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Il piú bello è il cruscotto, l'ho preso da un'automobile

spinta dal curvone e finita proprio nella stretta di un


torrentello, argentino e fasciato di muschi. Ebbene,
quella vettura e il suo cruscotto son stati la scintilla per la
mia passione. Vi ho detto che è il piú bello, e non solo
perché è la base del mio collezionare oggetti; no, no,
risulta insuperabile per fascino, per armonia compositiva,
per l'equilibrio di cui investa la stanza ospitate la mia
raccolta. I rifiuti posseggono linguaggi segreti, da
scoprire, da far parlare; e, se li fai parlare, quanto cose ti
raccontano!
Beh, certo, in vero parli tu, cioè cerchi di ricostruire il
percorso esistenziale delle mani che han fatto arrivare lí
quel pezzo di spazzatura. Cosí, l'autovettura è stata
spinta da un impiegatuccio bramoso di maggior status
nel palazzo operaio in cui vive; via la sorpassata utilitaria
e giú con la tedesca, ché in ufficio ne dicono tutti bene,
affidabile, gran motore, certo che costa...
I mobili, invece, i mobili che fanno oscena cascata sul
pendio di verde umido... Sono di famigliole contadine, il
marito nella fabbrichetta aperta da un ministro grato agli
elettori; la moglie a rammendare per le case e a curare
quel poco d'orto e a sgridare la bambina che porta il cane
a farla davanti al cancello. I loro mobili sono là,
condannati dalla rivista d'arredo che tanto il giornalaio
ha consigliato alla moglie:" Marta, guardi, glie la metto
nel sacchetto della spesa, non si scomodi".
Ma adesso devo dirvi del mio vagare in cerca di rottami.
In quei boschi, grevi di legna umida e di ruscelli infetti di
tubi in gomma per suggere acqua, io giravo a cercar
coppiette. Sí, perché in quei posti, né campagna né
periferia, i ragazzotti s'infilano tra piccole giungle di
campi abbandonati, e stendono coperte sulla prima
radura che, ai loro occhi, si slarga a sufficienza.
Credo che nei quartieri benestanti la gioventú si ami in
prati odorosi di robinia, o addirittura nei loro
appartamenti; in città, fra i ricchi, il sesso è libero (o
tollerato, per snobismo liberaleggiante). Questi paesotti,
invece, non sono abbastanza atavici ché gli uomini ormai
vanno a prostitute sulla circonvallazione; ma non
respirano neanche il vento della metropoli, perché gli
stabilimenti a fondovalle ci mandono la loro puzza ma
fanno da cortina al venire su di idee nuove, fresche,
liberatorie. Da noi vige un moralismo pettegolo, l'unico
alimentari del borgo detta regole filtrate dall'ascolto
distratto della televisione mischiate all'immutabile invidia
per chi è felice.
Detto ciò, ché mi sembrava necessario dirlo, ritorno alle
coppiette. Le seguivo spinto dai calori del mio essere
studente, svogliato, incapace di stare i pomeriggi in città
coi compagni, impacciato davanti a ogni ragazza.
Vederli scendere dalla vettura di lui dava il là al
desiderio. L'auto era parcheggiate sempre su uno slargo
a bordo strada tra i castagni, quasi che lasciarla lí fosse
garanzia di pudicizia. Lui scendeva dal lato guidatore,
spavaldo, le guance già un po' rosse; lei diceva
l'immancabile "che freddo!" accompagnato dallo
stringersi con le braccia all'altezza del seno, forse
simbolico vincolo alla fanciullezza non ancora del tutto
uscita dai pensieri. Mano nella mano salgono il sentiero.
Conosco bene i luoghi e su muovermi senza produrre
suoni traditori del mio essere lí. Stendono il plaid, dicono
qualcosa che mi giunge flebile, si amano. Ma c'è qualcosa
di metallico a incornciare quell'erotismo. C'è spazzatura
vilmente buttata nei boschi dall'incoscienza
consumistica, da un'industria che omologa persone e
natura, che vuole prendersi la realtà e ficcarla nella
propria immanenza. Ed io vedo il contrasto fra due
culture, due civiltà, una, a misura d'uomo, e sono le
carezze dei ragazzi, l'altra, totalitaria, e sono i rifiuti.
È la mia crisi, culturale, politica, di senso. Soffro, mi
faccio domande, mi informo. E scopro quella che mi
sembra la sintesi dei due mondi, almeno lo è per la mia
irrequietezza. Ad ogni piacere indotto dall'amoreggiare
altrui abbino un oggetto, un oggetto preso dal posto che
ha ospitato gli abbracci, i baci. La mia ricerca di punti
fermi si sviluppa cosí; unisco in via simbolica i due aspetti
della vita di fatto inconciliabili, perché il mondo
industriale riformula ogni carattere umano, anche
l'amore, le relazioni. Vedo il mondo stretto e umiliato
dalla produzione in serie, e difendo la mia pretesa di
tutelare le persone dal consumismo tenendo in casa
oggetti di consumo che sono stati vicini ad azioni umane
libere (voglio crederlo...) dalla logica capitalista.
C'è un barattolo di pelati, il coperchio ben sollevato a
fare un angolo leggermente ottuso rispetto al corpo
cilindrico, la dentellatura scolpita dall'apriscatole
irregolare, poca ruggine, l'etichetta si stacca per l'umidità
ma abbraccia la scatoletta come un maglione di taglia
maggiore; l'etichetta è un po'offesa dai goccioloni umidi
che la imperlano ma i colori fanno giustizia alla marca del
produttore, quei colori che occhieggiano nelle cucine
delle famiglie medie consumiste.
La ragazza gioisce dell'orgasmo, stringe e baciabil
fidanzato, si rilassa. Si gira sul plaid, vede il barattolo.
Sfila il profilattico abbassando il prepuzio - cautela
inutile, sono all'aperto, forse memore di un'imperizia in
luogo controllabile dai genitori, in casa, dove la traccia
sfuggita alla pulizia crea domande, fastidio, punizioni.
La ragazza avvolge il profilattico in un fazzolettino di
carta, stringe la pallina che rapidamente s'intride, la getta
nel barattolo.
La mia collezione si arricchisce di un pezzo speciale.
Gianni, ogni volta che torna dal lavoro, si fa un
bicchiere. L'osteria è infilata in una casa in pietra, lungo
la strada secondaria che collega il paesino alla piú vicina
fermata dell'autobus per il centro città. Gianni oltrepassa
il pergolato sozzo di glicine depositato sul pavimento
dalla pioggia, apre la porta, "Gianni, hai visto che
vogliono trattenerci altri soldi in busta?", "dovevi giocare
il due", "abbassate la TV, o la guardate o la spegnete", e
allunga la moneta per il consueto bianco. Di solito, il
bicchiere va giú in tre sorsi; dopo il secondo appare la
domanda sui pomidoro di Carlo, se vengono bene, se la
terra, o da chi prende il letame... poi, la terza abbeverata,
ciao a tutti. 'Stavolta, però, "un altro, ché in officina
faceva caldo". Tutti si guardano, a parte quelli delle carte,
eccitati dal conteggio dei punti, calcolo distratto, peraltro
dagli insulti a chi non aveva capito dov'era il re. Un'altro,
Gianni, come mai? Te l'ho detto, in officina, il caldo, 'sti
qui ci vogliono a pezzi per il loro guadagno. Non ci crede
nessuno, ma vabbè, lasciagli bere un po' di vino.
Ciao a tutti, Gianni posa la mano sulla maniglia, usa
attenzione perché una vite è saltata, e mentre fa per
uscire "ah, Gianni, ho visto tua figlia, tornava da scuola".
Magda è seduta al suo solito tavolino, con gli arretrati
di giornali e riviste a fare una montagnola che vuol dire
uso personale, non sedetevi qui, è il mio tavolo; una
tazza di caffè vorrebbe connotare il fatto che Magda sta
tutto il giorno nel bar, però spende, eccavolo, il barista
lavora, non è mica qui per le nostre belle facce.
Pettegola, sa i fatti di qualsiasi persona del posto, cita le
vicende di tutti con malignità imbellettata di innocenza;
d'altronde, lei lo ha letto su un libro del nipote
universitario che il pettegolezzo è utile alle comunità,
svolge funzione di controllo su eventuali brutte strade
prese da qualcuno.
Gianni, sentendo quella frase, raggela: come fa a
saperlo, chi glie l'ha detto, impicciona, e poi, però, si
rassicura; non lo può sapere, spara a caso, oppure lo ha
detto senza malizia.
Eh sí, perché la causa del secondo bicchiere è proprio
Chiara, la figlia liceale; niente di che, sia chiaro; studiosa,
educata, fidanzatino, ma figlio di brave persone, lui
bottegaio, moglie a lavorare nelle case... C'è solo, a
turbare, quella frase che Chiara ha detto, cose di cui
parlano a scuola.
Gianni calpesta la stradina che lo porta a casa, nel
giardino dei Franceschi il labrador scodinzola goffo e
felice. A scuola parlano di sesso, 'sti professori, col loro
essere di sinistra (sia chiaro, guai a chi mi tocca la
sinistra, io sono un operaio, e chi ci pensa a noi?, li ho
sempre votati) però, secondo me al liceo dovrebbero
fare scienze, italiano. Il sesso! Ma sono ragazzini,
ragazzine! Sí, va bene, è anche giusto parlarne, e noi, in
famiglia, siamo forse restii.
La chiave ruggisce nella serratura, Gianni saluta sua
moglie, annusa l'effluvio che esce dalla cucina, si accinge
alla doccia. "Coito interrotto". Il bagnoschiuma preso
nello spaccio di periferia contrasta, col suo profumo, al
fastidio di quell'espressione che imballa i pensieri di
Gianni. Neppure l'asciugamani aiuta a trovare
unavspiegazione, un senso a quello strano glutine
sintattico. Devo sapere cosa vuol dire quel coito
interrotto, ché già coito mi sembra strana come parola
da sesso, noi che siamo cresciuti col turpiloquio a
indicare i genitali, coi giornaletti sporchi, e da "grandi",
pensandoci come mariti, si cadeva nel non detto. E
proprio quel non dire ha costruito relazioni fredde, senza
poesia, compitini coniugali; e l'ignoranza, ignorare ad
esempio il coito interrotto.
Chiedo a qualcuno. Ma a chi? Beh, non certo all'osteria.
Troppo incolti, certo, e poi, figurati, parla di sesso, vuoi
vedere che con la moglie non... Oppure, i piú arditi in
malignità: la figlia aspetta, c'è caduta, ecco perché non
sono andati il mare, dovevano tenersi i soldi per il
bambino. No, chiedo in officina, gli altri operai sono città,
fabbrica, sindacato, aperti, leggono... Meglio ancora,
potrei chiedere al delegato sindacale. L'ufficietto di
questo delegato sindacale accoglie con una frattura
offensiva agli occhi: le due parti laterali della stanza grevi
di scaffali e cartacce, una, scrivania, delegato e sigaro,
l'altra, e sono riposanti di poco chiarore. Ma il centro
dell'ufficio, appena si apre la porta, è una lama di luce dal
socchiuso della finestra, e il pulviscolo nel cono lucente
aggredisce, sia di violenza allo sguardo sia per l'inutilità di
quell'ufficio, di quel ruolo sindacale che la polvere grida.
Gianni parla al delegato, gli espone il problema, riceve
la spiegazione.
Bene, ora so cos'è il coito interrotto, e so cosa fare. È
un modo per fare l'amore senza incidenti, e trovo giusto,
anzi giustissimo, che la scuola ne parli. E si compiace
della positiva influenza della sinistra anche fuori delle
fabbriche - se ricordate, per Gianni gli insegnanti della
figlia sono rossi, e glie l'ha detto Chiara, o l'ha capito
sentendo i racconti al ritorno dal liceo.
Gran cosa, questo coito interrotto: i giovani possono
divertirsi e non pensare alle conseguenze. Gianni è
contento, immerso nella gioiosa libertà di quella tecnica
contraccettiva. E decide di applicarla. "Chiara, la mamma
ed io andiamo al cinema; sí, non ci andiamo da un pezzo,
ma ci è venuta voglia. Hai la casa tutta per te, studia, nel
frigo trovi qualcosa da riscaldare... Sí, con la mamma ci
fermiamo in pizzeria... Ah, potresti invitare il tuo
ragazzo..."
Chiara un po' pensa strano, ma poi decide di sfruttare
la casa tutta per lei. Chiama il fidanzato, fa la doccia,
inaugura il vestitino corto.
Gianni accompagna sua moglie in parrocchia; riunione
per gli abiti usati e poi pizza, sí, ma solo per la moglie. Lui,
Gianni, ha un appuntamento col coito interrotto. Striscia
in casa dalla porticina del giardino, aspetta che figlia e
fidanzato sibuttino a letto, in silenzio s'avvicina al vano
dell'amore. La porta è mezzo aperta - ovvio, in casa
dovrebbero esserci solo Chiara e il fidanzato. Gianni ha
una vista funzionale sull'amplesso. Lo segue, analizza i
movimenti, valuta i gridolini, il crescere del piacere. Ecco
il momento, si dice, giudicando in base al suo vigore
carnale, al ricordo di quando la consorte lo esigeva per le
sue tiepide voglie. Gianni entra in camera, accende la
luce, è contento di sapere dialogare con la figlia di cose
personali, "ecco, fermatetevi, cosí va bene".
Faccio pulizie nelle case dei ricchi. È gente schifosa,
lasciano mutande sporche in giro, la cucina immonda; lo
fanno per umiliarti, per dimostrare una superiorità che
loro declinano col denaro. Lo stipendio mi fa tacere e
ingoiare, ma vi garantisco che, appena uscita dal lavoro,
l'aria fresca mi ristora.
Prendo il bus verso la periferia. Salgono e scendono
operai, impiegati, ambulanti stranieri coi borsoni. Siamo
alla fermata dove scendono i poliziotti e vanno alle loro
case costruite dal governo, superiamo il puzzo d'industria
e siamo al capolinea. Salgo sul bus piccolo che porta al
confine comunale; donne che fanno il mio lavoro, il solito
ubriaco, ragazzi che han salutato la fidanzata.
Scendo, le borse non riescono a camuffare il sedano;
varco i giardinetti che avrebbero dovuto dare tono al
caseggiato: spelacchiate, lordate dai cani, una bottiglia
d'aceto verde di muffa. Mi rassegno a entrare in casa, e
mio marito è inutilmente lí con le sue frese, il trapano,
illuso che costruire un mobiletto dia sale alla vita. Non
usciamo, non frequentiamo gente; sí, c'era la pzzeria nel
palazzo vicino, ma l'hanno chiusa, denari riciclati, è stata
riaperta da una famiglia sudamericana, educati, puliti, ma
"ci sono pochi tavoli, facciamocela portare a casa", e
neanche una capricciosa da servita, senza sfornellare, col
girocollo di bigiotteria che sennò quale occasione ho di
metterlo...
In parrocchia è arrivato il nuovo don. Entusiasta, nella
predica ci ha stimolati a fare, a preoccuparci degli altri, a
fare qualcosa per i poveri. A me, ha dato la spinta per
provare a uscire di casa, a impegnarmi. Dico la verità,
non mi reputo una gran cattolica: la messa, certo, e poi in
chiesa non mi metto il vestito nuovo per farmi vedere.
Butto un euro nella questua, ma fuori del territorio
parrocchiale, devo essere onesta, penso poco alla
religione, presa come sono da lavatrici, coincidenze di
autobus e programmi televisivi stupidi ma che mi
rilassano.
Ma il nuovo prete, l'ho già detto, stimola. Cosí, provo
col centro parrocchiale - e attività ce ne sono: raccolta
indumenti, feste, convegni. Entro nei locali del centro, la
cui porta avevo sempre visto, senza chiedermi cosa ci
fosse aprendola. Mi accoglie la responsabile, che
conosco; abita nel palazzo davanti al mio, sposata con
figli, si dedica a questa attività perché il marito riesce a
garantire un buon livello di vita. Il suo rossetto enfatico
manifesta un sorriso che mi sa di formalismo astioso, ma
sono carica di entusiasmo e perciò offro la mia
disponibilità. "Vediamo... sí, hai detto che sai lavare
stirare cucire. Però qui distribuiamo abiti e scarpe,
capisci... E chi ce le porta, ce le porta pulite, sennò che le
porterebbe a fare...". Si inizia, davanti a me, tra le figure
femminili infilate nella stanza, un fraseggiare sottovoce.
E, a proposito delle altre donne presenti, devo dire che
non le avevo notate, non fino al loro vociare;
sembravano messe lí a far da comparse al rossetto della
mia principale interlocutrice.
Si richiede l'intervento del parroco, si consultano
quadernetti scarabocchiati che dovrebbero custodire la
ricchezza di impegni di quel centro; forse, potrebbe... ah,
no, se ne occupa già qualcuno... E per il mercatino? Tutto
a posto? Una telefonata, unta di ossequi a un qualche
prete del centro cittadino, mi spinge a congedarmi. Esco,
passo dalla pizzeria dei sudamericani, ordino, do
l'indirizzo, pago.
Intermezzo - critica letteraria
Poiché sono fuori dei giuochi accademici e sono
incapace di inserirmi nei circuiti che contano, e in piú la
mia letteratura è di scarsissima qualità, scrivo io una
recensione ai miei testi. Infatti, nessuno scriverebbe
qualcosa sulla mia si fa per dire opera. La scrivo come
vorrei fosse scritta.
LA RIVOLTA IMPERFETTA DEI SEMIEROI DI PERIFERIA
I personaggi che popolano i racconti di Ale vorrebbero;
vorrebbero cambiare, migliorare la propria condizione.
Oppure, vorrebbero semplicemente capire, capire un
vocabolo o la vita. Le periferie che ospitano questi
raccontano connotano marginalità, topografica ma
anche esistenziale, per via del censo, della poca
profondità culturale, o di una marginalità percepita, ad
esempio rispetto ai falsi stili sociali di massa.
Caratteristica centrale di queste periferie, territoriali e
insieme morali, è il loro essere attraversate dal contrasto
fra strutture fisiche - le case, i campi, la natura - sane e a
misura d'uomo, nonostante la vicinanza alla città
industriale, e i segni violenti della nuova antropologia
capitalistica. Questi segni hanno il loro significante nei
rifiuti, nella spazzatura consumistica abbandonata a
deturpare spazi verdi, a estendere l'implacabile società
industriale che tutto avvinghia, coi propri oggetti
antiumani. In queste terre spezzate a metà si muovono
personaggi, comuni, bizzarri, normotipici, che in qualche
modo sono spinti al cambiamento. Il loro desiderio di
cambiare di solito ignora la radicalità, o perché vogliono
cambiamenti superficiali o perché non posseggono il
potere analitico del progetto esistenziale. Ciò
nonostante, provano a cambiare, ma il loro sforzo trova
ostacoli, ciò che dtermina il loro semieroismo. Ostacoli
interiori o rappresentati da altri, ad esempio la donna
amata, che frustrano il mutamento, che rendono il
desiderio di novità uno spunto di riflessione,
un'ambizione troppo grande per gli standard omologanti
della società di massa.
E cosí, gli ostacoli caratteriali si scoprono essere
paragonabili ai rifiuti del consumismo. Gli uni sul piano
psichico, gli altri in senso fisico e materiale, sono lí a
marcare il confine tra ciò che può essere, e può essere
desiderato, e ciò che è, nell'immanenza del capitalismo. I
semieroi possono provare a reagire, a scegliere i modi
per superare la massificazione o perlomeno per
conciliarla al proprio sentire. A volte trovano
compromessi che a noi possono sembrare ridicoli, ma
anche questi ci dicono che la forza di essere liberi è nelle
persone, che si può lottare per la libertà.
Il cestino da pic nic mi piace proprio tanto. Colorato,
ben foderato all'interno, con i posti per posate, piatti,
bicchiere... e il cavatappi! Sono lí lí per comprarmelo, e
anzi vado avanti con l'idea bucolica, vedo già i luoghi
idonei, prati adorni di maggiociondoli, composite a
occhieggiare sul distendersi erboso, musica di cinguettii...
E qui mi fermo, perché c'è un problemino. Con chi vado a
fare il pic nic? Certo, gente ne conosco, ne frequento:
colleghi, amici, tifosi del calcio, e anche ragazze, sí, anche
loro. Vittoria, ad esempio. Conosciuta al baretto dove si
bruciano tristemente insalatone impiegatizie, le ho
sorriso, mi sono avvicinato, convenevoli (la faccio
veloce), appuntamento, pizza, abbracci. Mi direte; l'hai
invitata al pic nic? Perché Vittoria ha toccato la mia vita
già nella fase di frittate bisunte in alluminî da pranzo
operaio in cantiere. E però la proposta non è stata
accolta; penetrazioni e bave sul seno, sí, vinello frizzante
no. Bisogna capire, a questo punto, l'antropologia del
ceto medio che io frequento, nella sua dimensione
articolata fra casermoni in periferia, posto di lavoro,
centri commerciali dove ottusamente ci si illude di
divertirsi. E, immancabilmente, non ci si diverte e si sfoga
questa frustrazione con piccole rivolte di costume;
ruttano i maschi, lanciano gridolini sexy le ragazze. Ma è
un sexy moscio, alimentato da stili beceri, da
consumismo dozzinale.
Perciò, il pic nic e l'aria aperta non danno stimoli alle
persone che io frequento. Non di meno, insisto. E parlo a
due o tre della gradinata. Ragazzi, quando giochiamo in
in trasferta si potrebbe andare a fare un pic nic. Sono
quasi atterriti dalla proposta, colgo in loro lo sgomento
per una possibile rottura della normalità.
Il cestino l'ho comprato. Elisa è slanciata, graziosa nella
montatura blu degli occhiali, il seno mi attrae dalla
camicetta con sapiente sbottonatura. Fatto significativo,
Elisa corre, fa passeggiate, le ride il volto se parla della
casetta in campagna. Ma niente. In modo inatteso (e
deludente) scopro che vive di ipernegozi, di cucine
esotiche nel centro commerciale.
Il centro commerciale stupra un terreno che, alberato a
parco, sarebbe un gioiello per la periferia di svincoli
autostradali. Su un lato dell'area resta un piccolo
rettangolo verde incolto, perché si sa che gli urbanisti
colano cemento in modo irrazionale, e possono cosí
lasciare spazi senza senso, come appunto quel
rettangolino. Ci vado, sí, proprio su quel pezzetto di poco
verde chiazzato di cartacce, lattine e resti metallici di
cantiere. Stendo orgoglioso la mia tovaglia a quadri, mi
sistemo e mentre dal cestino esce la mia mano con la
frittata, vedo Elisa che sta andando a vedersi la sua
vetrina di informatica. Mi nota anche lei, allarga gli occhi;
non è molto vicina, ma vedo, o mi sembra di vedere, il
suo imbarazzo. Quasi fugge, vede un gruppo di giovani, li
chiama, si avvicina loro e prende a sorridere, a parlare. La
frittata mi campeggia in mano, l'unto disegna macchie
sulla carta che uso per non sporcarmi. Elisa ha un bel
corpo.
L'insegnante di italiano scende dall'autobus e si
incammina alla scuola. È una media di periferia,
considerata a rischio dai signori seduti in ufficio a
commentare i pantaloni attillati delle impiegate. Il
professore si è un po' informato; certo, quella zona è
stata pericolosa, ma il quartiere negli anni si è
imborghesito, e la scuola dovrebbe esser calma o per lo
meno pullulare di nuovi problemi, di adolescenti futili e
di genitori invadenti, ma la violenza, quella no.
Il professore - si chiama Stefano - è al suo primo
incarico, la scuola si sta inoltrando nel fitto della didattica
e quei mesi in cattedra hanno confermato l'analisi
dell'insegnante: stupidità a mucchi, ma le risse non
trovano casa in quell'istituto.
Jeans e camicia alla Upim, stessa provenienza del
maglioncino tinta unita; la barba fatta per non connotare
appartenenze politiche (sí, perché Stefano è cresciuto tra
i discorsi beceri di universitarî incolti che sapevano solo
etichettare, senza capire le idee, senza conoscere
persone e fatti di politica, di società. Cosí, davano
importanza ai vestiti, ai posti frequentati, all'esteriore e
la barba, si sa, è di sinistra extraparlamentare. Stefano
crede in una destra moderata, ma non vota, e vuol
essere libero intellettualmente nel suo mestiere.)
Tema di italiano. La parte piú bella dell'insegnare
lettere, stimoli i ragazzi, li sproni ad esprimersi in modo
libero e creativo. O meglio, questa è l'impostazione del
nostro professore, la sua volontà, il suo puntiglio nel
pretendere sia bello stile sia sfrontatezza nel liberare i
propri punti di vista.
Solita terna di titoli, 'stavolta letteratura, scenario
politico, riflessione sui rapporti umani.
Soliti fogli "protocolli" scritti solo nella parte centrale
delle pagine; è un espediente che, unito alle molte righe
a dividere nome e cognome dal titolo, serve a far
sembrare di aver compilato un tema bello lungo.
Stefano usa leggere un libro mentre gli studenti
scrivono; sceglie opere leggere che gli permettano di
dare occhi alla classe pur senza perdere concentrazione
sul testo. Brusii, qualche domanda, prof, come si chiama
il presidente cinese? Valle sta facendo il tema sulla
situazione internazionale, due uscite per il bagno, e la
pila di compiti s'impigrisce su un angolo della cattedra.
Stefano è abituato a leggere e valutare i temi lí, a
scuola, e rimane a scuola nonostante abbia finito le sue
lezioni. Scorre, corregge, una riga di penna qui, una là,
sorride a un errore sintattico, e plana sul compito di
Casetti. Giovanotto timido, sembra un solitario anche se
in classe dialoga, ride. Talvolta, da suoi occhi esce un che
di particolare, un rimando a luoghi diversi, a pensieri fini.
Casetti ha scelto il tema sui rapporti umani, e ha scritto
pagine ricche, profonde, ha mostrato sensibilità
impressionanti. Stefano è colpito, e felice che uno
studente, un suo studente, scriva cosí, ragioni cosí.
Dedice di parlare al ragazzo, per elogiarlo, ma anche per
cercare di capire qualcosa su quella sensibilità. Approfitta
della ricreazione; Casetti è in corridoio, solo, con la
schiena vincolato a una parete. Stefano lo chiama, lo
invita in un'aula vuota, chiude la porta per meccanico
conformismo gestuale. Il professore sorride, fa i
complimenti, prende ad analizzare il tema. Casetti
appare timido, le mani si annodano a cercar sicurezza.
"Ho apprezzato il tuo ragionamento sulla vicinanza".
Casetti abbassa gli occhi al pavimento, li rialza, un po' di
rosso bagna le sue guance. "Professore, vorrei farglielo
vedere". Le mani vanno all'abbottonatura dei jeans,
corrono con la cerniera, gli slip fasciano il turgore. Si tira
su la cerniera, sforza lo sguardo sulla parete. "Mi scusi",
dice con un imbarazzo delicato.
Il greto del torrente è famoso, in questo pezzo di
periferia, per la polivalenza che sa offrire alle persone.
Infatti, in un punto i ragazzi inseguono il pallone, e
attenti, quando si attacca verso il corso d'acqua, a non
tirarci dentro. E c'è l'area delle bocce, delle partite e di
chi porta fiasco e bicchieri - di vetro, mia moglie li butta
nella lavastoviglie. E poco oltre le bocce affluisce un
torrentello, proprio dove un ponte stradale lo valica.
Bene, al riparo di quel ponte saltano i dadi, pasano tra
mani le banconote; ci giocano i tramvieri e qualche
biscazziere improvvisato, e credono di essere sicuri dagli
sguardi, ma nel quartiere lo sanno tutti, e non
spettegolano su quello spruzzo di illegalità.
Il torrente del calcio, delle bocce e dei dadi bagna il
consumismo del nostro rione, case popolari grosse,
affastellate una all'altra, a impedire sguardi liberi dai
poggioli grevi di armadietti metallici. I casermoni donano
qualche giardinetto agli inquilini dei piani terra, e sono
una teoria di schifezze, vasi di fiori fatti con latte di
lamiera, biciclette arrugginite, sdraio marce di umidità. Il
torrente costeggia i palazzi e ne riceve la sporcizia:rifiuti,
piccoli, grandi, di plastica, metallici, liberi o raccolti in
sacchi. E quella spazzatura disegna i luoghi e i modi dei
giochi che sul greto si fanno. Ad esempio, il campetto da
calcio usa quattro bidoni per fare le porte, bidoni mezzo
mangiati dalla ruggine, blu di vernice quasi che l'azzurro,
colore dell'acqua pulita, possa addolcire il contenuto
oscenamente industriale dei fusti. Un sacco di calche
rinsecchita è stato aperto, i pezzi aggrumati sono stati
sbriciolati e impastati al liquido di uno spurgo di
fabbrichetta; un legno ha permesso di tracciare le linee
del campo.
Quelli delle bocce hanno trovato un mobiletto, l'hanno
ripulito di sudiciume ed escrementi e lo usano per tenerci
le custodie dei loro attrezzi ludici. Uno scaldabagno,
fissato al terreno alla meglio, serve per il vino. Un foglio
di formica si slarga in cima allo scaldabagno e permette
di posarci il fiasco e i bicchieri. Il sedile d'un automobile
dà ristoro a chi scende sul greto per fare due discorsi coi
giocatori.
I tramvieri dei dadi sono piú essenziali, non
abbisognano di oggetti, sfruttano solo una scopa trovata
in un mucchio di oggetti casalinghi, la usano per lisciare
la superficie di caduta dei loro cubi numerati.
Chi mi ha seguito fino a questo punto penso stia
facendo una riflessione: i giochi sul greto del torrente
sono attività di una società dell'industrialismo operaista,
ingenuo; i nostri giovani sono spinti alla Play Station, e se
fanno sport, lo fanno in modo ufficiale, in squadre
giovanili, con ritiri, genitori fastidiosi, tute con sponsor...
E le bocce, roba "di nicchia" (si possono definire cosí?),
c'è la biblioteca, e i dadi, ma dai, con tutte le slot, i gratta
e vinci, chi va a far bisca alla confluenza di due rigagnoli...
Un gruppo di abitanti del quartiere ha deciso di
adeguare gli spazî sul torrente; d'altronde, aria aperta,
amici, libertà... E cosí, un armadio sfondato regge la
console della play, alla corrente elettrica pensa l'abusivo
della baracca vicina, ci fa lavoretti, dice lui, ci nasconde
roba rubata, credono gli altri. La biblioteca dispone di
scaffali metallici la cui ruggine non è un problema se si
sta attenti. I libri e le riviste, beh, quelle vengono dai
sacchi gettati da famiglie di scolari svogliati. Sono
bagnati, gialli di chissà cosa, ma sono tanti, ce n'è da
leggere.
E a quelli dei dadi è stato regalato un gioco da tavolo,
quello coi soldi, recuperato tra bottiglie e macchie
odorose di benzina. L'iniziativa sembra apprezzabile, il
torrente può offrire la sua ospitalità agli abitanti del
quartiere.
la libertà è di chi lotta per amore

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