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31/08/2006 - Giuseppe Sorgi - L’uomo naturale e il cittadino tra Aristotele e

Hobbes. A proposito di un nuovo “linguaggio politico”*

1. Il movimento di rinascita della filosofia pratica, in atto da qualche


decennio, ha trovato punti fertili di ricerca e di elaborazione particolarmente,
ma non esclusivamente, fra pensatori tedeschi, il cui dibattito ha avuto una
significativa espressione nei due volumi Rehabilitierung der praktischen
Philosophie (1972-1974), pubblicati a cura di Manfred Riedel. Tale
“riabilitazione” sembra avere un punto di riferimento obbligato nel ritorno –
come metodi o come concetti – ad Aristotele, tanto che spesso si collega col
discorso sul neoaristotelismo. Nella sostanza si manifesta come impegno di
ricercare per l’agire pratico supposti teorici che costituiscano basi più solide di
quanto non ne avessero offerto gli orientamenti storicistici e positivistici; e
tende a rinsaldare il legame tra i principi e l’agire sociale, sì da considerare la
filosofia soprattutto come “una disposizione di vita, non una mera teoria, per
cui viene designata come saggezza”. Tale espressione è di Dilthey, e si può
constatare come il termine “saggezza” sia diventato quasi emblematico per
l’odierna rinascita della filosofia pratica, che spesso parte proprio dalla
phrònesis aristotelica: è questo uno dei punti dell’analisi di Bodei, il quale trova
nel libro VI dell’Etica Nicomachea “l’autentico luogo d’origine” dell’attuale
riscoperta del pensiero tradizionale, che interessa Kant e risale man mano fino
allo Stagirita.

2. Sul ruolo di Aristotele in tale “riabilitazione” interviene Riedel in modo


‘ambiguo’. Promuove, infatti, un ritorno ad Aristotele pur restando critico sia
verso il neo-aristotelismo sia verso lo stesso filosofo greco, di cui ritiene di dover
denunciare lacune, sconfitte, aporie. Si inserisce inoltre nel dibattito sui rapporti
tra metafisica e politica con una proposta: per giungere al chiarimento dei
concetti teoretici fondamentali della politica occorre una via che escluda la
metafisica e la sostituisca con la “metapolitica”. Questa sarebbe come una
“latente presenza” della metafisica e consiste nel “ripercorrere e chiarire
‘riflessivamente’ i presupposti” del linguaggio e della concettualizzazione politica
tradizionale per giungere ad una “analitica dei concetti politici”. È con questa
analitica che Riedel intende dar luogo alla “rifondazione” della filosofia politica.
Tale risultato però, egli afferma, “è possibile soltanto ricorrendo continuamente
alla terminologia aristotelica, che determina in maniera decisiva la problematica
dell’età moderna”; ma non si nasconde che ciò avviene in mezzo a notevoli
problemi linguistici, nascenti dall’uso di termini e concetti antichi in epoche e
situazioni storiche ben diverse.

Dopo aver impegnato la prima metà del suo libro nell’esame di fondamentali
concetti politici di Aristotele, lo scrittore tedesco dedica ampio spazio al
rapporto che con il filosofo greco ha Hobbes, esprimendo l’intendimento di
“portare a definizione” la disputa che in merito è in corso da anni. A tal fine
elabora una propria impostazione sulla scia di Kuhn e di Spragens, dei quali
modifica con attenuazione progressiva la linea interpretativa. Trova infatti che il
primo parla di “cambiamento del paradigma” (riferendosi al tema generale del
progresso della scienza) e il secondo, con esplicito riferimento all’atteggiamento
di Hobbes verso Aristotele, vi scorge una “trasformazione del paradigma”,
Riedel, invece, ritiene che si debba parlare di “evoluzione del paradigma”. Egli
rifiuta come “singolarmente ambigua” la tesi di Leo Strauss, in cui vede
affermata una “completa rottura” tra il modello aristotelico e quello hobbesiano.
Riedel non nega la “svolta” apportata da Hobbes nei confronti del pensiero
politico tradizionale e in specie di Aristotele. Sostiene però che per comprendere
la “sostanza spirituale” del rapporto tra i due bisogna “in primo luogo evitare
l’adozione di paradigmi che si alternano o l’uno dei quali venga ‘tradotto’
nell’altro; in secondo luogo bisogna indicare l’aspetto ermeneutico delle
formazioni dei paradigmi”, aspetto che vede trascurato da Kuhn e da Spragens.
Dicendo “evoluzione” del paradigma egli vuol sottolineare la “continuità” che
sopravvive alle trasformazioni più evidenti, in un combinarsi di “elementi
rivoluzionari ed elementi tradizionali”. 

3. Nell’elaborare questa impostazione Riedel viene a trovarsi in una


situazione analoga a quella che – con altro spirito e con risultati ben diversi –
costituisce il punto di partenza per altri due studiosi che hanno analizzato il
medesimo problema: Bobbio e Viola. Il primo affronta la questione riducendo a
schemi molto chiari, ma, forse, anche un po’ troppo rigidi e schematici, i due
modelli – l’hobbesiano e l’aristotelico – e considerandoli radicalmente diversi,
“opposti”, “alternativi”. Egli condensa in essi le “grandi alternative”, che a suo
avviso caratterizzano la storia del pensiero politico fino ad Hegel e che così
enuncia: a) concezione razionalistica o storico-sociologica dell’origine dello
Stato; b) lo Stato come antitesi o come complemento dell’uomo naturale; c)
concezione individualistica e sociale-organica dello Stato; d) teoria
contrattualistica o naturalistica del fondamento del potere statuale; e) teoria
della legittimazione attraverso il consenso o attraverso la forza delle cose. Viola
invece dedica un’analisi più complessa e problematica ad una questione che
complessa è, sia per propria natura (si inscrive infatti nel tema più generale del
confronto fra il pensiero antico e quello moderno), sia per la particolare
situazione di Hobbes, il quale pensa in una specie di equilibrio instabile tra
epoca antico-medievale, non del tutto superata, e modernità nella fase di
elaborazione iniziale. Viola parte anch’egli da Kuhn e Spragens, del quale però
accetta l’interpretazione. Trova buone ragioni per sostenere che nel modello
hobbesiano vengono conservati alcuni “presupposti taciti di pura marca
aristotelica”, ma che nel contempo ne sono stravolte le radici concettuali. Esa-
minando la diversità delle concezioni etiche e politiche dei due e le diverse
metafisiche che ne sono alla base, afferma che il filosofo inglese “non ha
rigettato” la metafisica di Aristotele, ma l’ha “manipolata, … ridotta ad ideologia
… asservita alla grande opera di trasformazione della natura umana da parte
della macchina statale”. E rileva come Hobbes, usando gli stessi termini del
pensatore greco (natura, ragione, movimento), ma con significati
abbondantemente diversi, giunge ad un “totale capovolgimento dell’universo
aristotelico”.

Il fatto che tra filosofi antichi e moderni possa stabilirsi una certa continuità
terminologica, mentre cambiano i significati e i riferimenti storici di concetti
solo formalmente identici, non sfugge certo a Riedel. È un problema ch’egli
affronta nella Introduzione alla sua raccolta di saggi, in un punto che diremmo
preliminare ed in coerenza, del resto, anche all’assunto, espresso nel
sottotitolo, di svolgere “studi sul linguaggio politico”. Egli vede la complessità
del discorso ermeneutico, e ripete per sé la “esigenza” indicata da Gadamer:
“portare a compimento quella trasposizione che i concetti del passato
subiscono quando noi cerchiamo di pensare in base ad essi”. Ad analizzare
però i confronti che Riedel compie sviluppando la sua linea “evolu tiva” tra i
paradigmi di Hobbes e di Aristotele, si direbbe che quella esigenza da lui
accettata in merito al rapporto antico-moderno in genere non sempre venga
rispettata ed applicata ai casi particolari dei due filosofi presi in esame.

4. Lo scrittore tedesco scorge in entrambi i filosofi un comune impegno di


riflessione incentrata sul problema del cominciamento della vita politica: le
“prime comunità” (prótai koinoníai) in Aristotele, la “unione originaria, da cui
prende avvio la costruzione dello Stato” in Hobbes.

Ma, mentre per Aristotele l’indagine si incentra sull’istituzione storicamente


data della polis e sui rapporti sociali che vi si articolano, per Hobbes la
preoccupazione principale diventa il problema della legittimazione del potere.
Hobbes non ritiene che il legame tra gli uomini sia originario e naturale: il
potere non si costituisce nell’ambito relazionale di legame naturale, ma è dal
potere che scaturiscono le relazioni fra gli uomini.

Da un lato, dunque, abbiamo la teoria naturale della polis, elaborata da


Aristotele, e dall’altro la metafisica del “corpo politico” o dello Stato, fondata da
Hobbes. Per Aristotele il problema del cominciamento non coincide con un
presunto stato di natura ipotetico o storico, tipico del pensiero politico
dell’epoca moderna; “il concetto di polis”, infatti, “viene definito non a partire
da ciò da cui essa sorge, ma da ciò in vista di cui essa è sorta”. La polis rientra
nelle cose che esistono “per natura” e l’uomo – che non è mai considerato nella
condizione pre-sociale di individuo solitario – è destinato per natura a farvi
parte.

Secondo Riedel Aristotele non parla della polis come di un “prodotto


naturale” né dell’uomo come di un “ente naturale”: “parla piuttosto del loro
‘concetto’”. La polis, una volta sorta, dipende dall’agire politico dei cittadini.
Conseguentemente la politica viene intesa come continuazione dell’etica in
quanto non c’è differenza tra il fine della polis e la direzione dell’agire dei singoli
individui che vi fanno parte. Tuttavia, questo legame tra etica e politica è
destinato a spezzarsi dal momento che Aristotele, una volta affermato che la
polis per esistere ha bisogno di un potere coercitivo (da Riedel enfatizzato), non
adduce alcuna giustificazione alla sua legittimazione: questa è l’interpretazione
del critico tedesco, secondo il quale la deduzione aristotelica della politica dai
principi dell’etica fallisce.

Ora, anche per Hobbes il problema politico è un problema propriamente


pratico-morale che obbliga la volontà umana: però il principio geometrico, che
ispira la filosofia di Hobbes, lo conduce a costruire lo Stato in analogia ad un
corpo fabbricato dall’uomo e sulla base di una tecnica politica che rende
superfluo l’aristotelico “agire virtuoso” dei cittadini. Dando un’interpretazione
abbastanza singolare del pensiero hobbesiano, Riedel considera la “unione
originaria” nata col patto sociale come il risultato di un agire che rinuncia ad
essere agire politico; perciò egli ritiene di poter leggere in Hobbes questa
“paradossalità” antiaristotelica: che “l’unico atto politico noto a questa ‘scienza
nuova’ è nel contempo quello in cui si estingue l’autonomia razionale dell’agire
politico”. Da questa rinuncia dipendono quasi tutti i concetti giuridico-politici
(trasmissione, patto, rappresentanza, persona) di cui fa uso la philosophia civilis
hobbesiana.

Lo scrittore tedesco inserisce questa rinuncia in una serie di considerazioni


sul nuovo significato che in Hobbes hanno la “privazione” e la “negazione”, per
notare che lo stato di natura con l’uomo isolato è la privazione dell’essere etico
e che dalla privazione dello stato di natura nasce lo status civilis. Così nel
registrare alcune posizioni antiaristoteliche e antiscolastiche di Hobbes, rileva
come proprio nella negazione della politica (con il patto sociale) stia il vero
“cominciamento” dello Stato e della politica. Allo stesso modo – e qui sta il
secondo paradosso individuato da Riedel – l’autore di Leviathan “cerca di
desumere il diritto dalla negazione del diritto”. È in questa duplice negazione
che si stabilisce il nesso tra metafisica e “filosofia prima” e filosofia politica.

L’altra connessione tra la teoria del corpo politico di Hobbes e la filosofia


prima si rileva nella costruzione artificiale del Leviatano, laddove l’uomo è
materia e artefice allo stesso tempo del corpo politico.

5. Nella ricerca della linea di continuità fra i due filosofi lo studioso tedesco
sottolinea l’importanza degli studi oxfordiani di Hobbes, durante i quali si formò
alla scuola aristotelica; e afferma che “nella sua opera è sempre presente non
solo l’aristotelismo medievale”, ma anche la sua variante data dalla “recezione
umanistica” del filosofo greco. Questa punta non sull’intero corpus del suo
pensiero, ma sulla sua filosofia politica; ed al centro di tale recezione, che
Hobbes ha fatta propria, Riedel scorge un’idea: “l’unità dell’esser-cittadino e
dell’esser-uomo”.

Per Aristotele “la natura dell’uomo, la sua umanità non è una proprietà
naturale, ma riguarda l’essere cittadino”; la ragione, la giustizia e la libertà, “in
quanto proprietà specificamente umane presuppongono l’esistenza … della
politiké koinonía”. Per Riedel questo sarebbe lo stesso presupposto da cui parte
Hobbes: “la ‘umanità’ dell’uomo si determina mediante il suo possibile essere
cittadino”. L’uomo di Aristotele ha, sì, un desiderio naturale di convivere con
altri; “ma la polis stessa, come forma di vita umana, non è naturale”, bensì
frutto dell’arte, delle leggi e delle istituzioni di un fondatore. Anche Hobbes –
afferma Riedel – ammette il medesimo “impulso naturale” dell’uomo a riunirsi in
società, la quale non è un mero conglomerato, bensì associazione alla cui base
è posta la fiducia e un patto.

Sempre sulla stessa linea l’autore tedesco ricorda come l’assioma dell’ uomo-
dio e quello dell’uomo-lupo non siano un’invenzione di Hobbes, ma rientrino tra
quei concetti in cui “continuano a sgorgare fonti antiche”. Nel secondo assioma
bisogna vedere la derivazione, “tramandata da Aristotele e risalente a Platone”,
dell’uomo appetitivo che “cerca la lotta equiparandosi così alle bestie”.
Analogamente il primo assioma richiama in Hobbes l’uomo razionale e giusto di
Aristotele che “si avvicina a Dio mediante il suo essere cittadino”: questo
sempre secondo l’interpretazione di Riedel, che così trascura del tutto di
considerare come, pur nella diversità dei loro quadri logici e nella differente
accezione di un medesimo termine “virtù”, non solo in Aristotele, ma in qualche
misura anche in Hobbes, la elevazione dell’uomo ad altezze divine – l’“uomo
divino” per il primo, “somiglianza di Dio” per il secondo – sia affidata non al
mero esser-cittadino, ma alla pratica della virtù.

Per il commentatore tedesco la presenza dei sopraddetti concetti in ambedue


le filosofie politiche – da lui così lette – dimostra la “affinità dei paradigmi”, la
quale è riscontrabile anche nella definizione dei concetti di “Stato” ( polis per
l’uno, e civitas per l’altro) e di società civile (politiké koinonía, societas civilis).

Nella definizione dello Stato Hobbes concepisce, però, in maniera sostanziale


prima ancora che funzionale, l’idea della associazione civile. Nel De cive la
societas viene definita come persona civilis la cui volontà, in virtù del patto
originario stipulato dagli individui, viene ritenuta la volontà di tutti. Con tale uso
del concetto di persona Hobbes – dice Riedel – “ripristina” la formula classica
della “identità politica”, passando attraverso il concetto di potere ( imperium)
che costringe all’unità la moltitudine indistinta ed indeterminata degli uomini.
Questa unità viene rappresentata in una medesima persona – il sovrano – a cui
ogni individuo nella unio originaria ha “trasmesso” ogni suo proprio potere e
diritto, tranne il diritto alla autopreservazione. L’uomo naturale, diventato uomo
civilis, può però attendere al soddisfacimento dei suoi bisogni di uomo privato
solo per gli spazi lasciatigli dalla legge dello Stato, dal quale ottiene sicurezza e
pace nei confronti degli altri sudditi, ma non nei confronti del sovrano: di fronte
a questo l’uomo vede messa a rischio la sua stessa identità, se è vero che la
sua posizione è “identica” a quella dello schiavo, come ammette lo stesso Rie-
del, e che la pace interna allo Stato è come la “pace dei cimiteri”.

Ed allora l’esser-uomo, ch’era così ricco di poteri e diritti nello stato di natura
– pur in una condizione autodistruttiva –, finisce col realizzarsi non in un esser-
cittadino, bensì in un esser-suddito dello Stato hobbesiano, laddove la polis di
Aristotele è una città di uomini liberi, e gli schiavi – che pur ci sono – non hanno
cittadinanza.

In tal modo, però, l’“evoluzione del paradigma”, quel processo che secondo
Riedel porta dall’associazione civile classica alla moderna associazione statale, si
compie con esito non molto felice: si tratta oggettivamente della involuzione
dell’uomo da cittadino a suddito. 

6. Questi sono alcuni dei temi che dimostrano come la pretesa “evoluzione
del paradigma” da Aristotele ad Hobbes conduca ad esiti ben diversi da quello
che era il punto di partenza della filosofia pratica – etica e politica –; ed allora
pensiamo sia lecito chiedersi fino a che punto goda di validità il modello
“evolutivo” di analisi preferito da Riedel. Constatandone le applicazioni, nasce
qualche volta un duplice sospetto: che egli tenda a vedere più la tradizione che
la rivoluzione; che, nel ricercare termini e concetti testimonianti una continuità
di Hobbes con la tradizione aristotelica, si limiti a considerare più i termini che
non i loro significati. Lo stesso Riedel, dopo aver ammesso con altri che nel
pensiero di Hobbes “continuano ad essere presenti concetti e problematiche
aristoteliche”, non può ignorare l’“evidente distacco” tra i due, tanto da porre il
problema di “come il filosofo Hobbes possa pensare con concetti aristotelici e
nel contempo essere decisamente anti-aristotelico”.

Ci sembra legittimo avanzare il dubbio che i “concetti” con i quali pensa


Hobbes siano proprio del tutto “aristotelici”, mentre appare spiegazione più
logica che aristoteliche rimangano piuttosto certe strutture e alcune
problematiche. Anche per il caso che stiamo analizzando appare calzante
un’osservazione di Bodei: che in Hobbes la posizione aristotelica viene “radical-
mente rovesciata”, tanto da produrre una di “quelle grandi trasformazioni
concettuali che proprio perché così macroscopiche ed evidenti si finiscono per
non vedere”. Egli, giungendo alle stesse conclusioni di Viola, sostiene che il
filosofo di Malmesbury ha “rivoluzionato e capovolto la costruzione aristotelica”:
nella misura in cui ciò si verifica, se vogliamo seguire il modello d’analisi di
Riedel, dovremmo dire che Hobbes attua non la “trasformazione” e tanto meno
la “evoluzione”, ma il “rovesciamento del paradigma” aristotelico. Diciamo
questo senza pretendere di semplificare ciò che è complesso né di assolutizzare
a nostra volta un modello d’analisi in merito al rapporto tra i due pensatori;
bisogna, infatti, anche tener conto degli sviluppi e delle ambiguità che si
riscontrano all’interno del pensiero hobbesiano e concorrono a rendere ancora
più problematica una esatta analisi del rapporto stesso.

Senza voler negare gli influssi del pensiero di Aristotele su Hobbes, possiamo
qui rapidamente osservare alcuni punti in cui il desiderio di trovare una
“evoluzione” che non sia “sostituzione” (Kuhn) e neanche “trasformazione”
(Spragens), porta a nostro avviso Riedel a qualche forzatura nell’accostamento
delle due filosofie politiche.

7. È evidente la forzatura operata da Riedel quando dichiara che la polemica


di Hobbes contro la formula dell’uomo come zóon politikón, è diretta non contro
Aristotele, ma “solo contro autori tardo-antichi” quali Plutarco, Cicerone e
Seneca. A suo avviso infatti – lo abbiamo già ricordato – la tesi di Aristotele
sarebbe questa: gli uomini “sono capaci di vivere nella polis non già per natura,
ma per costrizione”; la polis “non è naturale, bensì opera dell’arte, delle leggi e
delle istituzioni di un fondatore”. La sua tesi è che “la Politica aristotelica poggia
sulla premessa che la polis, per esistere, presuppone un potere coercitivo che
unisce tra loro gli individui”: e da tale premessa deriva l’aporia tra l’auto-
obbligazione morale-razionale al ben vivere (dei cittadini virtuosi) e la
costrizione al ben vivere esercitata sui non-virtuosi “normativamente”, cioé dalla
legge.

D’altro lato, sopravvalutando una solitaria affermazione di Hobbes sulla


naturale socialità dell’uomo (De cive, I, 2 n.), trova in ambedue gli stessi
elementi di socialità e costrizione. A questo punto gli è facile scrivere che “in
sostanza Hobbes afferma la stessa cosa di Aristotele” sulla società politica come
frutto di imposizione.

Questo ci sembra un esempio clamoroso di reductio ad Hobbes del pensiero


aristotelico, esigito dal modello di “evoluzione” – ma in questo caso c’è
addirittura la identificazione – del paradigma, con rischio di grave distorcimento
di uno dei concetti fondamentali – anzi il concetto fondamentale – della
antropologia su cui si basa la filosofia politica del pensatore greco.

Certo anche Aristotele ammette la forza coercitiva delle leggi; ma è sulla


diversa natura della legge nei due autori che prima bisogna ragionare per
chiarire il diverso significato e la diversa durezza della “costrizione” nell’uno e
nell’altro.

Per Hobbes la legge è l’espressione insindacabile della volontà costrittiva del


sovrano – che la garantisce con la sua spada – e costituisce l’essenza stessa
dello Stato; per Aristotele invece è lo strumento razionale dell’educazione
pubblica. La legge ha, sì, una forza coercitiva, che si esercita sui giovani e sugli
adulti, sulla massa, sugli incapaci di autocontrollo razionale; ma svolge la
funzione fondamentale di supplire a tale incapacità, di aiutare l’uomo a crescere
in virtù, ad acquisire buone abitudini. Essa “non è odiosa se ordina ciò che è
moralmente conveniente” e non è affatto sentita come costrizione da chi è edu-
cato “al ragionamento, al bello”. Riuscirà pesante solo per coloro che hanno
“indole troppo cattiva”, per “l’uomo malvagio”, nei cui riguardi è prevista una
punizione adeguata; anche la pena però, provocando dolore, agisce nello spirito
della “cura”, della rieducazione. Comunque, se per questi il governo civile
assume l’aspetto limitante della costrizione, sta nella razionalità e bontà della
legge la sua forza vincolante per tutti.

Da un’analisi del genere non sembra affatto che si possa dedurre la


equiparazione della “costrizione” della polis a quella di Leviathan. Né ci si può
attendere che Aristotele escluda dalla vita politica del cittadino – come neppure
dalla vita morale dell’uomo – l’esistenza di regole prescrittive, a meno che non si
pretenda che egli idealizzi una repubblica anarchica, senza leggi e senza sanzioni.
Alla “costrizione” hobbesiana può essere accostata solo la gestione del potere
come viene eseguita nelle “costituzioni errate, degenerate” (tirannide, oligarchia,
“democrazia” nell’accezione aristotelica), le quali sono tali in quanto la parte che
governa impone ingiustamente i propri scopi particolari all’intera comunità”: ma
tale imposizione costrittiva è solo una costatazione nell’analisi di tipo sociologico
fatta da Aristotele, non certo una componente della sua filosofia politica.

8. Il discorso si dovrebbe estendere a ciò che i due pensano sulla natura


dell’uomo; ma limitiamoci ad alcune considerazioni intorno a quel concerto della
“unità dell’esser-uomo e dell’esser-cittadino”, che Riedel valuta come il “nucleo
razionale” che Hobbes coglie e “conserva” in seno alla recezione umanistica
aristotelica, per il resto da lui storicizzata.

La prima considerazione che ci sembra di dover fare è questa: le concezioni


sia di uomo che di cittadino sono in Aristotele molto più complesse che in
Hobbes, e costituiscono altri due elementi tipici – oltre a quelli indicati da Viola
sul piano della metafisica – di uso degli stessi termini con significato diverso,
elementi tra i più incisivi di quella “differenza tra gli antichi e i moderni”, di cui
Riedel tratta, ma di cui non pare tenga sempre conto nell’analisi che stiamo
esaminando.

Lo stagirita pensa ad un uomo molteplice, che “per natura” è uomo e donna,


libero e schiavo: queste diversità incidono profondamente sulla partecipazione
di ciascuno di tali esseri umani alla polis. Interrogandosi infatti a lungo su “cos’è
il cittadino”, su chi possa essere “veramente cittadino” e chi possa esserlo “in
pieno senso”, “in senso assoluto”, trova che ci sono “più specie” di cittadini, che
non tutti lo sono “nello stesso grado”. Si è cittadini in diversa misura (o non lo
si è affatto) secondo il sesso, l’età, la salute mentale, il tipo di lavoro, la
possibilità obiettiva e la capacità soggettiva di praticare la virtù; e giungono alla
“pienezza” di cittadinanza solo quelli che sono economicamente indipendenti e
partecipano, sia pure a turno, alle magistrature.

A tale duplice classificazione di uomini e di cittadini – di cui la seconda sarà


in parte riecheggiata da Kant – non corrisponde un’altra, analoga o diversa, in
Hobbes: egli è assolutamente semplice e monocorde; e ci offre uno stereotipo
di uomo naturale (nell’assoluta uguaglianza, ricco di passione, con doveri morali
in foro interno, ma in pratica esplosivo esternamente nei suoi illimitati diritti a
tutto) ed uno stereotipo di cittadino che è suddito e basta.

Verificata la diversità dei due paradigmi nei loro punti di partenza, una loro
affinità nel sostenere “l’unità dell’esser-uomo e dell’esser-cittadino” ove ci fosse,
seguirebbe vie ben diverse nell’uno e nell’altro. Ma è da verificare se tale
affinità esista realmente, sia pure in linea “evolutiva”. Su questo punto ci
sembra di poter rilevare che lo stesso Riedel, mentre nel saggio in cui si
impegna a dimostrare la “evoluzione del paradigma” è pienamente convinto di
tale esistenza, in altri saggi enunci delle valutazioni dalle quali l’affinità stessa
viene del tutto compromessa: ne risulta infatti da un lato un Aristotele orientato
– anche troppo – verso la radicale unità dell’esser-uomo e dell’esser-cittadino,
dall’altro un Hobbes in cui uomo e cittadino si pongono in netta
contrapposizione.

Estremizzando le posizioni dei due, quali esse appaiono nella interpretazione


dell’analista tedesco, si direbbe che per Aristotele l’uomo sia tale solo in quanto
è cittadino e che per Hobbes invece l’uomo sia tale solo fuori del suo esser-
cittadino. Entrando infatti nella civitas leviatanica l’uomo si aliena – si “nega”,
potremmo dire, applicando il già ricordato concetto riedeliano – innanzitutto
come uomo, rinunciando ad ogni diritto e libertà fino ad equipararsi allo
schiavo; e si nega anche come “cittadino” e come politico almeno a stare al
duplice suindicato “paradosso” della politica e del diritto che nascono dalla
negazione della politica e dei diritti dei privati. Dando per valida tale
interpretazione si direbbe che, dopo la nascita dello Stato, l’unico uomo rimasto
veramente tale e l’unico pieno cittadino e pieno politico sia il sovrano. Secondo
Aristotele invece, scrive il commentatore, “soltanto” la polis pone l’uomo “nella
forma di vita che gli è propria”; e perciò è proprio il suo esser-cittadino che gli
“rende possibile il suo esser uomo”.

Non si vuol negare che tale duplice interpretazione abbia i suoi punti obiettivi
di riscontro nel pensiero dei due autori. Ci preme però far notare come sia lo
stesso Riedel a condurre un discorso dal quale i due paradigmi risultano andare
in direzioni opposte e non appaiono affatto collegati da alcun contenuto
“evolutivo”. Ci preme anche dire che la sua lettura dei due autori ha bisogno di
qualche altra puntualizzazione e completamento.

Per quanto riguarda Hobbes non si può essere del tutto certi che l’unico atto
politico dell’uomo sia, come dice Riedel, proprio quello con il quale egli estingue
l’autonomia del suo agire politico: secondo la teoria della “autorizzazione”,
introdotta in Leviathan, il suddito continua a far politica, in quanto è
considerato “autore” di ogni atto del sovrano. Inoltre, il filosofo inglese esige
che l’uomo, dopo esser divenuto suddito per un patto coscientemente stipulato,
rinnovi la propria sudditanza di fronte ad ogni atto compiuto dal sovrano, sotto
la minaccia della pena e nel timore di ricadere nella condizione miseranda dello
stato naturale. L’uomo hobbesiano quindi compie una serie continua di atti
politici, sia pure sotto l’imperio del sovrano. Ed ha anche i suoi spazi, come
uomo e come cittadino, sia nei “silenzi della legge” sia nel pur rischioso “diritto
di resistenza”.

In merito al pensiero aristotelico viene da chiedersi se debba considerarsi


esaustiva quella interpretazione che tende ad assolutizzare il principio per cui
l’uomo può attuarsi come uomo soltanto nella “prassi sociale”, nella polis, la
quale è “l’esser-uomo dell’uomo” – scrive Ritter – e della quale l’uomo “ha
bisogno per realizzare la propria natura razionale”. Certo rimane esatta questa
lettura di fondo, per cui l’uomo aristotelico sembrerebbe non solo realizzarsi,
ma quasi perdersi nel cittadino (il quale tuttavia è ben altro che il suddito
hobbesiano). Non va però trascurata la portata oltre che etica, anche politica
del concetto aristotelico di “autosufficienza” (autarkia): questa consiste in uno
stato esistenziale di perfezione e di felicità per cui il sapiente, pur trovandosi in
un contesto sociale (familiari, amici, concittadini), vive su di un piano di pura
attività contemplativa. Il concetto di “autosufficienza”, trattato nell’Etica
Nicomachea, viene utilizzato in Politica, prima per caratterizzare la perfezione
della polis rispetto alle comunità minori, quali famiglia e villaggio, e poi per
indicare quel requisito naturale che, essendo mancante negli individui, li stimola
a costituirsi in comunità; se invece è presente in qualcuno, gli rende non
necessaria l’appartenenza alla polis. Tra coloro che sono nella polis, il filosofo è
capace di godere i puri piaceri dello spirito, che non “richiedono l’intervento di
altri uomini”: i sapienti possono perfezionarsi come rari “uomini divini” e, pur
senza diventare dei solitari o degli apolidi, giungono a trascendere i normali
condizionamenti dell’esser cittadino.

Come si può constatare dalle varie osservazioni esposte, il paradigma, se in


qualche caso veramente evolve da Aristotele ad Hobbes, in altri casi arretra o è
del tutto diverso, tanto che non di rado l’antico filosofo appare più
contemporaneo del moderno. Così avviene soprattutto in quel radicale punto di
metodologia che è l’unità della scienza; è un punto in cui Hobbes dichiara
apertamente il suo intento di innovatore rivoluzionario, tentando di ridurre
anche il sapere etico e politico ad esattezza geometrica: ma in ciò è largamente
dimostrato il suo fallimento. È un punto in cui invece Aristotele sta tornando di
grande attualità, proprio per la sua impostazione di fondo in merito alla me-
todologia ed ai contenuti del sapere pratico. Rende in modo egregio il
“paradigma” aristotelico Remo Bodei quando scrive che il sapere indicato dallo
stagirita nel “regno della prassi” è un “sapere di tipo congetturale,
argomentativo, probabile e non di tipo rigorosamente dimostrativo”.

Ritornano in luce le due forme di razionalità che Aristotele espone all’inizio di


quel fondamentale VI capitolo dell’ Etica Nicomachea; una razionalità “a statuto
rigido, epistemica, che si sviluppa in forma deduttiva da principi ed ha carattere
necessario”, ed una razionalità pratica, che sorge dall’esperienza, riguarda
l’opinabile ed è governata dalla phrònesis (saggezza o prudenza) dovendo
applicare “regole elastiche in modo elastico ai differenti casi particolari”.

C’è in questo atteggiamento un cedimento verso la razionalità “debole”? Berti


mette in guardia da posizioni “riduzionistiche” (“che sono oggi in voga”), le
quali tendono a semplificare il problema fermandosi ad una alternativa che vede
da un lato il solo calcolo logico e dall’altro il “pensiero debole”. Ad evitare
questo rischio siamo aiutati anche dalla riscoperta della teorizzazione
aristotelica sulle diverse forme della razionalità: il pensiero antico supera la
modernità e accenna passi che si muovono con noi anche oltre la nostra epoca
(post-moderna).

In fondo, con altri termini, è lo stesso discorso che talvolta sviluppa anche
Riedel. Possiamo discutere sulla minore o maggiore, parziale o totale validità del
suo modello di “evoluzione del paradigma” specialmente nel confronto con
Hobbes; ma non possiamo mettere in dubbio lo stimolo di rilettura che proviene
dalle sue analisi ermeneutiche della filosofia pratica di Aristotele. Possiamo
convenire in pieno con lui quando nota che proprio l’impegno innovativo di
Hobbes “si attua ancora completamente nel quadro tracciato dall’impostazione
aristotelica”.

Gli stessi critici della tradizione aristotelica continuano a parlare il suo stesso
linguaggio: e fanno ciò – nota Riedel con alquanta ironia – “proprio quando
pensano di esprimere i propri punti di vista”.

* M. RIEDEL, Metaphysik und Metapolitik. Studien zu Aristoteles und zur politischen Sprache der neuzeitlichen Philosophie,
Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1975, tr. it. di F. Longato, col titolo Metafisica e metapolitica. Studi su Aristotele e sul linguaggio
politico della filosofia moderna, Il Mulino, Bologna, 1990. Nel volume sono raccolti saggi scritti in tempi diversi (dal 1966 al
1979), e dietro diverse sollecitazioni, come avverte lo stesso autore (p. 35). Egli ha come sfondo costante delle sue ricerche il
pensiero ed il linguaggio di Aristotele, alla cui analisi dedica buona parte dell’opera. Nell’esaminare poi i riferimenti al filosofo
greco a cominciare dall’Umanesimo, tratta di autori moderni, fra i quali Hobbes, Leibniz, Wolf, i pre-kantiani fino allo stesso Kant.

Franco Volpi nota fin dagli anni ’50 segni evidenti di ritorno ad alcune posizioni di Aristotele in vari campi, indicando per l’ambito
politico i nomi di Leo Strauss, Eric Voegelin e, specialmente, Hannah Arendt (Che cosa significa neoaristotelismo? La
riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, in Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura
di E. Berti, Marietti, Genova, 1988, pp. 121-122 e 130-131). Volpi aveva già trattato il problema nel saggio La rinascita della
filosofia pratica in Germania, in Filosofia pratica e scienza politica, a cura di G. Pacchiani, Francisci, Abano, 1980, pp. 11-97. Di
autori coinvolti nella rinascita dell’aristotelismo anche in aree culturali diverse da quella tedesca, fa cenno E. BERTI, Le ragioni di
Aristotele, Laterza, Bari, 1989, pp. XIV-XV.

F. VOLPI, Per una filosofia politica postmetafisica: la proposta ermeneutica di Manfred Riedel, saggio introduttivo all’ed.it. di M.
RIEDEL, Metafisica e metapolitica, cit., p. 11.

L’espressione è ripresa da G. CALABRÒ, Dilthey e l’antropologia filosofica, in Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione
storica, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 173; vedi ancora G. CALABRÒ, che considera Dilthey
un anticipatore dell’attuale riabilitazione, Dilthey e la “riabilitazione” della filosofia pratica, in Dilthey e il pensiero del Novecento,
a cura di F. Bianco, F. Angeli, Milano, 1985, p. 85.

R. BODEI, La decisione saggia. Filosofia pratica e teoria delle scelte ragionevoli, in Etica e politica, a cura di W. Tega, Pratiche,
Parma, 1984, p. 26.

Ibidem, p. 23; quando Bodei indica questa remota fonte, si può ritenere ch’egli pensi in particolare ai concetti espressi dal filosofo
greco in merito al significato e alla funzione della phrònesis in rapporto alla politica in Etica Nicomachea, VI, 5-8 e 12-13 (1140-
1142a, 1143b-1145a).

F. VOLPI, Per una filosofia politica postmetafisica, cit., p. 13.

M. RIEDEL dedica il cap. III di Metafisica e metapolitica, pp. 113-132, all’esame di alcune aporie della filosofia pratica di
Aristotele: si tratta in parte di una conferenza del 1969 riportata anche in Rehabilitierung der praktischen Philosophie, cit., vol.
I, pp. 79-97.

Nella Prefazione all’ed. it. di Metafisica e metapolitica, M. RIEDEL parla esplicitamente della sua proposta come di una via “che
solo può aprire l’accesso ad una politica senza metafisica politica” (p. 34).

Così afferma F. VOLPI, op. cit., p. 28.

M. RIEDEL, op. cit., pp. 33-34.

Ibidem, pp. 52-54; l’autore si richiama più volte alla impostazione ermeneutica di H.G. Gadamer, v. in part. p. 54.

Ibidem, p. 205.

È l’argomento dell’intero cap. VII: Cambiamento di paradigma nella filosofia politica? Hobbes e Aristotele, ibidem, pp. 203-221
(conferenza del 1979 pubblicata nel 1981).

Cfr. Th. S. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago; 1961, tr. it., Einaudi, Torino,
1969 e TH.A. SPRAGENS Jr., The Politics of Motion. The World of Thomas Hobbes, Croom Helm Ltd., London, 1973.
Ibidem, p. 204; Riedel si riferisce ai passi in cui L. Strauss mette a confronto testi della Retorica con testi di tre opere
hobbesiane: Elements, Leviathan e De homine, per dimostrare l’influenza del filosofo greco sul pensatore inglese. Come è
noto però, Strauss parla di tale influsso riferendolo al solo periodo “umanistico” giovanile di Hobbes (The Political
Philosophy of Hobbes. Its Basis and its Genesis, 1936, in What is Political Philosophy? And Other Studies, Free Press,
Glencoe, 1955, tr. it., Che cos’è la filosofia politica? Scritti su Hobbes e altri saggi, a cura di F. TABONI, Argalia, Urbino,
1977, pp. 173-177), anche se poi rileva che da molti passi delle sue opere sistematiche si ricava come egli “studiava di
nuovo ogni volta la Retorica di Aristotele” (ibid., p. 184): e ciò nonostante che in queste stesse opere esprimesse giudizi
molti severi, spesso con termini anche dispregiativi, sul pensiero dello stagirita.

M. RIEDEL, op. cit., pp. 207-208.

N. BOBBIO, Il modello giusnaturalistico, in N. BOBBIO-M. BOVERO, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il
saggiatore, Milano, 1979, pp. 34-48 e 91; si potrebbe discutere sul fatto che Bobbio riduca alla “forza delle cose” il fondamento dato
dalla legittimità delle teorie non contrattualistiche in genere e da quella di Aristotele in particolare.

F. VIOLA, Behemoth o Leviathan? Diritto e obbligo nel pensiero di Hobbes, Giuffrè, Milano, 1979, p. 15; in questo libro l’autore
espone il suo confronto fra Aristotele e Hobbes alle pp. 12-31; 38-46 e 57-58.

Ibidem, p. 57.

Ibidem, p. 17.

Il passo di H.G. GADAMER – citato da Riedel a conclusione della sua Introduzione, ibidem, p. 54 – è preso da Wahreit und
Methode, Mohr (Siebeck), Tübingen, 19652, tr. it. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 19882, p. 456.

M. RIEDEL, op. cit., pp. 161 e 165. Sul problema del “cominciamento” e delle sue implicazioni metodologiche Riedel si sofferma a
lungo con particolare riferimento ad Hobbes (ibidem, pp. 159-175) e lo considera parte fondante della “metafisica dello Stato”
hobbesiana.

Ibidem, pp. 260-265; il problema della legittimazione del potere è uno dei punti ricorrenti nel volume di Riedel: vi dedica un
apposito saggio a conclusione (pp. 257-280), ne fa un punto debole, una delle aporie della filosofia politica aristotelica (pp. 123-130;
v. anche pp. 77-79), ma già la sua Introduzione si apre richiamando su di esso l’attenzione (p. 39). Su Nature et limites de la
légitimité rationnelle in Hobbes si veda il recente volume di F. LESSAY, Souveraineté et légitimité chez Hobbes, Presses
Universitaires de France, Paris, 1988, in particolare, pp. 137-243.

M. RIEDEL, op. cit., p. 53; mentre qualcuno ritiene di notare l’assenza di una metapolitica nella teoria hobbesiana della giustizia
(così P. PASQUINO, Teoria della giustizia e dottrina dello Stato in Thomas Hobbes, in AA.VV., Politica e filosofia, F. Angeli,
Milano, 1984, pp. 161-178), Riedel dedica un intero saggio alla Metafisica dello Stato in Hobbes (ibidem, pp. 155-175) di cui la
seconda metà tratta della “metapolitica e metafisica del corpo politico” nel linguaggio del Leviatano.

Ibidem, pp. 106-107; con tale affermazione egli rifiuta la tradizionale interpretazione (che ritiene “erronea”) data al noto passo di
Politica, I, 2, 1253 a: ton physei e polis esti, kai o anthropos physei politikon zoon (la polis è una delle cose che esistono per natura e
l’uomo è per natura un vivente ‘politico’).

Ibidem, pp. 129-130 e 172.

Ibidem, pp. 160-161.

Ibidem, pp. 166-170.

Ibidem, p. 172.

Ibidem, pp. 210-211; in merito all’aristotelismo “medievale”, cioè mediato dalla Scolastica, presente in Hobbes, sarà bene ricordare
come in lui sopravvivano elementi teoretici e metodologici per cui L. STRAUSS ricorda che alcuni qualificano Hobbes come uno
degli ultimi scolastici (Natural Right and History, University of Chicago Press, Chicago, 1953, tr. it. a cura di N. Pierri, Il
melangolo, Genova, 1990, p. 180).

Ibidem, pp. 212-213: per il “naturale impulso” a riunirsi in società nell’uomo hobbesiano Riedel si riferisce precisamente alla nota di
De cive, I, 2.

Ibidem, pp. 211-212; egli cita il noto passo di Hobbes, all’inizio dell’Epistola dedicatoria del De cive, ma non fa riferimento a passi
precisi dei due filosofi greci; per Aristotele potremmo ricordare un’affermazione di Politica, I, 2, 1253a (“l’uomo, quando è
veramente tale, è il migliore degli animali; ma quando è fuori dalla legge e dalla giustizia, è il peggiore di essi”), oltre a diverse
pagine dell’Etica Nicomachea che trattano della “bestialità” di comportamento di alcuni uomini, del “tipo bestiale” tra essi
esistente, dei piaceri “bestiali” (Etica Nicomachea, VII, 1, 1145a; 5, 1148b-1149a; 6, 1149b-1150a).
M. RIEDEL, op. cit., p. 212.

Di Aristotele è nota la teoria sull’“uomo divino”: è un “eccezionale grado di virtù”, una virtù “sovrumana, eroica, divina”, che “tra-
sforma gli uomini in dei” (Etica Nicomachea, VII, 1, 1145a).

Di Hobbes sarà bene tener presente il relativo testo: “Profecto utrumque vere dictum est, ‘homo homini deus’, et ‘homo homini
lupus’. Illud, si concives inter se; hoc, si civitates comparemus: Illic iustitia et charitate, virtutibus pacis, ad similitudinem Dei
acceditur …” (De cive, Epistola dedicatoria, O.L., II, pp. 135-136). Dal testo risulta evidente come l’accesso alla somiglianza con
Dio sia dato dal fatto che i “concittadini” esercitino tra loro “la giustizia e la carità, virtù della pace” (nel testo inglese vengono
chiamate “the twin sisters of peace”, E. W., II, p. ii).

M. RIEDEL, op. cit., p. 213.

Ibidem, pp. 216-217; sulla portata radicalmente innovativa del concetto di persona introdotto in filosofia politica da Hobbes si
sofferma F. MERCADANTE, Persona e uguaglianza in Hobbes, relazione per i seminari “Diritto e politica in Hobbes”, tenutisi a
Teramo nella primavera del 1989, ripresa e riformulata nella relazione al Convegno “Thomas Hobbes e la fondazione della politica
moderna”, tenutosi a Teramo nell’autunno del 1995, ora pubblicato con il titolo La natura del signor Ognuno: persona vera e
persona finta in Hobbes, in Thomas Hobbes e la fondazione della politica moderna, a cura di G. Sorgi, Giuffrè, Milano, 1999, pp.
767-787.

Criticando la posizione di Hobbes in merito alla legittimazione del potere, scrive Riedel: “la trasmissione unica ed irrevocabile del
potere e del diritto al sovrano è identica al rapporto padrone-schiavo: essa è alienazione degli originari diritti umani e di libertà ad
un potere che, su questa base, può essere legittimato altrettanto poco che il potere del padrone sullo schiavo” (M. RIEDEL, op. cit.,
p. 265). Il corsivo è nostro.

J.J. CHEVALLIER, Les grandes œuvres politiques. De Machiavel à nos jours, A. Colin, Paris, 1966, tr. it., Il Mulino, Bologna,
1968, p. 132.

M. RIEDEL, op. cit., p. 209.

R. BODEI, op. cit., p. 27.

Cfr. K. SCHUHMANN, Hobbes and the Political Thought of Plato and Aristotle, in Politica e diritto in Hobbes, a cura di G. Sorgi,
Giuffrè, Milano, 1995, pp. 1-36, in particolare pp. 23-24.

M. RIEDEL, op. cit., p. 213.

Ibidem, pp. 129-130; a sostegno della sua lettura Riedel cita alcuni passi di Politica (III. 9, 1280b; VII, 7, 1327b) e di Etica
Nicomachea (I, 9, 1099b; I, 13, 1102a), che contengono l’aspetto educativo della legge non dichiarato specificamente, ma
ugualmente evidente, e tuttavia trascurato dal critico.

M. RIEDEL, op. cit., p. 213; egli compie questa valutazione – come pure quella di cui alla precedente nota 41 – nel saggio
sull’evoluzione del paradigma, nell’evidente impegno di dimostrare una tesi.

Etica Nicomachea, X, 9; “l’educazione pubblica si attua mediante le leggi, ed è buona quella che si ottiene con leggi buone”
(1180a); “chi vuole con la propria attività educativa rendere migliori gli uomini, sia molti sia pochi, deve sforzarsi di diventare
competente come legislatore, se è vero che è mediante le leggi che possiamo diventare buoni” (1180b).

Ibidem, X, 9, 1179b-1180a: sono le pagine finali del libro e contengono la più esplicita dichiarazione della funzione pedagogica
della legge e della ispirazione etica della politica; queste pagine non sembrano presenti alla considerazione di Riedel.

Ibidem: la massa “per natura” si sottomette non alla ragione ma “alla paura”; ubbidisce “per timore della punizione” (1179b); “la pas-
sione non cede al ragionamento ma alla forza” (ibidem); “l’uomo malvagio … è punito con il dolore come una bestia da soma” (1180a).
Esponendo questi principi Aristotele si rifà a Platone (Leggi, IV, 722b-723b), al quale ha fatto riferimento in precedenza anche per
l’effetto terapeutico del castigo afflittivo: “le punizioni sono una specie di cura” (Etica Nicomachea, II, 3, 1104b).

Politica, III, 7, 1279; una breve ma incisiva critica alla indicata posizione di Riedel sul valore della costrizione in Aristotele è
espressa da G. BIEN, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Alber, Freiburg-München, 1973, 1980, tr. it., La
filosofia politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 358; Bien si riferisce al saggio di Riedel sulle aporie in Aristotele
(pubblicato nel 1972), considera “errata” la “caratterizzazione” ivi attribuita al filosofo greco e rileva che vi sono state “scambiate
repubblica e dispotia”.

M. RIEDEL, op. cit., p. 211.

Alla seconda parte di Metafisica e metapolitica Riedel ha posto questo titolo: Leviatano versus associazione civile. La differenza tra
gli antichi e i moderni, pp. 153-280.
Politica, I, 2, 1252.

Ibidem, III, 1, 2 e 5, 1274b, 1275, 1276a, 1277b, 1278a.

Cfr. G. BIEN, op. cit., pp. 337-340.

Naturalmente anche Hobbes prevede i magistrati, i consiglieri del sovrano ed altri che escono dalla norma; ma non li teorizza come
una specie particolare di cittadini.

Ricordiamo che Riedel nella Prefazione all’ed. italiana del suo volume avverte che si tratta di saggi scritti in tempi diversi e sotto
diverse sollecitazioni e di ritenerli studi propedeutici a un più organico discorso (M. RIEDEL, op. cit., pp. 34-35). Si può
sottolineare il fatto che tutti gli altri saggi sono anteriori a quello sui paradigmi (che è del 1979 e perciò manca nella ed. tedesca di
Metaphysik und Metapolitik, 1975).

Ibidem, pp. 161 e 169-170.

Ibidem, p. 86.

J. RITTER, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1969, tr. it., Marietti, Casale
Monferrato, 1983, pp. 72, 75, 77; questo autore, uno dei più impegnati nella “Rehabilitierung”, insiste molto sulla valenza della
polis come realtà indispensabile perché l’uomo passi dal suo poter-essere all’essere in atto (ibidem, pp. 114-117).

G. BIEN, op. cit., p. 120.

Etica Nicomachea, I, 7, 1, 097b; “quello che si chiama ‘auto-sufficienza’ si realizza al massimo nell’attività contemplativa” (ibidem,
X, 7, 1177a).

Politica, I, 2, 1252b.

Ibidem, I, 2, 1253a: l’individuo “preso da sé, non è autosufficiente” (come un piede e una mano rispetto al corpo); “chi non ha biso-
gno di nulla, bastando a se stesso” è “un dio” (“è più che un uomo” – si trova scritto alcune righe sopra) e quindi non fa parte della
città. Sembrano delinearsi in Aristotele due specie di “autosufficienza”: una per natura, ontologica, che è quella della polis e degli
dei; l’altra per acquisizione, morale, che è quella dell’uomo sapiente.

Ibidem, II, 7, 12.

Etica Nicomachea, VII, 1, 1145a.

“Il sapiente anche quando è solo con se stesso può contemplare, e tanto più quanto più è sapiente; forse ci riuscirà meglio se avrà dei
collaboratori, ma tuttavia egli è assolutamente autosufficiente” (Etica Nicomachea, X, 7, 1177a). Non va però dimenticato che in
altri luoghi Aristotele ammette che alla piena felicità concorra anche la disponibilità di “beni esteriori” (ibid., I, 8, 1098b-1099a) e
che la compagnia di “amici di valore” aiuta nell’esercizio delle virtù (ibid., IX, 9, 1169b-1170a); egli precisa: “è certo assurdo fare
dell’uomo felice un solitario” (ibid., 1169b).

Cfr. ANTIMO NEGRI, Introduzione, in HOBBES, Elementi di filosofia. Il corpo. L’uomo, Utet, Torino, 1972, p. 28 e A. PACCHI,
Introduzione a Hobbes, Laterza, Bari, 1971, p. 113.

R. BODEI, op. cit., p. 26; v. anche pp. 30 e 37.

Ibidem, p. 23; il citato passo di Bodei è un commento a Etica Nicomachea, VI, 1, 1139a.

E. BERTI, op. cit., p. 181.

M. RIEDEL, op. cit., p. 142.

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