l'esistenza di un diritto universalmente valido fondato su una peculiare idea di natura che preesiste
a ogni forma storicamente assunta di diritto positivo.
Radicalmente opposte all’assolutismo hobbesiano sono invece le teorie contrattualistiche di Jhon Locke
Thomas Hobbes, nell’ambito della sua visione materialista, meccanicista ed individualista, esprime il
proprio pensiero in cui asserisce che ogni organismo mira a preservare il suo movimento vitale attraverso
l’autoconservazione. La sopravvivenza di ognuno costituisce il valore supremo, per cui si agisce
egoisticamente. L’individuo è sempre alla ricerca del suo bene. L’uomo desidera conservare la propria vita e
ottenere il massimo possibile in termini materiali. Nello stato di natura gli uomini esercitano liberamente i
propri diritti pacificamente e liberamente. Tuttavia, la precarietà di questa condizione induce l’uomo a
stipulare il contratto sociale. In questo quadro, il potere legislativo va separato, secondo Locke, da quello
esecutivo che deve essere subordinato al primo. La legge, infatti, non è espressione di una volontà dispotica
ed onnipotente; alla legge spetta il solo compito di ‘positivizzare’ i diritti naturali preesistenti dell’individuo
(libertà, uguaglianza e proprietà) riconoscendoli e garantendoli contro ogni arbitraria invadenza La visione
liberale di Locke ci presenta dunque l’immagine di uno Stato garantista in cui il Sovrano interviene solo per
tutelare la libertà ed i diritti naturali dell’individuo: non a caso il pensiero lockiano ebbe un’ampia incidenza
sullo sviluppo del costituzionalismo americano ed europeo.
Tale dottrina, pur accettando il concetto cristiano di un Dio unico, non ne ammetteva l’intervento
provvidenziale nel mondo, secondo le quali la vera religione è quella che postula l’esistenza di una
divinità trascendente conforme alla ragione umana e riconoscibile intuitivamente da tutti gli uomini, a
prescindere da ogni forma di rivelazione.
Le idee di Beccaria e Verri in campo giudiziario – Tra i frutti più importanti dell’Illuminismo italiano – come
abbiamo detto – vi sono le riflessioni di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, rispettivamente sulla pena di
morte e sulla tortura.
Gli argomenti di Beccaria contro la pena di morte – Beccaria parte dall’osservazione che lo scopo delle pene
non può essere la vendetta, ma quello di distogliere i cittadini dal commettere i delitti, esse cioè sono dei
deterrenti (dei freni, dei dissuasori, rispetto al delitto): “Il fine [della pena] non è altro che d'impedire al reo
di far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri da farne degli eguali”. Partendo da questo
presupposto, Beccaria ne fa derivare due importanti argomenti contro la pena di morte: 1) la pena di morte
non ha valore come deterrente perché non è tanto la durezza quanto la certezza della pena ad esercitare
un grande potere dissuasivo: “Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà della pena ma
l'infallibilità di essa”.
Allo stesso modo, non è tanto la durezza o crudeltà, ma l’estensione della pena ad esercitare un forte
potere deterrente: l’idea di una lunga detenzione ha un effetto deterrente maggiore rispetto all’idea di
morire.
La pena di morte non è un diritto, ma «una guerra della nazione con un cittadino». Non è dunque la pena di
morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un
cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non
essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. In definitiva, lo scopo
della pena è fare in modo che un danno commesso nei confronti della società non si ripeta
e di scoraggiarne altri: la pena non è più, nella visione di Beccaria, uno strumento per
"raddoppiare con altro male il male prodotto dal delitto commesso", ma uno strumento per
impedire che al male già arrecato se ne aggiunga altro ad opera dello stesso criminale o
ad opera di altri che dalla sua impunità potrebbero essere incoraggiati. La pena è un
mezzo di difesa, un mezzo di prevenzione sociale.
Postulò l’esistenza di un ordine naturale nel quale, se ciascuno è lasciato agire liberamente secondo il
proprio interesse particolare, necessariamente contribuisce al benessere collettivo e alla felicità generale,
secondo una provvidenziale volontà che domina le azioni dei singoli: un agire che va al di là delle originarie
intenzioni individuali e che appare guidato da quella che Smith chiama una «mano invisibile».