Il piú bello è il cruscotto, l'ho preso da un'automobile
spinta dal curvone e finita proprio nella stretta di un
torrentello, argentino e fasciato di muschi. Ebbene, quella vettura e il suo cruscotto son stati la scintilla per la mia passione. Vi ho detto che è il piú bello, e non solo perché è la base del mio collezionare oggetti; no, no, risulta insuperabile per fascino, per armonia compositiva, per l'equilibrio di cui investa la stanza ospitate la mia raccolta. I rifiuti posseggono linguaggi segreti, da scoprire, da far parlare; e, se li fai parlare, quanto cose ti raccontano! Beh, certo, in vero parli tu, cioè cerchi di ricostruire il percorso esistenziale delle mani che han fatto arrivare lí quel pezzo di spazzatura. Cosí, l'autovettura è stata spinta da un impiegatuccio bramoso di maggior status nel palazzo operaio in cui vive; via la sorpassata utilitaria e giú con la tedesca, ché in ufficio ne dicono tutti bene, affidabile, gran motore, certo che costa... I mobili, invece, i mobili che fanno oscena cascata sul pendio di verde umido... Sono di famigliole contadine, il marito nella fabbrichetta aperta da un ministro grato agli elettori; la moglie a rammendare per le case e a curare quel poco d'orto e a sgridare la bambina che porta il cane a farla davanti al cancello. I loro mobili sono là, condannati dalla rivista d'arredo che tanto il giornalaio ha consigliato alla moglie:" Marta, guardi, glie la metto nel sacchetto della spesa, non si scomodi". Ma adesso devo dirvi del mio vagare in cerca di rottami. In quei boschi, grevi di legna umida e di ruscelli infetti di tubi in gomma per suggere acqua, io giravo a cercar coppiette. Sí, perché in quei posti, né campagna né periferia, i ragazzotti s'infilano tra piccole giungle di campi abbandonati, e stendono coperte sulla prima radura che, ai loro occhi, si slarga a sufficienza. Credo che nei quartieri benestanti la gioventú si ami in prati odorosi di robinia, o addirittura nei loro appartamenti; in città, fra i ricchi, il sesso è libero (o tollerato, per snobismo liberaleggiante). Questi paesotti, invece, non sono abbastanza atavici ché gli uomini ormai vanno a prostitute sulla circonvallazione; ma non respirano neanche il vento della metropoli, perché gli stabilimenti a fondovalle ci mandono la loro puzza ma fanno da cortina al venire su di idee nuove, fresche, liberatorie. Da noi vige un moralismo pettegolo, l'unico alimentari del borgo detta regole filtrate dall'ascolto distratto della televisione mischiate all'immutabile invidia per chi è felice. Detto ciò, ché mi sembrava necessario dirlo, ritorno alle coppiette. Le seguivo spinto dai calori del mio essere studente, svogliato, incapace di stare i pomeriggi in città coi compagni, impacciato davanti a ogni ragazza. Vederli scendere dalla vettura di lui dava il là al desiderio. L'auto era parcheggiate sempre su uno slargo a bordo strada tra i castagni, quasi che lasciarla lí fosse garanzia di pudicizia. Lui scendeva dal lato guidatore, spavaldo, le guance già un po' rosse; lei diceva l'immancabile "che freddo!" accompagnato dallo stringersi con le braccia all'altezza del seno, forse simbolico vincolo alla fanciullezza non ancora del tutto uscita dai pensieri. Mano nella mano salgono il sentiero. Conosco bene i luoghi e su muovermi senza produrre suoni traditori del mio essere lí. Stendono il plaid, dicono qualcosa che mi giunge flebile, si amano. Ma c'è qualcosa di metallico a incornciare quell'erotismo. C'è spazzatura vilmente buttata nei boschi dall'incoscienza consumistica, da un'industria che omologa persone e natura, che vuole prendersi la realtà e ficcarla nella propria immanenza. Ed io vedo il contrasto fra due culture, due civiltà, una, a misura d'uomo, e sono le carezze dei ragazzi, l'altra, totalitaria, e sono i rifiuti. È la mia crisi, culturale, politica, di senso. Soffro, mi faccio domande, mi informo. E scopro quella che mi sembra la sintesi dei due mondi, almeno lo è per la mia irrequietezza. Ad ogni piacere indotto dall'amoreggiare altrui abbino un oggetto, un oggetto preso dal posto che ha ospitato gli abbracci, i baci. La mia ricerca di punti fermi si sviluppa cosí; unisco in via simbolica i due aspetti della vita di fatto inconciliabili, perché il mondo industriale riformula ogni carattere umano, anche l'amore, le relazioni. Vedo il mondo stretto e umiliato dalla produzione in serie, e difendo la mia pretesa di tutelare le persone dal consumismo tenendo in casa oggetti di consumo che sono stati vicini ad azioni umane libere (voglio crederlo...) dalla logica capitalista. C'è un barattolo di pelati, il coperchio ben sollevato a fare un angolo leggermente ottuso rispetto al corpo cilindrico, la dentellatura scolpita dall'apriscatole irregolare, poca ruggine, l'etichetta si stacca per l'umidità ma abbraccia la scatoletta come un maglione di taglia maggiore; l'etichetta è un po'offesa dai goccioloni umidi che la imperlano ma i colori fanno giustizia alla marca del produttore, quei colori che occhieggiano nelle cucine delle famiglie medie consumiste. La ragazza gioisce dell'orgasmo, stringe e baciabil fidanzato, si rilassa. Si gira sul plaid, vede il barattolo. Sfila il profilattico abbassando il prepuzio - cautela inutile, sono all'aperto, forse memore di un'imperizia in luogo controllabile dai genitori, in casa, dove la traccia sfuggita alla pulizia crea domande, fastidio, punizioni. La ragazza avvolge il profilattico in un fazzolettino di carta, stringe la pallina che rapidamente s'intride, la getta nel barattolo. La mia collezione si arricchisce di un pezzo speciale. Gianni, ogni volta che torna dal lavoro, si fa un bicchiere. L'osteria è infilata in una casa in pietra, lungo la strada secondaria che collega il paesino alla piú vicina fermata dell'autobus per il centro città. Gianni oltrepassa il pergolato sozzo di glicine depositato sul pavimento dalla pioggia, apre la porta, "Gianni, hai visto che vogliono trattenerci altri soldi in busta?", "dovevi giocare il due", "abbassate la TV, o la guardate o la spegnete", e allunga la moneta per il consueto bianco. Di solito, il bicchiere va giú in tre sorsi; dopo il secondo appare la domanda sui pomidoro di Carlo, se vengono bene, se la terra, o da chi prende il letame... poi, la terza abbeverata, ciao a tutti. 'Stavolta, però, "un altro, ché in officina faceva caldo". Tutti si guardano, a parte quelli delle carte, eccitati dal conteggio dei punti, calcolo distratto, peraltro dagli insulti a chi non aveva capito dov'era il re. Un'altro, Gianni, come mai? Te l'ho detto, in officina, il caldo, 'sti qui ci vogliono a pezzi per il loro guadagno. Non ci crede nessuno, ma vabbè, lasciagli bere un po' di vino. Ciao a tutti, Gianni posa la mano sulla maniglia, usa attenzione perché una vite è saltata, e mentre fa per uscire "ah, Gianni, ho visto tua figlia, tornava da scuola". Magda è seduta al suo solito tavolino, con gli arretrati di giornali e riviste a fare una montagnola che vuol dire uso personale, non sedetevi qui, è il mio tavolo; una tazza di caffè vorrebbe connotare il fatto che Magda sta tutto il giorno nel bar, però spende, eccavolo, il barista lavora, non è mica qui per le nostre belle facce. Pettegola, sa i fatti di qualsiasi persona del posto, cita le vicende di tutti con malignità imbellettata di innocenza; d'altronde, lei lo ha letto su un libro del nipote universitario che il pettegolezzo è utile alle comunità, svolge funzione di controllo su eventuali brutte strade prese da qualcuno. Gianni, sentendo quella frase, raggela: come fa a saperlo, chi glie l'ha detto, impicciona, e poi, però, si rassicura; non lo può sapere, spara a caso, oppure lo ha detto senza malizia. Eh sí, perché la causa del secondo bicchiere è proprio Chiara, la figlia liceale; niente di che, sia chiaro; studiosa, educata, fidanzatino, ma figlio di brave persone, lui bottegaio, moglie a lavorare nelle case... C'è solo, a turbare, quella frase che Chiara ha detto, cose di cui parlano a scuola. Gianni calpesta la stradina che lo porta a casa, nel giardino dei Franceschi il labrador scodinzola goffo e felice. A scuola parlano di sesso, 'sti professori, col loro essere di sinistra (sia chiaro, guai a chi mi tocca la sinistra, io sono un operaio, e chi ci pensa a noi?, li ho sempre votati) però, secondo me al liceo dovrebbero fare scienze, italiano. Il sesso! Ma sono ragazzini, ragazzine! Sí, va bene, è anche giusto parlarne, e noi, in famiglia, siamo forse restii. La chiave ruggisce nella serratura, Gianni saluta sua moglie, annusa l'effluvio che esce dalla cucina, si accinge alla doccia. "Coito interrotto". Il bagnoschiuma preso nello spaccio di periferia contrasta, col suo profumo, al fastidio di quell'espressione che imballa i pensieri di Gianni. Neppure l'asciugamani aiuta a trovare unavspiegazione, un senso a quello strano glutine sintattico. Devo sapere cosa vuol dire quel coito interrotto, ché già coito mi sembra strana come parola da sesso, noi che siamo cresciuti col turpiloquio a indicare i genitali, coi giornaletti sporchi, e da "grandi", pensandoci come mariti, si cadeva nel non detto. E proprio quel non dire ha costruito relazioni fredde, senza poesia, compitini coniugali; e l'ignoranza, ignorare ad esempio il coito interrotto. Chiedo a qualcuno. Ma a chi? Beh, non certo all'osteria. Troppo incolti, certo, e poi, figurati, parla di sesso, vuoi vedere che con la moglie non... Oppure, i piú arditi in malignità: la figlia aspetta, c'è caduta, ecco perché non sono andati il mare, dovevano tenersi i soldi per il bambino. No, chiedo in officina, gli altri operai sono città, fabbrica, sindacato, aperti, leggono... Meglio ancora, potrei chiedere al delegato sindacale. L'ufficietto di questo delegato sindacale accoglie con una frattura offensiva agli occhi: le due parti laterali della stanza grevi di scaffali e cartacce, una, scrivania, delegato e sigaro, l'altra, e sono riposanti di poco chiarore. Ma il centro dell'ufficio, appena si apre la porta, è una lama di luce dal socchiuso della finestra, e il pulviscolo nel cono lucente aggredisce, sia di violenza allo sguardo sia per l'inutilità di quell'ufficio, di quel ruolo sindacale che la polvere grida. Gianni parla al delegato, gli espone il problema, riceve la spiegazione. Bene, ora so cos'è il coito interrotto, e so cosa fare. È un modo per fare l'amore senza incidenti, e trovo giusto, anzi giustissimo, che la scuola ne parli. E si compiace della positiva influenza della sinistra anche fuori delle fabbriche - se ricordate, per Gianni gli insegnanti della figlia sono rossi, e glie l'ha detto Chiara, o l'ha capito sentendo i racconti al ritorno dal liceo. Gran cosa, questo coito interrotto: i giovani possono divertirsi e non pensare alle conseguenze. Gianni è contento, immerso nella gioiosa libertà di quella tecnica contraccettiva. E decide di applicarla. "Chiara, la mamma ed io andiamo al cinema; sí, non ci andiamo da un pezzo, ma ci è venuta voglia. Hai la casa tutta per te, studia, nel frigo trovi qualcosa da riscaldare... Sí, con la mamma ci fermiamo in pizzeria... Ah, potresti invitare il tuo ragazzo..." Chiara un po' pensa strano, ma poi decide di sfruttare la casa tutta per lei. Chiama il fidanzato, fa la doccia, inaugura il vestitino corto. Gianni accompagna sua moglie in parrocchia; riunione per gli abiti usati e poi pizza, sí, ma solo per la moglie. Lui, Gianni, ha un appuntamento col coito interrotto. Striscia in casa dalla porticina del giardino, aspetta che figlia e fidanzato sibuttino a letto, in silenzio s'avvicina al vano dell'amore. La porta è mezzo aperta - ovvio, in casa dovrebbero esserci solo Chiara e il fidanzato. Gianni ha una vista funzionale sull'amplesso. Lo segue, analizza i movimenti, valuta i gridolini, il crescere del piacere. Ecco il momento, si dice, giudicando in base al suo vigore carnale, al ricordo di quando la consorte lo esigeva per le sue tiepide voglie. Gianni entra in camera, accende la luce, è contento di sapere dialogare con la figlia di cose personali, "ecco, fermatetevi, cosí va bene". Faccio pulizie nelle case dei ricchi. È gente schifosa, lasciano mutande sporche in giro, la cucina immonda; lo fanno per umiliarti, per dimostrare una superiorità che loro declinano col denaro. Lo stipendio mi fa tacere e ingoiare, ma vi garantisco che, appena uscita dal lavoro, l'aria fresca mi ristora. Prendo il bus verso la periferia. Salgono e scendono operai, impiegati, ambulanti stranieri coi borsoni. Siamo alla fermata dove scendono i poliziotti e vanno alle loro case costruite dal governo, superiamo il puzzo d'industria e siamo al capolinea. Salgo sul bus piccolo che porta al confine comunale; donne che fanno il mio lavoro, il solito ubriaco, ragazzi che han salutato la fidanzata. Scendo, le borse non riescono a camuffare il sedano; varco i giardinetti che avrebbero dovuto dare tono al caseggiato: spelacchiate, lordate dai cani, una bottiglia d'aceto verde di muffa. Mi rassegno a entrare in casa, e mio marito è inutilmente lí con le sue frese, il trapano, illuso che costruire un mobiletto dia sale alla vita. Non usciamo, non frequentiamo gente; sí, c'era la pzzeria nel palazzo vicino, ma l'hanno chiusa, denari riciclati, è stata riaperta da una famiglia sudamericana, educati, puliti, ma "ci sono pochi tavoli, facciamocela portare a casa", e neanche una capricciosa da servita, senza sfornellare, col girocollo di bigiotteria che sennò quale occasione ho di metterlo... In parrocchia è arrivato il nuovo don. Entusiasta, nella predica ci ha stimolati a fare, a preoccuparci degli altri, a fare qualcosa per i poveri. A me, ha dato la spinta per provare a uscire di casa, a impegnarmi. Dico la verità, non mi reputo una gran cattolica: la messa, certo, e poi in chiesa non mi metto il vestito nuovo per farmi vedere. Butto un euro nella questua, ma fuori del territorio parrocchiale, devo essere onesta, penso poco alla religione, presa come sono da lavatrici, coincidenze di autobus e programmi televisivi stupidi ma che mi rilassano. Ma il nuovo prete, l'ho già detto, stimola. Cosí, provo col centro parrocchiale - e attività ce ne sono: raccolta indumenti, feste, convegni. Entro nei locali del centro, la cui porta avevo sempre visto, senza chiedermi cosa ci fosse aprendola. Mi accoglie la responsabile, che conosco; abita nel palazzo davanti al mio, sposata con figli, si dedica a questa attività perché il marito riesce a garantire un buon livello di vita. Il suo rossetto enfatico manifesta un sorriso che mi sa di formalismo astioso, ma sono carica di entusiasmo e perciò offro la mia disponibilità. "Vediamo... sí, hai detto che sai lavare stirare cucire. Però qui distribuiamo abiti e scarpe, capisci... E chi ce le porta, ce le porta pulite, sennò che le porterebbe a fare...". Si inizia, davanti a me, tra le figure femminili infilate nella stanza, un fraseggiare sottovoce. E, a proposito delle altre donne presenti, devo dire che non le avevo notate, non fino al loro vociare; sembravano messe lí a far da comparse al rossetto della mia principale interlocutrice. Si richiede l'intervento del parroco, si consultano quadernetti scarabocchiati che dovrebbero custodire la ricchezza di impegni di quel centro; forse, potrebbe... ah, no, se ne occupa già qualcuno... E per il mercatino? Tutto a posto? Una telefonata, unta di ossequi a un qualche prete del centro cittadino, mi spinge a congedarmi. Esco, passo dalla pizzeria dei sudamericani, ordino, do l'indirizzo, pago. Intermezzo - critica letteraria Poiché sono fuori dei giuochi accademici e sono incapace di inserirmi nei circuiti che contano, e in piú la mia letteratura è di scarsissima qualità, scrivo io una recensione ai miei testi. Infatti, nessuno scriverebbe qualcosa sulla mia si fa per dire opera. La scrivo come vorrei fosse scritta. LA RIVOLTA IMPERFETTA DEI SEMIEROI DI PERIFERIA I personaggi che popolano i racconti di Ale vorrebbero; vorrebbero cambiare, migliorare la propria condizione. Oppure, vorrebbero semplicemente capire, capire un vocabolo o la vita. Le periferie che ospitano questi raccontano connotano marginalità, topografica ma anche esistenziale, per via del censo, della poca profondità culturale, o di una marginalità percepita, ad esempio rispetto ai falsi stili sociali di massa. Caratteristica centrale di queste periferie, territoriali e insieme morali, è il loro essere attraversate dal contrasto fra strutture fisiche - le case, i campi, la natura - sane e a misura d'uomo, nonostante la vicinanza alla città industriale, e i segni violenti della nuova antropologia capitalistica. Questi segni hanno il loro significante nei rifiuti, nella spazzatura consumistica abbandonata a deturpare spazi verdi, a estendere l'implacabile società industriale che tutto avvinghia, coi propri oggetti antiumani. In queste terre spezzate a metà si muovono personaggi, comuni, bizzarri, normotipici, che in qualche modo sono spinti al cambiamento. Il loro desiderio di cambiare di solito ignora la radicalità, o perché vogliono cambiamenti superficiali o perché non posseggono il potere analitico del progetto esistenziale. Ciò nonostante, provano a cambiare, ma il loro sforzo trova ostacoli, ciò che dtermina il loro semieroismo. Ostacoli interiori o rappresentati da altri, ad esempio la donna amata, che frustrano il mutamento, che rendono il desiderio di novità uno spunto di riflessione, un'ambizione troppo grande per gli standard omologanti della società di massa. E cosí, gli ostacoli caratteriali si scoprono essere paragonabili ai rifiuti del consumismo. Gli uni sul piano psichico, gli altri in senso fisico e materiale, sono lí a marcare il confine tra ciò che può essere, e può essere desiderato, e ciò che è, nell'immanenza del capitalismo. I semieroi possono provare a reagire, a scegliere i modi per superare la massificazione o perlomeno per conciliarla al proprio sentire. A volte trovano compromessi che a noi possono sembrare ridicoli, ma anche questi ci dicono che la forza di essere liberi è nelle persone, che si può lottare per la libertà. Il cestino da pic nic mi piace proprio tanto. Colorato, ben foderato all'interno, con i posti per posate, piatti, bicchiere... e il cavatappi! Sono lí lí per comprarmelo, e anzi vado avanti con l'idea bucolica, vedo già i luoghi idonei, prati adorni di maggiociondoli, composite a occhieggiare sul distendersi erboso, musica di cinguettii... E qui mi fermo, perché c'è un problemino. Con chi vado a fare il pic nic? Certo, gente ne conosco, ne frequento: colleghi, amici, tifosi del calcio, e anche ragazze, sí, anche loro. Vittoria, ad esempio. Conosciuta al baretto dove si bruciano tristemente insalatone impiegatizie, le ho sorriso, mi sono avvicinato, convenevoli (la faccio veloce), appuntamento, pizza, abbracci. Mi direte; l'hai invitata al pic nic? Perché Vittoria ha toccato la mia vita già nella fase di frittate bisunte in alluminî da pranzo operaio in cantiere. E però la proposta non è stata accolta; penetrazioni e bave sul seno, sí, vinello frizzante no. Bisogna capire, a questo punto, l'antropologia del ceto medio che io frequento, nella sua dimensione articolata fra casermoni in periferia, posto di lavoro, centri commerciali dove ottusamente ci si illude di divertirsi. E, immancabilmente, non ci si diverte e si sfoga questa frustrazione con piccole rivolte di costume; ruttano i maschi, lanciano gridolini sexy le ragazze. Ma è un sexy moscio, alimentato da stili beceri, da consumismo dozzinale. Perciò, il pic nic e l'aria aperta non danno stimoli alle persone che io frequento. Non di meno, insisto. E parlo a due o tre della gradinata. Ragazzi, quando giochiamo in in trasferta si potrebbe andare a fare un pic nic. Sono quasi atterriti dalla proposta, colgo in loro lo sgomento per una possibile rottura della normalità. Il cestino l'ho comprato. Elisa è slanciata, graziosa nella montatura blu degli occhiali, il seno mi attrae dalla camicetta con sapiente sbottonatura. Fatto significativo, Elisa corre, fa passeggiate, le ride il volto se parla della casetta in campagna. Ma niente. In modo inatteso (e deludente) scopro che vive di ipernegozi, di cucine esotiche nel centro commerciale. Il centro commerciale stupra un terreno che, alberato a parco, sarebbe un gioiello per la periferia di svincoli autostradali. Su un lato dell'area resta un piccolo rettangolo verde incolto, perché si sa che gli urbanisti colano cemento in modo irrazionale, e possono cosí lasciare spazi senza senso, come appunto quel rettangolino. Ci vado, sí, proprio su quel pezzetto di poco verde chiazzato di cartacce, lattine e resti metallici di cantiere. Stendo orgoglioso la mia tovaglia a quadri, mi sistemo e mentre dal cestino esce la mia mano con la frittata, vedo Elisa che sta andando a vedersi la sua vetrina di informatica. Mi nota anche lei, allarga gli occhi; non è molto vicina, ma vedo, o mi sembra di vedere, il suo imbarazzo. Quasi fugge, vede un gruppo di giovani, li chiama, si avvicina loro e prende a sorridere, a parlare. La frittata mi campeggia in mano, l'unto disegna macchie sulla carta che uso per non sporcarmi. Elisa ha un bel corpo. L'insegnante di italiano scende dall'autobus e si incammina alla scuola. È una media di periferia, considerata a rischio dai signori seduti in ufficio a commentare i pantaloni attillati delle impiegate. Il professore si è un po' informato; certo, quella zona è stata pericolosa, ma il quartiere negli anni si è imborghesito, e la scuola dovrebbe esser calma o per lo meno pullulare di nuovi problemi, di adolescenti futili e di genitori invadenti, ma la violenza, quella no. Il professore - si chiama Stefano - è al suo primo incarico, la scuola si sta inoltrando nel fitto della didattica e quei mesi in cattedra hanno confermato l'analisi dell'insegnante: stupidità a mucchi, ma le risse non trovano casa in quell'istituto. Jeans e camicia alla Upim, stessa provenienza del maglioncino tinta unita; la barba fatta per non connotare appartenenze politiche (sí, perché Stefano è cresciuto tra i discorsi beceri di universitarî incolti che sapevano solo etichettare, senza capire le idee, senza conoscere persone e fatti di politica, di società. Cosí, davano importanza ai vestiti, ai posti frequentati, all'esteriore e la barba, si sa, è di sinistra extraparlamentare. Stefano crede in una destra moderata, ma non vota, e vuol essere libero intellettualmente nel suo mestiere.) Tema di italiano. La parte piú bella dell'insegnare lettere, stimoli i ragazzi, li sproni ad esprimersi in modo libero e creativo. O meglio, questa è l'impostazione del nostro professore, la sua volontà, il suo puntiglio nel pretendere sia bello stile sia sfrontatezza nel liberare i propri punti di vista. Solita terna di titoli, 'stavolta letteratura, scenario politico, riflessione sui rapporti umani. Soliti fogli "protocolli" scritti solo nella parte centrale delle pagine; è un espediente che, unito alle molte righe a dividere nome e cognome dal titolo, serve a far sembrare di aver compilato un tema bello lungo. Stefano usa leggere un libro mentre gli studenti scrivono; sceglie opere leggere che gli permettano di dare occhi alla classe pur senza perdere concentrazione sul testo. Brusii, qualche domanda, prof, come si chiama il presidente cinese? Valle sta facendo il tema sulla situazione internazionale, due uscite per il bagno, e la pila di compiti s'impigrisce su un angolo della cattedra. Stefano è abituato a leggere e valutare i temi lí, a scuola, e rimane a scuola nonostante abbia finito le sue lezioni. Scorre, corregge, una riga di penna qui, una là, sorride a un errore sintattico, e plana sul compito di Casetti. Giovanotto timido, sembra un solitario anche se in classe dialoga, ride. Talvolta, da suoi occhi esce un che di particolare, un rimando a luoghi diversi, a pensieri fini. Casetti ha scelto il tema sui rapporti umani, e ha scritto pagine ricche, profonde, ha mostrato sensibilità impressionanti. Stefano è colpito, e felice che uno studente, un suo studente, scriva cosí, ragioni cosí. Dedice di parlare al ragazzo, per elogiarlo, ma anche per cercare di capire qualcosa su quella sensibilità. Approfitta della ricreazione; Casetti è in corridoio, solo, con la schiena vincolato a una parete. Stefano lo chiama, lo invita in un'aula vuota, chiude la porta per meccanico conformismo gestuale. Il professore sorride, fa i complimenti, prende ad analizzare il tema. Casetti appare timido, le mani si annodano a cercar sicurezza. "Ho apprezzato il tuo ragionamento sulla vicinanza". Casetti abbassa gli occhi al pavimento, li rialza, un po' di rosso bagna le sue guance. "Professore, vorrei farglielo vedere". Le mani vanno all'abbottonatura dei jeans, corrono con la cerniera, gli slip fasciano il turgore. Si tira su la cerniera, sforza lo sguardo sulla parete. "Mi scusi", dice con un imbarazzo delicato. Il greto del torrente è famoso, in questo pezzo di periferia, per la polivalenza che sa offrire alle persone. Infatti, in un punto i ragazzi inseguono il pallone, e attenti, quando si attacca verso il corso d'acqua, a non tirarci dentro. E c'è l'area delle bocce, delle partite e di chi porta fiasco e bicchieri - di vetro, mia moglie li butta nella lavastoviglie. E poco oltre le bocce affluisce un torrentello, proprio dove un ponte stradale lo valica. Bene, al riparo di quel ponte saltano i dadi, pasano tra mani le banconote; ci giocano i tramvieri e qualche biscazziere improvvisato, e credono di essere sicuri dagli sguardi, ma nel quartiere lo sanno tutti, e non spettegolano su quello spruzzo di illegalità. Il torrente del calcio, delle bocce e dei dadi bagna il consumismo del nostro rione, case popolari grosse, affastellate una all'altra, a impedire sguardi liberi dai poggioli grevi di armadietti metallici. I casermoni donano qualche giardinetto agli inquilini dei piani terra, e sono una teoria di schifezze, vasi di fiori fatti con latte di lamiera, biciclette arrugginite, sdraio marce di umidità. Il torrente costeggia i palazzi e ne riceve la sporcizia:rifiuti, piccoli, grandi, di plastica, metallici, liberi o raccolti in sacchi. E quella spazzatura disegna i luoghi e i modi dei giochi che sul greto si fanno. Ad esempio, il campetto da calcio usa quattro bidoni per fare le porte, bidoni mezzo mangiati dalla ruggine, blu di vernice quasi che l'azzurro, colore dell'acqua pulita, possa addolcire il contenuto oscenamente industriale dei fusti. Un sacco di calche rinsecchita è stato aperto, i pezzi aggrumati sono stati sbriciolati e impastati al liquido di uno spurgo di fabbrichetta; un legno ha permesso di tracciare le linee del campo. Quelli delle bocce hanno trovato un mobiletto, l'hanno ripulito di sudiciume ed escrementi e lo usano per tenerci le custodie dei loro attrezzi ludici. Uno scaldabagno, fissato al terreno alla meglio, serve per il vino. Un foglio di formica si slarga in cima allo scaldabagno e permette di posarci il fiasco e i bicchieri. Il sedile d'un automobile dà ristoro a chi scende sul greto per fare due discorsi coi giocatori. I tramvieri dei dadi sono piú essenziali, non abbisognano di oggetti, sfruttano solo una scopa trovata in un mucchio di oggetti casalinghi, la usano per lisciare la superficie di caduta dei loro cubi numerati. Chi mi ha seguito fino a questo punto penso stia facendo una riflessione: i giochi sul greto del torrente sono attività di una società dell'industrialismo operaista, ingenuo; i nostri giovani sono spinti alla Play Station, e se fanno sport, lo fanno in modo ufficiale, in squadre giovanili, con ritiri, genitori fastidiosi, tute con sponsor... E le bocce, roba "di nicchia" (si possono definire cosí?), c'è la biblioteca, e i dadi, ma dai, con tutte le slot, i gratta e vinci, chi va a far bisca alla confluenza di due rigagnoli... Un gruppo di abitanti del quartiere ha deciso di adeguare gli spazî sul torrente; d'altronde, aria aperta, amici, libertà... E cosí, un armadio sfondato regge la console della play, alla corrente elettrica pensa l'abusivo della baracca vicina, ci fa lavoretti, dice lui, ci nasconde roba rubata, credono gli altri. La biblioteca dispone di scaffali metallici la cui ruggine non è un problema se si sta attenti. I libri e le riviste, beh, quelle vengono dai sacchi gettati da famiglie di scolari svogliati. Sono bagnati, gialli di chissà cosa, ma sono tanti, ce n'è da leggere. E a quelli dei dadi è stato regalato un gioco da tavolo, quello coi soldi, recuperato tra bottiglie e macchie odorose di benzina. L'iniziativa sembra apprezzabile, il torrente può offrire la sua ospitalità agli abitanti del quartiere. la libertà è di chi lotta per amore