Con l’insediamento del nuovo governo viene istituita subito la Consulta straordinaria per gli Stati Romani. Questa
svolgerà un importante ruolo soprattutto nell’organizzazione delle trasformazioni della città antica. Per potere affrontare i
problemi di conservazione del patrimonio archeologico dell’ex Stato pontificio, i Francesi ritengono che sia utile conoscerne
la consistenza; a tale scopo inviano a ciascun Comune un questionario, che permetta di valutare lo stato di conservazione
del patrimonio presente in ogni comune.
Criteri e metodi di conservazione e restauro sotto il governo francese
Alcuni mesi dopo il loro insediamento a Roma i francesi cominciarono ad indicare i nuovi criteri d’intervento e ad attuare
una politica di tutela, con norme di carattere generale alle quali si devono attenere i progettisti degli interventi.
A tale proposito, risulta di particolare interesse il carteggio del 1813 tra M. Gisors, Ispettore degli edifici civili, e Martial
Daru, intendente della Corona e il Ministro del Re. La sua attenzione è rivolta alle demolizioni e agli scavi che si andavano
compiendo, che non tenevano conto di una politica rivolta al consolidamento e al restauro, pertanto intende suggerire il
sistema da adottare in quegli edifici antichi che in qualche parte minacciano rovina, come ad esempio l’arco di Tito, le cornici
e i piedritti del Colosseo e l’arco di Giano. Tale sistema, secondo Gisors, sarebbe suscettibile di «conciliare efficacemente il
gusto, la solidità e il rispetto» dovuto alle testimonianze di Roma antica. Cita, quindi, alcuni esempi dove questi metodi non
sono stati adottati e l’intervento, seppur risultato valido sotto il profilo statico, certamente non ha soddisfatto le esigenze di
tipo estetico. In particolare, si riferisce al Colosseo, dove per prevenire la caduta di una parte del portico esterno, distaccato
per effetto di un terremoto, era stato fatto costruire con notevoli spese un immenso sperone, valido sicuramente come
sostegno delle parti che minacciavano rovina, ma del tutto «sconveniente» nell’aspetto. Inoltre, era stata tompagnata con
muratura una delle prime arcate di una galleria del piano terra.
Per Gisors un intervento corretto di restauro architettonico era stato effettuato sul Pantheon dove si era interamente rifatto
l’angolo sinistro della trabeazione e del timpano non utilizzando il marmo.
Scrive quindi: “Io penso dunque che anziché controventare, puntellare, contraffortare, fasciare, se posso esprimermi così,
(di) tutte le parti vacillanti dei monumenti ed edifici ai quali mi riferisco si dovrebbero ricostruire almeno le masse di queste
parti nelle loro forme e proporzioni, sia in pietra sia in mattone, ma in modo che queste costruzioni presentino esattamente
le linee di queste parti che esse dovranno supplire.”
La ricostruzione per masse, quindi, era in una delle scelte favorite per i francesi; la preoccupazione del governo francese
era di una conservazione non fine a sé stessa, ma didattica.
Colosseo: noto anche come anfiteatro Flavio, realizzato sotto la dinastia dei Flavi, in particolare da Vespasiano e Tito. Il
Colosseo era in condizioni gravissime, mancava quasi metà dell’anello esterno divorato dai cavatori di pietre. Già nel
Rinascimento papa Eugenio IV aveva emesso una bolla per limitare il fenomeno, già preoccupante, ma non fu ascoltato. Il
rivestimento in travertino quindi per anni fu riutilizzato in altre forme o per farne calcina.
L’anello esterno, nel lato occidentale ed orientale, erano in condizioni critiche perché era venuto a mancare il contrasto alla
spinta orizzontale degli archi a tutto sesto, perdendo il piedritto. Verso la fine del ‘700, prima dei francesi, papa Pio VII
nominò una commissione di architetti formata da Palazzi, Camporesi e Stern per salvare il Colosseo. I tre studiano un sistema
per liberare la struttura da funzioni improprie, come mercato e deposito di escrementi animali. Cominciano una serie di
operazioni espropriative nell’immediato intorno per permettere il restauro.
Il lato orientale del Colosseo è quello che presentava le condizioni peggiori. Una veduta
mostra l’inizio di questi lavori, in cui si vede le puntellature come si fanno oggi e si notano
dei dissesti importanti nella parte attica e una fessurazione con dislocamento dei conci che
è tutto presente, in quanto è stato cristallizzato nel tempo con l’intervento di restauro molto
conservativo. Il lavoro viene avviato nel 1806 e toccherà due campate. Stern progetta un
gigantesco sperone murario per creare quel contrasto statico alla spinta orizzontale.
Arriva fino al piano attico (4 ordini) e che tocca anche due campate, che erano state
tamponate col legno. (È di grande attualità, non si vuole ripristinare il Colosseo alla sua
origine, anche si vuole esprimere il criterio della distinguibilità e massimizza l’istanza
storica della conservazione e non coglie l’istanza estetica. )
Sono sorti dei dubbi sul fatto che siano progettati a faccia vista o intonacati.
Oltre a denunciare sé stesso come struttura non romana, il restauro ha anche un'indicazione
del committente Pio VI e l'anno Settimo di pontificato, tra il 1806 e il 1807.
Nei confronti di questo sperone punteranno tutte le invettive dei Francesi, che trovano in questo esempio un restauro
antiestetico seppur funzionale.
Il lato occidentale viene restaurato da Valadier nella maniera opposta al suo
maestro Stern. All'inizio dell'800 era già una sorta di parco archeologico, qui non
c'erano le lesioni gravissime del lato orientale Ma la situazione era comunque critica.
Valadier viene chiamata dai francesi a fare uno Sperone anche in questo lato che non
sia però come quello del maestro. Il governo francese è propenso per uno sperone
estetico, architettonico che tiene conto dell'istanza di Gisors di ricostruire per
masse. L’architetto, quindi, immagina uno sperone che riproduce gli archi del
Colosseo e che rispetta l'idea di ricostruire per masse senza riprodurre fedelmente
i dettagli. Il progetto consiste nella realizzazione di arcate in numero decrescente a
partire dal basso, con un barbacane per ciascun ordine. Ha di travertino soltanto la metà dell’altezza dei primi piloni, le
imposte degli archi, le basi delle colonne e i rispettivi capitelli, e l’ultima membratura dei cornicioni, perché siano più stabili.
Tutto il resto è di mattoni. Il restauro, quindi, non trae nessuno in inganno; c'è la volontà di far comprendere l'architettura.
Il restauro fu ultimato nel 1826, sotto il pontificato di Leone XII, e fu posta la data nell’epigrafe.
Arco di Tito: Un disegno di Gaspar Van Wittel del 700 mostra come l'arco aveva una sistemazione a percorso in cui francesi
investirono. L'arco è probabilmente realizzato da Domiziano, che succedette a Tito, ma che celebra Tito e il suo impero e
soprattutto la vittoria sui Parti e sui Giudei, tanto è vero che nell'arco c'è una rappresentazione molto forte dei prigionieri
Giudei con il candelabro a sette braccia che vengono portati in schiavitù a Roma. Doveva essere utilizzata anche per parate
militari e viene posta al centro della via Sacra che porta all'interno dell'area dei Fori.
La struttura era in decadenza tant'è che si costruì anche uno sperone per evitare il collasso. L’arco, ad unico fornice,
risultava mutilo nella parte dell’attico, ad eccezione della lapide con l’iscrizione. Da esso erano stati asportati sia il
rivestimento dei fianchi, sia le colonne angolari, con la base di marmo greco. Restava in piedi lo «zoccolo e picciola parte del
podio, o sia stilobate”. Oltre a raggiungere la certezza che le colonne fossero in origine
poste in angolo a reggere la trabeazione sporgente, sia nei prospetti, sia nei fianchi in base
anche all’analogia con gli archi di Traiano a Benevento e ad Ancona, l’architetto rinviene
in situ anche l’architrave del vano, posto tra gli intercolumni, dal quale si accedeva alla
scala che conduceva alla parte alta del monumento. Quest’ultimo ritrovamento gli
permette di calcolare non solo l’altezza del suddetto vano, ma anche quella degli altri tre
che dovevano essere posti, sempre tra gli intercolumni accanto alle mezze colonne
rimaste. Per sostenere l’Arco si erano addossate ai lati alcune costruzioni, come ad
esempio il convento di Santa Francesca Romana. In tempi più remoti, l'arco era diventato
una porta della città medievale ed era stato inglobato nelle fortificazioni fatte dalla
famiglia Frangipane e faceva parte di un sistema difensivo. In una veduta di Piranesi si
vede l'acqua dall'altro lato che sopravviveva in condizioni drammatiche, mancavano le
parti alte delle colonne, i piedritti laterali e si vede l'ingresso di un fienile. In sostanza
dell'Arco rimaneva solo il fornice centrale.
Se in passato il merito delle scelte di metodo seguite per il restauro dell’Arco di Tito era
stato attribuito prima a Valadier, successivamente a Stern, alla luce di alcuni documenti si
può senz’altro affermare che gli architetti suddetti si rifecero alle indicazioni fornite
dall’ispettore degli edifici civili Gisors.
La narrazione di Valadier è accompagnata da disegni che facevano capire la situazione
dell'arco, si vedono conci scompaginati, l'idea è quella di andare a smontare e rimontare,
operazione che si chiama anastilosi. Il loro progetto prevedeva quindi la riconfigurazione
dell'Arco nella sua integrità, andando ad aggiungere quello che mancava in travertino e
non in marmo. I dettagli non sono stati invitati, sia per una questione economica sia per
rispettare il monumento.
Può essere considerato l'antesignano del restauro moderno perché a fianco all'arco
autentico viene ricostituito per masse quello che manca, con un progetto architettonico
che semplifica gli ornamenti, quindi perfettamente distinguibile.
L'intervento è stato riconosciuto meritevole da Quatremère. I romantici scrivono l'opposto nel 1829, ad esempio Stendhal
nelle sue “Passeggiate romane” dice che questo piccolo Arco di Trionfo è il più antico e il più bello di Roma finché non è stato
restaurato da Valadier. Tuttavia, a dispetto delle sue critiche, possiamo considerare l’intervento sull’arco di Tito un restauro
fatto secondo criteri moderni, per l’impiego di un materiale diverso dall’originario nelle parti aggiunte, per il rifiuto di
qualunque imitazione del
dettaglio e per il rispetto dei reperti originari. Ma le riserve del francese si devono condividere, invece, laddove esse
sembrano condannare l’operazione di liberazione dei ruderi dell’arco dal contesto ambientale nel quale si trovavano inseriti
nei primi decenni dell’Ottocento.
La visione romantica vorrebbe massimizzare l'istanza storica, mentre quella neoclassica vuole focalizzarsi sull'istanza
estetica perché vede nel linguaggio classico un'attualità. Nel decennio francese la visione neoclassica è sicuramente quella
che prevale.