Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Dopo aver impegnato la prima metà del suo libro nell’esame di fondamentali
concetti politici di Aristotele, lo scrittore tedesco dedica ampio spazio al
rapporto che con il filosofo greco ha Hobbes, esprimendo l’intendimento di
“portare a definizione” la disputa che in merito è in corso da anni. A tal fine
elabora una propria impostazione sulla scia di Kuhn e di Spragens, dei quali
modifica con attenuazione progressiva la linea interpretativa. Trova infatti che il
primo parla di “cambiamento del paradigma” (riferendosi al tema generale del
progresso della scienza) e il secondo, con esplicito riferimento all’atteggiamento
di Hobbes verso Aristotele, vi scorge una “trasformazione del paradigma”,
Riedel, invece, ritiene che si debba parlare di “evoluzione del paradigma”. Egli
rifiuta come “singolarmente ambigua” la tesi di Leo Strauss, in cui vede
affermata una “completa rottura” tra il modello aristotelico e quello hobbesiano.
Riedel non nega la “svolta” apportata da Hobbes nei confronti del pensiero
politico tradizionale e in specie di Aristotele. Sostiene però che per comprendere
la “sostanza spirituale” del rapporto tra i due bisogna “in primo luogo evitare
l’adozione di paradigmi che si alternano o l’uno dei quali venga ‘tradotto’
nell’altro; in secondo luogo bisogna indicare l’aspetto ermeneutico delle
formazioni dei paradigmi”, aspetto che vede trascurato da Kuhn e da Spragens.
Dicendo “evoluzione” del paradigma egli vuol sottolineare la “continuità” che
sopravvive alle trasformazioni più evidenti, in un combinarsi di “elementi
rivoluzionari ed elementi tradizionali”.
Il fatto che tra filosofi antichi e moderni possa stabilirsi una certa continuità
terminologica, mentre cambiano i significati e i riferimenti storici di concetti
solo formalmente identici, non sfugge certo a Riedel. È un problema ch’egli
affronta nella Introduzione alla sua raccolta di saggi, in un punto che diremmo
preliminare ed in coerenza, del resto, anche all’assunto, espresso nel
sottotitolo, di svolgere “studi sul linguaggio politico”. Egli vede la complessità
del discorso ermeneutico, e ripete per sé la “esigenza” indicata da Gadamer:
“portare a compimento quella trasposizione che i concetti del passato
subiscono quando noi cerchiamo di pensare in base ad essi”. Ad analizzare
però i confronti che Riedel compie sviluppando la sua linea “evolu tiva” tra i
paradigmi di Hobbes e di Aristotele, si direbbe che quella esigenza da lui
accettata in merito al rapporto antico-moderno in genere non sempre venga
rispettata ed applicata ai casi particolari dei due filosofi presi in esame.
5. Nella ricerca della linea di continuità fra i due filosofi lo studioso tedesco
sottolinea l’importanza degli studi oxfordiani di Hobbes, durante i quali si formò
alla scuola aristotelica; e afferma che “nella sua opera è sempre presente non
solo l’aristotelismo medievale”, ma anche la sua variante data dalla “recezione
umanistica” del filosofo greco. Questa punta non sull’intero corpus del suo
pensiero, ma sulla sua filosofia politica; ed al centro di tale recezione, che
Hobbes ha fatta propria, Riedel scorge un’idea: “l’unità dell’esser-cittadino e
dell’esser-uomo”.
Per Aristotele “la natura dell’uomo, la sua umanità non è una proprietà
naturale, ma riguarda l’essere cittadino”; la ragione, la giustizia e la libertà, “in
quanto proprietà specificamente umane presuppongono l’esistenza … della
politiké koinonía”. Per Riedel questo sarebbe lo stesso presupposto da cui parte
Hobbes: “la ‘umanità’ dell’uomo si determina mediante il suo possibile essere
cittadino”. L’uomo di Aristotele ha, sì, un desiderio naturale di convivere con
altri; “ma la polis stessa, come forma di vita umana, non è naturale”, bensì
frutto dell’arte, delle leggi e delle istituzioni di un fondatore. Anche Hobbes –
afferma Riedel – ammette il medesimo “impulso naturale” dell’uomo a riunirsi in
società, la quale non è un mero conglomerato, bensì associazione alla cui base
è posta la fiducia e un patto.
Sempre sulla stessa linea l’autore tedesco ricorda come l’assioma dell’ uomo-
dio e quello dell’uomo-lupo non siano un’invenzione di Hobbes, ma rientrino tra
quei concetti in cui “continuano a sgorgare fonti antiche”. Nel secondo assioma
bisogna vedere la derivazione, “tramandata da Aristotele e risalente a Platone”,
dell’uomo appetitivo che “cerca la lotta equiparandosi così alle bestie”.
Analogamente il primo assioma richiama in Hobbes l’uomo razionale e giusto di
Aristotele che “si avvicina a Dio mediante il suo essere cittadino”: questo
sempre secondo l’interpretazione di Riedel, che così trascura del tutto di
considerare come, pur nella diversità dei loro quadri logici e nella differente
accezione di un medesimo termine “virtù”, non solo in Aristotele, ma in qualche
misura anche in Hobbes, la elevazione dell’uomo ad altezze divine – l’“uomo
divino” per il primo, “somiglianza di Dio” per il secondo – sia affidata non al
mero esser-cittadino, ma alla pratica della virtù.
Ed allora l’esser-uomo, ch’era così ricco di poteri e diritti nello stato di natura
– pur in una condizione autodistruttiva –, finisce col realizzarsi non in un esser-
cittadino, bensì in un esser-suddito dello Stato hobbesiano, laddove la polis di
Aristotele è una città di uomini liberi, e gli schiavi – che pur ci sono – non hanno
cittadinanza.
In tal modo, però, l’“evoluzione del paradigma”, quel processo che secondo
Riedel porta dall’associazione civile classica alla moderna associazione statale, si
compie con esito non molto felice: si tratta oggettivamente della involuzione
dell’uomo da cittadino a suddito.
6. Questi sono alcuni dei temi che dimostrano come la pretesa “evoluzione
del paradigma” da Aristotele ad Hobbes conduca ad esiti ben diversi da quello
che era il punto di partenza della filosofia pratica – etica e politica –; ed allora
pensiamo sia lecito chiedersi fino a che punto goda di validità il modello
“evolutivo” di analisi preferito da Riedel. Constatandone le applicazioni, nasce
qualche volta un duplice sospetto: che egli tenda a vedere più la tradizione che
la rivoluzione; che, nel ricercare termini e concetti testimonianti una continuità
di Hobbes con la tradizione aristotelica, si limiti a considerare più i termini che
non i loro significati. Lo stesso Riedel, dopo aver ammesso con altri che nel
pensiero di Hobbes “continuano ad essere presenti concetti e problematiche
aristoteliche”, non può ignorare l’“evidente distacco” tra i due, tanto da porre il
problema di “come il filosofo Hobbes possa pensare con concetti aristotelici e
nel contempo essere decisamente anti-aristotelico”.
Senza voler negare gli influssi del pensiero di Aristotele su Hobbes, possiamo
qui rapidamente osservare alcuni punti in cui il desiderio di trovare una
“evoluzione” che non sia “sostituzione” (Kuhn) e neanche “trasformazione”
(Spragens), porta a nostro avviso Riedel a qualche forzatura nell’accostamento
delle due filosofie politiche.
Verificata la diversità dei due paradigmi nei loro punti di partenza, una loro
affinità nel sostenere “l’unità dell’esser-uomo e dell’esser-cittadino” ove ci fosse,
seguirebbe vie ben diverse nell’uno e nell’altro. Ma è da verificare se tale
affinità esista realmente, sia pure in linea “evolutiva”. Su questo punto ci
sembra di poter rilevare che lo stesso Riedel, mentre nel saggio in cui si
impegna a dimostrare la “evoluzione del paradigma” è pienamente convinto di
tale esistenza, in altri saggi enunci delle valutazioni dalle quali l’affinità stessa
viene del tutto compromessa: ne risulta infatti da un lato un Aristotele orientato
– anche troppo – verso la radicale unità dell’esser-uomo e dell’esser-cittadino,
dall’altro un Hobbes in cui uomo e cittadino si pongono in netta
contrapposizione.
Non si vuol negare che tale duplice interpretazione abbia i suoi punti obiettivi
di riscontro nel pensiero dei due autori. Ci preme però far notare come sia lo
stesso Riedel a condurre un discorso dal quale i due paradigmi risultano andare
in direzioni opposte e non appaiono affatto collegati da alcun contenuto
“evolutivo”. Ci preme anche dire che la sua lettura dei due autori ha bisogno di
qualche altra puntualizzazione e completamento.
Per quanto riguarda Hobbes non si può essere del tutto certi che l’unico atto
politico dell’uomo sia, come dice Riedel, proprio quello con il quale egli estingue
l’autonomia del suo agire politico: secondo la teoria della “autorizzazione”,
introdotta in Leviathan, il suddito continua a far politica, in quanto è
considerato “autore” di ogni atto del sovrano. Inoltre, il filosofo inglese esige
che l’uomo, dopo esser divenuto suddito per un patto coscientemente stipulato,
rinnovi la propria sudditanza di fronte ad ogni atto compiuto dal sovrano, sotto
la minaccia della pena e nel timore di ricadere nella condizione miseranda dello
stato naturale. L’uomo hobbesiano quindi compie una serie continua di atti
politici, sia pure sotto l’imperio del sovrano. Ed ha anche i suoi spazi, come
uomo e come cittadino, sia nei “silenzi della legge” sia nel pur rischioso “diritto
di resistenza”.
In fondo, con altri termini, è lo stesso discorso che talvolta sviluppa anche
Riedel. Possiamo discutere sulla minore o maggiore, parziale o totale validità del
suo modello di “evoluzione del paradigma” specialmente nel confronto con
Hobbes; ma non possiamo mettere in dubbio lo stimolo di rilettura che proviene
dalle sue analisi ermeneutiche della filosofia pratica di Aristotele. Possiamo
convenire in pieno con lui quando nota che proprio l’impegno innovativo di
Hobbes “si attua ancora completamente nel quadro tracciato dall’impostazione
aristotelica”.
Gli stessi critici della tradizione aristotelica continuano a parlare il suo stesso
linguaggio: e fanno ciò – nota Riedel con alquanta ironia – “proprio quando
pensano di esprimere i propri punti di vista”.
* M. RIEDEL, Metaphysik und Metapolitik. Studien zu Aristoteles und zur politischen Sprache der neuzeitlichen Philosophie,
Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1975, tr. it. di F. Longato, col titolo Metafisica e metapolitica. Studi su Aristotele e sul linguaggio
politico della filosofia moderna, Il Mulino, Bologna, 1990. Nel volume sono raccolti saggi scritti in tempi diversi (dal 1966 al
1979), e dietro diverse sollecitazioni, come avverte lo stesso autore (p. 35). Egli ha come sfondo costante delle sue ricerche il
pensiero ed il linguaggio di Aristotele, alla cui analisi dedica buona parte dell’opera. Nell’esaminare poi i riferimenti al filosofo
greco a cominciare dall’Umanesimo, tratta di autori moderni, fra i quali Hobbes, Leibniz, Wolf, i pre-kantiani fino allo stesso Kant.
Franco Volpi nota fin dagli anni ’50 segni evidenti di ritorno ad alcune posizioni di Aristotele in vari campi, indicando per l’ambito
politico i nomi di Leo Strauss, Eric Voegelin e, specialmente, Hannah Arendt (Che cosa significa neoaristotelismo? La
riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, in Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura
di E. Berti, Marietti, Genova, 1988, pp. 121-122 e 130-131). Volpi aveva già trattato il problema nel saggio La rinascita della
filosofia pratica in Germania, in Filosofia pratica e scienza politica, a cura di G. Pacchiani, Francisci, Abano, 1980, pp. 11-97. Di
autori coinvolti nella rinascita dell’aristotelismo anche in aree culturali diverse da quella tedesca, fa cenno E. BERTI, Le ragioni di
Aristotele, Laterza, Bari, 1989, pp. XIV-XV.
F. VOLPI, Per una filosofia politica postmetafisica: la proposta ermeneutica di Manfred Riedel, saggio introduttivo all’ed.it. di M.
RIEDEL, Metafisica e metapolitica, cit., p. 11.
L’espressione è ripresa da G. CALABRÒ, Dilthey e l’antropologia filosofica, in Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione
storica, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 173; vedi ancora G. CALABRÒ, che considera Dilthey
un anticipatore dell’attuale riabilitazione, Dilthey e la “riabilitazione” della filosofia pratica, in Dilthey e il pensiero del Novecento,
a cura di F. Bianco, F. Angeli, Milano, 1985, p. 85.
R. BODEI, La decisione saggia. Filosofia pratica e teoria delle scelte ragionevoli, in Etica e politica, a cura di W. Tega, Pratiche,
Parma, 1984, p. 26.
Ibidem, p. 23; quando Bodei indica questa remota fonte, si può ritenere ch’egli pensi in particolare ai concetti espressi dal filosofo
greco in merito al significato e alla funzione della phrònesis in rapporto alla politica in Etica Nicomachea, VI, 5-8 e 12-13 (1140-
1142a, 1143b-1145a).
M. RIEDEL dedica il cap. III di Metafisica e metapolitica, pp. 113-132, all’esame di alcune aporie della filosofia pratica di
Aristotele: si tratta in parte di una conferenza del 1969 riportata anche in Rehabilitierung der praktischen Philosophie, cit., vol.
I, pp. 79-97.
Nella Prefazione all’ed. it. di Metafisica e metapolitica, M. RIEDEL parla esplicitamente della sua proposta come di una via “che
solo può aprire l’accesso ad una politica senza metafisica politica” (p. 34).
Ibidem, pp. 52-54; l’autore si richiama più volte alla impostazione ermeneutica di H.G. Gadamer, v. in part. p. 54.
Ibidem, p. 205.
È l’argomento dell’intero cap. VII: Cambiamento di paradigma nella filosofia politica? Hobbes e Aristotele, ibidem, pp. 203-221
(conferenza del 1979 pubblicata nel 1981).
Cfr. Th. S. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago; 1961, tr. it., Einaudi, Torino,
1969 e TH.A. SPRAGENS Jr., The Politics of Motion. The World of Thomas Hobbes, Croom Helm Ltd., London, 1973.
Ibidem, p. 204; Riedel si riferisce ai passi in cui L. Strauss mette a confronto testi della Retorica con testi di tre opere
hobbesiane: Elements, Leviathan e De homine, per dimostrare l’influenza del filosofo greco sul pensatore inglese. Come è
noto però, Strauss parla di tale influsso riferendolo al solo periodo “umanistico” giovanile di Hobbes (The Political
Philosophy of Hobbes. Its Basis and its Genesis, 1936, in What is Political Philosophy? And Other Studies, Free Press,
Glencoe, 1955, tr. it., Che cos’è la filosofia politica? Scritti su Hobbes e altri saggi, a cura di F. TABONI, Argalia, Urbino,
1977, pp. 173-177), anche se poi rileva che da molti passi delle sue opere sistematiche si ricava come egli “studiava di
nuovo ogni volta la Retorica di Aristotele” (ibid., p. 184): e ciò nonostante che in queste stesse opere esprimesse giudizi
molti severi, spesso con termini anche dispregiativi, sul pensiero dello stagirita.
N. BOBBIO, Il modello giusnaturalistico, in N. BOBBIO-M. BOVERO, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il
saggiatore, Milano, 1979, pp. 34-48 e 91; si potrebbe discutere sul fatto che Bobbio riduca alla “forza delle cose” il fondamento dato
dalla legittimità delle teorie non contrattualistiche in genere e da quella di Aristotele in particolare.
F. VIOLA, Behemoth o Leviathan? Diritto e obbligo nel pensiero di Hobbes, Giuffrè, Milano, 1979, p. 15; in questo libro l’autore
espone il suo confronto fra Aristotele e Hobbes alle pp. 12-31; 38-46 e 57-58.
Ibidem, p. 57.
Ibidem, p. 17.
Il passo di H.G. GADAMER – citato da Riedel a conclusione della sua Introduzione, ibidem, p. 54 – è preso da Wahreit und
Methode, Mohr (Siebeck), Tübingen, 19652, tr. it. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 19882, p. 456.
M. RIEDEL, op. cit., pp. 161 e 165. Sul problema del “cominciamento” e delle sue implicazioni metodologiche Riedel si sofferma a
lungo con particolare riferimento ad Hobbes (ibidem, pp. 159-175) e lo considera parte fondante della “metafisica dello Stato”
hobbesiana.
Ibidem, pp. 260-265; il problema della legittimazione del potere è uno dei punti ricorrenti nel volume di Riedel: vi dedica un
apposito saggio a conclusione (pp. 257-280), ne fa un punto debole, una delle aporie della filosofia politica aristotelica (pp. 123-130;
v. anche pp. 77-79), ma già la sua Introduzione si apre richiamando su di esso l’attenzione (p. 39). Su Nature et limites de la
légitimité rationnelle in Hobbes si veda il recente volume di F. LESSAY, Souveraineté et légitimité chez Hobbes, Presses
Universitaires de France, Paris, 1988, in particolare, pp. 137-243.
M. RIEDEL, op. cit., p. 53; mentre qualcuno ritiene di notare l’assenza di una metapolitica nella teoria hobbesiana della giustizia
(così P. PASQUINO, Teoria della giustizia e dottrina dello Stato in Thomas Hobbes, in AA.VV., Politica e filosofia, F. Angeli,
Milano, 1984, pp. 161-178), Riedel dedica un intero saggio alla Metafisica dello Stato in Hobbes (ibidem, pp. 155-175) di cui la
seconda metà tratta della “metapolitica e metafisica del corpo politico” nel linguaggio del Leviatano.
Ibidem, pp. 106-107; con tale affermazione egli rifiuta la tradizionale interpretazione (che ritiene “erronea”) data al noto passo di
Politica, I, 2, 1253 a: ton physei e polis esti, kai o anthropos physei politikon zoon (la polis è una delle cose che esistono per natura e
l’uomo è per natura un vivente ‘politico’).
Ibidem, p. 172.
Ibidem, pp. 210-211; in merito all’aristotelismo “medievale”, cioè mediato dalla Scolastica, presente in Hobbes, sarà bene ricordare
come in lui sopravvivano elementi teoretici e metodologici per cui L. STRAUSS ricorda che alcuni qualificano Hobbes come uno
degli ultimi scolastici (Natural Right and History, University of Chicago Press, Chicago, 1953, tr. it. a cura di N. Pierri, Il
melangolo, Genova, 1990, p. 180).
Ibidem, pp. 212-213: per il “naturale impulso” a riunirsi in società nell’uomo hobbesiano Riedel si riferisce precisamente alla nota di
De cive, I, 2.
Ibidem, pp. 211-212; egli cita il noto passo di Hobbes, all’inizio dell’Epistola dedicatoria del De cive, ma non fa riferimento a passi
precisi dei due filosofi greci; per Aristotele potremmo ricordare un’affermazione di Politica, I, 2, 1253a (“l’uomo, quando è
veramente tale, è il migliore degli animali; ma quando è fuori dalla legge e dalla giustizia, è il peggiore di essi”), oltre a diverse
pagine dell’Etica Nicomachea che trattano della “bestialità” di comportamento di alcuni uomini, del “tipo bestiale” tra essi
esistente, dei piaceri “bestiali” (Etica Nicomachea, VII, 1, 1145a; 5, 1148b-1149a; 6, 1149b-1150a).
M. RIEDEL, op. cit., p. 212.
Di Aristotele è nota la teoria sull’“uomo divino”: è un “eccezionale grado di virtù”, una virtù “sovrumana, eroica, divina”, che “tra-
sforma gli uomini in dei” (Etica Nicomachea, VII, 1, 1145a).
Di Hobbes sarà bene tener presente il relativo testo: “Profecto utrumque vere dictum est, ‘homo homini deus’, et ‘homo homini
lupus’. Illud, si concives inter se; hoc, si civitates comparemus: Illic iustitia et charitate, virtutibus pacis, ad similitudinem Dei
acceditur …” (De cive, Epistola dedicatoria, O.L., II, pp. 135-136). Dal testo risulta evidente come l’accesso alla somiglianza con
Dio sia dato dal fatto che i “concittadini” esercitino tra loro “la giustizia e la carità, virtù della pace” (nel testo inglese vengono
chiamate “the twin sisters of peace”, E. W., II, p. ii).
Ibidem, pp. 216-217; sulla portata radicalmente innovativa del concetto di persona introdotto in filosofia politica da Hobbes si
sofferma F. MERCADANTE, Persona e uguaglianza in Hobbes, relazione per i seminari “Diritto e politica in Hobbes”, tenutisi a
Teramo nella primavera del 1989, ripresa e riformulata nella relazione al Convegno “Thomas Hobbes e la fondazione della politica
moderna”, tenutosi a Teramo nell’autunno del 1995, ora pubblicato con il titolo La natura del signor Ognuno: persona vera e
persona finta in Hobbes, in Thomas Hobbes e la fondazione della politica moderna, a cura di G. Sorgi, Giuffrè, Milano, 1999, pp.
767-787.
Criticando la posizione di Hobbes in merito alla legittimazione del potere, scrive Riedel: “la trasmissione unica ed irrevocabile del
potere e del diritto al sovrano è identica al rapporto padrone-schiavo: essa è alienazione degli originari diritti umani e di libertà ad
un potere che, su questa base, può essere legittimato altrettanto poco che il potere del padrone sullo schiavo” (M. RIEDEL, op. cit.,
p. 265). Il corsivo è nostro.
J.J. CHEVALLIER, Les grandes œuvres politiques. De Machiavel à nos jours, A. Colin, Paris, 1966, tr. it., Il Mulino, Bologna,
1968, p. 132.
Cfr. K. SCHUHMANN, Hobbes and the Political Thought of Plato and Aristotle, in Politica e diritto in Hobbes, a cura di G. Sorgi,
Giuffrè, Milano, 1995, pp. 1-36, in particolare pp. 23-24.
Ibidem, pp. 129-130; a sostegno della sua lettura Riedel cita alcuni passi di Politica (III. 9, 1280b; VII, 7, 1327b) e di Etica
Nicomachea (I, 9, 1099b; I, 13, 1102a), che contengono l’aspetto educativo della legge non dichiarato specificamente, ma
ugualmente evidente, e tuttavia trascurato dal critico.
M. RIEDEL, op. cit., p. 213; egli compie questa valutazione – come pure quella di cui alla precedente nota 41 – nel saggio
sull’evoluzione del paradigma, nell’evidente impegno di dimostrare una tesi.
Etica Nicomachea, X, 9; “l’educazione pubblica si attua mediante le leggi, ed è buona quella che si ottiene con leggi buone”
(1180a); “chi vuole con la propria attività educativa rendere migliori gli uomini, sia molti sia pochi, deve sforzarsi di diventare
competente come legislatore, se è vero che è mediante le leggi che possiamo diventare buoni” (1180b).
Ibidem, X, 9, 1179b-1180a: sono le pagine finali del libro e contengono la più esplicita dichiarazione della funzione pedagogica
della legge e della ispirazione etica della politica; queste pagine non sembrano presenti alla considerazione di Riedel.
Ibidem: la massa “per natura” si sottomette non alla ragione ma “alla paura”; ubbidisce “per timore della punizione” (1179b); “la pas-
sione non cede al ragionamento ma alla forza” (ibidem); “l’uomo malvagio … è punito con il dolore come una bestia da soma” (1180a).
Esponendo questi principi Aristotele si rifà a Platone (Leggi, IV, 722b-723b), al quale ha fatto riferimento in precedenza anche per
l’effetto terapeutico del castigo afflittivo: “le punizioni sono una specie di cura” (Etica Nicomachea, II, 3, 1104b).
Politica, III, 7, 1279; una breve ma incisiva critica alla indicata posizione di Riedel sul valore della costrizione in Aristotele è
espressa da G. BIEN, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Alber, Freiburg-München, 1973, 1980, tr. it., La
filosofia politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 358; Bien si riferisce al saggio di Riedel sulle aporie in Aristotele
(pubblicato nel 1972), considera “errata” la “caratterizzazione” ivi attribuita al filosofo greco e rileva che vi sono state “scambiate
repubblica e dispotia”.
Alla seconda parte di Metafisica e metapolitica Riedel ha posto questo titolo: Leviatano versus associazione civile. La differenza tra
gli antichi e i moderni, pp. 153-280.
Politica, I, 2, 1252.
Naturalmente anche Hobbes prevede i magistrati, i consiglieri del sovrano ed altri che escono dalla norma; ma non li teorizza come
una specie particolare di cittadini.
Ricordiamo che Riedel nella Prefazione all’ed. italiana del suo volume avverte che si tratta di saggi scritti in tempi diversi e sotto
diverse sollecitazioni e di ritenerli studi propedeutici a un più organico discorso (M. RIEDEL, op. cit., pp. 34-35). Si può
sottolineare il fatto che tutti gli altri saggi sono anteriori a quello sui paradigmi (che è del 1979 e perciò manca nella ed. tedesca di
Metaphysik und Metapolitik, 1975).
Ibidem, p. 86.
J. RITTER, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1969, tr. it., Marietti, Casale
Monferrato, 1983, pp. 72, 75, 77; questo autore, uno dei più impegnati nella “Rehabilitierung”, insiste molto sulla valenza della
polis come realtà indispensabile perché l’uomo passi dal suo poter-essere all’essere in atto (ibidem, pp. 114-117).
Etica Nicomachea, I, 7, 1, 097b; “quello che si chiama ‘auto-sufficienza’ si realizza al massimo nell’attività contemplativa” (ibidem,
X, 7, 1177a).
Politica, I, 2, 1252b.
Ibidem, I, 2, 1253a: l’individuo “preso da sé, non è autosufficiente” (come un piede e una mano rispetto al corpo); “chi non ha biso-
gno di nulla, bastando a se stesso” è “un dio” (“è più che un uomo” – si trova scritto alcune righe sopra) e quindi non fa parte della
città. Sembrano delinearsi in Aristotele due specie di “autosufficienza”: una per natura, ontologica, che è quella della polis e degli
dei; l’altra per acquisizione, morale, che è quella dell’uomo sapiente.
“Il sapiente anche quando è solo con se stesso può contemplare, e tanto più quanto più è sapiente; forse ci riuscirà meglio se avrà dei
collaboratori, ma tuttavia egli è assolutamente autosufficiente” (Etica Nicomachea, X, 7, 1177a). Non va però dimenticato che in
altri luoghi Aristotele ammette che alla piena felicità concorra anche la disponibilità di “beni esteriori” (ibid., I, 8, 1098b-1099a) e
che la compagnia di “amici di valore” aiuta nell’esercizio delle virtù (ibid., IX, 9, 1169b-1170a); egli precisa: “è certo assurdo fare
dell’uomo felice un solitario” (ibid., 1169b).
Cfr. ANTIMO NEGRI, Introduzione, in HOBBES, Elementi di filosofia. Il corpo. L’uomo, Utet, Torino, 1972, p. 28 e A. PACCHI,
Introduzione a Hobbes, Laterza, Bari, 1971, p. 113.
Ibidem, p. 23; il citato passo di Bodei è un commento a Etica Nicomachea, VI, 1, 1139a.