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Per giusnaturalismo (dal latino ius naturale, «diritto di natura») s'intende la dottrina che prevede

l'esistenza di un diritto universalmente valido fondato su una peculiare idea di natura che preesiste
a ogni forma storicamente assunta di diritto positivo.

Radicalmente opposte all’assolutismo hobbesiano sono invece le teorie contrattualistiche di Jhon Locke
Thomas Hobbes, nell’ambito della sua visione materialista, meccanicista ed individualista, esprime il
proprio pensiero in cui asserisce che ogni organismo mira a preservare il suo movimento vitale attraverso
l’autoconservazione. La sopravvivenza di ognuno costituisce il valore supremo, per cui si agisce
egoisticamente. L’individuo è sempre alla ricerca del suo bene. L’uomo desidera conservare la propria vita e
ottenere il massimo possibile in termini materiali. Nello stato di natura gli uomini esercitano liberamente i
propri diritti pacificamente e liberamente. Tuttavia, la precarietà di questa condizione induce l’uomo a
stipulare il contratto sociale. In questo quadro, il potere legislativo va separato, secondo Locke, da quello
esecutivo che deve essere subordinato al primo. La legge, infatti, non è espressione di una volontà dispotica
ed onnipotente; alla legge spetta il solo compito di ‘positivizzare’ i diritti naturali preesistenti dell’individuo
(libertà, uguaglianza e proprietà) riconoscendoli e garantendoli contro ogni arbitraria invadenza La visione
liberale di Locke ci presenta dunque l’immagine di uno Stato garantista in cui il Sovrano interviene solo per
tutelare la libertà ed i diritti naturali dell’individuo: non a caso il pensiero lockiano ebbe un’ampia incidenza
sullo sviluppo del costituzionalismo americano ed europeo.

Tale dottrina, pur accettando il concetto cristiano di un Dio unico, non ne ammetteva l’intervento
provvidenziale nel mondo, secondo le quali la vera religione è quella che postula l’esistenza di una
divinità trascendente conforme alla ragione umana e riconoscibile intuitivamente da tutti gli uomini, a
prescindere da ogni forma di rivelazione.

Coscienza europea crisi molti


mutamenti dello spirito pubblico europeo portano a una
revisione dello stato assoluto e delle sue basi autoritative. L’atteggiamento corrosivo nei
confronti delle certezze acquisite è tipico di tutte le generazioni degli illuministi.
Aforisma «Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani issati sulle spalle di giganti, cosicché
possiamo vedere più e più lontano di loro, non per l'acutezza dello sguardo o per la statura del corpo, ma
perché siamo sollevati in alto dalla loro mole gigantesca”. Dove si definisce l'idea della cultura come una
continua costruzione degli uomini, in cui i pensatori moderni, pur nani rispetto ai grandi fondatori del
sapere del passato, possono tuttavia sopravanzarli e progredire proprio in virtù delle acquisizioni
precedenti.

La favola delle api è un poemetto satirico dell'olandese Bernard de Mandeville. L'opera, che risente


delle idee libertine che si stavano sviluppando in Europa, vuol essere la critica di una società ipocrita,
avviata allo sviluppo industriale, che vuol presentarsi come virtuosa nascondendo i suoi vizi, i quali,
paradossalmente, sostiene Mandeville, sono necessari per il benessere collettivo della società. Delinea
un quadro satirico della società inglese pre-capitalistica. Nella metafora delle api, Mandevlle osserva la
capacità di un alverare di produrre il miele, pur essendo ogni ape mossa dalla ricerca del piacere
personale. In questo fenomeno naturale l'autore sottolinea le somiglianze con la società umana. Ogni
uomo è spinto al soddisfacimento dei propri bisogni che, a loro volta, hanno origine da deprecabili vizi
privati. Mandeville deduce che i vizi privati, nonostante siano moralmente deprecabili, sono alla base
dei benefici sociali (occupazione, lavoro, produzione, ecc.). Grazie ai vizi umani nascono i bisogni che
alimentano la domanda di mercato di beni e servizi eco.

La realizzazione culturale più significativa dell’Illuminismo francese fu un’opera collettiva, l’Enciclopedia o


Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Il filosofo Denis Diderot ( ) e il matematico Jean-
Baptiste D’Alembert furono i coordinatori del progetto; per la sua realizzazione fu indetta una
sottoscrizione, che raccolse duemila adesioni e la collaborazione dei migliori specialisti delle singole
materie. Lo stesso Diderot stese numerosissime voci (un migliaio circa). Nel 1751 fu pubblicato il primo
volume, venduto anche a fascicoli e in abbonamento. La Chiesa, con i gesuiti, tentò di affossare quel
progetto culturale, per il suo carattere non dogmatico e laico, e nel 1752 ne proibì la vendita e mise
all’Indice l’opera; ma la pubblicazione continuò fino al 1772.

Le idee di Beccaria e Verri in campo giudiziario – Tra i frutti più importanti dell’Illuminismo italiano – come
abbiamo detto – vi sono le riflessioni di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, rispettivamente sulla pena di
morte e sulla tortura.

Gli argomenti di Beccaria contro la pena di morte – Beccaria parte dall’osservazione che lo scopo delle pene
non può essere la vendetta, ma quello di distogliere i cittadini dal commettere i delitti, esse cioè sono dei
deterrenti (dei freni, dei dissuasori, rispetto al delitto): “Il fine [della pena] non è altro che d'impedire al reo
di far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri da farne degli eguali”. Partendo da questo
presupposto, Beccaria ne fa derivare due importanti argomenti contro la pena di morte: 1) la pena di morte
non ha valore come deterrente perché non è tanto la durezza quanto la certezza della pena ad esercitare
un grande potere dissuasivo: “Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà della pena ma
l'infallibilità di essa”.

Allo stesso modo, non è tanto la durezza o crudeltà, ma l’estensione della pena ad esercitare un forte
potere deterrente: l’idea di una lunga detenzione ha un effetto deterrente maggiore rispetto all’idea di
morire.

La pena di morte non è un diritto, ma «una guerra della nazione con un cittadino». Non è dunque la pena di
morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un
cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non
essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. In definitiva, lo scopo
della pena è fare in modo che un danno commesso nei confronti della società non si ripeta
e di scoraggiarne altri: la pena non è più, nella visione di Beccaria, uno strumento per
"raddoppiare con altro male il male prodotto dal delitto commesso", ma uno strumento per
impedire che al male già arrecato se ne aggiunga altro ad opera dello stesso criminale o
ad opera di altri che dalla sua impunità potrebbero essere incoraggiati. La pena è un
mezzo di difesa, un mezzo di prevenzione sociale.
Postulò l’esistenza di un ordine naturale nel quale, se ciascuno è lasciato agire liberamente secondo il
proprio interesse particolare, necessariamente contribuisce al benessere collettivo e alla felicità generale,
secondo una provvidenziale volontà che domina le azioni dei singoli: un agire che va al di là delle originarie
intenzioni individuali e che appare guidato da quella che Smith chiama una «mano invisibile».

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