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Brad Pitt 

presta il volto ad uno dei più bei ruoli della sua maturazione, in un film inusualmente
sportivo che racconta la reale parabola di successo e sconfitte di una squadra di baseball.

Billy Beane è il general manager degli Oakland Athletics, un team di baseball che non riesce ad
emergere e ai quali brucia ancora una logora sconfitta con i New York Yankees. Beane decide di
rivoluzionare la squadra e dare un assetto nuovo, per farlo s’inventa una politica molto impopolare,
ovvero vendere i pezzi da 90 e puntare tutto su un giovane talento, Peter Brand il quale, non è una
stella del baseball ma, bensì, un ragazzo laureato a Yale che ha messo a punto un sistema informatico
infallibile per scovare i giocatori migliori. Il sistema di Brand si basa sulle schedature dei giocatori, in
base al rendimento e alle percentuali che indicano il numero di volte in cui è stata raggiunta una base
senza aiuto di penalità. Nessuno, fra dirigenza e allenatore, sembra credere in questa folle impresa,
rendere uno sport come il baseball uno schema meccanico, e in realtà neanche Beane ci confida molto,
ma sa che può contare sulla forza della squadra. L’inizio è duro, ma le vittorie e i traguardi non si fanno
aspettare a lungo, talmente tanto che quando il general manager viene messo di fronte ad una
decisione importante, opta per quella meno scontata, perché, come dice lui: “non si può non essere
romantici quando si parla di baseball”.

“L’arte di vincere” è tratto dall’opera di Michael Lewis, e narra la vera storia degli Oakland Athletics e
del loro manager Billy Beane, ci si sbaglia se si crede che questa pellicola possa correre il rischio di
essere considerato l’ennesimo film sportivo. Questa pellicola, diretta da Bennett Miller, rappresenta
attraverso il gioco del baseball, alcune dinamiche della società americana, amplificando e puntando
l’attenzione su quei conflitti che risultano essere più insidiosi.

Brad Pitt, incantevole personificatore di Billy Beane, rappresenta tutte le caratteristiche dell’antieroe
americano, lui è l’opposto del sogno americano, mangiatore compulsivo, insicuro, e poco consapevole
del suo talento, oscilla continuamente fra i successi e le sconfitte, in un limbo di incertezza, ma è anche
un uomo che tiene il punto sui suoi ideali, che conserva quella sana follia che gli fa puntare tutto su
un’idea perdente sin dall’inizio, vincendo.

Ad affiancarlo c’è il complicato rapporto con la figlia adolescente, e i meravigliosi dialoghi con Brand,
ovvero Jonah Hill, i due sono i nervi e la spina dorsale del film, mentre sicuramente meritava più spazio
il coach Rowe, interpretato da Philip Seymour Hoffman (reduce dal successo di “Le idi di marzo”).

Quello che Miller ha sapientemente rappresentato, è il non cadere in facili sentimentalismi quando si
tratta un argomento come quello sportivo, dove ci hanno abituato alla classica morale finale, con il
buono che prevarica sul cattivo, la lacrima facile, e l’insegnamento portato a casa. Il regista opta per
una compostezza inusuale, un’asciutta rappresentazione, dove la tensione c’è ma non esplode, dove la
sceneggiatura firmata da Aaron Sorkin e Steven Zaillian, decide di puntare sui dialoghi pungenti fra i
protagonisti, pause lunghissime, musiche importanti e splendidi piani sequenza. Un uomo solo Beane,
di una solitudine palpabile, solo nella sua follia di credere in qualcosa d’irrealizzabile, ma proprio per
questo ancor più speciale.

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