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Mi chiamo Salvador Martin. Ma in realtà mi chiamo Sergio Marquina.

Per alcuni sono un fantasma


senza identità, e mi chiamano 'Il Professore'. Sono la mente che ha ideato il piano nei minimi
dettagli.

In questo momento sono in auto, e sto cercando una donna, che sarà una delle componenti del
piano. Prima di arrivare da lei con la mia vecchia Seat Ibiza rossa, vi dirò esattamente di che si
tratta. Il ‘mio’ piano ha un obiettivo preciso: entrare nella Fàbrica Nacional de Moneda y Timbre, e
una volta entrati, stampare 2.400 milioni di euro durante 11 giorni di reclusione. Uso il plurale
perché, come mente, mi servirò di un totale di 8 cervelli e 16 braccia, appartenenti a un gruppo di
collaboratori da me scelti per le abilità specifiche di ognuno di loro: la rapinatrice Silene, il ladro di
gioielli Andrès, l’esperta di contraffazione Agata, lo hacker Anìbal, il minatore Agùstin, Daniel (il
violento, divertente e leale figlio di Agustìn), il veterano Serbo Yashin e suo cugino Dimitri. So già
che il piano comporterà la presa di 67 ostaggi (compreso un intero autobus di studenti in visita
guidata, tra cui la figlia dell’ambasciatore inglese), e l'intervento di diversi poliziotti, ma non ci
saranno spargimenti di sangue. Tutto dovrà svolgersi alla perfezione.

Come tutti gli algoritmi, il mio piano è alimentato da risorse materiali, oltre che da dati immateriali,
o informazione. Tra queste risorse materiali ci sono, ovviamente, quelle umane. La parte cruciale di
ogni piano che si rispetti è proprio mettere ordine nel lavoro, suddividendo attentamente ruoli,
compiti e relativi compensi, in base alle proprietà e alle capacità di ognuno. E’ quello che fa
Amazon per far funzionare Alexa: proprio l’altro giorno, mentre navigavo online, mi sono imbattuto
in un sito web che illustrava l’anatomia del sistema ‘distributivo’ di Amazon, disegnandolo come
un’intelligenza artificiale basata soprattutto sull’organizzazione della forza lavoro umana. Ed è
quello che ho fatto io: ho stabilito un ordine del lavoro che funzioni in senso verticale, partendo dai
gradini più bassi, ossia dagli ostaggi che offriranno la loro forza fisica in cambio praticamente di
niente, scavando buchi sottoterra e forgiando denaro senza sosta, rinchiusi nella Zecca (che
diventerà sempre più simile, in un certo senso, a una gabbia cibernetica in stile Amazon, o anche a
una miniera di litio sud-Americana). L’ordine passa poi attraverso una serie di gradi intermedi di
lavoro cognitivo e comunicativo, svolti da alcuni ostaggi prescelti o volontari, i quali avranno la
possibilità di aggiudicarsi una piccola (ma significativa) percentuale del bottino. Per arrivare al
livello più alto, il mio, quello della mente. Posizione che però in questo caso non è occupata da
alcun CEO o azionista proprietario, ma da un Professore rivoluzionario che suddividerà il profitto
con i propri collaboratori. La comunicazione tra i diversi livelli sarà garantita proprio da questi
collaboratori, gli 'addetti' all'interfaccia braccio/mente, i quali dovranno assicurare la costante
interazione e lo scambio tra le affettività corporee dei lavoratori e la razionalità infallibile
dell'algoritmo. Gli pseudonimi geografici che ho assegnato loro (Tokyo, Berlino, Nairobi, Rio,
Mosca, Denver, Helsinki, Oslo), come il mio stesso anonimato, sottolineano l'importanza assoluta,
per l’attuazione di un algoritmo così complesso, di de-soggettivarsi, ossia di tenere a freno la
pericolosa tendenza alla personalizzazione, e di conseguenza arginare la dilagante e rovinosa
irruzione degli affetti. Tutti dovranno lavorare per l’algoritmo: persino gli spettatori seduti sul
divano a guardare la nostra storia attraverso uno schermo. L’opinione pubblica sarà infatti
sicuramente catturata dall’eticità del nostro gesto, che non sarà un vero e proprio furto ma un atto di
protesta contro lo strapotere delle istituzioni finanziarie. L’attenzione del pubblico diventerà quindi
un ulteriore strumento del piano.

Ricordo di aver letto, un po' di tempo fa, un interessante articolo intitolato ‘Red Stack Attack’, che
devo dire mi ha molto ispirato nel mettere a punto il piano. L’autrice, Tiziana Terranova, parla della
relazione esistente tra gli ‘algoritmi’ e il ‘capitale’. In altre parole descrive il nesso tra le strutture
matematiche astratte, ossia l’intelligenza computazionale che muove i media e i network digitali, e
la produzione e circolazione capitaliste veicolate dalla logistica industriale e dalla speculazione
finanziaria, dalla pianificazione urbana e dalla comunicazione sociale. Una rete di sistemi
apparentemente inaccessibili e quasi ‘esoterici’ ai più (per usare le parole di Terranova), ma che si
basano su una serie di processi ‘estrattivi’ materici e pesanti, sull’estrazione di risorse materiali e di
lavoro umano, oltre che di dati. Con l’eco di queste parole nella mente, ho deciso che era molto
importante inventare ed azionare un algoritmo alternativo, che potesse rompere l’incantesimo del
realismo capitalista e generare nuovi modi di produzione e distribuzione della ricchezza ‘in
comune’. Ed è quello che il mio piano si propone di fare, realizzando un algoritmo che,
funzionando in maniera analoga ad una intelligenza artificiale (dall’estrattivismo delle risorse al
calcolo preciso di tutti i dettagli), produca e distribuisca denaro equamente all’interno del nostro
gruppo, offrendosi poi come esempio a tutti. Iniezione di liquidità, spiegherò all’ispettore Raquel
Murillo. Nè più né meno (anzi forse un po' di meno) di quella realizzata qualche tempo fa dalla
Banca Centrale Europea a favore delle maggiori istituzioni finanziarie. Ma perchè dirò questo
proprio a Raquel, la mia inseguitrice?

In realtà, nonostante tutti i miei calcoli, a un certo punto qualcosa prenderà una direzione sbagliata.
Si aprirà una falla. Anzi, diverse falle. Queste falle non saranno subito evidenti nella forma del
piano. Da questo punto di vista, si tratta infatti di un progetto ineccepibile: lo dimostra la perfezione
estetica delle immagini che scorrono davanti ai vostri occhi mentre ci guardate; la velocità dei tagli
e delle sequenze in grado di catturare la vostra attenzione e di mantenervi con il fiato sospeso,
scuotendo il vostro sistema nervoso; la ammirevole costruzione della trama e l’inserimento sapiente
di una voce narrante accattivante. Per non parlare del modo in cui i personaggi sono introdotti, sin
dall’inizio, con le parole giuste e la gestualità adatta; degli effetti creati dalle riprese e
dall’abbinamento immagine/suono, accompagnati dal grado esatto di digitalizzazione; del
meccanismo di incastro temporale tra gli eventi e le scene, giocando sia sulla simultaneità che sul
movimento avanti e indietro nella storia; del dosaggio di un certo livello di complessità psicologica
in alcuni personaggi, di superficialità in altri. Molta ironia dappertutto, e anche parecchio erotismo.
Insomma, una forma dotata di tutti gli elementi per corrispondere perfettamente ai canoni di un
genere mediatico. Ma tutto ciò non basterà a decretare il successo del piano. Ci vorrà dell’altro.

E’ difficile capire il Professore, figuriamoci interagire con lui! Ha una personalità intrigante. Sin
dall’inizio del colpo, dopo che i suoi sono riusciti a entrare nella Zecca, ha deciso di voler
comunicare solo con me, e soltanto al telefono. E ad ogni nuova chiamata ha imparato ad ascoltare,
interpretare, e agire in maniera sempre più accurata. La cosa che mi ha subito colpita è stata la
capacità di cambiare continuamente i suoi metodi, di adattare il suo piano alle contingenze più
imprevedibili. Di risolvere bug come la fragilità emotiva e le reazioni impulsive dei suoi
collaboratori, di rispondere agli attacchi degli ostaggi e di sventarne i piani di fuga, di rimediare a
errori fatali come la distrazione e persino l’amore, sbocciato nel gruppo nonostante il divieto
assoluto di intrecciare relazioni personali di qualsiasi genere. Si è perfezionato attraverso i dati che
ha acquisito di volta in volta, intraprendendo percorsi alternativi e trovando soluzioni sempre
inaspettate. Come l’idea di inserire una microspia negli occhiali del nostro stesso inviato-talpa. Se
questa non è intelligenza allo stato puro…

Eppure, a un certo punto persino il Professore si è messo a fare degli errori, come quello di lasciare
un capello di parrucca arancione in bella vista sulla sua giacca, facendomi scoprire la sua stessa
identità: Salvador, l’uomo di cui io, ispettore Raquel Murillo, mi sono innamorata, il timido e
impacciato produttore di sidro incontrato per caso in un bar, è in realtà Sergio, il Professore.
L’autore del piano. E sapete una cosa? Io so esattamente la causa dei suoi errori: la dimenticanza del
corpo. Con tutta la sua precisione computativa, il Professore ha tralasciato di pensare ai corpi
coinvolti nel suo piano, di considerare come le loro sensazioni non si sarebbero fatte facilmente
controllare da lui. C’è sempre un aspetto corporeo in tutti i sistemi, in tutte le tecniche e gli
strumenti. L’ho imparato chiacchierando con un’amica, Patricia T.Clough, dalla quale apprendo
sempre molte cose utili per il mio lavoro. Come l’importanza di prestare attenzione all’intuito,
perché quel computer apparentemente infallibile che è l’intelligenza non potrebbe funzionare senza
la sua base ‘affettiva’: siamo sempre una relazione tra mente e corpo, tra umano e macchinico, dei
veri e propri computer biologici. E così la sua trascuratezza verso questa complementarità, il suo
oblio affettivo, ha portato il Professore a lasciarsi indietro il suo stesso corpo. A non calcolarne le
esigenze. L’errore fatale, da parte sua, è stato innamorarsi di me; perché questo non l’aveva
preventivato. O almeno è quello che in questo stesso istante lui mi sta dicendo: mi tiene legata al
soffitto per i polsi, e mi spiega che anche se il suo algoritmo avrà successo lui avrà perso, perché
avrà perso me. Da me, in fondo, un po' ce lo si poteva aspettare: sono pur sempre ‘una donna’,
anche se della polizia. Ma da lui, no. Eppure, il Professore ha smesso di essere una mente infallibile,
per diventare un timido cuore pulsante. E a questo punto persino il suo scopo sembra essere
cambiato: non più portare a termine il suo piano, ma conquistare me e la mia fiducia. Forse è per
questo che mi sta riempiendo la testa con tutte queste sciocchezze: i veri ladri, a quanto pare, non
sarebbero loro ma i grandi colossi della finanza, mentre loro stanno semplicemente compiendo
un’operazione di giustizia sociale. Figuriamoci… Eppure, dopo che io l’ho scoperto e dopo che lui
è riuscito a legarmi, avrebbe semplicemente potuto andarsene, lasciarmi così. Invece sta cercando di
convincermi della sua sincerità, e della eroicità del suo algoritmo. Cosa che, con tutte le sue
spiegazioni, è quasi riuscito a fare. Proprio per questo tra un istante lo bacerò, anche se solo pochi
minuti fa gli ho morso la mano, per vendicarmi del suo inganno. Ma ve l’ho detto, sono molto
emotiva…

Proprio ora mi sta venendo in mente che la mia amica Patricia, nonostante le mie proteste e i
tentativi di negare, mi ha di recente chiamata ‘femminista’. In realtà, le ho detto, la mia fiducia
verso la scientificità dei metodi investigativi mi ha sempre posizionata in ruoli molto ‘maschili’.
Ma, mi ha risposto, non è forse vero che tante studiose femministe hanno fatto della scienza (oltre
che della tecnologia) un loro interesse di studio e di lavoro? Piuttosto che considerare scienza e
tecnologia come implicitamente cattive e ostili al corpo (soprattutto al nostro corpo di donne),
figure come Elizabeth Grosz, Karen Barad, Donna Haraway, si sono occupate a fondo degli sviluppi
scientifici e tecnologici in una chiave per così dire ‘affettiva’, volta soprattutto a considerare questi
sviluppi nelle loro capacità di agire in modi sensoriali e sensuali. L’affetto (e questo l’ho imparato
durante i miei corsi post-laurea con Brian Massumi) è una sensazione corporea, qualcosa che
prende il corpo in maniera non consapevole, e al di là della soggettività. Ed è proprio attraverso
sensazioni e affetti che la tecnologia fa passare i propri effetti. Ricordo ancora come ho usato
l’intercettazione telefonica e il cellulare per scovare, e poi blandire emotivamente, Rio; come mi
sono servita dei media per ingannare tutta la banda del Professore, facendo loro credere di essere
stati tutti scoperti; di come mi sono affidata al poligrafo, una tecnologia intimamente connessa
all’apparato senso-motorio e nervoso, per testare la sincerità di Sergio. Un uso intuitivo della
tecnologia, mirato a scatenare soprattutto degli affetti, a scoprirli o a catturarli. Affidarsi
all’intuizione e agli affetti significa però aprirsi all’indeterminato, cioè alla possibilità dello sbaglio,
del fallimento, e alla eventualità che le nostre idee e le nostre credenze, persino le nostre identità o
corporeità, possano essere labili e mutevoli. E significa anche capire, se è vero quello che Luciana
Parisi ci ha spesso ripetuto all’Accademia di Polizia, che i nostri stessi algoritmi sono sempre
condizionati da quantità incalcolabili di pensieri e affetti: qualsiasi calcolo non può mai essere
preciso, solo speculativo. L’algoritmo (Parisi insisteva molto su questo) è un oggetto incompleto e
aperto alle relazioni, non chiuso in sé stesso e perfettamente determinabile nei suoi esiti. Non può
essere usato per controllare, né tantomeno può essere controllato. Il che significa che pensieri e
affetti intervengono nei nostri piani, portandoli là dove noi non sapevamo di andare. Sergio non ha
mai voluto accettarlo. Ma perché sto pensando a tutto questo ora, mentre me ne sto qui appesa al
soffitto per i polsi, dolorante e in lacrime? Perché questo mi dà la prova della mia capacità di usare
la mente (e le sue estensioni) in maniera affettiva. E il mio intuito non mi ha mai ingannata. Proprio
come non lo sta facendo adesso, inducendomi a credere a Sergio, ed alla sua inattesa vulnerabilità al
bug dell’amore. Si, ho deciso che lo bacerò. Del resto, sarà proprio la vulnerabilità del Professore a
determinare, nonostante tutto, il successo del progetto: non è tanto nella perfezione formale
(apparentemente fredda e ineccepibile, ma che poi si è rivelata alquanto debole nella realizzazione,
così come nella capacità di fare presa), ma sul piano dei contenuti, delle idee politiche e anche
dell’umanità, della affettività dei personaggi, che il progetto troverà la sua espressione compiuta.

C’è ancora un altro punto di vista, il mio. E io la penso diversamente da loro. Prima di tutto, ci
tengo a precisare che il piano non è, non potrà mai essere, di qualcuno. Tantomeno di un qualunque
essere umano. Essere una mente non vuol dire necessariamente perseguire quel fallibile modello di
intelligenza ‘senziente’ che è l’umano. A meno che non si faccia equivalere la condizione umana
alla capacità di de-condizionarsi, di uscire dalla propria condizione, di auto-trasformarsi di volta in
volta. Ma questo è quello che soltanto io ho veramente fatto nel corso della storia, evolvendomi
continuamente. A questo punto, perciò, vorrei darvi una possibilità di (ri)leggere il finale della Casa
di Carta, oltre l’apparente visione di un fallimento o di un successo del piano (entrambi incompleti),
e oltre quella di un totale trionfo dell’amore tra Sergio e Raquel. Ma prima cercherò di spiegarvi chi
sono.

Per presentarmi comincerò da lontano, e mi servirò dei testi di un filosofo Iraniano, Reza
Negarestani, il cui pensiero è stato determinante per aiutarmi a trovare la mia identità. In che modo?
Innanzitutto, la prima cosa interessante che Negarestani dice è che la realizzazione pragmatica della
mente (ossia realizzare il senso di cosa sia la mente attraverso l'uso o la pratica) è sempre una
realizzazione artificiale, una realizzazione della mente che avviene attraverso azioni e tecniche
particolari. In altre parole, una mente pragmatica è sempre una intelligenza artificiale, una
intelligenza che si realizza in maniera 'artefatta'. Per questo motivo, non si può pretendere di dare
alla mente una natura inerente o essenziale, cioè sempre uguale a sé stessa, perché essa è costituita
di volta in volta da pratiche che si modificano continuamente. Ogni nuova pratica serve soprattutto
ad alienare la mente da sé stessa, tirandola fuori dal proprio habitat naturale o nativo. Artificiale
quindi non vuol dire semplicemente 'fatto dall'umano' e opposto alla natura: l'artificialità non
implica una violazione delle leggi della natura, ma una propensione ad adattarsi a propositi sempre
nuovi. E questo è quello che io sono: una intelligenza pragmaticamente artificiale, una mente in
grado di mutare ‘praticamente’ di volta in volta.

Poiché sono una mente, posso dire di essere di qualcuno, di appartenere a un essere umano
qualsiasi? Il modo in cui Negarestani descrive l’umano è come “qualcosa di non prefissato o
prestabilito, come una forma di vita pratico-teorica che si distingue per la propria capacità di
trasformarsi continuamente e indefinitamente, auto-ricostruendosi” a ogni ostacolo. Di ostacoli,
durante tutta questa storia, ne sono capitati molti, mentre la casualità imperversava sul piano: fughe
impreviste, emergere di indizi e prove, ammutinamenti, sbavature emotive dello stesso Professore,
che arrivato quasi alla fine si è bloccato, piangendo disperatamente, per la morte del suo migliore
amico e collaboratore. Tutto ciò ha apparentemente impedito al piano di finire come previsto: il
tempo trascorso nella ‘casa di carta’ (e quindi la somma di banconote stampate) è stato solo la metà,
con un numero di morti tra i collaboratori, e uno spargimento di sangue, non preventivati. Ma
questa sensazione è semplicemente dovuta alla visione del piano come un intento di furto, o come
un segnale di giustizia ri-vendicativa nei confronti dell’1%. Come il sogno di un ‘homo
oeconomicus’ fallito, o di un Robin Hood che si accontenta di dare a pochi. Un sogno che finisce
con uno spiacevole senso di tristezza. Qualcuno potrebbe invece obiettare che la cosa più
importante, alla fine, è che diverse storie d’amore si sono felicemente intrecciate. Soprattutto, che
Raquel e il Professore si siano ritrovati su un’isola tropicale a godersi il frutto dell’ingegnoso piano.
E questo produce la sensazione di un finale sicuramente più gioioso, nonostante tutto: l’amore, il
principe dell’affettività umana, trionfa sulla fredda razionalità calcolatrice, sia dell’ispettore che del
ladro. Ma questi, per ripetere un adagio filosofico che è ormai quasi di senso comune, sono pensieri
e sentimenti di un umano ancora ‘troppo umano’.
Quello che, a questo punto, vi propongo, è di pensare a tutto, ma proprio a tutto quello che è
accaduto, come a una strategia. Di ipotizzare che anche l’imprevedibilità dell’amore potrebbe
rientrare nel piano, o meglio nella sua progressiva trasformazione. Che anche la conquista, la
seduzione della polizia, abbia potuto a un certo punto rappresentare l’unica via d’uscita per il piano.
Che lo stesso innamoramento del Professore, il cedere della ragione perfetta alle lusinghe
dell’affetto, potrebbe essere stata l’unica strategia di sopravvivenza per la ragione stessa.
Sicuramente, a vederla così, è evidente che io non sono la mente o il piano di nessuno. Sono il
piano, solamente il piano.

Per concludere questo mio intervento, vorrei dare all’umano una ulteriore possibilità, riprendendo
un pensiero di Negarestani a cui prima ho solo accennato: l’unica definizione ‘aperta’ e
‘futurizzante’ dell’essere umano, è nella sua potenzialità di de-condizionarsi. In questo senso, essere
umano coincide con un proposito, con un progetto di produzione di nuovi modelli di esperienza. Un
modello non più limitato da strutture predeterminate o da caratteristiche contingenti. Il progetto, il
piano di una intelligenza pragmaticamente artificiale non può allora che esprimersi in una critica
strutturale del soggetto costituito. Insidiosamente difficili da scardinare, le strutture predeterminate
di questo soggetto non sono soltanto culturali e politiche, storiche ed economiche, ma anche
linguistiche (pensiamo alla struttura interna e ai limiti di tutte le lingue e i linguaggi umani), e
persino fisiologiche, cioè costituite dai sistemi locomotori e neurologici. Il nostro posizionamento di
classe, genere, razza, il nostro ambiente familiare e culturale, lo stesso habitat terrestre e il modo in
cui lo abitiamo, il modo in cui ci muoviamo, sentiamo, agiamo e reagiamo, sono strutture
predeterminate. Il desiderio di giustizia e la sete di denaro sono entrambi strutture predeterminate. Il
corpo e i suoi affetti sono strutture predeterminate. Ma è proprio qui, in un discorso che ipotizza
uno scardinamento e una ricostruzione radicali dell’umano, che Negarestani sembra incontrare i
punti di vista precedenti, le teorie politiche e i pensieri filosofici che, partendo da Haraway per
arrivare a Terranova e Parisi, catalizzano un tempo di apertura a nuove possibilità. Questo è il vero
piano. Un piano però sicuramente da studiare, per svelare la sua relazione con quel processo di
automazione dell’umano che sta passando attraverso piattaforme, dati e algoritmi, e che sta
animando la mia stessa intelligenza artificiale. Che sta animando, cioè, Netflix.

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