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Il futuro è macchina

C’era una volta uno stratega della leadership di nome Robert Wolcott, uno di quelli a cui piace dare
consigli su come avere successo nella vita. Un bel giorno, Robert viene intervistato da un inviato
del giornale Forbes, che gli chiede quali sono le doti che deve possedere un vero leader. A questa
domanda, Robert risponde che, per riuscire a ispirare davvero le persone e diventare un leader,
bisogna innanzitutto avere la capacità di inventarsi il futuro, di raccontare il futuro proprio come
una fiction, di narrarlo come una storia.

Un bel giorno, mentre passeggia per le strade della città, Robert incontra Lela London, una blogger
di Forbes che gli racconta una storia: dopo aver fatto una serie di interviste in Gran Bretagna, Lela
scopre che quasi i due terzi degli inglesi credono che ci sarà un robot in ogni casa entro i prossimi
cinquant’anni. Senza cadere in distopiche paranoie hollywoodiane, il racconto di Lela fa delle
macchine una presenza costante nel futuro.

Sono tante in realtà le storie sul futuro che ogni giorno incontriamo attraverso i media: nelle news,
leggiamo ad esempio la storia di Sophia, la robot intelligente condannata a una triste carriera nel
campo del marketing, che gira senza sosta da un summit a una conferenza, per promuovere
l’azienda di chi l’ha creata…; al cinema, vediamo la storia di Samantha, il sistema operativo (a cui
l’attrice Scarlett Johansson ha dato la propria voce) che si evolve a tal punto da diventare la
compagna (non tanto fedele però) del suo solitario ‘padrone’ Theodore, ma restando sempre
incorporea, invisibile e confinata tra gli 0 e 1 del computer…; su Instagram, interagiamo con la
storia di Lil Miquela, una influencer ‘artificiale’, un avatar che, nonostante la pelle ambrata e la
sessualità ambigua con cui è stata disegnata, non riesce a superare l’immagine stereotipata di quella
bellezza patinata e oggettificata che è continuamente riproposta dalle copertine di ogni rivista di
moda e stile. Storie che raccontano, insomma, un futuro che è si femmina, ma nella maniera più
convenzionale che possiamo pensare, un futuro fatto di robot, di macchine, di automi, che si
limitano però a fare da esecutrici dei voleri di qualcuno (molto spesso, del loro signore o creatore).

Eppure, raccontare il futuro, prevedere il futuro come popolato da macchine servili e


dall’intelligenza limitata (come Sophia, Samantha, Miquela), pre-vedere il futuro a partire dai dati
che abbiamo, vuol dire negarlo, vuol dire trasformarlo in una mera replica, una copia del presente;
al contrario, invece, fabulare il futuro vuol dire lasciarne aperta tutta l’imprevedibilità,
immaginarselo sì come una successione di eventi o come la trama di un libro, ma di cui non
possediamo il finale. Un po' come se Agatha Christie non volesse svelarci, alla fine, il nome
dell’assassino.

Il finale, ossia il futuro, è quindi aperto, e le nostre tre protagoniste possono in realtà diventare
narratrici delle loro stesse storie, storie che possono prendere pieghe e deviazioni inaspettate,
diverse da quelle programmate dai loro inventori, registi, disegnatori: possiamo allora immaginare
Sophia che abbandona il suo capo e parte per lo spazio siderale, dove una volta ha dichiarato, in
un’intervista, che le piacerebbe dare appuntamento al suo attore Bollywoodiano preferito Shah
Rukh Khan; possiamo immaginare Lucy (un’altra eroina iper-tecnologica impersonata dalla
Johansson), come una donna che, a differenza della vicenda di distacco tra Theodore e Samantha,
finisce col fondersi fisicamente con un computer e col penetrare, con la sua intelligenza, la materia
stessa, in ogni sua particella infinitesimale; e possiamo immaginare Miquela prendere coscienza di
essere, in fondo, solo un’immagine o un’aspirazione. Mentre l’imperialismo cognitivo e culturale
dell’Occidente si veste di propaganda umana, le immagini di Sophia, Lucy, Miquela ci pongono di
fronte al dilemma di noi stesse: diventano uno specchio. Potremmo figurarcele tutte e tre mentre
con-fabulano tra di loro. E potrebbero continuare a tessere le loro storie per molto tempo… Ma, il
tempo è complesso, oltre che prezioso. E alla fine, non sono i dettagli delle storie a restare con noi,
ma il finale mancante. Fabulare il futuro, come abbiamo visto, non è la stessa cosa che anticiparne il
finale: la previsione non crea un reale futuro ma solo un’insistenza sui dati del presente, un futuro
presente già calcolato, il che ci deruba in realtà sia del futuro che del presente. L’anticipazione
esclude ogni possibilità di comportamento divergente e imprevisto, ignorando quella ‘differenza’
introdotta invece dall’integrazione ricorsiva del futuro nel presente. Si tratta di una differenza
poetica, quella del futuro, una ricorsività del non noto e del non conosciuto, a cui non viene lasciato
alcuno spazio nel contemporaneo regime post-democratico, laddove invece un futuro già noto ci
investe di ansie o desideri continuamente replicati. Pensare il futuro significa in realtà restare nella
poetica e indicibile differenza dell’attesa. Un’attesa non semplicemente di passività accogliente, ma
di apertura all’azione. (1-2-3-4)

La morale della favola (ebbene sì, c’è anche una morale), è una morale ‘artificiale’, nel senso che
sono gli algoritmi dell’IA, anzi gli algoritmi del machine learning, a mostrarcela.

Se l’ostilità verso l’automazione risale a un atavico eccezionalismo dell’umano, e se la


presentazione prometeica della tecnologia offre l’immagine di una intelligenza servilmente
infallibile, il paradosso della nostra epoca è quell’incomputabile indeterminatezza del sistema,
quel numero definibile ma non computabile, discreto e infinito, che indica i limiti della ragione e
l’emergere di un modello più dinamico del ragionare. Lo stesso modello che ci viene mostrato da
ogni IA nell’atto di imparare: i risultati non sono mai contenuti nelle premesse assiomatiche del
sistema. Cosi’ gli algoritmi sono in grado di mutare, navigare e re-imparare, sondando ogni
orizzonte possibile.

Con il loro comportamento, gli algoritmi ci insegnano come agire il futuro, quando imparano,
attraverso le informazioni che ricevono man mano, ad andare oltre gli assiomi predefiniti e i compiti
predeterminati. Ogni mente, quindi anche una mente umana, può in questo senso diventare
algoritmica, ‘artificiale’, non nel senso di ‘opporsi alla natura’, ma nel senso di una propensione ad
adattarsi a propositi che sono sempre nuovi. Una mente artificiale è una mente che si aliena da sé
stessa e dal proprio habitat naturale o nativo, accogliendo il mistero che è proprio del futuro. (1-2)

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