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INSEGNAMENTO DI

DIRITTO DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE

LEZIONE IV
“I LIMITI ALLA LIBERTÀ DI COMUNICAZIONE”

PROF. ERNESTO PALLOTTA


Diritto dei Mezzi di Comunicazione Lezione IV

Indice

1 I limiti alla cronaca giudiziaria ------------------------------------------------------------------------- 3

2 Il buon costume -------------------------------------------------------------------------------------------- 6

3 La responsabilità penale per i delitti commessi contro l’ordine pubblico --------------------- 9

4 I limiti riguardanti i diritti alla riservatezza, all’onore, all’identità personale ------------- 13

4.1 La tutela dei sentimenti religiosi --------------------------------------------------------------------- 15

5 Le intercettazioni telefoniche -------------------------------------------------------------------------- 17

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 I limiti alla cronaca giudiziaria


È importante per la collettività avere informazioni su eventi giudiziari per poter conoscere
chi sia l‟autore e per quali cause ha agito contro l‟ordine precostituito, per poter controllare la
reazione degli organi dello Stato preposti al controllo e alla punizione dei trasgressori, per misurare
e comparare il disvalore sociale, etico, giuridico che si accompagna alle manifestazioni di
trasgressione emergenti nei vari livelli sociali. Nell‟ambito della cronaca giudiziaria l‟importanza
degli interessi in gioco fa sì che il legislatore abbia direttamente posto dei limiti ex lege alla
divulgazione e pubblicazione di notizie e informazioni, la qual cosa ha lo scopo di rendere la
giustizia imparziale, di proteggere l‟indagato da ingerenze pubbliche eccessive, e di evitare che si
possano celebrare dei veri e propri processi mediatici, nei quali la persona sia direttamente
condannata dall‟opinione pubblica.
Sono previste due tipologie di limiti: quelli previsti per la tutela del procedimento
giudiziario e quelli che mirano ad evitare ingiustificati attacchi alla reputazione della persona
indagata, imputata o condannata.
Nel codice penale, l‟art. 684 (norma che deve essere integrata dagli arti 114 e 329 c.p.p.)
punisce la pubblicazione, anche attraverso un riassunto, di atti o documenti (di cui sia vietata per
legge la pubblicazione) di un procedimento penale, prevedendo per i trasgressori l‟arresto fino a
trenta giorni o con l‟ammenda da lire centomila a cinquecentomila.
Questa disposizione fa riferimento per la sua integrazione agli articoli del codice di
procedura penale posti a tutela della segretezza delle indagini.
L‟art. 114 riguarda in generale il divieto di pubblicazione “con il mezzo della stampa o con
ogni altro mezzo di diffusione” degli atti ricoperti dal segreto, o del loro contenuto.
L‟art. 329 dà invece una definizione del segreto e degli atti da esso coperti. Proprio l‟art. 114
c.p.p. è stato oggetto di un giudizio di fronte alla Corte Costituzionale, per contrasto con l‟art. 21
Cost. (sent. n. 59/1995): il giudizio di legittimità fu sollevato con riguardo alla parte dell‟art. 114 in
cui si vieta la pubblicazione – anche parziale – degli atti del fascicolo per il dibattimento fino alla
pronuncia della sentenza di primo grado. Il giudice remittente (il g.i.p. di Siracusa) riteneva che il
terzo comma dell‟articolo in esame ponesse una distinzione “irragionevole ed ontologicamente
incerta tra “pubblicazione di atti” (vietata) e “pubblicazione del contenuto di atti” (lecita)”,
realizzando una ingiustificata disparità di trattamento tra due situazioni sostanzialmente

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assimilabili, e violando il principio della libertà di stampa sancito dall‟art. 21 della Costituzione.
La Corte ha sottolineato che la ratio di questa norma è di limitare la divulgazione degli atti
d‟indagine, per evidenti esigenze investigative, ma la sua estensione agli atti del dibattimento non
ha senso, in quanto le esigenze di riservatezza in questa fase del procedimento sono esaurite.
“L‟analiticità con cui il delegante ha inteso precisare i casi di divieto di pubblicazione degli atti -
evidentemente indicativa del rifiuto di introdurne ulteriori, in rispetto del principio sancito dall‟art.
21 della Costituzione - impedisce che in sede di attuazione il legislatore delegato possa pervenire a
tale risultato, tanto più ove si consideri che le motivazioni addotte per giustificarlo (corretta
formazione del convincimento del giudice) non possono ragionevolmente riferirsi alla
pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, concernente, per definizione,
gli atti che il giudice deve conoscere”. Venne per queste ragioni dichiarata costituzionalmente
illegittima la parte dell‟art. 114 c.p.p. limitatamente alle parole: “del fascicolo per il dibattimento, se
non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli”.
I limiti che vengono posti dal legislatore per fini processuali (segretezza delle indagini) e per
fini extraprocessuali (tutela dell‟immagine dell‟indagato, si veda in particolar modo la disposizione
dell‟art. 114 c.p.p , 5° e 6° comma, i quali prevedono il divieto di pubblicazione con riguardo alle
generalità e all‟immagine di minori, siano essi testimoni, persone offese o danneggiate da reato,
fino a che non siano maggiorenni; inoltre è vietata la pubblicazione dell‟immagine di persona
privata della libertà ripresa con le manette ai polsi, o ogni altro mezzo di coazione fisica, salvo il
consenso da parte dell‟interessato) devono essere integrati con il diritto di cronaca da parte del
giornalista, e con un altro limite che con questo riguardo sorge: la presunzione di innocenza ex art.
27, secondo comma, Cost.
L‟art. 27 tutela l‟imputato sia sotto il profilo procedurale che di giudizio: la persona non solo
deve avere tutti gli strumenti tecnici per potersi difendere in giudizio, ma non deve essere trattato o
messo in luce come colpevole fino a che non sia intervenuta una sentenza definitiva nei suoi
confronti.
La Corte di Cassazione, nella sua giurisprudenza, ha più volte sottolineato come la
presunzione di non colpevolezza vada sacrificata nell‟interesse dei cittadini ad essere informati sui
fatti criminosi, sempre però nei limiti “strettamente necessari ai fini informativi” (Cass., sez.V, 18
dicembre 1980): ove i limiti della cronaca siano rispettati, la tutela della reputazione di chi è
sottoposto a procedimento penale (prosciolto, condannato che sia) è pari a quella di un privato
cittadino. L‟offesa alla reputazione, entro questi limiti, sarebbe un evento penalmente irrilevante, in

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quanto conseguente all‟esercizio di un diritto sancito ex art. 21 Cost. (e dall‟art. 51 c.p.).


La Corte cost. ha affermato però che “la divulgazione a mezzo stampa di notizie
frammentarie, ancora incerte perché non controllate e per di più lesive dell‟onore, può essere
considerata in contrasto con l‟art. 27 della Costituzione che afferma e tutela la presunzione di non
colpevolizza fino a che non sia intervenuta sentenza di condanna (sent. n. 18/1966). In questo caso
il contrasto con l‟art. 27 sembra derivare dalla frammentarietà e dalla presumibile non attendibilità
delle notizie, cosa che potrebbe sì minare il principio di non colpevolezza, e che non fa ritenere
invocabile la scriminante ex art. 51 c.p.

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2 Il buon costume
L‟ultimo comma del nostro articolo tratta dei divieti che possono essere approntati non solo
alla stampa nella sua totalità, ma anche agli spettacoli e a tutte le altre manifestazioni del pensiero.
“Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli, e tutte le altre manifestazioni contrarie al
buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
L‟ultima frase di questo comma sembrerebbe essere in conflitto per quanto riguarda la stampa, con
il secondo comma, che come abbiamo detto, impedisce che siano poste in essere misure di carattere
autorizzatorio o censorio. Si deve però ritenere che, anche in questo caso, l‟unico intervento
ammesso per reprimere la stampa (contraria al buon costume) sia il sequestro.
Si pone dunque il problema relativo alla definizione di “buon costume”. All‟epoca della
redazione della Costituzione, negli anni „40, la definizione che si poteva dare del buon costume, era
molto diversa da oggi: questo, come è noto, è un concetto quanto mai in evoluzione. come dimostra
anche l‟abrogazione dal codice penale di tutta una serie d‟articoli riguardanti „offesa alla moralità”.
Nel 1948 il significato era quello del divieto di manifestazioni oscene, da intendersi secondo quanto
dettato dal codice penale. Secondo alcuni autori non dovrebbe essere data di questo concetto una
accezione restrittiva, con riguardo al solo pudore sessuale, in contrasto quindi con quanto affermato
dalla Consulta; secondo altri per buon costume si deve intendere divieto di manifestazione “in
perversione dei costumi”.
Un tentativo di definizione di questo concetto arriva dall‟unico punto “fermo”, ma non
chiaro, che abbiamo: la sent. della Corte Cost. n. 9/1965 (in materia anche 49/1971) che, per quanto
sia lontana da dare una soluzione definitiva delle divergenze dottrinali e giurisprudenziali (si veda
anche sent. n. 368/1902) ha avvallato una tesi restrittiva della nozione del buon costume, da
intendersi non già come riferita a valori generici quale quello di “morale corrente” o di “etica
sociale”, ma invece come riferita alla sola sfera del pudore sessuale, con particolare riferimento alla
tutela dei minori. La Corte infatti sostiene che “la nozione di buon costume che compare nell’art. 21
della Costituzione non può essere fatta coincidere con la morale o con la coscienza etica - vivendo
la legge morale nella coscienza individuale, e non potendo quindi formare oggetto di un
regolamento legislativo - ma risulta da un’insieme di precetti che impongono un determinato
comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la

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violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità
personale che con esso si congiunge e del sentimento morale dei giovani, aprendo la via al mal
costume, con la possibilità di comportare anche la perversione dei costumi, il prevalere cioè di
regole e comportamenti contrari e opposti”. A parte il contenuto morale, l‟esperienza ha dimostrato
che questo limite è modificabile in relazione al variare della sensibilità media o prevalente.
L‟art 21 si dedica in particolare alla stampa, sia essa periodica o non, e ai suoi rapporti con il
mondo istituzionale: è interessante però fare qualche accenno agli altri mezzi di comunicazione del
pensiero: in particolar modo agli spettacoli e al rapporto tra manifestazione del pensiero da una
parte e arte e scienza, tutelati dall‟art. 33 Cost., dall‟altra. Il cinema e il teatro non sono
tecnologicamente mezzi di comunicazione all‟avanguardia, la loro storia è lunga e datata, ma hanno
la caratteristica di poter diffondere comunque il pensiero di chi li interpreta e dirige: sono veicoli
importanti nella società, e la loro libertà è garanzia di generale libertà con riguardo alla
manifestazione del pensiero, tanto che nei regimi autoritari i controlli statali nei confronti della
libertà d‟espressione, andavano anche a proibire determinate manifestazioni nel cinema e nel teatro.
Anzi molto spesso il cinema e il teatro diventavano luoghi di propaganda politica, come ad esempio
durante la già citata epoca fascista in Italia.
Nell‟art. 21 gli unici due accenni che sono fatti alla libertà cinematografica e teatrale sono
indiretti: nel I comma si dichiara la libertà di manifestazione del pensiero attraverso “ogni altro
mezzo di diffusione” rispetto la parola e lo scritto, mentre nell‟ultimo comma le limitazioni alla
libertà d‟espressione si estendono anche nei confronti degli “spettacoli (...) contrari al buon
costume”. La legge quindi, come afferma il VI comma dell‟art. 21, deve prevenire e reprimere le
violazioni anche degli spettacoli teatrali o cinematografici contrari al buon costume: la differenza
rispetto alla stampa sta nel fatto che l‟unica limitazione prevista per quest‟ultima è quella del
sequestro, secondo il combinato disposto dei commi 2°, 3°, 6°. Non essendoci un richiamo simile
per quanto riguarda l‟attività cinematografica e teatrale, si deve ritenere che la censura, in quanto
non espressamente vietata, può essere prevista, sempre e solo per spettacoli contrari al buon
costume.
Nella Costituzione all‟art. 33, si dichiara che “l‟arte e la scienza sono libere e libero n‟è il
loro insegnamento”: nessuna limitazione riguardo al rispetto del buon costume viene quindi fatta
con riguardo alle manifestazioni artistiche, che quindi sono libere, non sottoponibili a censure,
autorizzazioni o sequestri. Secondo alcuni autori con l‟affermazione contenuta nel primo comma di
questo articolo non è possibile istituire in ordine a manifestazioni del pensiero qualificabili come

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artistiche o scientifiche nessun controllo o condizionamento: “anche la regola del pudore o del
buon costume si attenua rispetto a queste manifestazioni, in quanto prevale la qualità artistica o
scientifica, che dovrebbe precludere di per sé stessa la possibilità di offendere questo sentimento”.
Ciò comporta che le manifestazioni artistiche o scientifiche trovano la loro disciplina anche
nell‟art. 21 (commi II, III, IV) nel momento in cui utilizzino la stampa per la loro diffusione: anche
nei confronti dell‟opera d‟arte stampata vi è la possibilità di sequestro.

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3 La responsabilità penale per i delitti commessi


contro l’ordine pubblico
La questione della legittimità di limiti costituzionali basati sull‟ordine pubblico è un punto
molto dibattuto: quest‟ultimo è un criterio estremamente generico, di cui la Costituzione non fa
menzione, ma al quale invece si ispirano numerose fattispecie criminose tese a punire quelle
manifestazioni del pensiero considerate forme di mutamento e di istigazione a commettere reati. La
dottrina è stata contraria a riconoscere nell‟ordine pubblico la natura di fondamento costituzionale
(sia pur implicito) per introdurre limitazioni all‟esercizio di diritti fondamentali, se non nelle
accezioni espressamente previste dalla Carta e con riferimento alle ipotesi nelle quali esse stesse
ricorrono.
La Corte Cost. ha invece assunto una posizione più possibilista, affermando l‟esistenza di un
limite generale rappresentato dall‟ordine pubblico costituzionale, da intendersi come limite alla
tutela dell‟ordine legale sul quale si basa la pacifica convivenza sociale. È dal codice penale che si
deve partire per esaminare i delitti contro l‟ordine pubblico che possono essere commessi da chi
manifesta il proprio pensiero.
Fanno parte di questa classificazione i reati di istigazione e di apologia in generale: sono un
folto gruppo di reati che effettivamente rappresentano un limite alla libertà di manifestazione del
pensiero. Il codice penale del 1930, ancora oggi in gran parte in vigore, ne presenta un ben nutrito
corpus, solo alcuni dei quali sono stati “abrogati” dal legislatore repubblicano o dal giudice
costituzionale. Con questi reati si puniva o si puniscono tuttora delle dichiarazioni che possono
portare all‟istigazione e all‟apologia dei reati generali di cui al Titolo I, Capi I e II, come ad esempio
l‟art. 414 c.p., oppure, art. 415 c.p. l‟istigazione alla disobbedienza alle leggi, ovvero l‟istigazione
all‟odio fra classi, il quale venne dichiarato incostituzionale nella parte in cui non specificava che
l‟istigazione deve comportare un concreto pericolo per la pubblica utilità (sent. n. 108/1974 e
71/1978). L‟art. 266 c.p., che punisce l‟istigazione ai militari a disobbedire, fu invece assolto dai
dubbi di incostituzionalità in quanto la Corte Cost non lo ritenne in contrasto con l‟art. 21 in quanto
fu considerato non riguardante la pura manifestazione del pensiero, ma azione e diretto incitamento
all‟azione (sent. n. 16/1963).

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Le ipotesi di istigazione previste dal codice penale sono state oggetto di un‟interpretazione
adeguatrice della giurisprudenza, anche di merito, volta a circoscriverne l‟applicazione in casi in cui
la pubblica esternazione abbia un contenuto tale da comportare un rischio concreto che si
verifichino i comportamenti sanzionati. Molte sentenze sono state assunte al riguardo dalla
Cassazione penale; si tracciano, ora, le linee guida che la Corte ha delineato in materia: per integrare
un delitto di apologia di reati, non basta l‟esternazione di un giudizio positivo su un episodio
criminoso, ma occorre che il suo contenuto sia tale, per le condizioni personali dell‟autore e per le
circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare un rischio effettivo e non teorico della
consumazione dei reati (Cass. Penale, n.8779 del 1999 e prima Cass. Pen. n. 11578 del 1977),
questo rischio deve parimenti essere attuale e concreto, in relazione al comportamento tenuto
dall‟autore, al contesto spazio temporale ed economico e sociale (Cass. Pen. n. 10641 del 1997).
Le varie ipotesi di istigazione e apologia mantengono comunque il loro carattere
strutturalmente antagonista rispetto ad un pieno riconoscimento del diritto alla libera manifestazione
del pensiero, così come disciplinato in termini assoluti dall‟art. 21.
I tentativi da parte di giurisprudenza e dottrina per conciliare libertà d‟espressione e
repressione di apologie sovversive, si sono mossi in due distinte direzioni: da una parte il tentativo
di circoscrivere la portata delle norme sull‟istigazione ed apologia, trasferendo al giudice il compito
di specificarne di volta in volta la portata, sulla base di criteri estremamente generici; dall‟altra,
quello di cercare di ricondurre le ipotesi in esame all‟ordine pubblico, ad un generale potere di
prevenzione dei reati di cui è lecito dubitare sul piano costituzionale. Questi reati, infatti, si
configurano come punizione di un comportamento, peraltro solo eventuale, che risulta difficile
giustificare in base ai dettati costituzionali dell‟art. 21.
Nel codice penale italiano vi è una norma ben precisa che contempla le ipotesi di istigazione
all‟odio tra le classi, razziale, etnico e religioso, ed è l‟art. 415.
La Corte Cost. ebbe modo di pronunciarsi sull‟ istigazione all‟odio fra le classi in più di una
sentenza, tra le quali assume particolare importanza la n. 108 del 1974, in quanto, in questa la Corte
sembra aver fornito una trattazione chiara ed esaustiva della fattispecie.
In un gruppo di sentenze procedenti tra le quali la n. 87 del 1966 e la n. 65 del 1970, la Corte
aveva già ribadito la differenza tra la fattispecie dell‟istigazione all‟odio di classe e quelle
riguardanti la disobbedienza all‟ordine pubblico, art. 272 e 414 c.p., queste ultime punibili senza
contrasto con l‟art. 21. Nella sentenza del 1974 la Corte ha affermato che la fattispecie di cui all‟art.
415 c.p. ha carattere troppo indeterminato, potendosi ricondurre sotto il suo divieto anche la “mera

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manifestazione di ideologie e di dottrine politiche, sociali e fìlosofìche” che propugnano la


“necessità di un contrasto e di una lotta tra portatori di opposti interessi economici e sociali”: queste
manifestazioni e diffusioni di ideologie devono reputarsi protette dall‟art. 21.
Il discrimen tra punibilità o meno delle dichiarazioni va ricercato, secondo la Corte,
nell‟idoneità delle stesse a suscitare “violente reazioni contro l’ordine pubblico” o più in generale
quando il pensiero è manifestato “in modo pericoloso per la pubblica tranquillità”. Ha dichiarato
quindi parzialmente incostituzionale la norma.
La Costituzione, secondo questa interpretazione data dalla Consulta, richiede che la legge, se
punisce l‟istigazione all‟odio di classe, demandi necessariamente al giudice il compito di constatare
se nelle circostanze la dichiarazione istigatoria poteva indurre a reazioni violente da parte di terzi o
poteva portare a un turbamento del corpo sociale.
Al riguardo, non sembra ci si possa esimere dall‟interrogarci sul se sia giusto togliere al
legislatore il potere di punire l‟istigazione all‟odio di classe anche senza la probabilità di
reazioni violente temporalmente o spazialmente circoscritte rispetto all‟atto che ne ha dato
l‟avvio. Le conseguenze di una campagna all‟odio si manifestano spesso sul lungo periodo, e con
questa interpretazione si è dato alla magistratura un vero e proprio potere nell‟interpretare un
concetto così vasto come quello di “pericolosità per la tranquillità pubblica”.
La sentenza della Corte ha il difetto di aver lasciato aperto un dibattito sulla corretta
interpretazione di una clausola così vaga: due sono le possibili soluzioni prospettate in dottrina, la
prima che vede una lettura di questo concetto in senso meramente soggettivo e psicologico, l‟altra
ne prospetta una visione oggettiva. Per il primo gruppo di interpreti “tranquillità sociale” doveva
identificarsi in un sentimento del pubblico: quello della sicurezza propria, delle persone, delle cose,
delle attività. Ciò comporta lo svantaggio di considerare la condotta istigatoria punibile solo ed
esclusivamente in base agli effetti sul pubblico: se il pubblico è suggestionabile la condotta sarà
punibile, in caso contrario niente potrà essere fatto per reprimere questi atteggiamenti.
La seconda interpretazione, sostenuta da un nutrita corrente dottrinale italiana, prospetta una
definizione di tranquillità pubblica non sulla base di comportamenti esterni dei consociati, rispetto
ai quali l‟istigazione dovrà determinare il pericolo: quando si deve stabilire un confine tra l‟attività
di manifestazione del pensiero e sentimenti della collettività in funzione di valori come l‟ordine
pubblico, la tranquillità sociale, la sicurezza dello Stato e analoghi, l‟unica soluzione valida sarebbe
quella di richiedere che il fatto espressivo crei un pericolo evidente e immediato.

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Numerosi sono stati gli interventi del Legislatore per prevenire la diffusione, attraverso idee
ed opinioni violente, di concetti che potessero inneggiare all‟odio tra classi, religioso o razziale,
molti dei quali adottati in esecuzione di obblighi internazionali assunti dal nostro Paese.
Tali interventi non hanno riguardato solo la libertà di espressione ma anche altri diritti
costituzionalmente protetti come quello di associazione e di riunione.

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4 I limiti riguardanti i diritti alla riservatezza,


all’onore, all’identità personale
II diritto alla riservatezza è uno dei limiti più importanti che si pongono con riguardo alla
libertà di manifestazione del pensiero. Arduo sarebbe cercare una definizione univoca di quanto
affermato dalla dottrina su questo diritto e soprattutto su cosa vi si debba ricomprendere.
Questo diritto è venuto a configurasi e caratterizzarsi in tre accezioni:
a) come pretesa di non ingerenza dei poteri normativi (ma anche amministrativi e
giurisdizionali) in una sfera che si assurge spetti solo all‟individuo: presuppone una
sfera individuale che sia assolutamente non coercibile;
b) come pretesa alla non divulgazione di notizie concernenti la propria persona,
ovviamente nei limiti in cui esse non siano contrarie a norme in vigore;
c) come diritto alla non divulgazione di ciò che, anche non rientrando nel “lecito”
o “nella sfera privata”, non si voglia portare a conoscenza di altri, (basti pensare a
una persona sottoposta ad indagini).
La riservatezza è tutelata direttamente dalla Costituzione solo in un aspetto: l‟art. 15 della
Costituzione garantisce, definendole inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di
ogni altra forma di comunicazione”. È evidente che è centrale definire cosa si intenda per “ogni
altra comunicazione privata”.
Il discrimen tra l‟articolo 21, che tutela la manifestazione del pensiero, e questo articolo
appare dunque da collocarsi non tanto nel contenuto del messaggio comunicativo, quanto
nell‟essere diretto in certam o in incertam personam. La libertà di manifestazione del pensiero
tutela ogni messaggio strutturalmente pubblico, mentre la libertà di comunicazione privata tutela
solo i messaggi confidenziali strutturalmente e intenzionalmente privati. La garanzia contenuta
nell‟art. 15 appare inoltre derogatoria rispetto alla libertà garantita dall‟art. 21, la quale tutela una
più ampia manifestazione del pensiero, al là del contenuto della manifestazione.
Oltre questo aspetto della riservatezza, circoscritto all‟ipotesi ex art 15 Cost, si è sviluppata,
all‟interno di giurisprudenza e della dottrina, il concetto che la tutela dell‟intimità della persona
fosse da ricomprendere nel più generale art. 2 Cost. che garantisce i diritti inviolabili dell‟uomo.

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L‟onore, nella definizione che ne da la dottrina costituzionale, viene a coincidere con la


“dignità sociale” ex art. 3 Cost.: quello che viene messo in luce, facendo rientrare l‟onore nella
dignità sociale, non è tanto la considerazione del prestigio e della considerazione di cui in effetti una
persona può godere nel tessuto sociale, quanto il rilievo che ad essa è dovuto in quanto persona.
L‟onore in quanto tale integra un diritto inviolabile e la libertà di manifestazione del
pensiero può prevalere nei suoi confronti solo se si pone come “strumento essenziale di
democrazia”: prevale il diritto alla cronaca solo a condizione e nei limiti essenziali del pubblico
interesse alla notizia, della sua verità, della sua continenza reale e sostanziale.
Il diritto all‟identità personale si è affermato nella giurisprudenza principalmente come
diritto antagonista rispetto a quanto riportato dai mezzi di comunicazione e dalla stampa in
particolare, come conseguenza di affermazione che mettono in luce una persona per quello che non
è (o per come non pensa di essere).
Il diritto all‟identità personale risulta quindi essere legato – quasi come per derivazione – al
diritto di rettifica, già previsto dalla legge sulla stampa. Si distingue quindi dal diritto alla
riservatezza in primo luogo in quanto non tende ad escludere la curiosità sociale da sfere della
propria vita che si “assumono” non pubbliche, ma espone alla curiosità pubblica un‟immagine
diversa rispetto a quella che se ne è fatta la società. Si differenzia dal diritto all‟onore e alla
reputazione in quanto questi ultimi sono violati da commenti spregevoli, mentre la tutela
dell‟identità personale presuppone la non riferibilità di tutto ciò che è stato detto alla propria
persona.
Questo diritto così inteso attiene al riconoscimento ad ognuno di noi di una certa sfera
morale e fisica, e trova fondamento da un lato nel diritto di libertà personale (ari 13 Cost.) e per
l‟altro aspetto nel diritto di palesare attraverso le proprie parole o atti, il proprio pensiero, e dunque
di non vedersene attribuire uno che non è il proprio.
Riguardo a questi diritti, la Corte di Cass. ha elaborato gli stessi principi che abbiamo già
rilevato con riguardo alla reputazione:
1. non è giustificata dal diritto all‟informazione la divulgazione di notizie
incontrollabili sull‟altrui vita privata, presentata come sregolata e scandalosa,
quando si tratti di notizie prive di interesse sociale: in questo caso il diritto
all‟informazione si caratterizza in un censurabile attentato all‟onore altrui;
2. il soggetto che intraprenda un‟attività incidente nell‟ambito operativo
di altri soggetti non può sottrarsi a una verifica, seppure lesiva dell‟onore, del

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suo operato, nei limiti logici, spaziali, temporali e delimitativi di quella


attività. Se invece la persona viene investita non nella sua dimensione
comunitaria ma in quella individuale, in quanto portatrice di valori contenuti
nel privato riserbo, la lesione dell‟onore diviene perseguibile penalmente;
3. anche il soggetto che pone in essere un‟attività pubblica, che in quanto
tale viene ad incidere all‟esterno, si pone in contatto con l‟ambito operativo
di altri soggetti, e quindi non può sottrarre il suo operato all‟esercizio del
diritto di cronaca e di critica: perché si possa parlare di un comportamento
lecito, quale diritto garantito ex art. 21 Cost. prevalente sul contrastante
interesse all‟integrità della propria reputazione, deve trattarsi di informazione
incidente sulla dimensione esponenziale e pubblica della persona che ne è
oggetto;
4. è da riconoscersi la legittimità della critica politica, a condizione che
non trasmodi in attacco alla sfera privata della persona.

4.1 La tutela dei sentimenti religiosi

La libertà di religione è garantita nella Carta costituzionale dall‟art. 19, che consente la
professione di qualunque fede religiosa, sancisce la libertà di farne propaganda mediante il c.d.
“proselitismo”, e di esercitarne sia in pubblico che in privato il culto, “purché non si tratti di riti
contrari al buon costume”. L‟ unico limite posto è, dunque, la pratica di riti contrari al buon
costume. Nella libertà di religione, la dottrina fa rientrare anche la libertà di non professare una fede
religiosa, nonché la libertà di non essere credenti. È dunque interessante individuare quali sono i
limiti tra la libertà di manifestazione del pensiero e l‟offesa all‟altrui religione.
Il codice penale prevede una serie di articoli posti a tutela delle offese che possono essere
espresse contro il sentimento religioso altrui, e segnatamente gli art. 402 (vilipendio alla religione
dello Stato), 403 (offese alla religione dello Stato tramite vilipendio di persone), nonché la
bestemmia ex art. 724 c.p. Il Legislatore, con la I. n. 101/1989 ha eliminato la disparità che
prevedeva l‟applicazione di queste fattispecie criminose con riguardo alla sola religione cattolica,
chiaramente la religione della maggioranza.

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Molti autori affermano che il limite del rispetto dei sentimenti religiosi altrui è già insito nei
concetto stesso di buon costume, così come interpretato dalla Corte cost., ma occorre anche
ricordare che il limite del “buon costume” posto dalla norma costituzionale può travalicare quello di
offesa all‟etica comune per tutelare il cd. “pudore sessuale‟‟.

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5 Le intercettazioni telefoniche
Uno dei temi più annosi è il dibattito sulla liceità o meno della pubblicazione delle
intercettazioni telefoniche. Da una parte si schierano coloro i quali sostengono il diritto di cronaca,
dall'altra la tutela della privacy.
Sulla questione è intervenuta più volte il Garante della Privacy, il quale ha ribadito i principi
che regolano la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, sanzionando quelle testate che
avevano superato i limiti della libertà di cronaca ed in qualche caso bloccando la pubblicazione di
quelle conversazioni prettamente privati.
In occasione dei recenti scandali emersi dalle intercettazioni ambientali e telefoniche
pubblicate dai media, l'Autorità ha emanato il provvedimento del 21 giugno 2006 con la quale ha
rilevato “la necessità di esaminare d'ufficio e in via d'urgenza, anche in assenza di ricorsi, reclami e
segnalazioni, la problematica del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle diverse
persone coinvolte dalla pubblicazione di intercettazioni telefoniche, con particolare riferimento alla
loro riservatezza, dignità e identità personale, nonché al diritto fondamentale alla protezione dei
relativi dati personali”
Il Garante ha biasimato il meccanismo previsto dalla vecchia legge di acquisizione delle sole
conversazioni rilevanti per il procedimento penale, in quanto non è più adeguato rispetto al
fenomeno dell'incessante pubblicazione integrale di materiali processuali.
In forza di tale considerazione, l'Autorità ha prescritto ai titolari del trattamento in ambito
giornalistico di conformare con effetto immediato i trattamenti di dati personali relativi alla
pubblicazione di trascrizioni di intercettazioni telefoniche a tutti i principi affermati dal medesimo
codice e dell'allegato codice deontologico per l'attività giornalistica.
Tuttavia nonostante il richiamo, l'Autorità è stata costretta ad intervenire nuovamente
impedendo, in diversi casi, le pubblicazioni di intercettazioni telefoniche afferenti la vita privata dei
soggetti interessati.
A porre un rimedio è intervenuto il Consiglio dei Ministri che con decreto legge n. 259 del
2006, ha approvato cinque articoli che limitano la pubblicazione di intercettazioni telefoniche. In
caso di violazione della norma le sanzioni vanno da 50 centesimi per ogni copia stampata e da
50.000 ad 1.000.000 di euro in base al bacino di diffusione radiofonica, televisiva o telematica. La
sanzione, tuttavia, non può essere inferiore a 20.000 euro, pertanto si applica anche a chi ha

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stampato, ad esempio, solo 10 copie. La sanzione non è sostitutiva di una eventuale azione civile di
risarcimento del danno.
E' poi prevista la reclusione da 6 mesi a 4 anni per chi detiene illecitamente gli atti o i
documenti intercettati illegalmente. E la pena si aggrava da 1 a 5 anni di reclusione qualora il fatto è
commesso da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Di fatto viene punita penalmente la detenzione e civilmente la pubblicazione.
Nel giugno del 2008, il Consiglio dei Ministri, ha approvato all'unanimità il disegno di legge
sulle intercettazioni, vietando le intercettazioni per reati, le cui pene sono inferiori a 10 anni. È
inoltre prevista una deroga per i reati contro la pubblica amministrazione e le intercettazioni da
parte della magistratura non potranno durare più di 3 mesi e dovranno essere decise da un tribunale,
non da un singolo soggetto.

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