dorati
delle grandi pietre, aspettiamo che l’ignoto arrivi e con esso gli
incontri che attendevano di essere fatti.
Gli stami di un iore dai petali rosa e violacei mi sono entrati nelle
narici mentre mi sono avvicinato per sentirne l’odore e sono risaliti
lungo le cavità del mio naso ino a raggiungere il cervello creando
così nuove connessioni di suoni e colori e misteriose forme di
comprensione. I pensieri sbocciavano in corolle neuronali, in onde
luminose e pulsanti, poi un nuovo sentiero nell’ombra degli arbusti e
del loro respiro di rami contorti, le tonalità purpuree del mio corpo e
del mio cazzo, camminavo nudo, le voci di giovani ragazze come
incanti di sirene, erano sedute su un masso e mi sono avvicinato, i
loro capelli d’oro luttuavano nell’aria, mi sono inginocchiato e gli ho
baciato i piedi e loro hanno riso e quel suono attraversava la mia
pelle, sono scese dalla roccia e mi hanno preso per mano, le ho
seguite, erano nude e ogni volta che le loro braccia s ioravano le mie
percepivo vibrazioni di calore rosse e arancioni, siamo scesi verso
una spiaggia nascosta, le orme sulla sabbia, siamo arrivati ad una
caverna, una fessura nella roccia e loro hanno preso i miei polsi e li
hanno legati a degli anelli di ferro attaccati a una parete di granito, il
freddo contatto della pietra contro la schiena, poi hanno iniziato a
strusciarsi sul mio corpo, non potevo toccarle e avevo il cazzo teso e
pulsante, mi leccavano i capezzoli induriti dalla salsedine e le loro
dita accarezzavano la mia pancia, l’interno delle cosce, vedevo le onde
bianche del mare e i loro occhi azzurri, poi si sono allontanate per
guardarmi, ridendo, i loro seni, le loro gambe, hanno cominciato a
baciarsi e a toccarsi, osservandomi, le labbra lucide, non potevo
raggiungerle, incatenato alla roccia, poi erano di nuovo vicine, le loro
lingue nelle mie orecchie, le dita che mi tiravano i capezzoli, i baci sul
collo, il cazzo stava per esplodermi, dalla sua punta colava lentamente
una sostanza bianca uguale alla spuma del mare, una di loro si è
inginocchiata davanti a me, ha aperto la bocca e mi ha inghiottito, in
un’estasi di odori loreali e marini.
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21.
Le piante del deserto erano gigantesche e le loro foglie carnose,
lingue e tentacoli di una piovra vegetale che si muovevano sinuose
nell’aria accarezzandomi la pelle e ogni pianta possedeva una sua
precisa geometria nel modo in cui si formava nel vuoto, c’erano
disegni concentrici che ruotavano intorno ad un punto e mandala
in initi nella mente di chi le aveva create e le mie visioni prendevano
quelle stesse strutture, caleidoscopi che si ripetevano, proporzioni
alterate e cambi di prospettiva improvvisi e oltre queste immagini il
suono costante, a basse frequenze, della marea che cominciava a
salire, nascondendo strade di pietra e sentieri, cancellando le tracce
che mi avevano portato ino a questo giardino segreto, i pensieri che
si rami icavano in piani di spazio e tempo sconosciuti, il limite
brillante di un’idea, il suo iorire in una realtà senza più nessun
signi icato se non quello puro e immediato di percezioni assolute.

22.
Le enormi vetrate da cui vedevo il mare e i gabbiani che planavano
sulle sue sfumature, disegnate dalla luce, ogni volta che le nuvole si
scostavano per lasciarla libera di splendere e i colori e i loro odori e i
vestiti sporchi di vernice e le mani e i pennelli e il tuo corpo nudo di
ragazza, davanti a quelle grandi inestre, mentre tracciavo linee su
una tela a comporre igure che catturassero la tua essenza e quella
dell’oceano.
Le bottiglie di vino e i bicchieri sparsi ovunque, tutti diversi, alcuni
riempiti di sabbia, perché non avevo più clessidre che misurassero la
mia distanza dalla morte. Il tempo era un unico, ironico inganno, che
giocava con i nostri volti. I suoi segni a cui inivamo per credere e
dare importanza erano solo le menzogne di un corpo, le sue
maschere di gioia e disperazione, il suo modo di esprimere il
semplice fatto che nulla era destinato a durare e i tuoi piedi che si
posavano sulla sabbia calda, quella che il tempo non avrebbe mai
catturato, perché erano luoghi che esistevano solo nella mia
immaginazione e la notte prendevo i tuoi alluci nella bocca mentre ti
accarezzavo le gambe e sentivo nelle mani ancora i granelli di spiagge
lontane e il sapore salato della tua ica quando ti facevi leccare e i tuoi
respiri diventavano più profondi e una volta ti ho in ilato un pennello
nel culo per farti godere e il mattino dopo ero nudo davanti ad uno
specchio con il cazzo ancora duro e mi chiedevo se quel ri lesso fosse
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reale o solo un’ennesima fantasia o la semplice purezza di quello che
esisteva dall’altra parte di quel vetro, ti ho svegliata e ti ho chiesto di
succhiarmelo, la tua bocca era umida e calda e sono venuto come la
schiuma che fanno le onde prima di bagnare la terra e perdersi in
essa.

23.
C’era il vento e c’erano i sogni di terre lontane, quelli dei marinai e
delle navi, perdute oltre l’orizzonte, i volti di pietra e i piccoli iori, i
muschi e i licheni e un’in inita serie di emozioni e percezioni a cui
non sapevo dare nome e le grotte e le rocce scavate dall’acqua e gli
archi naturali e le mille scintille sulle onde e le sfumature del blu
mentre la luce le attraversava. Gli scenari rimanevano impressi nella
mente quando chiudevo gli occhi e la lasciavo libera di prendere le
forme e i suoni di quello che avevo intorno, i sentieri da seguire, le
erezioni scolpite nelle rocce, un enorme cazzo che puntava verso
l’alto, caverne e fessure e vagine oscure, umide e misteriose, la sabbia
e le conchiglie attaccate sui massi verdi di alghe essiccate, la primitiva
storia del mondo raccontata dalla sua stessa materia, la ine della
terra e la nascita dell’abisso.

24.
Le percezioni di un sogno, le bandiere azzurre e bianche che
sventolavano al rallentatore, la forma triangolare di una piscina,
l’acqua gelata, le ringhiere di metallo sporco, i piedi nudi delle
ragazze, i loro corpi nelle tute di gomma. Le immagini mentali
all’interno delle stanze segrete, quegli stessi corpi ricoperti di latex, i
colpi del frustino, le erezioni incontrollate, inginocchiato davanti ad
una di loro, il tatuaggio di un pavone, i mille occhi che mi guardavano
dalle piume della coda, l’elettricità che toccava la mia pelle. Gli spiriti
ancestrali che si impossessavano delle mani e delle gambe, del cazzo
e dei coglioni, mentre camminavo lungo i sentieri della costa, le
scogliere contro cui si infrangevano le mie onde mentali, i pistilli dei
iori che mi solleticavano le spalle, le punture dell’ortica che una
donna di vento stro inava contro i miei capezzoli, il dolore che li
bruciava e li faceva diventare duri e sensibili, connessioni erotiche e
sinaptiche, appoggiato contro un masso, i petali di dita invisibili sulla
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punta infuocata della cappella, il sole che divorava i pensieri e
proiettava ombre sulle enormi pareti di roccia, energia viola nel
corpo, disteso sulla spiaggia, donne di sabbia che si avvicinavano
ricoprendomi e dissolvendosi nella brezza dell’oceano, il mio cazzo
che si trasformava in pietra e le loro mani granulose che lo
stro inavano, la spuma bianca sulla cappella e il calore della luce che
svaniva tra le nubi lasciando cicatrici di freddo. Una donna con degli
stivali di gomma nera che mi ordinava di masturbarmi davanti a lei, la
conchiglia di carne che si apriva, il mio cazzo che veniva risucchiato,
non esisteva più nessuna volontà, solo un movimento, un ri luire che
le maree insegnavano e la luna dominava, le contrazioni ritmiche, la
sensazione di svanire, le carezze di una medusa, le strisce di pelle
purpurea, i respiri azzurri, le notti senza nome, i tesori nascosti nelle
vagine dischiuse di isole lontane e sperdute.

25.
Un uomo era seduto su una panchina di legno, accanto ad una
targhetta di metallo con il nome di qualcuno ormai morto, occhi
spenti e stelle oscurate, l’uomo guardava il mare e aveva delle buste
vicino ai piedi e attendeva, come tutti noi, qualcosa che aveva smesso
di aspettare e i vecchi alberghi sulla passeggiata, le vetrate da cui si
potevano guardare le onde grigie infrangersi contro i muri di pietra,
quando l’inverno suonava le sue melodie di malinconica bellezza, il tè
e il quaderno sul tavolo e i ricordi che cominciavano a svanire perché
la mente cancellava sempre il suo passato e allora qualsiasi cosa
poteva essere successa e la vita diventava puro romanzo, splendida
inzione, un racconto da cambiare di volta in volta, narrando una
storia che non era mai esistita e proprio per questo profondamente
umana e reale.
Dietro la porta di una cabina, tre buchi nel legno azzurro all’altezza
degli occhi, il cazzo in mano che si gon iava, i giovani corpi sul bordo
della piscina, la pelle bagnata e i sorrisi del sole.
Ogni giorno qualcosa andava perduta e dovevo imparare a non
cercarla mai più e le donne dai capelli d’argento e i corpi ormai sfatti
danzavano con una grazia sorprendente in un’armonia di movimenti
che il tempo non aveva ancora corrotto e un uomo suonava la sua
armonica con diabolica maestria e i battiti di una cassa di legno e la
gamba di un altro uomo che teneva il ritmo, alzandosi e
abbassandosi, con grandi colpi della sua scarpa sul pavimento, i giri
del basso a ricordarci perché siamo vivi e la chitarra che graf iava
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l’anima, perché qualcosa ti entrava nel sangue e pulsava e quando
qualcuno ha chiamato il mio nome non mi sono girato, perché non
ero più io ma solo un bizzarro capitolo di un libro nero posato sul
pavimento di una stanza di polvere e luce soffusa.

26.
Durante la notte si ricostruivano le parti mancanti di capitoli ancora
non scritti e i personaggi cambiavano i loro volti e i loro nomi. Le
stanze in cui mi ritrovavo con sconosciuti scordandomi il modo in cui
ci ero arrivato e i giorni di luce cominciavano a perdere consistenza,
svanivano le ore e il loro peso di azioni e pensieri, tutte le illusioni da
cui mi stavo distaccando, le strade che mi avevano scelto perché io le
percorressi, gli alberi che mi hanno atteso perché potessi sedermi
nella loro ombra e dovevo lasciare ancora quelle poche emozioni,
quei pochi sentimenti a cui continuavo ad aggrapparmi, perché il
vuoto faceva paura con la sua perenne intensità, dove non ci
sarebbero state più scuse per distrarsi dall’essenza di tutto quello che
avevo dentro e intorno. Erano giornate bellissime e splendenti e per
questo ancora più dolorose, perché sapevo che avrei dovuto dirti
addio, perché eri l’ultima persona che dovevo dimenticare.

27.
Le forme dei rami e delle foglie disegnano strane igure questa sera,
mentre le ultime luci del giorno scompaiono tra le mie mani, come la
tua pelle quando la notte la accarezza con i suoi brividi e viviamo
immersi in un sogno che non sappiamo neanche riconoscere e lungo i
pendii delle colline i miei passi diventavano sempre più lenti, ino a
fermarsi, un essere immobile sul limite del cielo e della terra,
dell’azzurro e del verde, quella luce che abbracciava ogni cosa in una
gioia senza nome, una felicità che solo il dolore più intenso sarebbe
stato capace di esprimere, le lacrime che mi scendevano lungo le
guance perché neanche io mi ricordavo da quanto tempo non mi
sentissi così bene e appagato, consapevole di quanto tutto quello che
avevo intorno, ogni attimo di pura meraviglia che stavo vivendo, fosse
destinato a inire. Sprofondavo nella mia anima, nei colori e nei suoni,
le stelle che giocavano con il destino mi portavano nei loro mondi
distanti e luminosi, dove potevo ancora stringerti tra le braccia e
sentire il tuo respiro nella mia bocca e ogni risveglio evocava quel
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movimento del tuo petto, ci sono state notti, così lontane, così
immerse nella nostalgia di ogni cosa che ci è stata tolta, in cui potevo
respirare la tua stessa vita ed esserne parte e volere che questo
incanto inisse, perché era ancora più essenziale il sapere che avrei
potuto distruggere ogni emozione che sentivo riempirmi di felicità e
allora mi abbandonavo ad una solitudine fatta di echi d’amore e più
quelle voci diventavano forti e presenti e più non riuscivo a
distinguere cosa fosse un dono del buio e cosa fosse reale, come i tuoi
occhi che giorno dopo giorno mi riconoscevano e ricordavano tutto
quello che avevamo vissuto in mattine e pomeriggi e tramonti di cui
nessuno potrà mai parlare, perché c’è solo il silenzio, ancora una
volta, a proteggermi, c’è solo il mio cuore che batte, oscuro e lucente,
tra iori che nascono e altri che appassiscono, mi fermo su quel
con ine, quel limite di misteriosa bellezza, oltre il quale solo le poesie
hanno senso, quel luogo speciale in cui sono rimasti i volti di chi ho
perduto, il loro ri lesso pronto a svanire in quei brevi attimi che
sfumano tra un addio e il tuo ultimo sguardo.

28.
Ritorno a Bristol in treno e salgo su un autobus fuori dalla stazione, lo
avevo già preso qualche settimana prima per andare a Glanstonbury,
magico e luminoso viaggio in un’altra dimensione. Sistemo la valigia e
lo zaino e chiedo alla ragazza che sta al volante se conosce la fermata
dove devo scendere, lei mi parla così veloce che non capisco un cazzo,
ha un braccialetto con le borchie al polso e i capelli di una punk,
partiamo, guida come un’esaltata, imprecando contro veicoli
invisibili.
Scendo nel bel mezzo del nulla, una fermata immaginaria, i campi, le
siepi, poso la valigia e lo zaino dietro un piccolo cancello, mi
allontano e piscio, poi torno sulla strada, vedo arrivare Lynn, come in
un sogno, ha i capelli corti, è il luogo più assurdo in cui ci potevamo
incontrare - Ci salutiamo, riprendo la mia roba, poi camminiamo
attraverso il verde per arrivare alla casa del fratello, sentieri di terra e
alberi e un cielo grigio, poi un ruscello, una stradina di ghiaia e un
cancello, le case di mattoni e quella dove abita Arthur, Lynn che apre
la porta, lascio la valigia e lo zaino vicino alle scale, poi saliamo al
piano superiore, il divano, mi siedo, due tazze di tè, parliamo, poi lei
prende un paio di birre, beviamo, la musica, le cose tornano come
prima, percorriamo il tempo per s idarlo e il senso del mio viaggio
che diventava più chiaro settimana dopo settimana, ino a quando le
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certezze svanivano di nuovo e la solitudine si faceva più intensa e
anche la paura e allora una voce nella mia mente, la voce di un padre
e di un amico, quella di un maestro o forse più semplicemente quella
della mia anima, mi ripeteva di respirare e stare calmo e lasciare che
tutto luisse, quella voce mi sussurrava di non resistere, di continuare
a cadere, respiro dopo respiro, attimo dopo attimo.
Arthur ritorna, poi anche Eli, andiamo tutti a bere in un pub, gli
chiedo qualcosa su come trovare delle droghe a Bristol, Arthur mi
spiega come funziona, bisogna avere i contatti, andare a casa del tipo,
poi ogni sostanza diventa accessibile. Andiamo a mangiare ish and
chips in un bel posto vicino ad un lago arti iciale, inizia a piovere,
torniamo a casa, la stanza è accogliente, un paio di bottiglie di vino,
Arthur tira fuori un pezzetto di hashish, la musica, Lynn inizia a
ballare, poi lei e il fratello parlano e scherzano, alcune cose mi
sfuggono, mentre sono seduto con le gambe incrociate su una
poltrona che mi sta letteralmente risucchiando e il fumo e il vino mi
trasportano lontano, nei luoghi dell’estasi e dell’oblio.

29.
Mi sveglio in un letto bianco e alla mia destra c’è una vetrata da cui
iltra la prima luce del giorno, ho la testa che ronza e i pensieri sono
confusi, sento qualcuno che bussa alla porta, è Arthur e mi dice che
devo alzarmi e tornare nella sua casa, mi metto i pantaloni e la
maglietta, prendo lo zaino e lo seguo. Alcuni lash della notte
precedente: lui che prepara un sandwich con tutti gli ingredienti che
trova, io che lo assaggio e gli dico che è molto buono, io che isso il
frigorifero per un’eternità. Salgo le scale e c’è un sacco a pelo per
terra, mi spoglio e mi ci in ilo dentro, Lynn sta dormendo vicino al
divano, chiudo gli occhi, i pensieri che ondeggiano, mi riaddormento.
Io e Lynn siamo sul treno per Swansea, il paesaggio che scorre fuori,
ci sediamo vicini, le chiedo dell’esperienza che ha fatto con l’acido, i
colori, le alterazioni, le risate, i pensieri issi, le nuove connessioni. Le
dico che mi piacerebbe prenderne uno insieme a lei nei luoghi e negli
spazi in cui dobbiamo ancora arrivare e che avrei conosciuto solo
alcuni giorni dopo, tra le verdi colline intorno alla sua casa.
La luce che come un velo di meraviglia ricopriva con la sua quiete
azzurra e rosa tutto quello che avevo davanti e le visioni delle grandi
eliche che si muovevano lente all’orizzonte e quanto avrei voluto
stringerla fra le braccia e vivere tutto quello che il cuore con i suoi
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battiti metteva in circolo nel mio corpo ma ogni attimo di perfezione
reclama il suo tributo di sofferenza e in questo impossibile eppure
reale equilibrio, in questa ennesima scon itta dei miei sentimenti io
mi sentivo vivo e presente come non mai, perché era chiaro che non
avrei mai potuto dividere queste due metà e sapevo che le avrei
continuate a cercare per tutta la vita, solo perché le lacrime
scendessero ancora e io potessi sprofondare nell’abisso e guardarne
il fondo e risalire verso la purezza di me stesso, luce che brilla da
sempre nei miei giorni di abbandono.
Alla stazione incontriamo Kate, poi siamo in macchina, Lynn è al
volante, mi addormento un po’, la testa che oscilla tra presente e
passato.

30.
La prima immagine della casa, appena usciti dal bosco, è uguale a
quella di una fotogra ia mentale a cui non avevo più pensato. Lynn mi
aveva sempre parlato di quel posto, invitandomi nel corso degli anni
ad andarci ed erano state così tante le cose da cui mi ero dovuto
liberare prima di poterlo fare.
Julian ci saluta, dopo che siamo scesi dall’auto e mi dice che stava
contando ino a dieci e che quando nella sua mente è giunto quel
numero la nostra macchina è apparsa. Sorrido. Ci guardiamo negli
occhi. Ci capiamo immediatamente. Era stato lo stesso con sua iglia.
I luoghi dell’infanzia di Lynn, i suoi giochi con i fratelli, le storie
inventate, la magia dell’immaginazione, torno indietro, mi perdo nel
tempo, nel corso dei giorni continuo a scendere in profondità, ci sono
dei momenti, degli attimi così intensi, in cui i miei respiri sono
talmente pieni e la luce che avvolge con la sua grazia gli alberi e le
colline è così meravigliosa che io non posso fare altro che piangere e
sento il mio amore crescere e anche la voglia di scoparla o
semplicemente s iorarla e lo faccio solo in poche occasioni, un bacio
sulla guancia, uno dietro il collo, una carezza sul volto, quando lei è
addormentata, ancora una bambina, il sole sulle sue palpebre chiuse,
come posso spiegare la sensazione che ho provato, in macchina, in un
sogno di alcuni anni fa, quando la baciavo ovunque e la masturbavo e
lei non era una ragazza come un’altra ma era mia iglia, aveva poco
più di diciotto anni e le mancava la famiglia e solo adesso,
conoscendo i genitori e vedendo quei luoghi, potevo capire quanto
quel dolore e quella malinconia potessero essere grandi e le
accarezzavo i capelli dopo che le avevo succhiato i seni e leccato la
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schiena e le domande e la paura nel suo sguardo, non potrò mai
dimenticarlo, non sapevo se fosse una cosa giusta o no ma era
accaduta e i nostri ruoli erano così chiari e potevamo fare quello che
volevamo perché non c’erano tabù, era solo un gioco e appena ho
percepito che i suoi sentimenti diventavano più forti ho messo una
distanza per non farla soffrire dopo, perché era giovane e le sarebbe
passato e così è stato ma non avevo previsto quello che sarebbe
successo a me, quanto mese dopo mese sentivo crescere qualcosa
dentro il mio cuore e quando me ne sono reso conto era troppo tardi,
perché lei sarebbe partita e ho pianto tutta la notte quando l’ho
salutata, una delle ultime volte che ci siamo visti e questo non è
servito perché quel sentimento è continuato a vivere e non ho più
saputo controllarlo e una notte mentre ero ubriaco e parlavo con
Valentina, le ho chiesto se sarebbe mai stata in grado di lasciare la sua
vita per un sogno, un sogno d’amore e i suoi occhi erano diventati
lucidi ed è esattamente quello che ho fatto, non avrei mai potuto
abbandonare la mia vita per nulla che non fosse stato un’illusione,
una chimera, perché ho sempre preferito inseguire i miei sogni, da
quando ero un ragazzo e le dico queste cose, le confesso a Lynn, in
quei momenti in cui siamo da soli e intorno a noi c’é silenzio e quiete
e lei sembra essersi scordata di tante cose, tutti gli attimi trascorsi
insieme, ma giorno dopo giorno inizia a ricordare e io riconosco il suo
sguardo e il verde dei suoi occhi e le risate d’oro, dovevo venire in
questa casa per liberarmi anche di lei, era l’ultima persona a cui
dovevo dire addio, prima di cominciare un viaggio così misterioso e
oscuro che non avevo la minima idea di dove mi avrebbe portato.

31.
Avevo gentilmente chiesto alle divinità di farmi svanire, mentre ero
sdraiato sull’erba, in una macchia di verde lucente e respiravo con le
foglie e le nuvole, sarebbe stato perfetto, ero pronto, un ultimo
intenso sguardo e poi tutto sarebbe inito ma loro non mi hanno dato
ascolto e allora ho continuato a vagare, perché mi sembrava la cosa
più giusta da fare.
Vedevo le altre persone nelle loro gabbie, alle scrivanie, alle casse dei
supermercati, nei taxi, conoscevo bene quelle sbarre e ancora non ero
in grado di tornare a starci dietro e non sapevo neanche se sarei di
nuovo riuscito a farlo e allora spingevo le ore in avanti e loro
passavano e per me non avevano più nessuna importanza e le
illusioni mi apparivano adesso così nitide, le potevo capire e
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conoscere meglio, perché dovevo liberarmi una volta per tutte dalle
loro forme, ci voleva coraggio, ce ne voleva molto e non so ino a
quando avrei resistito a percorrere questa strada.
Il passato tornava a turbarmi, ancora, nella bocca dello stomaco, nei
battiti del cuore, nelle erezioni e nei sogni che diventavano di notte in
notte sempre più reali e concreti e nella stanza dalle pareti bianche
c’era un bel silenzio e fuori sentivo i versi degli uccelli e il rumore
degli alberi e sarebbe inita anche questa pausa e avrei preso un altro
treno e sarei arrivato in un’altra stazione e poi i piedi laccati di rosso
nei sandali di una donna seduta in una chiesa, davanti a me, sentivo le
palle gon iarsi, avrei dovuto essere calmo e parlare con dio ma quei
piedi attiravano la mia attenzione e i miei desideri e ancora il corpo di
Lynn, impresso nella mente, mentre mi ero proibito di sborrare per
vedere quanto sarei resistito accanto a lei, senza toccarla, poi la notte
sognavo di scoparla e la mattina mi svegliavo con la sua pelle fra le
mani che svaniva, i suoi baci erano ancora caldi ma esistevano solo in
un altro luogo, in un altro tempo che non era questo e lei che si
stendeva vicino a me, sull’erba, davanti alla sua casa e mi ignorava e
la frustrazione cresceva e l’eccitazione anche ma era quello che
volevo, cambiare i nostri ruoli, darle potere, vedere se capisse questo
gioco, se lo sapesse portare avanti e poi era di nuovo una bambina e
mi faceva vedere il suo mondo privato ed era meraviglioso perché
anche io potevo osservarlo con gli stessi occhi di quando ero piccolo e
capire le sue storie perché erano uguali alle mie e le fotogra ie della
casa e della vita al suo interno, di qualcosa che mi toccava così in
profondità da farmi piangere, l’avevo raggiunta troppo tardi e adesso
dovevo lasciarla andar via, non ero riuscito a farlo in tempo, non
avevo voluto farla soffrire e adesso ero io ad abbracciare il dolore,
tutto il mio mondo che era andato distrutto, lei era stata una scintilla
e quelle che adesso bruciavano erano solo le mie fantasie, la polvere
avrebbe danzato ancora nell’oro del tramonto, la mia ombra ormai
lontana, lungo i sentieri di un’altra vita.
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Una Splendida Scon itta
Parte seconda
Ultimo Domicilio Conosciuto
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32.
Stavo invecchiando e la cosa andava bene così, Londra aveva
architetture che proiettavano la mente e i pensieri nel futuro, una
piramide di vetro e metallo, di notte, mentre camminavo per strade
sconosciute mangiando frutta da una vaschetta trasparente, le luci in
alto, le immense vetrate, qualcuno viveva in quegli appartamenti?
Potevo arrivarci con immagini di vite inventate, i senzatetto seduti
vicino a un muro, le gambe incrociate, il bicchiere di plastica per gli
spiccioli, mi sentivo simile a loro, sapevo che se mi fossi veramente
lasciato andare sarebbe stato quello il mio destino, avevo paura,
avevo ancora tanta paura, di non trovare un posto dove dormire, di
non potermi lavare, di girare con i vestiti sporchi, non ce l’avrei fatta,
era una forma di annientamento che non sarei riuscito a seguire e la
sentivo nel cuore l’ansia di non sapere cosa avrei fatto il giorno dopo,
ero stato così tanto tempo richiuso nella gabbia che adesso la libertà
mi spaventava e anche la solitudine e i momenti in cui vagavo tra
migliaia di volti che non mi riconoscevano e mai mi avrebbero
riconosciuto e continuavo a non avere voglia di parlare e c’erano uno
sconforto e una desolazione così grandi in questa deriva che mi
inquietavano l’anima e poi attimi di assoluta bellezza, la luce che
trapassa il cielo grigio in un tramonto improvviso ed è così dolce e
delicata mentre mi guarda e io sono appoggiato al parapetto di un
ponte e osservo l’acqua e i ri lessi e le barche e le mani della gente
che si saluta e poi alzo gli occhi e le linee dei palazzi risplendono, così
diverse, così intense, in quelle forme che la mente crea negli spazi
bianchi che racchiudono ogni creazione.
Le prospettive cambiavano di strada in strada, gli edi ici
s’innalzavano e poi si rimpicciolivano, visti da sotto si allungavano
come strade di vetro verso il cielo, le immense camere piene di
quadri e le pareti rosse e verdi e il senso di stanchezza perenne,
questo trascinarsi lungo le ore che non erano più ore e l’alcol che
bevevo, ogni giorno, adesso lo capivo il suo aiuto, la sua capacità di
rendere malleabile la vita, quando tutto iniziava a sgretolarsi e
crollare e le vie incasinate di Camden, piene di ragazzini e negozi
stracolmi di merdate e il mercato e l’odore di decine di cibi diversi e
poi la sera e le birre e i locali e la musica e centinaia di volti differenti
e i frammenti dei discorsi e gli sguardi e le storie immaginate,
personaggi viventi che uscivano fuori da qualche allucinazione
passata, con i loro costumi e gli occhi, quegli occhi, quando riuscivo a
creare un contatto, avrei voluto comunicare così per il resto della mia
vita, mi veniva così semplice ed era così profondo quel modo di dirsi
tutto senza neanche scambiarsi una parola. Poi l’hashish ad alterare
le percezioni e la notte che dimentica come ci siamo perduti al suo
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interno, i treni che scorrono sotto la terra, i tunnel che creano
connessioni tra stazioni di una mappa scon inata, entriamo e usciamo
da questa miriade di possibilità, abbiamo le mani legate, spinti da
forze misteriose, alziamo lo sguardo su mattine proibite, il cuore si
calma e trova la sua quiete, perché nulla è vero e ogni ombra è solo il
ricordo di quello che siamo stati.

33.
Mi sono fermato nel mezzo di Tower Bridge, di notte, pioveva e avevo
una bottiglia di vino rosso da bere e guardavo i palazzi e le torri di
vetro e metallo con le loro luci e i punti rossi nel buio e una foschia
purpurea che ricopriva il cielo e nascondeva, a tratti, la punta di una
piramide incompiuta. Quali nuove divinità avevamo scelto di
adorare? Quali nuovi misteri ci attendevano nelle stanze sospese nel
vuoto? Quali antichi rituali sarebbero stati ripetuti sui tappeti cremisi
e le poltrone nere? Le cucine asettiche e bianche in cui avevo visto
uomini cibarsi di altri uomini, perché a distanza di millenni nulla era
cambiato, gli schiavi e i padroni e gli abissi di libertà che nessuno
riusciva a colmare con la propria vita e ancora vagabondavo lungo le
strade, nei parchi, mi sdraiavo su qualche panchina per riposare, mi
addormentavo, gli ultimi istanti di coscienza accompagnavano l’inizio
di luminose visioni, i respiri che avrei voluto fossero gli ultimi perché
ogni successiva boccata d’aria richiedeva un coraggio che non sapevo
se avessi posseduto e poi ero seduto in un treno e vedevo parti della
città per la prima volta e ancora quelle architetture che
trascendevano il presente in miraggi di un futuro apocalittico, niente
mi sembrava reale, perché appariva come un miraggio indotto da
qualche sostanza capace di alterare le mie percezioni, i lussi di
pensieri ancora scorrevano nella mente e mi disturbavano, irreali e
illusori, distraendomi dal momento presente, erano gli stessi pensieri
di sempre, ero così stanco di loro eppure continuavo a dargli
importanza, a renderli reali nel mio trascinarmi lungo vie di pura
immaginazione e ancora i bisogni del corpo, incontrollati, famelici, i
coglioni che pulsavano e non c’erano più dolci fantasie sessuali a
liberarli mentre mi masturbavo in un cesso solo per togliermi dalle
palle questo peso, gli orgasmi non avevano più effetto, li potevo
paragonare a una pisciata o a una cacata, solo che dopo ero più iacco,
era una cosa atroce e poi la sarebbe stata ancora di più, quando sarei
veramente invecchiato e il desiderio sarebbe rimasto, meglio
levarselo subito di dosso, meglio tagliare con tutti, rimanere
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silenzioso nella contemplazione della notte, dei movimenti dell’acqua
sulla super icie di un iume che ridisegna la metropoli secondo il suo
scorrere, ero stremato e dovevo ricominciare tutto da capo, avrei
imparato una volta per tutte a lasciare ogni cosa dove l’avevo trovata?
Avrei smesso di tenere le emozioni nel mio cuore? Sarei stato capace
di baciarti solo per non vederti mai più?

34.
Piove da questa mattina e inalmente Londra è reale e vedo le
macchine passare e le persone camminare ed è uguale a qualsiasi
altro posto dove potrei trovarmi in questo preciso istante e ascolto la
voce di Nico e sono ancora io a scrivere mentre le onde e le emozioni
arrivano e si infrangono sul cuore e questa notte ho avuto così chiara
la percezione di entrare in un sogno, il momento esatto del passaggio,
quando dal buio iniziano ad emergere le immagini che la mente
costruisce per strutturare i suoi mondi onirici e il mio corpo si è come
immobilizzato, era tutto così nitido e ho avuto paura e mi sono
svegliato, poi ho chiuso di nuovo gli occhi e quelle stesse immagini
sono tornate, i corridoi che prendevano spessore e forma e ci ho
camminato, come sempre, da solo, come la maggior parte dei giorni
che sto passando su questa isola, è un esercizio quotidiano, una
disciplina, una prova di coraggio, un modo per essere libero, forse,
per la prima volta nella mia vita.

Ci sono parole che non voglio più pronunciare e sentimenti che non
verranno più rivelati, ma se mi guardi solamente per un attimo negli
occhi e mi segui dove voglio portarti tu saprai tutto di me, solo allora
ti dirò il mio nome e ti dirò addio e proseguiremo, solitari, sulle
nostre strade.

35.
Flussi ininterrotti di persone, gambe e scarpe in movimento, i
pannelli neri con le scritte arancioni, le destinazioni, le partenze, di
stazione in stazione, sottoterra, sopraelevate, binari lucenti, quelli che
avevo visto un giorno a Roma, mentre vagavo senza meta o a Berlino
dopo che le pasticche avevano iniziato a fare effetto. Nelle ore che
accompagnavano l’arrivo dell’alba riuscivo a scendere in profondità
dentro me stesso e tutto era così calmo e quieto, lo scorrere delle
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emozioni e dei pensieri non mi spaventava più, lo lasciavo luire e lo
osservavo, poi di nuovo le strade e la vita frenetica e Londra che era
solo un’altra gigantesca illusione, le pareti della metro erano piene di
enormi immagini che catturavano gli sguardi e i desideri e le persone
scivolavano verso mete sconosciute e io avevo la libertà di rimanere
fermo a guardarle perché non c’era più nessun posto dove dovessi
andare. Seduto contro una ringhiera di ferro, dietro c’era il Tamigi e il
sole spuntava dalle nuvole e io respiravo e ogni cosa rallentava
intorno e dentro di me, sempre di più, quando ho aperto gli occhi il
tempo aveva smesso di esistere e tutto scintillava nella sua eternità.
Mi ero costretto a perdermi di nuovo e a compiere una ricerca, era un
passaggio necessario, lo sciamano diceva che erano i sogni la vera
realtà, che dovevamo vivere in essi e imparare da loro, diceva che
bisognava ascoltare il mondo per comprenderlo, mentre prendeva un
iore e ne staccava i petali e raccoglieva una radice e la pestava e la
mischiava con i petali e poi li faceva bollire nell’acqua, in una piccola
pentola, sopra un antico fuoco e mi ha dato da bere e ho bevuto e ho
vomitato e ho bevuto ancora e poi lui si è avvicinato e ha sof iato una
polvere nelle mie narici e ho chiuso gli occhi e le visioni sono arrivate,
le forme e i colori che si muovevano e pulsavano e poi mi ha
accompagnato in quell’altra realtà e abbiamo parlato e camminato e
incontrato demoni e volti e maschere e luci e ombre e mi ha spiegato
che bisognava perdersi nella foresta, da soli, morire tra gli alberi e
scon iggere la paura, solo allora sarei potuto tornare indietro e le
cose sarebbero state uguali e diverse perché avrei raggiunto una
consapevolezza che la morte era la vita e la vita era la morte e non
c’era nulla che noi potevamo fare per combatterla, vivere signi icava
abbandonarsi, non opporre resistenza, era quello che stavo provando
a fare, era dif icile ed era tutto ciò che avesse veramente importanza.

36.
C’era un piccolo fast-food dove vendevano le solite merdate che
mangiavano gli inglesi, vicino all’ostello dove dormivo a Londra e
quando tornavo di notte, ubriaco e affamato, mi fermavo lì, a divorare
un hamburger con patatine. C’erano alcuni arabi che preparavano i
panini e il luogo era asettico e anonimo ma loro erano molto gentili e
mi servivano sempre anche quando stavano per chiudere, poi me ne
andavo all’ostello, scendevo al bar e continuavo a bere birra, sidro o
cocktail, poi mi sdraiavo su un materassino ino a quando gli occhi
non mi si chiudevano.
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Credo di non aver parlato con nessuno in quei giorni, mi limitavo a
osservare gli altri, passavano, venivano, ragazzi di tutto il mondo, non
me ne fregava niente, tornavo nella stanza da dieci persone dove
dormivo, il sibilo dell’aria condizionata, il caldo, mi buttavo sul letto,
mi addormentavo, sognavo, vivevo in altri luoghi, mi svegliavo, mi
riaddormentavo, strani incontri, bizzarri personaggi. Poi di nuovo
fuori, per le strade, a vagare, i musei, le architetture che si
trasformavano in premonizioni e geometrie mentali e un senso di
desolazione, in alcuni momenti e la solitudine e i ricordi e il sonno,
quando mi sentivo stanco e cercavo un posto dove riposarmi, una
panchina, ancora, dove stendermi, la luce tra le nuvole, le visioni di un
vagabondo, la stanza buia di un cinema, le poltrone accoglienti.
I volti deformi all’interno di una galleria, le linee come gabbie intorno
ai loro corpi, i colori scuri, inquietanti, torbidi, le stanze in cui non
vorresti mai trovarti, le forme di un incubo che cola dalle tele, le urla
mute, gli sguardi che creano prigioni, le deviazioni psichiche possibili
solo all’interno di un mondo di desolazione e astinenza.
Dietro le tende, nascoste, le creature ghignano e strisciano lungo le
pareti, una mano che scuote la spalla curva di un vecchio, il sorriso
senza denti che brilla nel buio, le mosche che si posano su un
cadavere di cenere.

37.
La pioggia batteva tranquilla sopra la roulotte dove dormivo, avevo
un grande letto con una coperta arancione dai disegni orientali e
l’odore dell’incenso e le candele e una tenda che sembrava una
cupola, fuori dalla roulotte, nella quale potevo sedermi su un enorme
cuscino che cambiava forma e leggere e riposarmi e stare con gli
occhi chiusi ad ascoltare il vento e le foglie, le nuvole e il sole, quando
inalmente si mostrava, la sua luce che trasformava il paesaggio e le
colline circostanti, le stesse che poche settimane prima avevo visto in
un altro luogo, immerso in un sogno che non si ripeterà mai più e i
giorni passati a Liverpool insieme a Maria ed era come se nulla fosse
cambiato, eravamo ancora noi, con tutte le emozioni e le sensazioni
che ci avevano unito e separato ed era bello starle di nuovo accanto,
abbracciarla, darle un bacio su un guancia, vedere i suoi occhi che
emanavano quel bagliore speciale e abbiamo camminato come se non
ci fossimo mai lasciati e alla stazione, prima di salutarci, ci siamo
abbracciati e ho sentito un calore proprio nel centro del mio petto,
che si espandeva e allargava ad ogni respiro ed era l’amore, il suo
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amore che mi riscaldava e che diventava parte di me ed eravamo
stretti e le ho baciato i capelli e sono salito sul treno e poi lei mi ha
seguito e l’ho vista fuori dal inestrino e sono arrivate le lacrime e le
ho sorriso, poi lei si è girata ed è andata via e io l’ho continuata a
guardare e lei si è fermata proprio all’inizio del treno e ha aspettato
che questo partisse e poi è scomparsa e ancora ricordavo tutte le
volte che l’avevo vista allontanarsi ed aveva sempre quella tristezza
nel volto, era un essere meraviglioso e troppo spesso non ero riuscito
ad accoglierla nella mia anima come sarebbe stato giusto fare ino a
quando le ho dovuto dire addio e credevo che non l’avrei mai più
rivista mai poi ci rendiamo conto che se tutto è destinato a perdersi è
anche vero che ogni viso può essere ritrovato e baciato di nuovo e la
notte proseguono le strane vite che continuo ad attraversare e i
tramonti tra iggono le nuvole con la loro dolorosa bellezza, ci sono gli
occhi di un bambino che mi guardano, i suoi passi sul prato e la sua
gentilezza, imparo da lui, giorno dopo giorno, tutto quello che avevo
dimenticato, seguendolo piano nei suoi giardini di meraviglia.

38.
Le note di una canzone dei Gomez, Tijuana Lady e i ricordi della mia
stanza, quando ero un ragazzo e Flavia era venuta una sera ad
alleggerire il mio cuore per poi farlo sprofondare in un abisso ancora
più oscuro. Mi sono ritrovato in una casa di cui non avevo neanche
immaginato l’esistenza e la solitudine era ancora il luogo che più
preferivo e fuori pioveva e il cielo grigio abbracciava le colline e il loro
amore sembrava essere così sincero e passeggiavo lungo i sentieri del
mondo, perso nei pensieri che sempre affollavano la mente, tra
passato e futuro e un piccolo ramo è caduto per terra, proprio
davanti a me, richiamando la mia attenzione, ricordandomi di
concentrarmi sul presente e allora ho respirato e mi sono guardato
intorno e c’era solo quello che avevo davanti e il iume delle immagini
mentali si è fermato e ho ringraziato l’albero per la sua pazienza,
tutte queste preoccupazioni che iniamo per far diventare la nostra
vita, tutte queste risate e queste lacrime che trasformano il nostro
volto, dietro la maschera ci sono occhi immobili e puri, capaci di
vedere oltre le apparenze, il vuoto che brilla di luce soffusa.
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39.
La pioggia che accompagnava le mie giornate era come una dolce
amica, soprattutto nelle mattine, quando il calore delle coperte era
così accogliente e familiare e non c’era nessun bisogno di alzarsi o di
rispettare un orario. Il mio corpo, però, continuava a mantenere i
vecchi ritmi, ci ero stato troppo tempo nel meccanismo e ancora non
riuscivo a liberarmene completamente. Vivevo in una roulotte con
cuscini orientali e incenso e un grande letto e un senso di abbandono
e decadenza che era perfetto per me e un giorno, quando l’energia
sessuale era troppa, mi sono legato i coglioni e sono entrato in quella
che una volta era la doccia della roulotte e nell’elastico che avevo
intorno alle palle ho inserito un piccolo vibratore, l’ho acceso e ho
aspettato che sborrassi, senza toccarmi. Gli schizzi bianchi e
appiccicosi sul pavimento lurido, il suono dello sperma che cadeva
veniva ampli icato dalle sensazioni dell’orgasmo, non che me ne
fregasse più niente, questi rituali mi ricordavano quelli di un tossico,
il laccio intorno al braccio, la siringa nella vena, il lash di piacere,
ogni cosa che perdeva importanza. Poi i momenti in cui mi sedevo
nella posizione del loto e meditavo e guardavo dentro di me e c’erano
quiete e lenti respiri e una calma dorata e la vita al di fuori di quel
luogo, gli occhi aperti, i iori, le colline, la nebbia e il grigio del cielo, le
carezze rosa del tramonto, un ennesimo abbandono, un altro addio,
come se non ne avessi dati abbastanza.

40.
Mi svegliavo con il rumore della pioggia e una volta aperti gli occhi
non riconoscevo mai il luogo in cui mi ritrovavo. Una roulotte, c’erano
dei vestiti sul tappeto orientale che ricopriva il pavimento di legno e
faceva freddo, mi sono avvolto nella coperta e mi sono alzato, ho
aperto la porta, fuori c’era un mondo nascosto dalla nebbia, bagnato e
grigio, le sagome degli alberi, quelle di una casa, mi sono vestito e
sono uscito.
Dentro le stanze della casa non c’era nessuno, solo polvere ed echi
silenziosi, le ragnatele, dei barattoli su un tavolo, ne ho aperto uno, ne
ho mangiato il contenuto, non sentivo alcun sapore, ho girato per le
altre camere, ho guardato fotogra ie sbiadite, ho accarezzato abiti
dimenticati, mi sono seduto e rimesso in piedi.
C’era una strada e ho iniziato a camminarci, a seguirla e gli alberi si
nascondevano e così il cielo, la pioggia era sottile e la sentivo sulla
faccia, avevo una giacca impermeabile e un maglione e scarponi e
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camminavo e il mio cuore era vuoto, ogni tanto c’erano ancora
immagini nella mente ma diventavano giorno dopo giorno più
sbiadite, svanivano i contorni dei volti e quelli dei sorrisi, c’era stata
una vita, in un altro tempo e in un altro luogo, che era appartenuta a
un uomo con le mie stesse sembianze ma quell’uomo non ero più io,
non sapevo dove fosse ora, sicuramente non era qui, volevo solo che
anche quegli ultimi bagliori svanissero, le poche parole di Lynn
quando ci siamo detti addio, in una mattina triste e svogliata a
Swansea, trascinavo ancora per quella città le mie valigie prima che le
perdessi da qualche parte, poi c’erano state notti e giorni di cui avevo
distrutto la memoria e tutte le direzioni che avevo deciso di non
seguire mai più, un bastone stretto in pugno, un passo dopo l’altro.
Un passo
dopo
l’altro.

41.
Avevo fatto un fuoco con dei rametti e dei cartoni e dei pezzi di legno
di inestre abbandonate mentre la sera si prendeva il suo tempo,
calma, lenta, meravigliosa nel modo in cui sfumava i colori del giorno.
Il tramonto avveniva nell’arco di ore e guardavo la legna che crepitava
e la danza delle iamme e ogni tanto alzavo gli occhi al cielo per
vedere se le stelle fossero arrivate ma loro ancora non avevano deciso
di mostrarsi e allora tornavo a contemplare il fuoco e poi ho visto una
piccola luce brillare nell’oscurità, proprio sopra di me e poi un’altra
ancora e ho abbassato di nuovo gli occhi e le scintille che si
sprigionavano dalle iamme e si alzavano per scomparire tra le ombre
del mondo erano identiche a quelle luci lontane e allora ho capito che
non c’era nessuna differenza, che erano entrambe lo splendere di
un’unica essenza e la notte ha avvolto ogni cosa con il suo mistero e
gli alberi erano forme nere e sensuali e la polvere dell’universo veniva
gettata nel buio in inito e tra le braci ancora ardenti ho provato a
leggere il mio destino, poi ho chiuso gli occhi e sono diventato il
sogno di un altro me stesso, ancora addormentato, da qualche parte,
nell’illusione del suo vivere.
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42.
Il cielo è di nuovo grigio. Il risveglio nella roulotte con il familiare
rumore della pioggia che ci batte sopra, il vento tra le foglie degli
alberi e i ricordi dei sogni da scrivere su un quaderno nero. Avevo
trovato dei piccoli funghi nell’orto in cui avevo lavorato il giorno
precedente e li avevo mangiati, avevo sentito quella sensazione, che
qualcosa stesse per succedere, che le mie percezioni stessero per
cambiare, ma poi non avevo oltrepassato il bordo dello specchio,
forse ne avrei dovuti cogliere di più. La terra era morbida e umida e
c’erano radici e vermi e avevano la stessa forma, strappavo le piante
che disturbavano la crescita di quelle commestibili, ho assaggiato una
radice per sapere che gusto avesse ed era amara, ho passato una
giornata con una vanga in mano ed è stato faticoso e appagante e
quando ero stanco mi fermavo e guardavo il cielo e le colline ed era
meglio che essere rinchiusi in quattro pareti davanti a un computer.
Mi sono messo delle mutandine da donna sotto i pantaloni da lavoro,
giusto per avere un po’ di assurdità nella vita, qualcosa di bizzarro e
imprevedibile. Il pomeriggio ho sborrato nel cesso di legno vicino alla
roulotte, con un piccolo vibratore legato ai coglioni e al cazzo, senza
toccarmi, giusto per avere un po’ di assurdità nelle mie fantasie di
masturbazione. Poi durante il lungo tramonto ho camminato ino a
uno spazio aperto per ammirare la magia della luce e in un campo
c’erano dei giovani lama, con i colli che si muovevano snodati e non
sapevo se fossero reali o una visione, anche perché i loro contorni
sembravano brillare, mi sono fermato a guardarli e le nuvole erano
tra itte da raggi di rara bellezza e durante la notte ho acceso un altro
fuoco e l’ho contemplato per ore, le stelle erano nobili e arcaiche
presenze, gli ho posto delle domande che non hanno avuto risposta,
forse perché non c’era più nulla da chiedere, allora ho accolto il loro
silenzio come una benedizione, quel lontano splendore era il loro
modo di esprimersi, isso e lucente, sono andato a dormire ancora
con le mutandine da donna addosso, giusto per quel po’ di assurdità
che anche i sogni richiedono.

43.
Ero tornato a vagare per le strade di un’altra città, Cardiff, le
ennesime persone che mi scivolavano addosso. Stavo iniziando ad
avere timore a guardare le donne, soprattutto di notte, nei loro vestiti
corti e attraenti mentre io avevo sempre gli stessi jeans sformati e
una maglietta bianca. Alcune volte pensavo che i tipi della security
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non mi avrebbero fatto entrare nei locali, ma ancora non era
successo. Camminavo e cercavo di concentrarmi sul presente e ogni
volta che i ricordi tornavano a danzarmi nella mente mi fermavo un
attimo, respiravo e poi riprendevo a camminare e la notte diventavo
solo un’ombra che si muoveva nel buio e in un parco ho bevuto una
confezione da quattro di birra e ho percorso un sentiero e sono
arrivato vicino a un iume e c’era un piccolo fuoco acceso sulla riva e
nessuno intorno, mi sono chiesto chi lo avesse fatto e l’ho iniziato a
guardare, poi sono andato a prendere altri rametti e l’ho alimentato e
lui brillava accanto all’acqua che scorreva, la mia esistenza, pensavo,
doveva andare via così, non doveva rimanere niente, nessun residuo,
nulla a cui potessi aggrapparmi, lascia andare via tutto, mi ripetevo,
lascialo andare.
Sono tornato indietro e in un prato ho trovato una mezza canna
d’erba, l’ho fumata ed era buona e così mi sono perso nel parco con
gli alberi che parlavano nel vento con la loro voce di foglie. Poi, per
strada, le altre ombre hanno iniziato a riconoscermi e a salutarmi e
sedevano negli angoli delle vie o attaccati a un muro, chiedendo
l’elemosina e cominciavo a sentirmi come loro. Era dif icile
abbandonarsi, ci stavo provando, scioglievo i nodi del passato, giorno
dopo giorno, c’erano attimi di estasi luminosa, improvvisi e magni ici,
c’erano così tanti volti intorno, così distanti e fuggevoli, era un mondo
che non capivo e di cui non volevo fare parte, soprattutto nelle città,
tra i palazzi di vetro, perché lì appartenevo a quelle architetture
dell’inconscio e in esse mi smarrivo, costruivo le torri della mia
deriva, splendevo nei ri lessi delle ore, avrei solo dovuto sedermi in
una di quelle strade, chiudere gli occhi, respirare e sorridere, senza
opporre più resistenza a nulla.

44.
Avevo riparato il tetto della casa di pietra, durante la mattina e
sistemato la legna vicino alla stufa, poi mi ero seduto su una poltrona
di pelle logora, mezza sfondata, il regalo di un amico, di tanto tempo
fa. C’era della polvere che non avevo più tolto, dalle inestre e da tutto
quello che avevo intorno. Avevo amato in da subito questo luogo, le
colline e la loro luce meravigliosa, erano anni che vivevo tra i boschi
eppure il tramonto che ogni sera vedevo continuava ad emozionarmi,
quella vista, quella pace, il modo in cui i colori diventavano così tenui,
dolci, umani e divini.
Mi ero preparato una tazza di tè sulla vecchia stufa, dopo averci
acceso un fuoco all’interno, ero nella grande stanza centrale, con i
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suoi muri di pietra e i suoi fantasmi, mi venivano a trovare, ogni
tanto, quando li vedevo nel movimento di una tenda nell’aria o nei
ri lessi di un vetro. Facevo lunghe passeggiate e raccoglievo dei
funghi, avevo imparato a riconoscere quelli magici, li mangiavo e
continuavo a camminare, le prospettive che cambiavano in scenari
gloriosi e splendenti, tonalità e sfumature che vibravano come onde
nell’aria e i pensieri che esplodevano come scintille su ogni ilo
d’erba. Non c’era più nessuno a cui dovessi raccontare la mia vita,
perché non c’era più nulla da narrare, anche il libro nero si era
ricoperto di polvere, riposto in un cassetto dimenticato. Bevevo vino,
gin, una volta alla settimana scendevo al paese con la mia macchina
scassata e compravo le provviste per quella successiva, scambiavo
qualche parola, qualche sorriso con la gente del luogo, poi ritornavo
alla mia solitudine.
L’autunno aumentava l’odore dei ricordi, il legno bruciato e la cenere,
tutto quello che avevo voluto le iamme distruggessero, le fotogra ie
sbiadite, quelle strappate, solo nei sogni quegli incontri avevano
ancora un senso, continuavamo a essere giovani, io, i miei amici e le
mie amanti, chi avevo perduto, ancora intrappolato nei giorni, la
mattina accendevo di nuovo il fuoco nella stufa e preparavo il caffè, lo
bevevo lentamente, su una sedia di legno, con cuscini orientali ormai
deformi, mi accarezzavo la barba, un gesto che non avevo mai saputo
abbandonare, c’erano così tante cose da fare perché nessuna di esse
aveva più importanza, non c’erano tanti pensieri, perché le azioni
riempivano gli spazi mentali, poi fuggivo ancora, per il rischio della
scoperta, oltre gli alberi e le rocce e le montagne, oltre gli sguardi di
chi non avevo più incontrato, lontano, in paesaggi remoti, interiori,
poi tornavo nel mio corpo, in piedi, appoggiato alla porta, la pioggia, il
silenzio, questa terra era l’incanto di un luogo mai esistito.

45.
Tirerò avanti, in un modo o nell’altro e dimenticherò voci e volti,
promesse e bugie. Gli ultimi giorni erano spariti a grande velocità,
inghiottiti dall’alcol, dal vino e dalle birre. Gli sguardi ubriachi di una
ragazza che mi invita a ballare, il contatto delle nostre mani, un
vecchio hippie a cui chiedo una presa di tabacco e che magicamente,
sorridendo, tira fuori una scatoletta piena d’erba, rollo uno spino, ne
fumo metà e poi glielo passo, qualcuno suona sul palco di legno, una
donna di colore canta con una voce densa e profonda, che si espande
nello spazio in maniera suadente, bevo altra birra, gin and tonic,
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cammino per il buio delle montagne barcollando, poi qualcuno mi
chiama, salgo in una macchina, partiamo, ci fermiamo vicino ad un
iume dove Tom si spoglia e si tuffa, completamente nudo, nell’acqua,
Tam parla con un suo amico o con qualcuno che ha conosciuto alla
festa e io mi addormento, ubriaco, sul prato. Poi le tenui luci dell’alba,
una voce che pronuncia il mio nome, come quella di Lynn quando lo
ha sussurrato prima che l’accompagnassi all’aeroporto, nell’aurora di
un’altra vita.
Tom era entrato in casa con un’urna di plastica verde, con le ceneri di
suo padre dentro, rideva di quella polvere, mentre tenevo l’urna in
mano e lui mi scattava una foto. I viaggi in macchina in montagna, la
casa di pietra e legno, oggetti abbandonati da spostare, folli idee,
vortici esistenziali che ti possono rapire e portare con loro, ancora la
voce delle foglie, la mia sborra che colava sulle lastre di roccia piatta
davanti ad una porta sfondata, il fuoco, i piccoli funghi, gli incredibili
colori della luce sulle colline mentre attraversava le nuvole e io mi
immergevo in scon inate visioni, le scintille fra gli alberi, il diamante
della realtà brillava e io lo ammiravo, sdraiato vicino a un iume,
l’acqua scorreva in leggeri gorgoglii e la codeina iniziava a fare effetto,
galleggiavo dentro me stesso, sospeso sulle note di discorsi che non
ascoltavo, il pavimento e i tappeti fradici mentre mi sono alzato di
notte per andare a pisciare, qualche tubo si era rotto inondando la
casa di acqua, fuori e dentro un sogno, le foto con il cazzo duro, i
lunghi bagni in una vasca bianca, i discorsi alimentati dal vino, le
parole che si in iammano, i documentari, i ilm e il montaggio, le
immagini dell’India e la danza di Shiva, cado per terra mentre
cammino su un prato, i lividi sulle ginocchia e sulle braccia, il giorno
dopo, i miei ricordi preferiti, le apparizioni improvvise, gli ultimi
pensieri che svaniscono, le poesie da scrivere, quella da cancellare.

46.
Ancora qualcosa delle mattine dei miei vent’anni, quando era estate,
quella stessa luce e quella calma e io e Viviana ci svegliavamo e
facevamo colazione sul patio della sua casa al mare, altre sensazioni
che devo abbandonare, altri luoghi che non rivedrò mai più. C’erano
maschere grottesche negli angoli delle pareti e ragnatele e polvere e
dormivo su un materasso buttato per terra e c’era un quadro con il
disegno di un cappotto e il ritratto a matita di un fratello impazzito
troppo presto, un gatto scomparso chissà dove e la luna piena che di
notte richiamava maree e sogni, i iori di oppio appassiti sul
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davanzale e quelli ancora vivi dentro la piccola serra e il coltello nella
mia mano e le incisioni e il liquido bianco che colava su una sottile
lamina di metallo e io che lo raccoglievo e lo lasciavo seccare al sole e
dopo qualche giorno diventava di un colore marrone scuro, facevo
delle piccole palline e l’oppio era pronto, lo ingerivo nelle lunghe sere,
prima di stendermi sul materasso, avrei dovuto trovare una pipa o
forse, come spesso accadeva, sarebbe stata lei a trovare me e le lente
passeggiate sulla spiaggia, i ciottoli e le pietre, le scogliere nere e le
rocce millenarie, strati di epoche remote, le conchiglie e i fossili e
l’interminabile moto dell’universo quando lo osservavo sotto gli
effetti della psilocibina, le stelle che formavano coreogra ie lucenti e
danzanti, qualcuno aveva passato un anno intero dentro uno chalet di
legno a coltivare funghi magici, ne avevo scoperta una busta piena, in
un cassetto, erano secchi e ancora potenti e proseguivo il mio
apprendistato tramite i loro insegnamenti.
Il mio corpo nudo steso sulla pietra, la cappella che si ingrossava
mentre osservavo delle giovani ragazze camminare sulla sabbia,
entrare fra le onde, le risate d’argento, le loro natiche nel riverbero
dorato del mezzogiorno, il mio dito medio fra quelle linee, a giocare
con il buco del culo, mentre la mia saliva colava dalle tue labbra e
scivolava tra i seni, ti succhiavo e mordevo i capezzoli, poi è apparso
un uomo con il cazzo enorme che si muoveva nello spazio giallo e le
forme tremolanti di una visione, le copulazioni violacee, la mente che
si allarga in maniera concentrica, inarrestabile conquistatrice, le mie
mani sul culo di una ragazza mentre spingo la cappella rossa e gon ia
contro il suo ano stretto, mi inginocchio per leccarlo, c’è stato un
modo diverso di amarti nella calda brezza che spostava le tende, fra
ennesimi ricordi che si muovono come bianche vele di un orizzonte
smarrito.

47.
Vagavo per i boschi, poco prima del tramonto, raccoglievo dei piccoli
funghi dai prati, li mangiavo, poi m’immergevo nel verde, le sue
sfumature erano in inite come le possibilità della mia mente, le sue
storie, le sue percezioni. A volte ero completamente nudo tra gli
alberi, mentre immaginavo sentieri da seguire e coglievo segnali che
solo io potevo vedere, i ili di una ragnatela brillavano come i contorni
delle foglie, un iore di porcellana irradiava la sua gioia, le gocce che
cadevano dalle cime degli alberi come minuscole perle sospese nel
vuoto, percorsi d’estasi, rumori sconosciuti, antri oscuri e il muschio
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che era una sof ice carezza o la barba millenaria di un antico essere
iabesco. Davanti allo specchio, la mia immagine che si moltiplica ai
lati come nelle raf igurazioni delle divinità indiane, un iore purpureo
che si muove e si avvicina alla punta del mio cazzo mentre lo tiro
fuori per pisciare, lo inizia a succhiare, sof ici contrazioni ritmiche, un
vecchio indigeno mi guarda da un’antica fotogra ia, gli occhi immobili,
la lunga pipa in mano. La mia sborra colava sulla terra umida, la mia
voce diventava un’eco di piacere, sapevo che gli alberi mi stavano
guardando, chiedendosi chi fosse questo folle personaggio uscito
fuori da un’allucinazione panica, ero io la loro visione, la proiezione
di un mondo vegetale talmente perfetto da trasformarmi in caos.

48.
La nebbia stava scendendo dalle colline e le perle della rugiada
impreziosivano le foglie, avevo preparato una tisana con delle piante
che avevo trovato nell’orto e me ne stavo seduto in una veranda di
vetro e legno, leggendo un libro e attendendo una telefonata che
sembrava non arrivare. Una notte trascorsa in un luogo sperduto,
senza sapere come ci ero arrivato e come me ne ero andato, la musica
intorno al fuoco, qualcuno che mi passa un barattolo pieno d’erba e io
che rollo una canna, avevo bevuto parecchio, prima, in un enorme
teepee, ascoltando un concerto, con un piccolo cuore rosso disegnato
sul polso e la luce del tramonto che esplodeva tra i resti delle nuvole e
adesso c’era un altro falò davanti a me e altre persone che suonavano
e ho fumato di nuovo, poi mi sono alzato e sono andato verso una
strana casa, con enormi tronchi che sorreggevano il tetto e le pareti e
dentro riecheggiava il ritmo tribale delle percussioni e il mio corpo
che oscillava ipnotizzato da quella musica e mi sono seduto e ho
preso uno djambè e mi sono messo a suonare e nella mente si
creavano movimenti ipnotici mentre i pensieri si dissolvevano in un
nuovo tempo alterato, i battiti di altre mani sulla pelle dei tamburi e
una voce che si alzava calma, come una vela d’argento, su quei colpi,
sequenze che si ripetevano all’in inito, connessioni spiraliformi e
vibrazioni nel basso ventre. Un ragazzo olandese, silenzioso e triste,
seduto sul divano, i lunghi capelli biondi raccolti in una coda, due
anni in giro per l’Europa e qualcosa che si era perduto nel suo
sguardo, mentre oltrepassava le immagini delle colline per perdersi
chissà dove, il telefono rimaneva muto, avevamo un appuntamento
con un coltivatore di marijuana, forse si era scordato di noi, la casa
dove stavamo sembrava abbandonata, ci stavamo allontanando dal
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mondo, la mia memoria colava come un’ombra su una parete, le
ragnatele, le pagine ammuf ite, le foto lasciate su un tavolo, i piatti
sporchi in cucina, un materasso sfondato, l’ultima candela, il suo
tenue bagliore, grappoli d’uva non ancora maturi, l’infanzia nella casa
dei miei nonni, ci sono ancora le tue mani che mi accarezzano prima
che mi addormenti, i rumori di passi sconosciuti, i iori d’oppio
appassiti, ormai piegati verso il ventre pallido della luna.

49.
Paesaggi acidi, le nuvole sembravano respirare e i colori
risplendevano, poi le schegge di luce sulla super icie del mare e
ancora i ricordi che arrivavano come onde insieme alla loro tristezza,
le ultime memorie da cui dovevo liberarmi, contando i giorni per
sapere quanto ci avrei messo, l’avevo fatto così tante volte che ormai
avrei dovuto essermi abituato ma il mio cuore continuava ad
attaccarsi, a creare legami, che poi, inevitabilmente, ero costretto a
distruggere.
Suonavo la chitarra davanti a un fuoco dopo aver fumato una mezza
canna di ottima erba, ridevo, una donna molto più grande di me
cantava, poi le ho dato la chitarra e sono rimasto ad ascoltarla,
guardando le iamme danzare, i cerchi di rocce, gli antichi rituali, le
partenze in cui accompagniamo qualcuno che forse non rivedremo
mai più, i momenti perduti e ritrovati, osservavo il presente e ancora
qualcosa mi sfuggiva, scivolava fra le dita e si allontanava nel lusso di
questa vita, stavo imparando ad accettare ogni cosa, ogni incontro,
ogni attimo senza volere nulla per me, ero scomparso nelle città, ero
diventato un’ombra, ero un corpo misterioso nei boschi, mi
trasformavo in uno spirito invisibile e dionisiaco, i grappoli di uva che
ti scendevano nei seni, i tuoi sorrisi, le labbra, non ricordavo neanche
più l’ultima volta che avevo baciato una donna.

50.
Apocalissi di un’alba alcolica, la luce che distrugge le ultime difese del
buio, le rovine ovunque, lungo le strade, fra gli edi ici abbandonati,
nei volti deformi disegnati sulle pareti di mattoni. Un barbone
addormentato nelle sue luride coperte, il suo viso angelico, i
mozziconi di canna trovati per strada e fumati, birra e sidro in lattina,
mi perdevo nella folla, di nuovo un’ombra, un’immagine che le
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super ici di vetro rimandavano come il mio doppio onirico, un
vagabondo, la barba lunga, i capelli scomposti, i vestiti macchiati, gli
altri miserabili mi salutavano, c’erano degli sguardi d’intesa, mi
riconoscevano come uno di loro, ancora all’inizio della Grande
Discesa.
Le forme architettoniche apparivano e scomparivano scivolando
lungo la mia visuale, come quinte scorrevoli che mani invisibili
spingevano per un mio personale teatro psichico, i personaggi
posizionati nello spazio, pronti a recitare le loro battute, le maschere
tragiche che anni di vita di strada avevano creato sui loro volti. La
notte vagavo lungo i canali di Birmingham, ubriaco, la pioggia che
batteva sulla giacca impermeabile, seguendo le direzioni improvvise
di un’allucinazione diafana.
Il mio cazzo fra le labbra di una ragazza orientale, le ho inondato la
bocca di sborra e lei è rimasta così, per alcuni secondi, quasi stupita,
poi, senza neanche perderne una goccia si è fatta uscire fuori la
cappella dalle labbra, ha preso un fazzoletto e ci ha fatto colare la
sborra dentro, era educata e simpatica e abbiamo riso mentre
continuava a massaggiarmi senza avere nessuna idea di quello che
stava facendo, aveva delle belle tette e le ho leccato i capezzoli, aveva
un sorriso caldo e familiare e le ho dato sessanta sterline per farmelo
succhiare ed era così tanto tempo che non mi facevano un pompino
che sono venuto quasi subito, poi, per le strade, ho pensato a una
poesia del vecchio Hank, quando era stato con una dolce ragazza
messicana in un bordello fra i vicoli di Tijuana e poi ho pensato alle
mie amiche, a tutte le parole che gli avevo detto e scritto, mi avevano
accompagnato per alcuni periodi della mia vita, cambiando volto ed
età, mi chiedevo perché fosse stato così dif icile farsi succhiare il
cazzo da loro, forse non avevo mai avuto il coraggio di chiederglielo
direttamente, mi sarebbe piaciuto ricevere un pompino come un
segno di affetto, un regalo, una sorpresa, mi chiedevo perché con i
soldi tutto diventasse più facile o forse ad alcune ragazze piaceva
veramente fare i bocchini, essere pagate per farli e alla ine era solo
parte del solito gioco tra uomini e donne.
C’erano nuvole nel cielo e pensieri invisibili nelle menti delle persone
che attraversavano le strade, davo nuove possibilità alle storie
raccolte in un libro nero, le vetrate di un’enorme biblioteca del futuro,
guardavo avanti, creazione e distruzione, solo un attimo di equilibrio
prima che le macerie tornassero a sedurmi.
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51.
Una stanza ottagonale dalle pareti blu, le scarpe bagnate che
iniziavano a rompersi, le lunghe passeggiate senza una meta,
guardando per terra, alla ricerca di mozziconi di canne o sigarette
fumabili, i labirinti della psiche che potevano trasformarsi in
ossessioni. La maggior parte delle volte che mi svegliavo non
ricordavo come fossi tornato in quel letto, eppure ce l’avevo fatta, gli
incontri notturni, un tipo fuso dall’acido che parlava in spagnolo e
aveva vortici mentali che turbinavano verso idee senza uscita, i
capelli lunghi, qualcosa si era perso nel suo cervello, neuroni
psichedelici che ormai si scioglievano nei iumi di una grammatica
sconnessa e ignota, come la mia, quando parlavo un’altra lingua nei
miei personali teatri masochistici.
La città vecchia di Edimburgo, con i suoi vicoli che si aprivano come
misteriose ferite nelle facciate dei palazzi, scuri e algidi, le ioche luci
dei lampioni, gli uomini appoggiati ai muri, il bagliore delle pipe che
illuminava per brevi attimi i loro volti spaccati, le cicatrici, uno
sguardo d’intesa, la pioggia che cadeva, la sostanza in mano, gli
itinerari di uno strano animale notturno, che iutava l’odore dei suoi
bisogni e li inseguiva, un anello di costrizione alla base del cazzo e un
laccio di pelle a stringere i coglioni, nudo e inginocchiato davanti agli
stivali neri di una donna in divisa, erezioni dolorose che dipingono di
colori rossastri e violacei i bagliori di un’impossibile fuga.
Poi le passeggiate verso Leith e i pub ancora chiusi e l’odore del mare
e le ombre di Mark, Sick Boy e Spud che si allungavano sui muri, le
corse e gli inseguimenti e gli anni che si erano nascosti tra i banchi di
aule vuote in cui ero stato un timido e solitario ragazzo. Ogni volta
che qualcosa mi era sembrato diverso e speciale non era stato altro
che una ghignante illusione, avevo creduto e sperato nel modo
sbagliato, non aveva più nessuna importanza adesso il richiamo
dell’amore, non di quel tipo, c’erano fantasie proibite da realizzare e
dungeon sotterranei che attendevano i miei istinti, l’odore del cuoio,
quello del sudore, la pelle che brucia come un fuoco di epidermidi.
Avevo comprato dell’eroina e mi ero fatto una pera nel cesso di un
pub vicino all’ostello, c’era una fredda e lucida follia nelle strade e
improvvisazioni stilizzate su palcoscenici di sadica agonia, atti unici
di una crudeltà febbrile e primitiva e ancora la pioggia e le maschere
di cera che si scioglievano sotto luci arancioni, tutto era rallentato e
amniotico, qualcuno bussa alla porta, l’ago ancora in ilato nel mio
braccio.
Nel buio le facciate della cattedrale di York si trasformavano in
mosaici di volti demoniaci, le fessure oscure che penetravano nel
ventre dell’inferno, le litanie degli alberi come echi di sanguinari
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rituali, un mantello intorno alle spalle, un uomo mi invita a salire su
una carrozza, mi siedo e lui accende una lunga pipa, faccio alcuni tiri,
sprofondo in un oblio morbido come seta.

52.
Nelle città ero un’ombra, un’immagine oscura dai ri lessi confusi, una
forma dai contorni neri che si aggirava nei vicoli, lo sguardo basso e il
bisogno, anelli di costrizione e controllo, l’odore del cuoio e le
maschere grottesche fatte di legno e piume. Fuori dalle città, tra i
campi e le colline, guardavo le montagne e la loro magica presenza,
poi ero a una festa notturna, con i fuochi e la birra, l’erba da fumare, i
corpi che ballavano, i baci sulle labbra come saluti inattesi.
Nei momenti in cui smettevo di chiedere, di sperare, di pensare al
futuro ogni cosa diventava reale e meravigliosa e i doni arrivavano e
con essi un senso di quiete, era così dif icile abbandonarsi, lasciarsi
cadere, respirare con il ritmo stesso della vita eppure era l’unica
strada che fosse importante percorrere. Un lago di acqua fredda, i
pendii violacei e gli sguardi velati della luce, i ricordi che assumevano
le igure delle nuvole, scivolando nel cielo, gli echi dei pensieri
sussurrati in una grotta, le rocce lucenti, le speranze come arcobaleni
destinati a svanire, così brillanti e intangibili, l’odore dei tronchi e
della terra bagnata, c’erano sentieri ovunque in questo mondo e
nessun luogo dove andare, perciò, mia cara Alice, che importanza
poteva avere il percorso che avremmo scelto?

53.
Le sensazioni dell’estate, il calore sulla pelle e il verde intenso dei
prati, le grandi eliche che si muovono lente in distanti miraggi, le
scintille di luce che vibrano sulla super icie di un lago, leggeri colpi di
pennello e vernice gialla sulla tela mentale e una donna che piscia
poco lontano da me, abbassandosi i pantaloni, il getto potente
dell’urina, le sue risate e i suoi seni enormi, i suoi capelli che hanno
sfumature di fuoco e rame.
Mi aveva fatto fumare della buona erba, la notte prima e lei ballava e
rideva e sapeva cose che avevo dimenticato, cose a cui non riuscivo a
dire addio, come l’amore e le emozioni che prendevano forma nel
cuore e ti trasportavano con loro ed erano aria e profumi e petali
delicati e canzoni e musica e la luna piena alta nel cielo che ci
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guardava mentre il fuoco bruciava in un cerchio di pietre e di nuovo
steso su un prato, gli occhi chiusi, i ricordi di Maria, i ricordi di
un’altra vita, c’era un con ine così sottile in tutte le nostre azioni,
bisognava possedere un equilibrio che era dif icile da mantenere,
quando i pensieri e le illusioni, con il loro carico di distrazioni e
malinconie, ci facevano oscillare sui bordi dell’abisso e ancora cadute
e discese, la terra nera e il suo odore, le notti in cui ho camminato
come un tossico, le mattine di silenzio e quiete nella mente, quelle
albe erano un dono di pace, vele bianche sopra un mare lucente e
calmo.
Le note di un pianoforte, Matteo che suonava tutto The Wall dei Pink
Floyd in una grande stanza piena di quadri, io e Maria seduti nella
cucina a parlare con la madre, l’ultima volta che l’ho vista. Siamo
destinati a perderci perché siano ancora più inaspettati i nuovi
incontri, non porterò nulla con me, lascerò che questi volti
scompaiano, non ci saranno più memorie a cui darò nome, non ci
saranno frammenti di gioia e schegge di dolore, le ultime parole, gli
ultimi sguardi, iniremo di divorare anche questa polvere in una
camera solitaria, fuori dalla inestra posso osservare il cielo
trasformarsi.
Sanguinano d’oro le nuvole nel loro dire addio al giorno.

54.
C’era ruggine sui binari e rovi e arbusti e oltre le lunghe ile di case e
mattoni appariva la sagoma sfuocata nella luce di una centrale
nucleare e dei suoi muti reattori e nuvole nel cielo come stampe
impressioniste, un foglio di carta gialla, appallottolato e gettato per
terra, un abbraccio alla stazione, troppo lungo e stretto per essere un
semplice saluto, il corpo aveva il suo linguaggio, fatto di brividi e
calore, battiti e respiri, lo sguardo di una giovane ragazza che non
avrei più rivisto, era meglio così, era sempre meglio distrarre gli occhi
dalla bellezza, perché altrimenti ci si iniva per credere a quelle
forme, ai capelli e alle ciglia, alle dita e ai profumi e il cuore era una
gabbia che troppe volte avevo ascoltato chiudersi e in questi nuovi
giorni, che diventavano settimane e mesi, riuscivo a tenere una
distanza, a non commettere i soliti errori, anche se alcuni pensieri,
delle voci e delle immagini tornavano a scorrere sullo schermo
mentale, dissolvenze incrociate tra passato e presente con i colori di
magni ici tramonti, il buio improvviso di una galleria mentre gli
uccelli volteggiano nell’aria e nei parcheggi ci sono macchine
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immobili e lucenti e uomini chinati a raccogliere ri iuti e lattine di
birra vuote. Un divano sfondato appoggiato ad un muro dove potevi
sederti di notte e osservare le stelle e pensare a tutte quelle volte che
avevi alzato gli occhi verso quegli in initi bagliori, chiedendoti
quando sarebbe cambiata la tua vita e ogni cerchio doveva essere
chiuso e il dolore che questa ine portava con sé e le mattine in cui
c’era ancora qualcuno da stringere sotto le coperte mentre i sogni
sprofondavano dentro la loro stessa essenza, il tuo volto che
riemergeva dalle strade in cui si era perso e ogni fredda aurora in cui
ho cercato un’ultima parola da dire, perché fosse piena di poesia la
tua esistenza, sei arrivato troppo tardi nei luoghi che avevi deciso di
non vedere, hai confessato i tuoi sentimenti nei modi e nei momenti
sbagliati, hai osservato il mondo piegarsi come la pagina di un libro
mai scritto, eri tu e un altro mentre vagavi nei vicoli bui, i contorni del
futuro trasformati in edi ici industriali, i piloni dell’alta tensione, il
fumo denso in lontananza, la fabbrica delle nubi, la luce obliqua tra
gli alberi, lei che guida assorta, guardando la strada che le scorre
davanti, hai veramente trovato quello che stavi cercando? No, perché
non ho più nulla tra le mie mani che non sia sabbia e tempo e petali di
silenzio.

55.
Luce bianca e i contorni sfuocati delle montagne, un mare velato dove
inisce lo sguardo, le mie mani che diventano azzurre, ricoperte da
frammenti di ardesia bagnata, le gocce di sudore sulla fronte come
diademi di fatica, la maglietta fradicia, una casa piena di antichi
oggetti, i libri scritti in tedesco, un enorme apparecchio per
ingrandire le fotogra ie, il silenzio della notte e le lenzuola pulite, i
iori violacei, gli stami conici, una busta di plastica piena di funghi
essiccati, una poltrona sformata su cui sedersi ad osservare il proprio
passato, cosa rimaneva, per l’ennesima volta, di tutte le parole che
avevi detto? Degli sguardi e degli incontri? Cosa rimaneva dei giorni e
delle notti, del buio e del suo splendore? Nulla, assolutamente nulla. Il
tuo cuore continuava a battere, l’aria a entrare ed uscire, ti
abbandonavi alle solite malinconie, volti e corpi diversi, quello che
faceva più male era dentro di te, avevi aperto quella porta ed era stato
un errore, la musica era una melodia soffusa, ti eri tirato fuori da
tutto quanto, l’indifferenza era un gioco crudele, l’amore solo una
cicatrice più profonda delle altre.
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56.
Mi rendevo conto, notte dopo notte, risveglio dopo risveglio, che nella
dimensione del sogno c’era un livello più profondo di esperienze,
paragonabili a quelle di un’altra esistenza, nella quale mi ritrovavo a
vivere dopo essermi addormentato e di cui avevo vaghi ricordi la
mattina seguente. Dovevo concentrarmi su un particolare o su
un’impressione e da quella ricostruire ciò che era successo. C’era
anche un altro livello, più vicino e accessibile, erano i sogni fatti poco
prima dell’alba, quelli più vividi, quelli che alcune volte non avevano
nessuna differenza con le cose vissute nella realtà ordinaria.
Rimanevo chiuso nella mia stanza appena le luci scomparivano,
perché non volevo fare incontri nella casa, era troppo grande e
solitaria e c’erano ombre nascoste nei muri e gli spiriti di chi l’aveva
abitata e libri, libri sparsi ovunque. Ne avevo presi alcuni, fotogra ie e
illustrazioni di funghi, utili per riconoscere quelli allucinogeni, liberty
caps e psylocibe cianensis, poeti e iloso i tedeschi, i disegni di
Brughel, i demoni usciti fuori da qualche visione indotta dall’amanita
muscaria, lui e Bosch avevano dovuto conoscere molto bene le
proprietà di questo fungo e li immaginavo mentre camminavano per i
boschi alla ricerca di quella macchia rossa punteggiata di bianco, la
raccolta e l’essiccazione, l’ingestione, gli esseri deformi che
prendevano vita nella mente e che loro riportavano, con una cura
maniacale dei particolari, su una tela.
Pioveva durante il giorno con il costante rumore delle gocce sulle
tettoie di plastica e sulle inestre. Fuori le nuvole scivolavano su un
cielo grigio dalle sfumature marine. Poi inaspettate giornate di sole
come ferite ancora luminose nella memoria. Gli improvvisi squarci di
luce, quando tutto appariva come in una visione acida. I panorami che
gli occhi sembravano incapaci di credere reali. Gli arcobaleni che la
natura disegnava nell’aria. Le ombre di due uomini chini fra gli alberi.
La notte che inghiottiva gli ultimi colori del giorno in un tragico e
apocalittico tramonto.

57.
La casa era grande e vuota e silenziosa, con l’ombra di un triste
ragazzo proiettata su un muro, quando il fuoco disegnava i suoi
ricordi e lui sedeva su una poltrona davanti alle iamme, aggiungendo
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ciocchi di legna, perché quella danza malinconica e luminosa
continuasse a vivere.
Poi le passeggiate nei boschi, durante un temporale, le voci degli
alberi, lo scorrere di un iume, i richiami delle pecore e le montagne
velate dalla nebbia, le cave violacee di ardesia e il pro ilo rossastro di
una collina. Una giovane ragazza era seduta su un muretto di sassi, il
volto che si girava per guardare lo scrittore che camminava,
incuriosita, un saluto, gli occhi lucenti, i miei vestiti sporchi e l’aria di
un vagabondo.
Sarebbe stata una benedizione perdersi e non ritrovare più la strada
di casa, sarebbe stato il modo migliore per scon iggere le mie paure.
Di nuovo quelle mura, ad attendermi, con i libri e le pietre e gli
oggetti che la memoria di un luogo continuava a custodire. Lo
scrittore preparò un tè e si sedette nella veranda, non c’erano forme
oltre le inestre, solo una tela grigia senza nessun segno. La pioggia
batteva e il tempo rallentava, non c’era mai stato nulla d’importante
da dire, così tante le parole sprecate, così lunghe le attese, i giorni
smarriti nel vortice dei pensieri, la quiete di questo momento, chiudi
gli occhi per osservare con attenzione quel vuoto a cui appartieni e
che è la tua dimora, la tua essenza, la vita che scompare e riappare
nella distanza fra un respiro e quello successivo, le maree degli anni,
le spiagge sconosciute sulle quali, alla ine, tutti noi approderemo.

58.
La sagoma di una torre sulla sommità di una collina, la nebbia e la
foschia che la avvolgono in mistiche apparizioni. Gli uomini
camminavano nella notte, le torce in mano, una lunga ila di piccoli
fuochi fatui che risaliva le linee di pendii misteriosi.
Le immagini delle nervature delle foglie di vite impresse nella retina
dei miei occhi, mappe di memorie svanite, i tralicci dell’uva come
strutture di pensieri tentacolari, la mente si muoveva in maniera
circolare, oscillava in un lusso di ricordi, i volti erano solo accennati,
apparivano e svanivano senza lasciare tracce. La terra era curva e
sembrava appartenere a una visione indotta dalla salvia divinorum, la
realtà seguiva il movimento di circonferenze impossibili, il rumore
nitido delle ali degli uccelli che battevano nell’aria in una giornata di
sole dove i colori esplodevano in tutta la loro potenza e i contrasti
cromatici diventavano ferite, profonde e antiche come le strette
strade di campagna dove camminavo, un cane al mio ianco, i cottage
di pietra, silenziosi e perfetti nella loro solitudine, l’odore dello zolfo
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sulla pelle e gli occhi gialli e demoniaci delle capre, i sussurri della
notte quando la fatica cominciava a sciogliersi, il corpo di pietra poco
prima di entrare nel mondo dei sogni, in alcuni luoghi le esperienze
oniriche erano più intense, erano posti speciali, la mia mano che
ripeteva ipnotici gesti, una stella di vetro azzurro appesa ad una
inestra, l’alba che la attraversa sotto manti di grigio candore, le vesti
leggere dell’aurora in un cielo d’infanzie rapite.

59.
Non le avevo detto niente, lei si era avvicinata con la testa al cavallo
dei miei pantaloni, li aveva slacciati e aveva preso il mio cazzo in
bocca. Eravamo in macchina e mi era venuto spontaneo spostare lo
specchietto retrovisore, come fosse l’obiettivo di una videocamera e
inquadrare il suo volto mentre mi stava succhiando la cappella.
Il rumore della racchetta da badminton che sibilava nell’aria mi
ricordava quello di un frustino, la immaginavo con quello strumento
in mano, mentre fendeva lo spazio silenzioso di una camera, sarei
rimasto in ginocchio in un angolo, osservandola e attendendo i suoi
ordini.
Le stanze di quegli edi ici sarebbero state perfette, una sala per i
giochi, un’altra per le torture.
Una sera che eravamo usciti insieme si era messa una gonna nera di
pelle, doveva intuire le mie fantasie, ci avrei sborrato sopra, se solo
me lo avesse chiesto, quando camminiamo sul con ine del sogno, non
ci è data la possibilità di sapere da quale parte ci sveglieremo.

60.
Potevo vedere il giorno nascere, oltre le colline della baia, iltrare tra
le tende e svegliarmi, potevo affacciarmi al balcone ed osservare il
mare, ancora quieto e lucente in questi giorni di ine agosto.
Poi i sentieri dorati sui quali passeggiare, una spiaggia nascosta, gli
enormi massi levigati dall’acqua, una cascata invisibile che creava
arcobaleni nell’aria, le fotogra ie delle chiese e dei cimiteri e le statue
delle divinità indiane, i gatti che camminavano lenti sui tappeti e le
siringhe di mor ina appoggiate sul tavolo, una seconda vita era
possibile, nei luoghi dell’immaginazione e in quelli dei sogni, i disegni
psichedelici e i ricordi di quando eravamo stati giovani, sarebbe tutto
cambiato perché nulla era destinato a durare, una in inita malinconia
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che il tempo tesseva intorno a sé stesso, le gambe di bianca luce di
una ragazza che riposava sulla spiaggia, le notti passate ad ammirare
le stelle con una bottiglia di vino rosso in mano, gli strani edi ici sulla
sommità di una collina, gli esperimenti e i libri di fantascienza
disposti in ordine alfabetico all’interno di un’antica libreria, una
chitarra coperta di polvere, saremmo rimasti accanto a chi non
poteva andare più avanti? C’era una moltitudine di emozioni che il
cuore si ri iutava di abbandonare, le loro sfumature erano di una
bellezza straziante, cercavamo di rappresentare i nostri umori
attraverso uno sguardo improvviso sulla realtà, scrivevamo poesie
per non lasciare che i brevi momenti di gioia andassero perduti,
inventavamo la nostra felicità perché era l’unico modo per renderla
reale, sarei stato all’interno di questo giorno ino a quando ogni
attimo fosse stato così indispensabile da diventare super luo.

61.
C’erano scie di malinconia in ogni ricordo che il cuore tratteneva con
sé e le onde del mare che risuonavano di risate e discorsi perduti,
quelli che facevamo sulla spiaggia, vicino alla tua casa, non ero più
tornato su quell’isola, non ne avevo avuto il coraggio, c’erano odori
che appartenevano a quel luogo, la luce dell’estate e i suoi colori,
quelli del tramonto sull’acqua e anche le tue mani e le labbra bagnate
e le carezze e i pompini fra le rocce e in ogni granello di sabbia potevo
scorgere un frammento d’in inito, il calore sulla schiena, sul volto,
sulle palpebre chiuse e i racconti dei marinai scomparsi da questa
terra, le rovine di un porto, perché non c’era più nessuno che avesse il
coraggio di lasciare la propria casa e tutto quello che possedeva e
partire, le scoperte facevano paura e anche gli addii e la spuma bianca
che si infrange sugli scogli, la sua voce e il suo respiro e una linea
azzurra, lontana e irraggiungibile, oltre la quale il mondo stesso
curvava per ripetersi al di là delle possibilità dello sguardo, un
momento in cui non avessi pensato più a nulla sarebbe stato un
attimo di pura libertà, lo sapevano le pietre che si scrollavano di
dosso il peso dell’esistenza e le nuvole e l’aria che ti alleggerivano
dentro, potevi sentirlo l’arrivo della pioggia, ti avrei stretta ancora
sotto le lenzuola della notte, perché non potevo abbandonarti in quel
buio anche se pensavi che l’avessi fatto, ti portavo con me, giorno
dopo giorno, tra il cielo e le stelle e i iori di luce che da essi
nascevano in ogni alba che continuava a s iorarmi.
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62.
Andavo da Morlan per le droghe: erba, acidi, oppio. C’era un
parcheggio dietro il locale e una serie di stanze che il proprietario
af ittava, in una viveva un vecchio hippie e quando avevo bisogno
delle sostanze mi recavo da lui. Mi raccontava la sua vita e io gli
facevo delle domande, ero curioso e mi piaceva il modo in cui parlava,
il suo accento, la calma nella sua voce. Le giornate passavano lente,
come il mare che osservavo da una panchina, era un ottimo maestro e
avevo ancora molto da imparare, sapevo perché ero qui, le ultime
ossessioni ghignavano dalle pareti della stanza o sulle piastrelle
bianche di un cesso. Alcuni giorni vedevo l’oceano respirare, le onde
che arrivavano come fossero oro fuso e la luce che tagliava le nubi
esplodendo in una moltitudine di ri lessi, le rocce colavano liquide e
la sabbia pulsava in ogni suo granello, una miriade di stelle che
vorticavano in clessidre di attimi disintegrati e le sfumature del
tramonto come scie di colore in una prospettiva senza ine, la linea
dell’orizzonte diventava ondulata mentre il pro ilo delle colline si
sgretolava in decine di tonalità di verde e i gabbiani volavano al
rallentatore, lasciando segni azzurri nell’aria. I gatti che dormivano
sui divani mentre stendevo un cuscino sul tappeto e caricavo la pipa
perché la notte era arrivata e con lei la danza delle candele e dei
ricordi e chiudevo gli occhi un momento prima che i tuoi apparissero
nella mia mente, i quadri delle divinità indiane appesi ai muri della
stanza e qualcuno che dormiva in un letto di memorie disfatte, c’era
l’immagine di un uomo dentro uno specchio e il rumore della pioggia
poco prima dell’alba, quando scostavo le tende e lei accarezzava il
mio volto, mi giravo per guardarla, come fosse un’amante che stava
per svegliarsi, c’erano profumi che non avrei più respirato e pensieri
che solo le mie dita erano ancora capaci di esprimere.

63.
Era notte ed ero in piedi su una grande roccia, di fronte al mare,
quieto, c’era una foschia a nascondere i contorni del mondo e le stelle
erano velate, mute e silenziose. In questa oscurità non c’era nessuna
direzione da seguire, nessun destino da indovinare.
I primi segnali di luce fendettero la nebbia, due brevi, uno lungo, altri
due brevi, risposi allo stesso modo con la mia torcia e attesi.
La barca tagliò il grigio e arrivò sulla piccola spiaggia, alla sinistra
della roccia sulla quale aspettavo, scesi con attenzione ino a
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raggiungerla, io e l’uomo che adesso era di fronte a me ci stringemmo
la mano, senza parlare. Lui scaricò due casse di legno, poi accese la
sua pipa. Io avevo la mia, fumammo in silenzio, ascoltando i canti del
mare.
Tornai verso la casa, una antica chiesa che con gli anni avevo
ristrutturato, in cima ad una collina, poco distante dalla piccola
spiaggia. Portai prima una cassa, poi l’altra. Non c’era nessuno
intorno al posto dove vivevo. Le stanze erano piene di strani oggetti
che avevo collezionato durante i miei viaggi, gli innumerevoli libri,
album di fotogra ie sbiadite, statue, maschere, feticci, quadri e
disegni. Aprii le casse con il mio vecchio coltello da pescatore, il
manico di legno, la lama lucente nel ri lesso delle candele accese. Le
sostanze erano state imballate nel modo giusto, le avrei sistemate il
giorno seguente. Andai su uno degli stretti terrazzi che si affacciavano
sulle scogliere, un leggero riverbero ad oriente, mentre la foschia
diradava e la pioggia iniziava a cadere. Niente sogni, nessuna
consolazione. Un giorno dopo l’altro, il tempo si accumulava
riempiendosi di polvere. Era il momento giusto per una dose. Tornai
dentro e mi sedetti sul divano di pelle nera. Gli strumenti sul tavolino
basso di legno. Guardai la rapida apparizione di un volto scavato nello
specchio. Non lo salutai, ci conoscevamo ormai da troppo tempo.

64.
Gli ostaggi psichici rinchiusi nella casa sulla spiaggia, le gabbie dei
pensieri e dei ricordi e il tempo che colava come vernice viola dalle
pareti, gli occhi dei gatti, le fessure nere e le sostanze che qualcuno
ogni tanto mi spediva, arrivavano in anonimi pacchi marroni, di solito
il martedì mattina, se proprio vogliamo ancora dare un nome ai
giorni, suggeriva lo scrittore.
Il mare oltre le inestre, sempre diverso, capace di trasformarsi e
stupire con le sue maschere di acqua e aria, i travestimenti dai colori
improvvisi e una lampada a forma di pietra, la luce arancione che
pulsava al suo interno come un cuore di fuoco, ardente e bramoso,
perché c’erano ancora desideri sparsi sui pavimenti o sotto le
lenzuola, qualcosa che i cassetti della scrivania ambivano e tenevano
nascosto, la puntura di un ago e un sogno di vetro sferico appoggiato
su un tavolino e le immagini al suo interno quando la nebbia dei
misteri si dissolveva e appariva un volto, stanco, vecchio, pieno di
rughe e una lebile voce che ricordava quella delle crepe che la notte
osservavo sul sof itto e c’era un altro uomo, intrappolato nella sua
stanza, al piano di sopra, scendeva raramente, solo per mangiare o
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prepararsi una tazza di tè, giocavamo, ogni tanto, partite
interminabili sulla scacchiera della demenza, movimenti cerebrali in
linee orizzontali e diagonali, pensieri verticali che cercavano di non
rimanere schiacciati nei quadrati bianchi e neri e così reinventavamo
una geometria impossibile per le nostre architetture oniriche, i suoi
incubi che mi raccontava seduto su una poltrona nera, accarezzando
un gatto bianco, la voce bassa e rallentata dalle medicine, io che
mettevo un altro acido sotto la lingua e attendevo, onde sinuose che
attraversavano lo spazio chiuso di una camera, le chiome degli alberi
che parlavano in un bosco al tramonto, i loro discorsi di armonie
dimenticate, le forme che si stagliavano nel cielo, sempre più grandi,
in volo su veicoli del futuro, prospettive della terra, in profondità
lontane, serpenti d’argento che vi scorrevano indomiti, guardo
attraverso un prisma di cristallo, sezioni incandescenti della realtà,
parti di una visione che diventa nitida solo oltre la vista, stringimi
ancora prima di andartene, il tuo respiro è così vicino, ora, che ne
posso sentire il calore, mentre svanisce languido dalle tue labbra
socchiuse.
Una Splendida Scon itta
Parte terza
Sostanze
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65.
Il lusso dei miei pensieri si era perduto in una serie di frammenti di
discorsi notturni e all’interno della luce verde che disegnava un
cerchio sulla super icie di un tavolo c’erano le cartine, il tabacco e un
panetto di hashish marocchino, in penombra la curva di una sfera
lucida di hashish nepalese e il fumo delle sigarette e delle canne che
vorticava nel cono luminoso del tempo, che sembrava essersi
arrestato nell’orologio dimenticato su una delle pareti.
Lo scrittore seguiva con lo sguardo le crepe dei muri ino alle travi
che sorreggevano il tetto mentre le parole si aggrappavano alle sue
orecchie cercando una via d’entrata, per arrivare in quel luogo dove
sarebbero state trasformate in un possibile signi icato ma suoni e
impulsi mentali erano andati in cortocircuito e c’era un odore di
bruciato, proprio dietro alla stufa, uno specchio che stava diventando
incandescente e le venature rosse e pulsanti della legna che ardeva e
Nick seduto su una panca ricavata da un tronco, fuori dalla casa,
vicino ad una tenda mongola, la stanza dei giochi, Nick parlava con lo
scrittore e aveva una lunga barba e gli raccontava delle sue
esperienze con l’acido, le visioni, i volti ovunque, l’immagine del suo
viso che sembrava staccarsi dal proprio pro ilo, raggi di luce come
aghi di speranza e Ken, appena sveglio, che scende le scale sconnesse
che portano alla sua stanza, con una vestaglia mezza strappata e
raccoglie un mozzicone di canna dal pavimento, lo accende e si siede
al tavolo, grattandosi la testa, il telefono che squilla, lui risponde, la
voce roca, una sigaretta spenta nel posacenere, una carta di credito, la
prima striscia della giornata pronta su un piatto di metallo, la
telefonata inisce, il rumore delle narici che aspirano violentemente,
parole di gioia sconnesse, Ken esce dalla casa mentre Billy arrotola
un’altra banconota e tira una lunga riga di coca e si accende subito
dopo una sigaretta e comincia a parlare con Ollie, anche lui seduto al
tavolo, davanti ad una tazza di caffè, una lente dei suoi occhiali è
crepata e ci sono mosche attaccate a delle strisce pesticide che
pendono dall’alto, Ken ritorna, gli occhi spalancati come quelli di un
bizzarro primate africano, va in bagno, piscia con la porta aperta, sale
in camera, si veste, scende, si prepara un’altra riga e un’altra sigaretta,
beve una tazza di tè, si siede, prende un quaderno, scrive una lista,
rolla una canna ed esce di nuovo, senza parlare, Billy e Ollie lo
seguono, lo scrittore è seduto su un divano, gli occhi leggermente
chiusi, alcuni momenti di silenzio, il vento tra le foglie, nel bosco,
poco lontano, poi i ghigni stridenti delle seghe elettriche, un libro di
John Locke dalla copertina rossa buttato per terra, la mano dello
scrittore che lo raccoglie, l’indice che scivola sulla copertina a
proporre inalmente una tregua tra realtà e inzione.
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66.
Uno strillo nella notte, un grido di piacere, l’apice di un orgasmo
onirico nella mente dello scrittore, il suo corpo nudo steso su un
materasso di cemento, la luce verde ancora accesa, il suo sguardo
conico, le braci nella stufa rimandavano bagliori rossastri, era stata
Rebbecca ad urlare? Era stata lei a godere nel letto di Ken? Il vento
creava sibili tra le fessure delle assi della casa e scuoteva la tenda
mongola nella notte circondata dai boschi, le immagini di disegni
tribali oscillavano nelle prime luci dell’alba mentre l’ombra di un
uomo si appiattiva tra le sagome di bizzarre igure di legno, la testa di
un drago intagliata nei resti di un tronco e i volti di streghe e creature
maligne all’interno di un albero cavo, gli antichi rituali sussurrati tra
le foglie, qualcuno parlava a tavola e qualcuno ascoltava e le bocche
masticavano veloci e buttavano giù enormi quantità di alcol, lo
scrittore accennava dei sorrisi mentre afferrava un gin and tonic e si
dirigeva verso la porta per fumare, la pioggia continuava i suoi
discorsi in archi di luce che si perdevano nel buio, il calore di voci
lontane emanato dalla punta di una sigaretta accesa, Rebbecca
parlava al telefono con il suo editore, Ken era su una poltrona, gli
occhi leggermente chiusi, il bicchiere di vino ancora stretto fra le dita,
una bambina camminava nuda per le stanze donando meraviglia con i
suoi occhi, tutto quello di cui discutevamo nelle ore in cui l’oscurità
era viva, tutte le parole che ci siamo detti nei corridoi che i pensieri
seguivano per dimenticare da dove erano venuti, Geraint guidava la
macchina mentre Ken blaterava di isica e gravità principalmente con
se stesso, lo scrittore era seduto dietro e lasciava che l’aria gli
entrasse nelle narici per uscirne fuori trasformata in fumo, la sua
mano che prende una iaschetta di brandy e la sua bocca che dà una
lunga sorsata, poi il suo corpo allungato da qualche parte fra
immagini digitali sconnesse che appaiono e scompaiono su uno
schermo ad alta de inizione, le strisce di coca tirate nel mezzo della
strada, l’urna con le ceneri del padre di Ken appoggiata su un tavolo,
tra un posacenere e quaranta grammi di hashish marocchino, lo
scrittore che apre il frigo in cerca di qualcosa da magiare e trova due
buste di plastica piene di erba, i momenti in cui gli occhi erano chiusi
e le palpebre rosse super ici dove il giorno si trasformava in gloria, le
visioni liquide degli alberi che si scioglievano, qualcuno era seduto in
una sauna avvolto da strati di vapore, i suoi occhi violacei, un sorriso
misterioso, c’erano ore senza nome e nessuno che ti dicesse come
chiamarle, innalziamo barricate nel cuore per proteggere quel
silenzio, lanciamo urla nel vuoto luminoso che lo accoglie, nemici
invisibili nelle battaglie dei sensi e contro noi stessi.
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67.
Lo scrittore era seduto su un vecchio divano di inta pelle marrone e
parlava con una donna grassa e sudata, sprofondata in una grande
poltrona imbottita. C’erano immagini nella mente come altre versioni
di sé stessi, gli avatar che camminavano in un mondo digitale, libero
da regole morali e isiche, potevamo indossare una maschera
solamente per essere veri o perché volevamo interpretare la vita di
qualcun altro? Le pareti erano rosa e c’erano gatti ovunque, alcuni di
loro potevano creare connessioni psichiche e adagiarsi sui tappeti dei
tuoi pensieri, le code che dondolavano nel vuoto azzurro, lo scrittore
prendeva appunti sul quaderno nero e fuggiva i ri lessi degli specchi,
beveva caffè e sentiva un peso sul cuore, non sapeva se fossero le
centinaia di canne e sigarette delle ultime settimane o la presenza di
un amore perduto, perché c’erano ancora fantasmi nelle stanze con
cui parlare o giocare a scacchi e un’inquadratura dall’alto di un
bambino con le gambe incrociate su una moquette, il re e la regina, le
torri e i pedoni, i loro movimenti sconosciuti e una mano esperta che
dirigeva quei pezzi sulla scacchiera mentre il bambino li guardava e la
luce del presente ancora non si era trasformata nei bagliori di quella
della sua memoria.
Fuori dalla inestra il mare osservava la vita di chi non osava
avvicinarlo ed era quieto, a volte, con le rocce distese che
attendevano le sue carezze di spuma e sulla spiaggia c’era una
ragazza che si muoveva come un del ino attraverso cerchi di fuoco
che ruotavano intorno al suo corpo.
Poi qualcuno, innalzando un sipario su un’oscurità boschiva, si era
chiesto se lo stessero inculando o se in realtà era solo un ramo quello
che stava spingendo contro le sue chiappe aperte, c’era il desiderio di
quella penetrazione e gli alberi conoscevano bene le debolezze di chi
possedeva delle gambe per non andare da nessuna parte, le vedevi
cadere dal cielo le gocce di luminosa presenza che rendevano le
ultime percezioni nitide, Maria cantava sottovoce nel bagno di una
casa immersa nel giorno, i suoi capelli ancora bagnati, le dita dello
scrittore che li accarezzavano, le aveva scattato una fotogra ia prima
che qualcosa abbandonasse il suo cuore, carte da parati ormai logore
e le pipe d’oppio, un libro di De Quincey poggiato sotto un posacenere
ormai da svuotare, le domande della notte, le risposte inesistenti
dell’alba.
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68.
Potrei essere qui e allo stesso tempo altrove, pensava lo scrittore,
sotto il getto scostante della doccia, potrei essere a casa di mia madre,
esattamente in questo momento, la luce calda nella mia stanza, il
contatto delle dita sulle tendine arancioni, il pulviscolo danzante nel
vuoto dorato, ci sarebbero stati gli stessi problemi di allora? Ci
sarebbero state ancora quelle insicurezze racchiuse nel corpo che
aveva avuto la mia forma?
Il mare sembrava portare onde e lussi di ricordi nella sala proiezioni
privata dello scrittore, la brezza e la salsedine gli facevano venire il
cazzo duro di mattina e le passeggiate lungo le scogliere lo aiutavano
a staccarsi ancora di più dalle ancore lessicali che i pensieri
buttavano come esche nella sua mente, qualcosa per non farlo più
muovere, qualcosa per trattenerlo o il semplice tentativo di
trascinarlo altrove, luogo psichico dopo luogo psichico.
Una telefonata da Londra da parte di Phil, le puttane di Camden mi
stavano cercando, non sapeva dirmi se per i soldi che gli dovevo o per
una poesia che avevo scritto, anche una foto proibita sarebbe stato un
giusto motivo per scappare o cedere ad un ricatto, la valigetta nera
era sempre pronta, piena di fogli di vecchi giornali, giusto per
simulare un peso di denaro inesistente e ancora i piani di Ken e la
serra che voleva costruire per coltivare piante di marijuana, semi di
white widow nascosti nella casa della madre di Rebbecca, come se ce
ne fosse bisogno, erba per soldi o erba per erba, questo era il suo
ragionamento e poteva anche essere giusto una volta entrati nelle sue
prospettive di pensiero.
Le righe di coca tirate la mattina per svegliarsi ed affrontare la
giornata, lo scrittore si limitava a prendere appunti e ad osservare e
ogni tanto cucinava o dava una sistemata per la casa, trovava resti di
immagini oniriche nascoste dietro il divano, gli angoli di una visuale
che giorno dopo giorno si modi icava, Phil non aveva richiamato e lo
scrittore aveva deciso di piantare del timo, aveva scavato una piccola
buca per terra, su un lieve pendio, qualcosa deve pur crescere qui e
non possono essere solo le nostre disillusioni, pensava lo scrittore,
poi Ken gli aveva detto di muoversi, dovevano andare in città a
sbrigare un affare, quale fosse non aveva veramente importanza, la
macchina era piena di avanzi di cibo, catene, seghe, giornali, vestiti e
cartine, lo scrittore si era fatto spazio sul sedile anteriore e si era
seduto, Ken aveva acceso una sigaretta prima di mettere in moto e
partire.
C’erano logiche che solo il caos poteva spiegare, c’erano vite che solo
le parole su un foglio di carta sapevano ancora inventare, le inestre
ischiavano di notte e così facevano il vento e i gabbiani, quando il
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mare non la smetteva di sussurrare i suoi segreti, perché il silenzio, a
volte, era doloroso e rimanevano così solo echi di discorsi nella mente
che anche le maree avrebbero inito per dimenticare.

69.
Nick sedeva sul divano, nei suoi vestiti logori che iniziavano a
puzzare, non che fosse importante, non qui, la barba lunga, ingiallita
sopra le labbra, una sigaretta perennemente incollata sopra, tanto
che lo scrittore si era chiesto se almeno durante la notte ci fossero
delle pause dal fumare, errori nel sonno, perché dormire? Aveva
chiesto Nick, perché perdere altro tempo, c’era da occupare ogni
secondo e ogni attimo a nostra disposizione.
Le partite erano lente e i pezzi sulla scacchiera si muovevano
seguendo logiche create da menti in fuga verso l’ultimo bordo di una
super icie ludica, si apriva il vuoto della pura immaginazione oltre
quel limite, potevamo restare interminabili ore a guardarlo, rollando
sigarette di hashish, il fumo che saliva in spirali inventate dagli occhi
lungo coni di luce verde, gli sguardi nel fuoco, quelli sui muri e nelle
cortecce.
Nick passeggiava sotto le stelle, l’aria era fredda, aveva solo un paio di
teli addosso e un mozzicone spento tra le labbra e ripeteva sottovoce
di non sentire niente, un mantra per scomparire ed evaporare davanti
alla danza delle iamme, una volta rientrato dentro, accucciato su un
materasso buttato per terra, polvere ovunque e le tracce di sabbia,
ricordi di un omicidio incompiuto, le macchie di sangue secco, i grumi
di porpora sulla parete, un ombrello cinese aperto e usato come un
paralume, ricordo pluviale di fumerie d’oppio cinesi conosciute nel
labirinto dei sogni.
Una donna aveva abbracciato lo scrittore quando era sceso dalla sua
stanza, una sensazione di calore avvolgente, lui aveva sentito il
contatto dei seni contro il suo petto, sotto la stoffa dei vestiti, aveva
anche visto una bustina mezza piena di emmedi sul tavolo, non aveva
fatto domande, si era lasciato andare, i ricordi dei corpi svanivano,
ombre che scivolavano via, il sole che apriva ferite nelle nuvole che si
appiattivano lungo l’orizzonte roseo, astrazioni di colori e forme
aeree e tagli e scie di luce per rapidi cambiamenti visivi, connessioni
psichiche ad alta quota, lo sguardo di intesa con una hostess, il suo
sorriso lieve, il bicchiere di gin and tonic che risuona ghiacciato su un
vassoio, una piccola pillola bianca appare nella mano dello scrittore e
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poi scompare nella bocca, giù lungo la gola trasportata dall’alcol, gli
occhi chiusi nel momento del decollo.
Un atterraggio in piena notte, il tappeto magico delle sostanze che si
poggia piano sul pavimento, morbido e caldo, ci sono delle voci che si
cercano nell’oscurità, litigi nel buio, le immagini dello scrittore e di
Ken, nelle mattine grigie in cui si incontravano, erano l’uno il ri lesso
dell’altro, senza sapere chi fosse il doppio e chi l’originale, sempre
che ci fosse bisogno di una differenza di questo tipo, i vestiti erano
ormai uguali, logori e sporchi e le loro facce si guardavano incuriosite
come se si incontrassero per la prima volta, poi ognuno continuava
con la sua rappresentazione dell’esistenza, un personale teatro
dell’assurdo, recitato e messo in scena a qualsiasi ora, le assi di legno
del palco, quelle scricchiolanti delle scale, i monologhi e le
improvvisazioni alcoliche, un sorriso, i colori dell’autunno stavano
arrivando e lo scrittore guardava le foglie giallastre staccarsi e volare,
la confezione di codeina in mano, la poesia di una donna sconosciuta
attaccata sulla parete del cesso, la bellezza dei primi sorrisi dell’alba,
quando nessuno era in giro per guardarla, Nick metteva di nuovo i
pezzi sulla scacchiera, in attesa che qualcuno facesse la prima mossa.

70.
Alterazioni emotive e crolli delle inibizioni, frammenti di piacere che
si sciolgono fra le luci psichedeliche proiettate su una parete, il volto
di Rebbecca così vicino e le labbra dello scrittore che si posano sulle
sue, tutti i baci rubati e quelli dati per la prima volta, il doppio di Lynn
che appare nella mattina, quando l’alba è ancora nuda dietro i ri lessi
di una inestra e la musica continua a pulsare dalle enormi casse,
Lynn e il suo doppio che camminano nella sala, con gli stessi
movimenti del corpo e quel modo di fare così dolce, lo scrittore inizia
a guardare la ragazza negli occhi e lei ricambia gli sguardi e si crea
una connessione psichica e attraverso quei contatti visivi lo scrittore
può guardarle dentro e quello che vede è meraviglioso e lei gioca sul
pavimento, come fosse una bambina, le calze strappate all’altezza
dell’inguine, le mutandine bianche tra le natiche, quando si piega in
avanti e il suo culo è così invitante, i funghi magici che lei offre e che
lo scrittore assume senza pensarci due volte, la realtà e il sogno
cancellano le loro linee di con ine, non ci sono frontiere all’interno
della scatola cranica trasformata in una stanza dove ballare, quella in
cui i corpi si sono mossi per tutta la notte, Chris Chrusher che
continua a modellare impulsi elettronici in musica, Matt mi fa un
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cenno con la testa, lo seguo, lecca il dito, dice, mi in ilo l’indice in
bocca, poi lo metto in una bustina che lui tira fuori dal nulla, una
polvere bianca si appiccica al polpastrello, succhio, un po’ di speed,
dice Matt, giusto per aumentare il movimento, bevo da un bicchiere
di plastica, un sapore dolce e alcolico, gli abbracci con Bea, sento il
suo respiro e i suoi seni contro il mio petto, sensazioni che irrompono
improvvise nelle vene e nel sangue e sotto la pelle, i tuoi occhi
sorridono, mi dice lei, lo scrittore la bacia sulla guancia e poi si
allontana, un fuoco arde in un bidone mentre le stelle sono ancora
immerse nella loro splendente quiete e qualcuno parla e qualcuno
ride e altre bustine e altre dita e altre sostanze, emmedì in gola,
amaro, mentre scende e qualcosa diviene più leggero, i pensieri
rallentano e la mente comincia a svuotarsi, le percezioni si
modi icano e diventano importanti ed essenziali le luci e i colori e i
suoni e le sensazioni, luide e lente, che si espandono all’interno dei
con ini del corpo per poi oltrepassarli e perdersi negli spazi
inventanti dall’immaginazione. Richie sta fumando nepalese e lo
raggiungo, gli chiedo di passarmi la canna, mi siedo vicino a lui, sotto
una grande tenda, è freddo, faccio un paio di tiri, poi mi alzo, vedo
Rebbecca seduta su un divano, il cappuccio della felpa calato sugli
occhi, la scrittrice si è allontanata per un attimo, c’è bisogno di
distanze, a volte, anche da se stessi.

71.
Stavamo guardando un divano, io e Nick, dentro ad un negozio di
roba usata, lui diceva che era un buon affare, che lo avrebbe detto a
Ken, quando saremmo tornati a casa, annuivo sorridendo mentre dal
divano spostavo lo sguardo verso il culo di una giovane ragazza che
stava passando fuori dalle vetrine del negozio - Le immagini
scorrevano al rallentatore e le variazioni della luce disegnavano
strane coreogra ie sulle pareti piene di libri - Lo scrittore si avvicina
ad uno di essi, lo prende in mano, lo apre, legge mentalmente alcune
parole, alza gli occhi verso una serie di lampadari appesi al sof itto -
C’è una bambina con una torcia e un anziano signore vestito di nero,
la sua mano che si muove lenta a formare il simbolo del silenzio e la
bambina che illumina con la torcia grandi gocce di vetro che pendono
dai lampadari e il ricordo delle costellazioni nel cielo del Nord
Europa, le vallate nascoste e perdute per coloro che avevano deciso di
rinunciare a contare i giorni per immergersi in un unico e luido
presente - C’erano delle fotogra ie nella casa e i ricordi di un padre
che si era spinto oltre le possibilità della propria mente, le sue
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intuizioni psichedeliche che cercavano di spiegare e raccogliere le
informazioni che arrivavano al cervello attraverso sconosciute
connessioni psichiche, questi mutevoli sentieri di suoni e colori, dove
il linguaggio si scioglieva in lettere di metallo fuso, lucenti e fredde, in
una grammatica dell’assurdo che aveva bisogno di regole inesistenti -
Collezionavamo insuccessi e umiliazioni perché non eravamo noi a
decidere quale fosse il giusto ruolo da interpretare, io e Nick seduti su
una panchina, in un giardino, a bere caffè nero, lui rolla e accende
l’ennesima sigaretta, mi guardo intorno e ho come l’impressione di
essere a Linares, dove abbiamo visto il divano? Mi chiede Nick, era
qui o da un’altra parte? Non lo so, gli dico, con un lieve sorriso sulle
labbra, abbiamo camminato lungo una strada, mi sembra, era ieri?
Continua lui, è oggi? Due giorni fa? Non ha importanza, gli dico, lascia
stare, non pensarci, ma a Ken il divano potrebbe interessare, dice lui,
lascia perdere, sussurro, poi dalla tasca dei pantaloni prendo una
piccola pillola bianca e la ingoio, codeina, le prossime quattro ore in
cui il tempo diverrà sof ice e accogliente come cotone, guardo le foglie
gialle, i corvi che osservano il cielo diventare grigio, passeggiamo
lungo un iume ed è come essere sospesi nel vuoto, perché non ho
appigli, abitudini, luoghi dove andare o appuntamenti da rispettare -
C’erano dialoghi inventati ed altri che erano gli sguardi a creare, lo
sapevamo bene perché uomini e donne non l’avrebbero mai smessa
di ingannarsi, perché ognuno voleva quello che gli era stato promesso
- Matt fumava erba vicino alla porta, qualcuno aveva pulito il piazzale
dalle lattine di birra vuote e schiacciate, lui parlava al telefono con un
tono calmo e la voce bassa, la nebbia si insinuava tra le pietre,
evaporando dalle fessure, Rebbecca non voleva guardarmi negli occhi,
attendevo, non avevo fretta, le strisce di coca lasciate su un piatto,
sopra una lavatrice, gli antichi disegni che ritraevano le divinità
giapponesi sedute nella posizione del loto, avevo cercato le sue
mutandine, lo scrittore guardava la foto lasciata sul suo letto, la
teneva stretta fra le dita, la tua pelle era distante, ino al punto di non
essere mai esistita, mascheravamo il giorno con la notte, perché l’alba
avesse lo stesso nome del tramonto.

72.
Zoe aveva riportato un suo quadro a Ken, perché non era soddisfatta
della cornice che lui le aveva fatto, i colori sulla tela potevano essere
quelli dell’alba su una spiaggia, erano solo intuizioni cromatiche,
sfumature capaci di esprimere o rappresentare qualsiasi cosa, un
paesaggio interiore, gli ultimi bagliori di uno stato d’animo che stava
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per scomparire, inghiottito da una sensibilità incapace di dominarsi –
I capelli di Zoe sembravano brillare, il sole che scendeva dietro la sua
testa, lo scrittore cercava un contatto visivo ma lei giocava con il
tramonto, lasciando che i contorni della sua igura splendessero,
creatura psichedelica, aveva cantato una sua canzone, qualche sera
prima, intorno ad un tavolo, suonando la chitarra, lo scrittore aveva
ascoltato ad occhi chiusi, il corpo di Zoe assumeva strane posizioni
oltre i bordi dei suoi dipinti, c’erano amanti che la aspettavano da
qualche parte? Dovevano per forza esserci, nascosti nelle loro vite,
pronti a strapparsi dal volto la maschera dietro la quale sapevano di
essere liberi di fare ciò che volevano, perché le vere pulsioni
spaventavano e una volta che i nostri volti avessero inito i loro
inganni di sorrisi e fughe sarebbero rimaste solo due immagini
speculari, una davanti all’altra, non ci voleva molto a riconoscersi, lo
scrittore avrebbe voluto accarezzare quei capelli, sentirne l’odore, lo
scrittore non ricordava bene l’ultima volta che aveva dormito con una
donna - Non inivamo mai di pagare quello di cui avevamo gioito
eppure c’erano anche così tanti doni, possibilità inaspettate, felicità
ed estasi improvvise.
Prima di andarsene Zoe si era avvicinata allo scrittore e lui le aveva
dato un bacio su una guancia, scintille negli occhi, ri lessi di luce
morente, i piccoli vestiti di una iglia che non avevo mai avuto, i suoi
sorrisi prima di addormentarsi, qualcuno avrebbe mai stretto le mie
dita solo per farsi accompagnare lungo i sentieri del mondo?

73.
C’era un teatro notturno, alcolico e alterato, dove i volti che lo
scrittore osservava durante il giorno si trasformavano in maschere
dai bizzarri lineamenti, il viso di Matt si rimodellava in tratti
ghignanti, le curve somatiche come increspature di follia, gli attacchi
di panico andavano tenuti sotto controllo, queste erano state le
ultime direttive del dottor Ballard, prima che scomparisse in un
tunnel psichico, la sua mano che si muoveva al rallentatore,
circondata da un candido alone bianco, le vele e le nuvole
all’orizzonte, le dita a proteggere gli occhi dai riverberi solari e dai
granelli di polvere cosmica, perché l’universo era ancora lì, una sfera
mentale in inita, esplosioni nucleari come bisbigli di un’amante
tradita, tutte intorno a noi, servivano occhiali dalle lenti scure e uno
sguardo capace di oltrepassare i disegni di luce sulle pareti degli
aeroporti, sistemavo il nodo della cravatta e provavo gesti che
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appartenevano ad un altro personaggio, c’erano dei codici che solo
chi non li conosceva poteva usare, era una forma di protezione dalla
propria coscienza, gli agenti potevano riconoscermi solo quando
l’altro spariva e rimaneva lo scrittore con la sua valigetta e i libri
dentro e la macchina fotogra ica tenuta nel palmo aperto della mano,
come un’offerta ad una divinità che solo le immagini avevano il diritto
di adorare, per gli altri erano simulacri giganteschi impressi sulle
pareti dei palazzi industriali, c’era una nuova generazione di
architetti cresciuta nei sobborghi di università fatiscenti, nelle aule le
lezioni erano tenute da uomini in costume da topo o coniglio, gli studi
delle strutture lisergiche che avrebbero riscritto le mappe delle
metropoli del futuro, in modo che non ci fosse stata più nessuna
corrispondenza tra quei disegni e la loro proiezione nello spazio
urbano, città di pura immaginazione, dove ogni persona poteva
vedere strade, muri, edi ici, torri, archi e ponti a seconda della
propria prospettiva e ogni punto di vista portava un’ennesima
modi ica ad un piano che non sarebbe mai stato rispettato, perché
ogni mente creava i suoi quartieri dove rifugiarsi e impazzire.
Il parcheggio di un motel, di notte, la pioggia inquadrata contro la
luce dei lampioni, lei si toglie una scarpa dal tacco alto e la lascia
cadere sulla moquette del pavimento, suono attutito, la sua gamba si
alza lentamente verso l’alto, una mano prende il tallone e ne soppesa
la concretezza, il contatto della lingua, delle papille contro il tessuto
delle calze, ancora prima di qualsiasi gesto o mossa inaspettata c’era
l’istantanea certezza che nessuna decisione sarebbe servita e allora
bastava proiettare quelle immagini fuori dalla scatola cranica e nuove
sequenze prendevano vita intorno al nostro corpo, tagli del
montaggio ed errori degli attori, quante volte potevamo ripetere i
nostri gesti e le nostre parole prima che li considerassimo perfetti?
Gli altri non sembravano interessati e lo scrittore si lasciava sempre
andare a performance improvvisate, intorno al tavolo si celebrava la
ine di una nuova sceneggiatura, non c’erano personaggi e non
c’erano dialoghi, chi cazzo ha scritto questa merda? Quale merda?
Sono solo pagine bianche, ordinate secondo le tonalità di purezza
della carta, dove cazzo sono le parole? Dove cazzo sono andate a
inire? Le dita indicano lo scrittore, lui prende la valigetta, guarda
senza più nessuna emozione tutti quei fogli sparsi ovunque, non
credo ci sia altro da aggiungere, dice a voce bassa, sei licenziato
stronzo, risponde una voce, lo scrittore sorride, al di là delle grandi
vetrate centinaia di edi ici si muovono in pallide allucinazioni.
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74.
I dialoghi del risveglio, recitati sulle assi di una mansarda, su un
materasso, il rumore dei passi che scendono le scale, lo scrittore
ancora addormentato sul divano dove ha passato la notte, una
mascherina nera sugli occhi, perché la luce non crei illusioni e ci siano
solo le forme di una mente disconnessa dai pensieri, nessuna
struttura verbale a costruire le architetture di città di parole e frasi, ci
sono voci e la loro percezione è solamente sonora perché il
disinteresse protegge lo scrittore dall’ambiguità dei signi icati, da un
passato di echi perduti e Rebbecca che esce dalla sauna e saluta lo
scrittore e lui ricambia con un cenno del capo e la osserva
allontanarsi, perché sembrava che non ci fossero altre possibilità per
il suo cuore se non quelle di abbandonarsi a se stesso, sarebbero
arrivati di nuovo i colpi sordi e il dolore? Altre parole tenute in gola,
altre immagini di una vita che forse qualcuno stava continuando a
portare avanti a mia insaputa, l’amore a cui abbiamo rinunciato, la
felicità che i giorni hanno cacciato via, una bambina che non sarebbe
mai stata mia iglia, perché sapevi che tutti i baci di questo mondo
non sarebbero bastati per farla tua, le mattine in cui ho scritto poesie
solo per me, perché ci fosse ancora una voce a ricordarmi che non
bisognava mai smettere di lasciare le cose nel luogo in cui le avevamo
trovate, tutte le emozioni che non ti con iderò più, a ricominciare ogni
cosa dall’inizio ci vuole coraggio, ad ammirare la bellezza di ogni
attimo c’è solo il silenzio ad accompagnarci.

75.
Le prime luci della sera o forse le ultime, appiattite contro l’orizzonte
mentre rimodellavano i contorni delle montagne, i piani di fuga che
avevo dimenticato nelle strade di città grigie e piovose, le notti
spazzate via da alcool e pillole e le tende che mani sconosciute
tiravano, dentro le stanze, a nascondere il giorno o gli occhi delle
stelle, seduto davanti alle grandi vetrate, le gambe aperte, la sua testa
che si muoveva su e giù, le osservavo i capelli e le spalle – Mi chiedevo
se avesse gli occhi chiusi o aperti mentre mi succhiava il cazzo, ci si
stancava presto di tutte le parole e i discorsi, gli abbracci diventavano
più stretti solo quando la solitudine era vicina e il freddo bruciava il
cuore e qualcuno scambiava l’amore con l’effetto chimico di qualche
polvere, ancora appiccicosa sulla punta delle dita, la mattina tutti
erano silenziosi, nella stanza, qualcuno scaldava la sua porzione di
gioia in un angolo e gli altri attendevano, gli occhi bassi, ho preso la
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giacca e una mezza bottiglia di rosso ancora buono, il prossimo passo,
quello successivo, aprivi gli occhi, una camera buia e sconosciuta,
provavi a non pensarci al modo in cui ci eri arrivato, il sapore del
sangue in bocca non era un buon segno, come il tuo polso destro,
ancora legato al bordo del letto, ormai insensibile, qualcosa era
successo e non si poteva far inta di niente, l’altro commetteva crimini
in tuo nome, rubava, comprava e vendeva sostanze, si inchinava
davanti ai suoi piedi, l’altro camminava nudo per le stanze e decideva
rituali, quando sono venuti a chiederti chi avesse compiuto quelle
azioni non avevi risposte da dare, perché non ricordavi, non potevi
ricordare, rimanevi in silenzio, confuso, poi le domande terminavano,
poi ce ne erano di nuove, la lampada puntata sul tuo volto, il sudore,
l’odore stantio delle sigarette fumate da bocche deformi, parole su
parole, hai inventato personaggi e possibilità, vicoli ciechi,
improvvise conclusioni, alibi come trappole mentali, azioni che non
portavano da nessuna parte, serie in inite di ripetizioni, poi di nuovo
le strade, qualcuno ti aveva fatto uscire, i travestimenti, le false
identità, le rughe sul volto, le età in cui nascondersi, c’era un uomo
con una lunga barba e un cappello di lana logoro, mormorava
lentamente, in una conversazione privata con sé stesso, troppo
articolata questa farsa per darle ancora peso e importanza, il trucco
l’avevo capito in ritardo, la scrittrice si calava il cappuccio della felpa
sugli occhi e si addormentava sul divano. C’erano voci che solo nei
sogni potevano ancora avere un senso.

76.
Apri la porta di casa giusto per essere sicuro che il mondo esista
ancora dopo la notte, le pareti della stanza dove hai dormito avevano
strane proporzioni e non ricordavi bene cosa era successo fra quelle
mura oscillanti, una volta oltrepassata la barriera del sonno c’erano
stati incontri, volti e parole in fuga – Il cane guardava un bastoncino
di legno in attesa che qualcuno lo afferrasse e lo tirasse, una mano
invisibile poteva essere una divinità, gli uomini erano nudi e
mangiavano piccoli funghi, i corpi si muovevano simili a quelli delle
scimmie e c’erano enormi disegni fallici sulle pareti della caverna
illuminati dalle lingue femminee del fuoco, suoni gutturali che
rimbalzavano nell’aria trasformandosi in spirali di fumo, altra legna e
altri canti, i membri eretti e le loro immagini speculari, nuove forme
ibride di sessualità primitiva fra i volti nascosti delle pietre – Dentro
gli armadi e nei cassetti potevi trovare antichi e misteriosi oggetti,
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strumenti meccanici di precisione, camere oscure, cannocchiali che
misuravano la distanza della luna dal tuo sguardo, i vestiti riposti
dentro i bauli, perché il tempo della gioia e della felicità era inito e
rimanevano solo le tue dita, ormai invecchiate, che accarezzavano
quei tessuti, i corpi stretti durante i balli e i desideri della giovinezza,
l’avevamo anche trovato il modo di amarci ma non potevo negare a
me stesso il sogno di lasciare ogni cosa per non ritrovarla mai più,
c’era il dolore ad attenderci, sotto il lampione e la pioggia, lo sguardo
impenetrabile e le sostanze dentro la tasca segreta del cappotto,
aspettavi sempre tremando, sperando che lui ci fosse e se non fosse
stato lui sarebbe stato un altro, la ruota continuava a girare e gli
schiavi a spingerla, avevi vissuto questa vita e quella precedente e
ancora non riuscivi a liberartene, gli errori si attardavano sui gradini
luridi di una chiesa, prima pregare e poi masturbarsi, in modo che il
peccato sia colpa e redenzione, una serie interminabile di piccoli
rituali, gesti, giochi mentali, ogni volta da capo, ogni nuova stazione,
ogni nuova partenza, i tuoi occhi erano stanchi e il volto segnato,
avevi scritto e dimenticato, i battiti del cuore, i risvegli nel buio senza
il tuo corpo da abbracciare, le lacrime le guardavi ancora, rigare il
volto nello specchio, sarebbe mai inita questa tristezza? I giorni e le
bottiglie vuote, prendimi per mano, adesso, che non lo possiamo mai
sapere quando arriverà quell’ultima donna a chiuderci gli occhi con
un bacio.

77.
I ricordi arrivavano come sequenze, un montaggio discontinuo in cui
il tempo perdeva il suo signi icato, i tagli erano improvvisi e senza
nessuna successione logica. Dall’archivio della memoria venivano
prese in maniera casuale serie di immagini e montate, da qualche
parte, tra di loro. Le guardavo con distacco, era l’unico modo per non
immedesimarsi, perché potevano ancora esserci dei collegamenti tra
quello che vedevo e le mie emozioni: lacrime, sorrisi, ansie o
frammenti di gioia. C’era anche la consapevolezza che ogni cosa era
stata vissuta e ripetuta in tutte le sue possibilità e che si ritornava
sempre al punto di partenza e non importava la nostra età, perché gli
anni non erano altro che un’invenzione per dare un nome a questo
perenne cambiamento e i giorni il modo in cui il Sole girava intorno
alla Terra, solo uno degli in initi moti dell’universo. Qualcuno aveva
creato orari e calendari per il gusto di rendere visibili le sbarre che ci
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imprigionavano e dentro quelle gabbie, prima o poi, inivamo per
essere rinchiusi tutti quanti.
Nello scorrere di ogni fenomeno e nel suo manifestarsi era possibile
connettersi con la realtà e farne parte, rallentare i pensieri ino a
fermarli nella pura contemplazione, agire quando necessario, parlare
il meno possibile.
Gli uccelli si alzavano in volo a gruppi, il rumore delle ali che
sbattevano contemporaneamente sembrava un lieve applauso, la cui
eco scompariva nell’aria, i piccoli stormi formavano igure molecolari
nel cielo, dai contorni instabili che mutavano a ogni istante,
impossibili conoscenze di una geometria piana applicata a una
creazione dadaista. Altre composizioni sui rami spogli, le piccole
sagome nere disegnate contro il grigio pallido di un cielo nebbioso,
un nuovo applauso, le foglie hanno ali e si staccano dagli alberi,
rivoluzioni gravitazionali e attrazioni magnetiche, i minuscoli corpi
diventano un’ennesima igura, un insieme elastico in movimento nel
vuoto.
Un vecchio camminava solitario nel bosco, il bastone di legno in una
mano e un canestro nell’altra, i suoi respiri lenti, il vociare degli
alberi, guardare con attenzione il suolo era un modo per capire la
complessità di questo mondo, le foglie umide, la terra, i sassi, i funghi,
le radici, il muschio, i vermi, gli insetti, i tronchi, i cespugli, i rami, i
colori e le forme si mischiavano in inganni mimetici, poi l’amanita
muscaria con il suo rosso pieno e brillante, i puntini bianchi come
minuscole luci ad intermittenza.
Parlavamo con gli sguardi tra le lenzuola di un letto ancora caldo,
trascinavo le abitudini di una vita che avevo lasciato da qualche parte,
una tristezza che mi portavo dietro, proprio nel fondo del cuore, eri
tu, Maria e i giorni che ci eravamo regalati e gli ultimi abbracci e tutte
le lacrime che non vorrei più piangere.

78.
Nicki si ferma in mezzo alla strada, scendo dalla macchina e inizio a
camminare verso le banchine del piccolo porto. Il cielo è grigio e in
lontananza ci sono sagome mistiche di montagne, minuscole luci
rosse lampeggianti nell’aria, gli uccelli marini che volteggiano e
ischiano, una leggera pioggia che accarezza le foglie degli alberi,
ormai gialle e arancioni e pronte a cadere, perché come ripetevano i
saggi nulla è destinato a durare. Mi in ilo il cappello di lana nero in
testa e metto le mani dentro le tasche calde del giaccone imbottito,
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supero una vecchia struttura industriale, mi fermo per qualche
minuto ad osservare i grandi tubi turchesi, le reti metalliche che li
proteggono, la sporcizia lungo il perimetro e le bottiglie rotte, gli
avanzi di cibo dentro i contenitori di plastica, le siringhe e gli aghi,
l’eroina era arrivata anche qui e dif icilmente se ne sarebbe andata.
Dentro i cessi pubblici c’erano delle cassette attaccate ai muri dove i
tossici potevano lasciare i loro strumenti di dolore ed estasi. Arrivo al
pier e non c’è nessuno, supero il cancello aperto e cammino in questa
solitudine fatta di legno e metallo, intervalli di panchine vicino alle
ringhiere bianche e blu e immagini improvvise dell’estate.
C’era una schizofrenia climatica che in luenzava le menti delle
persone che vivevano in questi luoghi ed era del tutto lecito lasciarsi
andare, impazzire, adottare uno stile di vita stravagante, indossare
vestiti colorati e farsi crescere barba e capelli. Bastava un sorriso per
risolvere i problemi e un’occhiata per intendersi e su quelle panchine,
i ragazzi e le ragazze, quando il sole decideva di rendere gloriose le
giornate, imparavano a baciarsi e a toccarsi, le mani tra le cosce nude
di una giovane fanciulla, i peli della sua ica umidi, c’era un tempo in
cui anche queste cose avevano avuto importanza, il fascino della
scoperta e del proibito, poi imparavamo i trucchi della vita,
soprattutto quando le cicatrici si facevano troppo profonde e dif icili
da guarire.
A metà del pontile la pioggia era diventata più forte, obliqua e fredda
e picchiava contro il giaccone e i miei vestiti e non c’era nessun posto
dove ripararsi e allora ho deciso di tornare indietro, perché c’era un
lavoro che dovevo fare e i ricordi e le speranze li ho lasciati su quelle
assi di legno, insieme alla sborra che mi colava dal cazzo in una delle
stanze segrete di Berlino. Ero completamente fradicio e ho
camminato verso il porto, la piccola barca era dove doveva essere,
sono salito, intorno non c’era ancora nessuno, ho aperto una cassa di
legno che si trovava sotto una tela cerata e ho preso i panetti di
hashish ancora imballati, erano una mezza dozzina, li ho messi nella
borsa di plastica piegata che mi ero portato dietro, ho richiuso la
cassa e poi sono tornato verso la strada. Avevo ancora un pò di tempo
a disposizione e sono entrato in un locale a bere un caffè, aveva
smesso di piovere ed ero ancora fradicio e volevo un po’ di calore, non
quel tipo di calore, ma la semplice sensazione di sedermi in un luogo
asciutto con qualcosa di caldo fra le mani. Lungo le vie le riconoscevo
subito le persone che avevano deciso di oltrepassare lo specchio,
erano simili a me e io a loro, i tossici con le mani tremanti e una
sigaretta fra le dita. Ho ordinato il caffè e l’ho bevuto lentamente,
guardavo fuori dalla vetrata le donne che passavano, ho sentito
l’inizio di un’erezione quando il culo di una ragazza è apparso
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rinchiuso in dei pantaloni neri che ne risaltavano le forme, sono
uscito, la tazza era ormai vuota, pensavo di seguire quelle chiappe per
vedere quanto mi sarebbe diventato duro, poi ho lasciato perdere, era
tempo di andare al parcheggio e incontrarmi con Nicki. Lei era lì ad
aspettarmi, uno sguardo di intesa, senza parlare, sono salito in
macchina, lei ha messo in moto, i vestiti e il giaccone ancora bagnati,
lei ha acceso la radio, io ho sistemato la borsa di plastica sotto il
sedile, fuori il paesaggio scorreva, lo guardavo andar via senza
pensare a nulla, perché non c’era più niente che avesse realmente
importanza in quelle immagini in movimento che si ripetevano
all’in inito.

79.
Elizabeth veniva a trovarmi di notte, usciva da un armadio bianco,
nella stanza dove dormivo. Si sedeva su uno sgabello, accavallava le
gambe e accendeva una sigaretta. Da sotto le coperte la guardavo, lei
mi diceva di non vergognarmi, allora mi alzavo, completamente nudo,
lei sorrideva e poi mi proponeva di indossare i suoi abiti, le vestaglie,
il vestito del giorno del suo matrimonio, quello azzurro, per le serate
di ballo, mi andavano alla perfezione, lei spegneva la sigaretta e
prendeva la sua macchina fotogra ica, mi faceva mettere in posa e
scattava, i guanti lunghi, oltre il gomito, le calze velate, le scarpe con il
tacco, mi passava un po’ di rossetto sulle labbra e poi mi baciava
delicatamente.
Alcune volte mi raccontava delle storie, di quando era ragazza, dei
luoghi dove aveva vissuto, poi prendeva una vecchia scatola di
metallo, la apriva, c’erano delle piccole iale dentro, mor ina ed
eroina, preparava la siringa e mi faceva un’iniezione, le mie pupille
diventavano minuscoli buchi neri, posso vedere la tua anima, diceva
lei, mentre mi massaggiava il braccio e i soli esplodevano nel corpo, ti
hanno mai fatto un clistere? Sussurrò una notte. No. Vuoi provare?
Non mi piace che mi in ilino cose nel culo. Ne sei sicuro? No.
Guardavamo il buio silenzioso e oscuro, devo andare, sussurrò lei.
Dove? Ovunque tu non possa raggiungermi. Una foto sul comodino, la
mattina dopo, lei nel suo vestito bianco, il giorno del suo matrimonio,
meravigliosa, avresti dovuto sposarmi, mi disse una volta, non sarei
stato un buon marito, risposi, avremmo dormito ogni notte insieme,
non riesco ad immaginare nulla di più terri icante. Il sorriso sulle sue
labbra era dolce, i suoi occhi leggermente socchiusi, avrei voluto
essere la luce che li illuminava, solo per far parte della bellezza di
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quell’attimo prima che la morte lo trasformasse nel pallido ri lesso di
un ricordo.

80.
Silenzio. E quello che svelava, ogni volta che la inivamo di discutere.
L’aria e le foglie. I versi degli uccelli. Il crepitare dei rami. Gli insetti.
La luce era meravigliosa nella mattina e Honor mangiava i suoi cereali
seduta accanto a me. I suoi occhi di bambina mi osservavano mentre
le leggevo una favola e giocavamo con buf i pupazzetti di plastica. Le
risate d’oro e tutto il tempo che alla ine mi sono ripreso e i gemiti
durante la notte, gli orgasmi veloci, lo sbattere bagnato degli organi
sessuali, le parole sussurrate con voce roca perché gli amanti
fumavano troppo e si rincorrevano in una vita che non sembrava
avere pause.
La lunga pipa metallica, Ken con il cucchiaio in mano mentre scalda la
cocaina sul fornello, un liquido biancastro e lattiginoso. Le lunghe
boccate, il crack, il fumo che esce piano dalle narici. George mi
insegna come fare e il suo volto, al risveglio, sembra distrutto e
invecchiato, qualcosa aveva divorato la sua anima, qualcosa a cui non
aveva più saputo rinunciare, i suoi occhi erano spiritati, durante la
notte, mentre traballava sulle gambe nel tentativo di tirarsi fuori il
cazzo per pisciare.
Poi altre pinte sul tavolo, altre sigarette, le canne, emmedi in cristalli,
alcune briciole sulla punta della lingua, era così amaro, gli effetti e
l’empatia, mi stavo avvicinando, più erano le sostanze che assumevo e
sperimentavo più mi rendevo contro di quanto non ne avessi bisogno,
potevo raggiungere quel benessere semplicemente respirando,
liberando la mente, ampliando la mia essenza.
I magni ici disegni buddisti all’interno di un libro, i demoni e gli
uomini, i volti tras igurati dalle passioni, la quiete della beatitudine,
un sorriso mite sulle labbra, le dita delle mani intrecciate, la
posizione del loto. Avevo oltrepassato lo specchio, avevo camminato
dall’altra parte, sapevo come arrivarci, sapevo come tornare indietro,
stavo imparando a scivolare sul bordo, ino al punto in cui non ci
sarebbe stata più nessuna differenza tra l’immagine e il suo ri lesso.
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81.
Le linee degli oggetti nella cucina o dei volti seduti accanto al tavolo
erano fatte di pura luce, contorni splendenti che facevano risaltare le
forme e i limiti di tutto quello che potevamo toccare o amare. Vedrai
quanto siamo orribili, aveva detto Rebbecca, in un sogno o in una
delle serate passate nella sua casa, non avevo capito subito quelle
parole, poi il loro signi icato si era svelato negli attacchi di rabbia di
Ken o nei momenti in cui lei perdeva il controllo e risuonavano le
grida di ferite ancora aperte, in litte chissà quando e chissà dove. Le
potevo vedere ardere nel suo cuore e scorgerne il ri lesso nel mio.
Avevamo parlato di letteratura, io e Rebbecca, del suo ultimo
romanzo, di Irvine Welsh, del lavoro quotidiano sulle parole. I
dialoghi, i personaggi, quel lento e doloroso de inire, smussare,
trovare il giusto lusso, seguirlo, esprimerlo attraverso il linguaggio.
Era così tenero e quasi impaurito il suo sguardo mentre mi parlava ed
era una delle prime volte che lo faceva guardandomi negli occhi, di
solito tendeva a sfuggirmi, l’avrei voluta stringere fra le braccia e dirle
che tutto sarebbe andato bene, che non c’era nulla da temere, che la
paura era solo il modo in cui inivamo per in liggerci inutili
sofferenze.
E prima di andare a dormire Bea mi aveva abbracciato e avevo sentito
il suo respiro diventare il mio, lo stesso movimento del petto e dei
polmoni ed era così intima e dolce quella vecchia sensazione, quella
di tornare a casa, in un luogo sicuro e caldo e protetto e ho pensato a
Maria e a quanto mi mancava tenerla fra le braccia e percepire nella
mente e tra le dita la sua essenza e le ultime volte che avevamo
dormito insieme, in Germania, non l’avevo neanche più s iorata e
adesso mi domandavo come si potesse fuggire da qualcuno che ti
amava, il motivo di quel distacco, il modo in cui avevo deciso una ine
senza alcun senso, solo perché diventasse reale la possibilità di
un’altra vita.

82.
Diarree verbali nel bel mezzo della notte, lussi sonori privi di
signi icato, mi rigiro tra le coperte con un sorriso sulle labbra, il
divano mi abbraccia con cuscini di pelle bianca, respiro e mi rifugio in
quel luogo, apro e chiudo quella porta. Abbracci e alterazioni,
l’emmedi dava illusioni chimiche sul senso dell’amore, poi le solite
paure ad attendermi, due giorni perso in una confusione piena di
fantasmi. Qualcosa era diventato reale, un nemico da combattere, la
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strada era fredda e la notte appariva minacciosa, mi ero ritrovato con
pochi soldi, qualcuno mi aveva ospitato, giravo per le stradine del
paese sempre con gli stessi vestiti, la libreria era un rifugio sicuro, per
scrivere e comunicare, tra messaggi e richieste di aiuto, poi
precipitare di nuovo nel lusso della vita, dove tutti i pezzi, anche se
temevo sempre il contrario, inivano per trovare la loro giusta
collocazione.
Non sentivo più nulla battere contro il petto, non c’erano più
immagini di donne pronte a punirmi e torturarmi, non c’erano echi
nella mente. Bisognava seguirle le vie in cui ti ritrovavi, arrivare ino
in fondo e vedere cosa ti aspettava. Le ombre degli alberi correvano
veloci oltre i fari della machina e Nick era al volante e c’erano
sostanze che mi ballavano nello stomaco e un’erba jamaicana che ti
faceva piombare in una dimensione sospesa di nebulose incertezze.
La musica era alta e rimbalzava tra i sedili e i inestrini, schiacciando i
pensieri per poi liberarli in forme misteriose e sconosciute. Le case di
mattoni rossi, il viaggio di un uomo attraverso l’Afghanistan, l’acido
che aveva assunto, i paesaggi in technicolor. La voce di Beth in una
mattina grigia, dentro una stanza piena di libri e dischi, foto e
appunti, la moquette per terra e il suo confortevole contatto sotto i
piedi, poi questa stessa stanza, in altre angolazioni e illuminazioni, le
strisce di buio proiettate sulle pareti, la barba di Nick che sembrava
muoversi e crescere.
La poltrona su cui avresti atteso la tua morte, le persone che ti
avevano dimenticato, i igli di cui non avevi saputo più niente. Tre
mesi passati sulla riva di un iume, in una capanna, gli abiti logori,
avevi deciso che nulla avrebbe avuto più importanza e questa
sembrava essere la scelta migliore, le cose che trovavi sul
bagnasciuga, le prendevi e le portavi con te, costruivi i tuoi feticci e
adoravi le tue divinità. I viaggi in nave, le onde che sputavano spuma
in faccia ai marinai, chiuso nella tua cabina, una sigaretta incollata
alle labbra. Le chiamate a ogni ora della notte, prendevi le chiavi e
uscivi, la macchina nera, i fari che violentavano l’oscurità, le fughe
sull’asfalto e i bizzarri incontri, le strane persone che dovevi portare
da una parte ad un’altra. Un ombrello giapponese attaccato a un
angolo della parete, parlavi di politica con te stesso e spendevi le ore
del sonno a giocare a scacchi contro un avversario che aveva il tuo
volto, contavi il tempo, dividendolo e moltiplicandolo, eri solo in una
gabbia di abitudini che non ti avrebbe salvato, parlavi tra quelle mura
giusto per ricordare il suono della tua voce.
In una casa di Londra qualcuno aveva iniziato a coltivare erba, ile di
vasi, spacciatori e assassini tra i suoi contatti, una lettera da scrivere,
un amore da ricostruire, il passato stava svanendo, la tua vera vita era
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in bilico, un corpo che si muoveva sui bordi dei sogni, con ini da
oltrepassare appena possibile.
Prendi un iore tra le dita, lo osservi brillare, sei tu la luce che
illumina questo mondo, sei tu lo splendore di ogni suo singolo
respiro.

83.
Paranoie nella mente come gabbie da cui è impossibile fuggire, le
sbarre sono malleabili e si annodano intorno ai pensieri,
diventandone parte. Non c’è più distinzione tra la ragione e il suo
doppio alterato, un luogo dove non esiste iducia, uno specchio
distorto in cui ogni azione non è esattamente quello che sembra. Una
serie di accuse, possibili interpretazioni di qualcosa che non si
riusciva a spiegare. Nick non trovava più tre grammi del suo fumo e
credeva che io lo avessi rubato, non si ricordava mai che giorno era e
la sua memoria gocciolava dalla poltrona sulla quale era seduto. Le
mani che rollavano l’ennesima sigaretta, la stanza che aveva
quell’odore. Gli oggetti avevano ombre di fumo e l’incenso travestiva
con il suo aroma le ceneri di una vita che aspettava solo di essere
dispersa. Mi aveva fatto leggere quello che aveva scritto, una mezza
dozzina di fogli tenuti in un contenitore arancione, una lettera per la
moglie che non le aveva mai spedito. Qualcosa si era spezzato negli
anni che Nick si era lasciato alle spalle e nei suoi occhi c’era il ri lesso
di fantasmi e malinconie, di cui le pareti della stanza non erano altro
che una pallida proiezione. C’era la morte nascosta tra le pagine dei
libri che continuava ad accumulare, ogni spazio riempito da oggetti e
polvere, i ricordi che si strati icavano. Giocava a scacchi con se stesso
nell’attesa che qualcosa accadesse, rievocava discorsi rivoluzionari
che non interessavano più a nessuno, portava le persone in giro, con
la sua macchina, come fosse una gara contro lo scorrere del tempo. Ci
avrebbero pensato le ore, con il loro silenzio, a renderlo ancora più
debole. Non ci si poteva avvicinare alla ine così pieni di rabbia e
rancore, ognuno di noi aveva bisogno di aiuto, ognuno di noi avrebbe
potuto rimarginare le proprie ferite. Rollavo uno spino di erba
giamaicana e fumavo alla inestra, poi mi stendevo sul divano,
ascoltavo qualche disco, scivolavo dentro me stesso, sempre più in
profondità, il lusso dei ricordi, la musica, le mattine in libreria a
scrivere e leggere. Non avevo idea di dove mi trovassi, ogni luogo era
perfetto, ero io in una dimensione che non esisteva al di fuori della
mia anima. Le luci di Natale appese alle pareti, un ennesimo giorno di
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solitudine, dubbi inesistenti, dita puntate contro nemici invisibili,
discorsi che si sgretolavano sul pavimento, ho raccolto mia roba e me
ne sono andato, le strade del mondo sapevano dove condurmi.
Una Splendida Scon itta
Parte quarta
Prove Generali di un Teatro Psichico
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84.
Piccoli tagli sulle dita e bruciature e voci nella mente come bianche
onde sonore, gli echi dei discorsi notturni intorno ad un tavolo, le
birre e i bicchieri, le morbide labbra di Bea, i suoi baci clandestini
fuori dall’Old Mill.
I monologhi di un personale teatro immaginario, un pubblico
invisibile che rideva e applaudiva, costruivamo frasi surreali perché il
linguaggio non si trasformasse in una prigione, sarebbe mai esistita
una parola non collegata alle altre? Sarebbe mai stato possibile
distruggere ogni contesto, qualsiasi esso fosse, in cui inivamo per
essere intrappolati dalla mediocrità di battute scritte da altri? Gabbie
di signi icati ed eiaculazioni semantiche, orgasmi letterari per la
soddisfazione del cervello, movimenti di macchina luidi e delicati, il
regista era seduto da una parte e fumava una sigaretta e pensava che
il lavoro e l’amore avrebbero dovuto creare mosaici di arte e vita e
ancora gli alberi e i sentieri e il limite brillante di un bosco, il suo
cuore oscuro, all’interno, dove la luce sfumava nel buio e c’erano
misteri e segreti, come nell’anima di ogni persona. Mia madre seduta
da sola nella cucina di casa, le lacrime e la tristezza nei suoi occhi.
Proseguivamo su percorsi immaginari e ogni storia poteva diventare
reale, le foglie morte e gialle e marroni, migliaia di foglie e la nebbia
che circondava il pro ilo di una montagna, un manto di ioca foschia,
la notte che colmava di stelle il buio in inito, gli strani incontri, i
bizzarri contadini usciti fuori da qualche sogno acido, i loro occhi
erano così profondi e sapevo bene che avevano visto cose che ancora
dovevo scoprire, ci avrebbero pensato le sostanze psichedeliche a
mostrami quell’altra realtà, una volta che ne fossi entrato in possesso.
Le pulsazioni elettroniche, i battiti, i colpi digitali, Mike costruiva
architetture sonore e scivolavano le sue dita sulla tastiera di un
pianoforte, melodie ipnotiche, la pelle che ondeggia, gli occhi chiusi,
le forme caotiche della natura, le loro proiezioni nel vortice dei
pensieri, l’improvviso silenzio, dove mi trovo? Nel luogo esatto in cui
avevi dimenticato di essere, dentro e fuori te stesso, un corpo che
cammina nel mondo, un universo che vibra al suo interno, le frontiere
che attraversiamo solo per scoprire che nulla è cambiato, dove mi
trovo? In un frammento di tempo, in una scheggia di spazio, in una
scintilla di luce che risplende nell’aurora di uno sguardo.
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85.
C’erano amici per strada e in macchina, da qualche parte, perduti in
un sogno e le antiche paure come pensieri e dialoghi che prendevano
forma nella sala buia del teatro mentale e qualcuno che sussurrava
silenzio mentre gli alberi e il cielo e le nuvole, intorno, erano
manifestazioni concrete di una quiete assoluta.
Le passeggiate lungo i sentieri erbosi di una collina per arrivare sulla
sua cima e guardare da lì le altre vallate e il respiro del ianco di una
montagna, allargarsi e restringersi in una nuova prospettiva ed
ennesime stanze e letti e momenti di tristezza come se non fosse
bastata tutta la mia adolescenza a farmi issare il sof itto di una
camera in attesa che qualcosa accadesse.
Ci ritrovavamo in ruoli diversi, nelle maschere inventate di esistenze
immaginarie, recitavamo su quei palcoscenici che cambiavano di
giorno in giorno e c’era ancora sofferenza, nel cuore, quando le parti
non coincidevano ed era impossibile ricostruire un’unità di tempo,
spazio e luogo. Erano sempre e comunque i frammenti e le schegge a
ferirci, le parole non dette e quelle espresse nel tono sbagliato, le
prove erano fallite e con esse la loro protezione di gesti e posizioni
ripetuti all’in inito. Rimaneva solo l’improvvisazione, attimo dopo
attimo, un istante e quello successivo, ino a quando tutto non fosse
diventato così luido da sembrare vero, solo allora saremmo stati in
grado di credere a questa inzione e di mostrarla agli altri. Ci
sarebbero stati applausi e ischi, i battiti osceni del cuore prima che le
luci si spegnessero e il tuo corpo che avevo abbracciato per
scon iggere l’ansia e il timore di fallire. Ci voleva coraggio ad andare
avanti, ce ne voleva tanto, ci avrebbero pensato gli anni a scavarti il
viso e la fatica e l’angoscia a renderti più umano. Una voce nella testa,
la tua voce, per essere iero di quello che eri sempre stato, avevi
scagliato sassi e macigni contro le ingiustizie di questa terra, perché
le sentivi bruciare dentro di te, non si poteva rimanere muti in eterno,
era una lotta che nessuno aveva il diritto di abbandonare. La pace che
cercavi era rinchiusa in un semplice respiro, la gioia di lasciare aperta
quella porta, perché gli altri potessero vedere quanto luminosa fosse
la tua purezza.

86.
Bianchi risvegli di luce e neve, Bea che mi stringe sotto il piumone, il
suo corpo caldo, la pelle come una scoperta e i baci come espressioni
di gioia dimenticate. Quanto tempo hai lasciato andare per le strade
del mondo per arrivare ino a qui? Solo perché gli sguardi avessero
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nuovi signi icati, perché quel blu così profondo e lucente non fosse
solo il mare che avevi attraversato ma anche il ri lesso dei suoi occhi.
Gli abbracci e le scopate, le donavi orgasmi come dichiarazioni dei
tuoi sentimenti, la sua bocca che si chiude sul mio cazzo nel buio
della stanza, le luci della macchina che tagliavano la notte mentre la
attendevi e la pioggia sospirava, le strisce di emmedi amare e
dolorose nelle narici, mezza pasticca blu che scivola nella gola e una
sorsata di birra, i corpi che ondeggiano insieme ai lash colorati e alla
musica, il sudore e i leggeri movimenti del bacino. I montaggi
incrociati di sogni e visioni, le mani sui ianchi come carezze
inaspettate, torniamo in una casa solo per perderci ancora tra le
lenzuola, l’alba che iltra tra le persiane di legno, i suoi occhi che si
dischiudono come iori, possa l’amore ancora nascere in questi silenzi
fatti di meraviglia.

87.
Il gatto è sdraiato sul divano, gli occhi socchiusi e la luce che entra
dalle inestre è così bassa da proiettare le ombre dei vasi su una
parete, in una pantomima di bizzarri personaggi carnevaleschi. I
colori di un tramonto si sciolgono sui muri. Ci sono altre stanze e
altre vite e igli e storie da raccontare, quelle da scoprire, quelle da
inventare e le scopate durante la notte o la mattina presto, le
pasticche blu, divise e inghiottite sotto un’avvolgente coperta di
piacere. I brividi delicati che avevano rapito un’intera generazione
abbracciata da un amore chimico. Rimanevano sguardi e sensazioni,
suoni e immagini che si potevano cogliere, i residui psichedelici che
ancora emanavano le alterazioni visive dei volti di una gioventù
scomparsa dalle scene della propria innocenza. Il letto con le coperte
e i cuscini indiani e la musica degli Underworld, fare un passo
indietro, camminare verso il passato e ricostruirlo nella propria
mente, ancora una camera in cui trascorrere le mattinate, le parole da
scrivere, quelle da leggere, quelle da cambiare, l’odore dell’incenso e
le sequenze oniriche da rimontare dopo il risveglio, passaggi
improvvisi e varchi da attraversare, il calore di un corpo, il lusso
interiore che scorre nel silenzio dei pensieri. Ti fermi a guardare cosa
sei stato, chi hai creduto di essere, gli ultimi discorsi alcolici prima di
stendersi sul proprio inconscio, Bea è sdraiata al mio ianco,
sembrava così semplice adesso lasciarsi andare, lo sapevano il tuo
cuore e anche il tuo cazzo, i battiti e lo sperma e la luna che ci
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ammirava maliziosa, ri lettendo nel suo pallido viso i segreti degli
amanti.

88.
Bea parlava al telefono mentre ero sdraiato sul letto, guardando fuori
dalle inestre della stanza di un albergo londinese, il cielo era grigio e
io mi stavo abituando, settimana dopo settimana, a questo colore, lo
trovavo stranamente familiare e capace di dare spazio alle
architetture della mia mente. Creavo strutture geometriche da
riempire con parole e note, le fotogra ie in bianco e nero catturavano
le forme metropolitane, le modi icavano nelle improvvise intuizioni
dei miei occhi, assemblavo linee e angoli, mi immergevo nelle
profondità delle ombre, lasciavo che la luce rimodellasse in visioni
apocalittiche le menzogne del futuro degli edi ici. I libri di design
sistemati su un tavolo di plastica bianco, gli appunti, i quaderni nella
borsa. Il lusso delle macchine, in basso, tra le strade di una ennesima
città onirica, Bea continuava a parlare e si accendeva una sigaretta,
chiudevo gli occhi e lasciavo le immagini mentali libere di scorrere,
ricordi, apparizioni fugaci di volti dimenticati, ancora gli effetti
dell’ultima pasticca, una sensazione di leggerezza, i pensieri come
basse nubi su paesaggi in continuo mutamento, nessun signi icato,
nessuna logica, solo libere associazioni. La telefonata era inita e Bea
si era stesa accanto a me, mi accarezzava il petto, giocando con i miei
capezzoli, il cazzo iniziò a diventarmi duro e le sue labbra scivolarono
sul mio petto, poi sull’addome, ino a prendere la cappella nella
bocca, le piaceva succhiarla, la mattina o quando ne aveva voglia.
Chiusi gli occhi, sembrava di essere trascinati in un mondo umido e
sfuggente, ci si muoveva senza attrito, senza peso, una serie di rumori
marini e la spuma delle onde in ciclici e dolci vortici.
Seduti in una macchina, gli occhiali scuri, fuori dai inestrini
scivolavano i corpi delle persone, mutazioni nello sguardo e codici
genetici riscritti in laboratori clandestini, gli uomini in camice bianco,
le sostanze che venivano preparate, le combinazioni chimiche,
emozioni sintetiche, alterazioni sensoriali sul punto di esplodere,
modi icazioni luide della realtà, serie ininterrotte di edi ici
industriali mentre le igure umane diminuivano, ampi parcheggi,
fabbriche abbandonate, le reti metalliche, gli spacciatori agli angoli
delle strade, le prime gocce di pioggia. La macchina che si ferma, la
porta rossa, anonima e piena di scritte, un abbraccio oltre l’entrata,
un sorriso, camminiamo verso la sala per il mixaggio, Khan è davanti
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al computer, lavorando alle ultime tracce, le tazze di tè, mi siedo su un
divano e parlo con Mike, una nuova pasticca sotto la lingua, gli mostro
alcune delle mie ultime fotogra ie, tutto è rallentato, confortevole e in
penombra, i primi effetti, Bea discute con Khan, gli strumenti musicali
appoggiati per terra, sui muri, ovunque, i tappeti e i cuscini, le
apparecchiature elettroniche, i vetri divisori, la musica inalmente
arriva, inonda e colma la stanza, ci fermiamo tutti quanti ad
osservarla, variazioni ritmiche come pulsazioni luminose, Bea mi
prende per mano, i battiti digitali che si espandono, calde sensazioni
di piacere, guardo una pianta in un vaso, le foglie cominciano a
brillare, sempre più luminose, c’è un dio ovunque, un paradiso e un
inferno, l’estasi di un solo attimo di pura consapevolezza è l’assoluta
gioia di sapere che nulla è vero, di essere vivi senza che nessuno ce ne
abbia chiesto il motivo.

89.
Una bottiglia di gin vuota, sul tavolo, accanto a dei bicchieri silenziosi,
in una mattina in cui il vento costringe i rami degli alberi a muoversi
isterici e impazziti, il suono roco della tua voce mentre ti giri tra le
lenzuola e c’è il corpo di Lynn e il peso concreto dei suoi respiri
mentre ti sta abbracciando. Sono più chiari, adesso, gli errori del
passato, anche se hai sperato che qualcosa fosse rimasto dentro di lei,
qualcosa di quei giorni passati insieme. Avevi costruito spazi di
emozioni libere, luoghi immaginari da riempire con la propria
essenza ed ora quelle sequenze temporali venivano montate una
dietro l’altra e potevi osservare per intero il corso di una vita che
avrebbe potuto essere possibile ma non lo era stata. Una voce
ripeteva calma, dentro la tua testa, di dimenticare, di scordare ogni
cosa e una lettera aperta su un tavolino di legno, le parole di un
lontano amico sconosciuto, qualcuno che si ricordava di te e ti
chiedeva di raggiungerlo, al di là dell’oceano, in una città di luce e alti
palazzi di vetro e metallo, le centinaia di piccole inestre in cui gli
uomini erano rinchiusi, seduti dietro minuscole scrivanie a svolgere i
loro inutili lavori, lo sapevi bene cosa signi icava, eri stato anche tu
uno di loro, ancora Lynn, ferma accanto alla sua bicicletta, mentre
osservate un paesaggio di rara bellezza, ti dice che non voleva ferirti,
che non voleva farti così male, le sue parole sono come sussurri, ti
chiede cosa si prova a non avere più niente, nulla di tutto quello di cui
anche lei aveva fatto parte, il lavoro, la casa, gli amici, cosa si prova?
Le sorridi e le dici dolcemente che prima o poi sarebbe successo, che
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l’avresti fatto comunque, sei stata solo una scintilla, le confessi, il
resto è venuto da solo, non potevo più sottrarmi a questa scelta, in
realtà non ho deciso nulla, ho solo seguito il compiersi degli eventi,
era un altro quello che agiva, parlava e discuteva, soffriva e si
arrabbiava, io rimanevo a guardarlo, seduto sotto un albero, in
disparte, lo lasciavo fare, avrebbe capito, ad un certo punto, che
quella non era la sua vera vita e mi avrebbe raggiunto, in questa
quiete dorata, tra i ri lessi dei minuti, adesso familiari, profondi e
reali come i respiri del giorno. Ancora seduti a parlare, da qualche
parte, in un sogno, ci incontreremo di nuovo solo in questi luoghi, lo
senti ancora il vuoto dell’amore, proprio nel centro del tuo petto,
allargarsi e restringersi, la sua testa appoggiata sopra, le tue dita fra i
capelli, gli occhi chiusi, le immagini che scorrono e che inalmente
lasci andar via.

90.
Altri schemi e ragnatele mentali e percorsi in cui avevo costretto il
tempo a scorrere, i gesti ripetuti che ancora possedevano una loro
impronta nel corpo, gli echi dei corridoi di un uf icio, i volti che
ignoravo, i discorsi da cui fuggivo impaurito, l’improvvisa apparizione
di un meraviglioso e gigantesco albero di limoni, in un cortile onirico,
la luce che arrivava obliqua e tenue e quella strana sensazione di
solitudine, il ricordo di un bisogno, amici da chiamare al telefono e
una stanza silenziosa, le tende viola tirate e la neve fuori e le strade di
una città lontana, le architetture trasformate all’interno dello spazio
fotogra ico, quelle linee erano un linguaggio d’immaginazione che
attendeva di essere trascritto da qualche parte, mancavano
personaggi e dialoghi, c’erano possibili sequenze che andavano girate,
attori invisibili che si muovevano in attesa di una direzione, il regista
rimaneva in disparte, chiuso nei propri pensieri, la proiezione di un
ilm privato, mai visto, creato e distrutto nell’attimo stesso in cui i
fasci luminosi si perdevano nel buio, su uno specchio vuoto, senza
ri lessi. I giochi che con gli anni abbiamo dimenticato, le ossessioni
ricostruite attraverso bizzarri rituali erotici, forme di adorazione
primitiva, potevo attraversare il tempo, vedere il tuo volto di ragazza,
quegli stessi occhi azzurri che mi guardavano, lo splendore di
un’anima che mi aveva accolto dentro se stessa, le minacce del
passato, il tunnel della psiche, la moquette sui pavimenti dove
camminare a piedi nudi, i libri sul tavolo della cucina, le sigarette
spente, le strisce bianche su una super icie di puri ri lessi, i cristalli di
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ghiaccio impressi sulle dita, vagare tra gli edi ici appena costruiti,
nascondersi tra le rovine delle vecchie fabbriche, ogni vita che è
fuggita oltre la realtà, ogni attimo che hai visto disintegrarsi oltre la
vista, hai cercato di rimettere insieme i frammenti, non avevi nessuna
idea di come fare, qualcuno ti ha portata in una stanza bianca, ti ha
dato un quaderno e una penna, scrivi, ti ha sussurrato, scrivi tutto,
ora hai un modo per trasformare il dolore e la paura, per rendere il
disordine comprensibile al tuo cuore.

91.
Distorsioni visive sul ianco erboso di una collina, Bea mi tiene la
mano, le chiedo se qualcuno mi ha dato dell’acido, lei dice che forse
ne hanno sciolto un po’ nel mio bicchiere, non mi sembra corretto,
penso dentro di me mentre continuiamo a camminare e i colori e le
forme cambiano e respirano e i miei passi sembrano quelli di un
gigante.
Le architetture futuristiche di un’altra città onirica, le fotogra ie
scattate da una strada sopraelevata senza macchine, curve d’asfalto e
torri di vetro e le nuvole come una punteggiatura di un folle discorso
metropolitano, chiudo gli occhi, li riapro, il cielo di nuovo azzurro e
brillante e il caldo sulla pelle e i sogni in cui ho camminato per le
strade di Roma, ora così lontana eppure presente nelle immagini del
subconscio e i percorsi che avevo compiuto ennesime volte al suo
interno, tragitti che la memoria non voleva abbandonare e
riproponeva alterati e improvvisi, trappole mnemoniche che si
aprivano sul presente, il ripetersi davanti agli occhi di quei giorni, in
bilico sulla ruota dell’eterno ritorno e le parole di Maria e tutta la vita
che aveva trascorso accanto a me, una vita che solo ora potevo
osservare con i suoi stessi occhi, trovandomi dall’altra parte, lei era
ancora così presente nei miei pensieri e nel mio cuore e poi le pareti
bianche e ovattate del cervello, le droghe che trasformavano il tempo
in un elastico di ore, la notte che svaniva veloce tra le prime luci
dell’alba e gli alberi e le montagne che tremolavano nell’aria, le mie
mani sdoppiate, seduto ad un tavolo, le osservavo come in una
proiezione astratta, le improbabili profondità dello sguardo come se
qualcuno avesse spinto il punto di fuga di questa nuova prospettiva
oltre il proprio limite, tutto si rimpiccioliva in questa dimensione
rinchiusa e lontana, lenti di microscopio trattate con della mescalina
sulla super icie, un sorso dal bicchiere di gin e tonic e una
panoramica nella cucina dove ero seduto, non ero proprio sicuro
delle reali proporzioni di questo spazio, non che avesse importanza,
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qualsiasi cosa era rinchiusa nella mente e allo stesso tempo libera di
infrangere le sue normali regole, luci che tagliavano il buio in sezioni
geometriche, colorate e pulsanti, i dischi di vinile che giravano, le
onde sonore che colavano dalle enormi casse, qualcuno era seduto
per terra, strisce di sostanze bianche su un piatto, il rumore delle
narici, pupille dilatate, gli sguardi erano diversi, a volte misteriosi,
altre irriconoscibili, un senso di solitudine e freddo, i giorni che
abbiamo contato solo per sapere quanto sarebbe durata questa voglia
di abbracciarsi e giocare con la pelle, dentro il letto ogni cosa era più
facile e morbida, calda e delicata, un luogo sicuro, un rifugio, un’isola
lontana da tutto, il dondolio della iamma di una candela, quello del
tuo corpo, ombre su un muro, i ri lessi del mare nei bagliori dei tuoi
occhi.

92.
Bolle di luce e aria, super ici liquide e osmotiche, le coperte tirate ino
al mento e il tavolo con un enorme barattolo pieno di funghi
allucinogeni, le tazze di tè e il cappellaio matto che sorride in un
angolo della stanza, le pareti che iniziano a curvare e i percorsi della
mente ad annodarsi come radici, i tunnel percettivi per oltrepassare i
normali piani di realtà e i pensieri in agguato, monologhi ripetuti in
ipnotiche successioni, parole come micce pronte a far esplodere frasi
senza senso, gli assalti psichici, verbali e isici, ogni movimento che
viene rallentato e la memoria che ricostruisce attraverso la scrittura
le proprie soggettive visuali, i verbali in una stazione di polizia, il
testo di una performance teatrale, happening stradali, una vestaglia
viola indossata la mattina e il cazzo duro, la posizione del loto e i
respiri, il tempo interiore, mondi di puro ossigeno, le visioni ad alta
quota, nelle profondità di un azzurro in inito, le distese di nubi e le
città immaginarie, un’intervista davanti ad una macchina da presa, i
bizzarri costumi e le maschere, un frustino in una mano, gli stivali di
cuoio con il tacco alto, le corde intorno ai polsi, la strana sensazione
di aver assunto una sostanza quando non se ne ha la certezza, il sole
fuori dalla sfera di vetro, una mano che la agitava per far cadere la
neve, i giorni passati, uno dopo l’altro, l’odore della pelle la mattina,
la mia lingua sulla schiena di Bea, una scopata dopo l’altra, risvegli di
innocenza ed erezioni d’ebano, famiglie allargate, strutture sociali
disperse in mosaici di parentele inventate, qualcuno, un giorno, si era
ripreso la vita e aveva deciso di passarla come meglio credeva, una
pillola di acido, una pipa da hashish, i cuscini orientali stesi sulla
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moquette, le cassette musicali disposte in ila, alcuni giorni avevo
ancora la sensazione di essere in un luogo del passato, cercando di
ricordare il lavoro, la casa, le amicizie e gli amori, un doppio che
vagava nella notte, per quelle strade in cui si era trasformato in
un’ombra, le urla di un ragazzo ubriaco e le sue alcoliche minacce di
morte, proiezioni di oggetti sui muri gialli della stanza, i disegni
loreali delle tende che si staccavano dal tessuto per vibrare nel
vuoto, la nebbia che sfumava i contorni degli alberi neri, macabre
stilizzazioni spettrali, il gelo che disegnava astratte composizioni
usando linee di ragnatele dimenticate, l’aria fredda che respiravamo,
la mano di Bea, il suo sguardo triste, ogni tanto, quando si perdeva
nei propri pensieri, Maria mi aveva detto che con ogni donna sarebbe
stato lo stesso, aveva ragione, erano quei ili lucenti ad unirci, quelli
che avevo tagliato così brutalmente, così tante volte, quando la
necessità di essere solo diventava opprimente e mi sembrava di
soffocare, ci pensava l’esistenza ad aprire e chiudere i propri cicli, non
ci si poteva fare niente, se non imparare a comprenderli e alla ine
abbandonarsi ad essi.
Dove saremo tra un minuto, un giorno, un anno, che importanza può
avere se ancora non abbiamo capito dove siamo ora?

93.
Le telefonate da Birmingham, i produttori della BlackBombay che
tentavano di contattarmi, il mio cellulare spento, muto, ucciso in un
angolo del tavolino di legno nero, le ultime immagini che cercavo di
cancellare dalla mente, le inquadrature psichiche che i sogni
riproponevano in scenari impossibili, lavori lasciati senza una ine,
tagli su sequenze di fantasie proibite, i produttori mi volevano
ancora, seduti a fumare fra contratti che nessuno aveva irmato, le
lunghe limousine che attraversavano squarci di neon metropolitani e
spazi di ombra e buio, gli occhiali da sole a proteggere sguardi tossici,
le ragazze con le gonne corte, l’odore delle loro iche era ovunque, ti
risvegliavi in letti sconosciuti, le strisce già pronte sulle super ici
lucide, la pioggia che rigava la città, i graf i sulla pelle, i lividi come
ricordi d’amore, gli occhi pesti e la memoria che riscriveva le sue
sceneggiature, personaggi in volti deformati dalle droghe, dialoghi
notturni che l’alba faceva svanire dalle pagine e dalle bocche, le assi
colorate di un appartamento, viola e rosse, il corpo nudo di una
ragazza orientale seduta su uno sgabello, i dischi poggiati per terra,
gli enormi ampli icatori, gli strumenti elettrici, alcune fotogra ie
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attaccate ad una parete, c’era sempre la sensazione di essere in un
altro luogo, i pensieri che oscillavano sui limiti di percezioni alterate,
gli sguardi in macchina e le labbra intorno ad un enorme cazzo, c’era
da chiedersi chi avesse creato quell’estetica, come si fosse arrivati a
quella maniacale ossessione per i dettagli, ci avevano pensato il
denaro, i guadagni e l’illusione della ricchezza a produrre la visione
pornogra ica, c’erano uomini che avevano indossato maschere per
rendere più reali le loro menzogne, c’era anche il silenzio, in alcuni
momenti, quando potevi per un attimo guardare oltre gli obiettivi e le
lenti, le luci e i ri lettori, gli occhi persi nel nulla e la quiete e il vuoto
in quell’assenza di rumore e prospettive, poi tutto tornava a girare, a
complicarsi, te ne andavi per le strade ancora avvolte dalla notte, una
sigaretta incollata al labbro, c’erano puttane che ti salutavano,
spacciatori da cui non volevi più farti vedere, amici che il tempo aveva
trasformato in manichini di un teatro abbandonato, le sale vuote, le
poltrone piene di polvere, su quel palco avevi recitato molti ruoli,
poco più che elementari improvvisazioni, ti stancavi presto delle parti
e ripeterle settimana dopo settimana era stupido quanto inutile,
eppure ti avevano pagato e avevi accettato quei soldi e ti eri
dimenticato cosa fosse quel respiro che nascondevi nel petto, parole e
frasi e gesti eclatanti per scon iggere la paura, intere nottate davanti
ad uno schermo, a modellare, ri inire, rendere luide tutte quelle
sequenze, la musica nelle orecchie, melodie scritte per portarti
altrove, scosti le tende, guardi oltre il vetro, le luci rosse e
intermittenti sulle cime dei grattacieli, il mare, oltre il cemento e il
metallo, una mano che ti accarezza la schiena, dove sei stato in tutti
questi anni? Non posso dirtelo, ho solo aperto una porta, poi ne ho
chiusa un’altra e non sapevo che fra di esse ci fosse questa in inita
confusione senza ritorno.

94.
C’erano dialoghi che andavano trascritti o forse rielaborati oppure lo
scrittore avrebbe potuto crearne di nuovi e cambiare i nomi di coloro
che li pronunciavano e inventare grotteschi personaggi per i
palcoscenici psichici che prendevano vita durante la notte.
Le quattro mura bianche di una cucina sotterranea, i biscotti di burro
e skunk e le confezioni di birra appoggiate sul pavimento, la doppia
descrizione di uno stesso evento fatta da Pam e Carl mentre le loro
voci si sovrappongono creando una duplice visione di quello che è
successo nella mente di chi li ascolta.
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Warren era seduto su uno sgabello, davanti al bancone dell’Old Mill e
Charlie Pepper gli parlava del suo ultimo lavoro, lo scrittore ordinava
una pinta di porter e guardava le strane fotogra ie che riempivano le
pareti del locale. C’erano poesie e monologhi e appunti scritti nelle
pagine di un libro nero nascosto da qualche parte, ipotesi subliminali
di possibili performance e rappresentazioni sceniche, sarebbero
bastate poche sedie, un tavolo e la luce conica dei ri lettori puntata
sul volto degli attori, qualche bottiglia e le loro improvvisazioni per
renderle reali.
Le quattro mura bianche di una cucina sotterranea.
Il fumo di una sigaretta invisibile stretta fra le dita nervose di una
mano in crisi di astinenza, le ricette mediche, la mor ina liquida e le
pasticche di Tramadol e ancora delle ombre, sedute poco distanti, che
tessevano oscure trame oniriche alle spalle dello scrittore. C’erano
delle persone dentro una stanza, bevevano vino e parlavano e i loro
discorsi alcolici divenivano sempre più disordinati. Le lettere di mio
padre, poche parole, il suo ultimo disco che ascoltavo nelle mattine
invernali. Le ore sospese e gli incontri con la memoria, come tornare
indietro, il modo in cui rivedere la propria esistenza, solo un semplice
testimone degli errori e delle esperienze vissute, ogni cosa sembrava
sul punto di ripetersi per poi cambiare impercettibilmente e in quelle
minime differenze, quelle continue variazioni, c’era la possibilità
costante di inventarsi qualcosa di nuovo. Afferravamo ogni minuto e
lo espandevamo negli anni passati, camminavamo su quel crinale di
tempo, albe e tramonti, echi di giovinezza, promesse tradite, le rughe
intorno agli occhi, lo sguardo dell’adolescenza e tu, nuda in una vasca,
che offri i brividi della tua pelle alle carezze di una mano che ti s iori
e ti prenda per quello che sei.

95.
Continuavano ad arrivare telefonate da Birmingham a cui non
rispondevo e messaggi da parte di Brian, poche parole confuse e
paranoiche, sembrava che avesse dei problemi con il suo compagno,
un vecchio cliente che gli aveva chiesto di vivere con lui e uscire dal
giro, non avevo voglia di sentire le sue stronzate, i down dell’emmedi
erano tremendi e Brian ne aveva sempre una bustina piena mentre
scambiava languidi sguardi con i ragazzi dei party, in attesa che
qualcuno glielo mettesse nel culo o si facesse succhiare il cazzo.
Avevo conosciuto Brian anni prima, non ricordavo bene dove, non
sapevo neanche se la nostra fosse un’amicizia, però ci eravamo
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iniziati a raccontare delle cose e mi trovavo bene a parlare con lui,
quando eravamo da soli, seduti da qualche parte e potevamo posare
le maschere che ci proteggevano su un tavolino ed essere sinceri e
scendere in profondità e vedere dove saremmo arrivati. Passavo le
giornate chiuso in casa, su un divano, scrivendo e correggendo vecchi
racconti, lavoravo a un nuovo romanzo e fuori dalla inestra era tutto
grigio e silenzioso, un mondo sospeso dove non appariva nessuno.
Facevo delle brevi passeggiate, ogni tanto, giusto per liberare la
mente dalle troppe parole, tornavo a casa, preparavo un tè e
aspettavo che Bea tornasse, poi ci nascondevamo sotto le coperte, nel
nostro mondo privato, scopavamo ed era bello, poi l’abbracciavo e
sentivo il suo respiro e i minuti svanivano e anche il mio corpo,
galleggiavo in una quiete di pensieri ed emozioni, un vuoto
accogliente, una realtà diversa, così umana ed eterna. Bevevamo del
vino, alcune sere, seduti sul divano, venivano dei suoi amici a trovarla,
mi limitavo ad ascoltare, non avevo molta voglia di parlare, bevevo
lentamente, facevo qualche tiro di canna, osservavo gli altri, prendevo
appunti mentali, scivolavo, sorridevo, mi alzavo per andare a
prendere un’altra bottiglia, il telefono da una parte, i messaggi e le
chiamate perse, c’era una vita che voleva avermi indietro, persone
che reclamavano la mia presenza, l’avevo fatta inita con quei volti e i
loro discorsi.
Poggio la testa sulla spalla di Bea, qualcuno accende una sigaretta, il
posacenere pieno sul tavolino, i giorni e il passato che svaniscono
come polvere d’argento fra le dita.

96.
Damien mi mandava delle fotogra ie da San Francisco, senza nessun
commento, nessuna parola, solo delle immagini e la luce impressa
dentro di esse. I nostri discorsi alcolici, in una piazza di San Lorenzo,
a Roma, quando eravamo ubriachi e ci eravamo seduti per strada, poi
lo avevo portato a casa e gli avevo mostrato la stanza dove vivevo,
aveva dormito con me quella notte e ci eravamo svegliati insieme. Il
giorno dopo era ripartito per Parigi e non ci eravamo più visti. C’era
qualcosa di femmineo e orientale nel suo sguardo, forse del sangue
arabo.
Eravamo entrambi interessati ai movimenti del presente, agli scarti
improvvisi, alle fugaci sorprese della bellezza. Quando era ancora in
Francia, prima di trasferirsi in California, mi spediva delle vecchie
foto erotiche, non so dove le trovasse, ma conosceva le mie passioni.
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Avevamo passato un giorno in un parco, era la ine dell’estate,
insieme a Lynn e la sorella, stesi sull’erba, a bere vino e parlare,
qualcuno stava disegnando e io scrivevo su un diario le ultime pagine
della mia esistenza, prima che tutto cambiasse e di quelle ore non
rimanesse più nulla.
C’era un cinema a Newtown dove ogni tanto andavo a vedere dei ilm,
il Regent, in un vecchio edi ico industriale, i mattoni, gli stretti
corridoi, le scale, la sala buia, poi qualcuno mi passava delle iale di
mor ina quando mi sedevo su una delle poltroncine rosse, l’oscurità e
il fascio luminoso che si trasformava in sogni e meraviglie, mi
perdevo in quelle visioni ed entravo dentro di esse, poi ne uscivo
fuori e c’erano la pioggia, le strade lucide e un gruppo di amici di cui
non ricordavo mai il nome ad attendermi, ascoltavo le loro storie,
sorseggiavo una pinta, accarezzavo le iale nella tasca.
Joel era in piedi accanto al bancone e aveva una strana espressione
sul volto, mi ha chiesto se avessi bisogno di qualcosa, gli ho sorriso,
dicendogli che ero a posto, che tutto era nel suo giusto ordine, anche
se non sapevo bene quale fosse. Poi l’ho salutato e sono uscito dal
King’s Head e fuori c’erano vicoli e poche persone e un vento freddo
che faceva oscillare i rami degli alberi, sono andato verso il iume e
l’ho guardato. Nella stanza ho preparato la siringa e ho acceso alcune
candele, poi c’erano i loro visi nella mia mente, alcuni in lacrime, altri
sorridenti, i visi di quando eravamo giovani e non potevamo sapere
quanti e quali sarebbero stati gli inganni della vita, qualcuno era
rimasto in quel luogo, altri erano fuggiti per sempre, ero solo adesso,
un involucro di cartapesta, una maschera millenaria, un sussurro
nella notte, una porta che si apre nel vuoto, dove siete andati? Dove?
Lei che entra e mi accarezza la testa, raccoglie quello che è rimasto
dal pavimento e lo sistema su un tavolo, sof ia sulle candele, il calore
del corpo, quello nelle vene.

97.
Giornate senza tempo, rinchiuso in casa, luce bianca e nuvole e alberi
spogli come poesie mai scritte, un senso di quiete e leggerezza,
pensieri fatti di aria e lenzuola sporche di sperma che non avevo
voglia di cambiare. Giravo nudo per le stanze, la vita di un pesce in un
acquario, le bottiglie di gin e le lattine di birra e John che ogni tanto
mi veniva a trovare, parlandomi di suo iglio, i piccoli traf ici di
sostanze, credeva che lui gli rubasse le pillole di Diazepam e che le
nascondesse nella casa della madre, insieme all’emmedi e all’hashish,
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aveva solo sedici anni, pensavo a quando avevo avuto la sua età, ero
un ragazzo ingenuo, le droghe le ho scoperte dopo, un approccio
scienti ico, da studioso, si erano aperte parecchie porte e da alcune di
esse non avevo più fatto ritorno.
Passavo le mattine scrivendo e si sommavano le pagine di un
romanzo inesistente, le fotogra ie mentali ed emotive con cui potevo
connettermi, quelle del passato, racchiuse in cartelle azzurre, quelle
delle vite che avevo creato e distrutto, delle maschere e dei costumi
indossati, dei respiri prima di svegliarmi e addormentarmi con la
dolce e piacevole certezza di avere fatto tutto quello che c’era da fare.
Avevo osservato le varie possibilità, i dettagli e i particolari che
rendevano credibile una storia, l’obiettivo era adesso un altro,
addentrarsi nell’ignoto, nella confusione, camminare su strade
caotiche e solitarie, vedere dove sarei arrivato, il centro quieto e
calmo del mio essere, una casa di mattoni accanto a un iume, le
camere vuote, parlavo ancora con i fantasmi e attendevo le loro
risposte, gli ultimi amori svaniti, le amicizie dimenticate, non c’era
più nessun desiderio e per questo ogni cosa era meravigliosa, ogni
attimo, ogni secondo, segreti appuntati sul bordo di una pagina
bianca da strappare, mi accarezzo i coglioni, perché la vita non se ne
sta mai buona e i igli che non ho mai avuto ancora aspettano che
qualcuno gli racconti una favola per farli addormentare.

98.
Warren aveva una lista in mano, con nomi, ossessioni e dipendenze di
ognuno di noi ed era domenica pomeriggio e alcuni erano già seduti
nell’Old Mill, intorno a lui, a bere pinte di birra e aspettare di essere
chiamati. Si trascinavano gli effetti delle sostanze, lungo le ore,
trasformando le notti in giorni e cambiando forme e dimensioni al
tempo, una super icie allungata e malleabile con le impronte delle
dita di diverse mani sopra, proprio in quei punti in cui ognuno aveva
cercato di afferrarla con l’illusione di possedere almeno un attimo di
gioia. Sarebbero poi arrivati all’alba, gli uomini in divisa, a controllare
chi fosse stato felice e chi no, bisognava stare attenti e ci si
nascondeva dentro stanze calde e confortevoli, con una moquette
marroncina sul pavimento e delle donne che ballavano, da sole, in
uno spazio personale e femminile, i loro corpi scivolavano su tappeti
di note e i piedi si posavano leggeri perché sapevano che nessuno
sarebbe venuto a disturbarli, i nostri occhi che li guardavano, perché
quei movimenti diventavano immagini e la musica inventava nuove
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direzioni da seguire e le strade che attraversavano le colline e i campi
e che irradiavano sfumature smeraldine e le discussioni alcoliche in
cucina quando inalmente si trovava il coraggio per esprimere i
propri sentimenti nascosti. C’erano ancora camere oscure nella
psiche e qualcuno che ci si rifugiava per giocare con le ombre, le
candele in una scatola di legno, Warren prendeva appunti, al di là
dello specchio, prima che i ricordi si deformassero e la memoria
costruisse versioni diverse e inali alternativi, il foglio passava di
mano in mano e altri uomini in camice bianco lasciavano dei piccoli
segni, delle brevi note al margine, interi schedari e scaffali nelle sale
impolverate e anziane segretarie che spingevano carrelli lungo grigi
corridoi, uno sguardo sul mare e sui colori che il pittore non riusciva
più a riprodurre su una tela, sbarre e bisogni ed errori, le linee
giallastre delle gabbie, quelle appena accennate degli ambienti, colate
di toni oscuri e densi, il lago era immobile e il suo ri lesso puro, una
nuova pagina su cui appuntare le proprie debolezze, i ghigni negli
angoli, la pioggia sul parabrezza della macchina, un parcheggio
deserto, l’insegna accesa in una inestra di un hotel in un giorno
d’inverno, Warren conta le gocce di Valium che cadono in un
bicchiere, poi si siede, osservando il vuoto e ascoltandone le voci.

99.
Iniziava con i respiri e una sensazione di leggerezza, il corpo diveniva
luido e le sue forme erano come colori che si mischiavano fra di loro,
c’era una presenza nel tuo cuore, qualcuno che avevi amato e che
adesso era lì con te, in ogni singolo movimento dei polmoni e se
aprivi gli occhi le prospettive della stanza cominciavano a modi icarsi,
le linee delle pareti non erano più così dritte e gli angoli sembravano
gon iarsi e restringersi, le tende emanavano una luce propria mentre
le coperte e i cuscini respiravano come strani animali raggomitolati,
sotto le lenzuola potevi scorgere le stesse profondità della terra, le
radici che la attraversavano, eri un essere letargico, in cerca di calore
e se chiudevi le palpebre le immagini al loro interno si trasformavano
seguendo il susseguirsi della musica, c’era qualcosa di femmineo nei
tuoi pensieri, ormai solo proiezioni della mente senza più nessuna
parola o linguaggio verbale, la sensazione di venire accarezzati e
svanire in quel contatto, osservavi le tue mani ed erano
improvvisamente invecchiate e la pelle era lucida, come fosse di cera,
in alcuni momenti era come essere nelle esperienze che la febbre
portava con sé, quello scorrere disordinato di eventi e igure
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psichiche, teatri del delirio colmi di grotteschi personaggi, davi
ascolto alle loro voci solo per dimenticartene un istante dopo, la
realtà che adesso si mostrava in una nuova e malleabile consistenza
era identica a quella dei sogni, cambiamenti indotti dall’ingerire una
discreta quantità di funghi magici, ne aveva contati più di trenta sul
palmo della mano, il loro sapore amaro, di radici e foglie morte, il loro
potere, la loro saggezza.
Porte aperte sul passato, madri, sorelle, amanti e amiche, ognuna di
loro seduta nella penombra della memoria, ognuna meravigliosa e in
silenzio.
I giorni in cui le hai amate, quelli in cui le hai perdute.
Una Splendida Scon itta
Parte quinta
Operazione Giulia
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100.
Traslochi e spostamenti, gli scatoloni di cartone pieni di oggetti, i
disegni e le fotogra ie, i vecchi mobili, Carl parlava senza fermarsi un
attimo, discuteva, rideva, dava indicazioni, inventava storie e dialoghi,
costruiva sceneggiature anfetaminiche improvvisando ruoli
eccentrici, alimentati da eccessi di dopamina. Pam divideva lo spazio
dentro al furgone secondo logiche razionali e simmetriche e ogni cosa
si incastrava in esso seguendo geometrie liquide e tridimensionali
come le immagini del fuoco elettronico su una delle pareti della
nuova casa, i cui bagliori lisergici si ri lettevano in cornici di metallo
nero. La moquette sul pavimento, morbida e rassicurante, i cuscini
orientali e il tavolino di legno basso e consumato sul quale scrivere e
preparare sostanze, qualche misterioso decoratore di interni doveva
aver spiato i sogni dello scrittore e rubato i suoi arredamenti onirici
per riproporli in questa realtà evanescente. Nuove pagine bianche in
un diario dove tenere il conto degli orgasmi dati e di quelli ricevuti, i
passi incerti di una disintossicazione alcolica e quelli bizzarri di una
dipendenza sessuale e le sedie per il bondage fabbricate dal padre di
Rebbecca, chiuse in qualche oscura stanza dei giochi. Lo scrittore
poteva solo prendere nota di tutti gli eventi e segnare punti su una
immaginaria linea temporale e tracciare segmenti narrativi che
andassero a formare storie e trame. C’erano corde di luce a collegare i
corpi fra di loro e racconti che il giorno poteva mutare a seconda
dello spostamento delle nuvole nell’aria, le gocce di pioggia che
punteggiavano la inestra in una grammatica di distorsioni visive,
bastava guardarci attraverso per intravedere l’origine stessa di un
temporale, i corvi si alzavano e si posavano in stormi dalle grottesche
forme, disegni in movimento dai pendii verdi delle colline verso il
cielo grigio, la camera delle punizioni era ancora da sistemare, gli
anelli di costrizione, l’energia bianca che tornava a pulsare, il
desiderio del controllo e i vecchi manoscritti sparsi su un tavolo, le
candele che qualche mano accendeva, le lunghe dita che
sussurravano ricordi, le voci che ancora parlavano oltre le barriere
del sonno e le strade della mia città dove mi ritrovavo a camminare
una volta superate le frontiere della notte, i soliti rancori, la rabbia
improvvisa, i copioni recitati per tutta una vita, i muri sembravano
respirare, qualcuno si puliva il culo con teoremi e dimostrazioni
euclidee, le mele stilizzate su una tovaglia di plastica, il leggero
dondolio della mia testa, il vuoto dietro alle spalle, io e Bea
continuavamo a parlarci in silenzio perché le nostre voci potessero
tornare ad avere un senso e prospettive di idee che non ci
appartenessero.
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101.
Paesaggi interiori e dipinti che prendevano vita fuori dalle vetrate e
dalle porte chiuse oltre le quali si celavano stanze mentali che ognuno
degli ospiti poteva riempire con un proprio arredamento emotivo e
psichico. Una donna seduta su una sedia a dondolo, le persone che
venivano a parlare con lei. C’erano drammi notturni e alcolici che
aspettavano di essere raccontati e paranoie come relitti di deviazioni
comportamentali, l’effetto delle droghe che modi icava e alterava stati
d’animo senza stabilità, fulcri ed equilibri sul punto di crollare.
Telefonate mute, dialoghi che lo scrittore trascriveva sul quaderno
nero, indeciso se spedirli al Dottor Ballard per un’analisi attraverso le
strutture del sogno e del delirio o se tenerli per lui, nell’attesa che
sceneggiature sperimentali trovassero le loro forme in spirali di
parole in movimento. Le sinusoidi dei sentimenti che oscillavano
lungo una linea speculare nella quale ognuno osservava sé stesso e
l’altro, il ripetersi di schemi psicologi che ri iutavano l’astrattismo per
stilizzarsi in serie di linee verticali simili a sbarre, codici di
merci icazione e pareti bianche che attendevano foto, stampe e
manifesti, avanguardie artistiche del passato, uomini dai grandi baf i
che pedalavano su biciclette dalle enormi ruote. Era un continuo
scontrarsi con la realtà, traumi creati dal distacco, le sostanze che
permettevano un susseguirsi di alterazioni e cambiamenti, le intere
giornate che avevo passato ad ascoltare gli altri, gli innumerevoli
frammenti, le schegge e le crepe, i muri improvvisi, i paradossi insiti
in ogni signi icato, altre lingue, nuove parole, costruivamo il nostro
mondo attraverso descrizioni inventate. La maniera in cui il respiro si
trasmetteva agli oggetti, la loro personalità e quella dei mobili, i
moduli da compilare con il pensiero perché c’erano uf ici di polizia
vuoti che sospettavano di penne e matite, con ile di scarafaggi che
raschiavano i pavimenti delle celle. Una vibrazione interiore, un
epicentro di lacrime e rancori, le onde che il cielo sfumava in colori, la
gloria della ine del giorno, la polvere sui vestiti, Luke seduto sul
divano, le confessioni nascoste, ogni gesto d’amore che abbiamo
tenuto segreto fra le carezze della violenza.

102.
Nervature d’inchiostro sulle pareti bianche, disegni d’insetti
tridimensionali in linee di fumo, cuscini addormentati come gatti sul
divano, gli oggetti sembravano possedere una loro personalità e ne
scorgevi i volti: sedie, poltrone, armadi e maniglie. Le super ici di
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legno e plastica si muovevano lentamente, i materiali si
rimodellavano in nuove fantasie colorate, era come osservare
qualcosa sotto la super icie dell’acqua mentre ondeggiava seguendo il
lusso delle correnti marine. Posare i piedi nudi sulla moquette e
lasciarci sopra delle impronte, come se fossero assorbiti da essa,
c’erano movimenti nei limiti dello sguardo e una luce che pulsava e
sfumava nei tessuti e pensieri tentacolari che si aggrappavano alla
mente cercando degli appigli nei ricordi, respiri che diventavano più
scuri e profondi, un senso di tristezza e i volti delle donne e il loro
amore e anche il modo in cui si legavano al tuo cuore, erano
semplicemente diverse, bisognava accettare quell’essenza anche se
una parte di essa era già presente dentro di me, non avrei mai potuto
abbandonarla, intuizioni femminee e giochi d’infanzia e anche risate e
sospiri e poi lasciare quelle immagini e rimanere solamente a
guardare la magia di un mondo e una realtà in continuo mutamento,
essere sospesi e presenti in una nuova dimensione e ammirarla come
se fosse la prima volta, parlavamo con esseri inesistenti solo per
provare a noi stessi che nulla era vero, regni di immaginazione,
in inite città di sogno.

103.
Campi di battaglia mentali, eserciti di idee e ossessioni schierati sui
pendii delle colline psichiche, sfumature violacee nelle mattine
inventate dalle pillole, non c’erano differenze tra alleati e nemici,
perché ognuno era pronto a mentire e tradire, le bandiere venivano
bruciate in un vento che le mani potevano toccare, all’interno di
tunnel psichedelici si moltiplicavano strategie di annientamento, fra
urla ed esplosioni che nessuno credeva reali, i colori si scioglievano e
Glyn riempiva un altro bicchiere di vino mentre raccontava di
un’operazione della polizia, quasi quaranta anni fa, quando fu
scoperto un laboratorio segreto, all’interno di un vecchio cottage in
campagna, per la produzione di massa di acido lisergico, migliaia di
fogli imbevuti di LSD e le tecniche rivoluzionarie per far impazzire
un’intera nazione, travestimenti e false identità e gas esilaranti
lanciati contro la polizia, le barricate che il tempo avevo abbattuto e
le foto di genitori e famiglie, i capelli lunghi e i vestiti colorati e le
ombre di quello che era rimasto, aloni di luce che risplendevano nella
memoria, una donna sarebbe venuta a prendermi con una macchina
gialla, un nuovo contatto, i nuclei armati avevano scelto la
clandestinità e le prossime droghe sarebbero state più micidiali e
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pericolose di qualsiasi arma meccanica, le valigette piene di soldi e
viaggi in Sud America per scoprire antichi allucinogeni, tutta una
generazione aveva attraversato il bordo dello specchio e si era persa
in un mondo speculare e alterato, i racconti trascritti in codice su fogli
bruciati, i denti neri di un uomo mentre si accende una sigaretta e
inizia a parlarmi del passato e del futuro e di tutto quello che i giorni
hanno nascosto, il cielo è di nuovo grigio e ci sono fotogra ie che
attendono di essere appese, un obiettivo che non cattura nessuna
immagine, le sbronze che diventavano teatri di improvvisazione,
maschere che tenevo nascoste in una stanza segreta, gli stivali neri in
un angolo, le diapositive oniriche che disturbavano le normali
percezioni, interferenze erotiche, accumulo di energia, ri lessi di dita
e macchine da scrivere, i semi del nostro abbandono, la luna piena nel
cielo, i canti che la gioventù aveva scritto con il sangue delle rivolte.

104.
Incognite e abbandoni, le paure irrazionali che giocavano a
nascondino nella mente, padri che erano partiti per l’India o il
Marocco senza fare ritorno, famiglie dalle forme elastiche, i caravan e
le tende e le fotogra ie del passato, i volti che qualcuno aveva amato,
le trasformazioni del corpo e le attese delle nascite. C’erano cicli che
ruotavano intorno al nostro essere e ci trasportavano con loro mentre
attraversavamo tutta una serie di ruoli, interpretavamo personaggi,
confondendo la nostra vita con il nome che qualcuno ci aveva dato. I
ri lessi di luce sulle inestre e sulle onde, lo scrittore che si riposa su
una sedia, in un terrazzino al terzo piano di un albergo, issa il mare,
chiude gli occhi, le immagini che arrivano, passano e ritornano, i
suoni dei gabbiani, le ali dorate, le poesie scritte osservando il cielo e
le parole che echeggiavano ancora da qualche parte, in un’isola che le
maree proteggevano, fra i disegni di falli enormi sulla sabbia, le
bambine che guardavano incuriosite quelle linee senza sapere che
signi icato dargli, le bottiglie di vino in un angolo, lo scrittore si
sdraiava sul letto e sentiva il rumore dell’oceano e pensava che non ci
fosse più bisogno di nulla, che la sua vita stava lentamente
naufragando e che in fondo era quello che aveva sempre voluto.
La mattina mi avvicinavo ai vasi sul davanzale con la speranza che i
semi iniziassero a dischiudersi, la sera me ne stavo sul divano, le
striature rosa nel cielo e Bea che le ammirava dalla sua sedia a
dondolo, alberi dalle forme contorte e nuvole e gli occhi di lei che ne
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ri lettevano l’azzurro, poi le panchine e il sole sul volto e tutte le volte
che sono rimasto senza pensieri, senza domandarmi cosa sarebbe
successo dopo, senza più nessun futuro ad attendermi e nessun
passato a ricordarmi gli errori che avevo commesso.
Nel silenzio dei giorni aprivo libri e ne accarezzavo le pagine, gli
scrittori che mi avevano accompagnato, le loro voci che avevo
ascoltato per così tanto tempo, nei sogni avevo visto persone morte, i
loro visi immobili all’interno di una teca funeraria, le oscillazioni dei
palazzi, durante un terremoto, uomini e donne cadere nel vuoto,
perdere ogni appiglio, in misteriose rotazioni oltre la gravità.
Un giorno in cui ero davanti al portone della casa di mia madre ed era
tutto così concreto e vivido e lucente che mi sono chiesto se fosse
reale o no, sapendo bene la risposta e allora sono arrivato nel cortile,
la palma immensa, le facciate gialle e semplicemente mi sono alzato
in volo, così leggero e lieve, un bambino che mi guardava stupito, l’ho
salutato, prima di svanire negli anni, ogni illusione che abbiamo
scon itto, ogni lacrima che ci hanno proibito di piangere, la gioia che
ho nel petto quando ti sento respirare, come se fossimo noi l’ossigeno
e l’aria e la quiete di questo mondo perfetto.

105.
Stanze e corridoi oscuri, colori cupi, liquidi e soffocanti, luci al neon
attaccate alle pareti, i ronzii degli insetti meccanici, le mani sporche,
l’olio nero che colava in un secchio sul pavimento, i motori
arrugginiti, gli scaffali pieni di parti mancanti, rubate e abbandonate,
gli schemi ripetuti nella mente, un dito puntato sulla gola, i centri di
energia e i loro colori, la tenda mongola in cui viveva Robyn, i vestiti
dell’ottocento e gli oggetti della memoria, uno specchio senza ri lessi,
le tende e i cuscini e i tessuti orientali, l’oppio fumato a Venezia in
una casa abbandonata sul punto di crollare, disteso sulla moquette
grigia, i piedi di una donna sul mio volto, così reali e nitidi, il
desiderio di leccarli, l’odore del sesso tra le lenzuola. Il sole splendeva
in un tempo dilatato e brillante, i punti sulla linea degli eventi
diventavano stazioni di una metropolitana mnemonica, tornare
indietro e osservare quanto era successo, gli archivi con le pagine
scritte, le connessioni emotive, le immagini proiettate dagli occhi, le
colline viola, i pensieri che perdono consistenza, il loro intrecciarsi, lo
sguardo dello scrittore e le sue parole che attendono di essere
trovate.
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106.
Ace parlava con Paul, probabilmente di droghe, mentre erano seduti
davanti a un bidone dove qualcuno aveva acceso un fuoco. Paul aveva
gon iato palloncini con ossido nitroso per tutta la notte, dentro la sala
in cui le persone ballavano, le luci stroboscopiche vorticavano nel
buio e Luna danzava a occhi chiusi, il corpo magico che si muoveva
nello spazio che la musica creava. Luke faceva girare i dischi e dalle
enormi casse arrivavano vibrazioni che attraversavano la pelle, i colpi
dei bassi ti facevano allargare lo stomaco e potevi sentire quelle
pulsazioni espandersi dentro di te. Bea mi aveva dato una cartina
piegata con dentro dell’emmedi, l’avevo inghiottita con un sorso di
birra, eravamo seduti su un tappeto disteso sull’erba e la luce era
chiara e pura e faceva risplendere la realtà, i colori avevano
un’intensità diversa, qualcuno si sedeva a chiacchierare con lei,
ascoltavo parti dei discorsi, mi guardavo intorno, non avevo mai
molta voglia di parlare, rimanevo in silenzio, lasciando che il tempo
luisse. Chris Crusher aveva pantaloni e maglietta attillati con
geometrici disegni in bianco e nero, la sua voce era calma, calda e
suadente, lo osservavo sempre con molto interesse, mi aveva passato
un dito sul petto, durante la notte, poi il suo volto e quello di Bea che
mi guardavano e mi dicevano di stare tranquillo, ero sdraiato per
terra, avevo perso i sensi per alcuni minuti, un calo di pressione, gli
dicevo che stavo bene, poi mi ero messo seduto e tutto sembrava di
nuovo normale e non c’era più nulla di cui preoccuparsi. Avevo
bevuto un liquore a base di prugne, su un divano, sommerso dai
pensieri del sole, una donna me lo aveva passato, molto più grande di
me, i vestiti colorati e lucenti, i piedi nudi che me lo facevano venire
duro, qualcuno faceva girare una canna d’erba, ringraziavo e davo un
paio di tiri, poi tornavo dentro me stesso, Matt era sdraiato su un
altro divano, gli occhiali da sole, mi chiedevo se fosse sveglio o meno,
poi era in piedi con i suoi strumenti da giocoliere, mentre provava
alcuni esercizi, gli avevo chiesto che ine avesse fatto il suo furgone, si
era rotto e adesso era fermo da qualche parte, la stagione dei festival
stava per iniziare, avrebbe trovato un altro modo per rimettersi in
movimento e continuare questo scherzo in cui tutti noi inivamo per
essere intrappolati, bisognava pur dirla una parola, fosse anche un
saluto o un’osservazione senza senso, era dif icile in alcuni momenti
smetterla con l’immaginazione e cercare di afferrare un appiglio di
concretezza, ma poi i personaggi tornavano a essere più dettagliati
delle persone e lo scrittore gli dava vita e spessore, i dialoghi li
recitava nella mente e costruiva brevi sequenze che avrebbe poi
montato in seguito. Gli occhi di Carl erano spiritati, il volto tirato,
diversi stimolanti lo spingevano sempre più in alto, si sarebbe potuto
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staccare da terra e camminare nell’aria, i rumori delle narici che
tiravano, la polvere bianca che veniva risucchiata dentro una
banconota arrotolata, c’erano scatolette di metallo piene di sostanze,
la musica continuava ad arrivare, viaggiando tra gli anni, gli stili e i
generi e Chris Crusher era entrato nella grande tenda con la sua borsa
e i suoi dischi, miscele sonore di funk, jungle e soul e il giorno in cui
Ace aveva deciso di smetterla con l’insegnamento e aveva spalancato
le inestre delle classi in cui qualcuno lo aveva rinchiuso per anni e
non c’erano state più domande, era uscito dalla scuola e aveva
indossato degli occhiali dalle lenti scure, poi era scomparso da
qualche parte, i contatti per le droghe, i libri da leggere, le
conversazioni private/pubbliche registrate su dei nastri analogici,
c’era ancora l’idea di scrivere un romanzo usando quelle
registrazioni, quando il materiale sarebbe stato suf iciente, qualcuno
mi passa un'altra mezza pillola blu, è sera o mattina? Chiedo a un
ragazzo accanto a me, la luce è identica e le percezioni temporali sono
alterate, butto giù la mezza blu con un sorso di birra e cammino nelle
stanze dei miei ricordi, sorrido quando qualcuno mi parla, Paul sta
ancora gon iando palloncini e gli altri ci si attaccano e inspirano ed
espirano il gas esilarante, gli occhi di Paul sono famelici, allucinazioni
che divorano la vista, gli manca un dente e indossa uno strano
berretto che lo fa sembrare un coniglio, respiro il gas quattro o cinque
volte e la testa mi diventa leggera, un breve lash di ebbrezza, poi un
uomo con un cappello da cowboy mi offre una striscia di emmedì,
ringrazio, tiro e torno a ballare. C’è Robyn nei suoi vestiti da donna,
ogni dettaglio minimamente curato, ha degli occhiali con delle lenti
pentagonali blu, gli anelli alle dita, trasformazioni notturne, quando è
la sua metà femminile a trovare fantasiose e bizzarre forme
espressive, poi di giorno torna ad essere il gentiluomo di campagna di
ine ottocento, seduto in disparte a fumare erba. Stavo perdendo la
mia identità e osservavo scenari psichici e cambi di comportamento,
le sostanze modi icavano le persone e forse anche me stesso, in
quelle nuove possibilità di esistenze che mi apparivano ogni volta
come fossero la prima non avevo nulla da dire, non trovavo spazio per
esprimermi perché semplicemente avevo scordato tutte le parole,
non c’era un passato che volessi raccontare e neanche un futuro che
volevo raggiungere, c’era questa bolla di tempo e immagini e io mi
trovavo seduto nel suo centro, completamente vuoto e trasparente,
luttuavo tra gli altri, giorno dopo giorno, perdendo sempre di più
consistenza. C’erano degli appunti, delle note scritte da qualche parte,
visi che si nascondevano nei sogni e nella memoria, era bello starsene
per i fatti propri, sorridere, lasciare che ognuno proseguisse il suo
cammino, faceva più freddo e le ombre stavano arrivando, mi sono
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seduto vicino al fuoco, Ace era alla mia sinistra, ha detto qualcosa che
ho pensato fosse divertente, poi ha acceso la canna spenta che aveva
in mano, ha guardato il cielo, anche i nomi che davamo alle stelle
sarebbero stati dimenticati, nell’oblio e nella nostalgia del loro suono
ancestrale.

107.
Le pareti mentali erano state imbiancate di recente e un uomo vestito
di stracci vi passava sopra il rullo con la vernice del presente, con
movimenti lenti, poi saliva su una scala per raggiungere quelle parti
sporche, quegli angoli psichici dove era dif icile arrivare, c’erano
mutamenti nello spazio e nuove coordinate tridimensionali, vertici
che sprofondavano in prospettive oniriche, perché durante i sogni si
facevano rivoluzioni gravitazionali inscenate in giardini primaverili
con fontane silenziose e uomini e donne che camminavano all’ombra
degli aranci, poi le immagini casuali di un passato dove i personaggi
venivano interpretati da giovani volti, qualcuno aveva riscritto le mie
battute, per farle diventare più drammatiche e gli sceneggiatori
consumavano le notti cercando di capire la psicologia di strani esseri
che si nascondevano tra i cuscini di divani impolverati, c’erano
enormi lampadari, gocce di vetro come stille d’aurora e le pipe di
oppio ancora calde, i piedi nudi di una donna di marmo e la sua voce
che riecheggiava nei saloni ormai vuoti, gli enormi dipinti sulle pareti
rosse, lui aveva le mani legate dietro la schiena e una ragazza gli
solleticava i capezzoli con la punta dei suoi guanti di damasco,
c’erano corridoi energetici in cui i colori risalivano lungo la colonna
vertebrale di un’architettura ottocentesca, ancora i palazzi e le
scalinate di pietra e Hinton che mi passa la sua pipetta, l’hashish
marocchino, un paio di boccate, cerco appigli visivi mentre le igure si
sdoppiano e sento la sedia tenersi in bilico sulle crepe delle parole, gli
altri stanno ridendo e scherzando e ci sono fasi alterne di silenzi e
sorsate di birra, sguardi in macchina e alcune frasi fuori sincrono e la
mattina è un tappeto sonoro di richiami di uccelli e una leggera
pioggia, le cime degli alberi nell’aria in ondulazioni cromatiche,
rami icazioni dell’ego in inedite teorie analitiche, si intrecciavano il
linguaggio e la forma dei fenomeni, un ennesimo paragrafo che lo
scrittore trascriveva da una fonte di pensieri misteriosa, i paesaggi
dai colori modi icati, gli specchi che irradiavano personalità divise in
in initi ri lessi, tu, noi, gli altri e chi ci osservava, seduto su una
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poltrona, dall’altra parte del vetro, appuntando note su fogli ingialliti
dal sonno.

108.
Il libro dei sogni poggiato su un comodino di legno e la scatola con le
erbe sacre in uno dei cassetti, da preparare e assumere prima di
andare a dormire. Una mascherina nera sugli occhi e le immagini
create dalla mente, una volta disconnessa dalle ordinarie percezioni.
Si eseguivano esperimenti nei laboratori delle industrie psichiche e lo
scrittore o il suo doppio tenevano un diario in cui appuntavano date e
risultati, ogni giorno aveva la parvenza di qualcosa di ripetuto eppure
inaspettato e c’erano voci e volti e suoni e rumori e le mani di una
donna che accarezzava l’aria come fosse solida, vedere attraverso i
colori senza avere le parole adatte per spiegarlo, bisognava
inventarne di nuove e distruggere le vecchie strutture sintattiche, il
linguaggio veniva destrutturato e rimontato seguendo logiche
primitive, gli antichi sciamani erano seduti in cerchio e mormoravano
le loro melodie, i battiti ritmici sul tamburo di pelle, le penne degli
uccelli, i piccoli sassi e le conchiglie, qualcuno mi aveva chiamato da
Londra perché andassi di nuovo a perdermi tra le architetture e i
miraggi industriali di quella città, avevo una macchinetta fotogra ica e
un quaderno ed era tutto quello di cui avessi bisogno, la memoria era
diventata luida e osservavo i miei errori, chiedendomi inalmente
come avessi potuto commetterli, erano descrizioni oggettive,
concrete e senza giudizio, il ripetersi di schemi che avevo inito per
credere reali, obbedendo agli impulsi dell’illusione di appartenere ad
una vita che non fosse mia, guardavo le mie azioni e i comportamenti
e gli stati d’animo e anche tutte le cose che non avevo mai capito ed
erano lì, poi scomparivano e c’era solo il cielo con i suoi colori tattili e
le colline in lontananza e i respiri delle pareti e qualcuno che mi
chiedeva cosa provassi all’interno, di che cosa? Quale interno?
Domandai, non c’erano distinzioni, i palazzi erano crollati, le aule in
cui avevo insegnato smantellate, sulle lavagne si potevano ancora
scorgere i segni sbiaditi di alcoliche lezioni, i capi avevano deciso che
era meglio sbaraccare, distruggere le tracce, dare nuovi ruoli e creare
diverse posizioni, c’erano spie travestite, dentro i corridoi, sapevano
come nascondersi nei sorrisi, nei codici criptati dei discorsi che si
facevano durante le riunioni, il metodo migliore era addormentarsi
mentre gli altri parlavano e iltrare attraverso l’inconscio i messaggi e
gli ordini ricevuti - Guardavo una inestra al settantaquattresimo
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piano di un grattacielo, le iamme che ne uscivano fuori, una donna
correva per la strada terrorizzata, un masso si levava dal suolo,
apparentemente senza gravità, i loop ripetuti delle immagini, le
droghe sconosciute che qualcuno aveva messo in circolazione, i dadi
in un barattolo, le combinazioni di numeri che le cavie avevano il
compito di indovinare, scariche elettriche e irrazionali cifre
d’abominio, abbiamo trovato una via, disse l’uomo con il camice
marrone, gli altri applaudirono, qualcuno si pulì gli occhiali, un
sorriso, un dento d’oro, una capsula di veleno, gli spazi aerei e le
foschie viola che i tramonti dipingevano di malinconia.

109.
Travestimenti notturni nella tenda di Robyn e oggetti e gioielli e
bizzarri accessori, i cambi d’identità sessuale e un ragazzo seduto su
un divano pieno di cuscini, una bustina con dell’erba jamaicana fra le
dita, qualcuno che accende la stufa mettendoci dentro dei pezzi di
legno, poi una serie di fotogra ie nelle mie mani: i costumi, gli sguardi,
le trasformazioni.
Nel pomeriggio della domenica il sole era lucente e illuminava il
mondo in un’estatica meraviglia, io e Bea eravamo sdraiati sull’erba a
bere birra e fumare hashish marocchino insieme a Ken e lui sembrava
stranamente a suo agio in mezzo a noi mentre una donna parlava di
suo padre, di quando si erano conosciuti ed erano racconti che si
perdevano nei ricordi di tempi fuggiti troppo velocemente, senza
controllo, perché nessuno sapeva cosa stava facendo, con le droghe
che alteravano e costruivano universi paralleli nei quali rifugiarsi o
impazzire.
C’erano dei vuoti nella memoria, delle parti mancanti e lo scrittore
poteva aggiungere nuovi particolari e ricostruire le scene come
meglio credeva, Luna lo aveva salutato con un bacio sulla mano e si
era allontanata leggera e sorridente e Bea chiacchierava con tutti e lo
faceva sentire al sicuro, lo scrittore osservava gli spostamenti, le
direzioni, le pause, le improvvisazioni, si lasciava trasportare e poi
ordinava ancora da bere, ci saremmo mai liberati anche da noi stessi?
Ce l’avremmo mai fatta a non essere più nulla, solo vuoto e respiri e
nessuna voce a chiederci e domandarci signi icati e spiegazioni?
L’aria della mattina era dolce e profumata e le sequoie immense
visioni che lo sguardo inseguiva, poi i tuoi respiri e i sentieri fra i
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prati e dove sarei arrivato nei giorni che la vita ripeteva solo per
dimenticarsi di se stessa.

110.
Baracche abbandonate e silenzio, stanze piene di vecchi oggetti,
poltrone impolverate, libri con pagine mancanti, divani sfondati,
scatoloni colmi di lampadine, i giochi della luce sulle pareti, una
strana calma, la notte faceva di nuovo freddo e lo scrittore cercava
delle coperte, camminando per i corridoi, aprendo porte di pura
immaginazione.
C’era ancora lui, seduto da qualche parte, a osservare il tramonto,
schiere di case costruite sulla sabbia, i ritmi delle maree e i discorsi
lunari, le siringhe e l’eroina, una vecchia alcolizzata che raccontava
dei suoi amori tossici, gli occhi a spillo, le ennesime fughe mentali,
troppi acidi, troppe droghe, ognuno aveva oltrepassato il con ine e si
era perso, dimensioni interiori proiettate in un caotico mondo di
disordine e smarrimento, oasi di delirio, promesse scritte con la
vernice sulle pareti di celle di isolamento.
Continuavano a confondersi illusioni e possibilità, le rivoluzioni erano
deragliate, treni di utopie lanciati in una folle corsa verso il nulla, le
stazioni diventavano sempre più solitarie e così i passeggeri, erano
initi i saluti e gli incontri, poi solo una serie di addii senza speranze.
Chiamavamo ad alta voce i nomi degli assenti, non c’erano risposte,
crolli di strutture nervose, quelle su cui si decideva l’equilibrio della
vita, siamo stati catturati e tenuti prigionieri, le domande che alla ine
abbiamo smesso di farci, le nubi all’orizzonte che diventavano
astratte composizioni cromatiche, il pittore aveva inito il suo oppio e
voleva solamente tornare nell’oblio.
Chiudevi le ultime stelle in prigioni di spazio e universo, le speranze
che hai implorato con voci di divinità inesistenti, le guardie che ti
hanno proibito di varcare la soglia, hai chiesto aiuto alle persone
sbagliate, hai confessato debolezze e paure ai tuoi stessi nemici,
circoli di sedie e regole scritte nella polvere, i buchi sulle braccia, le
forme grottesche delle case, bastavano i minuti a raccontare bugie,
hai chiuso gli occhi e il buio aveva lo stesso volto degli uomini che hai
ucciso nei sogni.
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111.
Stanze dalle pareti gialle e donne impazzite da abbandoni e
fallimenti, progetti che le discariche della vita raccoglievano, si
collezionavano miserie e oggetti senza più valore, spazi isici e
mentali che il disordine disponeva in geometrie da crisi di astinenza.
Qualcuno aveva abbandonato la città per rifugiarsi tra le colline, si
costruivano case e si scopava liberamente, poi c’erano state fughe e
false identità, bisognava nascondersi dalla polizia e aspettare.
Dipendenze e alcolizzati cronici che spaccavano le vetrine dei pub per
fregarsi qualche bottiglia di liquore, pere e punizioni, pene e
umiliazioni, le stanze oscure con le pareti imbottite, le voci e le urla,
terapie sperimentali e pillole di acido per frantumare la psiche,
distorsioni comportamentali e lingue che nessuno sembrava
comprendere, ripetilo ancora, suggeriva la dottoressa, mentre
accavallava le gambe e potevi vederle l’orlo delle calze, legato sul
lettino, i coglioni che pulsavano, una settimana senza sborrare,
questa sembrava essere la sua strategia, mentre si s ilava le scarpe,
conoscendo bene le tue debolezze e scoprendone di nuove, seduta
dopo seduta, domanda dopo domanda, dovremmo continuare con
questa terapia, diceva, guardandoti negli occhi, non riuscivi a
controllare le tue erezioni, lei prendeva appunti, poi se ne andava, il
cazzo di marmo negli anelli di costrizione.
Luoghi bui e fantasie proibite e giorni che svanivano oltre le sbarre di
prigioni compulsive, ossessioni e ripetizioni, qualcuno ti aveva dato
dei pennelli, i disegni sui muri, la vernice che colava, stilizzazioni
falliche, camice di forza, il tempo e l’attesa, il ronzio delle lampade, i
corridoi che sussurravano agonie senza uscite.

112.
I paesaggi apparivano ondulati, i colori che Zoe sceglieva nella mente,
le canzoni composte durante la notte, mi domandavo se quella donna
trasformasse le sue note in scopate, se quegli stessi brividi che la sua
voce creava attraversassero anche le colonne vertebrali dei suoi
amanti.
Lo scrittore ripensava al modo in cui lei nascondeva il volto con i
capelli mentre lui cercava i suoi occhi, le sfumature rossastre delle
foglie d’autunno, la sua pelle che non aveva mai accarezzato, adesso
lui era seduto davanti a un tavolo di legno e osservava le ombre, le
loro forme e i ri lessi di luce sulle super ici di plastica e metallo e
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c’erano fogli e appunti e frammenti di discorsi ovunque e la faccia di
Hinton mentre parlava delle sue prime esperienze con l’acido,
nessuno sapeva cosa fosse, nessuno si immaginava quali effetti
producesse e c’erano stati errori e sbagli e rivelazioni così profonde
che avevano spaccato barriere psichiche e mentali, danni,
improvvisazioni schizofreniche che gli attori avevano canalizzato in
interpretazioni psicotiche e folli, il metodo Stanislaski stravolto da
immedesimazioni lisergiche e certo, diceva Hinton, certo che lo
avevamo provato l’amore libero (anche se nessuno glielo aveva
chiesto), si scopava tra di noi senza pensarci troppo sopra ma alla ine
è stato un fallimento e dopo un po’ di settimane e mesi sono
cominciati a spuntare fuori (come funghi, suggeriva ghignante una
sedia) bambini e bambine e hanno iniziato a riempire il nostro spazio
con i loro piccoli corpi e i suoni e gli sguardi e la vita che andava
avanti da sola, che noi ne fossimo coscienti o meno e poi lui è partito
per Copenaghen, con un furgoncino, allontanandosi e perdendosi fra
le fredde visioni del Nord Europa e le coltivazioni nascoste di skunk,
da qualche parte, per fare soldi e spostarsi di nuovo, poi i viaggi in
Marocco, per prendersi una pausa e anche qualche panetto di hashish
da riportare indietro, le facciate bianche delle case e i tappeti sui
pavimenti, il tè alla menta, il vecchio Lee seduto davanti alla
macchina da scrivere, le parole inventate dalle sue dita da insetto, i
tagli e le ripetizioni, i volti deformi appesi alle pareti, qualcuno
sarebbe venuto a cercarlo, i compagni di Frisco o agenti segreti di
agenzie cosmiche, tutto si ricollegava soprattutto quando nulla era
vero, dovevamo solo aspettare, osservare i punti sparsi su una mappa
immaginaria e le linee che gli anni, a nostra insaputa, inivano per
trasformare in bizzarri disegni.

113.
La prospettiva della cucina oltrepassava la parete che la divideva
dall’esterno e i suoi lati immaginari diventavano i limiti di un giardino
segreto, nascosto alla vista, un’oasi di luce e alberi e foglie e iori che
l’aria attraversava e rendeva viva e dove ogni molecola e ogni punto
d’in inito erano nitidamente rappresentati nella riproduzione
mentale di questa illusione ottica. Alcuni artisti si proponevano di
alterare i sensi attraverso droghe loreali per procurare visioni
metropolitane ai visitatori delle loro gallerie psichiche. Non c’era più
bisogno di supporti materiali, era la mente stessa a diventare
creazione nelle possibili forme di ogni sala cerebrale, andare avanti e
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tornare indietro, cancellare e dimenticare, linee di tempo instabili,
curve e iperboli, i giovani matematici chiacchieravano a velocità
supersoniche bevendo caffè alla mescalina e analizzando echi di
teorie ancora troppo complesse per essere elaborate.
Dopo ogni pausa, ogni spostamento, lo scrittore vedeva le proprie
pagine sotto punti di vista diversi, i suoi e quelli dei suoi doppi, c’era
una moltiplicazione di voci, a volte dietro i muri, negli oggetti, nei
pro ili vibranti di vivide allucinazioni, qualcuno gli aveva suggerito
che invecchiando i colori diventassero meno brillanti, lui era rimasto
silenzioso, anche se avrebbe voluto aggiungere che non sempre
questo era vero, che la meditazione, la trascendenza o più
semplicemente l’ingestione di una goccia di acido lisergico avrebbero
di nuovo ripitturato il mondo con l’essenza cromatica stessa di ogni
singolo atomo della giovinezza.
Le pareti del bagno erano bianche e i pavimenti immacolati, ri lessi di
divinità indiane ai bordi dello specchio, la pelle blu, il cazzo in
erezione, le stampe di ragazze nude in una vasca da bagno, le
promesse sussurrate dalle bocche senza denti dei mercanti di gloria, i
rintocchi digitali di una campana inesistente, segmenti di ore,
frammenti di minuti, schegge di secondi, il rumore crepitante dei
tacchi sulle assi di legno, il fermo immagine di un uccello in volo, i
lussi di persone in movimento lungo le strade, i nuovi attentati,
l’orrore e la morte, lo sguardo scambiato con un poliziotto alla
stazione dei pullman, i doni anfetaminici dei marciapiedi, i monaci in
preghiera nascosti tra le siepi, le super ici che ri lettono, modi icano e
poi si sciolgono in liquide eiaculazioni, lei che conta da dieci ino a
zero, i guanti di pelle nera, un uomo che dice di aver letto i tuoi libri,
seduti in una stanza che le ombre abitano da anni, le estati che avevi
dimenticato, il silenzio della mattina, la pioggia di luce del tuo ultimo
orgasmo.

114.
Flussi sotterranei di pensieri, immagini dal sottosuolo, i volti
giganteschi che si affacciano nelle gallerie, le voci di uomini polacchi,
strascicate e stridule, le birre in mano, i gruppi di turisti, le marche e i
loghi, i miraggi elettronici che corrono in ili colorati, ibre ottiche che
attendono di esplodere in prismi di luce, in nuovi boati a cui le bombe
avrebbero rinunciato per una rivoluzionaria strategia di silenzio e
terrore, tecniche di guerriglia emotiva nascoste nelle facce che ci
scambiavamo, protetti da vetri invisibili i corpi evitavano contatti e
contaminazioni, le alte torri della centrale elettrica, i maiali volanti, le
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stanze nascoste dietro l’oscurarsi delle visioni, milioni di mattoni che
trasformavano utopie e avanguardie in fabbriche mentali, le stazioni
in cui il tempo non voleva fermarsi, la sensazione notturna di
espandersi, di rallentare il respiro in allucinazioni che ripetevano il
susseguirsi di tunnel psichici in prospettiva, erano troppe le persone
e i loro mondi di parole e rumore, connessioni verbali sul punto di
trasformarsi in solide statue di linguaggio marmoreo, le serie di
fotogra ie che cercano di riprodurre un movimento centrifugo
impazzito, la frammentazione dei perimetri di protezione, sguardi
oltre i resti di notti arti iciali, i laboratori clandestini in cui si
sperimentavano svastiche in sostanze stupefacenti, gli angoli uncinati
delle strade e gli sguardi di chi controllava le telecamere a circuito
chiuso, tornavo da dove ero fuggito, il cerchio aveva punti che
trascendevano la sua circonferenza, spazi e cortili di immaginazione,
pure architetture che solo nei ri lessi del futuro potevano diventare
sintesi di astrazione.

115.
ON/OFF, giorni di lavoro, giorni di riposo, un ragazzo cinese seduto a
un tavolo mentre tira strisce di ketamina da un cartoncino piegato, il
biglietto da visita di uno spacciatore, io e Phil siamo usciti a comprare
delle birre, ha iniziato a piovere e ci siamo riparati sotto una tettoia,
un uomo di colore ci è passato accanto, aveva un anello d’oro a un
dito, si è acceso una sigaretta e poi è scomparso nel nulla, io e Phil ci
siamo scambiati un’occhiata e senza parlare siamo entrati in un off
license.
Non c’erano più facce da cazzo a farmi arrabbiare o a infastidirmi, i
corpi che vedevo intorno, nelle strade o davanti ai negozi erano pure
simulazioni mentali, proiettavo visualizzazioni psichiche in forme
isiche e umane, i personaggi si muovevano, parlavano, svanivano e si
ripresentavano in ruoli diversi, i dialoghi erano pochi perché lo
scrittore era più interessato alle architetture lessicali, le strutture
verbali applicate allo spazio urbano, lettere alfabetiche enormi che
modi icavano il paesaggio delle città in serie di signi icati nascosti, gli
agenti della polizia del karma avevano scordato come decodi icare i
messaggi, ci avrebbero pensato le nuove droghe a rendere possibile
un’altra lettura del reale, sempre che si potesse chiamare tale il
continuo ripetersi di allucinazioni sinestetiche. Una ragazza asiatica
accavallava le gambe e lo scrittore aveva il cazzo duro nei pantaloni,
mentre era seduto nella metro e buttava giù frasi sul suo quaderno
nero, c’erano ile di poliziotti schierati fuori dallo stadio, l’enorme
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arco di sostegno ampli icava l’eco di leggi isiche sul punto di essere
abolite, una stanza in un hotel, la inestra quadrata, le foto da
controllare, le immagini che scorrevano sulle pareti arcuate di un
tunnel, ogni volta che tornavamo dentro i labirinti del pensiero,
fuggivo insieme alle parole, trascrivevo voci, mi assicuravo che le
tende fossero tirate e il buio perfetto, perché era il momento di
lasciarsi andare e sprofondare e ascoltare lo sciogliersi dei respiri e
delle ultime luci che anche gli occhi inivano per abbandonare.

116.
C’erano nuove divinità che gli occhi adoravano e avevano forme
triangolari e occupavano lo spazio isico come miraggi di piramidi di
vetro e metallo e gli schiavi camminavano nelle strade e obbedivano
alle scritte sui muri mentre le bocche aperte, affamate e voraci dei
bancomat vomitavano soldi e carte di credito. C’erano serie di
miserabili inginocchiati per terra, la fronte a toccare il cemento, i
tunnel sotterranei come intestini che digerivano vagonate di persone
dirette verso il loro lavoro per poi rigurgitarle nel grigio dei vapori,
tra le gocce acide di pioggia e i neon che lampeggiavano in ipnosi
elettroniche. Vagavamo alla ricerca di un senso che desse una
possibile spiegazione a questo caotico disperdersi, avevamo
osservato con attenzione gli sbagli che qualcuno aveva annotato nella
nostra personale cartella clinica, prima di rinchiuderci in una stanza,
per otto ore al giorno, seduti davanti ad uno schermo a battere le dita
sui tasti, a rispondere al telefono, voci registrate che ci prendevano
per il culo e rubavano il nostro tempo, irmavamo contratti per essere
ingabbiati e dalle sbarre ci accontentavamo delle poche carezze di
luce che venivano a trovarci e dimenticavamo, giorno dopo giorno,
anno dopo anno, che c’era un altro mondo, pieno di colori e voci
diverse, ognuna con la sua melodia di suoni e armonie,
dimenticavamo perché ci era stato donato questo respiro, il perché
delle stelle e degli sguardi dell’alba eppure era ancora tutto qui,
qualcosa che potevamo toccare e sentire e osservare in ogni secondo,
questa luida e lucente meraviglia, questo in inito trasformarsi, c’era
una libertà che nessuno aveva più il coraggio di accettare, perché
signi icava ammettere che quello che possedevamo, tutte le auto, le
case e i televisori, non erano altro che nulla, una prigione di false idee
e bisogni, poi ci sono i miei occhi che osservano le nuvole nel cielo, i
iori sbocciare, il sole nascondersi tra le foglie di un albero, il mio
cuore che si colma di gioia e tristezza, perché nulla di quanto è
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esistito è stato mai nostro eppure tutto questo ci è da sempre
appartenuto.

117.
C’erano sequenze che lo scrittore dimenticava, specialmente la
mattina, dopo il risveglio, fra le bianche onde mentali e il rumore
d’aria delle macchine, poi le parole lo aiutavano a ricomporre le scene
di cui era stato spettatore durante la notte, dalla sua piccola bolla
privata, seduto in un angolo, in silenzio per la maggior parte del
tempo, con un bicchiere di vino rosso in mano e la piccola pipa da
hashish appoggiata sul tavolinetto di legno basso.
C’erano stati dialoghi e drammi alcolici tra Daddy G e Kirsty e i due si
accusavano a vicenda di possibili tradimenti e inesistenti scopate,
Daddy G stringeva la sua lattina di birra fra le dita ino a stritolarla
mentre si lanciava in una serie di funambolismi lessicali, per poi
fermarsi un attimo, aprire il portafoglio, tirare fuori una bustina di
coca, preparare qualche riga, arrotolare una banconota, tirare,
rimettere tutto dentro, riordinare per quanto possibile i pensieri e
partire di nuovo alla carica, Kirsty afferrava e rilanciava le parole che
le arrivavano addosso, trasformandole in uno schiaffo verbale, sapeva
quali punti toccare e ci sapeva giocare molto bene, alcune volte era
venuta da me e Bea con un occhio nero, qualcosa la aveva colpita,
molto probabilmente un pugno, quasi sicuramente partito dalle dita
chiuse di Daddy G.
Kirsty era arrivata verso le cinque, con il suo portatile, si era rollata
una sigaretta di hashish e io avevo preparato da bere, tre gin tonic,
per me, lei e Bea. Poi li avevo portati nella stanza dove le due donne
erano sedute e stavano chiacchierando, li avevo posati sul tavolo e mi
ero sistemato sul divano. Kirsty aveva questo nuovo lavoro come
dominatrix on line e la cosa sembrava piacerle, ci aveva mostrato un
video di un suo cliente che si in ilava un cetriolo nel culo, non ero
rimasto scioccato più di tanto, avevo visto cose ben peggiori (o
migliori) quando avevo lavorato come addetto al montaggio per la
BlackBombay di Birmingham. Comunque la sessione era andata a
buon ine e il cliente era rimasto soddisfatto, aveva usato del ketchup
come lubri icante, ispirato dall’imitazione del sangue mestruale
femminile e si era divertito con il suo cetriolo, mentre Kirsty lo
umiliava verbalmente. Le ho chiesto se avesse bisogno di storie e che
ero interessato a scriverne alcune (avevo anche lavorato come
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addetto alla sceneggiatura), lei mi ha risposto che se fossero state
buone avremmo potuto dividere gli introiti al cinquanta e cinquanta.
In un paio d’ore abbiamo inito la bottiglia di gin e poi siamo andati al
ristorante indiano per prendere un po’ di cibo take-away. Intanto
Daddy G era in qualche pub a sbronzarsi con Ken e aveva iniziato a
tempestare Kirsty di chiamate in preda a paranoie causate da chissà
quale droga. Tornati a casa ci siamo messi a mangiare e a bere
qualche birra, ero alquanto ubriaco e divoravo il cibo in preda ad una
fame irrefrenabile, ingurgitando grandi cucchiaiate di curry e
buttando giù sorsate di Stella Artoise. Dopo un po’ ci hanno raggiunto
Pam e Carl, fuori era quasi notte, anche loro erano già notevolmente
ebbri e Carl ha iniziato un lungo monologo sulla necessità di un
ultimo grande party a Babylon e che tutti dovevamo essere presenti
(e naturalmente assumere sostanze) per celebrare un periodo che
sembrava stesse per chiudersi in attesa che ne iniziasse un altro non
meglio de inito. Carl era completamente preso da quello che stava
dicendo e gesticolava senza sosta e con un colpo della mano ha fatto
volare il suo bicchiere di vino sul tappeto, conferendo così nuove
tonalità di rosso a quelle leggermente sbiadite del tessuto, qualcuno è
arrivato con del sale (Pam?) che prontamente ha fatto cadere per
tutta la stanza e non solo dove era strettamente necessario, io
osservavo senza proferire parola dal mio angolo, il lusso dei dialoghi
e delle azioni degli altri era così scorrevole e perfetto che mi limitavo
a lasciarmi trascinare da esso senza interferire.
Ad un certo punto Pam si è alzata, ci ha abbracciato e se ne è andata,
dopo pochi secondi dalla porta sono entrati Daddy G e Ken e si sono
seduti al tavolo. Ken ha inito quello che restava del curry e Daddy G
ha subito cominciato a parlare con Kirsty, con Bea come giudice della
loro discussione. Continuavo a rimanere seduto per terra e le parole
stavano iniziando a sfuggire alla mia comprensione, non so per quale
motivo Carl si è tirato su dal divano e si è messo a discutere con
Daddy G a proposito di Kirsty, dicendo che era velenosa e che stava
rovinando la loro amicizia, le voci sono diventate più frenetiche e
anche la velocità delle battute, poi Carl in preda ad un attacco di
rabbia ha preso il tavolo e l’ha scaraventato in aria, fortunatamente
non c’era più cibo sopra (Ken aveva ripulito tutto) ma un paio di
lattine erano ancora piene e così anche alle pareti della stanza sono
state aggiunte nuove sfumature giallastre oltre a un tocco di
schiumosa psichedelia. Bea si è incazzata sul serio, ha preso Carl e
l’ha sbattuto fuori di casa, continuando a parlare in maniera furiosa
con lui per strada. Ken si è venuto a sdraiare sul tappeto vicino a me e
in pochi minuti si è addormentato, Bea è tornata, ha stappato un'altra
lattina di birra e ha cominciato a chiacchierare con Daddy G, Kirsty
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era seduta sul divano, dove prima era Carl, in silenzio, gli occhi rossi e
il computer acceso, forse in attesa di collegarsi con il suo prossimo
cliente.
La porta si è aperta all’improvviso e Carl è entrato urlando, ha preso
una sedia e l’ha scaraventata sul pavimento, poi lui e Bea sono usciti
di nuovo fuori, con lei ancora più incazzata di prima. Al suo ritorno
abbiamo fumato un paio di canne e ci siamo rilassati, Ken aveva
iniziato a russare, gli altri parlavano di quanto era successo, erano
quasi le due di notte e fuori dalle inestre le ombre degli alberi ci
guardavano stupite, frusciando sorridenti in lievi applausi d’argento.

118.
I ricordi che l’estate portava con sé ed erano i colori, gli odori e i
suoni a rivelarli. Nella mente dello scrittore c’erano percezioni luide
come i respiri che il giorno offriva ai suoi amanti, c’erano i sensi che
coglievano ininterrottamente i segreti che la realtà svelava e il
vecchio Monet, seduto davanti a un canale, con la sua tela e i pennelli,
a dipingere quadri fra i ri lessi tremolanti delle ninfee sulla super icie
dell’acqua e i loro iori pronti a sbocciare.
Guardavamo gli occhi delle giovani ragazze, anche loro pronte a
dischiudersi, lasciavamo intatti i nostri momenti di gioia e
spargevamo sui pavimenti i frammenti della paura, come pezzi
taglienti di bicchieri mandati in frantumi durante sbornie notturne in
cui erano i sentimenti a parlare e discutere, senza controllo, senza
freni emotivi che li trattenessero, senza inibizioni e incertezze a
ingabbiarli. C’erano stanze che la notte costruiva nel vuoto dei sogni e
così tanti incontri e dialoghi e immagini fotogra iche che qualcuno
aveva scattato a nostra insaputa. Camminavo nudo in un bosco,
inseguito da pensieri e ossessioni, un corpo osceno che si nascondeva
tra gli alberi, fra sussurri, fruscii e carezze di luce. Un uomo parlava di
pace dal suo divano bianco, la felicità senza motivo di un bambino.
Tutti i momenti che non sarebbero più esistiti, perché sarebbero initi
i musei del passato da distruggere, sala dopo sala, gli occhi
indemoniati della nostra personalità, chi eravamo? Chi avevamo
creduto di essere? Uno specchio che non raccontasse più bugie, ogni
storia che abbiamo inventato solo perché la verità fosse un’altra, ci
abbandonavamo su lenzuola di oppiacei perché non ci fossero risvegli
alcolici ad attenderci, lo sentivi ancora il bisbigliare dei muri, poi il
suono muto di un’idea, gli anni in cui da solo hai affrontato le inestre
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di metropoli che si dissolvevano sotto la pioggia, le piramidi di vetro,
le divinità sacri icate nelle vene del nulla.

119.
T. stava scopando con Ken o almeno questa era la voce che girava,
l’avevamo incontrata, io e Bea, mentre era seduta su un lettino
medico, il piede destro scoperto e un tatuatore che ci stava lavorando
sopra, T. stava bevendo una birra e ci siamo scambiati uno sguardo di
intesa. Sul palco poco distante un uomo si era bendato gli occhi, aveva
acceso una sega elettrica e con essa aveva tagliato uno spicchio dalla
mela che teneva in bocca, la convention di tatuaggi sembrava andare
bene, un raduno per freaks e fanatici dell’inchiostro e del dolore,
avevo guardato alcuni disegni, non mi sembravano granché, intanto
Bea mi aveva portato una birra e poi era tornata da T, io mi sono fatto
un giro e poi sono uscito fuori, era una bella giornata, il sole era alto e
mi sono steso sotto un albero, Bea mi ha raggiunto e si è sdraiata
vicino a me.
Poi siamo andati al King e abbiamo preso una Wolf Rock, ci siamo
seduti nel beer garden, nella luce ancora intensa del giorno, poi è
arrivato Dave e si è messo accanto a noi, ha chiesto l’ora a Bea e ha
detto che aveva dieci minuti per inire la sua pinta, andare dal
takeaway cinese, mangiare, raggiungere l’Old Mill, aprire e iniziare il
suo turno. Si è acceso una sigaretta ed è rimasto in silenzio. Poi Bea
gli ha chiesto perché portasse i suoi wellies in una giornata come
questa, lui ha risposto che erano le uniche scarpe che aveva e che
nell’ultima settimana aveva dovuto scegliere se comprane un paio di
nuove o usare quei soldi per le droghe, la scelta non doveva essere
stata molto dif icile. Dave ha chiesto di nuovo l’ora a Bea, gli
rimanevano poco più di cinque minuti, ha scolato la birra, si è rollato
un’altra sigaretta e ci ha salutato.
Siamo andati a mangiare a casa e poi siamo usciti per bere qualcosa
all’Old Mill, la situazione era tranquilla, Dave era dietro il bancone a
bere la sua pinta, ho chiesto un sidro e mi sono seduto su uno
sgabello, sono arrivate delle persone e hanno iniziato a suonare,
c’erano anche Robyn con il suo tamburo e Alyson con il violino.
Eravamo stati nella tenda mongola di Robyn, la sera prima, a
chiacchierare e fumare hashish, lui indossava una vestaglia da donna
e ci raccontava dei suoi igli e degli ultimi vestiti (sempre da donna)
che aveva comprato, ogni tanto la sua bocca scattava lateralmente,
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retaggio facciale dell’emmedi che aveva preso durante una festa in
costume la notte precedente.
Dave ha fatto un pezzo con la chitarra e non era niente male, questo
uomo ha dei segreti, pensavo ed è dannatamente intelligente, cosa ci
sta a fare qui, a bere più birra di quanta ne dovrebbe servire, gli occhi
acuti, il volto de inito da linee dritte e precise, aveva il suo fascino,
perché era qui? Quale era la sua storia? Lo scrittore continuava a
prendere appunti, ogni tanto Alyson lo guardava, lanciando messaggi
con i suoi occhi, lui la osservava, cercando di decifrare quegli sguardi,
i signi icati sembravano ben chiari, il desiderio è un linguaggio
universale per tutti.
T. era entrata e uscita velocemente, portandosi via due bottiglie di
rosso, le voci continuavano a girare, Dave si era spillato un’altra birra,
io e Bea abbiamo inito le nostre e ce ne siamo andati a dormire, la
musica si era persa chissà dove e quelli che continuavano a suonare
seguivano note che nessuno aveva più voglia di ascoltare.

120.
Joel era tornato da Roma, per una pausa di alcuni giorni prima di
partire per l’Australia. Stava lavorando come tecnico delle luci per il
tour degli Xx e mi aveva detto che aveva trovato della buona coca in
città. Lui e gli altri avevano dormito allo Sheraton Hotel, poi mi aveva
mostrato alcune foto dei Fori Imperiali e del Colosseo, come se non li
conoscessi abbastanza. Avevo visto quei luoghi centinaia di volte
durante la mia vita e adesso mi sembravano remoti e lontani,
cartoline mnemoniche spedite da qualche sconosciuto, da un agente
segreto travestito da turista giapponese in cerca di informazioni sul
mio passato, fra le statue di bronzo che salutavano i passanti e le
allucinazioni circensi di spettacoli brutali, pieni di sangue e violenza.
Non me ne fregava granché di vedere quelle foto, come non me ne
fregava un cazzo di stare a parlare con Joel. Era seduto vicino a me e
stavo bevendo velocemente una birra e così qualche parola mi è
uscita per caso fuori dalla bocca. Bea e Rhya erano davanti a noi e
discutevano di qualcosa, era quasi sera e mi sentivo abbastanza
ubriaco. Joel si muoveva a scatti, come se non riuscisse a fermare la
propria energia o forse doveva sborrare e sarebbe stato meglio se si
fosse andato a fare una sega nel cesso del King invece di muovere
costantemente la sua gamba facendo vibrare la panca e il tavolo dove
eravamo seduti. Mi sono alzato e sono andato a prendere da bere, non
mi ricordavo se era il mio turno o meno, in realtà mi stavo scordando
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di un sacco di cose, credo fosse a causa delle droghe e in parte questo
modo in cui la mia memoria stava svanendo non mi dispiaceva
affatto. C’erano i miei scritti a testimoniare quanto era accaduto negli
anni, ma li tenevo da una parte, in un luogo sicuro. Prima di arrivare
al bancone sono andato al cesso a farmi una pisciata, ho incrociato
Ken mentre usciva fuori dal bagno, ci siamo scambiati un sorriso. Non
ci eravamo più visti negli ultimi mesi e non avevo saputo più niente di
Bryn Ryg, di Rebbecca e Honor, eppure un periodo eravamo stati
molto vicini ed era stato anche bello, a suo modo, ero sorpreso da
come il mio cuore avesse smesso di attaccarsi alle persone e alle cose,
del modo ormai naturale in cui ero in grado di spostarmi da una
situazione a un’altra senza sofferenze, stavo imparando a seguire il
lusso della vita senza oppormi a esso. Mi sono sgrullato il cazzo e
tastato le palle, erano gon ie e mi sentivo un po’ eccitato. Sono
arrivato davanti al bancone e c’era una ragazza seduta su uno
sgabello, aveva i piedi nudi, ho ordinato da bere e ci ho dato una
sbirciatina dall’alto. Niente da fare, le mie fantasie rimanevano quelle
di sempre. Poi sono tornato di fuori, mi sono seduto di nuovo vicino a
Joel, siamo rimasti in silenzio. Bea e Rhya stavano parlando con alcuni
dei loro amici, poco distanti da noi. Ho guardato il cielo, poi il culo di
Rhya. Era tondo e invitante come quello della madre.

121.
Le pasticche e l’alcol e i vuoti di memoria che non sapevo più come
colmare, avevo baciato la spalla di Pam e le avevo fatto un massaggio
ai piedi, così lei mi raccontava, seduta sul letto, ripetendo in inite
volte che un fatto era un fatto e a me veniva solamente da ridere e ho
guardato Carl e si stava innervosendo e i suoi occhi non
riconoscevano più nulla, il suo sguardo era altrove, perduto in chissà
quali drammi del passato che sembrava rivivere ora, Bea mi ha
consigliato di andare al letto e così ho fatto e il giorno dopo c’erano
scie di pensieri nella mente, inconsistenti come i suoni ovattati delle
macchine che scivolavano su una strada, ho cercato di mettermi in
piedi e il cuore era pesante, i suoi battiti irregolari, ero stanco e
svuotato e triste e così è stato per quattro giorni e ho imparato cosa
signi icava il termine comedown e la discesa dagli effetti delle
pasticche e nel ristorante indiano mentre gli altri mangiavano e
cercavano di parlare io ero silenzioso e mi chiedevo cosa ci facessi lì
dentro, con quelle persone e ho capito che era inita e che avrei
dovuto andarmene via, mi dispiaceva per Bea, ci sarebbe stato il
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solito vuoto nel petto ad attendermi, una volta lasciata la sua casa, ma
era inevitabile, lo sapevo, lo sentivo nella profondità del mio essere.
E allora i ricordi e le serie di eventi che qualcuno avrebbe montato fra
di loro attraverso iltri di tristezza e malinconia sarebbero venuti
trovarmi, erano le scelte obbligate del mio cuore, ci avrei ripensato ai
momenti trascorsi insieme, prima di addormentarmi, avrei pianto e
avrei lasciato le mie emozioni luire, perché inivo sempre per cercare
quel dolore speciale? Erano storie che si ripetevano negli anni e lo
scrittore avrebbe dovuto darci un taglio e inventare nuovi scenari e
paesaggi emotivi, da riempire con qualcosa di inaspettato. Le ultime
scopate, quello che avevo provato a riscoprire e che non mi
interessava più, c’erano corridoi e stanze silenziose ad attendermi,
ritornare al punto di partenza, il cerchio iniva sempre per chiudersi
ma non volevo più girare sulla sua circonferenza.
Volevo inalmente diventarne il centro.
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Una Splendida Scon itta
parte sesta
L’Universo come Ologramma
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122.
Ho iniziato a vedere i musi di alcune tigri fra le nuvole e sembravano
combinarsi tra di loro come i tasselli di un puzzle alchemico, le
chiome degli alberi oscillavano vivide e lucenti nell’aria e c’erano gli
occhi di alcuni felini che mi osservavano dalle loro cortecce, ho
abbassato le palpebre e i colori nella mente erano caldi e pulsanti, si
mescolavano insieme disegnando le mie stesse emozioni. I quadri di
Van Gogh andavano osservati oltre le forme dei soggetti raf igurati,
era tutto nell’uso del colore e in quello che esso esprimeva: gli stati
d’animo di quest’uomo. La gioia, la tristezza, la malinconia e il dolore
prendevano vita sulle sue tele e non erano altro che il suo mondo
interiore, oscuro e brillante, che gli strati di vernice e i colpi di
pennello rendevano improvvisamente reale, c’era passione e sangue
in quei quadri e potevo ammirarli mentre sembravano staccarsi dalle
pagine di un libro e incollarsi alle mie dita. Mi sono seduto nella
posizione del loto e ho cominciato a respirare in maniera ritmica ed
ero io il mondo, l’universo e il suo centro e poi i pensieri hanno
iniziato a svanire e i limiti del mio corpo a dissolversi ma c’era ancora
qualcosa nel cuore che mi turbava, una ferita, un senso di pena,
qualcosa che dovevo inire di curare e trovare il tempo per farlo, non
ero solo, non lo ero mai stato, troppe volte dimentichiamo chi siamo,
un respiro, quello successivo, il vuoto e l’in inito.

123.
Dosi di elettricità bianca alla base dei coglioni, mani sporche di
vernice, gocce di silicone come sperma arti iciale, i corridoi
rimanevano muti anche se i fantasmi continuavano a camminarci
dentro, fra pareti dove l’intonaco si sgretolava lasciando graf i di
unghie tossiche, le urla delle persone in crisi di astinenza, l’ago che
danzava sui tramonti dell’ego, qualcuno scappava e si perdeva nelle
allucinazioni dei boschi, i cespugli con i resti delle bottiglie di liquori,
le scimmie salivano e scendevano velocemente dalle spalle, si
aggrappavano alle grondaie come fossero vene desiderose di eroina,
le ombre danzavano liete sulle super ici e qualcuno masticava funghi
pieni di psilocibina per riscoprire un altro sguardo sulla realtà, le
passeggiate sul lungomare di Aberystwyth, bevendo birra e
osservando l’azzurro e le sue sfumature, le ombre delle nuvole
cambiavano forma sullo specchio dell’acqua, ci avrebbero pensato i
pittori imbottiti di acido a spiegare quanto stava succedendo, giorno
dopo giorno perdevamo stabilità e iducia nell’ordinario, scendevamo
in profondità perché sapevamo che era il meglio che potessimo fare e
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poi la notte si riprendeva le nostre ore di luce e creava città di sogno e
le popolava con i doppi onirici che ognuno di noi possedeva e c’erano
incontri che nessuno si sarebbe mai immaginato perché era
impossibile trovare una maniera per disegnare o raccontare tutte le
alternative, i modi in cui saremmo potuti essere, le svolte che
avremmo potuto scegliere, lo zaino era sempre pronto in un angolo e
ormai sapevi come fare, un saluto, un sorriso, un nuovo tratto di
strada, una sosta, riposarsi, riprendere il cammino, oscillavano le
foglie nell’oro del tardo pomeriggio a ricordati che eri qui, in un
istante di luce, nel suo silenzio dipinto da migliaia di scintille viventi.

124.
T era rimasta incinta di Ken e nessuno lo aveva ancora detto a
Michael e Rebbecca. Qualcuno sarebbe uscito fuori di testa quando
avrebbe saputo la notizia e Rebbecca era la favorita. C’era un nuovo
ragazzo che si occupava di Bryn Rhyg o che perlomeno si aggirava in
quel luogo come uno spirito tossico in perenne balia degli effetti delle
droghe. Bea ci era andata a dormire insieme ad altre persone e la
situazione sembrava non essere cambiata: sporcizia, disordine,
sostanze ovunque, decine di lattine di birra vuote, la pipa da crack
posata sul tavolo. Eppure intorno c’erano una pace e una tranquillità
che continuavano a sussurrare la loro presenza, erano le persone a
non ascoltarla e a perdersi nei loro mondi di problematiche illusioni,
per poi renderli reali attraverso parole e comportamenti, dipendenze
e paranoie.
L’Old Mill stava andando a puttane, visto che T era più impegnata a
farselo mettere dentro che a stare dietro al locale, c’erano state un
paio di serate ben riuscite, con la musica, le pinte e le pasticche ma
durante la settimana era una zona morta, le candele accese che
osservavano il loro ri lesso negli specchi vuoti di sguardi assenti e
George che arrivava da solo, ordinando una lager e parlando con
qualche fantasma del proprio passato.
Robyn aveva chiesto a Bea di andare in un locale per gay, a Newtown,
sarebbe stata una bella occasione per vestirsi in abiti femminili e dare
forme e colori alle proprie ossessioni, Bea aveva accettato divertita
dall’idea di qualcosa di nuovo, anche se non proprio sicura di aver
fatto la scelta giusta.
È venuta a dormire da me, una notte e abbiamo scopato.
Poi siamo rimasti abbracciati sotto le lenzuola, respirando e
sentendoci felici.
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125.
Avevo incontrato Lynn sotto la torre dell’orologio di Aberystwyth e
non ero certo se si fosse tratto di un appuntamento onirico o meno,
c’era quella stessa densità del presente, sempre sul punto di fuggire e
trasformarsi in qualcosa di diverso e inde inito. Avevamo camminato
e parlato, poi ci siamo seduti nel sole, fuori da un pub, continuando a
raccontarci cosa era accaduto nelle nostre vite negli ultimi mesi. Mi
aveva abbracciato e il contatto del suo corpo era diverso da quando ci
eravamo salutati in una grigia mattina, più di un anno prima, alla
stazione di Swansea. Sapevo che adesso era contenta di vedermi. Il
sole sembrava non smetterla di brillare mentre scivolavo nel verde
dei suoi occhi, immergendomi nelle pupille e ritornando in me stesso,
seguendo i suoi ragionamenti lungo i leggeri movimenti delle iridi
per poi afferrare un ricordo, un’impressione, l’eco di qualche
pomeriggio passato insieme in tempi e luoghi diversi.
C’erano ancora frammenti di luce sulle onde quando ce ne siamo
andati, due corpi che camminavano vicini, in attesa di quelle
misteriose spinte che, come lussi marini, li facessero unire o
allontanarsi per sempre.

126.
Trascorrevo le mattine nella libreria pubblica di Birmingham, era un
edi icio futuristico, linee e circonferenze che si intersecavano sulle
facciate dei tre blocchi che ne costituivano i diversi piani, cromatismi
azzurri, ardesia e gialli ed echi cilindrici a suggerire storie perdute di
antiche navi e vecchi marinai. Intorno alla struttura principale
c’erano pavimenti con geometrie di mattonelle arancioni e nere,
reticoli psichedelici che vedevo pulsare e muoversi, alcune volte,
quando gli effetti di certe sostanze erano ancora in circolo. C’era una
zona con divani e poltrone, al secondo piano e mi sedevo lì a leggere
un libro o un giornale e a bere una tazza di caffè. Intorno a me erano
seduti altri miserabili, li riconoscevo subito dal volto e dai vestiti,
perché erano simili ai miei. Se ne stavano in silenzio, senza avere
nulla da fare, la libreria era un buon posto per passare il tempo ed era
gratuita e accogliente. Ogni tanto mi mettevo a scrivere, seduto su
uno sgabello, davanti a una delle grandi vetrate. Osservavo la città, i
palazzi, il cielo grigio e bluastro e le parole che si susseguivano sul
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quaderno nero, la mia mano che si muoveva da sinistra verso destra,
automaticamente, trasformando il lusso mentale in linguaggio,
sembrava una cosa semplice e naturale, chi aveva inventato questo
modo di ricostruire e manipolare la realtà attraverso segni e
combinazioni di essi? C’era la costante possibilità di ricreare tutto
quello che mi circondava attraverso il mio personale punto di vista o
semplicemente destrutturarlo e dargli un nuovo aspetto che fosse il
linguaggio a modellare, ma non c’era mai niente di studiato o imposto
in questo spazio creativo, erano la pura intuizione e la libera
immaginazione a dare nuove sembianze al mondo, io mi limitavo a un
processo meccanico, quello di mettere le parole su un foglio in un
certo ordine.
Una ragazza orientale si era seduta sullo sgabello accanto al mio,
aveva tirato fuori il suo computer dalla borsa e si era messa a
studiare. Aveva una gonna corta e aveva accavallato le gambe dalla
mia parte, se giravo la testa potevo osservarle l’interno delle cosce.
Distrazioni erotiche e scenari sessuali come copioni sul punto di
essere iniziati. La ragazza mi ha lanciato uno sguardo quando si è
accorta che le stavo issando le gambe e me lo ha fatto venire duro
con i suoi occhi, ha arricciato le labbra e si è tirata un po’ più su la
gonna. Non portava le mutandine.
Camminavo lungo i canali e sotto i ponti, in un labirinto di odori e
percezioni, suoni e colori, poi apparivano improvvisi nelle aperture
urbane bizzarri palazzi, dove utopie matematiche avevano cercato di
ergersi da sole, divorando il vuoto con la presunzione di possedere
codici architettonici che nessuno sarebbe mai stato in grado di capire,
era lo Stupore Visuale, l’ultima corrente anarchica che stava
ride inendo e distruggendo in continuazione le idee metropolitane di
massa, l’individuo era stato indottrinato per secoli dai Signori dello
Sguardo ed era venuto il momento di dare vita a progetti allucinatori
capaci di cambiare attimo dopo attimo, nelle in inite ragnatele che il
cervello tesseva per catturare una qualsiasi dimensione in cui
muoversi.
Mi ero seduto su una panchina e avevo stappato una lattina di sidro,
la strada era lucida e c’erano barche ormeggiate lungo una serie di
piccoli moli, l’Ombra scattava delle fotogra ie, cercando di cogliere il
mio ri lesso, non sempre ci riusciva, era il suo modo di scambiare le
parti e condurmi in una delle stanze segrete in cui poteva farmi
compiere i suoi rituali.
La ragazza orientale si era seduta su una poltrona di pelle nera, aveva
degli stivali e mi aveva ordinato con lo sguardo di leccarglieli.
Avevamo una connessione mentale e non dovevamo parlare. Ero
nudo, mi sono inginocchiato e ho obbedito al suo comando. Si
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divertiva a vedermi con il cazzo duro davanti a lei e a colpirlo sulla
punta con il suo frustino.
I parcheggi sotterranei dove vagavo nelle ore di pioggia, ascoltando i
suggerimenti delle macchine parcheggiate, per poi risalire in
super icie e camminare attraverso le zone industriali della città, spazi
ormai abbandonati, i perimetri di terra arida e le discariche
circondate da reti metalliche. Alcuni vagabondi spingevano carrelli
virtuali in cui avevano nascosto gli ultimi resti delle loro esistenze
terrene, perché oltrepassato un certo con ine non c’era più nulla di
vero nei giorni e nelle ore, mi salutavano con un cenno del capo e io
facevo lo stesso, poi tiravo fuori la macchinetta fotogra ica e iniziavo a
scattare seguendo le indicazioni della luce sulle super ici.
Un uomo di colore era fermo davanti alla serranda abbassata di
un’of icina in disuso, ci siamo scambiati uno sguardo di intesa, i gesti
veloci, mi sono allontanato con una bustina in tasca, mi sono fermato
a guardare una inestra prima di entrare in un palazzo, l’apparizione
fugace di un volto, il lash di un sorriso, una porta si è aperta, ho
seguito un’ombra per delle scale, aveva ancora stivali neri e un culo
fasciato da una gonna che si muoveva in ipnotiche oscillazioni, il
rumore dei suoi tacchi batteva il tempo degli inganni e quello delle
illusioni del mio cuore e dei miei coglioni.

127.
Intervalli di ore notturne, intermittenze nel sonno, un’alba grigia che
attendeva fuori dalla inestra, nascosta tra i palazzi dai mattoni rossi
e le scritte che ricoprivano le facciate dei negozi di pegni ed
elettrodomestici ormai in disuso. Una mappa disegnata sul muro di
un’enorme stanza, le tubature che componevano direzioni misteriose
appese al sof itto, i locali sotterranei in cui la gente ascoltava musica,
beveva e assumeva sostanze, i laboratori clandestini celati dietro le
porte di anonime lavanderie, le scale antincendio di edi ici in rovina,
vie di fuga immaginarie da tossicodipendenze urbane e risvegli
elettronici davanti a pagine bianche. C’erano nuove associazioni
metropolitane che la mente trasformava in architetture del pensiero,
pesavano minacciose le forme dei materiali edilizi, quelle da
realizzare, quelle ancora limitate alla piatta dimensione di un
progetto incompiuto, uomini manovravano macchinari futuristici e
rendevano tridimensionali i deliri degli ingegneri del subconscio,
poliziotti schierati ai bordi delle strade e blocchi di metallo ad
impedire l’insurrezione del terrorismo dei gruppi armati del
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cemento, pistole plastiche che si scioglievano fra le mani degli
attentatori, i proiettili sparati dal trentaduesimo piano di un albergo
abbandonato, scritte al neon ronzanti e appartenenti a un lessico di
violenza e astinenza, qualcuno cambiava la posizione delle lettere e
trascriveva le proprie ossessioni in messaggi subliminali, tremori
epilettici nelle mani tese di spettatori insonni, camere illuminate fra
le ultime difese del buio, lo scrittore si era seduto su un divano
sfondato, aveva chiuso gli occhi e aveva lasciato che la città vagasse
dentro di lui, fra periferie di memorie morenti e recinti di privazioni
private.

128.
Gli occhi che ti issano dopo il risveglio, gli agenti asiatici travestiti da
idioti in astinenza di tempo, le prime ombre, allungate e distorte, il
vuoto nelle camere cerebrali, le pareti da pitturare con ricordi liquidi
e informi, le alterazioni di codici genetici che i nuovi scienziati
avevano dimenticato di trascrivere in formule esperienze
dissociative, la mattina ci si alzava con il cazzo duro, pulsante dentro
un anello di metallo, gli schedari nelle stazioni della Polizia
Sotterranea in cui venivano rinchiusi gli ultimi scarafaggi
psichedelici, innocue passeggiate lungo i canali e serie di fotogra ie
che un occhio meccanico scattava in con litto con la propria identità,
le ginocchia nude che attendevano un ordine e un comando, i
manifesti che le mani di qualche maniaco sociale avevano strappato
dai corpi nudi delle case occupate, gli scheletri di metallo e cemento
armato, una violenza di strutture e alchimie architettoniche, c’erano
segnali disseminati negli angoli luridi di ogni città, una serie di punti
strategici che solo i superstiti del sottosuolo sarebbero stati in grado
di riconoscere e connettere fra di loro, c’era un’immaginazione
malata dietro questi piani di distopie universali e anche tutta una
serie di stronzate che scrittori alcolizzati buttavano fuori dalle loro
viscere bucate, era inita la magia delle parole e con essa il carattere
selvaggio di romanzi incendiari, associazioni libere come se si
lottasse per la propria sopravvivenza, non che avesse ancora
importanza rispettare regole con cui prima o poi ci saremmo puliti il
culo, eppure ci si avvicinava ancora, gli uni agli altri, pensavamo che
gli orologi si sarebbero fermati, tutti simultaneamente, senza più
ritardi, anticipi, gabbie temporali di linee e quadranti e generazioni di
schiavi in abiti costosi davanti agli schermi della manipolazione, ci
avrebbero pensato mani gentili a svuotare le ultime resistenze
umane, qualcuno imponeva l’urgenza della riproduzione dalla sala
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comando di divinità di plastica e latex, era un buon giorno per
perdersi in qualche visione di santi e martiri ed erezioni di dolore, la
didattica di un incubo, le preghiere dislessiche di uomini rinchiusi in
specchi di vanità bruciate.

129.
Nuove visioni liquide di vetro e luce che colano da geometriche
inestre senza nome, le scrivanie bianche e gli arredi asettici, gli
uomini erano seduti in abiti grigi e neri, le donne portavano calze
velate e stro inavano i loro piedi su moquette invisibili, c’erano
schedari in cui erano state inserite le associazioni mentali create
dalle parole stro inare, frizione e nylon e la bava agli angoli della
bocca di uno scrittore ammanettato a una poltrona di pelle rossa,
impossibilitato a battere le dita sui tasti la sua immaginazione era
trasformata in un labirinto di depravazioni sensoriali, i tacchi
scandivano il ritmo dei processi di eccitamento su tavole di legno
pitturate con vernici vittime di stupri e avanguardie, giovani folli in
tute da lavoro erano stati rinchiusi in una stanza e dotati di pennelli,
strumenti musicali, ampli icatori, modulatori sonori, prototipi
meccanici ed elettronici del secolo passato, maschere anti gas e anelli
di costrizione fallici, le dottoresse in divisa e stivali entravano per
controllare che le riserve di sperma fossero ancora piene, segnavano
sui loro quaderni numeri e dati, poi uscivano e si sedevano davanti a
dei monitor di sicurezza, si toglievano gli stivali e si facevano
massaggiare i piedi da scimmie da laboratorio lobotomizzate - Le
strade erano ancora proiezioni di miraggi futuristici e gli scaffali
erano pieni di suoni disturbanti e sinistri, gli insetti, i ragni e le
farfalle erano stati catalogati e studiati, i veleni estratti da rane dai
colori brillanti, i travestimenti psichedelici di un vecchio camaleonte
degli anni sessanta, i tessuti che le mani cucivano perché incapaci di
smettere di tremare, le voglie represse che diventavano abitudini e
bisogni, tutto il tempo in cui non avevamo più parlato, i libri che
qualcuno ha stampato fra le piramidi crollate nella sabbia e nel
silenzio, anche questo sarebbe stato un buon giorno per affondare nei
corridoi di un aeroporto, le destinazioni sconosciute inventate da
schermi a cristalli di amfetamine, le pupille dilatate di un pilota dalla
pelle di metallo, le giovani hostess che ti riempiono il bicchiere, puoi
sentirne l’odore quando ti passano accanto e poi decollare in cieli di
pure tentazioni cosmiche.
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130.
Ero seduto su una comoda poltrona di pelle nera, davanti a una
vetrata da cui potevo vedere le forme futuristiche e illusorie dei
palazzi di Manchester, le strutture spaziali che racchiudevano uf ici e
stanze segrete e corridoi che univano punti di un progetto
incompiuto che giorno dopo giorno veniva distrutto e ricreato,
modi icando le percezioni visive degli abitanti, ogni volta che la luce
si ri letteva sulle super ici dei materiali plastici e metallici degli
edi ici. Si era aperta una porta e nell’ambiente in cui mi trovavo era
entrata una segretaria, aveva una gonna che le arrivava sopra il
ginocchio, delle calze velate e delle scarpe aperte, mi aveva
consegnato un fascicolo, sorridendo e poi se ne era andata, lasciando
una scia di profumo sensuale alle sue spalle. Il titolo del dossier era
L’universo come Ologramma e racchiudeva le trascrizioni delle
discussioni che io e il Dottor Ballard avevamo avuto, dopo
l’assunzione di diverse sostanze sperimentali che certi membri di
alcune case farmaceutiche clandestine gli avevano dato. Avevamo
avuto intuizioni sensoriali, mentali e psichiche sull’origine della
realtà e della nostra connessione con essa. Fondamentalmente
all’interno di una metropoli nulla era reale in quanto era solo la
concretizzazione di un progetto concettuale. L’idea nasceva nella
mente di un architetto e poi veniva disegnata. Dopo altri uomini si
impegnavano a spostarla nello spazio urbano e a farla diventare parte
di esso. La natura era diversa. C’era un seme e al suo interno la
struttura e la forma di quello che sarebbe diventato, il suo codice
genetico. Avrebbe fatto tutto da solo. Idea e realizzazione erano la
stessa cosa. Gli psicoingegneri avrebbero dovuto spostare
l’evoluzione delle costruzioni in questa direzione. Seminare palazzi
che si sarebbero costruiti da soli. Posai il fascicolo su un tavolinetto e
spinsi un bottone sotto il bracciolo della poltrona. Dopo alcuni
secondi la segretaria arrivò di nuovo, si sedette su una scrivania e
accavallò le gambe. Mi girai verso di lei e una scarpa le scivolò dal
piede. Improvvisamente mi ritrovai con delle cinghie intorno ai polsi
e alle caviglie. Lei sorrise. Si avvicinò e iniziò a sbottonarmi i
pantaloni. Chiusi gli occhi. Flash viola di neon nella notte piovosa di
una metropoli di un oscuro delirio. Lei mi in ilò un anello di metallo
intorno al cazzo, poi si allontanò. Aprii gli occhi. Era seduta sulla
scrivania. Spinse un bottone e sentii delle scariche elettriche nella
mia improvvisa erezione. Si divertiva. Non parlavamo. I segnali di
un’interazione erotica erano dettati da impulsi ormonali. Un ronzio di
basse frequenze invase i nostri corpi, immagini pornogra iche
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pulsavano in colori acidi dalle pareti, voci che si scioglievano in
lamenti di piacere, serie di numeri proiettate sul sof itto, gli album
fotogra ici che mani invisibili sfogliavano a velocità stellari, gli
appunti trascritti in lussi di libere associazioni, i ricordi che
qualcuno innestava nella memoria degli sconosciuti inquilini di
queste oscene paranoie, lei che struscia i suoi piedi velati sul mio
volto, insceniamo teatri di improvvisazioni primitive, cambi di visuale
e attori in stati di alterazione progressiva, un lungo e interminabile
suono acuto e spiraliforme, scatti dell’otturatore e fotogrammi
rallentati ino all’immobilità di un fermo immagine atemporale,
statue di divinità sessuali, il giorno che esplode in allucinazioni
sferiche, barriere vocali che le urla degli schiavi trasformano in
orgasmi, antenne che trasmettono codici di aberrazioni
psicosomatiche, inspira, espira, inspira, espira, interferenze sugli
schermi degli apparecchi di controllo, un microfono che si accende
davanti a due labbra rosse e carnose, la lingua umida che ci gira
intorno, i suoni acquosi di un pompino ampli icati in perversioni di
abissi feticistici, un’anguilla che le esce dal buco del culo, il fotografo
giapponese in preda a una crisi di astinenza, i titoli sul giornale che
accusavano le radiazioni nucleari di deformazioni pittoriche nelle
sale vuote dei musei dell’immaginazione barocca, schizzi di sborra su
tavole di legno nero, le dita sul bottone di comando, il silenzio
improvviso, apro gli occhi, il dottor Ballard mi guarda incuriosito
dalla sua scrivania, sostanza interessante, dice con un ilo di voce, non
credi? Mi guardo le mani, ci sono io e il mio doppio, reazioni represse
da rivoluzioni rosse, lo spettro dei colori che si amplia nei nostri
sguardi, apro il quaderno nero, il dottor Ballard mi guarda da una
delle pagine, sostanza interessante, dice nella mia mente, non credi?

131.
Ruggine, ilo spinato, il ronzio del frigorifero, il vento, i rami che
ondeggiano folli nell’aria, la consistenza della vernice, l’acqua ragia,
gli odori di quando ero bambino, un pianoforte scordato, gli
strumenti di tortura, le antiche credenze, le porte socchiuse su una
lama di oscurità, le vecchie querce, gli assalti del sonno, le schiere di
nubi come eserciti all’orizzonte, un sole rosso, le pecore come
apparizioni psicotrope, gli album fotogra ici lasciati a marcire dentro
scatoloni abbandonati, tutte le voci che non hanno più parlato, chi è
passato senza lasciare alcun segno, chi è fuggito scivolando su
super ici di vetro senza ri lessi, le mattine in cui era la luce a
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svegliarti, i passaggi morbidi, il modo in cui i respiri davano forma a
immagini e ricordi, la mente luida e quieta, gli orologi fermi, il
profumo dell’autunno e i suoi colori, i libri sul tappeto, le candele su
cui è la notte ad addormentarsi e in ine a sognarti.

132.
Potremmo ridurre il linguaggio a una serie di stronzate, di ridicoli
segni trasformati in suoni, diceva il Dottor Ballard, dalla sua poltrona
di pelle nera, dietro la scrivania di legno e metallo, senza dimenticare
l’uso erroneo che ne viene fatto dalla maggior parte delle persone, le
quali si sono ritrovate a esprimere, attraverso di esso, cose che
neanche capiscono o semplicemente ad utilizzare questo strumento
nella maniera sbagliata con il disastroso risultato di riempire l’aria e
il mondo con le loro merdate.
Immagina di camminare per un sentiero in un bosco e dimenticare il
linguaggio verbale, non avresti più categorie mentali per ridurre la
realtà intorno a te in parole, dovresti solo af idarti alle tue percezioni
e lasciarti guidare da esse.
Il Dottor Ballard aprì una piccola scatola di avorio, all’interno c’erano
diverse pillole, prendi quella rossa e mettila sotto la lingua, mi disse.
Raccolsi il suo consiglio insieme alla pillola, poi chiusi gli occhi e
attesi.
Qualcuno doveva aver abbassato le veneziane delle inestre, perché
adesso la luce arrivava a strisce parallele con porzioni di buio
violaceo, pensai alla notte e sentii un odore come polvere di stelle,
lascia stare i pensieri, sussurrò una voce, segui il lusso delle
immagini, stazioni, macchine, deserto, l’oscurità ai limiti della città, le
cosce aperte e sudate di una donna messicana, avanti leccami la ica
comandava uno stivale di pelle nera, ti viene duro, vedi, non puoi farci
niente, insinuava la giovane segretaria con le gambe divaricate, piloni
dell’alta tensione, stazioni fantasma, una mano invisibile aveva
cancellato le ultime parti di una sceneggiatura psicosomatica, non
ricordavi più dove eri stato? Dottore? Cosa possiamo fare? La siringa
fra le dita, il siero che gocciolava dalla punta dell’ago, gli eserciti di
formiche in tenuta antisommossa, avranno la loro rivoluzione
grugniva il dittatore mentre si masturbava con un cavo elettrico,
ferma il pensiero, registra i tuoi esperimenti psichici su un nastro
magnetico, uno di fronte all’altro, le gambe incrociate, gli sputi nella
bocca, ferma la macchina, continua a leccarmi la ica, ferma, taglia,
riproduci, inverti, crea una nuova linea atemporale di idee in
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espansione, esplosioni di porte in uscita, i corridoi si moltiplicano, le
stanze di asfalto, chi comanda, chi chiude i pugni e raccoglie le
schegge dalla terra, improvvise melodie e volti e poi scaraventa le
maschere oltre le barriere del suono, aerei da caccia che attraversano
iridi e pupille, l’apocalisse fradicia di sudore, godi in ginocchio e
marcia tra folle di poveri stronzi, ferma la macchina, bisogna dormire,
le prime luci dell’alba, il canto degli uccelli, i sibili delle televisioni, le
gocce di abbandono, il profumo della collera, la rabbia blu, le mistiche
caverne e le eco di stonate verità, tutto questo e altro ancora e –
Cammina su quel sentiero, sussurra ancora il Dottor Ballard, segui le
forme, i colori, i suoni, impara a sciogliere i nodi, guarda te stesso,
guarda l’altro che guarda te stesso, siedi in silenzio e lascia la mente
vibrare in questo vuoto in inito.

133.
Eravamo seduti dentro all’Ultracomida e bevevamo caffè nero,
discutendo di Akira Kurosawa e Takeshi Kitano, Mijazaki e ukiyo-e, di
stampe giapponesi e della loro in luenza sugli artisti francesi di ine
ottocento, soprattutto Van Gogh, il dipinto della sua stanza ad Arles
mi ricordava quella in cui adesso vivevo, le pareti gialle sulle quali
avevo appeso le mie fotogra ie e un paio di quadri che avevo trovato
dentro le camere dimenticate di Noddfa Dawel.
Durante la settimana facevo dei semplici lavori manuali, riparazioni e
altro, usavo dei vecchi vestiti macchiati di vernice, presi da un sacco
abbandonato ed era strano avere tutti i giorni le sembianze di uno
straccione. Poi il pomeriggio mi mettevo a scrivere, a leggere o
semplicemente a galleggiare nella mente, scivolare fra i ricordi,
meditare, ascoltare il vento fra le foglie, la pioggia, osservare le
nuvole, la luce, lo sfumare del giorno.
In un’altra stanza avevo trovato un borsone pieno di scarpe femminili,
ne avevo prese un paio e mi ci ero masturbato dentro, riempiendole
di sborra. Nelle vetrine di un negozio avevo visto degli stivali alti,
neri, avrei voluto una donna che li indossasse e mi ordinasse di
leccarli, seduta su un divano, il bicchiere di vino in mano.
Fuori dall’Ultracomida Lynn ha detto con voce solare di andare al
mare, ho avuto un lash dell’estate e del caldo e della sabbia dorata,
della pelle bagnata, del sale, dell’odore delle creme, poi una raf ica di
vento ci ha raggiunto insieme alla pioggia e mi è venuto da ridere e
abbiamo passeggiato verso la spiaggia ed era freddo e le onde erano
alte e grigie e le strade chiuse perché nei giorni precedenti c’era stata
una tempesta e l’asfalto era ricoperto di sabbia bagnata sulla quale
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lasciavamo le nostre impronte - Sembra di camminare sulla neve ha
detto Lynn e poi siamo tornati verso la stazione dei treni, mi sono
fermato a comprare un paio di bottiglie di vino in un supermercato e
dopo ci siamo salutati nel parcheggio dove lei aveva lasciato la sua
macchina.
Era sabato pomeriggio e non avevo nulla da fare, sono andato a
trovare Elliot, abitava in una casa che dava sul mare, mi piaceva
sedere davanti a una delle inestre e bere un bicchiere di vino,
guardare l’oceano, il cielo, ogni tanto Elliot suonava il pianoforte e le
mie fantasie divenivano più reali, insieme ai viaggi immaginari e alle
parole dei racconti che avrei scritto una volta tornato nella mia
camera.
Gli anni passavano in una danza di eventi che mi trascinavano con
loro, avevo ancora tempo e soldi a suf icienza per rimanermene
nascosto un altro po’.
Non avevo fretta.
Non ne avevo mai avuta.

134.
La luce d’oro del tramonto sulle foglie dell’Autunno e fra di esse lo
spazio per scrivere, le paure striscianti della catastrofe nucleare, le
esplosioni atomiche nel cervello, la vetta scintillante di una montagna
luminosa, le spinte ascensionali dell’acido, si arrivava direttamente
sulla cima dell’Himalaya psichedelico, abbreviando anni di
meditazione e mantra, era una porta che mostrava le possibilità della
mente, l’erba e i funghi ti tenevano ancora nel bosco della psiche,
alteravano percezioni e rendevano vividi i tuoi discorsi con alberi,
piante, foglie e iumi.
Passavi le serate osservando un fuoco ardere, ino a quando il cielo
diveniva scuro e le prime stelle apparivano, la luna era gigante sulla
linea dell’orizzonte ondulato delle colline, qualcuno viveva ancora in
accampamenti nascosti nelle valli, i grandi teepee, i canti e le danze
rituali, mi stavo avvicinando, i primi concerti liberi erano state
esperienze di condivisione e interessi comuni, poi qualcosa era
cambiato, come sempre il denaro aveva preso potere: lo smercio di
droghe, i biglietti, il commercio di musica e sentimenti.
Un’intera generazione aveva provato a scappare dalla gabbia che
l’aspettava, aveva dischiuso scatole craniche con alte dosi di
possibilità lisergiche, la realtà era cambiata e con essa il modo di
starci dentro, di esplorarla, di piegarla in colori e suoni, poi le caverne
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oscure in cui i battiti dei tamburi divenivano quelli del tuo cuore, in
cui le ombre striscianti sulle pareti si muovevano in primitive
sequenze fra inconscio e sogno, in tridimensionali vibrazioni di forme
e visioni.
I monaci nella posizione del loto, seduti davanti a un muro, le nuove
tribù, le iniziazioni oniriche, il luogo che dovevi cercare e scoprire per
sederti e acquisire potere, i mondi che si dischiudevano come iori di
meraviglia, guardavi all’interno di una vita che mutava secondo dopo
secondo e tu ne eri parte ed essenza e luivi con essa sapendo bene
che non saresti arrivato da nessuna parte, perché l’importante era
soltanto lasciarsi trasportare, lontano, in profondità, oltre le barriere
di inganni e illusioni che creavamo in continuazione per proteggere le
nostre nazioni di egoismo, i con ini erano crollati, le invasioni del
subconscio erano cominciate, nelle enormi corsie dei supermercati
non c’era più nulla di cui avessimo bisogno, erano solo un insieme
in inito di scatole cinesi che racchiudevano il seme di una necessità
che aspettava di germogliare nella pianta carnivora di una
dipendenza, ci si spostava di terra in terra, per non lasciare tracce,
per scomparire e riapparire improvvisamente, in campi pieni di
funghi allucinogeni, gli happening e le feste per oltrepassare i bordi
dell’immagine e Suzanne, silenziosa e timida, in un angolo dello
sguardo a reggere uno specchio in cui nessuno si sarebbe mai più
ri lesso.

135.
Al era tornato dalla Spagna con la sua auto, in un viaggio di tre giorni.
La mattina lo sentivo cantare mentre risaliva il sentiero fuori dai
bungalow, probabilmente dopo aver cacato vicino a un albero. Aveva
il suo pick-up da sistemare, era stato parcheggiato qui per più di due
anni, un paio degli enormi pneumatici erano a terra e la batteria era
da ricaricare. Il cassone posteriore era simile a una carrozza del circo
o degli zingari del secolo scorso, con una struttura arcuata e
tondeggiante, ricoperta da un telo cerato verde. Ci si poteva dormire
dentro e anche vivere. Al aveva avuto un infarto e ancora continuava
la sua esistenza nomade, seguendo il ciclo delle stagioni e quello del
suo cuore, doveva avere quasi sessantacinque anni ed era uno dei
superstiti della sua generazione. Mi piaceva ascoltare i suoi racconti
di hippies e acidi e stili di vita alternativi, le sue teorie sul consumo
energetico e le prossime conquiste spaziali, la resistenza agricola
delle piccole comunità e i nuovi mercati monetari elettronici, gli
mancavano dei denti nella bocca, così quando rideva tendeva a
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mettersi una mano davanti al labbro superiore, i suoi occhi erano
azzurri e vivi e c’erano ancora lampi di gioventù dentro, sarebbe
andato a Bali per tre settimane, a trovare degli amici, l’avrei aspettato
qui per l’inizio dell’inverno, giusto per ascoltare altre storie o magari
per seguirlo nel suo ritorno in Spagna, ogni possibilità era a portata
di mano, non c’erano più pareti rosa pallido a impedirmi di guardare
lontano, le giornate diventavano sempre più corte con momenti
improvvisi di estatica bellezza, non sapevo quando me ne sarei
andato, avevo inalmente iniziato a dimenticare chi ero stato in un
passato che attendeva solo di essere trascritto e trasformato in
parole, era materiale narrativo da rielaborare a seconda
dell’ispirazione, degli stati d’animo, delle intuizioni anarchiche,
costruivi e distruggevi, lo avevi fatto per anni, poi rimanevi in
equilibrio e allora, intorno a te, tutto appariva nitido e reale, ci
sarebbero state altre fughe, era inevitabile, l’importante era non
sapere mai dove ti avrebbero portato.
Al si alza dalla sedia dopo aver inito di parlare, va verso la sua
camera, proprio davanti alla mia e sussurra mentre cammina nel
corridoio, con un ilo di voce, cosmic, per poi addormentarsi su un
letto di incanti svaniti.

136.
I risvegli nella mansarda, con il cielo grigio e i ischi dei gabbiani, le
storie del mare che le case e i vicoli e i pub di Aberystwyth
raccontavano, le notti passate sul pavimento di legno della casa di
Sarah, i suoi amici musicisti che suonavano e andavano fuori di testa
con l’erba, le pillole e il vino, l’alba che ogni tanto vedevamo senza
sapere come ci eravamo arrivati, le cascate scintillanti di note, la
legna che crepitava nella stufa di ghisa, il gatto nero che mi si
addormentava su una gamba, quando ero seduto al tavolo a scrivere,
mentre gli altri ci davano dentro con i loro strumenti e Sarah era in
piedi, sbronza, con i pennelli in mano a comporre i suoi tramonti di
meraviglia e colori.
E i fremiti delle dita quando afferravano nervosamente una penna,
perché c’erano ancora emozioni che mi cercavano e volevano
diventare vive e concrete, come le immagini che continuavo a
scattare, lasciando che fossero le forme geometriche a catturarmi, era
tutto collegato in una maniera che non avrei mai creduto possibile, ci
avevo messo anni a liberarmi da costrizioni mentali, un luido rosa
che colava in danze di elefanti ubriachi, sarei potuto arrivare ovunque
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solo con la mia immaginazione, il lusso ininterrotto di pensieri che
da confusione diventava in inita materia creativa, la nostra mente era
uno strumento che avremmo solo dovuto imparare a usare, il silenzio
era il primo passo per farlo, poi la quiete dorata e il vuoto, i messaggi
di mio padre lasciati in bottiglie di vetro, camminavo su una spiaggia
scura in una mattina che la notte aveva dimenticato di amare, le stelle
ancora accese negli sguardi delle maree, naufragavo perché sapevo
che l’abisso mi avrebbe accolto, c’era una profonda bellezza che solo i
segreti del mondo potevano ancora sussurrare.

137.
Avremmo imparato a vivere nel passato e a respirare ricordi come
fossero ora, c’era un legame alchemico fra tutto quello che era
successo e il presente, potevo scivolare su attimi fuggiti che ancora
pulsavano di vita, guardare in uno specchio i ri lessi di ogni momento
trascorso e vederli espandersi in sequenze di immagini, emozioni,
discorsi, volti, paesaggi, intimi e in initi collegamenti con ogni
secondo che era stato aria, un momento di assoluta lucidità in cui ti
guardi intorno e sai di essere in un sogno in cui ogni risveglio è
un’altra possibile storia, che racconterai quando le lettere saranno
forme nella tua mano, guardavo Gavin negli occhi mentre parlavamo
di cinema, sbronzandoci e cercando connessioni che sapevamo bene
giocare con signi icati di assurda logicità, lo scrittore era seduto
davanti a me, al tavolino vicino alle grandi vetrate, beveva una pinta e
osservava se stesso scrivere e le bambine danzare nella loro
innocenza, il campus universitario in cui qualcuno teneva corsi di
scrittura creativa e ingurgitava acidi durante le lunghe notti invernali,
le piccole case al di là del ponte dove studenti affondavano la propria
mente in libri di materie occulte, c’era sempre qualcosa da
attraversare, punti di rottura in cui far saltare in aria ogni certezza,
improvvise distruzioni e elaborati piani di fuga, le traumatiche svolte
nel corso degli anni, le stanze in cui mi ero rinchiuso a parlare con gli
altri erano crollate in macerie di echi, di parole non ne possedevo più
neanche una e tantomeno di voglia di comunicare, chissà se le
persone intorno la vedevano la sottile pellicola di argento e nitrato
che mi circondava, avevo ancora sorrisi e gioia e coscienza di quanto
ogni singolo respiro fosse l’espressione stessa di uno stupendo dono,
quello di essere reale e fare parte dell’esistenza, l’amore che avevo
provato e lasciato andare via, il sentirsi inalmente liberi da tutti i
battiti del proprio cuore, le ferite che portavamo con noi attendevano
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una luce di quiete e calma che le rendesse brillanti e visibili nelle
nostre notti di abbandono e speranza.
Una Splendida Scon itta
parte settima
Artist Valley
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138.
Bianchi silenzi e strisce di coca nelle albe alcoliche, le orme
immaginarie lasciate su moquette di stupore da qualche losca
creatura notturna, gli alberi dalle forme di pensieri immobili, creati
nel buio, i fari della macchina che illuminavano spoglie visioni
d’asfalto, i primi raggi del sole che s ioravano le cime delle colline, un
altro giorno che non sarebbe stato uguale a nulla, perché passato e
futuro non erano altro che ricordi e progetti senza più valore, le
enormi casse e le pulsazioni e i divani e le persone sedute a parlare,
chiudevo gli occhi e lasciavo la pelle vibrare insieme agli effetti della
mezza pasticca che avevo inghiottito, i fuochi che bruciavano
nell’oscurità, la voce impastata di David e i suoi folli discorsi in
sequenze dilatate e poi improvvisamente frenetiche, come se qualche
misterioso alchimista si divertisse con la manopola del tempo, le
cerimonie lunari, i tamburi e i canti dell’ayahuasca, i funghi magici
che ampliavano respiri e percezioni, i rami nudi che ondeggiavano in
silenzio, il senso di calore e protezione intorno alle iamme, poi i
sogni e le stanze e gli incontri e il libro nero che non avevo più
toccato, ci perdevamo in vite in cui nessuno avrebbe mai pensato di
inire, senza ormai nessun desiderio, nessun legame, niente che
potesse assicurare una continuità di ore all’inesorabile caduta,
precipizi, abissi, limiti, con ini, barriere, allargavamo e restringevamo
i nostri vuoti d’aria, perché erano l’unico modo in cui potevamo
essere veramente liberi dal pensiero e dalle sue conseguenze, Bosch
aveva visto l’inferno nelle nere fessure di braci ardenti e niente
rimaneva la mattina dopo di quanto era stato creato e discusso su
tappeti di polveri da inalare, risplendevano gli occhi nelle lucide
composizioni della mente, non si poteva rinchiudere il proprio cuore
nei battiti accelerati di lavori isici, costruivamo il corpo in strati di
muscoli accaldati, sudore e fatica, lussi psichici che colavano in
trincee di radici spezzate e terra martoriata e cicatrici lasciate da una
guerra che nessuno aveva ordinato, ma era lì la nostra energia
sprecata, gli aerei che tagliavano il cielo e la sfera del suono, qualcuno
aveva combattuto ed era morto per millenni, l’oscuro potere che
giaceva nelle profondità di misteriosi esseri, le piume alzate in
ornamenti sciamanici di galli in attesa di attaccarsi a vicenda, i piedi
che calpestavano la terra creando ritmi che i tamburi avrebbero
moltiplicato in ipnosi sonore, non c’era nulla che avesse senso
sussurrare ancora, il cielo accoglieva i tuoi brividi, perché questa era
la ine di un giorno mai nato.
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139.
Saremmo passati dal 3d al 5d, diceva David, era questo il prossimo
stadio dell’evoluzione umana, superare i limiti spazio-temporali che
ci ingabbiavano ed essere qui e ora in ogni possibile momento del
passato-presente-futuro, con connessioni oniriche che trascendevano
nazioni e continenti e rituali sciamanici in cui assumere l’ayahuasca
con uomini della medicina peruviani, pronti a condurti al di là delle
normali dimensioni che la geometria euclidea sembrava avere
assicurato come le uniche possibili. Antiche lingue venivano usate per
trasmettere segreti e conoscenze, i codici maya, i gerogli ici egiziani,
le teste enormi e immobili nell’Isola di Pasqua, i cerchi di pietre nelle
lande britanniche, i fuochi nel deserto fra le voci e gli sguardi della
notte e i libri di Castaneda poggiati sul comodino di legno e l’odore
della salvia bianca, così antico e familiare, capace di trasportarti in
una memoria collettiva e universale che ci vedeva ancora in stretto
contatto con la natura, prima che la tecnologia usurpasse quel potere,
trasformandolo in una serie di impulsi elettronici, sequenze di
numeri e immagini che avevano canalizzato i nostri sensi. Nei cinema
sperimentali si provavano nuove e sintetiche forme di percezione,
schermi, suoni, colori, odori, vibrazioni, magnetismi energetici che
producevano in inite serie di visioni, ci si proponeva di trasportare le
scoperte fatte durante la somministrazione di sostanze allucinogene
nelle esplorazioni di nuove possibilità ilmiche, mandate a fare in culo
i soggetti e le sceneggiature dicevano i produttori, sigaro in bocca e
bicchiere di liquore ghiacciato in mano e concentratevi sul lusso
delle immagini, sulla loro forza manipolativa, piegate le menti degli
spettatori ai nostri voleri, nuova libertà o schiavitù mediatica?
Titolava un giornale transoceanico a caratteri polidemensionali
enormi, le persone lo leggevano nelle metro sotterrane e poi
passavano velocemente alla notizia successiva, non che gliene
fregasse un cazzo a nessuno, erano solo parole, avremmo costruito
nuove piramidi e adorato antiche divinità, complottavano gli
architetti psichici nelle loro stanze di ri lessi e inestre e pareti
plastiche e la musica che avrebbe preso il posto dei materiali abituali
per strutturare le metropoli dei sogni - Era arrivata una busta rossa
con dei biglietti dentro, sarei partito fra qualche giorno, le
destinazioni erano ignote, i viaggi attraverso interzone della mente,
dove gli scarafaggi battevano le dita sulla macchina da scrivere e il
vecchio Lee li osservava con un fucile a canne mozze in mano.
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140.
Il modo in cui Diva mi ha abbracciato, prima di andare via e ne ho
sentito il corpo e il cuore battere e il respiro e poi la voce scivolare
nel mio orecchio ed espandersi nella mente e nelle emozioni di pochi
secondi, in un sussurro mi ha chiesto se volessi l’ultimo acido e le ho
risposto di si, poi mi sono allontanato per sparire in una macchina e
muovermi verso strade e curve e asfalto e immagini veloci ai lati dello
sguardo e poi un parcheggio dove un branco di hippies aspettava
terra organica per le proprie piantagioni di marijuana e i loro occhi
erano strumenti di precisione emotiva e potevo guardarci dentro e
scorgere vite che ricreavo poi, attraverso la scrittura, nella mia
immaginazione.
Ben ha bussato alla porta del mio cottage, gli ho aperto e mi ha
invitato nel suo, l’ho seguito e lui e Diva erano nel bel mezzo di una
esperienza lisergica e mi sono seduto a gambe incrociate su un
tappeto e li ho osservati e ho parlato con loro e stranamente mi
sembravano perfettamente comprensibili i discorsi che facevano, le
loro menti infrangevano barriere razionali che avevo abbandonato da
tempo e allora ho avuto un pensiero improvviso, che tutta la mia vita,
tutti i giorni che avevo passato su questa terra non erano stati altro
che un susseguirsi di stati di coscienza personali ed esistenti soltanto
nella mia testa, era più nitida adesso questa sensazione, soprattutto
quando conoscevo gente nuova, era come se mi aspettassi che loro
sapessero tutto di me e invece ogni volta dovevo raccontargli la mia
esistenza da capo, quella storia sempre uguale a se stessa che
ripetevo a sconosciuto dopo sconosciuto, ino al momento in cui
avessi trovato l’ispirazione e il coraggio di stravolgerla
completamente e diventare anche io pura inzione letteraria. Sarebbe
stato un meraviglioso traguardo quello di perdersi fra le proprie frasi
ed essere parte di questo romanzo che andava avanti da oltre venti
anni, frammentato, disperso, in cui la voce dello scrittore continuava
a parlare, ricordandomi tutto quello che era successo e il modo di
ricollegarmi a ogni singola memoria ed esserne parte nelle immagini
della sala proiezioni cerebrale e Diva disegnava una linea ondulata su
un grande foglio bianco e cercava di spiegarmi che quello era il tempo
e dove, su di esso, si trovavano i decenni e quel tratto di penna
curvava e girava e s’intrecciava con quello precedente, mi sono
versato un altro bicchiere di vino rosso e rollato uno spino d’erba e
ho continuato la nostra conversazione, poi mi sono addormentato e
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risvegliato in un sogno in cui ero uscito fuori dal mio corpo e avevo
visioni e le mie mani cambiavano forma e dimensione e poi una
sequenza girata dall’alto in cui la macchina da presa si avvicinava a
un incidente, con corpi inermi sull’asfalto coperti da un lenzuolo e poi
i baci che Aisha mi ha dato in un’altra notte di improvvisa e
stravagante bellezza e la maniera in cui mi ha sedotto, così diretta e
dolce e le sue labbra erano i giochi di una ragazza lucente e poi il
modo in cui ho visto la sua anima, la mattina dopo, fra i ri lessi dorati
del giorno e quelli dei suoi occhi. E poi il silenzio del cielo e delle nubi
e il grigio dell’aria che nascondeva i colori e le forme e un altro saluto
e le ore passate con Maria a Dublino e ogni momento in cui non sono
stato in grado di amarla nel passato, ogni momento in cui me ne sono
dimenticato, sapevo che era ancora parte di me e che lo sarebbe
sempre stata e che un domani, fra le calde onde dei giorni che si
infrangeranno sul mondo, io sarò ancora accanto a lei.

141.
Il centro del quadrato era anche la punta di una piramide vista
dall’alto.
Una donna discuteva di quanto il mercato dell’aglio fosse ormai in
mano ai cinesi, si stavano impadronendo di tutto, i bastardi e c’erano
nuvole violacee che si muovevano nel cielo mentre ero seduto a
guardarle attraverso una inestra, un cappello di lana in ilato in testa
e le cuf ie nelle orecchie, i Chemical Brothers che potenziavano gli
effetti dell’acido e ogni cosa era chiara e nitida e il pensiero scivolava
senza blocchi, spostavo l’attenzione ed ero una sola cosa con ciò che
si manifestava nella mente, non c’erano distinzioni, non c’erano
intrusioni, la bellezza estatica delle forme in movimento superava
ogni immaginazione, i ricami loreali di un tappeto danzavano in
coreogra ie sublimi, avrei potuto passare tutta la mia vita in questo
modo, in un trascendente rapimento dei sensi, il lusso del tempo mi
trasportava con sé in maniera concreta, secondi e minuti e atomi di
eternità, la musica era un vascello a vele spiegate su un oceano di
melodie liquide che toccavano il mio essere e il mio spirito come pure
scintillanti emozioni, la bianca luce della morte/vita e la chiara
consapevolezza di essere qui e ora, in un attimo espanso oltre i limiti
del giorno e della notte e del loro in inito alternarsi, i paesaggi che
svanivano in visioni interiori e gli psiconauti che parlavano di mondi
al di là dello Spazio e spore aliene atterrate sulla Terra e sorrisi e
occhi che diventavano come varchi negli universi femminili che mi
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passavano davanti, la quiete del silenzio a gambe incrociate, il respiro
dell’acqua in ruscelli e piccole cascate, lo scintillio della luce nelle
molecole che racchiudevano il vuoto, qualcuno si era seduto nella
posizione del loto sotto un albero di sogni, illusioni e risvegli, c’era
ancora un ultimo bagliore da amare, una delicata voce da ascoltare, il
volto in uno specchio solitario, il coraggio di chi ha imparato ad
aspettare, i tramonti che abbiamo sussurrato nella nostra giovinezza,
tutto quello che è passato e che i ricordi accarezzano per rendere il
destino meno crudele, i leggeri brividi lungo la schiena, sulla pelle e
fra le dita e i baci scambiati fra le risate d’argento delle stelle, ogni
iore che abbiamo visto sbocciare non è altro che l’armonioso suono
della bellezza e del suo incanto dai mille colori.

142.
Ero in uno spazio interiore, geometrico e tridimensionale, con griglie
colorate di dati in movimento che qualcuno stava trasmettendo al
mio cervello, sembravano appartenere a un’antica e ormai scomparsa
civiltà precolombiana, erano informazioni che oltrepassavano il
normale piano logico razionale per espandersi in universi di
telepatica comunicazione. Mi domandavo se fosse possibile
incontrare altre persone in questo luogo privo di apparenti con ini
isici, dove si potevano scambiare pensieri senza ricorrere all’uso del
linguaggio verbale, quali segreti avevano scoperto ed esplorato i
sacerdoti mesoamericani attraverso l’uso della psilocibina? Quali
imperi della mente avevano costruito di cui le rovine che si trovavano
nelle giungle non erano altro che una copia di pietra e gravità?
Ero immerso in questa nuova dimensione, cercando di decodi icarla e
capirla, quando Roland è entrato nella stanza e si è seduto sul letto
vicino a me, era impaurito e aveva bisogno di parlare, allora ci siamo
presi per mano e lui ha iniziato a tranquillizzarsi e io ho lasciato quel
luogo del passatopresentefuturo per ritornare all’esterno di me
stesso, le proporzioni della camera erano ondeggianti, con la costante
sensazione di vederle respirare, continuavo a controllare l’aria che
arrivava e usciva dai miei polmoni e in questo modo c’era sempre
qualcosa di familiare a cui potessi ricondurre la mia attenzione, i
disegni sul pavimento si muovevano come sotto la super icie
dell’acqua e sul sof itto si creavano leggere composizioni di fumo,
modellandosi in astratte igure, io e Roland abbiano cominciato a
chiacchierare, anche se trovavo dif icile esprimermi attraverso le
parole, sembravo essermi scollegato dal canale che trasformava i
pensieri in lessico, potevo osservare le sinapsi che si occupavano di
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questo lavoro sdraiate a rilassarsi su una spiaggia cerebrale di sabbia
bianca mentre i lussi di immagini sinestetiche costruivano altri
codici i cui materiali andavano ad organizzarsi in avanzate
architetture di complesse semiotiche aliene.
Il volto di Roland si trasformava leggermente secondo dopo secondo,
era divertente osservarlo, in alcuni momenti mi sembrava come una
specie di gallo, poi un neonato, poi ancora una creatura iabesca,
abbiamo iniziato a giocare in questo modo, attraverso maschere e
costumi e suoni e musica e guardandoci dentro e aprendo in maniera
semplice e naturale gabbie comportamentali e culturali, non c’erano
più distinzioni sessuali in lui, quindi la sua parte femminile si
esprimeva in maniera libera e creativa, io assecondavo il suo modo di
fare, sentendomi luido e non imbarazzato, ci stavamo conoscendo in
una maniera così rapida e meravigliosa che avevo cominciato a
sentirmi come alla presenza di un vecchio amico, nel senso di
qualcuno che ti conosce da tanto tempo e con cui puoi intenderti alla
perfezione con una semplice occhiata.
Inventavamo personaggi e ci muovevamo leggeri su queste pagine di
fantasia, ho steso un tappeto sul pavimento e ho acceso una lanterna,
mi sentivo un marinaio, poi una specie di califfo, nella sua tenda,
mentre prepara un narghilè, seduto fra i suoi cuscini e il profumo
dell’incenso, Roland è arrivato con del tè e una specie di tunica che si
era arrotolato addosso e abbiamo continuato a parlare, poi mi sono
sdraiato sulla schiena e ho semplicemente respirato e lui ha messo
una mano sulla mia pancia e una sul petto, ho sentito il calore dei sui
suoi palmi e lui mi ha chiesto perché il mio cuore fosse chiuso e se ci
fosse un modo per entrarci, gli ho sussurrato che era un luogo
speciale, potevo veramente osservarlo e percepirne la solidità, aveva
smesso di sanguinare, aveva smesso di farmi soffrire e ino a quando
avrei potuto lo avrei lasciato così, questo non signi icava che non
avrei più amato, solo che lo avrei fatto in maniera diversa.
Poi siamo rimasti in silenzio ad ascoltare la musica, melodie indiane,
piene di grazia e gioia per il dono della vita, continuavo a sentirmi
leggero, non c’era nessuna fretta, nessuna paura, nessun desiderio.
Ho aperto gli occhi e le travi del sof itto ancora ondeggiavano
leggermente, colme di grazia e incanto, come morbidi sogni di legno
avvolgente.
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143.
David parlava dal piccolo schermo di un telefono cellulare, strano e
lucente personaggio dostoievskiano rinchiuso nella sua cella di ritiro
spirituale in un monastero scozzese. I richiami telepatici
dell’ayauasca lo collegavano attraverso i sogni ad altre presenze del
subconscio, esseri alieni dagli in initi spettri cromatici e psichici. Gli
occhi di un gatto che mi guardavano, antiche percezioni egizie e la
punta della Piramide e il centro di un quadrato come istruzioni
geometrico-spaziali per spiegare il mio ingresso in latland. Fuori
nevicava e Stephen disegnava mappe con matite colorate mentre io
catalogavo semi di piante psicotrope e allucinogene, poi durante la
notte mi sintonizzavo, ad occhi chiusi, alla mind-tv, dove andavano in
onda episodi della mia vita, montati in ordine casuale, con sequenze
che si sovrapponevano le une alle altre, precipitando in ellissi di
tempo passato per poi esplodere in emozioni e stati d’animo presenti,
le coperte gialle, la stanza blu, il laboratorio segreto in cui John
ancora sintetizzava acido lisergico, le montagne che racchiudevano
segreti, gli alberi che oscillavano mormorando nel vento, le creazioni
di ghiaccio e acqua, hasta el in inito siempre, urlavano i nuovi
rivoluzionari psichedelici, ogni battaglia era stata persa e dimenticata
perché combattuta nei luoghi sbagliati, gli scienziati inivano per
ridurci in molecole e atomi, saremmo stati divisi ino ad arrivare al
nulla, il vuoto buddhista ricomponeva teorie e assiomi, siedi in
silenzio nell’ombra di te stesso, osserva il tuo respiro, tutto appare e
scompare in una ciclica perfezione.

144.
La tempesta aveva fatto cadere decine di alberi e pali del telefono e ci
aveva tagliato fuori dal mondo e dalle comunicazioni per parecchi
giorni. Avevamo cibo a suf icienza e alcol e droghe e quindi nulla ci
metteva fretta, passavamo le giornate distesi sui tappeti, a osservare
gli intarsi loreali del sof itto muoversi e danzare, i colori acquisire
grottesche profondità e lo spazio tridimensionale convergere in nuovi
piani liquidi e densi di suoni, quando qualcuno iniziava a
improvvisare sul pianoforte e le note gocciolavano e si intrecciavano
ai ili armonici di luce nati dalle corde di una chitarra e alle dense e
oscure pulsazioni cardiache di un basso elettrico e ai ritmi tribali e
ipnotici scanditi dalle percussioni, per poi rallentare e ampli icarsi in
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visioni metropolitane notturne e i quadri e gli oggetti della stanza che
raccontavano storie per immagini e un uomo con un occhio solo che
ilmava dalla sua personale macchina da presa mentale e decostruiva
il lusso della vita in sequenze che qualcuno avrebbe poi rimontato in
incastri onirici, deliri schizofrenici, intuizioni dadaiste, era come
tornare indietro ai tempi delle avanguardie storiche e sperimentare
tutto quanto da capo, lasciarsi andare alla pura esperienza artistica e
distruggerla un attimo dopo, nessuno sarebbe venuto a cercarci,
nessuno avrebbe disturbato questa ittizia ibernazione poliedrica,
c’erano schemi esagonali in strutture architettoniche futuristiche,
esempi di follia creativa usati per riorganizzare la vita sulla terra in
ecosistemi utopistici dove le idee, i pensieri e le logiche astratte
inivano per con luire in un unico progetto di inaudita potenza
rivoluzionaria e poi canzoni, danze, poesie e romanzi, sinfonie, ilm e
atti unici, drammi e improvvisazioni, comunità che si formavano
seguendo gli impulsi del desiderio e dell’amore, questa parola che
generazioni precedenti avevano af isso sui muri di società simili a
prigioni, nella speranza che qualcosa sbocciasse e iorisse, che ci
fossero ancora carezze e abbracci e una nuova possibilità di
incontrarsi sulle linee della pelle e del destino per rimodellare così la
nostra stessa umanità e spedirla poi nelle galassie dell’inconscio,
nelle dimensioni ultraterrene degli universi interiori, dove perdere
de initivamente ogni divisione, senza più sapere cosa fosse maschile e
cosa femminile, in una unità di origine e crescita, divinità blu e
sguardi miti, luidi sessuali rosa e violacei e incontri oltre la porta
delle percezioni, ormai aperta e dischiusa, come la gambe di una
giovane fanciulla rapita dai propri sensi - La neve continuava a cadere
e i giorni a trasformarsi e ognuno parlava in silenzio e ascoltava gli
altri ad occhi chiusi, nell’in inita e luida meraviglia di vederli reali
per la prima volta.

145.
Sentieri grigio ardesia e pietre traslucide bagnate, forme luide
scivolano sotto il mio corpo in movimento, terriccio rossastro, aghi di
pino marroni in composizioni stilizzate, i volti nascosti nei tronchi
degli alberi, il verde intenso e oscuro ai lati dello sguardo, i morbidi
strati di muschio in ondulate linee, striature metalliche nell’aria e
gocce di pioggia in espansione da punti di caduta verticali,
concentriche piatte sfere, vento invisibile e rami che oscillano nel
vuoto nebbioso, echi di silenzio nella mente, metamorfosi naturali e
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leggeri spostamenti nei limiti del campo visivo, in initi spettri di
colori nelle continue manifestazioni dell’eternità dorata, il respiro
regola le percezioni, la barca si muove senza fare rumore sullo
specchio del lago, tra itto da miriadi di minuscole esplosioni
molecolari di idrogeno e ossigeno - La baracca sulla sponda, il fuoco
da accendere, le pipe in un angolo, le coperte, le pentole, tutto antico,
tutto lasciato e ritrovato, i racconti scritti su di un libro impolverato
riposto su una mensola, i disegni dei folli, la notte che avanza e con lei
il mistero dell’universo, osserviamo le iamme, fumiamo lentamente,
dondoliamo nell’oblio della natura e della sua presenza, le stelle
esplodono nel cielo, il freddo mormorio delle frequenze cosmiche,
tutto rallenta, tutto si ferma, il libro che cade fra le dita e sprofonda
nel tempo.

146.
Non avevamo più avuto notizie di Stephen per una settimana, dopo
che era scomparso nel nulla, senza dire una parola, semplicemente
svanendo nel tempo e nello spazio. Poi la polizia lo aveva trovato in
un ospedale a Birmingham, intrappolato in una sorta di coma etilico, i
dottori scrutavano la sua cartella clinica in cerca di possibili
spiegazioni e anche noi ci chiedevamo chi fosse questa persona e
quale fosse la sua vera storia, lo scrittore si era rinchiuso nella sua
piccola stanza psichedelica e forniva dettagli e intrecci. I genitori
vivevano a Singapore, il padre era stato un importante direttore di
un’infame multinazionale, l’adolescenza passata in Australia,
l’amicizia con uno spacciatore, i problemi con l’alcol e la dipendenza,
una iglia lontana, sorridente da foto mai scattate, i paesaggi invernali
di una Francia perduta.
I cambi di sceneggiatura e le riprese di una macchina in movimento
su una strada estiva, lo scrittore era al volante e Fleur era seduta di
dietro e gli poneva domande a cui non ci sarebbero state risposte. E
ancora la sala degli incontri e uno dei vecchi capi che era tornato a
farci visita, uscito di prigione e forse ancora più imbastardito di
prima, era sorridente e aveva un nuovo taglio di capelli, accarezzavo
con calma la pistola che avevo in tasca. Le strutture mentali che la
matematica non avrebbe mai spiegato, i nuovi edi ici che
accoglievano uf ici di deprivazione sensoriale, c’erano ancora ri lessi
sui vetri e sorrisi e occhi attraverso i quali osservare sé stessi, l’amore
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di una notte e quello del mattino, le lunghe dita dell’aurora, i giorni
che svaniscono fra labbra umide e languidi addii.

147.
Visioni oscure, masse nere, igure ancestrali e corpi e cadaveri seduti
in un cerchio di buio, le pietre roventi, le eiaculazioni di acqua e
vapore, le gambe aperte della roccia e i suoi luidi liquidi scroscianti,
l’uomo poggiato sui talloni, nudo, il membro gon io e in erezione, gli
antichi rituali di vita e morte, gli dei della fertilità e quelli
dell’oltretomba.
La bottiglia era piena di un liquido rossastro e sanguigno, amaro e
grumoso, estratto dalle cortecce di giganteschi alberi della giungla, gli
ambienti sonori, sferici e avvolgenti, il frusciare delle ali di un uccello
invisibile, le piume che lo sciamano muoveva per cacciare via
impurità e malattie, il ritmo cardiaco e incensante del tamburo, i canti
vegetali e le voci aliene, i movimenti intestinali, i rigurgiti, i residui
tossici che lo stomaco espelleva fra canzoni di guarigione, l’uomo
della medicina era seduto davanti all’altare della mezza luna, ancora
ombre, sulle pareti della tenda indiana, doppi silenziosi che
scivolavano ovunque, proiezioni psichiche della luce e del fuoco che
prendevano vita e si muovevano solenni e misteriose, le preghiere e
la terra e i giorni che il mondo aveva dimenticato perché non erano
mai esistiti, chiudevo gli occhi e qualcuno parlava al mio cuore, per
sanarne le ferite, c’era un peso, una presenza di tenebra e dolore, una
porta chiusa, una voce ormai muta, i serpenti, gli animali selvaggi, le
geometrie auditive e quelle della mente, assenza di materia in sguardi
freddi e primitivi, c’era una coscienza, un sapere, una forma
d’intelletto e comprensione che trascendeva la nostra cultura
scienti ica e materiale, una realtà diversa che le percezioni
accoglievano una volta liberate dai blocchi della razionalità, anni di
istruzione istituzionalizzata non sono stati altro che una gabbia
psicologica e cognitiva, un addestramento forzato alla normalità, alle
giacche e alle cravatte e agli orari di apertura e chiusura, alle strade di
città gremite di anonimi volti e serie in inite di sconosciuti, i messaggi
telepatici, le intuizioni degli occhi, la vita che proseguiva e si ampliava
nella dimensione del sogno, dove provavo a mettere ordine agli eventi
del passato, a quello che era accaduto e scomparso, a tutte le cose
lasciate a metà: le separazioni, gli addii, le inevitabili interruzioni. I
volti che tornavano a parlarmi, perché ci fosse un chiarimento che
non era mai avvenuto, li ascoltavo, li lasciavo andare, perché in quel
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luogo nulla era reale eppure profondamente vero, poi tornavo nel
mondo ordinario, i passaggi che stavo imparando ad attraversare, i
primi segni dell’alba nel cielo, i respiri che diventavano profondi atti
di coscienza, una mano che scrive, l’altra che afferra dita che
sembrano svanire oltre i con ini di liquide memorie.

148.
Ero steso per terra, sporco e vestito male, Michael era vicino a me e
cantava a bassa voce canzoni ancestrali, c’era una dolcezza in quei
suoni, la voce di un padre e quella di un antico maestro e
mangiavamo da ciotole di terracotta: mais, carne e frutta, c’erano
vibrazioni dorate nell’aria e dall’apertura centrale del teepee nel
quale eravamo seduti scendevano obliqui i raggi del sole, frammenti
di splendore che le nuvole lasciavano passare per poi sciogliersi in
pioggia e fruscii d’acqua come melodie di primavera, mi guardavo le
mani ed erano piene di piccole ferite e la pelle sembrava leggermente
più scura e morbida, non possedevo nulla, ero libero da qualsiasi
illusione e aspettativa, ero in uno stato di purezza assoluta e Tom è
entrato dalla piccola porta di legno, lasciandola aperta e di fuori gli
alberi si muovevano in colori nuovi e trascendenti le cui sfumature
appartenevano solamente ai sogni o a quel mondo di meraviglia,
mistero e stupore, il Nagual, che si manifesta oltre la soglia delle
nostre normali percezioni, sono uscito e ho camminato nella realtà e
ogni cosa era viva e la potevo sentire all’interno del mio stesso essere,
ogni ilo d’erba, ogni foglia, gli insetti, le cortecce, la terra, i rami e
ogni manifestazione dell’esistenza era unita da pellicole di luminosa
trasparenza, ero sbalordito e incapace di esprimere razionalmente la
bellezza da cui ero circondato e di cui facevo parte, Michael mi ha
raggiunto, dicendomi che il temazcal era pronto, ho guardato
all’interno dei suoi occhi, c’erano oceani di azzurro splendore in iridi
di gioia e umana comprensione.

149.
Toby stava parlando al telefono con qualche produttore e intanto si
aggirava nello spazio ilmico della sua mente, passando da
un’inquadratura all’altra come fosse un linguaggio di immagini
proibite, la sua voce si attardava in signi icati lessicali che il tempo
avrebbe poi tradotto in sequenze di un progetto audiovisivo di cui la
Natura sarebbe stata la protagonista assoluta. Era il lusso stesso
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della vita che andava catturato, il suo manifestarsi in particolari di
luce e ombra. Le scintille improvvise sulla super icie ondulata
dell’acqua. Toby era davanti al computer e assemblava vecchie
fotogra ie in grotteschi scenari post industriali, i colori trascendevano
cromatismi magnetici, luidi adrenalinici scivolavano sulle pareti di
acciaio pesante, forme apocalittiche di centrali nucleari sui bordi
atomici del futuro, simbiosi, trasmutazioni molecolari, nomadismi
iperbolici nelle scissioni a bassa temperatura, gli esperimenti spaziali,
le tute bianche e gli sguardi in macchina, continua a girare suggeriva
un assistente dalle sembianze metamor iche, evolversi, evolversi, era
l’appello delle entità aliene che trascrivevano complessi scenari
geometrici in serie interminabili di combinazioni binarie, prossime
partenze per l’India, il Nepal e le foreste amazzoniche per realizzare
documentari sciamanici, riprese in volo e primi piani di insetti
giganti, foglie e schemi di registrazione, cliniche asettiche, corridoi
imbottiti, John mi passava una pasticca, la spezzavo a metà e ne
inghiottivo una parte, beats violenti e martellanti nell’oscurità, le
oscillazioni del fuoco e quelle dei corpi, stelle nel cielo, nuvole e
masse di buio, tenui respiri e iumi ininterrotti di parole, ricordi,
drammi infantili, John annuiva e intanto mi dava un po’ di erba per
rollare una canna, bisognava spogliarsi dalle proprie inibizioni, uno
strato alla volta, ino ad arrivare al centro pulsante del proprio essere,
assumevano droghe per questo, sperimentalismi psicologici di
matrice chimica, mi trovavo d’accordo con lui e annuivo in silenzio,
sapevamo entrambi che le probabilità di ritrovare la strada del
ritorno e quelle di perdersi per sempre erano le stesse. Gli uccelli
tessevano richiami e sonorità ancestrali nell’alba, guardavo il mondo
svelarsi ai miei occhi, i pensieri galleggiavano, qualcuno ci avrebbe
detto cosa fare e inalmente avremmo capito. O più semplicemente
dimenticato.

150.
Abbiamo un problema con i rumori di fondo, disse Richie, il continuo
lappare di Jasper the dog ricorda troppo il suono di una ica che viene
leccata e crea vibrazioni dissonanti nella mente dello scrittore,
possiamo risolvere il tutto nella colonna sonora, disse Mark, usando
qualche canzone della ine degli anni sessanta, tipo rock psichedelico,
ho un’idea migliore, aggiunse Toby, perché non mixare la musica e il
cane e inserire immagini pornogra iche che suggeriscano nuovi
signi icati? Vedremo, disse a bassa voce il produttore, dando una
lunga tirata al suo enorme sigaro.
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Erano svaniti i sogni e le case e i momenti dell’infanzia e del sole e del
calore nel corpo, le voci della sera, le rondini veloci nel cielo, i visi
familiari, le reti di protezione con cui qualcuno ti aveva avvolto con la
paura che questo mondo fosse troppo diverso da te, ti sarebbe servito
molto coraggio durante gli anni dei cambiamenti e ogni cosa sarebbe
poi scomparsa per riaf iorare in immagini mentali, in quel vasto
oceano che è la memoria, maree di ricordi, volti che prendevano
forme ormai dimenticate, scenari meta isici, vuoti e spazi narrativi
che lo scrittore avrebbe riempito nelle sue notti insonni, seduto in
una piccola stanza, a raccogliere parole da angoli e fessure, interi libri
mai scritti, intere biblioteche disposte in in inite linee di luida
immaginazione.
Camminavo con Mark lungo i sentieri di esperimenti ambientali e
scienti ici, utopie naturalistiche e comunità lisergiche estinte, chi ne
erano stati i fondatori? Dove erano initi? C’era una foto attaccata ad
una delle pareti di legno di una piccola casa, scattata ancora prima
che la sua realtà fosse cambiata e ricostruita, c’erano progetti che
appartenevano all’ordine dell’illusione e qualcuno che si sforzava
costantemente di unire atomi in strutture molecolari che divenissero
visibili e perciò concrete, Mark mi raccontava alcuni fatti mentre la
voce di Gary aleggiava nell’aria, uscendo fuori da qualche altoparlante
sistemato fra gli alberi, abbiamo sperimentato il cinema nascosto,
diceva Mark, le persone volevano un’esperienza che fosse totalmente
immersiva, non gli bastava più guardare, volevano sentire, essere
parte, oltrepassare lo schermo e diventare luce in movimento, poi
siamo passati al cinema proibito e qualcosa è andato storto e non
siamo stati più in grado di controllare quello che avevamo intenzione
di fare, alla ine ho deciso di mollare tutto e me ne sono andato a
vivere fra i boschi e non ci sono stati più fotogrammi a cercarmi,
produttori psilocibinici sempre sul punto di cambiare colore, le
giornate sono lente adesso e io non ho più fretta di andare in nessun
luogo.
Siamo tornati nella stanza centrale di un basso edi icio, abbiamo
preso da bere e ci siamo seduti ad un tavolo, continuando a parlare.
Oltre le vetrate alla nostra sinistra c’era una specie di giardino zen
minimalista, con le pietre e l’acqua e l’idea che nulla fosse destinato a
durare.
Penso che dovremmo tentare, dissi a Mark, un ultimo spettacolo,
prima che le fondamenta di questo mondo inizino a tremare.
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151.
147 ore di luce, con accenni di buio e stelle scintillanti nel cielo
porpora e damasco, l’attesa della pioggia e le danze primitive intorno
al cerchio della mezza luna, Fiona era tornata dalla Spagna dopo
giorni di digiuno e astinenza, rinchiusa in un perimetro invisibile
delimitato da quattro feticci africani, le preghiere che il suo ego
sibilava in con litti interiori mai risolti, i teatri dell’infanzia che
lunatici personaggi ancora interpretavano nei suoi sogni di
abbandono, non c’era più traccia di razionalità nei suoi discorsi,
ormai sprofondati in dirupi di follia messianica, la vedevo camminare
intorno, sui prati, nelle stanze, benedicendo ogni cosa che si trovava
davanti, portandosi appresso una brocca piena d’acqua, santi icata
attraverso qualche misterioso rituale, Fiona si era perduta in una
sorta di mistica deriva dei propri pensieri, combinando estasi indotte
dal peyote a redenzioni cristologiche in costume, viveva ancora nella
sua macchina e si spostava da un posto all’altro, principalmente
Glastonbury e Wales, con la sua chitarra e le psicosi di una vita
sempre sul punto di crollare e svanire ed era arrivata con una ragazza
rumena, che aveva dormito sul pavimento del nostro cottage e poi la
mattina aveva iniziato a parlare senza più fermarsi, snocciolando
allucinazioni matematiche boschive, formule alchemiche e teoremi di
geometrie polidimensionali, non ci avevo capito un cazzo di quello
che stava dicendo, poi mi guardava e i suoi occhi erano ferini, atavici,
mi aveva quasi spaventato con quello sguardo, c’era una presenza
sessuale malata in quelle iridi, mi era venuto mezzo duro ma poi ho
lasciato stare, mi sono alzato e sono uscito fuori, Fiona stava parlando
in spagnolo con due bambini che non capivano assolutamente quella
lingua e lei si era lanciata in un lungo ed estenuante monologo che
nessuno sembrava ascoltare, poi se ne andava nel ruscello
inscenando un delirio battesimale che le rocce applaudivano, mentre
l’acqua creava forme di lucida astrazione e io mettevo altra legna nel
fuoco, aspettando che qualcuno prendesse in mano la situazione ma
la logica era ormai fuggita fra gli alberi e le colline, scomparendo oltre
le ultime difese del pensiero e della sera e allora ho chiesto a Josh di
passarmi la pipetta di pietra nella quale stava fumando erba, ho fatto
un paio di tiri e sono rimasto in silenzio, qualcuno mi ha passato un
bicchiere di birra, Mark è arrivato con la bottiglia di whisky che
avevamo comprato in qualche cittadina di mare e la confusione mi ha
accolto con la sua danza di grazia e oscenità e ho continuato a
guardare le iamme, le immagini della cerimonia della notte
precedente che tornavano a mostrarsi, l’alba nata fra le parole di una
donna con ili d’argento nei capelli, tutti i suoi movimenti che
sembravano essere stati studiati e ripetuti ino allo s inimento per
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quanto erano precisi e perfetti nella loro femminile luidità e poi di
nuovo fra le strade di una città onirica, ancora smarrito in un
labirinto di volti e strade, lo scrittore viveva in una stanza al terzo
piano di un albergo fatiscente, le insegne rossastre dei cinema porno,
le puttane che passeggiavano lente sui marciapiedi, tutti i discorsi che
non abbiamo più fatto, tutti i saluti, tutti gli abbracci che non ci siamo
più dati, riemergevano i ricordi sulle super ici piatte di lenzuola di
perla e sudore, le linee di bianca energia che pulsano sotto le
palpebre, i canti che Michael intonava nel cuore di ognuno di noi, ci
siamo guardati negli occhi in una mattina che il tempo aveva
dimenticato, due universi che si incontravano in un attimo di puro
splendore. f
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Una Splendida Scon itta
parte ottava
Aberystwyth (Acid Legacy in Wales)
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152.
I sentieri del campus erano vuoti, gli studenti si erano nascosti fra gli
alberi aspettando il momento giusto per sparire in un improvviso
bagliore senza tempo, gli edi ici di mattoni disegnavano uno schema
di lezioni sbagliate, nelle aule i professori avevano adottato sistemi di
insegnamento sperimentali, con scioperi e opposizioni e metodologie
della masturbazione guidata, l’aula dei Tacchi a Spillo, quella delle
Calze Velate, valutazioni feticistiche in trimestri ed atti unici osceni e
abbandonati sui palchi del Teatro dell’Orgasmo Negato, le giovani
ballerine camminavano in punta di piedi, timide e silenziose e nella
camera oscura si sniffavano polveri e nitrati su lastre al magnesio, poi
folgorazioni elettriche in stampe da appendere in stanze ottogonali,
ognuno di voi avrà il suo lato di futuro, ridacchiava uno degli
insegnanti mentre si stringeva un laccio di cuoio intorno ai coglioni
rasati.
Lo schermo sembrava essersi svuotato anche se i tecnici del suono
continuavano a manipolare i diversi rumori: vento, traf ico in
lontananza, gabbiani, musica jazz, sperimentalismi classici e
avanguardie di suicidi dodecafonici, i libri dalle copertine plasmabili,
le impronte di dita di gomma e celluloide, nel dipartimento di cinema
e teatro si potevano passare intere giornate, solamente chiudendo gli
occhi e lasciando che le sostanze psichedeliche facessero effetto, la
Nuova Onda è qui e ora aveva scritto qualcuno sulle mattonelle di un
cesso accademico, una studentessa osservava le lettere danzare
leggermente mentre con una mano si accarezzava la ica e un uomo
con gli occhiali dalle lenti trapezioidali la riprendeva con il suo
apparecchio di registrazione automatica, scrittura della psiche,
ragnatele lessicali, picchi di strutture molecolari sul punto di
infrangersi oltre le barriere del sonno, gli aerei da caccia che volavano
bassi, in simulazioni di guerre atomiche non ancora scoppiate, le
confezioni di codeina in un cassetto, le ricette mediche che una mano
dalle unghie af ilate mi passava sotto una porta onirica, passeggiate
lente e senza meta, passi di danze soporifere in circoli di astinenza, lo
scrittore si esercitava in stili di vita da marciapiede, costruiva un
personaggio immedesimandosi nella sua esistenza, prove diurne e
rituali notturni, oggetti trasformati in feticci sotto l’occhio
imperscrutabile della divinità lunare, ti troverò ovunque, diceva la
faccia bianca, per poi abbandonarsi a orgie di latex e amplessi
cosmici, la legna crepitava nella stufa e il tappeto aveva ancora igure
geometriche in movimento, l’album delle fotogra ie da sfogliare, gli
studi per il montaggio delle attrazioni ricoperti da materiali morbidi
e scintillanti, le sequenze che avremmo inventato notte dopo notte,
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perché ogni risveglio fosse diverso da quello precedente, l’arte del tuo
vivere, l’incandescente vibrare del tuo sangue nelle vene del mondo.

153.
Non che il mondo, le cose e le persone fossero cambiati dopo questi
mesi di assenza, isolamento, esilio, riparo, fuga, la lontananza da una
vita normale mi aveva mostrato più chiaramente quanto sapevo già,
non avevo mai avuto bisogno della gran parte delle merdate che mi
circondavano, ma ci ero cresciuto nel mezzo, le avevo da sempre
avute intorno e per questo, alla ine, le avevo credute reali. Non
pensavo fosse possibile vivere al di fuori di quel perimetro di
costrizione sociale e mentale in cui ci avevano addestrati in da
bambini e invece una scelta la potevamo ancora fare e dopo guardare
tutto con occhi nuovi e più attenti.
Lo schifo c’è ancora, è inevitabile, lo vedo materializzarsi anche
adesso, fuori dalle vetrate dell’acquario virtuale in cui sono seduto a
scrivere, nello spazio di anonimato metropolitano di una stazione
ferroviaria, posso osservare le persone che camminano e passano nel
vuoto architettonico, traiettorie orizzontali di esistenze ignote, questi
corpi mi scivolano davanti senza che possano toccarmi, i loro vestiti,
le mode, gli stili, tutto super luo, tutto illusorio e ancora i miserabili,
come quelli che mi sono lasciato dietro nel mio passato di ingannevoli
privilegi, seduti ai lati della strada, gli occhi che cercano intorno, che
cosa? Che qualcuno li riconosca, che qualcuno si fermi e parli con loro
e li faccia sentire ancora esseri umani, ma tutti tirano dritto, corrono,
si affrettano, parlano all’aria, issano uno schermo, un uomo e una
donna discutono di lavoro e guadagni e famiglia, seduti accanto a me,
di quello che succederà domani, fra un mese, tra un anno, previsioni,
colloqui, scambi, spiegazioni, frasi sputate fuori così velocemente che
corrono il rischio di perdere il proprio signi icato, ma loro sembrano
capirsi, mentre li ascolto e continuo a scrivere, lentamente, perché
non c’è più traccia d’inquietudine nel mio cuore per quello che dovrà
succedere, non voglio oppormi, creare attriti, ogni con litto è stato
perso e con esso sono tramontate le costanti e illusorie
interpretazioni del caos, i volti e le maschere del destino e le sue
bizzarre sceneggiature, dialoghi sempre più minimalisti, un sorriso,
un accenno, il movimento involontario di un sopracciglio, quale
sarebbe stato il prossimo passo?
La Caduta, era il titolo di un soggetto che il produttore aveva ancora
intenzione di realizzare, Giorni Rubati, la proposta sovversiva di un
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promettente sceneggiatore, qualcuno attendeva risposte nei respiri
che momento dopo momento si regalava, sarebbe diventato più
dif icile dopo? Chiedeva un giovane fotografo al proprio ri lesso
sconvolto, il trucco che colava dalla sua faccia e le sostanze in strisce
oblique sul tavolino di vetro, posa la bottiglia suggeriva la mano allo
scrittore, poi calci in culo agli stereotipi e maschere mandate in
frantumi sui palcoscenici dell’avvenire.
Ci sarà un punto su questa linea oltre il quale non potremo più
andare. Ti aspetterò lì. Perché possa ancora guardati negli occhi. E
baciarti. E dirti addio con le mie labbra.

154.
Nuovi incontri transpsichici con i chakra colorati del Dottor Ballard,
Liz produceva suoni circolari con le sue campane tibetane e mi
proiettava in stanze astrali in cui potevo discutere con l’aurea lucente
del mio psicoanalista letterario - Nuovi studi fra analisi freudiane e
pratiche meditative buddhiste erano stati portati avanti nelle aule
sotterranee dell’Università Balinese, proprio accanto ai laboratori
chimici per la sperimentazione e sintetizzazione di psicoerotiche
sostanze allucinogene, bene, appuntava la dottoressa con le calze
velate, accavallando le gambe, il paziente sente alla base dei coglioni
la nascita di una erezione, controlliamone gli stimoli e colleghiamoli
ad immagini feticistiche, qualcuno porti una camicia di forza, in caso
dovesse perdere il controllo, il Dottor Ballard era dietro il vetro
protettivo, in una stanzetta bianca e insonorizzata e scriveva sul suo
quaderno nero, appunti, libere associazioni, sogni, ricordi, il
fallimento della cura Ludovico era stato palese, saremmo tornati
indietro ai momenti traumatici e avremmo sostituto quelle
esperienze e la loro de lagrazione emotiva con altri impulsi
sinestetici, certo, c’era il rischio che il paziente impazzisse
de initivamente, senza più la minima idea di cosa fosse reale o
accettabile come tale, abbiamo ile di cavie umane, schiavi sessuali in
stato di deprivazione orgasmica, troveremo un rimedio, perdio,
diceva ad alta voce uno scimpanzé in camice bianco, sbattendo il suo
pugno peloso sulla scrivania di legno plasti icato, poi silenzio, un
sigaro veniva acceso e le telecamere di sorveglianza si muovevano
negli angoli delle celle di isolamento, un uomo completamente nudo
incatenato ad una parete, l’infermiera che gli si struscia addosso, il
cazzo dell’uomo violaceo e pulsante, la punta enorme e gon ia, un ilo
di una sostanza bianca che gocciola sul pavimento, contrazioni
ritmiche di vagine meccaniche, iniziare l’esperimento numero 23,
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l’infermiera posiziona il cazzo dell’uomo nell’apparecchiatura
elettrosessuale, vediamo i tempi di reazione, l’infermiera guarda il
suo orologio e spinge un bottone, ronzii, vibrazioni, sonorità indiane
luttuanti nelle gabbie mentali, giorni e notti di abominio, sbarre su
inestre invisibili, cliniche e incarcerazioni comportamentali, studi su
disordini e ossessioni compulsive, gli specchi senza ri lessi, le sedie a
cui ognuno di noi veniva prima o poi legato, interrogatori, silenzi,
erezioni e anelli metallici, confessioni di bianca coscienza, estasi,
trascendenze, morti e rinascite in corpi di vuoto e sudore.

155.
La stanza aveva un odore stantio di sigarette, i posaceneri erano
vuoti, testimoni assenti di notti insonni, i pacchetti ancora da scartare
in ila su mobili di epoche passate, pareti rosa pallido con decorazioni
settecentesche, le confezioni delle medicine e una bottiglia di vodka
piena a metà, la porta misteriosa, al piano superiore, che nessuno
aveva il coraggio di aprire, un uomo affacciato ad una inestra,
l’inconsueto tempo trascorso fra una risposta e un’apparizione isica
in uno spiraglio di luce, la legna era disposta in scatoloni di cartone,
nella parte posteriore della casa, i ciocchi erano tasselli di un puzzle
mnemonico che le droghe cercavano sempre di scombinare, un
matrimonio fallito, una carriera universitaria conclusasi fra formule
chimiche alterate e leggi isiche a cui nessuno era più interessato,
stazioni radio crepitanti nella notte, studi televisivi invasi da incubi di
rumore bianco, frequenze manomesse da sabotatori ilmici, la
poltrona sulla quale l’uomo rimaneva seduto a guardare uno schermo
che pulsava di interferenze grigie e nere, piombo nei polmoni,
metastasi elettroniche come ragni meccanici nel cervello, le storie
scritte da dita tremanti, le fotogra ie di paesaggi astratti, le emulsioni
in vasche di desideri sconosciuti, gli studenti enteogeni stavano
tornando ad invadere le aule di università abbandonate nella pioggia,
risate rauche echeggiavano nei corridoi, lezioni di decadenza morale
e sinestesia politica, siamo ingabbiati in un sogno contenuto in un
sogno contenuto in un sogno, dove è la forma? Dove sono i dragoni e
le farfalle? Urlava Sam mentre una infermiera lo inseguiva con una
siringa d’argento in mano, nuvole azzurre lasciate ad asciugare su un
orizzonte di cemento arancione, i giorni che sembravano smarrirsi
nelle ipnosi sonore di temporali invisibili, le matite spezzate nelle
albe di aule di scrittura creativa, sedie vuote dai contorni sfuocati,
indagini esistenziali, le ragazze aspettano un invito per alzarsi e
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mostrarti le loro mutandine, saranno ancora gli inganni di questo
mondo a lasciarci sospesi sui limiti di città senza più nome, ad
ognuno la propria serie in inita di lettere spedite e ricevute, tutte le
parole che iniremo insonni per dimenticare, tutte le pagine strappate
e bruciate, ogni granello di polvere che vedremo danzare nel vuoto
non sarà altro che l’inizio e la ine di un’ennesima poesia incompiuta.

156.
Pioveva. E novembre stava per inire. E c’erano libri ovunque nella
casa dove abitavo, insieme ai fantasmi di giovani tossici, le carte da
parati che qualche sostanza psichedelica avrebbe reso vive come
nella danza dei mille scarafaggi volanti, il gruppo di meditazione
buddhista in cui rimanevo in silenzio a respirare e poi al suono
d’argento della piccola campana aprivo gli occhi e ascoltavo gli altri
con muto stupore, non avevo molto da dire, forse non ne avevo mai
avuto, la sauna in cui i corpi si incontravano ed espellevano luidi e
tossine, le ragazze ubriache che camminavano lungo le strade il
sabato sera, passavo i pomeriggi disteso sul letto, a leggere o
semplicemente a immergermi nel mondo interiore, diventavo
settimana dopo settimana sempre più bravo, la piccola stanza come
quella della mia adolescenza, sembrava che la vita mi stesse
riproponendo gli stessi scenari, le stesse ambientazioni, ma non
avevo fretta o paura, c’era solo una pacata resa, una delicata
contemplazione, mi limitavo ad accettare le cose che mi capitavano
ogni giorno, mi lasciavo attraversare da esse, come se fossero aria e
mi rendevo conto che in questo modo ogni problema si dissolveva,
non c’erano più incazzature, aspettative, delusioni, attimi di
sofferenza, incomprensioni, la vita si modellava in forme che non
possedevo e che non mi toccavano eppure in questo lieve distacco
c’era sempre la sensazione di trovarmi nel centro stesso della mia
esistenza, di essere reale e concreto, di capire quello che ero senza
fraintendimenti, la ricerca interiore proseguiva da sola, mi trascinava
con sé, mi faceva chiudere gli occhi e osservare me stesso, le mie
emozioni, come erano nate, i perché dei miei errori, la confusione di
quasi quaranta anni di risvegli su questa terra si stava diradando, mi
sembrava la maniera migliore di occupare il mio tempo, cercare di
sentire inalmente la mia essenza, non era un tipo di comprensione
intellettuale o psicologica era una consapevolezza più ampia e vasta
che sapevo bene non appartenermi anche se era dentro di me,
passare attraverso di essa signi icava ritrovarsi all’esterno e capire di
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fare parte di qualcosa di identico ma in inito, presente in ogni respiro,
come le onde nel mare, un attimo dopo l’altro e avevo i sogni e quello
che ogni notte mi mostravano, la possibilità di confrontarmi di nuovo
con tutto ciò che mi aveva ferito, mi concentravo su quelle sensazioni
sgradevoli e le curavo respirando ino a quando il cuore fosse calmo e
pieno di pace e in questo modo comprendevo che ogni reazione
sbagliata non era stata altro che un malinteso dei miei sentimenti
soltanto perché li avevo creduti reali nel momento stesso in cui mi
attaccavo ad essi senza lasciarli andare, non c’era mai stato nulla che
avesse avuto veramente importanza perché ogni stato d’animo non
era altro che un illusorio aggrapparsi al proprio ego, al quale poi si
iniva per dare il nostro volto e la nostra vita, un biglietto da visita da
mostrare in una società piena di stronzi, alla quale molti di noi
decidevano di credere e fare parte.
Osservavo le mie mani in un’alba di grazia nascosta fra i grigi veli del
cielo d’inverno e mi sembravano molto vecchie ma c’era anche una
primavera costante che sentivo vibrare proprio nel centro del petto,
c’erano i suoi colori che potevo toccare s iorando la mia pelle,
abbiamo invocato l’amore come fosse una divinità impossibile da
trovare, guarda i giorni che ti hanno solcato il volto, la morte che
misteriosa ti attende, guarda te stesso sprofondare negli anni, tra i
iori che hai visto sbocciare e appassire, fra tutti gli occhi che ti
hanno sorriso per poi in ine svanire.

157.
Il più delle volte, durante la notte, mi ritrovavo in luoghi che non
erano gli stessi in cui mi ero addormentato. Era probabile che il mio
corpo continuasse a rimanere disteso in una delle stanze di LLys Wen
ma una parte di me era altrove, poteva essere Roma, una città
sconosciuta, l’interno di un palazzo e delle sue misteriose camere,
una stazione ferroviaria o un aeroporto, un luogo che cambiava forma
e sostanza e i cui passaggi erano imprevedibili. C’erano incontri con
persone che avevano attraversato la mia vita, alcune di esse erano
ancora molto giovani soprattutto quelle che avevo conosciuto durante
la mia adolescenza e mai più rivisto. Mi accorgevo, sogno dopo sogno,
che questo era un modo per risanare le ferite che ci eravamo in litti,
un modo concreto per dirigermi nel centro stesso di con litti irrisolti
e curare le emozioni negative che essi avevano generato. Ogni volta
che riemergevo nel mio letto portavo qualcosa nel mio cuore di quegli
incontri e nello stato di transizione in cui mi trovavo iniziavo
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solamente a respirare senza appigli logici, mentali o psicologici,
ampliavo i respiri in serie continue di onde interiori piene di calma e
quiete. Alcuni incontri erano molto piacevoli, in altre occasioni
c’erano delle esperienze sessuali, portavo tutto con me e lo
assimilavo in uno spazio personale protetto e avvolgente.
I momenti di passaggio erano i più preziosi, non quelli tra un sogno e
un altro, che stavo ancora cercando di imparare a usare, ma quelli tra
lo stato onirico e la veglia, era una dissolvenza incrociata fra due
mondi, fra le immagini del primo e quelle in cui si trovava il mio
corpo, tra le emozioni provate durante la notte e la calma profonda di
uno stato di coscienza diurno senza attriti o preoccupazioni.
E dopo sapevo di essere ancora qui, nella magia di questa terra, delle
sue colline, dei colori, della luce, degli elementi in continua
mutazione. Avevo in ine trovato un luogo che fosse uguale a quello
che avevo dentro. Lo stesso respiro, lo stesso vivere.
Discendere dentro di me, specialmente attraverso la meditazione,
signi icava arrivare nel centro silenzioso dell’esistenza, non la mia in
senso personale, ma quella che era presente ovunque e di cui ognuno
di noi faceva parte.
Ogni giorno è veramente una morte e una rinascita, in un ciclico
movimento di noi stessi e di tutto quello che ci circonda, ino
all’ultimo passaggio, quello per cui siamo nati e che molti di noi
temono e guardano con paura, quel momento per cui hai usato tutto
il tempo che avevi a disposizione, ci sarà luce, intorno e dentro di te,
ci sarà un respiro e il suo ri lesso e ogni attimo che hai vissuto su
questa terra si rispecchierà nel vuoto in inito dei tuoi occhi ormai
muti.

158.
E Luna era venuta a ricordarmi di tutte le cose da cui dovevo ancora
liberarmi e che forse non sarebbe bastata questa vita e nemmeno
quella successiva per farlo. E aveva il suo sorriso di ragazza e i suoi
modi gentili e sentivo allargarsi proprio nel centro del mio petto
quell’antica e preziosa sensazione di meraviglia, quell’improvviso
barlume di un amore che non sarebbe mai esistito al di fuori di quello
spazio interiore, era lì che mi ero illuso per anni di incontrare
qualcuno simile a me, era quel luogo che avevo cercato di descrivere
con le parole quando le emozioni diventano così forti da fare male,
era in quella scintilla di gioia e dolore che ogni scelta iniva per
bruciare in una splendente solitudine. Luna mi ricordava delle
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decisioni sbagliate, del ripetersi degli errori e lo faceva mostrandomi
il suo corpo nudo nei con ini silenziosi di un sogno, mi sussurrava le
stesse frasi di ogni amante che abbia mai avuto o immaginato e il suo
volto era una maschera di dolcezza e fascino assoluti che accarezzavo
lentamente, la pelle era un universo che le dita scoprivano e
delimitavano e poi rendevano in inito, le iridi come pianeti di una
galassia in cui mi rispecchiavo e perdevo, tutti gli orgasmi che ci
siamo scambiati non sono stati altro che una menzogna, tutto il
piacere dato e ricevuto, i brividi improvvisi, tutti i discorsi, le poesie,
le parole che ho buttato su un foglio non sono state altro che una
presa per il culo, Luna mi ricorda questo mentre mi sorride dall’altra
parte dello specchio e lo fa con intelligente malizia e mi dice di
osservarmi dentro, di non smettere mai di farlo, di guardare il
nascere e il morire delle mie emozioni, attimo dopo attimo, giorno
dopo giorno, che in quel logo sarò da solo e che in fondo l’ho sempre
saputo, inspira ed espira e lascia che ogni ri lesso di te stesso scorra e
si trasformi, guardami un’ultima volta nel cielo, prima che scompaia e
diventi di nuovo parte di te.

159.
Le teorie quantiche che Paul aveva in mente cercavano di colmare con
astrazioni matematiche il vuoto in initesimale che esisteva fra la ine
di un respiro e l’inizio di quello successivo. Malcolm girava per
Aberystwyth in bicicletta e si fermava davanti alle stampelle con i
vestiti usati che qualcuno aveva lasciato appese proprio accanto al
perimetro del beer garden del Wetherspoon. Prendeva camice e
pantaloni, giacche e magliette e li osservava attentamente alla ricerca
di strappi o bruciature, se gli sembravano ancora buoni li in ilava in
una busta di plastica che ciondolava dal manubrio della propria bici. I
suoi movimenti erano frenetici, le anfetamine ancora in circolo, come
quelli di Ken quando mi era venuto a prendere alla fermata degli
autobus di Llanidloes, più di due anni fa. Malcolm avrebbe cercato di
vendere quei vestiti e con i pochi soldi ricavati avrebbe provato a
comprare altre sostanze, poi il veloce scorrere dei giorni
dell’abbandono, la danza di quelli che non avevano più nome, tutte le
aspettative future erano inalmente scomparse, perché era solo la
chimica corporea, adesso, a mostrare le direzioni da seguire e le
astinenze a stilare le liste dei bisogni da soddisfare, poi spiragli di
luce che iltravano dalle nuvole in frazioni di tempo imprevedibili,
uno scatto fotogra ico che catturi linee e composizioni
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monocromatiche, Ben appoggiato a un muretto della stazione che si
accende una sigaretta, la custodia della chitarra posata sul pavimento
sporco, fra mozziconi di canne (che qualcuno avrebbe prima o poi
raccolto, per fumarli nelle notti insonni di nera agonia) e avanzi di
saluti mai dati, le rapide e piccole nuvole di fumo che si dissolvono
nell’aria fredda e lo scrittore che assembla parole come fossero
intuizioni di un’inconscia architettura cerebrale, trasformiamo i
secondi in estasi narrativa, suggerimenti e sussurri cromatici in
intervalli di esperienze psichedeliche a venire, a last trip suggeriva
sottovoce Ian prima di partire per Las Canarias, Acid Legacy in Wales
era il titolo di una ricerca privata che qualcuno avrebbe dovuto
portare avanti, fuggendo dai sotterranei dell’Università Balinese, le
grottesche e bizzarre statue che Andrew Logan aveva creato, i ri lessi
scintillanti di pezzi di specchi spaccati e ricomposti in igure di un
pandemonio artistico personale e deviato, i travestitismi, i costumi, i
residui teatrali di party lisergici in piena decadenza emotiva, trombe
sof iate da araldi dalle sembianze di lucertole invecchiate sotto
troppo sole andaluso, fughe invernali nei deserti mentali ai limiti di
una Tangeri trasformata in una interzona psichica, il tè alla menta, i
calici di vino, le s ilate di corpi senza più nessuna identità sessuale
riconoscibile, danze meccaniche in movimenti plastici improvvisati,
visuali dall’alto, inquadrature stilizzate di volti sconosciuti, cenni di
intesa, spille con il simbolo della pace sul punto di sciogliersi in
ricordi smembrati, sorrisi in declino, cavità dentali sibilanti,
ventiquattro ombre al secondo proiettate nei cinematogra i oppiacei,
lanterne di ametista, destinazioni che scorrono in serie orizzontali di
lettere digitali, le porte che si aprono e le persone che vi entrano
dentro, individui in fugace transizione onirica, ci si preparava per la
svolta inale, siamo rimasti a guardarci perché non avevamo più nulla
da dire, le nubi che vedo scivolare nel cielo non sono altro che ricordi
e forme e attimi e creazioni, tutta la vita che, sinuosa e indomita, da
sempre mi ha portato con lei.

160.
Il posto che preferivo per scrivere era il Wetherspoon, il pub della
stazione ferroviaria, di solito ci andavo di primo pomeriggio,
ordinavo una pinta e poi mi sedevo in un angolo con il mio taccuino
nero, vicino ad una delle porte d’ingresso, quella che dava sui binari,
tiravo fuori la penna e la posavo sul tavolino, poi attendevo che loro
arrivassero, le parole, le mie dolci amiche, mi sembrava di essere in
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un acquario, dal cui interno potevo osservare la vita che scivolava al
di fuori, i volti delle persone che nascondevano storie che
aspettavano solo di incontrare la mia fantasia, poi le mie dita le
avrebbero trasformate in segni sul taccuino nero, in una danza
ossessiva di frasi immaginarie. C’erano frammenti di discorsi e
persone in piedi, in attesa che i treni arrivassero e partissero e il
corpo di Claire, la sera precedente, mentre aveva iniziato a
comunicare con me attraverso i suoi movimenti, era un linguaggio di
seduzione che capivo perfettamente, mi bastava guardarla e
percepivo che le faceva piacere essere all’interno del mio sguardo,
come fosse l’inquadratura di un ilm di silenzioso erotismo, un
documentario di emozioni private e personali e poi mi raccontava
delle esperienze che aveva avuto con l’Ayahuasca, quando era poco
più che ventenne, in un villaggio nelle foreste peruviane, c’erano due
circoli separati, uno di uomini e l’altro di donne, il secondo che
preparava la bevanda, poi l’effetto purgativo e lei che si trascinava da
qualche parte per vomitare, mentre enormi pipistrelli volteggiavano
ovunque, le visualizzazioni sonore psicotrope, sfere volanti,
esperienze che, capivo bene, era alquanto impossibile descrivere in
maniera logica, lo stesso problema linguistico si muoveva da qualche
parte nelle speculazioni matematiche di Paul, mentre cercava di
chiarire a sé stesso ipotesi sull’in inito e sui punti limite sulla
super icie di sfere di pura astrazione, forse le stesse che Claire aveva
visto rotolare nell’aria verso di lei - Il gruppo di antropologi di cui
anche il marito faceva parte che continuava i propri esperimenti con
sostanze enteogeniche in nome di un’idea di ricerca che se ne fotteva
altamente di qualsiasi interpretazione accademica, c’era l’accesso
diretto a stati alterati di coscienza e comprensione e canti e
percussioni nella giungla che sarebbero stati in grado di svelare la
realtà più dettagliatamente delle migliaia di libri scritti dai Culi
Pesanti seduti nelle aule universitarie davanti a puttanelle (come
quella asiatica alla mia sinistra, tacchi alti e gambe accavallate, eterna
distrazione) dalle gonne corte e dalle unghie af ilate. Prime ombre
della sera, anticipazioni oniriche di quello che verrà, abbiamo
imparato che ogni giorno può essere l’ultimo, dobbiamo muoverci
velocemente, il prossimo treno potrebbe essere il tuo, tieniti pronto,
il domani appartiene all’ignoto.
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Una Splendida Scon itta
parte nona
Bryn y Blodau
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161.
La luna era rossa, allineata con Castore e Polluce, iscrizioni zodiacali
in punti luminosi sui neri papiri dell’in inito, il piccolo fuoco brillava
sommesso accanto alle nostre gambe incrociate, Emma e Justine
cantavano, a bassa voce, quando John ci ha raggiunto e si è seduto
vicino a noi. L’eclissi è passata in un tempo che non era più ordinario
e strati di nuvole hanno velato il cielo e Emma ha suggerito di
mangiare una manciata di funghi magici e l’alba si è affacciata ad est,
rosea e lieve e allora ci siamo alzati e siamo andati nella capanna di
John e lui ha messo altra legna nella piccola stufa di ghisa e Emma ha
cominciato a preparare la colazione, eggs on toast e caffè nero, mi
sono sistemato per terra, John mi ha passato un paio di cuscini, poi si
è messo a spiegarmi la struttura della sua capanna, tre ennagoni
sovrapposti che creavano tre spazi da sei lati ciascuno che
ricordavano un trifoglio, John mi diceva che era stato ossessionato da
pentagoni ed esagoni (il primo rappresentava, secondo lui, la
isionomia femminile, il secondo quella maschile) quando era stato
giovane, probabilmente a seguito di qualche esperienza lisergica,
vedendoli ovunque e realizzando oggetti e progetti con quelle forme.
Dopo aver dato un sorso di caffè dalla sua tazza e aver acceso una
candela John si è messo a discutere con Emma e io sono rimasto in
silenzio ad ascoltarli e guardarli, soprattutto Emma, la sua presenza
mi era così familiare, come se la conoscessi da tanti anni e invece ci
eravamo visti solo un paio di volte, riuscivo a comprendere alla
perfezione i suoi gesti, a leggere i suoi sguardi, a indovinare i suoi
pensieri. La prima volta che l’avevo vista, diversi mesi prima, era
stato durante una cerimonia della mezza luna, in cui avevamo
assunto peyote e ancora avevo nitide, nella mia mente, le immagini di
lei che parlava, l’enorme sigaro di tabacco fra le mani, dentro il
teepee, i primi raggi del sole nascente che le illuminavano il volto e
ogni suo movimento aveva un’antica bellezza, un’arcana perfezione,
ed è quello che le ho detto, prima di abbracciarla e salutarla nel
parcheggio della spiaggia di Mwnt, mi ricordo così vividamente di te,
le ho sussurrato, in quel mattino di parole e preghiere e luce e
speranze improvvise.

162.
Siamo andati in macchina verso la spiaggia di Mwnt, Justine era al
volante, John accanto a lei e io nel sedile posteriore. Lui è salito con
una tazza di caffè nero ancora fumante in mano e io io mi sono seduto
di dietro, dopo aver sistemato il mio zaino nel portabagagli. Siamo
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passati a prendere Laura, ci stava aspettando vicino ad una panchina,
con il suo tamburo e un paio di buste con del cibo dentro. Laura si è
seduta vicino a me e ha cominciato a raccontarmi di quando era
venuta in vacanza in Italia con la sua famiglia, aveva quattordici anni
e gli uomini già le ronzavano intorno, ho sorriso, ricordandomi di
Lynn, poi ho guardato il paesaggio che si muoveva fuori dal inestrino.
Quando siamo arrivati alla spiaggia di Mwnt, Mick stava prendendo le
misure per il suo mandala, un regalo personale per il compleanno di
Anne. Alcune persone erano sedute sulla sabbia o in piedi vicino a
delle rocce, le vedevo dall’alto, dal parcheggio in cui ci eravamo
fermati. Ho preso un sacco con della legna dal portabagagli, insieme
al tamburo di Laura e mi sono diretto verso la spiaggia. Sono sceso
per dei gradini e quando ho raggiunto le altre persone ho posato la
legna e il tamburo vicino a loro, Emma era già lì, mi ha salutato con
uno sguardo, poi lei e Justine hanno pensato al fuoco. Donne e
bambini stavano aiutando Mick a terminare la sua opera con dei
rastrelli, componendo igure geometriche che dallo spazio
bidimensionale si spostavano in una zona mentale malleabile e luida,
muovendosi in spirali colorate nella mia immaginazione. Ero ad occhi
chiusi, in quel luogo interiore intangibile e in inito e i suoni delle
canzoni delle notti precedenti hanno iniziato ad arrivare, insieme a
quei ritmi ancestrali nati dal silenzio, le calde e bianche
incandescenze di energia vitale, Michael che intonava parole di
antichi canti dimenticati, i colpi sull’enorme tamburo, le ripetizioni
continue di parole senza nessun apparente senso logico ma allo
stesso tempo capaci di esprimere in maniera così profonda intuizioni
e sensazioni che si perdevano in un modo di percepire la realtà quasi
scomparso, erano le melodie stesse che una natura selvaggia e
incontaminata aveva insegnato agli uomini che l’avevano conosciuta,
prima di smarrirsi negli inganni del futuro. E poi le voci nel buio
soffocante del temazcal, il delirio guidato in una trance estatica di
sudore e corpi fradici sull’orlo del collasso isico, c’era la morte vicino
ad ognuno di noi e non avevamo paura ad averla al nostro ianco, la
musica infondeva coraggio ai nostri cuori e ci portava oltre noi stessi,
per oltrepassare la soglia e poi rinascere nella notte, sotto le stelle e
la luna e la pioggia che ci accoglieva come una benedizione divina.
Mi sono seduto sulla terra nuda e bagnata, sapendo bene che un
giorno tutto questo non sarebbe più esistito, era un mistero e un
dono quello di cui facevamo parte, un universo di innumerevoli e
sconosciuti fenomeni uniti in maniera invisibile fra loro, in una danza
di eventi che il tempo iniva poi per portare via con sé,
distruggendone ogni traccia, ogni passo, come le onde che arrivavano
a cancellare le linee di un gigantesco e meraviglioso disegno sulla
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sabbia, a ricordarci che nulla, nemmeno la bellezza, era destinata a
durare.

163.
I primi daffodils stavano sbocciando e il sole, quando appariva nel
cielo, stava diventando più caldo e Tom e John Joe lavoravano
insieme, bizzarra coppia da vaudeville postproletario, con le loro
tavole di legno da inchiodare in stanze smembrate di fantasie segrete,
i rumori stridenti delle seghe elettriche che stupravano il silenzio
della mattina e quello degli alberi, nelle giornate in cui rimanevano
immobili ad osservarci, in attesa che qualcosa che solo loro
conoscevano venisse a trovarli. Bottiglie di vino e serate passate a
bere e guardare il fuoco, i progetti di James, la sua musica di
proiezioni architettoniche polidimensionali, i concerti in giro per
l’Europa, i gruppi di poeti scalzi che si ubriacavano e declamavano
versi nelle spiagge nude di versi sabbiosi, il montaggio di scene
erotiche in un sogno di estasi sessuali, le immagini di un matrimonio
mai celebrato, i cani che mi seguivano nelle mie passeggiate e se non
erano loro sarebbe stato qualcun altro, i calci in culo continuavano ad
essere un linguaggio universale, comprensibile da tutti, uomini,
donne e bestie, i sentieri nei boschi, il dischiudersi delle percezioni, la
luce che disegnava la realtà in incandescenti sinfonie visive, ogni
fenomeno risplendeva di vita, dentro, fuori, intorno, ovunque.
Rimanevo come sorpreso da così tanta sublime bellezza, presente in
ogni molecola di materia vivente e non, la natura sapeva come
insegnarmi di nuovo tutto quello che non avevo mai osato studiare o
avevo semplicemente dimenticato, i primi segni della primavera, un
mirabile linguaggio da imparare a leggere e decifrare, con il cuore
prima degli occhi, ero di nuovo un bambino, libero inalmente di
muoversi nel suo personale universo di sorprese e incanti.

164.
Il diario scritto da un uomo vissuto dentro una carrozza degli zingari,
le coperte alle inestre, la piccola stufa in un angolo, le pentole, le
candele, i tappeti, il rumore della pioggia, gli alberi ancora spogli, un
falco che volteggia nel cielo, i sogni, notte dopo notte, una seconda
vita narrata in segmenti onirici, episodi di un ilm diretto dal
subconscio, realtà parallele, giorno dopo giorno, i semi nella terra
umida, i vermi, la legna da raccogliere, l’acqua e la sua purezza, una
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fonte, un sentiero, una casa circolare, i disegni, uno sciamano
siberiano, il ritratto di un’anziana donna afghana, il temazcal, i cactus
di San Pedro in vasi colorati, gli echi delle preghiere di altri popoli,
diverse culture che danzano sulle assi di legno di questa dimora,
mangiavamo con le mani, la sera, dopo avere preparato e cucinato il
nostro cibo, le donne si riunivano nella yurt, una volta al mese,
seguendo le fasi della luna e quelle del loro ciclo, cantavano e il
tamburo batteva ipnotico, le storie che Samara raccontava ai propri
igli, seduta su una vecchia poltrona sfondata di pelle rossa, facendoli
addormentare, i ricordi di mio padre, mentre anche io la ascolto, in
silenzio, seduto in disparte, i cesti appesi alle travi del sof itto, le
piume di uccelli svaniti dal mondo, perché come loro anche noi siamo
destinati a scomparire, tutti noi, a sfumare lentamente come la luce di
un tramonto d’estate, la vita ci attraversa in un ciclico divenire, la
terra è bagnata, le nuvole disperse, la pioggia ha smesso di cadere.

165.
Un’alba che sorge da freddi tessuti onirici metropolitani, una
macchina (da scrivere?) lasciata chissà dove, Maria che veniva a
trovarmi, un castello da visitare, le rovine del passato, cumuli di
pietre ad indicare direzioni svanite nel dischiudersi dei giorni, la
pioggia cadeva e Father Tim benediceva la sorgente d’acqua di Bryn y
Blodau. Io, Samara e un gruppo di persone gli eravamo intorno, tutti
fradici per il temporale che ci aveva colpito mentre lui spruzzava su di
noi le sue benedizioni greco ortodosse, litanie sacre in antichi canti
orientali, l’odore dell’incenso che bruciava, quello della mirra, le alte
arcate di chiese mai visitate, il silenzio di preghiere rivolte verso
nessun dio, Costantinopoli era nascosta da tappeti incandescenti, i
iori d’oppio, i misteriosi raggi energetici di sistemi planetari
inesplorati, i libri trovati dentro bauli abbandonati, le iniziali di
uomini scomparsi incise nei vagoni di treni diretti oltre le sterminate
steppe della Mongolia, il magic bus parcheggiato accanto al gipsy
wagon dove vivevo, Father Tim continuava ad intonare i suoi deliri
messianici e apostolici, profeti scheletrici che vagavano impazziti in
deserti spirituali, i richiami della montagna, vision quest, quattro,
sette, dieci, quattordici giorni di digiuno e astinenza, i meravigliosi
ricami dei paramenti sacri, porpora e oro - Poi qualcuno ha fermato le
parole e il tempo e tutto quello che ogni mito ha da sempre racchiuso
e narrato, dentro di sé, la terra da arare, i semi da piantare, il ciclo
della vita che osservavo, attimo dopo attimo, stupore dopo stupore,
stagione dopo stagione, i millenni che solcavano l’in inito, non c’era
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nessuna differenza e non ci sarebbe mai stata, lo sapevano le stelle e
le maree, gli occhi dei bambini, quelli delle donne, gli sguardi in cui
tutto veniva detto senza che le labbra accennassero il minimo
movimento, le mani ghiacciate, la morte che scrive, aspetterò la
primavera in questo luogo d’incanto, fra le gemme e i sogni di una
valle dimenticata.

166.
Un mondo grigio, di forme stilizzate, di stampe giapponesi in bianco e
nero, le geishe sedute in posizioni rituali, i rami degli alberi si
intrecciano in composizioni silenziose, fotogra ie monocromatiche,
pellicole polverizzate dal tempo, i discorsi lasciati a metà, le parole
annegate nei lussi dei pensieri, stanze di uf ici dimenticati in cui ho
ucciso giorni e mesi, gli anni passati che si trasformano in sequenze
di immagini oniriche, una nave carica di simbolismi che solca un
oceano di conoscenze luttuanti, questa é la realtà diceva il vecchio
uomo seduto davanti ad un muro, poi gli abissi della psiche, quelli
dell’amore, ogni storia che abbiamo inventato per rendere fantastiche
le nostre esistenze, le candele accese in cattedrali andate distrutte, le
statue di divinità obliate senza più gambe, braccia o piedi da adorare,
le mute preghiere, gli atti di sottomissione estatica, i luidi movimenti
che seguono le direzioni della rosa dei venti, il tempio di giada che si
dischiude fra le tue gambe, le canzoni d’aria, gli arcobaleni di argilla,
mani che plasmano il nulla in cerca di un signi icato tangibile, scie di
rugiada sulle inestre dell’infanzia, eravamo punti immobili, vuoti e
trasparenti, attraversati da un mistero vivente, lo spazio curvava e
qualcuno lo colorava con suoni e armonie interiori, i richiami di
paradisi ultraterreni, le tentazioni di quelli arti iciali, le lunghe dita
danzanti, pallide e nude, lo sguardo pieno di follia lunare, riportiamo
ogni cosa nella sua dimensione originale, perforiamola, varchiamo
frontiere che ci trascinino oltre i con ini di quello che non abbiamo
mai avuto il coraggio di essere, migliaia di profughi nei deserti
dell’anima, chi accoglierà la nostra fuga? Chi ci proteggerà quando
non sapremo neanche più pronunciare il nome del luogo da dove
siamo venuti? Li vedo ancora i loro volti e il mio fra di essi, in
improvvise e fugaci apparizioni, non è rimasto molto delle memorie
scambiate, di quello che ho provato a costruire, l’abbandono e la
scon itta, perché, ragazzo mio, è nell’atto di umiltà di arrendersi che
si radica e germoglia il iore ancora dischiuso di ogni possibile rivolta.
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167.
Giorni di assoluto grigiore, senza luce, una lunga ripetizione di
immagini scheletriche sintetiche, scolpite nella nebbia, nel vuoto
visivo lasciato dai colori, i lussi mentali attraversano lo spazio e
indicano direzioni di ricordi e malinconie, sembianze ultraterrene di
un mondo chiuso e immobile, la primavera appare timida e deliziosa
nelle prime verdi gemme sugli alberi, nei iori che diventano bizzarri
minuscoli cappelli di frutti ancora acerbi, i tessuti musicali dei
richiami degli uccelli creano un sottofondo sonoro ipnotico per i miei
attimi di contemplazione e quiete, fuori e dentro dalla coscienza,
perché a volte è come se non fossi qui, quando sono ad occhi chiusi,
senza neanche sapere come ci sia arrivato dall’altra parte delle
ordinarie percezioni, chiedendomi se il mio doppio sarà ancora
intrappolato in qualche altra dimensione cognitiva, in una vita senza
immaginazione, in un lavoro, un amore, un’altra relazione illusoria
che il tempo avrebbe inito per mandare in frantumi, occhi come
specchi in cui mi sono ri lesso, in cui continuo a ri lettermi, poesie
scritte in tumulti di inarrestabile barbarie emotiva, sembra di essere
sospesi nel nulla in questa valle di ancestrali canti bucolici, satiri e
ninfe, grappoli d’uva che maturano nelle memorie di vigneti assolati,
altrove, gli echi di terre lontane che il sole corteggia e ama, le carezze
delle spiagge, il calore, le palpebre pesanti, il rumore del mare, la sua
voce, le onde che arrivavano lente e dorate, qualcuno che mi parlava,
un altro viso scomparso, un altro incontro perduto per sempre.

168.
I lussi neri dei pensieri notturni erano passati, svaniti nell’aria
luminosa di una nuova mattina. Era rimasta una macchia bluastra
sull’unghia del pollice della mano sinistra e un’attenzione speciale
per i dettagli, soprattutto se si stava usando un martello per
sistemare una porta squilibrata su sconosciute dimensioni organiche.
Le foglie delle piante erano enormi, larghi ventagli di un verde scuro e
ombroso, gli stemmi sfumavano fra il blu, il bianco e il rosso,
pulsando lentamente. Erano queste le parti che utilizzavamo per la
preparazione di pozioni psicotrope. Qualcuno aveva avvertito le
autorità del Controllo Mentale e c’erano state perquisizioni e avvisi di
sgombero e piani quinquennali di futura demenza senile e
legislazioni medievali e antichi fasti burocratici in castelli di carte
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ka kiani e Samara guidava la macchina nella nebbia, quella delle
colline e dei suoi pensieri confusi, ridendo, a tratti, ancora abbastanza
stonata dall’erba, aprendo nuovi scenari narrativi che lo scrittore
archiviava nella sua stanza dalla pareti elettriche, in attesa di possibili
rielaborazioni creative, poi le cartelle digitali poggiate sul piano
colorato di una scrivania invisibile, le immagini, i suoni, i ilmati
nascosti, c’erano le copie di in initi mondi ilmici all’interno di ogni
schermo nel quale guardavamo, droghe visive a cui ognuno poteva
avere accesso per mettere in scena la propria dipendenza oculare.
Pioveva leggermente, quando ci siamo fermati alla stazione di
rifornimento, sono entrato dentro per comprare del vino ma la
proprietaria mi ha detto che non aveva la licenza per vendere alcolici,
ho bestemmiato piano, nella mia lingua, poi ho osservato il ri lesso di
un corpo in uno specchio sulla parete, vestito come uno straccione,
un vagabondo ed ero io e la donna deve essersi spaventata nel
vedermi così conciato o forse era tutto assolutamente credibile e il
mio personaggio reggeva la parte insieme al suo costume di scena, il
regista sussurrava ad un collaboratore che ogni inganno era reale e
che non bisognava aggrapparsi a inzioni soggettive della psiche, poi
siamo tornati indietro, senza vino e nella casarotonda Samara ha
suonato il lauto, una melodia che sembrava come nebbia leggera
intorno al picco di una montagna cinese, sulla quale ritirarsi a
meditare, un’aria musicale lenta e ri lessiva, fatta di nuvole e alberi
ancora spogli, mi sono sdraiato e l’ho ascoltata ad occhi chiusi.
Tutte le gabbie di pensieri in cui mi sono isolato, c’erano i sogni a
trasformarne le sbarre in spazi aperti e lucenti, dove gli incontri
inaspettati erano ancora possibili, i ilm onirici trasmessi nella sala
cranica della DreamTv, dove non c’erano distinzioni fra lo schermo e
ciò che vi veniva proiettato sopra, quelle immagini erano la realtà di
un cinema privato e inaccessibile ad altri, mi sarei risvegliato in un
luogo, un giorno, in cui nessuno mi avrebbe riconosciuto, le storie che
avrei raccontato sarebbero svanite dalle labbra e insieme alle parole
il mio corpo sarebbe diventato un doppio di pura e selvaggia
immaginazione.

169.
Il dolce rumore della pioggia e le immagini di verdi vallate nascoste
fra le foreste del Sud Est Asiatico, lo sguardo di Samara e quello di
Michael, saluti silenziosi, viaggi in frammenti di spazio e tempo
ricomposti in visioni oniriche, le divinità del Sogno annullavano leggi
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isiche per dare sfogo a pulsioni creative danzanti, cerimonie private
all’interno della circonferenza avvolgente della yurt, occhi verdi di
antiche sacerdotesse celtiche, corpi sinuosi da venerare nascosti in
tuniche di desideri proibiti, i movimenti ondulatori delle vertebre, il
curvare erotico della spina dorsale, le calde vibrazioni di elettricità
sessuale, le cavità dei muscoli come territori di carne inesplorata, i
segni bianchi, gli incensi, le candele accese, le pelli distese sulle assi di
pavimenti di legno ubriachi, i legami tribali, i richiami degli uccelli,
l’alba e il tramonto che inivano per assomigliarsi nella luce e nelle
sue sfumature, tutte le corrispondenze di forme e colori in cui la
natura mostrava se stessa, sublimando l’in inito in dimensioni di
stupore variabili a seconda degli stati di estasi di chi le osservava,
scienziati e razionalisti avevano distrutto la magia di un mondo di
puro mistero, in cui la meraviglia era ancora uno stato dell’essere e
una sua maniera di esprimersi, puri icavamo le nostre percezioni
rimanendo seduti in circolo, cantando al ritmo cardiaco di un
tamburo palpitante, passando la medicina a chi era alla nostra
sinistra - Nuovi spostamenti in macchina, nuovi e gloriosi scenari,
Samara che raccoglie radici di Artemisia fra le dune sabbiose, io che
la seguo incuriosito, attraversando con lei, ogni giorno, le fasi di
un’intera vita, assaporandone i cicli, osservandoli, sentendoli ri luire
dentro il mio cuore, i progetti che si accumulavano su tavolini
polverosi, oggetti intagliati dalle dita di personaggi mai esistiti, c’era
lo scrittore, seduto sul margine bruciato di una poltrona sfondata, a
tessere i ili di parole dentro e fuori le sue storie da inventare,
qualcuno fumava tabacco delle praterie, altri essiccavano funghi
allucinogeni e preparavano pozioni per le notti di luna piena, le
donne parlavano sottovoce e i loro discorsi diventavano accoglienti
melodie, le lente processioni di simboli fallici fra le dita, le rughe, i
segni di ogni giorno che ci ha mostrato chi eravamo, chi abbiamo
creduto di essere, il fuoco che arde trasformando legna in calore,
brace in cenere, morte in amore, accarezziamo i con ini,
oltrepassiamo le frontiere, la morbida pelle, i contatti segreti,
riscopriamo la gioia di essere insieme nel momento stesso in cui la
nostra felicità andrà perduta.

170.
Buie sale cinematogra iche del passato, i volti decrepiti di attori
dimenticati, il fumo delle sigarette turche in spirali orientali
attraverso il cono di luce di un proiettore oppiaceo, qualcuno mi
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passa una canna, poi una lettera a cui non risponderò mai, le famiglie
allargate che nessuno aveva più rivisto, il fuoco acceso sulla quieta
riva di un iume, i movimenti delle iamme e quelli sulla super icie
dell’acqua mi sembravano simili, c’erano in inite corrispondenze che
giorno dopo giorno andavano scoperte e lasciate libere di scorrere
nella mente, per ritrovare arcaiche forme di pensiero che il linguaggio
e la tecnologia avevano usurpato e quasi distrutto.
Samara accende la pipa e benedice la vita e quello che essa racchiude,
dalla nascita alla morte, il suo volto che attraversa tutte le fasi di
un’esistenza, gli anni e i cambiamenti, il suo respiro, il suo corpo, la
luce dell’alba che ci raggiunge sul letto nel quale siamo ancora
abbracciati e poi vallate, alberi, il cielo e i suoi colori, le foglie e i iori
che tornano a sbocciare, la terra, la sua meraviglia e la mia, ogni volta
che la osservo, ovunque, intorno, dentro di me, nella pelle, in ogni
possibile percezione, in ogni minima creazione della mia fantasia,
l’immaginazione al potere avevano urlato studenti rivoluzionari
incazzati e impazziti ed essa era qui, in questo momento e in quello
che lo avrebbe seguito, nel tessuto visivo di nuovi ili d’incanto, le
calde visoni pulsanti e geometriche indotte dal peyote, le piume che
ciondolavano da un sof itto di legno circolare, in strutture
architettoniche inventate dall’inconscio.
Tim e Bev fumavano hashish, parlando e bevendo té nero davanti alle
icone medievali di martiri e santi, Anthony discuteva in cucina di
possibili utopie sociali da inscenare come rivolte urbane, le piccole
isole di resistenza quotidiana, le oasi di stili di vita alternativi
sarebbero diventate arcipelaghi di realtà parallele, avevamo ancora
scorte di acido lisergico nascoste sotto le assi di pavimenti oscillanti,
suggeriva Dye dalla sua poltrona di serpente, i volti di vecchi hippies
sorridevano dalle crepe di tronchi centenari, saremmo ancora
sopravvissuti, sembravano dire, in un modo e in quello che poi lo
avrebbe completamente ribaltato, le nuove droghe elettroniche
creavano dipendenze veloci e dif icili da controllare, gli schermi sono
ovunque, urlava Sarah, correndo nuda fra i boschi, diverse dimensioni
cognitive, scarsa tolleranza, lussi di dati nocivi iniettati direttamente
in zone inesplorate del cervello, i bambini e gli adolescenti erano
l’obiettivo primario, avremmo controllato i loro giovani neuroni
urlanti durante le crisi di astinenza, fantasticavano sadiche le
Multinazionali del Pensiero Virtuale nei loro laboratori di
depravazione sotterranea.
Ian studiava tecniche di difesa psichica nei suoi vestiti strappati e
sporchi, lo scrittore prendeva appunti e creava teorie di sovversione
dadaista, un urlo, la chitarra, i pennelli (su per il culo, gridava di gioia
un equilibrista a cazzo duro), le tele, i materiali plastici, le penne, i
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quaderni, i tagli, le forbici, le fotogra ie, i disegni, le immagini, le
sequenze, il suono, la poesia e l’ebbrezza, un’ultima parola, poi di
nuovo nei boschi, un corpo esposto, radiante e raggiante, una igura
fuggita da un’orgia dionisiaca, ubriaca e perduta fra i rami spezzati di
sogni boschivi e risate d’argento di giovani ninfe danzanti.

171.
Le persone venivano, si fermavano e poi scomparivano, Samara, i igli,
l’ombra di Steven, gli amici, tanto che avevo iniziato a chiedermi se
t u t t i l o ro n o n fo s s e ro a l t ro c h e p e r s o n a g g i i nve n t a t i
dall’immaginazione dello scrittore, lui era sempre accanto a me,
seduto poco distante, silenzioso, a osservare e prendere appunti.
La natura tornava a germogliare, si trasformava, diventava giorno
dopo giorno più ricca e complessa, nelle forme e nelle loro
manifestazioni di luce e colori, pioveva, c’era il sole, le gemme
cominciavano a dischiudersi e i rami spezzati si lasciavano morire, le
storie narrate nei sogni, quelle nei libri, la casarotonda da sistemare
quotidianamente, i giochi dei corpi, quelli dei bambini, le maschere
da indossare e poi buttare via, una messinscena dopo l’altra, le assi di
legno del palco, i punti di vista sferici sulla circonferenza di un teatro
di improvvisazione totale, in cui era la vita stessa ad essere
protagonista, con la sua frenesia, le pause, gli atti d’amore e rabbia,
quelli di violenza, i gesti di tenerezza, la compassione per gli altri, mi
muovevo ancora in bilico fra di loro, la porta del cuore appena
socchiusa, giusto quel poco, perché i bagliori del dolore illuminassero
ancora i miei sentimenti e poi le maree dei ricordi, gli sguardi, le
parole dimenticate, le emozioni, super ici soffuse di vana
consapevolezza, l’importante non era capirle ma sapere scivolare su
queste onde di improvvisa rassegnazione, arrendersi ad esse,
accettarle, farsi attraversare, ridisegnare con le sfumature
dell’infanzia tutti gli inganni che gli adulti ci avevano insegnato, stavo
per compiere quaranta anni senza avere nessuna idea di dove mi
sarei trovato domani, sapevo ancora accarezzare le linee del tuo viso,
quelle di quando sei stata ragazza, quelle di quando invecchierai, gli
anni che le hanno tracciate, qui e ora, in questo preciso istante ci sono
rughe di malinconia e increspature di gioia sul tuo volto, sapevo
ancora perdermi nei tuoi capelli, nei tuoi occhi, in quello che
racchiudevano e sapevano mostrarmi, nelle lacrime, nei sorrisi, nei
giorni che svaniscono e trasformano il nostro passare in bellezza.
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172.
Le scie bianche e lucenti nell’azzurro profondo del cielo erano linee
che congiungevano due punti sconosciuti sulla mappa mentale del
mondo. Partenze e arrivi, decolli e atterraggi, gli spazi e i tempi
sospesi di un aeroporto del passato. Mi piaceva arrivare in largo
anticipo, prima del volo, sedermi da qualche parte in penombra, a
bere birra o gin tonic, a leggere qualche pagina di un buon libro, a
scrivere sul taccuino nero, a scattare fotogra ie di super ici e
materiali, a fantasticare, ad assopirmi nel calore delle grandi inestre
con i vetri oscurati.
I ritorni da Amsterdam, quelli ancora da compiere. Nel mio cuore
c’era la strana certezza che, in un modo o nell’altro, sarei andato
avanti senza più voltarmi indietro e che Roma sarebbe diventata un
ennesimo arrivo, una tappa intermedia di un viaggio che era ormai il
mio vivere.
Le strade, le città, i volti che apparivano nei sogni, in ruoli diversi, in
vecchie abitudini, in prosaiche alterazioni, speravo che la maggior
parte di quelli che mi avevano conosciuto si fossero inalmente
dimenticati di me - Le scie bianche nel cielo, le forme luminose di
enormi uccelli metallici che uomini primitivi avevano disegnato sui
muri delle caverne del subconscio, le immagini di nuovi luoghi,
misteriose esistenze che mi stavano attendendo, i miei giorni non
erano altro che immersioni in oceani di pura immaginazione, poi
ridevo, dentro di me, una volta seduto sulla calda sabbia del presente,
di tutto quello che mi capitava, delle emozioni che ancora mi
colpivano, dei miei bizzarri desideri, delle fantasie erotiche, lasciavo
ogni cosa disperdersi nel mio cuore, i pensieri svanire dalla mente, i
bisogni sgocciolare nella terra umida e bagnata.
C’era un altro me stesso, in questo preciso istante, seduto nella sala
d’aspetto di un aeroporto del futuro, un bicchiere di vino bianco
ghiacciato in mano, gli occhi protetti da lenti sfumate, la valigetta
nera accanto alle gambe, la precisione dei dettagli è quella che è
sempre mancata alle sequenze oniriche sospirava il regista e poi
dissolveva il primopiano del mio volto con una ripresa aerea di una
città mai conosciuta, sarò ancora qui, a perdermi nell’asfalto della
miseria metropolitana, sarò ancora in fuga, fra alberi, iori e
misticismi acidi, le pietre su cui sono inciampato, quelle che ho
afferrato in un pugno e scaraventato lontano, quelle che ho tenuto
strette fra le dita prima di addormentarmi, gli ostacoli che la vita mi
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ha regalato, perché ogni s ida diventasse nei suoi caotici intenti
un’indomita dichiarazione d’amore nei confronti dell’esistenza stessa.

173.
Terapie mitopoietiche del Dottor Ballard, accumulo di energia
sessuale e sogni, le storie frammentate dalla mente, gli archetipi
narrativi, gli oggetti sfuocati del desiderio, polluzioni notturne in
ampolle di saliva e sperma, l’Alchimista e le sue capre, la Montagna
Sacra nascosta dai veli di nubi orientali, messaggi criptati dalle
banche della Coscienza Sotterranea, palazzi grigi, geometrie
metropolitane in movimento, periferie londinesi di pioggia e droghe
suburbane, la polvere azzurra e i suoi effetti, i progetti dinamitardi di
Anthony, i suoi congegni elettrici esplosivi, le prove di insurrezione
psichedelica, costruivamo gruppi di ribellione lisergica, gli enormi
ampli icatori a bombardare coscienze sul punto di aprirsi e
modi icarsi per sempre, non ci sarebbe stato ritorno scriveva Ian su
un pezzo di carta prima di bruciarlo in un fuoco di lingue purpuree,
espansione, espansione, urlavano in estatiche proteste gli studenti in
rivolta dell’Università Balinese e se tutto fosse solo una creazione
della mia immaginazione? Non era altro che il titolo di un seminario
per scimmie e matricole arrapate, scenari pornogra ici nelle classi di
astinenza e masturbazione, sacerdotesse celtiche scrutavano con
occhi glaciali gli uomini ammanettati ai loro letti di piacere, i liquidi
gocciolanti, i lenti orgasmi, inseguiti e poi lasciati esplodere in urla di
luce e frastuono supersonico, traiettorie aeree di erotismo metallico,
gli elicotteri della psicopolizia volteggiavano come enormi insetti
affamati sulle verdi vallate oniriche, in cerca di piantagioni
clandestine, gli alberi in iore a nascondere amori fuggitivi, il ripetersi
delle azioni pericolose, il disintegrarsi tossico di quelle nocive, linee,
lettere, perimetri, formule isiche alterate in ambulatori fatiscenti,
alambicchi, provette, gas esilaranti, composizioni chimiche deviate,
sintesi psicosomatiche, liberatevi dalla logica e ascoltate le voci che
non esistono era la scritta che appariva nei cessi di una stazione di
servizio ai limiti del deserto di Atacama, il biglietto lasciato cadere su
un pavimento di privazioni dalla mano tremante di uno scrittore
suicida, cosa accadrà dopo? Cosa accadrà adesso? Sospensioni
cromatiche dei colori dell’alba, colpi di frusta a venire, cavalcami
impavida in campi di gloria femminea, nuda e orgogliosa, i tuoi capelli
di vento, indomita bellezza, madre perduta, iglia mai nata, igura
danzante, musa addormentata dal pro ilo lucente di perle e sudore.
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174
Piani di guerriglia alimentare, onirica ed erotica, campi coltivati
nascosti fra le colline ondulate, le piantagioni di marijuana e oppio, le
tute mimetiche indossate da Keith nelle giornate di grigiore e
desolazione, gli incontri clandestini, i gruppi armati di disperazione e
miseria, gli atti rivoluzionari disposti in ordine casuale nelle militanti
menti da droghe alterate, sostanze psicotrope, sintetiche, polveri
chimiche, laboratori allestiti all’interno di baracche isolate nei boschi,
le reti di contatti, i nomi in codice, le previsioni apocalittiche di Ian, il
suo umorismo nero, i teepee innalzati nella notte, i sentieri misteriosi
dell’universo attraversati da stelle cadenti, le tue preghiere, le tue
lacrime, le maree dei ricordi che risalivano lungo terre sconosciute,
uomini di potere attendevano il nostro arrivo in abitazioni circolari
che reinventavano la geometria piana attraverso teoremi indotti dalla
mescalina, poi deliri suburbani nei viaggi orizzontali da stazione a
stazione, le memorie confuse di anni trascorsi nella metamorfosi dei
metalli pesanti, del corpo e del pensiero di una farfalla a forma di
frattale danzante, gli appunti, i taccuini, i vestiti strappati, le false
identità, le fughe, i ripari, le storie custodite nel cuore, quelle
stracciate, quelle ripetute, gli schemi di stordimento visivo, gli
schermi a rinchiudere lo sguardo in bisogni irreali, le crisi, le
astinenze, le telefonate in francese, la scrittura iorita dettata dal
subconscio, i diari dei giorni perduti, le onde silenziose, le proteste
mute, gli spazi sonori che qualcuno ancora disturbava con grida e
imprecazioni infantili, i codici sovversivi, i calendari maya che
svelavano le date esatte in cui consegnare il mondo e la nostra razza
alle iamme, le bombe inesplose nelle strade di metropoli
abbandonate, le de lagrazioni fognarie delle nostre coscienze in
avanzato stato di psicoputrefazione, città di labirintiche biblioteche
stordite, cani al guinzaglio, labbra spaccate, le botte, i calci e i pugni,
vetri rotti nelle inestre che la giovinezza aveva aperto e poi
abbandonato, le fabbriche diroccate, l’immagine roca di un urlo, una
bandiera divelta, le folle senza lavoro, i miserabili che laceravano i
veli di sporcizia che ricoprivano i loro corpi deformi, gli inganni dei
secoli e dei loro falsi nomi, le bugie di propagande inventate da
folgoranti mercanti di gloria, i volti enormi, le statue decapitate, il
lusso delle parole, il rincorrersi dei sussulti dell’anima, un domani mi
ritroverò lontano da te e dal tuo letto disfatto, una resa, un ultimo
orgasmo, i colori dell’alba, il rumore della pioggia, quello che resta
della tua pelle nascosta, il suo odore, il modo in cui mi hai insegnato
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ad amarti un istante prima di addormentarmi nell’abbraccio di
un’oscurità femminea e suadente.

175.
Crisi isteriche notturne, ketamina in circolo, risate psicotiche come
echi di frasi spezzate, corrosioni neuronali, cortocircuiti sinaptici in
cervelli alterati, lo spazio circoscritto da un’avanguardia rurale,
maschere e travestimenti, gli enormi ampli icatori, le gigantesche
casse, le vibrazioni sonore, le apparecchiature elettroniche, il giorno e
la notte e il loro sovrapporsi, il continuo vociare, le scie bianche dei
pensieri, i cerchi di fuoco, gli equilibristi della psiche in erezioni
circensi, circoncisioni e circonferenze illusorie, le geometrie cognitive
tessute nell’aria, i cessi di legno, le teste di pesce che parlavano da
vasche di immaginazione privata, deprivazione e depravazione,
toccheremo ancora il fondo, disse qualcuno, poi le letargiche attese
nascosto sotto coperte e pelli di bisonte, le pianure selvagge di luoghi
mai esistiti, le interminabili discussioni con Ian, le bolle di pensiero,
una dentro l’altra, scatole cinesi e bambole russe in estasi sessuali da
rivoluzione bolscevica, non c’è via di uscita e nemmeno d’entrata,
disse sogghignando un uomo dai baf i a manubrio, poi fughe e
biciclette smarrite su strade in cui l’estate non sembrava mai
terminare, mio padre e mia madre ancora in viaggio oltre ogni mio
possibile sentimento, ci saremmo scritti e rivisti nei sogni, ci
saremmo lasciati andar via, i nuovi incontri annulleranno il tempo e il
suo ciclico danzare, stretti l’uno all’altra, io e Samara attraversavamo
super ici epidermiche e sentimentali, ci sorridevamo, ci ignoravamo,
ci abbracciavamo di nuovo in una folle intensità di azioni ed emozioni
sul palcoscenico della sua casateatro, una donna era un vortice che
lasciava il mondo in perenne rotazione, attrazioni e repulsioni,
planimetrie agricole rivoluzionarie e guerriglie spirituali, red path,
canti indigeni, numerologie cabalistiche, gli alberi luttuanti in realtà
parallele, identità multiple, lo scrittore era qui, la penna e il taccuino
nero e sarebbe stato ancora lui l’origine e la ine di ogni parola amata
e perduta.

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Sentieri sinuosi, serpenti di sabbia, dune mosse, le scie di fuoco
nell’aria, la realtà in movimento, oscillazioni psicotrope, il vino, le
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birre, le memorie rinchiuse in clessidre rampicanti, giardini pensili in
caduta libera, associazioni e deviazioni, i corpi nudi fra le onde, le
scogliere luminose, la linea dell’orizzonte sulla quale il sole si
schiaccia in un morbido tramonto, circonferenze esoteriche tracciate
sulla sabbia, gli aquiloni volteggiano lungo traiettorie psicotiche,
rumori plastici e metallici, ipocondrie vegetali, carene, ancore, le
storie dei marinai perduti, morenti lagellazioni estatiche, punizioni,
latrine e oscenità latenti, lei che apre la bocca, gli occhi bendati, la
punta del mio cazzo che scivola dentro le sue labbra, la lingua che
saetta incontrollata, l’energia sessuale traccia percorsi di frustrazione
e piacere, il suo culo poggiato sulle mie palle, ci abbracciamo e ci
addormentiamo, l’impulso improvviso di un’erezione, i pensieri
sfumano in colori chiari, le foglie e l’erba che ondeggiano in sinfonie
visive, i suoi capelli su cui facevo scivolare le mie dita, mi sentivo
ancora un ragazzo accanto a lei, incomprensioni e cadute, una danza
di attimi che iniranno dispersi fra sottili strisce di luce, la penombra,
il suo calore, la stanza in cui sei tornato, quella in cui adesso ti trovi,
le vie di città sciolte nel bianco dell’estate, gli appuntamenti
dimenticati, i colloqui d’ira e rancore, i volti, le facce, le espressioni
costruite da maschere meccaniche, isionomie grottesche, carnevali,
storpi saltellanti ebbri d’assenzio, parcheggi privati seppelliti sul
limitare di metropoli nascoste dai fumi di industrie vaganti, le mine
inesplose, le bombe addormentate su inesplorati fondali oceanici,
echi e misteri, solventi chimici come trucchi di un inferno estetico, gli
stimoli elettrici, le nazioni in rivolta, il tempo che assolve ogni nostra
possibile condanna, giudizi sospesi, giardini morali pensili, lacrime e
insicurezze, progressioni emotive eseguite su sintetizzatori sintetici,
lo sguardo vacuo di un assassino annoiato, l’accadere di un gesto,
troverai una ragione, prima o poi, per lasciarti tutto alle spalle,
raccontami di te, degli anni e delle guerre, di ogni amore che le tue
gambe aperte hanno conosciuto, di ogni carezza che il destino ti ha
negato, delle tue sigarette rollate a mano, delle tue preghiere davanti
a un fuoco che sentivo ardermi nel cuore.

177.
Lettere dal passato, sgomberi imminenti, uf ici governativi a due
piani, connessioni telepatiche con i membri di organizzazioni
psichiche sovversive, i campi di addestramento trascendentale
nascosti nella giungla peruviana, avremmo aggiunto nuovi punti sulle
nostre mappe cognitive, diceva pacatamente un curandero seduto su
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un pavimento di terra e polvere, nuovi luoghi segreti per le nostre
cerimonie, gli sciamani del terzo millennio si stavano preparando, ci
sarebbe stata una rivoluzione nel cuore, con danze e canti e uomini
appesi per i capezzoli ai rami di alberi centenari, l’energia che
nasceva in centri colorati e pulsanti e si diffondeva nel corpo, i
discorsi, le donne e le loro lacrime, la pelle, i capelli, le preghiere, i
rifugi sotterranei, nel subconscio, nei territori astratti di creatività
deviate, gli spazi vibranti di un sogno, nel quale mi spostavo e nel
quale inalmente mi ero fermato a vivere, trasformando le strutture
morbide di realtà parallele in perimetri di luida incertezza, ogni cosa
mutava, svaniva, si ripeteva all’in inito, cambiava, ingannevole copia
di ciò che la aveva preceduta, ogni respiro poteva essere l’ultimo,
sorella mia, bisognava essere pronti, a lasciarsi il mondo dietro, così
come lo avevamo sempre conosciuto, un ilm di desideri e illusioni,
un gioco di ombre ed echi, gli attimi di lucidità, la chiarezza interiore,
le direzioni che avremmo scelto per arrivare dove non avevamo mai
immaginato di farci cruci iggere, le spie che mi guardavano da dietro
la tua testa piegata, lo spaccarsi delle nuvole nel cielo, le esaltazioni
sulfuree, gli antichi rituali in contrasti cromatici di piacere e dolore, le
zone inesplorate di illeciti continenti orgiastici, le droghe e le
tecniche di manipolazione tattile, atti di masturbazione forzata,
gemiti e agonie, le accuse dei sentimenti, le prigioni segrete della
nostra memoria.

178.
Don’t take responsibilities for today and see how it goes - suggerisce
Shivam in una parentesi di quiete sonora, dopo che i tamburi hanno
smesso di battere e le persone nel Red Temple hanno inito i loro
esercizi di respirazione forzata, breathe control sussurra una donna
seduta in penombra mentre accarezza un bastone di legno dalle
proporzioni falliche.
Ci sono state danze ed estasi e stati di alterazione progressiva,
espansioni luminose della coscienza, i bordi degli oggetti che
cominciano a muoversi e incresparsi, il cuore si fa più leggero e
permeabile alle emozioni, ancora una volta la sensazione di essere
attraversato dalla vita, di non essere altro che un passaggio che i miei
polmoni aprono e chiudono, le parole come suoni inarticolati, la
natura come linguaggio sinestetico.
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Ho camminato lungo le sponde di un iume, mi sono seduto e
spogliato, ne ho osservato l’acqua e il mio ri lesso tremolante sulla
super icie, ho meditato su quei luidi movimenti, mi sono bagnato e
poi ho ricoperto il mio corpo di argilla, la mia pelle aveva delle
sfumature fra il grigio e l’azzurro, ho accolto il sole, ho accolto l’aria,
ho accolto il cielo e la terra, mi sono chinato e ho baciato i piedi di una
donna che la mia immaginazione trasformava in una divinità
orientale.
I richiami dei corvi che echeggiano nel sogno estivo di una vallata, poi
l’alzarsi dei ritmi tribali, un’architettura invisibile di strutture di
percezione auditiva sincopata, geometrie mentali di percussioni
primitive, le conchiglie, le piume multicolori di uccelli ormai estinti,
collane di denti di animali svaniti dal mondo, tutto appariva e si
dissolveva in momenti imprecisati del giorno e della notte, poi
eravamo seduti attorno a un fuoco, bevendo sorsate di pozioni
psicotrope, masticando liberty caps, ascoltando la voce di chiunque
avesse una storia o un’utopia da raccontare, perché lo spazio del reale
era stato assorbito da quello della fantasia, che ne ricostruiva,
momento dopo momento, con ini e possibilità, lasciando così le
ombre libere di muoversi dalla loro origine.
Ho guardato le stelle e le stelle unirsi fra di loro, ino a quando l’intera
volta celeste non è stata altro che un affresco scintillante popolato da
strane igure mitiche, ecco il momento stesso in cui abbiamo creato i
nostri dei, let the celebration begin - ha urlato Joe in un’esplosione di
gioia e sudore, un corteo di corpi in trance selvaggio ha percorso
territori psichici inesplorati, c’erano grida e canti e battiti e colpi, salti
e convulsioni spasmodiche del cuore, poi i gesti codi icati di antichi
ed ebbri rituali pagani, le mie risa che distruggevano le cattedrali del
peccato e del perdono, ogni volta che le divinità femminili, con uno
schiocco di frusta, illuminavano di erotico candore la maschera
esultante del mio volto tras igurato dal piacere e dal dolore.

179.
Geometrie sacre e progetti immaginari di caserotonde da realizzare,
le cortecce degli alberi e il loro odore, segni esoterici e invisibili
relazioni numerologiche, ognuno lavorava in misteriosi punti spazio-
temporali sulla circonferenza imperfetta della propria vita, elementi
psicotropi del passato, deviazioni comportamentali chimiche, uomini
di potere nascosti negli angoli di club sotterranei, le terre spezzate, i
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campi profughi, le carovane che il futuro avrebbe di nuovo attratto
verso le proprie frontiere, il fango che dissolveva e rimodellava errori
e impronte, metri cubi di aria prigionieri all’interno di stanze di
mattoni e cemento, percezioni soggettive di metropoli in rivolta, i
nuovi architetti sonici disegnavano progetti polidimensionali
seguendo i ritmi di tamburi ancestrali, palazzi ipnotici avrebbero
piegato le loro strutture in un ripetersi di circolarità post urbane, il
sole e i suoi ri lessi si sarebbero mostrati nel curvarsi di piani
prospettici in continua mutazione psichica, ogni appartamento
sarebbe diventato pura immagine speculare di un’esperienza
individuale e pulsante, colori caldi, linee e punti luminosi
intermittenti, schemi e codici di algoritmi trascendentali, le gocce di
sostanze in avanzato stato di sperimentazione somministrate sotto la
lingua, la pioggia che arrivava con le forme astratte di nuvole
dadaiste, le canzoni del Peyote, le capanne sudatorie, le rocce laviche
e poi tutti i discorsi e le parole, i segreti rivelati, i ricordi e le lacrime e
ancora la speranza che qualcuno, un giorno, si dimenticasse di come
fosse giunto ino a qui.
Camminavamo piano sul con ine di un sogno mai nato, dal quale
nessuno era riuscito a fuggire, oggi o domani, comunicavamo con
gesti che non signi icavano nulla, ogni interpretazione sarebbe
diventata un messaggio di barbarie verbale, non si possono
combattere i nostri desideri o confondere le sue armi di violenza
erotica per atti d’amore clandestino, diceva Clive, eppure gli schiaf i e
le botte continuano a colpirci sotto lenzuola sconosciute e lì, così
vicini e penetranti, ci sono i tuoi occhi e la tua pelle e quello che vibra
tra uno sguardo e un abbraccio e il mio cazzo duro e la dolcezza e la
notte che diventa alba e le stelle che svaniscono in un grido di estasi e
nuove emozioni, abbiamo passeggiato lungo sentieri di sabbia e
stupore, in un mondo che solo l’immaginazione può rendere reale, le
orme che scompaiano e cancellano il percorso che abbiamo
compiuto, in quel che resta di questo viaggio e delle in inite
possibilità che lo compongono, come specchi di ragnatele e cristalli e
candore.

180.
Mulini a vento stilizzati in strutture a tre eliche, verticalità plastiche e
anamor iche, le verdi distese degli ulivi in linee parallele, gli speroni
bianchi, las haciendas, i piccoli balconi di ferro battuto, invasioni
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mentali islamiche, gli stretti vicoli de El Albacìn annodati fra loro, un
giovane ragazzo cerca di vendermi dell’erba, le visioni notturne di
Tangeri, le porte misteriose nel buio delle stradine e gli occhi
luccicanti di porpora al loro interno - Ho bevuto un pò di vino rosso
sull’aereo e Samara ha appoggiato la sua testa sulla mia spalla e nel
momento in cui stavo entrando nel mondo onirico il pilota ci ha fatto
atterrare (non in quella realtà, purtroppo) e quando le ruote hanno
toccato terra sono rimbalzato fuori da qualsiasi posto mi trovassi e mi
sono ritrovato ad occhi aperti sul sedile, le luci delle città viste
dall’alto ancora mi pulsavano nelle iridi, punti arancioni e giallastri in
composizioni geometriche, miniature futuriste di codici aztechi mai
scoperti, quelle immagini ad alta de inizione erano ancora presenti
nella sala privata della mia memoria visiva, poi, un altro ilm è stato
proiettato nelle autostrade della psiche, una macchina sfrecciante
nella notte, Dave guidava, io ero sul sedile anteriore destro e Samara
era seduta dietro insieme a Nick Taylor, folgorato sassofonista in
costumi egizi degli Hawkwind, ormai ottantenne, di ritorno da un
concerto e un party di tre giorni a Granada, Dave lo aveva dovuto
tenere d’occhio, cercandogli divani dove sedersi e rollandogli canne a
raf ica, Nick riusciva a malapena a parlare e aveva gli occhi cerchiati
di rosso, Samara ha girato uno spliff di hashish marocchino del quale
Dave aveva trovato un bel pezzo nascosto sotto un cuscino gon iabile,
quando lo aveva preso dal portabagagli per passarlo a Nick - La
musica correva insieme a noi e ai lati della strada scivolavano scenari
industriali sempre sul punto di trasformarsi in ripetizioni
caledoscopiche di parcheggi e macchine dormienti, avevo fatto
qualche tiro dalla canna e non potevo credere che quel fumo fosse
così forte, mi sembra di essere all’inizio di un acid trip, la mia testa
ciondolava, mi sentivo sul punto di svanire nel sonno e in quel con ine
della coscienza l’asfalto e il cemento e le illuminazioni arti iciali di
insegne, lampioni e segnali stradali si fondevano in intuizioni
psichedeliche vorticose e sognanti - Poi sono arrivati i boschi e le
colline ancora distese nell’oscurità, la macchina curvava, rallentava,
cambiava direzione in una personale interpretazione delle mappe del
nostro subconscio, ci siamo fermati davanti a quella che sembrava
una casa abbandonata, dopo aver percorso una strada sterrata
inventata da chissà quale mente deviata, siamo scesi tutti, tranne
Samara e abbiamo accompagnato Nick ino alla porta, dentro c’erano
cani che abbaiavano e quando lui è entrato un tanfo di urina mi ha
colpito le narici e ho sorriso e gli ho dato il suo sassofono e gli ho
stretto la mano, lui non ha detto niente, mi sono girato a guardare il
cielo, le stelle erano nascoste, le nostre speranze oscillavano nel
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tempo, sono tornato in macchina, Samara si era addormentata, da est
qualcosa o qualcuno sembrava sussurrare il suo nome.

181.
Saremo ancora stranieri in queste lande sconsacrate, saremo ancora
stranieri in patria, in famiglia, fra gli amici, stranieri in questo viaggio
che porterà i nostri cuori lungo strade di inarrestabile mistero. Ci
saranno oasi iorite come profondi respiri nel petto, porte e passaggi
e poi di nuovo saremo stranieri nelle terre dei sogni, incontreremo
individui sconosciuti, li saluteremo e li lasceremo andar via, ci
saranno abbracci nelle notti stellate e fragili igure sedute a guardaci
in lontananza, i volti invecchiati di nostro padre e nostra madre e il
tempo lo vedremo danzare in circoli di costumi colorati, ci saranno
risa e lacrime e celebrazioni e addii, feretri profumati, le storie
narrate dalle conchiglie del deserto, i cassetti chiusi, le stanze ormai
vuote, qualcuno ti indica dove lasciare le tue cose, una donna ti
guarda dentro facendo fermare i minuti, perché quello sguardo
diventi un momento di in inita comprensione e bellezza. Le fotogra ie
che ti ho scattato, le tue orme che ho seguito con la speranza che
sapessero dove condurmi, ho inito per perdermi un’altra volta, nel
labirinto del cuore, in quello dei pensieri, le giovani ragazze che non
avrò più il coraggio di amare, la sento luire nelle vene la dolce attesa
della morte, è la vita stessa che la chiama, che la porta con lei, che ci
confonde con le sue deliziose e sensuali illusioni. Chiudi gli occhi
quando ti senti smarrito, ragazzo mio, addormentati in quei luoghi in
cui non sei mai stato, ti sveglierai dall’altra parte dello specchio,
ricordando il passato come una serie di atti unici di un teatro onirico
e illogico, prendi posto davanti al sipario rosso, i volti degli attori che
tra poco appariranno non saranno altro che una galleria di maschere
bizzarre e grottesche, quelle che hai indossato nella solitudine del tuo
essere, quelle che hai osservato negli specchi di iridi seducenti e
severe, la tua immagine moltiplicata in ogni possibile direzione
emotiva, satiri in divisa militare salutano a cazzo duro e a braccia tese
il nuovo giorno, ombre circensi, sussurri erotici, un brivido alla base
dei coglioni, una lingua nelle orecchie, poi voragini di piaceri proibiti
e segni viola e lividi sul corpo, quelli che qualcuno nei suoi poemi di
scon itta e frastuono confonderà ancora per gesti incompresi
d’amore.
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182.
Vorticare di volti nel buio della mente, Tom, Michael, Chanan, poi i
morsi di Samara sulla pelle e quelli nel cuore e le mattine in cui era
stretta al mio corpo e la sentivo piangere e sospirare e le albe limpide
nei suoi sguardi, alcune volte, quando l’amore risplendeva puro e
lucente negli occhi e i giorni e le notti in cui ho atteso il suo ritorno, le
ore in cui mi sono perso in fantasie erotiche di fulgida sottomissione
ai suoi voleri, le aurore in cui arrivava seducente e misteriosa e si
stendeva al mio ianco, s ioravo le sue linee con la punta delle dita, a
volte a cazzo duro, altre semplicemente sprofondando nei suoi
capelli, respiravo lentamente e la sua essenza e la mia si scioglievano
l’una dentro l’altra, momenti di estasi, scintille di beatitudine, attimi
di quiete, mi stava insegnando i passi di una danza sconosciuta e
avvolgente, ci avvicinavamo, ci allontanavamo, le guardavo il culo,
una circonferenza da osservare sempre con rinnovato desiderio,
scoprivo il suo corpo e i suoi segreti un centimetro dopo l’altro, l’ho
adorata fra le carezze del calore di una sauna, nascosta e protetta
nelle fondamenta di un tempio tibetano, lei, antica divinità femminile,
sacerdotessa seducente e inavvicinabile, mi sono masturbato
guardandola, ho visto dischiudersi una conchiglia di carne e una
sensibile perla risplendere al suo interno, abbiamo camminato
insieme, l’ho seguita, l’ho ascoltata, l’ho ammirata in silenzio, ho
vibrato di cocente frustrazione nel caldo dorato di lunghi pomeriggi
estivi, sono quasi affogato nelle mie debolezze, ho dato ascolto ad
echi di tentazioni dimenticate, ho aperto e ricucito ferite e cicatrici
emotive, mi sono fermato davanti a un fuoco, ho incrociato le mie dita
fra le sue, le ho chiesto dove saremmo andati, se in un qualche strano
e imprevedibile modo avremmo proseguito questo viaggio insieme,
lei mi ha sorriso e in uno scintillio di stelle remote l’ho vista svanire
come in un ricordo o in un sogno. E ho capito che un giorno, in questa
vita o in quella successiva, l’avrei di nuovo presa per mano per
invitarla ancora a danzare con me.

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Ed era maggio e ci stendevamo su coperte e pelli di bisonte e la terra
era sotto di noi e la sentivamo fremere nei nostri corpi abbracciati,
affondavo il mio volto nei suoi capelli e poi lei piano si girava e apriva
le palpebre socchiuse e osservavo nei suoi occhi un universo di
meraviglie e sfumature lucenti, il suo mondo, la sua vita, una timida
ragazza che scopriva l’amore, una donna anziana che rideva in
disparte del suo cedere ancora ai piacere dei sensi e il tempo, il tempo
che ho visto scomparire e fuggire lontano, in ore che non avrei più
potuto riconoscere se non dalla misura dei miei respiri, ormai così
espansi da assorbire gli alberi e le rocce e i canti festosi degli uccelli e il
richiamo delle nuvole e le sinuose carezze del sole e lei era di nuovo
addormentata sul mio petto, la testa che si alzava e abbassava al ritmo
dei miei polmoni, il quieto smarrirsi di tutto quello che abbiamo sempre
creduto di essere, le mie dita che scivolavano piano fra le sue linee e i
segreti che rivelavano, in un giorno perduto di primavera che ancora
mi iorisce dentro.
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