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La Bibbia non contiene un trattato su Dio, non si pone a distanza come per descrivere un
oggetto, non ci invita a parlare di Dio, ma ad ascoltarlo parlare ed a rispondergli confessando la sua
gloria e servendolo. A condizione di rimanere nell’obbedienza e nel ringraziamento, è possibile
formulare ciò che Dio dice di se stesso nella Bibbia. Dio non parla di sé allo stesso modo nel VT e nel
NT, quando si volge a noi mediante i suoi profeti e mediante il Figlio suo (Ebr 1, 1 s). Più che su
qualunque altro oggetto, la distinzione tra il VT e il NT si impone qui in modo rigoroso, perché
«nessuno mai ha visto Dio; soltanto il Figlio unico che è nel seno del Padre lo ha fatto conoscere» (Gv
1, 18). Come bisogna rigettare l’opposizione eretica tra il Dio vendicativo del VT ed il Dio buono del
NT, così bisogna tener fermo che *Gesù Cristo solo ci rivela il segreto dell’unico Dio dei due
testamenti.
VT
I. DIO E PRIMO
Fin «dall’inizio» (Gen 1, 1; Gv 1, 1), Dio esiste e la sua esistenza si impone come un fatto
iniziale, che non ha bisogno di alcuna spiegazione. Dio non ha né origine, né divenire; il VT ignora le
teogonie che, nelle religioni dell’Oriente antico, spiegano la costruzione del mondo con la genesi degli
dèi. Poiché egli solo è «il primo e l’ultimo» (Is 41, 4; 44, 6; 48, 12), il mondo tutto inteso è opera sua,
sua *creazione. Essendo il primo, Dio non ha bisogno di presentarsi, si impone allo spirito dell’uomo
per il solo fatto di essere Dio. Non si suppone mai una scoperta di Dio, un cammino progressivo
dell’uomo che termina con l’affermazione della sua esistenza. Conoscerlo, significa essere conosciuto
(cfr. Am 3, 2) e scoprirlo alla fonte della propria esistenza; fuggirlo, significa ancora sentirsi
perseguitato dal suo sguardo (Gen 3, 10; Sal 139, 7). Poiché Dio è il primo, dal momento che si fa
conoscere, la sua personalità, le sue reazioni, i suoi disegni sono nettamente dichiarati. Per poco che si
sappia di lui, fin dal momento in cui lo si scopre, si sa che Dio vuole qualche cosa di preciso e sa
esattamente dove va e quel che fa. Questa anteriorità assoluta di Dio è espressa nelle tradizioni del
Pentateuco in due modi complementari. La tradizione detta jahvista mette in scena Jahvè fin dall’inizio
del mondo e, ben prima dell’episodio del roveto ardente, lo mostra in atto di perseguire il suo unico
*disegno. Le tradizioni elohiste sottolineano invece la novità che la rivelazione del *nome divino a
Mosè apporta, ma notano nello stesso tempo che, sotto vocaboli diversi, che sono quasi sempre epiteti
del nome divino El, Dio si era già fatto conoscere. Di fatto Mosè non può riconoscere Jahvè come il
vero Dio se non conosce già, oscuramente ma nettamente, Dio. Questa identità del Dio della ragione e
del Dio della *rivelazione, questa priorità di Dio, presente allo spirito dell’uomo non appena si
risveglia, è caratterizzata in tutta la Bibbia dalla identificazione immediata e costante tra Jahvè ed
Elohim, tra il Dio che si rivela ad Israele ed il Dio che le *nazioni possono nominare. Perciò Jahvè,
tutte le volte che si rivela presentandosi, si nomina e si definisce pronunziando il nome di El/Elohim,
con tutto ciò che esso evoca: «il Dio del tuo padre» (Es 3, 6), «il Dio dei vostri padri» (Es 3, 15), «il
vostro Dio» (Es 6, 7), «Dio di misericordia e di pietà» (Es 34, 6), «il tuo Dio» (Is 41, 10; 43, 3), o
semplicemente «Dio» (1 Re 18, 21. 36 s). Tra il nome di Dio e quello di Jahvè si stabilisce una
relazione viva, una dialettica: per potersi rivelare come Jahvè, il Dio di Israele si pone come Dio, ma,
rivelandosi come Jahvè, dice in modo assolutamente nuovo chi è Dio e ciò che è.
II. EL, ELOHIM, JAHVE
Nella pratica, El è l’equivalente arcaico e poetico di Elohim; come Elohim, come la nostra
parola Dio, El è ad un tempo nome comune, che designa la divinità in genere, e nome proprio, che
designa la persona unica e definita che è Dio. Elohim è un plurale; non un plurale di maestà - l’ebraico
lo ignora, - e neppure sopravvivenza politeistica, inverosimile nella mentalità ebraica su un punto così
sensibile; ma probabilmente traccia di una concezione semitica comune, che vede il divino come una
pluralità di forze.
1. El. - El è conosciuto e adorato fuori di Israele. Come nome comune designa la divinità in
quasi tutto il mondo semitico; come nome proprio è quello di un grande dio che pare sia stato dio
supremo nel settore occidentale di questo mondo, particolarmente in Fenicia e in Canaan. El fu, fin
dalle origini semitiche, un dio comune, supremo ed unico, la cui religione, pura ma fragile, sarebbe
stata più tardi eclissata da un politeismo più seducente e corrotto? Fu piuttosto il dio capo e guida dei
diversi clan semiti, dio unico per ciascun clan, ma non in grado di far prevalere la sua unicità quando si
scontrava con altri gruppi, declassato poi ad una delle figure del pantheon pagano? Questa storia è
oscura, ma il fatto certo è che i patriarchi sotto diversi epiteti, El ‘Eljôn (Gen 14, 22), El Roj (16, 13),
El Šaddaj (17, 1; 35, 11; 48, 3), El Bethel (35, 7), El ‘Olam (21, 33), chiamano il loro Dio El, e che
particolarmente nel caso di El ‘Eljôn, il dio di Melchisedech, re di Salem, questo El è presentato come
identico al Dio di Abramo (14, 20 ss). Questi fatti non mostrano soltanto che il Dio di Israele è il
«giudice di tutta la terra» (18, 25), ma anche che è suscettibile di essere riconosciuto ed effettivamente
adorato come il vero Dio persin fuori del popolo eletto. Tuttavia questo riconoscimento è eccezionale;
nella maggioranza dei casi gli dèi delle nazioni non sono dèi (Ger 2, 11; 2 Re 19, 18). El/Elohim
praticamente non è riconociuto come il vero Dio che rivelandosi al suo popolo sotto il nome di Jahvè.
La personalità unica di Jahvè dà al volto divino, sempre più o meno sbiadito e costantemente sfigurato
dai diversi paganesimi, una consistenza ed una vita che si impongono.
2. *Jahve. - In Jahvè Dio rivela ciò che egli è e ciò che egli fa, il suo nome e la sua azione . La
sua azione è meravigliosa, inaudita, e il suo nome misterioso. Mentre le manifestazioni di El ai
patriarchi avvengono in paesi familiari, sotto forme semplici e note, Jahvè si rivela a Mosè nella
cornice selvaggia del *deserto e nella miseria dell’esilio, sotto la figura terribile del *fuoco (Es 3, 1-
15). La rivelazione complementare di Es 33, 18, 23; 34, 1-7 non è meno terrificante. Tuttavia questo
Dio dalla santità consumante è un Dio di fedeltà e di salvezza. Egli si ricorda di Abramo e dei suoi
discendenti (3, 6), è attento alla miseria degli Ebrei in Egitto (3, 7), deciso a liberarli (3, 8) e a fare la
loro felicità. Il nome di Jahvè, sotto il quale si manifesta, risponde all’opera che persegue. Certamente
questo nome racchiude un *mistero; dice di per sé qualcosa di inaccessibile: «lo sono chi sono» (3, 14);
nessuno lo può contenere, e neppure penetrare. Ma dice pure qualcosa di positivo, una *presenza
straordinariamente attiva e attenta, una *potenza invulnerabile e liberatrice, una promessa inviolabile:
«Io sono».
III. DIO PARLA DI SE
Jahvè è l’eco, ripetuta dagli uomini in terza persona, della *rivelazione fatta da Dio in prima
persona: hejeh, «Io sono». Questo nome, che dice tutto, Dio stesso lo commenta costantemente con le
diverse formule che dà di se stesso.
1. Dio vivente. - La formula «Io sono vivente» in bocca a Dio è forse una creazione tardiva di
Ezechiele; in ogni caso è l’eco di una formula antichissima e popolarissima della fede di Israele:
«Jahvè è vivente» (Giud 8, 19; 1 Re 17, 1...). Essa esprime bene l’impressione che ha l’uomo dinanzi a
Jahvè, quella di una presenza straordinariamente attiva, di una spontaneità immediata e totale «che non
si stanca né si affanna» (Is 40, 28), «che non dorme né sonnecchia» (Sal 121, 4), che reagisce
istantaneamente non appena si toccano i suoi (1 Sam 17, 26. 36; Os 2, 1; Dan 6, 21). Il suo linguaggio
all’Horeb, nell’istante in cui egli rivela il suo nome, rende bene questa intensità di *vita, questa
attenzione alla sua opera: «Io ho visto... ho prestato orecchio... conosco... sono deciso... ti mando» (Es
3, 7-10); 1’«Io sono», che queste esplosioni preparano, non può essere meno dinamico di esse.
2. Dio santo. - «Io giuro per la mia santità» (Am 4, 2), «Io sono il santo» (Os 11, 9). Questa
vitalità irresistibile e non di meno tutta interiore, questo ardore che divora e nello stesso tempo fa
vivere, è la *santità. Dio è santo (Is 6, 3), il suo nome è santo (Am 2, 7; Lev 20, 3; Is 57, 15...) e lo
splendore della sua santità santifica il suo popolo (Es 19, 6). La sua santità apre dinanzi a Dio un abisso
invalicabile per ogni creatura; nessuna può sostenere la sua vicinanza, il firmamento vacilla, le
*montagne si liquefanno (Giud 5, 4 s; Es 19, 16...) ed ogni *carne trema, non soltanto l’uomo
peccatore che si vede perduto, ma persino i serafini di fiamma, indegni di comparire dinanzi a Dio (Is
6, 2).
3. ≪Io sono un Dio geloso≫ (Es 20, 5). - Lo *zelo geloso di Dio è un altro aspetto della sua
intensità interiore. È la passione ch’egli porta in tutto quel che fa ed in tutto quel che tocca. Egli non
può sopportare che una mano estranea venga a profanare tutto ciò che gli sta a cuore, tutto ciò che la
sua attenzione «santifica» e rende sacro. Non può soffrire che nessuna delle sue imprese fallisca (cfr.
Es 32, 12; Ez 36, 22...), non può «cedere la sua gloria a nessuno» (Is 48, 11). Quando i profeti
scoprono che questa passione di Dio per la sua opera è quella di uno *sposo, il tema assume
un’intensità e un’interiorità nuove. La gelosia divina è *ira terribile e nello stesso tempo vulnerabile
tenerezza.
4. ≪Non avrai altro Dio all’infuori di me≫ (Es 20, 3). La gelosia di Dio ha come oggetto
essenziale «gli altri dèi.». Il monoteismo israelitico non è il frutto né di una riflessione metafisica, né di
una integrazione politica, né di una evoluzione religiosa; è un’affermazione della fede, ed in Israele è
antico come la fede, cioè come la certezza della sua *elezione, di essere stato, tra tutti i popoli, scelto
da un Dio al quale tutti i popoli appartengono. Questo monoteismo della fede ha potuto per molto
tempo conciliarsi con rappresentazioni che implicavano l’esistenza di «altri dèi», ad es. di Chemosh in
Moab (Giud 11, 23 s), o l’impossibilità di adorare Jahvè fuori delle frontiere della «sua eredità» (1 Sam
26, 19; 2 Re 5, 17). Ma fin dalle origini Jahvè non può sopportare presenze competitrici e tutta la storia
di Israele svolge le sue *vittorie sui suoi rivali, gli dèi d’Egitto, i Baal di Canaan, le divinità imperiali
di Assur e di Babilonia, fino al trionfo definitivo che fa apparire chiaro il nulla dei falsi dèi. Trionfo
che è acquistato a volte per mezzo dei miracoli, ma che è in permanenza quello della fede. Geremia,
che annunzia la rovina totale di Giuda e di Gerusalemme, nota col tono di una semplice osservazione
che gli dèi delle nazioni «non sono neppure dèi» (Ger 2, 11), ma «degli inesistenti» (5, 7). In pieno
esilio, dinanzi agli splendori della *idolatria, di mezzo ad un popolo vinto e disonorato prorompono le
affermazioni definitive: «Prima di me non fu formato alcun dio e non ve ne sarà dopo di me; io, io
sono Jahvè, non c’è altro salvatore all’infuori di me» (Is 43, 10 s...). Il ricordo dell’Horeb appare
evidente, e la continuità spirituale tra testi così profondamente diversi è significativa: Jahvè è il solo
Dio perché è il solo capace di «mortalmente», si è perché mette in dubbio la sua capacità e la sua
volontà di *salvezza, perché nega che egli sia sempre presente ed attivo, che sia Jahvè.
5. ≪Io sono Dio e non uomo≫ (Os 11, 9). - Dio è assolutamente diverso dall’uomo; è *spirito,
mentre l’uomo è *carne (cfr. Is 31, 3), fragile e perituro come l’erba. (Is 40, 7 s). Questa differenza è
così radicale che l’uomo l’interpreta sempre in modo falso. Nella *potenza di Dio vede la *forza
efficace, ma non la *fedeltà del cuore (cfr. Num 23, 19), nella sua *santità non vede che distanza
invalicabile, senza sospettare che essa è nello stesso tempo vicinanza e tenerezza: «In mezzo a te io
sono il santo e non amo distruggere» (Os 11, 9). La trascendenza incomprensibile di Dio fa sì che egli
è nello stesso tempo «l’altissimo» nella sua «*dimora (cfr. *rimanere) alta e santa», e colui «che abita
con l’uomo contrito ed umiliato» (Is 57, 15). Egli è l’onnipotente ed il Dio dei poveri, fa risuonare la
sua voce nello strepito dell’uragano (Es 19, 18 ss) e nel mormorio della brezza (1 Re 19, 12), è
invisibile e neppure Mosè ha visto la sua faccia (Es 33, 23), ma, facendo appello, per rivelarsi, ai
riflessi del cuore umano, apre il suo proprio cuore; vieta ogni sua rappresentazione, ogni *immagine di
cui l’uomo farebbe un *idolo adorando l’opera delle sue mani, ma si offre alla nostra immaginazione
sotto i tratti più concreti; egli è «il completamento diverso» che sfida tutti i paragoni (Is 40, 25), ma sta
di casa dovunque e non è per noi un estraneo; le sue reazioni ed il suo modo di comportarsi si
traducono con i nostri atti più familiari «egli plasma» con le sue mani l’argilla che sarà l’uomo (Gen 2,
7), chiude dietro Noè la porta dell’arca (Gen 7, 16) per essere sicuro che nessuno dei suoi abitanti si
perda; ha lo slancio trionfante del guerriero (cfr. *guerra) (Es 15, 3...) e la sollecitudine del *pastore
per i suoi animali (Ez 34, 16); tiene l’universo nelle mani, ed ha per il minuscolo Israele l’attaccamento
del vignaiolo per la sua *vigna (Is 5, 1-7), la tenerezza del padre (Os 11, 1) e della madre (Is 49, 15), la
passione dell’uomo che ama (Os 2, 16 s). Gli antropomorfismi possono essere ingenui, ma esprimono
sempre in modo profondo un tratto essenziale del vero Dio: se ha creato l’uomo a sua *immagine, è
capace di rivelarsi attraverso reazioni di uomo. Senza genealogia, senza sposa, senza sesso, se egli è
diverso da noi, ciò non vuol dire che sia meno uomo di noi, ma, al contrario, è in perfezione l’ideale
che noi sogniamo dell’uomo: «Dio non è un uomo per mentire, né un figlio d’uomo per pentirsi» (Num
23, 19). Sempre Dio ci supera, e sempre nella direzione in cui meno ce l’aspetteremmo.
V. DIO E SPIRITO
Questo incontro del Padre e del Figlio avviene nello *Spirito Santo. Nello Spirito Gesù Cristo
sente il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio» e riceve la sua gioia (Mc l, 10). Nello Spirito egli fa
risalire al Padre la gioia d’essere il Figlio (Lc 10, 21 s). Come non può unirsi al Padre se non nello
Spirito, Gesù Cristo non può neppure rivelare il Padre senza rivelare nello stesso tempo lo Spirito
Santo. Rivelando che lo Spirito è una persona divina, Gesù Cristo rivela pure nello stesso tempo che
«Dio è spirito» (Gv 4, 24), e quel che ciò significa. Se il Padre ed il Figlio si uniscono nello Spirito, è
perché non si uniscono per godere l’uno dell’altro nel possesso, ma nel *dono; è perché la loro unione
è un dono, e produce un dono. Ma se lo Spirito che è dono *suggella in tal modo l’unione del Padre e
del Figlio, è perché nella loro essenza essi sono dono di se stessi, perché la loro comune essenza è di
donarsi, di esistere nell’altro. Ora questa potenza di vita, di comunicazione e di libertà è lo *spirito.
Dio è spirito, e ciò vuol dire ch’egli è nello stesso tempo onnipotenza e onnidisponibilità, sovrana
affermazione di se stesso e totale distacco, vuol dire che, prendendo possesso delle sue creature, le fa
esistere in tutta la loro originalità. È ben altro che non essere fatto di materia; è sfuggire a tutte le
barriere, a tutti i ripiegamenti, è essere eternamente e ad ogni istante forza nuova ed intatta di vita e di
comunione.
J. GUILLET