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CAPITOLO 1

L’ ALBA DI UNA NUOVA ERA

L’età contemporanea, ha visto una crescita della ricchezza materiale senza precedenti. Si caratterizza per
una forte crescita da un punto di vista tecnologico e artificiale, la quale ebbe come risultato un vero e
proprio sviluppo economico, percepito come progressoper eccellenza. Il mainstream storiografico, ovvero
la principale corrente interpretativa, pone all'origine di tale fase una discontinuità talmente brusca e
radicale da poterle indicare col termine di rivoluzione. Questa espressione comincia a essere usato già dai
contemporanei, i quali vogliono sottolineare l’analogia dei cambiamenti nel mondo economico britannico
con quelli che contemporaneamente si sperimentano in Francia sul campo politico e istituzionale. Dal
secolo scorso, quest’espressione comunemente accettata di buon grado dalla storiografia è stata però
molto criticata, e si discute tutt’ora se il cambiamento avvenuto possa dirti veramente “rivoluzionario” o se
la gradualità che lo caratterizza non renda improprio il termine, dato che comunque considerando il ritmo
di crescita annua media dell’economia inglese si trattò quindi più che altro di una lenta evoluzione: il
termine stesso “rivoluzione” rischia di occultare i fattori di gradualità e continuità, segnati dall’evoluzione
relativamente lenta ma decisiva dell’agricoltura, della proto-industria, del commercio a lunga e a breve
distanza. Per rivoluzione industriale intendiamo un ciclo di innovazioni tecnologiche cominciato in
Inghilterra intorno al 1760, che portò alla costruzione di nuove macchine dedicate soprattutto alla filatura e
la tessitura del cotone.  -La sostituzione delle fonti di energia tradizionale (le macchine erano
inizialmente azionate da ruote che utilizzavano le forze dei corsi d’acqua) con fonti combustibili
(carbon fossile) che permisero l'introduzione delle macchine a vapore. Il processo di rivoluzione fu
amplificato dall’applicazione delle scoperte scientifiche nel sistema produttivo. Furono costruite macchine
utensili per il settore tessile, le quali consentirono la meccanizzazione della filatura. Fu perfezionata la
tecnica per lo sfruttamento del vapore come forza motrice. La nuova tecnologia, che utilizzava il carbone,
sostanza di cui il sottosuolo inglese e’ molto ricco; fu decisiva per lo sviluppo dell’industria siderurgica.
Successivamente la macchina a vapore fu utilizzata per costruire i primi mezzi di locomozione. Con la
realizzazione di strade ferrate si poterono trasportare merci e uomini. L’esigenza di incrementare la
produzione. comporta naturalmente la ricerca e l’adozione di tecniche in grado di velocizzare le
diverse fasi di lavorazione per giungere al prodotto finito, riducendo contemporaneamente i costi. Si
innesca così quello che è stato definito un processo a schema “botta e risposta” (David S. Landes): le
innovazioni introdotte in una determinata fase del processo produttivo e il conseguente aumento della
produzione mettono inevitabilmente sotto pressione le fasi immediatamente precedenti e successive, e da qui
l’esigenza di nuove innovazioni che correggano lo squilibrio che rendano più omogenei i ritmi di
produzione (con l’inevitabile risultato finale di un miglioramento complessivo). Come già detto però la
velocità della rivoluzione industriale inglese tuttavia non va sopravvalutata: stando ai censimenti del 1851, in
quell’anno in grande maggioranza i lavoratori erano impiegati come domestici o nell’agricoltura, o nelle
manifatture tradizionali.
La meccanizzazione investì massicciamente le aziende a conduzione capitalistica: le prime furono quelle
tessili, poi quelle siderurgiche. Del settore tessile, l’industria cotoniera rappresentava una buona metà,
concentra in particolar modo nella regione del Lancashire, Inghilterra nord-orientale.
Se la macchina a vapore costituì il più importante fondamento tecnologico della rivoluzione industriale, la
sua maggiore espressione in termini di organizzazione fu il sistema di fabbrica, la concentrazione del
lavoro e delle macchine in un unico edificio, la divisione del lavoro, il controllo sui suoi orari si
sostituirono progressivamente ai preesistenti modelli organizzativi proto industriali, largamente
legati al lavoro a domicilio.
Nel corso del ’700 le strutture produttive dell’agricoltura inglese ebbero cambiamenti tanto profondi da
generare una vera rivoluzione agricola. Il possesso delle terre passò dalle mani di piccoli agricoltori a grossi
proprietari terrieri. L’agricoltura era diventata imprenditoriale, il piccolo contadino diventò bracciante alle
dipendenze di un fittavolo. Nuove tecniche di coltivazione migliorarono il prodotto agricolo: La principale
innovazione consiste nella introduzione delle piante da foraggio, che sostituiscono il maggese nella
rotazione dei terreni; metodologia che consiste nel coltivare ciclicamente un terreno per non impoverirne la
fertilità, le scoperte chimiche consentirono raccolti più abbondanti ed inoltre l’introduzione di macchine per
la trebbiatura alleggerì il lavoro dei braccianti.

Miglioramento sistemi di comunicazione e trasporto con la costruzione delle ferrovie. Nuovi centri
manifatturieri nascono e si dilatano grazie alla forte migrazione interna dalle aree rurali del paese, e
sorgono nuove popolose città da piccoli villaggi o borghi (basti pensare alle città di Liverpool, Birmingham e
Manchester) mentre perdono importanza alcuni fra i più importanti centri commerciali inglesi, come York e
Norwich. Già nella prima metà dell’Ottocento, le grandi città industriali appaiono ben più popolose dei
vecchi centri economici. Le periferie di queste città assumono un aspetto peculiare caratterizzato da
ciminiere, fabbriche e squallidi e fatiscenti caseggiati, gli slums, dove alloggiano le famiglie operai, il
poverissimo proletariato.

Un passo indietro. Commerci di lunga distanza


Il Capitalismo otto-novecentesco si è caratterizzato per grandi processi di integrazione su scala planetaria. I
Mercanti impegnati in commerci di lunga distanza nei secoli XVI-XVIII secolo avevano bisogno non solo di
denaro e spirito imprenditoriale, ma anche del sostegno attivo dei loro governi. I mercanti impegnati in
commerci a lunga distanza necessitavano di relazioni internazionali e non solo di risorse economiche; propri
di questo periodo sono, infatti, i traffici dell’Europa con le Americhe, l’Asia, l’Africa e l’Oceania. Il principio-
base era quello del monopolio. In tale scenario, dunque, vige la concezione del monopolio per cui
l’obiettivo era tagliare fuori i concorrenti attraverso ogni mezzo possibile, ad esempio la pirateria. Questa
penetrazione politico-militare, definibile come colonialismo, si accompagnò a flussi migratori, che
avviarono il processo di colonizzazione degli altri continenti. L'arrivo degli Europei fu facilitato dal fatto che
una parte consistente di nativi del nuovo mondo venne nel contempo sterminata, innanzitutto dalle
malattie portate dal vecchio continente, contro cui gli indigeni non avevano difese immunitarie; in secondo
luogo, dalla superiore efficienza delle armi degli europei, con cui venivano utilizzate senza esitazione contro
popolazioni considerate “selvagge”. Un altro nuovo gruppo umano introdotto nelle Americhe fu quello dei
Neri di origine africana, giunti attraverso la tratta, cioè il commercio transoceanico di schiavi sulle rotte
atlantiche. Gli studiosi parlano di “mercato triangolare” che riguarda Europa-Africa-Americhe. Rispettabili
mercanti spedivano dall'Europa, verso basi costiere sulla costa occidentale africana, navi cariche di armi e
altre mercanzie, destinate a schiavisti locali. Dall’Africa quelle stesse navi portavano gli schiavi in America.
Da lì navigavano di nuovo per l'Europa cariche di quello che-grazie proprio al lavoro degli schiavi-veniva
prodotto nelle piantagioni. Con questo termine indichiamo le grandi aziende agricole monoculturali
specializzato in un’unica coltivazione, create dagli europei per produrre merci destinate al consumo
europeo: tabacco, caffè, zucchero e cotone. Tra sei e Settecento, il governo olandese, francese e britannico
adottarono politiche mercantilistiche (politica economica che si fonda sull’idea che la ricchezza nazionale
deriva dal saldo positivo della bilancia commerciale) intese cioè a incoraggiare lo sviluppo dei settori
economici giudicati strategici per varie ragioni, soprattutto politico-militari. Il monopolista più importante
fu forse la Compagnia delle Indie orientali, cui il governo britannico delegò i commerci con l'India, che
consisteva nell'importazione di spezie e tessuti di cotone prodotti dall'industria tradizionale locale e del tè
provenienti dalla Cina, ottenuto in cambio dell'oppio ricavato dalle piantagioni indiane di papavero. Nella
logica mercantilistica e Imperiale, il governo di Londra costringeva consumatori anglo-americani ad
acquistare il tè (proveniente dalla Cina) dalla Compagnia delle Indie, quando quelli avrebbero potuto avere
quella stessa merce dagli olandesi ma a un prezzo più basso. Tra il 1760-1770 gli anglo-americani
protestarono per le limitazioni poste alla loro libertà di commercio, in un crescendo di polemiche
giornalistiche, manifestazioni, boicottaggi ecc. che culminarono nei principi sintetizzati dalla famosa frase
no taxation without representation nel famoso Boston Tea Party, quando nel 1773 il governo britannico di
Frederick North, al fine di salvare la Compagnia delle Indie orientali dalla bancarotta, vara una legge che le
assegna il sostanziale monopolio del commercio del tè nelle colonie americane. Contro questo ennesimo
atto di arbitrio lesivo degli interessi dei mercanti americani ha luogo un’azione di protesta: un gruppo di
coloni, travestiti da indiani, gettano in mare il carico di tè di una nave della compagnia all’antico porto di
Boston, primo segnale di agitazione antifiscale destinato a trasformarsi in agitazione politica.

Alle origini della nuova politica


La tradizione storiografica ha considerato la rivoluzione francese del 1789 il più credibile punto di avvio
dell'età contemporanea, anche se altre precedenti rivoluzioni sono state chiamate in causa: quella
americana 1776 o magari quella inglese seicentesca.

Inghilterra: elaborarono fondamentali riflessioni sulla gloriosa rivoluzione inglese del 1688-1689 due grandi
teorici.

-Il primo fu l'inglese John Locke. Radicalmente opposte all’assolutismo hobbesiano sono invece le teorie
contrattualistiche di Jhon Locke Thomas Hobbes, nell’ambito della sua visione materialista, meccanicista ed
individualista, esprime il proprio pensiero in cui asserisce che ogni organismo mira a preservare il suo
movimento vitale attraverso l’autoconservazione. La legge, infatti, non è espressione di una volontà
dispotica ed onnipotente; alla legge spetta il solo compito di ‘positivizzare’ i diritti naturali preesistenti
dell’individuo (libertà, uguaglianza e proprietà) riconoscendoli e garantendoli contro ogni arbitraria
invadenza La visione liberale di Locke ci presenta dunque l’immagine di uno Stato garantista in cui il
Sovrano interviene solo per tutelare la libertà ed i diritti naturali dell’individuo. Egli ritiene che lo Stato di
natura non sia una condizione di continua belligeranza ma di convivenza pacifica, in cui tuttavia
l’esercizio dei diritti naturali è solo parziale. Istituendo lo Stato, gli uomini non cedono al corpo
politico alcun diritto, ma lo rendono tutore dei diritti di natura, delegando al Parlamento il potere
di emanare leggi positive che regolino l’esercizio della forza a difesa d’ognuno.

- Il secondo fu il francese Charles-Louis de Montesquire, a sua opera Lo spirito delle leggi (1748) espone
chiaramente questi grandi passi fatti nella politica moderna: innanzitutto, sintetizza definitivamente la
convinzione che nessuna libertà può essere garantita dall’assolutismo; parla della necessità di una
“monarchia moderata”, cioè vincolata da leggi (attraverso le quali lo Stato deve farsi garante delle libertà
dei singoli) e caratterizzata dalla divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), considerata l’unica
garanzia per il loro equilibrio reciproco – nei casi in cui i tre poteri convergono solo nel sovrano è inevitabile
la tirannide, e lo stesso Montesquieu cita come prova il “dispotismo asiatico”, ossia gli imperi russo,
ottomano e cinese, caratterizzati dall’arbitrio dei governanti. Il Parlamento britannico era diviso in due
assemblee: Camera dei Lord o dei pari e Camera dei Comuni. La prima era composta per diritto ereditario
da membri dell'alta nobiltà e dagli alti gradi della Chiesa anglicana. La seconda era elettiva: con
l'ammissione al voto dei membri della gentry (piccola nobiltà), di borghesi e in alcuni casi di artigiani. Il
Parlamento faceva le leggi, decideva dell’imposizione fiscale e della spesa pubblica, entrava nello spazio del
potere esecutivo spettante al monarca, concedendo o negando la fiducia al Governo. L'amministrazione
locale era affidata a membri della gentry e yeoman (Proprietari di condizione civile: cioè non lavoravano la
terra con le proprie mani). Il diritto si ispirava allora, e si ispira oggi, ai principi della common law, con cui
si intende un sistema giuridico di diritto non codificato che si basa su un modello di "precedente
giurisprudenziale", attraverso il quale i giudizi vengono stabiliti sulla base di altre precedenti sentenze di
casi tra loro molto simili, consolidandosi nel tempo. Ricordiamo anche l'elaborazione del principio dell’
”Habeas Corpus”, il principio che tutela l'inviolabilità personale ,per indicare l'ordine emesso da
un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto, entro un termine categorico, per evitare una
detenzione senza concreti elementi di accusa.
AMERICA> Ebbe inizio una guerra che il 4 luglio del 1776 avrebbe portato i rappresentanti delle colonie
riuniti in un secondo Congresso continentale a Philadelphia a votare la Dichiarazione d’Indipendenza degli
Stati Uniti d’America. Nella Dichiarazione erano contenute l’esperienza rivoluzionaria inglese del ’600 e le
teorie di Hobbes riviste in versione democratica da John Locke. Scritto da Thomas Jefferson, il documento
era una sintesi del pensiero illuminista, declinato in termini rivoluzionari: Noi riteniamo queste verità di
per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi
inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per
garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso
dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha
diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i
poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Essa definisce che: gli uomini sono stati creati uguali e godono di diritti inalienabili alla vita, alla libertà e
alla ricerca della felicità; che sono i cittadini a delegare il potere ai governi, e hanno dunque anche il diritto
di rovesciarli in caso di violazione dei loro diritti; ma nonostante ciò, evidenti sono anche le contraddizioni: i
principi di libertà erano affermati in forma universalistica, lasciando cioè intendere che erano validi per
tutti, mentre di fatto non valevano per gli schiavi neri.

FRANCIA> Sul versante francese, invece, la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, del 1789,
affermava che gli esseri umani nascono uguali e tali devono restare; lo Stato deve garantire diritti individuali
riconosciuti come naturali e inalienabili, alla libertà, proprietà, alla sicurezza e resistenza oppressione; la
sovranità appartiene al popolo.

Stati Uniti: Ottenuta l’indipendenza il dibattito si accese sul tipo di vincolo federale da istituire tra i nuovi
Stati. Sulla questione si formarono due partiti: uno, «repubblicano», che sosteneva la sovranità
delle tredici repubbliche, e il diritto all’autogoverno delle loro comunità locali; l’altro,
«federalista», che caldeggiava la necessità di un governo centrale più forte per creare una salda
identità americana e una «repubblica imperiale» in grado di competere con l’Impero britannico.
Alla fine a prevalere fu quest’ultimo. Nel 1787 una Assemblea costituente emanò una
Costituzione, nella quale gli Stati Uniti sono ufficialmente dichiarati una repubblica di tipo federale in cui il
potere legislativo è affidato a un Congresso, formato da due Camere, la Camera dei rappresentanti (eletta
direttamente dai cittadini degli Stati Uniti, sulla base di una ripartizione dei seggi proporzionale alla
popolazione) e il Senato (composto da due rappresentanti nominati da ogni singolo Stato). Vertice del
potere giudiziario era la Corte suprema era attribuito una sorta di controllo di legittimità costituzionale
sulla legislazione sia del governo federale, sia dei singoli Stati. Il potere esecutivo è invece incentrato sulla
figura del presidente degli Stati Uniti, veniva eletto per quattro anni, col diritto ad essere
rieletto una seconda volta a cui spettavano: *il potere di veto sospensivo sulle leggi, *la nomina dei
ministri e degli ambasciatori *la politica estera e forze armate *designava i giudici della Corte
suprema*. Il Presidente viene eletto dal popolo ma col meccanismo dell’elezione indiretta: ovvero i
cittadini indicano dei grandi elettori che a loro volta devono eleggere il presidente. Il presidente guida il
governo con una legittimazione che deriva dall’investitura popolare e non dalla fiducia del Parlamento.
Questo modello è detto presidenzialista. La Costituzione statunitense, varata nel 1787, venne completata
da 10 emendamenti, il Bill of Rigths, una carta dei diritti che ribadisce la volontà del potere federale di
rispettare i diritti individuali di fronte ogni rischio di degenerazione tirannica del potere.

FRANCIA La storia politica francese, a differenza di quella britannica e di quella americana, procede quindi
per brusche discontinuità. Conviene richiamare la frattura del 1789-1814.
Possiamo distinguere quattro fasi:

-La prima fase, ovvero quella monarchico-costituzionale che si esaurì quando nel 1792 dopo accesi dibattiti
l’Assemblea dichiara guerra al nuovo imperator Francesco II d’Asburgo, sotto la spinta dei gruppi moderati-
che auspicano in questo modo rafforzamento del nuovo regime- e dello stesso luigi XVI- nella speranza di
essere integrato nelle funzioni di sovrano con pieni poteri. La situazione si fa subito drammatica: mentre gli
eserciti imperiale e prussiano invadono il suolo francese, ancora una volta è la piazza a determinare
un’accelerazione del processo rivoluzionario. La folla di Parigi, assale il palazzo reale e costringe l’Assemblea
legislativa a ordinare deposizione e arresto di Luigi XVI sotto accusa di tradimento della patria e di tramare,
insieme agli invasori stranieri, per arrivare alla restaurazione dell'Antico Regime.

- La seconda fase, ovvero quella repubblicano-radicale 1792-1794, vide la prevalenza di un'alleanza


comprendente da una parte una nuova generazione di rivoluzionari non più nobile di estrazione,
proveniente spesso dalle province ed esercitante professioni liberali, quella dei Giacobini, che formavano il
“Comitato di salute pubblica”, un organo straordinario di 12 membri, fra i quali Robespierre e Saint-Just, e
altri esponenti montagnardi (la fazione più radicale dell’assemblea, detta della Montagna, della quale fanno
parte esponenti giacobini, cordoglieri e le fazioni estremiste dei cosiddetti arrabbiati e degli hebertisti) e dalla
temibile agitazione in piazza i sans-culottes, un il popolo degli artigiani e dei lavoratori di Parigi. Dichiarando
di voler arginare la guerra civile e la disgregazione della repubblica, questo organo decide l’eliminazione
fisica, sistematica di tutti gli avversari politici: è la fase del Terrore. Dopo essere stati sottoposti a processi
sommari dai tribunali rivoluzionari, sotto i colpi della ghigliottina cadono esponenti del passato regime
come la regina Maria Antonietta.

- La terza fase, ovvero quella repubblicano-moderata 1794-1799 cominciò quando gli stessi leader
Giacobini vennero accusati di tradimento e a loro volta ghigliottinati; l’organo politico-istituzionale posto al
vertice delle istituzioni francesi Direttorio, suprema magistratura esecutiva, che succedette a quello della
Convenzione nazionale, composto da cinque membri. Quest'ultima indicava il popolo come titolare della
sovranità, ma in concreto quale soggetto doveva occupare il trono lasciato a vuoto dopo la fine della
monarchia, impersonando il sovrano.

- La quarta fase, ovvero quella bonapartista, 1799-1814. La svolta fu possibile grazie a un uomo rimasto tra i
personaggi più importanti della storia francese, Napoleone Bonaparte, “erede imperfetto della
rivoluzione”, personaggio bifronte: da una parte egli è l’erede della rivoluzione che, contro le potenze
europee legittimiste che vogliono imporre il ritorno della dinastia borbonica in Francia, vuole garantire ai
francesi il diritto acquisito di scegliersi la propria forma di governo. Ma, d’altra parte, Napoleone
rappresenta un principio monarchico che, dopo la tempesta della rivoluzione, va riacquistando prestigio;
per molti francesi, stanchi delle faide e delle violenze della guerra civile, si tratta di affidare le redini ad un
uomo forte in grado di imporsi sulle due posizioni estreme presenti nel paese: i filo monarchici (che
desiderano il ritorno dei Borbone e la restaurazione della monarchia) e i cosiddetti giacobini (chiamati così
in ricordo del più famoso club di rivoluzionari), coloro che vogliono costruire una salda repubblica che
incarni i principi della rivoluzione. Consegui un enorme potere personale facendosi nominare “Primo
Console”, nel 1804 Napoleone venne proclamato imperatore dei Francesi, preoccupandosi di
legittimare il proprio ruolo tramite il consenso, espresso attraverso il plebiscito, della maggioranza
della popolazione. Il plebiscito è un istituto di democrazia diretta. Indica una votazione o una
deliberazione popolare su materie che hanno grande rilevanza costituzionale o politica e che si
riferiscono solitamente a mutamenti della forma di governo oppure dei confini territoriali di
una determinata compagine statale. Gli storici hanno chiamato questo fenomeno cesarismo, con
riferimento al regime di dirittura militare imposto nella Roma antica e che aveva posto fine, proprio
come Napoleone, all’esperienza del governo repubblicano.
Alle origini della nuova società
Feudalismo: Mentre a Parigi si insedia un nuovo governo municipale, espressione del movimento
rivoluzionario, dotato di una milizia armata, la guardia nazionale-guidata da un aristocratico liberale, La
Fayette, nelle campagne si diffuse un’ondata di sommosse contadine, detta grande paura, diretta a
sventare sul nascere la reazione aristocratica in tutto il paese i contadini assaltano i castelli, bruciano gli
archivi che contengono la documentazione dei diritti signorili e distruggono tutti i simboli del potere
feudale. In parte in risposta a questi avvenimenti nel 1789 la nobiltà feudale guida l’Assemblea nazionale a
proclamare l’abolizione del regime feudale. Tra 600 e 700 i feudali svolgevano in certi territori funzioni
pubbliche, come quelle amministrative e giudiziarie. La condizione giuridica dei feudi non era quella della
proprietà privata: il titolo era concesso solo a titolo di comodato: essi ne erano possessori, ma non
godevano della piena proprietà. Il destinatario del fedecommesso godeva dell’usufrutto generale dei beni
con l’obbligo di restituirli ai suoi successori. L’idea era che, per conservare inalterato l’insieme delle
proprietà nel passaggio tra le generazioni, i signori le trasmettevano così com’erano di padre in figlio,
privilegiando il maschio primogenito (maggiorasco). Per questo vigeva il divieto assoluto di ipoteca,
cessione, donazione e qualsiasi forma di suddivisione dell’asse patrimoniale. Il sistema concedeva, inoltre,
ai signori, diritti non solo sulle terre ma anche sulle persone che le popolavano. I contadini che le
coltivavano erano tenuti a versare somme di denaro o parti del raccolto e fornire giornate gratuite di
lavoro. I contadini però non erano schiavi. La rivoluzione francese espropriò, anche, enormi possedimenti
del clero, considerati di tipo feudale. Tali proprietà, definite beni nazionali, vennero vendute sia a membri
della borghesia provinciale sia a contadini.

Codificazione: il termine rimanda alla formazione di raccolte sistematiche e organiche di leggi chiamate
appunto codici. Il codice civile varato in Francia nel 1804 e riprodotto negli altri paesi a regime Napoleonico,
unificava sia la condizione giuridica degli individui che quella della proprietà e stabiliva che anche i proletari
potessero diventare proprietari; che le eredità toccassero in misura egualitaria a primogeniti e
secondogeniti, e che qualunque bene potesse essere ereditato, comprato, venduto e frazionato. Più in
generale, esso si fece portatore di molti principi del 1789, come l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge,
la laicità dello Stato, la libertà di coscienza, la libertà di lavoro, l’eguaglianza tra i figli legittimi in materia di
eredità, l’introduzione del divorzio, pur fornendo di questi principi un’interpretazione più restrittiva di
quella prodottasi negli anni della Rivoluzione, in particolare per ciò che concerneva il rafforzamento
dell’autorità maritale nei confronti delle donne. La tutela dei diritti individuali si fermava ai confini
dell’istituto familiare, comunità di cui anzi il Codice confermava la natura gerarchica, ribadendo il potere del
padre sui figli e del marito sulla moglie. Il sistema giuridico rifletteva una rigidità divisione dei ruoli e delle
sfere sociali per genere. La donna era esclusa della vita pubblica, dal mondo delle professioni, dagli studi
superiori e dal mondo degli affari.

Le idee del 1815


Con il congresso di Vienna avvenuto nel 1815 si apre quella che viene definita come “l'età della
restaurazione” in Europa.

Conservatorismo> La varante più radicale o reazionaria era quella legittimista che considerava L'Antico
regime prerivoluzionario come l'unico legittimo, e ne invocava la restaurazione. I personaggi che presero le
decisioni cruciali nel corso del Congresso di Vienna, a cominciare dal ministro austriaco Klemens von
Metternich, non puntavano a cieche reazioni, ma alla realizzazione di un ordine duraturo. Così sul primo
versante, ammisero alle sedute del Congresso persino i rappresentanti della Francia sconfitta, cui non
imposero condizioni di pace punitive, limitandosi a riportarla all’interno degli antichi confini.

Le tre maggiori potenze militari continentali – Russia, Austria e Prussia (ossia imperi zarista, asburgico e
monarchia prussiano) – tornarono a dominare tutta l’Europa, e si unirono in un’intesa (voluta dallo zar
Alessandro I), la Santa alleanza, al fine di impedire ogni tentativo di sovvertire le decisioni del Congresso – e
quindi le diverse restaurazioni dei “poteri legittimi”. In Francia e nei paesi che erano stati Vassalli di
Napoleone, le monarchie rimesse sul trono dal Congresso di Vienna lasciarono in vigore le riforme varate
nei 10-15 anni precedenti: quelli amministrative, quelle antifeudali e le codificazioni. In Spagna e a Napoli i
sovrani restaurati, che appartenevano a due diversi rami della dinastia borbonica, seguirono il modello
della monarchia amministrativa. Invece, il terzo re Borbonico, quello francese, già nel 1814 concede la
promulgazione di una carta costituzionale (nota come charte octroyée, appunto “carta concessa”) di
impronta moderatamente liberale, che prevede un parlamento bicamerale (in cui la Camera dei pari è di
nomina regia mentre la Camera dei deputati è eletta a suffragio censitario assai ristretto –e il sostanziale
controllo della corona sul governo, garantendo comunque una limitata tutela dei diritti individuali. Negli
anni della lotta contro le truppe francesi (1808) si era sviluppato in Spagna, accanto a quello legittimistico e
cattolico, un movimento di ispirazione liberale che coniugava alla lotta agli invasori con la richiesta di
riforme politiche in senso costituzionale. Questo movimento era culminato con la proclamazione a Cadice
nel 1812 di una costituzione di stampo liberale. Alla fine, però, dopo la sconfitta di Napoleone la
Costituzione fu ripudiata dal sovrano Ferdinando VII di Borbone che scelse la via dell'assolutismo. Per
ricondurre i suoi sudditi d'oltre oceano all’obbedienza, Ferdinando inviò un corpo di spedizione, che però
non riuscì nel suo compito, tanto che nel 1824 gli spagnoli dovettero rinunciare al loro Impero americano.
In Spagna nel 1820 viene formato un esercito da inviare a reprimere l’insurrezione nelle colonie americane.
Le truppe riunite nel porto di Cadice tuttavia sobillate da un gruppo di ufficiali affiliati alla setta dei
Communeros, guidati dal colonello Rafael de Rodrigo rifiutano di imbarcarsi e formano una giunta militare
che chiede il ripristino della costituzione del 1812. Ferdinando VII prima accettò poi rinnegò la prospettiva
costituzionalista; impedendo di fatto che la situazione politica si stabilizzasse, finì con l’innescare una
conflittualità anche armata sia tra legittimisti e liberali, sia tra liberali radicali e liberali moderati. Il cerchio si
chiuse nel 1822 col intervento restauratore che fu delegato dalle grandi potenze ai francesi.

Liberalismo il termine entrò nell'uso a partire dagli avvenimenti spagnoli, l'aggettivo 'liberale' entra nel
linguaggio politico solo con le Cortes di Cadice del 1812. Il liberalismo è espressione
dell'individualismo razionalistico, proprio della filosofia illuministica e in sede politica, del
più maturo giusnaturalismo. Il fulcro era costituito dalla salvaguardia dell’autonomia del
singolo di fronte a qualsiasi altro soggetto, dallo Stato ai gruppi sociali tradizionali. La
razionalità dell'individuo e la sua autonomia di giudizio e di azione diventarono i pilastri
concettuali e politici del pensiero liberale. Il paternalismo statale è grandemente rifiutato, lo Stato
deve mettere i cittadini nella condizione di preservare le loro scelte, intervenendo il meno possibile. Dal
punto di vista più specifico Il liberalismo: 1) sviluppa le idee di Locke sui diritti individuali e quelli di
Montesquieu sulla divisione dei poteri, nonché i principi-base della dichiarazione americana del 1776 e
francese del 1789; 2) chiede che questi principi siano garantiti da una Costituzione; 3) affida al parlamento il
compito di rappresentare la cittadinanza. Tra le più importanti conseguenze ne sottolineiamo due: -La
prima: il rifiuto del mandato imperativo, ovvero il deputato deve continuare a esercitare la propria
razionalità e quindi mantenere la propria libertà nei confronti delle indicazioni dei propri elettori. -La
seconda: il rifiuto del concetto di partito, ovvero non ci devono essere divisioni rigide tra le parti e il
deputato deve rappresentare l'intera cittadinanza.

Inoltre nel liberalismo di primo Ottocento si delinearono due principali tendenze:

-Tendenza moderata: i moderati si dichiaravano monarchici e attenti al mantenimento dell'ordine sociale.


Per i liberali moderati la monarchia appariva garanzia di imparzialità del governo della società, perché il re
non era elettivo, quindi non dipendeva da nessuno e non contraeva alcun debito per arrivare al potere. I
liberal- moderati avevano paura di affidare il potere politico alla plebe. Assumevano a modello la Gran
Bretagna. Essi erano per il bicameralismo: volevano cioè che all'assemblea elettiva, ovvero camera bassa, se
ne affiancasse una non elettiva, ovvero la camera alta riservata ad aristocratici.
L’idea era che solo le persone collocate ai vertici della società civile possedessero il livello di autonomia
personale e istruzione/informazione per partecipare al governo della nazione. Pagare una determinata
quota di tasse annue, saper leggere, scrivere e possedere una proprietà, erano dunque le tre capacità che
permettevano l'accesso al voto.

- Tendenza democratica: i democratici, il più delle volte, puntavano sul monocameralismo per due ragioni
sostanziali: perché convinti che il popolo fosse uno e avesse quindi bisogno di un’unica rappresentanza;
perché contrari ai privilegi dell'aristocrazia che giustificano l'esistenza delle camere alte. Per i democratici
andava ammesso al voto un numero di persone molto più elevato di quanto facessero i moderati, e di
condizione sociale anche più modesta: impiegati, bottegai, artigiani. Però anche molti democratici
pensavano che il voto andasse negato agli analfabeti. Essi consideravano l’uomo innanzitutto come
cittadino, ovvero come individuo che realizza se stesso in mezzo e insieme agli altri. Chi riesce nella vita
contrae un debito nei confronti dell’intera comunità che lo ha aiutato nella realizzazione del proprio
progetto. A differenza del liberalismo moderato, la democrazia repubblicana mette l'accento, oltre che sui
diritti anche sui doveri dei cittadini nei confronti degli altri cittadini. Questi, non sono altro che il modo in
cui il singolo paga il debito contratto con la società.

6. Nazioni e imperi, Occidente e Oriente


Il nazionalismo nasce in Europa in età napoleonica. Come il liberalismo, ha dietro di sé la grande esperienza
del 1789, e in particolare la Dichiarazione dei diritti che attribuisce a un’entità astratta (la nazione, appunto)
la sovranità già appartenente a un individuo concreto e tangibile come il monarca. La nazione quindi è da
intendere come un gruppo umano eterogeneo, frutto immaginario dell’idea di essere un’unica comunità
legata da valori, tenuto insieme da un vincolo di solidarietà. Gran Bretagna e Francia erano da tempo
organizzate in forma di stato unitario: il che voleva dire con un unico re e un'unica corte, con una stessa
capitale (rispettivamente Londra e Parigi). All'inizio del XIX secolo una percentuale elevata di abitanti
parlava una stessa lingua, che era quella ufficiale ed era in grado di leggerla e scriverla. Proprio comunanza
venne definita, al passaggio tra Sette e Ottocento, come nazione, ed è per questa ragione che possiamo
parlare sia della Gran Bretagna che della Francia come stati-nazione.

Più interessanti invece sono i casi cosiddetti di nazione senza Stato, ossia quei popoli in cui c’è già un
embrione di opinione pubblica, di movimento nazionale e solidarietà, ma a ciò non corrisponde uno Stato
unitario né le adeguate forme politiche. In queste condizioni stavano la Germania e l’Italia.

Imperi: erano creature tradizionali e tradizionaliste, che in quanto tali non si basava né sul popolo né sulla
Nazione. Legittimavano la sovranità riferendosi a un principio dinastico e religioso, in definitiva a Dio. Gli
imperi dell’Europa orientale sono spesso presentati come realtà molto composite, di fatto gli imperi zarista
asburgico e Ottomano si presentavano come variegati puzzle di genti parlanti lingue diverse e professanti
religioni diverse.

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