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Il precariato è sicuramente uno dei flagelli della nostra epoca, per tutti i lavoratori e in particolare

per i giovani. La Riforma del Lavoro approvata lo scorso 27 giugno dalla Camera avrebbe dovuto,
nelle intenzioni dichiarate dal ministro Fornero e dal governo, mettere in atto meccanismi per
migliorare la situazione e le condizioni di vita di chi non può avere prospettive economiche che
possano andare al di là di qualche mese (nei migliori dei casi). Non la pensa così il famoso blog di
San Precario, che denuncia come alcune misure approvate vadano in realtà contro i precari stessi.
E non la pensa così neanche il direttore generale di Confcommercio, Francesco Rivolta, che,
a margine dell'incontro "Fondata sul lavoro" organizzato da Il Diario del Lavoro, ha definito la
riforma una grandissima occasione sprecata "innanzitutto perché non è questo il momento per
pensare di modificare gli ammortizzatori sociali con 2 milioni e 800 mila persone che cercano
lavoro, con mobilità e licenziamenti in corso." e ha aggiunto "Noi non confondiamo la precarietà
con il lavoro a tempo determinato." e ancora "il ministro Fornero si occupi soprattutto della pubblica
amministrazione perché la più grande fabbrica di disoccupazione e lavoro precario è proprio la
pubblica amministrazione". Dichiarazioni destinate sicuramente a far discutere, ma che dovrebbero
soprattutto far riflettere.
Ma cosa si intende realmente per lavoro precario? Il precariato è ormai quasi più una
condizione esistenziale che una semplice forma di contratto lavorativo. Anche perché di
contratti che si possono definire "a termine" ne esistono moltissimi, in vari settori e di diversa
natura. I principali sono il contratto a progetto (quello che un tempo era il famoso co.co.co.),
il contratto a tempo determinato (che, per il tempo della sua durata, almeno in genere offre le
stesse garanzie di quello a tempo indeterminato) e le cosiddette finte partite IVA (che nella quasi
totalità dei casi un contratto non ce l'hanno neanche). Ci sono poi tirocini, stage, contratti di
inserimento, apprendistato e così via, tutte forme caratterizzate dall'elemento comune della
mancanza di continuità del rapporto di lavoro (e spesso di adeguate condizioni lavorative)
che porta all'insicurezza economico-sociale e all'impossibilità di poter progettare un futuro
per il lavoratore.
Il precariato è stato introdotto in Italia con la legge 196 del 1997, il Pacchetto Treu, che ha
legalizzato le agenzie interinali con l'obiettivo di favorire l'occupazione, che all'epoca si intendeva
principalmente a tempo indeterminato. Ma poi si è cominciato a battere sul tema
della flessibilità (parola molto meno inquietante di "precarietà") con una vera e propria operazione
di martellamento culturale votata a far percepire il lavoro flessibile come una necessità ineludibile
del nuovo mercato del lavoro globalizzato. Un'operazione culturale potentissima che è poi sfociata
nella legge 30 del 2003, comunemente detta Legge Biagi, che ha introdotto 47 tipologie di
contratti "flessibili". Ma se la flessibilità è sicuramente un valore per quei professionisti che
possono volontariamente costruire la propria carriera accettando incarichi diversi all'interno della
stessa azienda o per aziende diverse (e in luoghi diversi) nel corso della propria vita, questa
stessa flessibilità diventa precariato laddove le forme di lavoro a termine vengono utilizzate dai
datori di lavoro semplicemente per aggirare le norme sui licenziamenti (che in questo modo
diventano semplicemente non rinnovare più il contratto), tenere costantemente i lavoratori sotto il
ricatto del rinnovo della collaborazione (che spesso ha durata di pochi mesi) e pagare meno
contributi. Magari per poter offrire un compenso più alto ai manager e ai dirigenti, anch'essi, molto
spesso, assunti con contratti a termine, ma con ben altre condizioni e trattamenti economici
rispetto alla massa dei lavoratori comuni. Già, perché una delle condizioni che dovrebbe
contraddistinguere l'accettazione di un lavoro a termine (che quindi non offre garanzie di
continuità) dovrebbe essere una remunerazione più alta rispetto al lavoratore assunto a tempo
indeterminato, anche per poter affrontare con maggior sicurezza gli intervalli di disoccupazione tra
un lavoro e l'altro. Ma chiunque viva nella realtà sa benissimo che così non è. Anzi,in Italia gli
stipendi sono mediamente più bassi rispetto ad altri stati europei e soprattutto i precari sono
obbligati, proprio per l'impossibilità di accumulare un minimo risparmio, ad accettare
compensi molto inferiori a quello che sarebbe il reale valore delle mansioni svolte e spesso
anche condizioni di lavoro proibitive o per lo meno frustranti.
Fa capitolo a sé quello del lavoro nero, precario per sua stessa natura, ma che si porta dietro tutta
un'altra serie di problematiche aggiuntive per quanto riguarda la sicurezza, la legalità e i margini di
sfruttamento.

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