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Benvenuto, Sartre, ovvero il libertino sequestrato

(Le parole e le cose)


 
Da un po’ di tempo si segnala una sorta di Sartre Renaissance in un’area culturale che sembrava
cresciuta, secondo la Vulgata, in opposizione al pensiero sartriano e all’esistenzialismo in generale:
nell’area lacaniana. Una psicoanalista, Clotilde Leguil, ha pubblicato nel 2012 un libro, Sartre avec
Lacan (tradotto in italiano Sartre con Lacan. Correlazione antinomica, relazione pericolosa, da
Quodlibet, 2017), in cui ricostruisce il debito con Sartre del pensiero di Lacan. Nel 2013 un filosofo
vicino a Lacan, Federico Leoni, pubblica L’idiota e la lettera. Quattro saggi sul Flaubert di
Sartre (Orthotes). Nel 2021 lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati ha pubblicato Ritorno a Jean-
Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio (Einaudi), nello sforzo di rendere compatibile il pensiero
sartriano più maturo con la visione freudiana dell’inconscio. Mi chiedo d’altronde se questo rinnovato
interesse per Sartre caratterizzi specificamente gli studiosi lacaniani o anche altri di diversi orientamenti
filosofici.
 
Vorrei risuonare a questo “ritorno” riproponendo un mio saggio pubblicato in francese e in tedesco oltre
trent’anni fa proprio su Sartre. Già allora sentivo il bisogno di fare il bilancio non solo del sartrismo, ma
del mio legame giovanile con Sartre e in generale con la cultura fenomenologica francese. In questo
saggio scrivevo tra l’altro “…possiamo considerare le avanguardie culturali francesi degli anni ‘60 e ‘70
più uno sviluppo possibile del sartrismo che una sua negazione”, e includevo in queste avanguardie
culturali ovviamente anche Lacan. Comunque, qui non si tratta di un “ritorno” a Sartre quanto piuttosto
di “un lungo addio” a Sartre.
 
Sartre, ovvero il libertino sequestrato[1]
 
Invidiai i detenuti celebri che hanno scritto in cella su carta per avvolgere candele. […] Naturalmente, il
progresso dei costumi diminuiva le mie probabilità di attingere il mio talento nella reclusione, ma non
disperavo del tutto; […] la Provvidenza avrebbe avuto a cuore il realizzare [le mie ambizioni].  Intanto,
io mi sequestravo in anticipo.
Le parole  (pp. 128-9)
 
1.
 
ìNella conferenza pubblicata poi come L’existentialisme est un humanisme, tenuta nel 1945, Sartre
riporta un aneddoto per spiegare la propria filosofia della libertà. Durante l’occupazione tedesca, un
giovane era incerto se restare accanto a sua madre che aveva perso un altro figlio in guerra, oppure
piantare tutto e unirsi alla Resistenza armata. Chiese consiglio al suo professore, Sartre. Questi
rispose: “Tu sei libero, scegli! Inventa!”
 
Eppure per Sartre, se è vero che dobbiamo accedere alla dura verità per cui noi esseri umani siamo
irrimediabilmente liberi, e per cui le nostre scelte sono tutte senza fondamento (razionale o filosofico), è
anche vero che per lui non tutte le scelte sono sullo stesso piano: alcune scelte sono più libere di altre,
così libere che - sospettiamo - possiamo considerarle le sole veramente libere. Le altre scelte rivelano,
dice Sartre, della mauvaise foi, malafede, vale a dire l’inganno di se stessi. Insomma, non siamo lontani
dalla “dialettica” che ispira l’ideologia dei maiali in Animals’ Farm di Orwell: “Nella fattoria tutti gli animali
sono eguali, ma i maiali sono più eguali degli altri.” Questa dialettica - cioè “contraddizione” - della
libertà umana e del fondamento di ogni scelta mi pare essere al cuore del pensiero sartriano.
 
2.
 
Questa insistenza sulla libertà senza fondamenti, sul carattere incondizionato di ogni scelta, sembra
ridire in termini diversi qualcosa che la tradizione empirista, soprattutto anglosassone, aveva a suo
modo detto. Intendo la separazione netta - il cui chirurgo più rigoroso fu Hume - tra fatti e valori. I
giudizi di fatto (razionali, scientifici, empirici) non hanno alcuna incidenza sui giudizi di valore (etici,
estetici, di gusto), e viceversa. Il giudizio di valore non è quindi fondabile su qualche sapere positivo e
fattuale. Prima di Sartre, in Inghilterra, G.M. Moore aveva parlato di naturalistic phallacy in etica: è
fallace l’idea che i valori possano derivare dai fatti.
 
Riprendiamo l’esempio dato da Sartre: il sapere quante probabilità ha la Germania di perdere la guerra,
quante forze la Resistenza francese ha in campo, quante possibilità ha il giovane di non essere
arrestato o ucciso, sono tutti giudizi fattuali, eventuali “verità di fatto”. Ma decidere “a monte” se vale la
pena comunque di mettere la propria vita a repentaglio per partecipare alla lotta contro il nazismo,
oppure stare accanto a sua madre, sono scelte fondate su giudizi di valore che è impossibile derivare
da tutti i dati di fatto oggettivi che possiamo collezionare. La tradizione empirista e l’esistenzialismo
sartriano su questo punto coincidono: la scelta etica - come la preferenza estetica - non è il risultato di
un’inferenza o di un’argomentazione razionale, e quindi in quanto tale è immotivata, vale a dire libera.
 
Il guaio però è che i valori, così separati dai fatti, perdono valore – difatti, come vedremo, Sartre
sottometterà i valori agli atti, per dar loro un nuovo valore. Già l’empirismo difatti non si era rassegnato
a questa abissale libertà (o non razionalità, o irrazionalità) dei valori. Molto spesso l’empirismo sfocia in
una teoria etica e politica basata sul più rassicurante e preveggente utilitarismo. Le scelte di valore,
cioè, possono a loro volta essere confrontate tra loro, e valutate come più o meno utili. E qual è il
criterio dell’utilità? È la felicità – o il piacere – maggiore possibile di tutti, o di ciascuno. I valori a loro
volta possono essere sottoposti al potere valutativo della ragione, se si accetta il presupposto che il fine
ultimo degli esseri umani sia quello di massimizzare la propria felicità o il proprio piacere (l’utilitarismo
tende a identificare, in qualche modo, felicità e piacere).
 
È qui però che l’etica sartriana si divarica profondamente dall’etica dell’empirismo e dell’utilitarismo.
Anche quando si leggono i grandi filosofi, non bisogna dimenticare le differenze tra le tradizioni
nazionali. In un film di Alain Resnais, I want to go home (1989), una studentessa americana a Parigi
alla fine dice ai suoi amici: “Torno in America perché voglio essere felice. Per voi francesi essere felici
non è così importante come per noi americani.” In effetti, per il francese Sartre - a differenza dei filosofi
empiristi anglo-americani - la felicità non è molto importante. Anzi, direi che l’uomo inautentico, l’uomo
della “malafede”, gonfio e impettito perché crede di essere giustificato, come quei borghesi onorabili
derisi da Sartre, proprio perché non sa di essere libero e ingiustificato vive più contento. Certo non è
soggetto alle nausee e attacchi d’angoscia di Roquentin, protagonista di La Nausée, che ha scoperto la
libertà sconfinata dell’uomo. Qui certo Sartre riprende una tradizione dandy, che risale almeno a
Baudelaire, intrisa di disprezzo per l’ottusa felicità dell’uomo e della donna che si sentono “giustificati”.
 
Per Sartre è importante assumere il fatto che siamo liberi non perché questo sia il modo di essere più
felici, ma perché questo è il solo modo di vivere secondo verità. Il voler essere felici non è la verità
ultima che la libertà ci permette di mettere in opera, ma la libertà è la verità da mettere in opera anche a
costo di rinunciare a essere felici. Anche a costo di rinunciare al premio Nobel, ad esempio, malgrado
esso porti prestigio e denaro (Sartre rifiutò il premio Nobel, attribuitogli nel 1964).
 
In questo modo Sartre pare stare a metà strada tra la morale utilitarista dell’empirismo e il vecchio
grande progetto della filosofia greca, che consisteva nel legare intimamente la morale e la scienza -
oppure, se si vuole, la Volontà e la Verità. I Greci pensavano che chi pensa e sa è anche moralmente
buono, e felice. “La coscienza riflessiva è la coscienza morale”, scrisse socraticamente Sartre. La
visione sartriana dell’autenticità fa dell’uomo morale qualcuno che manifesta la verità dell’uomo, che
per Sartre è la libertà. L’uomo autentico è chi vive secondo verità. Ma non è detto che l’uomo autentico
sia perciò più felice; tutt’al più possiamo dire che non fallisce la sua esistenza. Ma chi può giudicare, in
ultima istanza, se un’esistenza è fallita oppure no? Solo, in ultima istanza, il tribunale filosofico della
verità e della veridicità. L’etica non è certo una scienza per Sartre, né una computazione utilitarista dei
piaceri, ma emana dal riconoscimento della verità.
 
La filosofia di Sartre è quindi un Giano bifronte. Essa da una parte ha una matrice kantiana - è una
prosecuzione modernizzata della Critica della Ragion pratica. Kant presuppone la libertà dell’uomo
rispetto a tutte le determinazioni “meccaniche” del mondo naturale – ciò che Kant chiama “il
patologico”, ovvero tutto ciò che facciamo per pathos, assecondando i nostri impulsi e passioni. Questa
libertà dal patologico è la condizione fondamentale di ogni possibile scelta morale. Dall’altra però la
filosofia sartriana scivola in un solco chiaramente hegeliano (anche se un hegelismo filtrato attraverso
Heidegger), “dialettico” in senso lato.
 
Eppure il Giano bifronte sartriano trova un’unità di ispirazione in un motivo unico, pre-riflessivo, direi
caratteriale. Questo motivo è appunto quello della libertà. In effetti, malgrado la traversata dei terreni
ideologici vari - anti-nazismo resistenziale, socialismo libertario, stalinismo, terzomondismo anti-
americano, maoismo, liberalismo pro-dissidenti dell’Est, ecc. - l’avventura etico-intellettuale di Sartre,
anche nei suoi momenti di più alta rarefazione filosofica, appare guidata, direi programmata, da un
progetto libertario - e libertino - di fondo. Le contraddizioni di questo programma genetico - le sue
indulgenze (relative) per i regimi del “socialismo reale”, per una sinistra non certo liberale e libertaria -
non mi paiono essere solo ripiegamenti e incoerenze personali: illustrano in realtà le impasse essenziali
al progetto morale libertario nel suo insieme.
 
3.
 
L’imprinting originario di Sartre è il libertinismo francese settecentesco. Le sue esigenze profonde sono
molto simili a quelle di scrittori scollacciati, convertitisi poi alla causa rivoluzionaria, come Réstif de la
Bretonne, Choderlos de Laclos, Sylvain Maréchal: rivendicare la piena libertà di costumi, respingere la
morale soprattutto sessuale della Chiesa, ripudiare la rispettabilità sociale, e poggiare questa
sfrenatezza morale sullo zoccolo duro dell’ateismo teorico.
 
Quanto ho appena detto pare in flagrante contraddizione con quanto avevo detto prima, che cioè in
Sartre prevale un’etica della verità a scapito di ogni edonismo “patologico”. Ma la contraddizione è nel
libertinismo stesso. Don Giovanni di Mozart - paradigma del libertino settecentesco - appare in un
primo tempo uno che pensa solo a divertirsi. Ma poi, quando è messo alle strette dal Convitato di
Pietra, non cede, non si pente – affermandosi così come martire della libertà dei sensi. Probabilmente
Sartre a lui pensava quando creò l’Oreste di Les mouches, l’eroe che accetta il tormento delle mosche
pur di affermare la propria libertà. L’ideologia libertina ha una faccia austera, si rovescia in una mistica
della Libertà del Piacere che non si arresta di fronte alla testimonianza estrema. E in qualche modo
Sartre ha sempre perseguito una sua immagine di perseguitato e di vittima della libertà, fantasia che ha
proiettato in Genet comédien et martyr, commediante e martire. Da qui i suoi svariati tentativi di farsi
arrestare, in Francia, per “crimini politici”. Non si tratta di un martirologio cristiano, bensì libertino.
 
Si dovrebbe essere molto colpiti dal fatto che Sartre abbia dato un valore strategico all’ateismo nella
sua filosofia. In effetti, quasi mai le grandi filosofie, dopo Kant, si sono impegnate o scontrate attorno al
tema dell’esistenza di Dio o a quello dell’immortalità dell’anima. A parte Kierkegaard, dopo Kant la fede
appare sempre più irrilevante nel dividere o contrapporre le scuole filosofiche e le passioni politiche. Si
può spiegare questo anacronismo sartriano appunto con un retaggio settecentesco, con la vocazione
anti-clericale della Rivoluzione Francese, quando il credere o meno nel Dio cattolico, nell’Ente Supremo
o nella Dea Ragione, era davvero uno spartiacque politico e morale fondamentale.
 
L’analisi del pensiero di Sartre non deve farci infatti dimenticare mai il personaggio Sartre, cioè il modo
clamoroso in cui ha vissuto. Rifiuto di una carriera universitaria, della Legion d’Onore e del Nobel;
dedito al bere, consumatore di allucinogeni e di eccitanti, poligamo fino alla morte, mai sposato; spesso
e volentieri paladino di ribelli, di disertori, di scrittori pornografi e ladri come Genet, di cause talvolta
impopolari. E non si prenda il ricordare tutto ciò come una concessione al pettegolezzo e al
giornalismo. Sartre stesso più volte ha ribadito il legane inscindibile tra la propria filosofia e la propria
vita - legame tra opera e vita che del resto ha guidato le sue analisi degli scrittori, da Baudelaire a
Flaubert. Isolare il suo pensiero da ciò che Sartre, privatamente e pubblicamente, è stato, è una
convenzione accademica che tradisce il senso del Progetto Sartre.
 
Molto spesso, si ha l’impressione che le opzioni heideggeriane o marxiste di Sartre, la fenomenologia e
il talento letterario, non siano state altro che strumenti, sfruttati con sapienza, per dare credibilità e
rispettabilità riflessive al suo programma matriciale: essere il grande Libertino filosofo del XX° secolo.
Per capire L’Etre et le Néant occorre non solo ricordarsi di Sein und Zeit, ma anche del Don Giovanni di
Mozart, libertino in amore e nelle idee, il quale canta:
 
È aperto a tutti quanti:
Viva la libertà![2]
 
4.
 
 Ma che cosa intende Sartre per libertà illimitata della coscienza? Intende la possibilità di negare -
prima di tutto col pensiero, con l’immaginazione - ogni situazione data, ogni condizionamento. L’Essere,
l’in-sé, è la prigione della mente umana. Quest’ultima – il per-sé – germina in questo carcere ontologico
come un vuoto d’essere, come un nulla, incrinatura nella pienezza ontica. In fondo ogni essere umano
è doppio: da una parte è ciò che esso è - il risultato di un’evoluzione biologica, di strategie educative, di
reazioni dettate dagli istinti, di condizionamenti storici e culturali -, dall’altra esso ha la capacità di
nullificare ciò che esso è, attraverso atti di negazione e di rivolta.
 
Questa divaricazione è una riedizione in chiave heideggeriana di una dicotomia molto antica, che
perseguita l’Occidente attraverso tutte le sue biblioteche. Una dicotomia che ha assunto molti nomi e
molte maschere nel corso del tempo: Materia e Forma, Atomi e Aria, Anima e Corpo, Res cogitans e
Res extensa, In-sé e Per-sé; oggi la si preferisce chiamare Natura vs.
Cultura, Mind vs. Body, Nature vs. Nurture. In Sartre la dicotomia ha un nome: si chiama opposizione
tra il Nulla della coscienza e l’Essere. Ma il suo compito fu anche quello di sfuggire alla grande
dicotomia mescolando le carte, cercando di descrivere come lo Spirito (mi si permetta di usare la
terminologia più arcaica) si infiltri di Materia, e come la Materia si riveli, almeno in parte, un residuo
dello Spirito.
 
Se quindi non c’è nulla di esistente nella cultura umana che preceda la dialettica avvincente e
vincolante delle coscienze che liberamente si guardano, c’è una dimensione che in qualche modo
trascende l’opposizione radicale tra Materia e Spirito. Questa dimensione è la Colla.
La coscienza difatti, insiste Sartre, è vischiosa: essa ci invischia nella sua pre-riflessività, così come
l’essere ci intrappola nelle sue situazioni. Lo spirito (la coscienza) assumendo certi aspetti della materia
(dell’essere) diventa come colla. Questo è il suo modo di superare l’opposizione tra materia e spirito -
superamento che ossessiona quasi tutti i filosofi dopo Descartes.
 
Il moltiplicarsi delle metafore collanti in Sartre esprime questa specie di terzo stato in cui la materia e lo
spirito - la coscienza e l’essere - si combinano, ed entrano in una specie di stato colloidale. La
coscienza umana è difatti una coscienza incollata alle altre coscienze, e questo attaccarsi impania la
soggettività fino a darle l’immobilità e la durezza di un in-sé quasi inerte.
 
5.
 
Musil (in L’uomo senza qualità) scrisse che gli uomini sono di due tipi: gli “uomini della realtà” e gli
“uomini della possibilità”. Ora, la scommessa di Sartre consiste nel dire che l’essere umano
è sempre essere della possibilità, anche quando si comporta piuttosto come essere della realtà. Lo
Spirito si stacca dalla natura - e prima di tutto dalla natura che Sartre veramente detesta, la “natura
umana” -, dalla Materia, in quanto sa immaginare qualcosa di semplicemente diverso da ciò che è. Non
è un caso che i primi importanti lavori teorici di Sartre - come in fondo il suo ultimo, L’Idiot de la Famille,
dato che tratta di uno scrittore, Flaubert - riguardino la sfera immaginaria[3]. Ciò che lo affascinava
dell’immaginario era quel suo scarto fondamentale dalla realtà, quel suo essere un reale irreale. Ma il
disprezzo puramente immaginario per la realtà oggettiva è la condizione del Dasein, dell’esserci, di ciò
che i traduttori francesi di Heidegger avevano chiamato maldestramente “réalité humaine“.
 
Si prenda l’immagine cara ai filosofi antichi: quella del fiume che scorre, come allegoria dell’Essere e
del Divenire. Per la tradizione empirista e positivista, come e dove si rivela lo Spirito rispetto allo
scorrere del fiume? Nella capacità che ha l’ingegnere di capire l’idraulica, e su questa base di costruire
una diga per correggere il corso del fiume, se occorre. Qui il modello dello spirito umano è prima di tutto
l’ingegno dell’ingegnere: quello spirito che eventualmente piega il corso dell’acqua alle esigenze di
felicità e/o di piacere degli uomini. Per Sartre invece la specificità dello spirito consiste nella sua
semplice, capricciosa capacità di immaginare un diverso corso del fiume. E la stessa capacità
dell’ingegnere buono non è che il corollario di questa capacità nullificante della coscienza umana.
 
La libertà fondamentale da cui parte Sartre è insomma la libertà che ha il prigioniero
di immaginarsi all’aria aperta. Questa libertà per il positivista è derisoria e inane.
L’uomo per Sartre è libero - o meglio, usa la propria libertà - quando dice “no”. Anche senza ragione,
per istinto libertino di rivolta (“Seule la révolte est pure“). Questo è così vero, che in effetti Sartre ha
avuto quasi sempre torto quando ha elogiato politiche e regimi, ma ha avuto in fondo sempre ragione
quando ha criticato politiche e regimi – ad esempio, la guerra francese in Algeria o quella americana
nel Vietnam. In entrambi i casi, infatti, di trattava di guerre già perse. Quando Sartre diceva no a
qualche cosa, ci azzeccava sempre. Altre volte invece la sua mauvaise foi politica, non esente da
megalomania, lo ha spinto a simulare una sorta di Realpolitik, ad appoggiare certi regimi - ed è allora
che ha preso lucciole totalitarie per lanterne liberatorie.
 
È in questa luce che bisogna leggere la sua ripresa del cogito cartesiano, della coscienza del
razionalismo: al contrario del cogito di Descartes, che fornisce sicurezza e certezza, la coscienza
sartriana è sostanzialmente una coscienza ribelle. È “penso dunque non sono” più che “penso dunque
sono”. Essa è una rivolta contro l’autorità opprimente dell’essere; una rivolta che ha qualcosa di
edipico, e quindi anche di adolescenziale. Non a caso lo scrittore Sartre piacque (e piace?) agli
adolescenti di varie generazioni (fino a quando gli adolescenti usavano ancora leggere qualcosa). Sono
colpito quando incontro intellettuali alquanto più giovani di me, e mi dicono che nell’adolescenza
l’autore che cambiò loro la vita fu Sartre. Lukacs vide giusto quando, attaccando l’esistenzialismo, parlò
di “politica dell’adolescenza”[4].
 
(Protesta edipica, anche se in Les mots Sartre si vantò di non avere Edipo, essendo cresciuto orfano di
padre. Ma appunto, un padre da sempre morto può rivelarsi molto più micidiale di qualsiasi padre vivo,
sempre un po’ mezza cartuccia rispetto alla sua funzione di Padre.)
 
La coscienza è figlia dell’essere, ma è una figlia che si ribella al padre. C’è un sapore puberale di rivolta
filiale in tutti gli eroi sartriani: tutti figli, più o meno invecchiati, in rivolta contro papà. Il padre è allegoria
dell’Essere, o è l’essere a essere l’allegoria del Padre? “L’uomo è l’essere che aspira a essere Dio”
scrive edipicamente Sartre[5]: figlio dell’Essere, aspira a essere il suo stesso padre, a essere l’Essere.
Ma il figlio non può ribellarsi al padre-Essere da cui deriva opponendo un’altra pienezza, un’autorità
fondata: la sua rivolta è quasi un nulla, un ammanco. Questa minorità derisoria della coscienza
rivoltosa - filiale - emerge letterariamente attraverso certe metafore zoomorfe ricorrenti nella sua
scrittura.
Loro credevano che fossi come loro, che ero un uomo, e li ho ingannati. D’un tratto, ho perso la mia
apparenza di uomo e hanno visto un granchio che scappava indietreggiando da quella sala così
umana[6].
Più volte gli eroi sartriani si paragonano a granchi, o a vermi, o a insetti. Franz, il figlio dell’industriale
tedesco che si auto-sequestra in casa in Les Séquéstrés d’Altona, allucina anche lui granchi, crostacei,
e altre bestie simili. Volentieri, negli scritti filosofici, Sartre parla della coscienza umana come di un
tarlo, uno scarafaggio. E la descrive come vischiosa, anzi viscida, tra il verme e la colla.
 
Anche Kafka, in La Metamorfosi, aveva descritto il figlio come un insetto. Ma in Kafka il figlio non si
ribella al padre, anzi, accetta di essere ucciso da lui. Il figlio-insetto sartriano invece incarna la rivolta
della coscienza. È un figlio incazzato, che come Sansone muore con il padre-filisteo. Dopo tutto,
possiamo vedere la famosa “nausea” di Roquentin – protagonista de La nausée – come attacchi di
collera che non trovano il loro oggetto, che non si traducono in azione muscolare. La nullificazione
sartriana si lega a una affettività implicita: la rabbia contro quella prigione che per lo spirito è l’Essere.
Il cogito sartriano assume le apparenze allegoriche di crostacei e insetti non per umiliarsi, ma per
opporre la sua passione della crepa alla compattezza paterna dell’Essere.
 
Se la coscienza umana è come qualcosa che striscia, l’atto umano nullificante è concepito come una
corruzione, una macchia dell’essere. Come per una elezione originaria, congenita, Sartre ha legato
l’atto filosofico del cogito a una escrescenza un po’ schifosa sulla pelle liscia e pura del mondo. In
fondo la sua è una ripresa, in chiave non più religiosa ma atea e materialista, del tema pascaliano della
“canna pensante”, così radicato sin dall’infanzia nella spiritualità piccolo-borghese francese. “L’uomo è
fragile come una canna - notò Pascal - ma è una canna che pensa.” Alla metafora vegetale di Pascal,
Sartre preferisce di solito la metafora zoologica. L’idea che l’uomo sia un ente fragilissimo, un
vermicciattolo nella maestosità dell’Essere, ma che questo verme sia l’unico ente nullificante perché
pensa, ha una longevità stupefacente nella cultura francese. La simpatia programmatica di Sartre per “i
dannati della Terra” nasceva da questa identificazione tra il cogito ontologicamente sovversivo e gli
scarti sociali del mondo.
 
6.
 
Ma allora, se la natura è una mera “situazione” in cui si trova la libera coscienza, e se i valori sono solo
malafede, che cosa resta alla pura coscienza riflettente? Sartre teme di trovarsi sospinto in un universo
di coscienze astratte e solitarie che lui non riconosce come suo. Gli occorre mostrare che la storia
umana - per intenderci, il traffico e il tafferuglio dei valori - testimoni non solo della malafede, dell’auto-
inganno, ma anche della libertà umana che, pur nell’inautenticità, fa capolino nell’essere dell’uomo.
 
Per dare concretezza incarnata alla coscienza - e quindi alla libertà umana - Sartre non può
accontentarsi dello spirito dell’ingegnere buono secondo il filone cartesiano-kantiano: deve impegnarsi
nel solco di Hegel, di Marx e di Heidegger; cioè, in altre parole, deve cimentarsi in una dialettica, nel
labirinto delle contraddizioni e dei paradossi di questo cogito troppo libero e quindi sempre
imprigionato.
 
Il grande paradosso sartriano è che lo Spirito – la coscienza umana – non si sorprende solo tuffato nel
mondo naturale, con tutti i vincoli naturali: esso si riconosce più o meno vincolato a quella semi-materia
che è la cultura - o, come preferisce dire Sartre, la Storia. Lo sappiamo, tutto avviene come se l’essere
umano, non contento già dei gravosi limiti che la Materia impone alla sua volontà, se ne sia costruiti
altri, variabili da cultura a cultura, da epoca a epoca, anche più pesanti e difficili da sopportare: le
limitazioni culturali. Ma questi impacci sono prodotti dagli umani, quindi, secondo Sartre, sono pur
sempre espressione della loro libertà. A questo punto, il tema tutto kantiano della libertà umana si trova
già in una contraddizione inaugurale, da qui lo slittamento hegeliano, sempre più accentuato, del
pensiero di Sartre.
 
Qui per hegeliano intendo una dialettica per cui ciò che è oscuro viene reinterpretato come un
momento, una scansione, della luce. Ma perché l’oscurità possa ricondursi a uno svolgersi della luce,
perché la luce possa produrre le sue spiagge di oscurità, occorre che già nella sua essenza la luce
abbia qualcosa di oscuro o di oscurante, una capacità contraddittoria di negarsi e di annullarsi. Così
nella dialettica sartriana della libertà: le servitù storiche e culturali dell’uomo vanno riportate all’esercizio
della sua libertà - altrimenti questa libertà verrebbe storicamente contraddetta, ogni giorno. Ma allora
occorre rintracciare, nel focolare puro di questa libertà assoluta, già il germe della servitù. Sartre si
impegnerà quindi - ironicamente - a descrivere la struttura “asservente” di questa libertà sconfinata
dell’uomo.
 
Questa sterzata dialettica si effettua, ab initio, per la presenza dell’altrui coscienza. Si resterà
malinconici e solitari come Roquentin finché non si scopre che l’altro essere umano non è come una
radice o una panca: guardandomi, l’altro mi de-finisce, mi asservisce. Proprio perché libera, la
coscienza umana è catturata, sin dall’inizio, dalle altrui libere coscienze. L’essere-per-l’altro non è una
scoperta secondaria che la coscienza fa via via che fa esperienza del mondo: questa alienazione la
costituisce sin dall’inizio, nel senso che la coscienza non è mai sola, ma quel tanto di essere che essa
ha le viene dalle altrui coscienze.
 
Ci troviamo così confrontati al vero paradosso costitutivo del pensiero sartriano: questa sconfinata
libertà della coscienza umana si rivela presto una libertà ironica, ben lontana dai desideri di Don
Giovanni. È una libertà sin dall’inizio asservita dalla libertà dell’altro. Tutto il mondo storico, il
formicolare esagitato dei valori, è allora il precipitato di questo essere-per-l’altro che caratterizza
fondamentalmente ogni coscienza.
 
Indubbiamente, il Sartre migliore – secondo me, il primo - è da leggere nella chiave dell’ironia. In
questo, si dirà, Sartre non è speciale, in quanto, dopo Kant, la grande filosofia europea è diventata
tutta, e definitivamente, ironica. Nel senso che la filosofia non può fondare più alcun sapere certo, non
garantisce più alcuna scienza, né può istituire alcuna convinzione morale - se talvolta pare fare tutto
ciò, lo fa in realtà solo ironicamente. Quest’ironia spesso viene chiamata anche dialettica. E in effetti,
che c’è di più ironico di questa elegia sartriana della libertà sconfinata dell’uomo?
 
 Questa libertà è ironica perché essa finisce con il coincidere con l’accettazione massima dei vincoli.
Dei vincoli tremendi che gli altri sono per me. Le anime candide non hanno mai veramente capito
perché il drammaturgo che ha fatto dire al suo personaggio “L’enfer c’est les autres“, “L’inferno sono gli
altri” (in A porte chiuse) sia poi diventato il paladino proverbiale delle buone cause altruistiche. Questa
ambivalenza o antinomicità del rapporto con gli altri tinge tutto il pensiero di Sartre di un chiaroscuro
sardonico. Ogni soggetto è sconfinatamente libero nel senso che deve sconfinatamente accettare la
sua servitù alla libertà degli altri.
 
7.
 
Cerchiamo di vedere concretamente questa ironia della libertà sartriana. Prendiamo un caso storico
particolare, la questione ebraica - sulla quale Sartre scrisse il pamphlet Réflexions sur la question
juive (“L’antisemitismo” in italiano).
Qual è l’approccio liberal alla questione? Il positivista liberal denuncerà anche lui ogni ricostruzione
biologista dell’ebraismo, sulla base del dato di fatto - sottolineato da Sartre - che i sedicenti ebrei
appartengono, obiettivamente, a ceppi razzialmente diversi (alcuni, come i falasha, sono persino neri),
mentre d’altro canto è possibile che discendenti biologici da ebrei non siano conosciuti né riconosciuti
come tali. La biologia contemporanea rigetta la nozione stessa di razza. Allora, se la giudeità è una
eredità soprattutto culturale - un’eredità dello Spirito, non della Materia - in che cosa consiste allora
veramente l’essere ebrei? Se lo Spirito è libertà, il fatto che si possano ereditare tratti spirituali, culturali,
come qualità materiali, non contraddice l’ottica sartriana?
 
L’atteggiamento positivista si accontenta di un riconoscimento giuridico: tutelare il diritto di un figlio di
ebrei di frequentare la sinagoga, oppure di non considerarsi ebreo e di assimilarsi a chi ebreo non è.
L’ebraicità, per il positivista, è tutt’al più un insieme di tratti culturali che vanno analizzati obiettivamente
in termini di fisica sociale (“studiare i fatti spirituali come cose” dixit Durkheim).
 
Anche per Sartre la scelta di essere ebreo o di non esserlo è, come ogni scelta, senza fondamento,
certo senza fondamento naturale, perché l’uomo è libero. Ma la sua conclusione è alquanto diversa da
quella del positivista: per lui l’ebreo autentico è chi - al contrario di Marx, per esempio - accetta l’identità
ebraica, anche se non crede più in nessun precetto religioso. E questo perché l’essere ebreo non è
qualcosa che dipenda unicamente da me: lo sguardo dell’antisemita - che mi classifica come ebreo e
mi relega tra gli ebrei - mi impegna, direi mi impegola, come ebreo. Ciò che io sono non dipende da
un’oggettività biologica, ma nemmeno da una mia libera scelta: si incunea in una zona mediana,
chiaroscurale, in cui ciò che sono è ciò che l’altro fa di me - e ciò che faccio di ciò che l’altro ha fatto di
me. Questo chiaroscuro è la celebre situation sartriana, ciò che crea l’illusione prospettica di un’identità
essenziale. In termini filosofici: la dialettica intersoggettiva è alla base dell’identità soggettiva.
 
“Cosa fare di quello che l’altro ha fatto di me?” Questa è frase ricorsiva in Sartre. Essa viene spesso
evocata da coloro che vogliono scagionare Sartre dall’accusa di essere uno spiritualista che crede nella
metafisica della libertà: Sartre parla sempre di una libertà in situazione, vincolata dalla propria storia,
che non rimuove i condizionamenti ricevuti. Ma il punto è: fare quello che l’altro ha fatto di me è
davvero un atto radicale di libertà? Sartre lascia intendere che possiamo sempre negare quel che
siamo diventati grazie agli altri, ma al di là di questa negazione, ciò che decido di diventare non è esso
stesso qualcosa di fatto dall’altro?
 
Immaginiamo che io sia stato educato rigorosamente come cattolico, e poi da adulto abbandono il
cattolicesimo, per convertirmi, mettiamo, all’Islam. Direi che sono caduto dalla padella nella brace:
l’islam mi viene dall’Altro (in senso lacaniano) non meno del cattolicesimo. Mi si dirà che invece potrei
fare piazza pulita di ogni eredità religiosa e diventare ateo. Ma anche l’ateismo è una tradizione
culturale, che risale agli antichi, potrei diventare sartriano, e anche il pensiero di Sartre è Altro da me…
Certo, ci sono alcuni che inventano qualcosa di assolutamente nuovo, e magari restano nei libri di
storia. Ma sappiamo che sono pochi, molto pochi. La maggior parte di noi, per emanciparsi, deve
adattarsi a quel che passa il convento, ovvero l’Altro.
 
Del resto, potrei invece radicalizzare la mia educazione cattolica e diventare un attivista cattolico,
magari anche un santo… In questo caso avrò pur sempre fatto qualcosa di diverso da quel che è stato
fatto di me? Certo, ma se fare qualcosa di quel che è stato fatto di me può essere qualsiasi cosa, posso
dire che in fondo sono sempre fatto dall’Altro, qualsiasi cosa io pensi di fare di quel che hanno fatto di
me. Le libertà e l’obbedienza si intrecciano come i due lati apparenti di un nastro di Möbius.
Un pensatore dialettico come Sartre non accetta l’idea che noi umani saremmo qualcosa di oggettivo a
cui si aggiungerebbe poi il riconoscimento dell’altro. Non c’è una cosa, anche se sociale o culturale,
come l’essere ebrei, francesi o proletari. Non si tratta nemmeno di riconoscere, come G.H. Mead, che
l’immagine che gli altri si fanno di me contribuisce a plasmare l’immagine che io ho di me. L’essere
ebreo non è qualcosa di conoscibile, è esso stesso frutto di un ri-conoscimento: sono ebreo perché lo
sono per l’altro, innanzitutto per l’anti-semita, che me lo butta in faccia come mia faccia, che mi squadra
da capo a piedi ‘come si esamina un ebreo’. Rispetto a questo sguardo che mi situa, già di per sé
mortificante – perché mi riduce alla morta identità – il mio negare di essere ciò che di me è situato si
riduce a ipocrisia, a viltà, a “mala fede”.
Da un certo punto di vista, la tesi di Sartre sull’ebraismo può apparire superficiale. Raymond Aron[7] -
che era nato ebreo da una famiglia secolarizzata - la criticò in quanto pensava che la cultura ebraica
fosse un insieme positivo indipendente dalle opinioni di chi ebreo non è. Un ebreo, anche non credente,
solo con molta difficoltà può accettare l’idea che tutto il sistema complesso della propria fede e cultura,
dell’humour ebraico, della cucina ebraica, delle nevrosi e della creatività ebraiche, delle ossessioni
ebraiche, del mammismo ebraico, che tutto questo edificio mastodontico costruitosi nel corso di secoli
non sia che l’altro versante, cosificato, dello sguardo dell’anti-semita. Eppure…
Eppure qui Sartre preannuncia il punto di vista che diverrà poi dominante, quello dello strutturalismo e
del post-strutturalismo. Certo, in Francia queste due ultime correnti si sono affermate in
contrapposizione polemica con il sartrismo, ne appaiono quasi un rovesciamento. Ma oggi è tempo di
vedere le cose in una prospettiva più lungimirante, e, oltre che di dare a Cesare quel che è di Cesare,
di dare a Sartre quel che è… dei suoi oppositori. Come Sartre, lo strutturalismo e il post-strutturalismo
riannodano con Heidegger (e con Hegel). Essi si sono opposti al sartrismo letterale, parodizzato, senile
- dei suoi piatti discepoli - non all’ironia sartriana originaria. Piuttosto possiamo considerare le
avanguardie culturali francesi degli anni ‘60 e ‘70 più uno sviluppo possibile del sartrismo che una sua
negazione.
Ad esempio, resterà una caratteristica della cultura francese fino a oggi – malgrado la venerazione per
Proust – una sua certa viscerale ostilità alla “vita interiore”. “Ci ha liberato dalla vita interiore” sentenziò
trionfalmente Sartre a proposito di Husserl. Lo strutturalismo e il post-strutturalismo non faranno che
radicalizzare questa diffidenza sartriana per il mondo patetico dei sentimenti, degli affetti, dei timori e
tremori del cuore, dell’introspezione intimista. Anche in letteratura, il nouveau roman degli anni 1960
(Robbe-Grillet, Butor, Sarraute, ecc.) proseguirà il progetto sartriano di sviscerare la supposta interiorità
negli oggetti, nelle azioni, nei gesti e nelle situazioni.
Che cosa direbbe appunto dell’identità ebraica un post-strutturalista? Che questa identità non precede
le differenze: la differenza precede e produce l’identità. Vale a dire la differenza, tra me che mi ri-
conosco ebreo e tu che mi conosci come tale, fonda la mia “identità” ebraica più di quanto non sia il
contrario. E l’altro a sua volta non è un’identità, manca di essere almeno quanto me. Certo, Sartre non
parla di precedenza della differenza rispetto all’identità - parla però di precedenza dell’esistenza
sull’essenza; eppure questa dialettica della differenza è già in nuce nel suo pensiero. Nell’idea cioè che
ogni essere umano non è quel tale ente per certe ricchezze (anche spirituali) ereditate, ma è essere per
l’Altro e dall’Altro.
 
In effetti, ciò che appare come fatto storico-culturale positivo per altri versi può essere ricostruito come
residuo di processi negativi, di giochi originari di sguardi, di occhiate di odio, di disprezzo, di
ammirazione o di scorno. Che ne sarebbe stato della cultura ebraica se gli ebrei fossero stati sin
dall’inizio assimilati nel mondo cristiano, anziché essere ghettizzati? Forse la cultura ebraica non si
sarebbe disciolta in quella dei gentili, ma avrebbe preso direzioni molto diverse da quelle che oggi la
caratterizzano. Forse il cristianesimo si sarebbe molto più giudeizzato, ma forse anche il giudaismo si
sarebbe ampiamente cristianizzato fino a essere radicalmente diverso da quello che, nella filigrana
delle svariate differenze, identifichiamo oggi come tale. Veramente la comunità ebraica è sopravvissuta
per la grandezza della sua matrice culturale? O questa matrice ci appare oggi così grande e prestigiosa
proprio perché è servita a esseri umani, per migliaia di anni, a sopravvivere come diversi dagli altri?
La grandezza culturale ebraica è probabilmente lo strascico d’essere di una grande situazione, per il
fatto che per secoli i cristiani vollero conservare gli ebrei pur rimuovendoli. Disse Hanna Arendt, che
pure aveva ripudiato la fede ebraica: “Quando si è attaccati come ebrei, ci si difende come ebrei”[8]. Ma
l’essere ebrei non è la sedimentazione storica del difendersi come ebrei?
 
8.
 
Ma è in questo modo che la libertà sartriana si stacca dalla matrice libertina, proprio nella misura in cui
la prosegue. Il libertino è chi rifiuta di pensare che le eredità culturali valgano per lui stesso: è chi si
considera supremamente libero di scegliere di obbedire alle regole sociali, oppure no. L’autenticità
sartriana è un libertinismo disincantato: è in fondo un piegarsi, un riconoscere che io sono ciò che gli
altri fanno di me. Perché solo nella misura in cui riconosco di essere quello che gli altri fanno di me,
posso ribellarmi a questo, posso non essere. L’uomo è sconfinatamente libero solo nella misura in cui -
certo più che nell’ottimismo liberal-positivista - accetta di assumere il fardello, sconfinato, della Storia di
cui egli è figlio. In fondo, l’uomo sartriano deve accettare la prigione per poterla negare, o evaderne.
Egli è sempre come il sequestrato di Altona: ingabbiato eternamente dai propri atti, può affermare la
propria libertà solo rinchiudendosi nella prigione (se altri non hanno pensato già a imprigionarlo) del
proprio engagement - o encagement, se mi si permette il bisticcio (da cage, gabbia).
 
Non è in fondo quel che Sartre stesso confessa candidamente, ogni volta che parla con nostalgia del
suo periodo di prigionia in Germania? “Nello Stalag [il campo di prigionia tedesco] ho trovato una forma
di vita collettiva che non avevo più conosciuto dopo l’Ecole Normale, e voglio dire insomma che lì ero
felice”, scrive[9].
 
9.
 
Sartre affascinò più di una generazione di giovani perché, da filosofo, pareva celebrare la pura azione,
“l’azione per l’azione”. Sartre, come i comportamentisti, svaluta i valori, le ideologie: per lui i valori non
sono contenuti chiusi nelle nostre teste, ma sono il precipitato di azioni. Non sapremo mai che cosa
frullava nella testa di quegli ugonotti francesi che, per mesi, rischiarono la vita di tutti loro per
nascondere alcuni ebrei e sottrarli alla deportazione nazista durante la guerra. I loro “valori” sono
l’effetto prospettico di quello che hanno fatto, nel silenzio dell’anonimato.
 
Gran parte della filosofia moderna, da Goethe e Fichte in poi, ha esaltato l’azione come creatrice di
valori, di identità e di mondi. Sartre riprende pienamente l’orgoglio romantico – o forse semplicemente
occidentale moderno? – per l’etica come azione. Da qui la sua insistenza nel distinguere l’atto
dal geste. Eppure gli eroi dei suoi romanzi non sono granché attivi: indecisi anzi infingardi, paiono
indugiare nelle paludi della lotta interiore più che scegliersi attraverso gli atti. In effetti, se Sartre li
avesse descritti come attori, li avrebbe ridotti a comportamenti, a esteriorità. Per far sentire come
l’azione sia donazione di essere - e non solo mezzo per fare qualcosa - gli occorre sospenderla, tenerla
a bada. Perché, malgrado tutto, la domanda “che cosa io sono?” in Sartre è ben più essenziale della
domanda “che cosa devo fare?” Rispondere alla domanda con “sono quel che faccio” è sempre
rispondere alla domanda veramente interessante, “che cosa sono io?“, non è cambiare domanda. È
rispondere alla domanda dell’adolescente, che non sa ancora chi egli sia (prima che, invecchiando, non
dimentichi che egli non è).
 
Per il comportamentista e il positivista ciò che conta è il comportamento, non l’azione. Per Sartre le
azioni non sono behaviour, ma qualcosa che incastra l’uomo agente nell’essere. Non è l’efficacia
pratica degli atti che conta per Sartre, quanto piuttosto il fatto che, agendo in un certo modo, io sono,
ineluttabilmente. “Agisci senza speranza”, raccomandava Sartre. Vale a dire: al pessimismo della
ragione replica con l’entusiasmo disperato dell’azione; non con l’ottimismo della volontà. (La volontà
per Sartre non è infatti una facoltà psichica: si risolve nell’azione che la evoca.) Replica con un’azione i
cui effetti sono incalcolabili. Se è vero che l’azione precede i valori, per Sartre, è pur vero che questa
azione “incolla” l’uomo all’Essere, gli dà la collosità appiccicosa di ciò che è. Ciò che ha fatto nella sua
vita è incancellabile. Per cancellare la sua esistenza mancata, Mathieu, in La mort dans l’âme, muore
eroicamente battendosi contro i tedeschi invasori - per Sartre solo nell’atto eroico l’uomo in fondo
è vero. Matthieu ritarda di otto minuti l’avanzata vittoriosa dell’esercito nazista sparando… L’utilità
pratica di questo atto è minima, ma in questo modo Mathieu riscatta o vendica ciò che egli è. L’azione
pura non è un agire strumentale, per essere più felici. È donazione di essere, dà sostanza e corpo a
quel Cavaliere Inesistente (eroe di Italo Calvino) che è l’essere umano sartriano.
 
10.
 
In realtà questi “paradossi della libertà” ossessionano, sin dall’inizio, il pensiero liberale, libertario e
libertino. Il liberalismo economico, ad esempio, portò a una situazione in cui la sola libertà che restava
a molti era quella di morire di fame - perciò, dal New Deal in poi, bisognò correre ai ripari vincolando
con la colla-stato la libertà economica. Quanto al libertino, egli è prima di tutto chi si ribella
all’oppressione dei preti e dei signori in nome del diritto alla propria licenza. Ma non a caso gli scrittori
libertini descrivono come libertini radicali e spietati i preti e i signori, come si vede tanto spesso nei
teatri letterari del marchese de Sade. È come se il libertino ideologico prendesse a modello la licenza
dei padroni che vietano ogni licenza. Apparve allora che l’oppressione dei preti e dei nobili era un
effetto perverso della loro libertà eccessiva: lasciato alla sua libertà, l’uomo pare tendere
spontaneamente ad asservire e sfruttare l’altro. Tutta l’opera ironica di Sade rimesta sempre in questa
tremenda contraddizione: l’ideale del libertino è l’oppressore contro cui egli si rivolta, e il paradosso è
che la libertà del libertino asservisce gli altri. (Perciò a un certo punto Hegel elaborò la dialettica del
padrone e del servo: per mostrare che la contraddizione del padrone libertino era in realtà il motore
della storia umana.)
 
Se le scelte libere dell’uomo sono senza fondamento, cosa dirà il filosofo a chi liberamente sceglierà di
opprimere gli altri? A chi eviterà la mauvaise foi, facendo il cattivo in perfetta buona fede? Don Giovanni
è l’eroe non solo della libertà, ma anche dell’inganno delle donne. Se l’uomo può scegliere tra
l’altruismo e l’egoismo, la varietà delle risposte umane alle condizioni storiche precise non sono la
prova della sua libertà, del suo “libero arbitrio”? Del resto, Jean-Paul non aveva detto che “si riduce a
essere la stessa cosa lo sbronzarsi da soli o il guidare interi popoli”[10]? (In un certo senso, Sartre ha
finito col praticare entrambe le alternative.)
 
Ora, con un tour de force Sartre cerca di mostrare come proprio la libertà sconfinata, senza fondamenti,
dell’essere umano, può in un certo senso “fondare” le buone scelte. L’esistenza autentica - la libertà
vera - è solo dalla parte dei “buoni”, cioè di chi si batte per la libertà non solo di se stesso, ma di tutti. In
effetti, siccome l’essere umano è libero, vive autenticamente la propria libertà solo chi si batte per la
liberazione degli altri. Perché questo?
 
Scriveva Iris Murdoch[11] :
 
Kant e Rousseau, …, misero in connessione la nozione di libertà come caratteristica della coscienza
con la natura della società ideale. C’è tuttavia una certa oscurità, o addirittura una mancanza di
franchezza, nel modo in cui Sartre ha proceduto dalla descrizione alla raccomandazione.
 
“Addirittura una mancanza di franchezza”: Murdoch lo accusa di mauvaise foi! In effetti c’è un sospetto
di malafede nel passaggio di Sartre dalla descrizione fenomenologica della libertà della coscienza
come nullificante a una morale dell’engagement, dell’impegno universalizzante. Attraverso questo
stratagemma “kantiano”, però, Sartre da pericoloso libertino si trasforma in eroe delle Buone Cause, in
uno dei santi tutelari della sinistra occidentale. Con la sua manovra dialettica, ridà fiducia e legittimità a
una sinistra di teste d’uovo che, anche grazie a lui, si sentiva brancolare nel buio di una libertà troppo
gravosa per delle borghesi anime belle.
 
Attraverso il mirabile gioco di prestigio di Sartre, la libertà senza fondamenti finiva così con
il fondare filosoficamente certe ideologie molto precise, le quali, guarda caso, proprio in quegli anni si
identificarono con regimi e movimenti negatori di certe elementari libertà personali ed ’esistenziali’.
Attraversata l’ebbrezza, il capogiro, della libertà assoluta, noi sartriani (perché tutti lo siamo stati, 30, 40
o 50 anni fa) tornavamo alla bontà di sempre, all’altruismo cristiano, che ora potevamo finalmente
accettare in quanto ci lasciava come consolazione l’odore sulfureo della nostra libertà di coscienza.
 
Così, per “le generazioni sartriane”, l’engagement, il darsi alla Rivoluzione, fu in fondo un modo di
mettere la testa a posto. Il messaggio, in apparenza scandaloso, di Sartre, divenuto politica,
indefesso engagement - encagement - divenne la forma media di perbenismo intellettuale degli anni
1950 e 1960. Eravamo “condizionati” a essere di sinistra perché la cultura di sinistra era quella
dominante nelle scuole, nelle università, nei rotocalchi di qualità, nei salotti. Ma, grazie a Sartre, ci
illudevamo che fosse una scelta libera - anzi, arbitraria, folle, eroica. Eravamo manovrati dai nostri padri
e professori, e pensavamo di essere libertini scandalosi, una lama conficcata nel cuore della morale del
potere. Ma quella nostra illusione sartriana era dopo tutto un modo di accettare la vita pratica come
tutti, pur restando “diversi”. Come dice un personaggio in un film di Nanni Moretti: “Uguali ma diversi;
diversi ma uguali; eppure uguali, ma diversi…”[12]
 
Questo fino a quando non iniziò il declino di Sartre come maître à penser di una generazione. Oggi, il
declino dell’influenza sartriana ha significato un tramonto del ruolo centrale e capitale della filosofia tout
court come chiave maggiore per rendere intelligibile la storia. La morte di Sartre, se non la morte della
filosofia, rappresenta certo la fine di una visione forte della filosofia come accesso
preliminare all’intelligenza delle cose umane. Suona emblematico il fatto che, dopo la morte di Sartre, si
impose un filone filosofico in Italia chiamato pensiero debole. Il fatto che Sartre, pur così intelligente,
avesse commesso gli errori madornali di valutazione di tutto “il popolo della sinistra”, ci disilluse sul
potere che avrebbe il filosofo di vedere molto più lontano degli altri. Nella seconda metà degli anni
1960, questa richiesta di poter vedere lontano, oltre le illusioni, si volse piuttosto alle scienze umane -
alla psicoanalisi, alla sociologia, all’antropologia culturale, alla semiotica, alla teoria della
comunicazione, alla storiografia. Fu così uno storiografo come Michel Foucault a prendere il posto di
Sartre come ispiratore di una sinistra radicale. Infatti, la filosofia, se certo aiuta molto a pensare, non
per questo aiuta necessariamente a capire. Perciò a un certo punto capire - capire punto e basta - ci
parve anche più importante che pensare. Il pensare doveva mettersi al servizio del capire.
 
In seguito, rimanemmo delusi dalle “promesse” delle stesse scienze umane, le quali, dopo tutto, non
forniscono più sicurezze della meditazione filosofica. Da qui un certo ritorno, nei tardi anni 1980, alla
passione filosofica… E, forse, un certo rinnovato interesse per Sartre.
 
Note
 
[1] In croato, “Sartre, potlaceny libertin”, Lettre Internationale,  2, Zagreb, Jaro 1991, pp. 24-27. In
francese, “Sartre - le libertin séquestré”, Lettre Internationale, n. 27, Hiver 90/91, pp. 25-29.
[2] L. Da Ponte, Don Giovanni, Atto I, scena XXI.
[3] Mi riferisco a Immagine e coscienza (Einaudi, Torino 1948), a L’immaginazione. Idee per una teoria
delle emozioni (Bompiani, Milano 1962), e a L’idiota di famiglia. Flaubert dal 1821 al 1857, 2 voll. (Il
Saggiatore, Milano 1977).
[4] G. Lukacs, Existentialisme ou Marxisme?, p. 196.
[5] L’Etre et le Néant, p. 653.
[6] La Nausée, p. 177.
[7] R. Aron, Essais sur la condition juive contemporaine. Textes réunis et annotés par P. Simon-
Nahum, Persée, 1989.
[8] H. Arendt, Hannah Arendt su Hannah Arendt, S. Velotti, a cura di, in «Micromega», 2006, n. 8, pp.
152-76.
[9] Cfr. Annie Cohen-Solal, Sartre, Il Saggiatore, Milano 1886, p. 184.
[10] L’Etre et le Néant, p. 721.
[11] In Sartre. Romantic Rationalist, Yale Univ. Press, New Haven 1953, p. 67.
[12] In Palombella rossa, 1989.

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