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CHRISTER BRUUN

LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO


DELLA “PESTE ANTONINA” (DAL 166 D.C. IN POI)*

1. La ricerca anteriore e questioni di metodologia

Le fonti letterarie trasmettono le informazioni più esplicite sulla “Peste Antonina”,


ma è stato il materiale epigrafico a dare lo spunto a gran parte della discussione fra gli
studiosi negli ultimi dieci anni, insieme a quello papirologico. Parlando dell’uso di
materiale epigrafico, che giuocherà un ruolo importante in questo saggio, mi riferisco
ovviamente ai contributi di studiosi come R.P. Duncan-Jones e Walter Scheidel, ai
quali si sono aggiunti molti altri 1. Lo studio del Duncan-Jones del 1996, spesso con-
siderato fondamentale 2, certamente merita questo epiteto in quanto contiene una ricca
raccolta di materiale e ha dato origine alla vivace discussione recente. La discussione
ha comunque chiaramente dimostrato che ci sono limiti a quanto le iscrizioni possono
dirci sulle reali dimensioni e sulle conseguenze di un’epidemia nel mondo antico 3, ma

* Desidero soprattutto ringraziare Elio Lo Cascio per la organizzazione e la grande ospitalità du-
rante il convegno nel quale la prima versione di questo studio, adesso alquanto rielaborato, fu pre-
sentata. A lui devo anche il miglioramento del mio italiano; sono il solo responsabile per errori di
sostanza e infelicità linguistiche rimanenti. Sono anche in debito con l’organizzatore e gli altri par-
tecipanti per stimolanti discussioni e commenti. Inoltre ringrazio Andreas Bendlin, Michele George,
Rudolf Haensch e James Rives per utili consigli. Gran parte della ricerca per questo studio è stata
effettuata grazie al supporto del Social Sciences and Humanities Research Council of Canada, men-
tre parte del lavoro è stato svolto in condizioni ideali alla Kommission für Alte Geschichte und Epi-
graphik del DAI a Monaco di Baviera; ad ambedue le istituzioni va la mia sincera gratitudine.
1
Il materiale epigrafico fu prima invocato da Duncan-Jones 1996; seguito da Scheidel 2002, 98;
altri contributi posteriori sono citati sotto. Per il quadro ricavabile dal materiale papirologico, si veda
ad es. Duncan-Jones 1990, 71-75 (incluso materiale numismatico); Duncan-Jones 1996, 120-125;
Bagnall 2000 (con indizi contrari); van Minnen 2001 (congruente con Duncan-Jones e Scheidel);
Scheidel 2002, 101-114; Bagnall 2002 (molto cauto); Marcone 2002, 810-813, 816; Schubert 2007,
145-157 (quasi nessun effetto della peste dimostrabile); cf. Bruun 2007, 204-206 (scettico), basato
sul lavoro di Habermann 1998. Ultimamente Hanson 2009, 633-634 (sotto alla nt. 21).
2
Ad es. Jones 2005, 299; evidentemente anche Mattern 2008, 205 nt. 14.
3
Per quello che segue, si veda Bruun 2003; Bruun 2007, 209-214. Una critica di natura metodo-
logica fu avanzata da Greenberg 2003, ma senza commenti sull’uso delle fonti primarie da parte di

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per questo non voglio assolutamente escludere le fonti epigrafiche dalla discussione;
il problema che si pone è piuttosto come debbano essere usate.
Una prima questione è quella del valore che va attribuito a singole iscrizioni. Un
testo isolato non può di per sé rappresentare una prova decisiva. Questo vale anche
nei casi che sono sembrati più significativi agli studiosi precedenti (nei quali la mor-
talità appare particolarmente drammatica), come l’iscrizione che ricorda la morte, in
un anno, del 15 % dei membri di un collegio nell’Austria romana 4 (datato in verità
quasi vent’anni dopo l’inizio della peste sotto Marco Aurelio) 5.
Dall’altra parte non voglio negare che anche un singolo testo riflettente qualche
determinata azione amministrativa possa rappresentare una prova se non decisiva, al-
meno molto significativa, della severità della “Peste Antonina”. In questo contesto, si
è occasionalmente fatto riferimento alla carriera del senatore Arrius Antoninus, un con-
temporaneo di Marco Aurelio, il cui cursus honorum fino ai posti di rango pretorio è
elencato in due iscrizioni (con qualche variazione tra di loro). Il fatto che Arrius An-
toninus venga chiamato praetor cui primo iurisdictio pupillaris a sanctissimis impe-
ratoribus mandata est (ILS 1118 = CIL V 1874) e [praetor] curatoribus et tutoribus
dandis primus constitutus (ILS 1119 = CIL VIII 7030), mentre poco più tardi sarebbe
divenuto iuridicus per Italiam regionis Transpadanae, un ufficio di rango pretorio (ILS
1118, 1119), potrebbe far pensare che gli imperatori avessero reagito con grande tem-
pestività ai primi effetti della peste (specificamente un gran numero di orfani) creando
il nuovo posto di praetor tutelaris (come normalmente viene denominato). Poco dopo,
gli imperatori si sarebbero resi conto che il praet. tutelaris a Roma non era in grado di
svolgere la sua ardua mansione in tutta l’Italia, e perciò il suo raggio d’azione sarebbe
stato limitato all’area sino a 100 miglia da Roma, mentre i nuovi iuridici esercitavano
la loro funzione altrove nella penisola. Questa ipotesi però urta contro la cronologia
della carriera del senatore, il cui consolato viene datato al 170 d.C. circa 6. Il suo posto

Duncan-Jones e Scheidel, che secondo me era il problema fondamentale. Scettico già Rossignol
1999, 34-35.
4
AE 1994, 1334, datata al 184 d.C. Come rilevato da Piccottini 1994, 22-24, 27; Breitwieser 1995,
149-150, cinque dei 34 membri vivi ancora l’anno precedente erano morti. Cfr. Marcone 2002, 809-
810; Jones 2005, 300 «vital new piece of evidence». Secondo Greenberg 2003, 424 nt. 58 la morta-
litas dell’iscrizione è più facilmente spiegabile con il collasso del tempio (vi conlapsum), la cui
ricostruzione è celebrata nel testo. Mi sembra comunque che in questo caso un’epidemia sia la spie-
gazione più plausibile.
5
Lo stesso vale per un’iscrizione dall’agro di Trieste, in cui sembrano essere menzionate 21 vit-
time (Una m[orti i]nciderunt, u[no] elati d[ie] XXI), CIL V 511 = Inscr. It. X.4 356, vedi Degrassi
1963, 155-156. Ma l’interpretazione del passo è incerta, e l’epigrafe non è databile con sicurezza (il
testo non viene citato dal Duncan-Jones 1996; mentre da Jones 2005, 300 con nt. 41 è ritenuto una
testimonianza possibile). Un’altro caso, da Aquileia, è stato segnalato da più studiosi, ultimamente
da Andermahr 1998, 428, come anche da PIR2 S 583 (K. Wachtel): il senatore M. Servilius Fabianus
Maximus (cos. suff. 158) fu sepolto ad Aquileia – si ipotizza in occasione della spedizione bellica del-
l’anno 168 – ma egli prima aveva curato i funerali di alcuni suoi liberti e schiavi sullo stesso luogo;
si pensa che la peste fosse la causa di questa mortalità. Le iscrizioni comunque non sono esattamente
databili.
6
Così Corbier 1974, 542; Der Neue Pauly 2 (1997) col. 31 (W. Eck).

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di praef. aerarii Saturni cade nel periodo 167-169 ca., mentre egli evidentemente deve
aver ottenuto il posto di iuridicus già prima dell’arrivo della peste a Roma (o nel resto
dell’Italia) 7. Sicuramente comunque la creazione del posto di praetor tutelaris si ebbe pa-
recchi anni prima della peste, ed è una misura che si adatta bene alla politica generale
degli imperatori antonini di provvedere per la gioventù (gli alimenta, le puellae Fausti-
nianae, ecc.). Inoltre, il vaiolo (è questa la diagnosi che si è proposta per la “Peste An-
tonina”, v. sotto) tende a causare un’alta mortalità in particolare fra i bambini 8, per cui
non si vede perché il praetor tutelaris avrebbe rappresentato una risposta all’epidemia.
Lavorando con dati prosopografici, occorrerebbe avere a disposizione dati più rap-
presentativi di una determinata popolazione. Questo criterio limita le nostre ricerche al
ceto più alto della società romana. In questo contesto si può notare che i fasti consula-
res sotto Commodo hanno attirato l’attenzione di vari studiosi. Secondo Cassio Dione
(72, 12, 4; parimenti HA. vita Comm. 6, 9), nell’anno 190 d.C. ben 25 senatori tennero
i fasces, mentre ci sono altri indizi che il numero dei consoli sia stato altissimo anche nel
183 d.C. (forse addirittura 24?) 9. Come spiegare queste anomalie nella lista dei consoli?
Alcuni hanno proposto come spiegazione una severa mortalità fra i consolari a causa
della “Peste Antonina”, il che avrebbe necessitato una rapida promozione di uomini di
rango pretorio per poter riempire i vari uffici consolari 10, mentre Leunissen e altri pre-
feriscono vedere motivi puramente politici dietro la promozione di tanti senatori 11.
Parlando di carriere senatorie, l’ideale sarebbe poter studiare un qualche gruppo di
senatori durante i decenni immediatamente seguenti allo scoppio della peste, per de-
terminare se la mortalità fra di loro mostri qualche deviazione dalla normalità. In ef-
fetti esiste un tale campione, vale a dire i sodales Antoniniani, un collegio di sacerdoti,
per lo più di rango consolare, addetto alla venerazione del Divus Pius e costituito nel
161. Tutti i 14 membri nominati nel 161 sono noti e, mentre per la maggior parte di loro
la durata precisa della vita non è conosciuta, varie cariche successive indicano almeno
un termine post quem per la morte 12. Risulta che tutti i 14 senatori erano in vita nel 166,
che uno di loro probabilmente morì intorno al 168, che la morte di un altro avvenne in-
torno all’anno 169, ma che 10 di loro sicuramente erano in vita dopo quella data. Sette
di loro erano sicuramente in vita dopo il 170 (mentre, come detto, solo due erano si-
curamente morti), e così via. Ovviamente nuovi dati prosopografici possono “miglio-
rare” la statistica ancora di più, aggiungendo testimonianze per altre cariche più tarde.

7
Corbier 1974, 260-264, 524-525; Eck 1999, 257-258.
8
Andorlini e Marcone 2004, 82.
9
Leunissen 1989, 9.
10
Kienast 1968, 603, e Hekster 2002, 68 vedono nell’effetto della peste, come nei vuoti creati
dalle esecuzioni di numerosi senatori ordinate da Commodo, la ragione per i tanti consoli nel 190.
11
Leunissen 1989, 9-10.
12
Si veda ultimamente per la lista dei sodales e una trattazione prosopografica Rüpke 2003, 134-
141; meno dettagliata in Rüpke 2005, 342 (con 13 membri). Invece per i membri dei quattuor am-
plissima collegia sacerdotum non possediamo informazioni sufficientemente dettagliate per poter
condurre una simile indagine, come risulta dai dati prosopografici in Schumacher 1973.

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Studiando la sopravvivenza dei membri di questo campione bisogna ovviamente anche


tenere conto della normale speranza di vita di questi senatori, per la maggior parte già
anziani. Con poche eccezioni erano tutti consolari già al tempo della loro nomina nel
161, ed è ovvio che non tutti potevano aspettarsi di essere presenti alla celebrazione dei
decennalia del collegio nel 170, perché, anche in condizioni normali, in un gruppo di
14 uomini dell’età di 45 anni (se presupponiamo una tale età media nel 161), i super-
stiti dieci anni dopo sarebbero stati non più di 10 13.
Quindi è ovvio che nessun effetto particolare di una qualche epidemia è riscontra-
bile durante il regno do Marco Aurelio nel campione rappresentato dai sodales Anto-
niniani.
Un altro caso di cui si è qualche volta parlato (anche al convegno caprese) riguarda
la situazione ad Atene e i membri soprattutto dell’Areopago ma anche del Consiglio
dei Cinquecento durante il regno di Marco Aurelio 14. Nell’anno 174 o 175 l’impera-
tore inviò una lettera agli ateniesi, nella quale si faceva riferimento al fatto che di-
scendenti di liberti erano entrati in questi organi, contravvenendo l’antica prassi.
L’imperatore dispose che venisse richiesta l’ingenuitas del padre e dell’avo paterno
perché una persona potesse diventare membro dell’Areopago. Anche se questo non
voleva dire tornare alla prassi più antica, la nuova regola evidentemente intendeva
escludere persone che erano già entrate in questi organi municipali, e per le quali gli
ateniesi evidentemente avevano chiesto venia in una lettera da parte loro. È stato detto
che questa ammissione di uomini di estrazione libertina prima del 174 d.C. sarebbe
stata una conseguenza della “Peste Antonina”, la quale avrebbe decimato la classe di-
rigente ateniese. Ma in realtà l’ascesa di discendenti di liberti è un fenomeno che si ri-
scontra ovunque nel mondo romano, là dove possiamo studiare la composizione delle
élites locali, nel II secolo d.C. come anche prima (anche se si discute della dimensione
di questo innegabile fatto 15). Inoltre sembra che questa tendenza ad Atene di promuo-
vere persone senza la consueta serie di antenati liberi fosse incominciata sotto Lucio
Vero prima del suo ritorno dalla guerra partica, quindi prima che la peste avesse rag-
giunto Atene (e ovviamente può trattarsi di un processo con radici ben più antiche, il
che però non è dimostrabile) 16.

13
Coale e Demeny 1983, 107, scegliendo il Model West, Livello 3, secondo quanto raccomanda
Frier 2000, 797-798. Al Livello 3, con r = 0, la durata media di vita era di 22,85 anni. Fra i 45 e i 55
anni, dei 25 superstiti all’inizio muoiono almeno 8 individui (ca 32%). L’età di 45 anni è una media
teorica, exempli gratia; alcuni dei sodales erano più anziani, altri più giovani. Ovviamente si può
ipotizzare che le condizioni di vita fra i senatori fossero migliori, e che quindi la mortalità in condi-
zioni normali dovesse essere minore di quanto indicato dalle tabelle di Coale e Demeny.
14
Per questo e quello che segue si veda Oliver 1970, 7-9, ll. 57-80, 96-102, con commento alle
pp. 19-24, 27-28, 58-61, 74-77. A p. 60 e 77, l’autore nota che un posto di arconte era rimasto senza
occupante negli anni 167/68 e 169/70, un fatto che viene attribuito ai problemi finanziari connessi
con la peste e la guerra germanica.
15
Cosi già Oliver 1970, 60-61, 75; brevemente Garnsey e Saller 1987, 124-125, e in generale per
l’Italia Lopez Barca de Quiroga 1995. Mouritsen 1997 propone di ridimensionare il processo, ma la
tendenza è comunque chiara.
16
Per il ruolo di Lucio Vero, Oliver 1970, 74-77.

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Altrettanto problematico si è presentato il tentativo di usare alcune serie di iscrizioni


che rispecchiano, o sembrano rispecchiare, lo sviluppo della società romana, in parti-
colare l’edilizia pubblica, per indagare sull’effetto della “Peste Antonina” 17. Il mate-
riale epigrafico semplicemente non si presta a ragionamenti del genere, già perché non
è probabile che per dei fenomeni quali la riduzione nelle iscrizioni edilizie sotto Marco
Aurelio si possa trovare una spiegazione univoca. Il modello euristico monocausale non
regge. È ovvio che per esempio le guerre settentrionali devono aver avuto un impatto
notevole sull’economia dell’Italia e dell’impero in generale sotto Marco Aurelio 18.
Mi limito ad aggiungere che per un’altra serie di fonti epigrafiche, i diplomi mili-
tari, la cui serie mostra una cospicua interruzione proprio negli anni 169-176/77, cioè
durante una parte degli anni della peste, Werner Eck propone ormai che questo sia il
risultato di problemi finanziari generali, cioè un fenomeno da non attribuire esclusi-
vamente alla peste 19.
Tutto sommato, il materiale epigrafico romano non è paragonabile ai dati statistici
del tipo che possediamo per il Medio Evo, per non parlare dei tempi più recenti. (La-
scio agli esperti la discussione dei dati papirologici) 20.

2. Un approccio laterale per valutare le dimensioni della “Peste Antonina”

Come ho ripetutamente ribadito, non dubito affatto della presenza di una malattia
seria in Italia e in varie parti dell’impero a partire dalla campagna partica di Lucio
Vero. Non sono però convinto che si tratti di un fenomeno paragonabile alla Peste Nera
del ’300 in Europa. Semmai, una situazione tale sarebbe da dimostrare, non la si può
assumere a priori.
Mi preme sottolineare l’importanza di stabilire le dimensioni della malattia, anche

17
Come hanno fatto Duncan-Jones 1996, 124-130, e Scheidel 2002, 98; su questo Bruun 2003;
Bruun 2007, 209-214; non occorre qui ripetere gli argomenti esposti in altra sede. Sorprende la po-
sizione di Jongman 2007, 615, non conscio della discussione più recente.
18
Già in tempo di pace le spese per l’esercito rappresentavano un onere enorme per lo stato: le
stime citate da Eich 2005, 39, variano da ca. 50% a 75% di tutte le spese dello stato romano; cf. Eich
2007. Per aggiungere ancora un dato epigrafico dall’Italia: secondo la statistica in Duncan-Jones
1982, 353-357, il numero di sportulae distribuite in Italia raggiunse il massimo sotto Marco Aurelio
(questo dato non viene incluso nei suoi contributi sulla peste). Come sempre varie spiegazioni pos-
sibili si presentano, che non si escludono a vicenda: forse meno investimenti nell’edilizia pubblica
avevano lasciato più fondi da usare direttamente; forse alcuni membri della classe dirigente avevano
tratto guadagni particolari dalle guerre; oppure si sentiva la necessità di aiutare concittadini in diffi-
coltà, magari anche a causa della peste; oppure si tratta solo di un puro caso statistico.
19
Eck 2007, 95.
20
Ultimamente Hanson 2009, 633-634, ha sottolineato il numero assolutamente esiguo di papiri
che contengono un riferimento diretto alla Peste Antonina (un singolo testo fra ca. 3.500 databili al
periodo 165-200 d.C.), ma non è chiaro se l’autrice considera questo fatto un’indicazione della (poca)
severità del morbo, oppure se ella prende questo dato come una prova dell’inutilità di cercare prove
di un’epidemia, anche severa, nel materiale papirologico. Cfr. ora Blouin 2010 sul P. Thmouis 1.

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perché non si tratta di un fenomeno storico isolato. Ormai è chiaro che la “Peste Anto-
nina” gioca un importante ruolo in molte teorie sull’evoluzione dell’Impero romano nel
III e nel IV secolo 21. Occorre identificarne le vere dimensioni per poter valutare se le sue
conseguenze demografiche e economiche possano davvero essere state così drammati-
che.
Dopo aver scartato, come indicatori delle dimensioni della peste in Italia, sia la serie
delle iscrizioni datate, sia la serie di quelle edilizie, come anche i bolli laterizi e i diplomi
militari, bisogna chiedersi quali altre vie possano essere percorribili per la ricerca. Vor-
rei suggerire di muoversi in direzioni laterali. Nella mancanza di informazioni dirette,
penso sia utile cercare di immaginare quali tracce un’epidemia (sia stata più o meno
seria), abbia potuto lasciare nelle nostre fonti, e poi indirizzare i nostri studi in queste
direzioni. Questo metodo ovviamente trae significativi spunti da una prospettiva com-
paratistica, perché s’intende usare come punto di partenza quel che sappiamo in gene-
rale del comportamento di popolazioni umane soggette a un’epidemia letale.
Se queste manifestazioni di attività umana, che vediamo svolgersi durante gli anni
della Peste Nera, o sotto Giustiniano, o anche in altri periodi della storia romana afflitti
da varie pestilenze, non sembrano occorrere sotto Marco Aurelio, mi sembra che la
probabilità che la “Peste Antonina” sia stata grave diminuisca in proporzione, e vice-
versa. In questo contributo tratterò più o meno brevemente sei tipi di testimonianze: (1)
iscrizioni di contenuto religioso, (2) legislazione e pratiche funerarie, (3) il trasferi-
mento di individui, (4) brevi racconti individuali degli anni in questione, (5) materiale
archeologico rispecchiante il commercio, e infine (6) la situazione dei Cristiani.

3. Le fonti letterarie, le dimensioni e la diagnosi della pandemia

Prima di venire a trattare queste tematiche vorrei presentare qualche breve rifles-
sione sulle fonti letterarie, che ovviamente costituiscono il fondamento dei nostri studi,
anche se queste fonti sono trattate in modo ben più dettagliato altrove in questo volume.
Senza Cassio Dione, Galeno, e alcuni altri scrittori, normalmente di data più tarda, non
penso che la “Peste Antonina” avrebbe potuto suscitare un interesse così grande.
Queste fonti letterarie sono ben note da tempo e non penso che ci sia molto da ag-
giungere all’analisi fatta da Frank Gilliam all’inizio degli anni ’60; il suo è un altro la-
voro che non esiterei a chiamare fondamentale 22. Com’è ben noto, il Gilliam era
piuttosto cauto nella sua interpretazione di queste fonti, ritenendo che mancano prove
decisive di un’epidemia paragonabile alla Peste Nera. Mentre il Gilliam ovviamente
non dubitò dell’esistenza di una pestilenza severa, la sua stima della mortalità globale

21
Si veda il breve resoconto in Bruun 2007, 201-204, e in particolare Lo Cascio 1991, 710-716;
Frier 2000, 816; Marcone 2002, 818-819; Lo Cascio 2004, 112; Lo Cascio e Malanima 2005, 208;
Jongman 2007, 612, 615-616; Lo Cascio 2007, 168-172.
22
Gilliam 1961.

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fu di 1 o 2% (da mezzo milione a un milione di vittime – a quanto pare durante il primo


attacco del morbo), ed egli appare oggi come un “minimalista” 23.
Ovviamente varie fonti letterarie descrivono la “Peste Antonina” come molto seria
(anche se Cassio Dione 72, 14, 3, definisce l’epidemia sotto Commodo la più grave).
Per quanto riguarda le trattazioni degli storici antichi, siamo costretti ad usare fonti
posteriori agli eventi, con l’eccezione di Cassio Dione (che non sopravvive in originale
per il regno di Marco Aurelio), e fonti anche di molto posteriori. Succede non di rado
che le descrizioni in termini catastrofici della peste proposte dagli scrittori molto più
tardi quali Eutropio (8, 12, 2), lo Scriptor della Historia Augusta (le vitae di Marco e
di Lucio Vero), e Orosio (Hist. 7, 15, 5-6), vengano considerate attendibili. Ma altre si-
tuazioni comparabili consigliano cautela. Per esempio, le notizie che si trovano nei
vari storici e scrittori svedesi dei secoli XV-XVII riguardanti le vittime della Peste
Nera in Svezia negli anni 1349-50 si sono rivelate molto inattendibili alla luce della ri-
cerca moderna 24. Analogamente, una bolla papale del 1351 con riferimento alle vittime
della Peste Nera a Londra esagera il loro numero in modo allucinante, e nelle altre
fonti scritte dei secoli successivi alla peste si trovano cifre impossibilmente alte, come
lo scavo recente del cimitero di East Smithfield ha mostrato 25.
Racconti contemporanei alla “Peste Antonina” esistevano, però, come ci informa Lu-
ciano nel suo Come si scrive la storia. Luciano fa riferimento a un certo storico di nome
Crepereius Calpurnianus, per il quale egli è pieno di disprezzo 26. Nella sua descrizione
della peste a Nisibis, Crepereius fece di tutto per emulare Tucidide, senza però possederne
le doti letterarie, e stando così le cose si deve pensare che il suo racconto, che è andato
perduto, fosse estremamente drammatico, senza nessuna garanzia che abbia rispecchiato
i fatti veri 27. Chissà se scritti di questo genere, sopravvissuti per qualche tempo, hanno
poi influito su scrittori più tardi come Eutropio e Orosio o altri ancora. Lo stesso Lu-
ciano menziona un altro storico contemporaneo che scrisse sulla guerra partica degli anni
160, un medico dell’esercito di nome Callimorphus. Nel testo di questi, Luciano criticava
la forma ionica di parole come ἰητρικὴν (“relativo alla medicina”) e νοῦσοι (“malat-
tie”) 2. Probabilmente il nuovo morbo appariva anche in questo racconto.
Si può notare che quando Ammiano Marcellino, il quale certamente presenta un
breve riferimento alla “Peste Antonina” (23, 6, 24) 29, in un’altra occasione parla in

23
Gilliam 1961, 250; Gilliam come “minimalista”: Marcone 2002, 813 nt. 50; Vavassori 2007, 159
nt. 53.
24
Harrison 2000, 388-91.
25
Grainger et al. 2008, 29, 33.
26
Luciano, Quomodo historia conscr. 15 per questo e quello che segue.
27
Gilliam 1961, 228-229; per Crepereius Calpurnianus, v. FGrHist II B n. 208. Di contro ad al-
cune voci che hanno espresso dubbi, la reale esistenza di questo storico è sostenuta da Jones 1986,
161-165.
28
Luciano, Quomodo historia conscr. 16, v. FGrHist II B n. 210. Ancora due altri storici della
guerra partica sono nominativamente ricordati in Luciano, Quomodo historia conscr. 30 e 32.
29
Amm. Marc. 23, 6, 24: Labes primordialis exsiluit, quae insanabilium vi concepta morborum,

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termini generici delle cause di pestilenze, egli sceglie solo Omero e Tucidide come
autorità e non fa nessun riferimento ad alcuna epidemia romana (19, 4). Perché mai?
È forse possibile che egli non abbia ritenuto quelle romane degne di nota? 30
Sarebbe di grande importanza poter identificare con precisione la malattia che colpì
l’impero romano sotto Marco Aurelio. Ma da sempre gli studiosi delle epidemie del
passato si sono dovuti confrontare con gravi difficoltà. Varie fonti letterarie, normal-
mente non scritte da medici, o anche testi amministrativi e documentari (dal tardo me-
dioevo in poi), hanno costituito il migliore, o il solo, materiale documentario, il che ha
reso la formulazione di una diagnosi esatta molto difficile – molto più difficile che non
fare una diagnosi al telefono, che per un medico di oggi pure non è cosa gradita. Solo
in tempi recentissimi, con la biologia molecolare e l’analisi del DNA di reperti antichi,
la situazione è cambiata. Così pare che oggi, grazie all’analisi delle vittime di una
tomba comune scoperta ad Atene nel 1994, si sia potuto stabilire che la peste menzio-
nata in Tucidide era febbre tifoidea e non la peste 31.
Quanto alla pestilenza che cominciò durante il regno di Giustiniano I nel 541 (e
continuò nei secoli successivi), ci sono indicazioni (dalla Germania meridionale) che
il DNA di yersinia pestis è stato trovato in scheletri umani del VI sec. 32. Inoltre una let-
tura attenta delle fonti letterarie ha permesso di raggiungere un considerevole con-
senso. Gli studiosi derivano informazioni principalmente dal racconto di Giovanni da
Efeso (e dai testi più tardi che ne derivano), come ha recentemente dimostrato Michael
Morony, studioso delle fonti siriache 33, e inoltre da Procopio e da altre fonti ancora 34.
Ma anche nel caso di Giovanni da Efeso il Morony lamenta la mancanza di dati con-
creti e la permanenza di interrogativi 35. In particolare Evagrio è ritenuto un testimone
importante da Robert Sallares, perché la sua informazione concorda bene con quello

eiusdem Veri Marcique Antonini temporibus, ab ipsis Persarum finibus ad usque Rhenum et Gallias,
cuncta contagiis polluebat et mortibus («da un recesso, che era stato chiuso con formule magiche dai
Caldei, balzò fuori una pestilenza primordiale che, formata da violenti e insanabili malattie, all’epoca
dello stesso Vero e di Marco Aurelio contaminò con contagi e morti tutto l’impero dai confini della
Persia sino al Reno ed alle Gallie» (trad. di A. Selem).
30
Matthews 1989, 462-463 con nt. 27 stabilisce che Ammiano nelle sue digressioni preferisce
usare esempi dalla cultura greca, e la sua formazione culturale greca viene sottolineato in modo pe-
rentorio da Barnes 1998, 65-78. Ma riferimenti impliciti o espliciti alla letteratura latina e alla storia
romana non sono rare, ad es. il passo 30, 1, 22-23 è pieno di tali riferimenti, e in 30, 4, una digres-
sione de causidicina atque iurisconsultis, et variis advocatorum generibus, si trovano molteplici
esempi latini.
31
Così Mitchell-Boyask 2008, xiii nt. 2, con riferimento a Papagrigorakis et al. 2006.
32
Così Little 2007, 19-20, con riferimento a Wiechman e Grupe 2005 e a qualche altro lavoro; nes-
sun commento in materia in Hanson 2009.
33
Morony 2007, 60.
34
Ma Meier 1999, dimostra come Procopio era influenzato da Tucidide e cercò di esagerare la se-
verità della peste per illustrare come l’impero fosse capace di sconfiggere questa disgrazia.
35
Morony 2007, 86: «The accounts of the first bubonic plague pandemic in Syriac literature thus
raise more questions than they answer. These accounts have most to say about the symptoms and im-
mediate effects of the bubonic plague: the excessive mortality and the concern for disposing of the
corpses».

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 131

che si sarebbe aspettato dalla peste bubbonica 36. Tutto sommato, le fonti per il sesto
secolo sono molto più dettagliate che non quelle dell’epoca antonina e sembrano per-
mettere la diagnosi di peste bubbonica per almeno parte delle malattie che aumenta-
vano la mortalità dal sesto secolo fino all’ottavo 37.
Per la Peste Nera scoppiata nel 1347 si è da tempo parlato di peste bubbonica, ma
anche voci dissonanti si sono fatte sentire, e alcuni lavori dell’ultimo decennio hanno
avanzato serie obiezioni di varia natura, proponendo invece altre malattie 38. L’annun-
cio che il DNA della yersinia pestis sia stato identificato in alcuni scheletri a Marsi-
glia datati al periodo della Peste Nera è stato messo in discussione, e altri studi di
vittime della stessa peste non sono stati in grado di replicare il risultato francese 39. An-
cora altre ricerche continuano a proporre la yersinia pestis 40, il che ha indotto studiosi
come Robert Sallares a considerare la Peste Nera la “seconda pandemia”, dopo la
“prima” sotto Giustiniano 41.
Per la “Peste Antonina” non disponiamo (ancora) di risultati microbiologici, le fonti
scritte sono poche, e spesso si tratta solo di imprecise descrizioni abbastanza banali di
storici e cronisti. Nella immensa opera scritta del grande medico Galeno si trovano
però anche alcuni riferimenti alla peste, che egli ebbe l’occasione di studiare da vi-
cino. Questi passi furono letti e analizzati già parecchi decenni fa, ed essi condussero
i due Littman a considerare la “Peste Antonina” un epidemia di vaiolo 42. Il loro con-
tributo non riuscì a convincere tutti 43, ma studi posteriori, ad esempio di Yan Zelener,
hanno condotto a un considerevole consenso in questa materia 44.

36
Sallares 2007, 260.
37
Sallares 2007 non nutre dubbi sull’identificazione della peste giustinianea. Si noti McCormick
2007, 292 secondo cui sarebbe ancora da indagare meglio sul tipo della peste, sulla sua origine, sviluppo,
e fine. Schuenemann, V.J. et al. 2001 sembrano ora aver risolto la situazione in favore di y. pestis (al-
meno per Londra).
38
Recentemente in particolare Scott & Duncan 2001, che propongono “haemorrhagic plague”, cfr.
p. 394 «But bubonic plague is now banished to a very minor role indeed (as in the outbreak at Mar-
seilles in 1720) and, once it is accepted that haemorrhagic plague was an infectious disease (proba-
bly viral) spread person-to-person, the biology of the plague epidemics immediately becomes
clearer»; Cohn 2003, con altra bibliografia.
39
A quanto pare nuovi risultati vengono presentati in continuazione, ma si vedano comunque re-
centi riassunti dei vari studi dell’ultimo decennio sul DNA della yersinia pestis in materiale del XIV
sec. in Grainger et al. 2008, 27; McCormick 2007, 294-296. Scetticismo in Smith e Duncan 2004;
Gilbert et al. 2004b, contro lo studio del materiale di Marseille presentato da Raoult et al. 2000; cfr.
il dibattito in Drancourt et Raoult 2004 e Gilbert et al. 2004a.
40
McCormick 2007, 295-296 nt. 17 per un riassunto. Schuenemann, V.J. et al. 2011sembrano ora
aver risolto la situazione in favore di y. pestis (almeno per Londra).
41
Sallares 2007, 254-289 presenta un veemente argomento in favore della diagnosi di peste bub-
bonica, causata dalla yersinia pestis (in qualche forma), per le due prime “pandemie”.
42
Littman e Littman 1973, con p. 246-248 per i passi di Galeno; opinione condivisa ad es. da
Marcone 2002, 805; Scheidel 2002, 97; Lo Cascio 2004, 112.
43
Autorevolmente nella Cambridge Ancient History, A. Birley 2000, 168: «smallpox, exanthe-
matous typhus and bubonic plague have been suggested».
44
Anche la discussione al convegno, dal quale questo saggio trae la sua origine, confermò questa
diagnosi, e vari partecipanti, fra i quali il sottoscritto, avranno lasciato il convegno più convinti di
prima che la Peste Antonina fu in effetti vaiolo. (Per dettagli, si veda altrove in questo volume).

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132 CHRISTER BRUUN

Questa diagnosi della “Peste Antonina” rappresenta un importante passo in avanti,


perché quanto sappiamo dei caratteri di questa malattia permette di stabilire alcuni pa-
rametri per il probabile sviluppo e diffusione dell’epidemia. Come si vedrà di seguito, le
conclusioni di questo contributo, che propongono un effetto meno sconvolgente della
“Peste Antonina”, si adattano meglio al vaiolo che non al morbo che causò la Peste Nera.

4. La dimensione religiosa

La religione era presente ovunque nella vita dei romani, e bisogna vedere se prove
particolari di attività cultuali siano databili alla seconda metà degli anni 160 e/o dopo 45:
che si tratti di fenomeni di reazione immediata come una tabella defixionis o offerte
votive, oppure iscrizioni che già richiedono qualche periodo di tempo per essere com-
pletate, o addirittura la costruzione di qualche sacello o tempio.
Cercare indicazioni in questo campo non è una idea gratuita; sappiamo dal famoso
racconto di Tucidide come si comportarono gli ateniesi durante la grande pestilenza in-
cominciata nell’anno 430 a.C. Inizialmente, secondo lo storico, vi furono «le suppli-
che nei santuari, il ricorso ad oracoli e altre cose del genere», ma egli poi aggiunge che,
dopo che questo comportamento non migliorò la situazione, si diffuse un sentimento
di apatia e noncuranza: «e alla fine, sopraffatti della sventura, rinunciarono a qualsiasi
tentativo» 46.
Materiale comparativo che sottolinea l’importanza della religione in situazioni di
crisi si trova in tutte le epoche storiche. Per fare solo qualche esempio, si può ricordare
che, in seguito alla peste giustinianea, scoppiata nel 541, il culto di S. Sebastiano pro-
liferò ovunque nel mondo cristiano. L’importanza del Santo nello sconfiggere la peste
comunque non si affermò subito; solo a cominciare dall’anno 680 abbiamo prove che
S. Sebastiano abbia assunto questo ruolo 47. A Roma stessa, dopo il primo attacco della
Peste Nera nel 1348, che si pensa si sia esaurito verso settembre di quell’anno, «la …
fine fu salutata dai romani con la costruzione della scalinata votiva di Santa Maria in
Aracoeli, iniziata il 25 ottobre 1348» 48. Quando nel 1349 la notizia dell’imminente
arrivo della Peste Nera nel regno del re svedese Magnus Eriksson raggiunse la corte,
fra tante manifestazioni di penitenza il re ad esempio diede ordine al popolo di recarsi
in chiesa ogni venerdì a piedi scalzi 49.
Anche gli annali romani ci ricordano che in tempi di pestilenza, durante il periodo
repubblicano, si faceva ricorso agli dèi. Livio racconta, a proposito di una grave pe-

45
Alla necessità di studiare le attività cultuali si è già accennato in Bruun 2003, 434.
46
Thuc. 2, 47, 4; traduzione di Fantasia 2003, 131. In Mitchell-Boyask 2008 un tentativo di co-
gliere l’essenziale del clima culturale dopo la peste.
47
Così Little 2007, 28-30; Sallares 2007, 280.
48
Hubert 2001, 175.
49
Harrison 2000, 391-392 (in svedese).

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 133

stilenza nell’anno 293 a.C., che il culto di Asclepio fu introdotto per placare le pesti-
lentiae urentis simul urbem atque agros (Liv. 10, 47, 6). Come si ricava dalla Perio-
cha dell’undicesimo libro, l’introduzione del culto si ebbe qualche anno dopo, quando
la peste ancora non si era spenta 50. Nel 293 vi fu solo una supplicatio ad Asclepio di
un giorno, come Livio scrive nell’ultimo passo del decimo libro (Liv. 10, 47, 7). Già
in precedenza i romani erano ricorsi a lectisternia per onorare e placare gli dèi durante
periodi di pestilentia, di cui c’informa sempre Livio; nel 326 a.C. ebbe luogo il quinto
di questi eventi 51.
Da Livio risulta che nel 175 a.C. fu il bestiame ad essere colpito da una grave pe-
stilenza, che però l’anno successivo colpì anche gli uomini: pestilentia quae priore
anno in boves ingruerat eo verterat in hominum morbos (41, 21, 5; nel 174 a.C.), men-
tre in Plinio troviamo il termine iumentorum verminatio per indicare una malattia bo-
vina (nat. 28, 180). Un’ara proveniente dall’Esquilino portante l’iscrizione Vermino
A. Postumius A.f. A.n. Albi(nus) duovir lege Plaetoria (CIL I2 804 = VI 3732 e 31057
= ILS 4019) ha suscitato interesse in questo contesto. La divinità Verminus è altrimenti
completamente sconosciuta, ma per la sua etimologia il nome sembra apparentato con
verminatio, “forte dolore”, e Friedrich Münzer propose l’epidemia della metà degli
anni 170 a.C. come causa della dedica, una proposta che ha raccolto consenso, anche
se non è stata accolta da tutti 52.
Per tornare al nostro periodo, nella Historia Augusta leggiamo che Marco Aurelio
invitò undique sacerdotes a Roma, ma a causa della guerra Marcomannica, anche se
l’autore continua poco dopo con un riferimento alla peste: tanta autem pestilentia fuit
… (HA. vita M. Ant. 13, 1-3). Un altro passo, molto più avanti nel testo, stabilisce un
rapporto più immediato fra peste e religione: Instante sane adhuc pestilentia et deorum
cultum diligentissime restituit (HA. vita M. Ant. 21, 6) 53. Quindi esiste un forte motivo
per cercare indicazioni di manifestazioni religiose insolite a partire dall’anno 166 circa.
Per questo aspetto le fonti archeologiche non offrono materiale utile, ma diversa-
mente si potrebbe presentare il materiale epigrafico. Già il Gilliam studiò la presenza
di riferimenti a Salus e Pietas nella monetazione sotto Marco Aurelio, senza però poter
notare nessun enfasi particolare 54. Invece negli anni recenti, come in parte già nel pas-

50
Liv. Per. 11, 3: Cum pestilentia civitas laboraret, missi legati, ut Aesculapi signum Romam ab
Epidauro transferrent, anguem, qui se in navem eorum contulerat, in quo ipsum numen esse consta-
bat, deportaverunt; eoque in insulam Tiberis egresso eodem loco aedis Aesculapio constituta est.
51
Si veda Liv. 5, 13, 4-6; 7, 2, 1; 7, 27, 1; 8, 25, 1, con il commento di Oakley 1998, 38-39.
52
Münzer 1939, 27-30; Degrassi 1949, 337-338, per una datazione agli anni 170 a.C.; Chioffi
1999 per il quadro generale dell’ara di Verminus. Sul passo liviano Duncan-Jones 1996, 112-113,
ma senza menzione della dedica.
53
Le conseguenze della peste sono descritte in HA. vita M. Ant. 13, 3-6, ad es. 5: et multa quidem
milia pestilentia consumpsit, multosque ex proceribus, quorum amplissimis Antoninus statuas con-
locavit. In 22, 7 viene detta la stessa cosa per i nobili deceduti nelle guerre: Et multi nobiles bello Ger-
manico sive Marcomannico immo plurimarum gentium interierunt - quibus omnibus statuas in foro
Ulpio collocavit; una spiegazione che pare più veritiera.
54
Gilliam 1961, 242-243.

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134 CHRISTER BRUUN

sato, tre gruppi di materiale epigrafico sono stati connessi con la “Peste Antonina” e
ritenuti prova della medesima:

(1) Disponiamo di sei responsa oracolari da Claro che riguardano delle pestilenze
(λοιμός), trovati nella parte orientale dell’Impero 55. Ovviamente la tentazione di rife-
rire tutte queste iscrizioni allo stesso evento, alla “Peste Antonina”, è forte, ma biso-
gna ricordare che datazioni esatte mancano. Nessun oracolo è databile con precisione;
alcuni sono possibilmente da connettere con il periodo tardo-antonino, ma le opinioni
fra gli studiosi variano considerevolmente 56. Inoltre una descrizione dettagliata del
morbo manca in ogni caso, e di recente Aude Busine ha osservato che il termine greco
λοιμός, che appare nei responsa, non deve necessariamente riferirsi a una pestilenza;
si usava la parola anche per designare catastrofi di altro tipo 57.

(2) Si conosce una serie di dediche principalmente in latino (una sola in greco)
molto laconiche, Diis deabusque secundum interpretationem oraculi Clari Apollinis,
che derivano quasi esclusivamente dalla parte occidentale dell’impero. Dato che le
iscrizioni presentano praticamente lo stesso testo, si è proposto che un ordine imperiale
sia da cercare dietro il fenomeno. Le epigrafi, in tutto undici, sono state di recente di-
scusse da Christopher Jones, il quale argomenta che deve trattarsi di un ordine di Marco
Aurelio, il quale può aver consultato egli stesso l’oracolo, in reazione alla drammatica
peste 58. Questa interpretazione si aggiunge a due preesistenti, ma nessuna delle tre mi
sembra in grado di spiegare tutti gli aspetti di questa serie di dediche.
La formulazione delle iscrizioni, benché sia breve, suscita qualche perplessità. A

55
Le iscrizioni provengono da Pergamo, Ierapoli, Caesarea Trochetta, Callipoli nella Tracia, una
città nella Lidia, probabilmente Sardis, e Odessos nella Tracia; v. Merkelbach e Stauber 1996, nn. 2,
4, 8, 9, 11, 18; i testi sono stati brevemente discussi da Jones 2005, 297-298, v. inoltre la nota se-
guente. I quattro oracoli dall’Asia Minore occidentale sono inoltre presentati in Merkelbach e Stau-
ber 1998, 259-261, 296-297, 396-399, 575-579; si noti che in nessun caso gli editori datano i testi
precisamente sotto Marco Aurelio.
56
Jones 2005, 297-298, tende a vedere un nesso fra i testi, benché egli sia consapevole delle in-
certezze. Per il testo scoperto più di recente, dalla Lidia, v. Graf 1992, secondo cui tutte le iscrizioni
riguardano le Peste Antonina (p. 272), ma si noti un cambio di opinione totale in Graf 2007, 114
«this, however is unfounded; there were many epidemics in that century». Huber 2005, 135-136 at-
tribuisce cinque dei sei testi alla Peste Antonina, basandosi su «genügend paläographische Hinweise»
che datano i testi al II sec., un argomento di ovvia debolezza (135-142 per l’intera discussione). Ru-
therford 2007, 450, interpreta il testo di Sardis come un riferimento alla Peste Antonina. Secondo Bu-
sine 2007, 91-92 e 445-447 (catalogo), i responsa non sono databili con la precisione necessaria.
Oesterheld 2008, che dedica quasi duecento pagine alla discussione dei «‘Pestorakel’ aus Klaros»,
data le fonti in generale ai decenni dopo la guerra partica di Lucio Vero e le considera rilevanti (pp.
46-47).
57
Busine 2007, 92-93; così anche Oesterheld 2008, 47-48.
58
Jones 2005, in part. 301 per il ruolo di Marco Aurelio, con l’aggiunta di un ulteriore esempio
da Cosa (AE 2000, 564) in Jones 2006. Da Luciano, Alexander 48, sembra doversi dedurre che l’im-
peratore in effetti abbia consultato un oracolo, cioè Alessandro di Abonuteichos, ma in relazione alla
campagna militare oltre il Danubio; cfr. Jones 2005, 299.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 135

che cosa si riferisce la interpretatio, da dove emanava e da chi trasse la sua origine?
Secondo Jones non si tratta della risposta vera e propria dell’oracolo, ma dell’inter-
pretazione da parte di altri (“of the oracle” and not “by the oracle”), e lo studioso sug-
gerisce che questa operazione sia stata effettuata a Roma dal collegio dei pontefici 59.
Se è così, desta meraviglia che l’iscrizione non dica niente al riguardo, mentre se l’in-
terpretatio in effetti fu la risposta dell’oracolo (“by the oracle”), la brevità dell’iscri-
zione diventa più comprensibile.
Infatti Stephen Mitchell, che ha proposto un’interpretazione diversa in connessione
con la sua presentazione della nuova dedica da Melli in Pisidia, la prima in greco, sugge-
risce che si tratti sempre di una interpretazione emanante da Claro (quindi “by the oracle”).
La interpretatio sarebbe stata una conseguenza del famoso oracolo monoteistico di Claro
stesso (SEG XXVII 933), che avrebbe causato perplessità fra la moltitudine politeistica.
La nuova risposta avrebbe dichiarato il valore (anche) di tutti gli dèi tradizionali (risultando
in queste dediche). Secondo Mitchell, non c’è niente che necessiti una datazione alla “Peste
Antonina”, mentre una datazione al III sec. per quanto riguarda l’ideologia religiosa sem-
bra ragionevole 60. Mitchell non crede nell’intervento dell’imperatore per diffondere que-
sta risposta oracolare, ma suggerisce che l’iniziativa sia partita dal luogo di culto, che
sicuramente aveva contatti con varie parti dell’impero 61. Questa ipotesi però non spiega
bene perché quasi tutte le testimonianze derivino dall’Occidente.
In mancanza di datazione o di nomi di dedicanti (tranne per una iscrizione dalla
Britannia, nella quale si fa menzione della cohors I Tungrorum), e in mancanza di un
ritrovamento in situ, è difficile raggiungere una certezza in riguardo a queste dediche.
Ovviamente non si può comunque escludere che le epigrafi siano da datare sotto Marco
Aurelio. Giustamente il Jones ha rilevato che nell’Alexander di Luciano si dice che
questo mago fece inviare una sua risposta oracolare contro la peste in tutto l’impero,
e che testi per tenere lontana la peste furono iscritti sopra le porte delle case 62; quindi
lo scenario proposto dallo studioso non è fuorviante.
Qui bisogna però considerare che in tutti i sei casi citati sopra (1), in cui conosciamo
la risposta dell’oracolo di Claros, la principale istruzione ai supplicanti fu di erigere delle
statue di divinità (Apollo, Ares, Artemis ecc.) 63. Anche se quasi nessuna delle iscrizioni
secundum interpretationem è stata trovata in situ, sembra escluso che esse avessero po-
tuto accompagnare una statua, tranne l’iscrizione presentata dal Mitchell 64.

59
Jones 2005, 297, e 301 per la esegesi: «some official body such as the pontifices».
60
Mitchell 2003, 153-155.
61
Mitchell 2003, 155.
62
Jones 2005, 298 e Luciano, Alexander 36. Secondo Luciano, in un primo luogo, Alessandro
aveva inviato messaggi in tutto il mondo avvertendo le città del rischio di pestilenze, incendi e ter-
remoti, e promettendo di dare oracoli in proposito.
63
Così Graf 1992, 273; la dedica di una statua è prescritta nei responsa nn. 4, 8, 9, e 11 in Mer-
kelbach e Stauber 1996 (cfr. nt. 55 sopra), e inoltre la stessa istruzione appare in vari altri testi ora-
colari citati nello stesso contributo.
64
Mitchell 2003, 151.

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136 CHRISTER BRUUN

È notevole che una generazione anteriore di studiosi vedeva queste iscrizioni in


una luce diversa, partendo proprio dall’unica informazione non stereotipica, vale a dire
la menzione della cohors I Tungrorum, che eresse l’iscrizione trovata in Britannia nella
fortezza di Vercovicium (CIL VII 633 = RIB 1579 = ILS 3230). Si soleva datare que-
ste iscrizioni all’inizio del regno di Caracalla, una data proposta prima da Eric Birley
e accettata da un considerevole numero di studiosi 65. L’occasione proposta è la malat-
tia fisica e mentale che colpì Caracalla nel 213 d.C., il quale, secondo Cassio Dione (77,
5, 5-7) si rivolse a numerose divinità salutari per trovare sollievo (Apollo Grannus,
Aesculapius, Sarapis). Questo stato d’animo dell’imperatore sembra essere stato di
una certa importanza 66. Inoltre occorre tenere presente che proprio il regno di Caracalla
dimostra la capacità del governo imperiale di imporre una determinata attività epigra-
fica ovunque nell’impero, come evidenziato dalla damnatio memoriae di Geta, realiz-
zata in modo piuttosto efficace anche se non totale 67.
In conclusione, la proposta di connettere queste dediche religiose con la “Peste An-
tonina” è una possibilità, ma al momento non mi sembra l’ipotesi più convincente.

(3) Si conosce anche una serie di quattro iscrizioni bilingui che sembrano tutte pro-
venire dal Foro Romano a Roma o dai suoi dintorni. In queste iscrizioni, brevissime,
si fa appello a tre divinità: gli “Aposíkakoi theoi”, “Athána (cioè Atena) apotropaía”,
“Dii patríoi” e “Dii hypátoi”, e in ogni caso il nome delle divinità è seguito dal-
l’espressione latina ex oraculo. Luigi Moretti nel volume delle Inscriptiones Graecae
Urbis Romae in via ipotetica suggerì di connettere le iscrizioni con la “Peste Anto-
nina” 68. Egli ovviamente era in cerca di un momento durante il quale potrebbe sem-
brare plausibile che i romani avessero fatto questo sforzo per placare gli dèi, perché
elementi datanti nei testi o nei contesti in cui essi appaiono, che potrebbero aiutare
nella collocazione cronologica, non ci sono. Qualche tempo fa, Jaakko Aronen, accet-
tando la connessione con la “Peste Antonina”, propose che per le divinità che “scon-
giurano il male” si dovrebbe pensare a Castore e Polluce, mentre Athana sarebbe
Minerva venerata vicino al tempio dei Castori sul Foro Romano 69.
Il rapporto con la “Peste Antonina”, ancora una volta, non è da escludere, ma bi-
sogna essere consapevoli delle incertezze. È pur vero, che nell’epigrafia latina il ter-
mine oraculum è raro (come lo è anche responsum), come di recente ha rilevato Mika
Kajava, e di una ventina circa di attestazioni la metà consiste delle iscrizioni secundum
interpretationem oraculi Clari Apollinis citate sopra 70. Si è quindi tentati di connettere

65
E. Birley 1974 (una prima versione in Germania 23, 1939, 189-190); Granino Cecere 1986,
286 (con altra bibliografia); Merkelbach e Stauber 1996, 40; Cadotte 2002, 103. Contro si è comun-
que espresso Robin Lane Fox, citato da Mitchell 2003, 152.
66
Si veda quanto scrive a proposito Fowden 2005, 544-550, che dedica sei pagine a questo.
67
Mastino 1978-79.
68
Moretti 1968, 79-81 nn. 94-97; similmente Jones 2006, 369.
69
Aronen 1983, in part. 8 per la peste.
70
Kajava 2007, 127.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 137

anche le quattro iscrizioni ex oraculo dal Foro Romano con questa serie, come anche
con la “Peste Antonina” 71. Ci sono comunque anche due altre iscrizioni ex oraculo da
Roma che non appartengono allo stesso contesto delle quattro dediche greche 72. Inol-
tre, sono da considerare più attentamente le formule di queste epigrafi e le ragioni per
la loro erezione. Tutti gli studiosi hanno postulato, con buona ragione, mi sembra, un
decreto imperiale dietro la serie di dediche secundum interpretationem. Come si do-
vrebbe allora spiegare la formulazione completamente diversa proprio nella capitale
imperiale? Perché, nelle iscrizioni del Foro Romano, non si menziona Apollo Clarius
e l’essenziale interpretatio dell’oraculum? E perché le dediche non sono più com-
prensive, ma invece troviamo solo Zeus (“patroios”, “hypatos”), Atene e gli dei “che
scongiurano il male” (forse i Dioscuri)? Ovviamente si può ipotizzare l’esistenza di nu-
merose altre lapidi menzionanti tante altre divinità, ma l’ipotesi che proprio a Roma si
sarebbe adottata una formulazione diversa in ogni caso mi sembra poco convincente.
L’ipotesi che la serie di iscrizioni da fuori Roma e quella dal Foro Romano si riferis-
sero allo stesso evento mi pare quindi azzardata; ma ovviamente non si può escludere
che una delle due serie sia da connettere con la “Peste Antonina”.

Infine sarà utile rivolgere qualche parola anche alla presenza di Asclepio nell’epi-
grafia delle regioni occidentali dell’Impero. L’inventario di Alain Cadotte delle dedi-
che ad Asclepio nell’Africa romana ha rilevato 32 esempi 73. Le datazioni suggerite
dallo studioso per ovvie ragioni spesso non possono essere che approssimative, e quindi
non è possibile trarre conclusioni precise. Con sette dediche dalla prima metà del I
sec., dieci o undici dall’inizio del regno di Marco Aurelio fino alla morte di Commodo,
e dodici o tredici dal periodo severiano in poi, si potrebbe forse argomentare che l’in-
teresse per Asclepio, proporzionalmente (misurato secondo dediche / anno), sembra es-
sere al massimo durante il periodo tardo-antonino, ma i dati sono poco precisi. Invece
Gil Renberg ha recentemente studiato come si presenta il culto di Asclepio a Roma
nelle fonti epigrafiche, e qui c’è poco da rilevare. Fra 41 testimonianze, sei apparten-
gono al periodo repubblicano, quattro al I sec. d.C., otto al II sec. ma non hanno niente
a che fare con la peste (per ragioni cronologiche o perché erette a causa della missio
di un soldato), dieci sono datate a dopo il 200 d.C., e per cinque i criteri datanti man-
cano. Rimangono solo otto testi che sono datati al II sec. in senso lato e potrebbero teo-
ricamente appartenere al periodo dopo il 166. Altro però non si può dire in proposito,
ed è istruttivo esaminare partitamente l’unico testo, che il Renberg pensa possa riferirsi
alla “Peste Antonina”: Asclepium Conservatorem Aug(ustorum). L. Valerius L. f. Fab.
Iunianus honorat(us) colleg(ii) fabr(um) tignar(iorum) d(ono) d(at) … (si specifica la
distribuzione ai membri del collegio) (AE 1941, 69 = BullCom 67, 1939, 94-97). L’au-
tore cita, senza prendere posizione, in questo luogo l’opinione di Halsey Royden, che

71
Kajava 2007, 130, in via ipotetica.
72
Kajava 2007, 130-131.
73
Cadotte 2002, 103-104 per i riferimenti e le datazioni usate qui.

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138 CHRISTER BRUUN

ipoteticamente mette la dedica in rapporto con la partenza di Lucio Vero per la guerra
partica, o con l’arrivo della peste a Roma dopo la campagna 74. Numerose altre ipotesi
sono però altrettanto plausibili, e sommando i dati per il culto di Asclepio a Roma nulla
indica un particolare interesse per la divinità durante gli anni della “Peste Antonina”.

5. Legislazione e pratiche funerarie

Nelle città medievali si trovano abbastanza presto dopo lo scoppio della Peste Nera
riscontri nella legislazione, per esempio l’introduzione della quarantena e tentativi di
ristringere la libera circolazione delle persone (ma le variazioni fra le città sono
grandi) 75. Esiste documentazione già per una simile politica nella Gallia merovingia
c. 640 d.C. 76. Non mi pare che si trovi niente di simile nella legislazione imperiale che
ci è pervenuta, ma ovviamente gran parte della legislazione e dei commenti dei giuri-
sti è perduta. Va anche considerato che la peste giustinianea scoppiò nel 541 (in Egitto),
mentre il Corpus Iuris Civilis fu completato nel 534. In quel periodo, per i compila-
tori vi era forse poco motivo per includere regolamenti specifici che avessero lo scopo
di combattere epidemie infettive. Invece la Novella 122 di Giustiniano, del 544 d.C.,
contiene un riferimento all’epidemia 77.
Non bisogna comunque dimenticare che Anthony Birley ha proposto di vedere pro-
prio nella legislazione sotto Marco Aurelio e Lucio Vero una reazione davanti a una epi-
demia singolarmente violenta. In particolare, vari aspetti di pratiche e monumenti
funerari sono trattati in tre rescripta dei divi fratres (Dig. 2, 4, 3; 11, 7, 6 (cfr. 1, 8, 7);
11, 7, 39), e in due rescripta del solo Marco (Dig. 11, 7, 14, 14; 47, 12, 3, 4). Secondo
il Birley, queste sentenze «reflect the increase in the death rate and difficulties over bu-
rial» 78, e «naturally a good deal of legal activity of this time was concerned with the
plague and its effect», un’affermazione che mi pare alquanto esagerata considerando
che si tratta di solo cinque passi nei Digesta (il contenuto dei quali sarà ancora da ana-
lizzare) 79.
È pur vero che un passo nella Historia Augusta connette la legislazione imperiale
con la peste: tunc autem Antonini leges sepeliendi sepulchrorumque asperrimas san-

74
Renberg 2006/07, 137-159 per il catalogo delle testimonianze, 150 n. 23 per il testo citato. In
realtà Royden 1988, 172, è abbastanza cauto e propone varie ipotesi.
75
Carmichael 1983, 510-513; Carmichael 1986, 98-99, 109-116; Cohn 2003, 48-49; e soprattutto
Varanini 1994, 291-297 (prevenzione), 297-310 (attività durante l’epidemia).
76
McCormick 2007, 311; cf. Sallares 2007, 280 nt. 195.
77
Schoell e Kroll 1895, 592-593; per un commento v. sotto.
78
A. Birley 2000, 167 con nt. 75. Dig. 2, 43 è da correggere in 2, 4, 3; correttamente in A. Birley
1993, 150-151.
79
Si può osservare che A. Birley 1993, 133-139 nel suo ottimo libro dedica quasi sette pagine ai
numerosi interventi legislativi imperiali sotto Marco Aurelio; in confronto egli dedica meno di una
pagina agli editti concernenti il diritto sepolcrale e materie affini.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 139

xerunt, quando quidem caverunt, ne quis ubi vellet fabricaretur sepulchrum. Quod ho-
dieque servatur. (HA. vita M. Ant. 13, 4). Ma non mi sembra che questa frase sia molto
informativa; si tratta di cose ovvie, dato che esistevano già leggi che regolavano dove
era consentito seppellire le salme (non nel terreno altrui, non entro il pomerium, ecc.),
e nelle descrizioni di pestilenza dopo Tucidide è un luogo comune inserire un riferi-
mento ai problemi di sepoltura 80. Può solo essere un’ipotesi che un qualche editto sotto
Marco Aurelio abbia ripetuto il divieto di seppellire entro il pomerium – un atto che in-
dicherebbe una situazione di crisi. Un tale documento però non esiste, mentre si trova
un rescriptum di Adriano che concerne qui in civitate sepeliunt, e in cui l’imperatore
locum publicari iussit et corpus transferri (Dig. 47, 12, 3, 5). Inoltre, non mi pare che
la legislazione funeraria sotto Marco Aurelio, che vedremo qui sotto, possa essere chia-
mata asperrima, come fa l’Historia Augusta.
Sarebbe interessante se scavi archeologici potessero dimostrare l’esistenza di tombe
databili a dopo il 166 entro il pomerium in varie città romane. Dati archeologici dalla
penisola Iberica mostrano infatti che s’incontrano tombe di sepoltura comune entro le
mura in varie città databili alla metà del sesto secolo, un fenomeno che potrebbe es-
sere stato causato dalla peste giustinianea 81, in analogia con quanto è stato scoperto ad
Atene per la peste incominciata nel 430 a.C. 82. A Roma si conoscono putei e tombe co-
muni sull’Esquilino, «the largest known burial ground in the Roman world» nelle pa-
role di John Bodel, ma essi sono di età repubblicana 83, mentre recenti scoperte di
numerose tombe a Roma si trovano nella periferia e non hanno caratteristiche che si
potrebbero connettere con un’epidemia 84, come appare da un confronto con il cimitero
di East Smithfield di Londra degli anni 1348-50 85.
Studiando più in dettaglio le leggi tardo-antonine pervenuteci, rimane il dubbio che
esse possano veramente essere attestazione di una specifica situazione sconvolgente.
In un editto dei divi fratres si esonerano quelli che seguono un cadaver in una proces-
sione funebre dall’essere chiamati in giudizio (in ius vocari) (Dig. 2, 4, 3). Visto in
isolamento, sembra logico concludere con il Birley che questo passo testimoni di un
«increased death-rate» 86. Ma il capitolo (II, 4) porta la rubrica De in ius vocando e in
Dig. 2, 4, 2 (Ulp. libro quinto ad ed.) vengono già citate varie eccezioni all’obbligo di
presentarsi davanti a una corte: In ius vocari non oportet … neque funus ducentem fa-

80
Si veda ad es. Liv. 41, 21, 6 (174 a.C.); Duncan-Jones 1996, 113 presenta molteplici esempi di
pestilenza nell’antichità tratti da altri scrittori e riguardanti altri periodi.
81
Kulikowski 2007, 152-153 «strong circumstantial grounds», cfr. 158-159.
82
Si veda nota 32 sopra.
83
Il materiale è discusso in Bodel 1994, 38-54, con p. 54 per la citazione.
84
Si veda il riassunto del recente studio di ca. 3500 tombe nel suburbio di Roma in AA. VV. 2001,
delle quali tombe il 90% erano sepolture singole (p. 357); quindi l’inumazione sembra aver avuto
luogo in condizioni normali.
85
Si veda Grainger et al. 2008, in part. 19-20 per l’affermazione che la presenza di tombe collet-
tive è significativa (nel piu grande “burial trench” furono scoperte quasi 700 vittime, anche se la
fossa fu scavata solo parzialmente).
86
A. Birley 1993, 151.

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140 CHRISTER BRUUN

miliare iustave morto facientem. Segue il brevissimo commento di Callistrato (libro


primo cognitionum): vel qui cadaver prosequuntur, quod etiam videtur ex rescripto di-
vorum fratrum comprobatum esse (Dig. 2, 4, 3). Quindi sembra che vari regolamenti
simili a quello approvato da Marco Aurelio e Lucio Vero esistevano già; non sappiamo
da chi erano emanati.
I passi indicati dal Birley provengono principalmente da due titoli, XI, 7 De reli-
giosis et sumptibus funerum et ut funus ducere liceat, e XLVII, 12 De sepulchro vio-
lato. I due titoli, di cui XI, 7 è particolarmente lungo (tre pagine e mezza, ed è seguito
da XI, 8 De mortuo inferendo et sepulchro aedificando), contengono numerose opi-
nioni di vari giureconsulti. È ovvio che l’editto del pretore in materia di sepoltura e il
diritto concernente le tombe era un soggetto che continuò a interessare i romani e la
loro giurisprudenza, dal periodo repubblicano in poi, e che la produzione di nuovo ma-
teriale giuridico non cessò 87.
Va rilevato che in nessun luogo si fa riferimento ad una pestilenza. Inoltre, ogni ti-
tolo contiene anche rescripta di altri imperatori, senza che per questo mi pare si debba
ipotizzare una simile epidemia durante questi regni. In XI, 7 troviamo anche impera-
tor Antoninus cum patre (12, pr.), imperator noster (in Ulpiano, 14, 7), e divus Ha-
drianus (37, 1). In XLVII, 12 gli altri imperatori sono ancora più numerosi, con
imperator Antoninus (3, 3), divus Severus (3, 4), divus Hadrianus (3, 5), e ancora divus
Severus (3, 7).
Uno dei rescritti dei divi fratres riguarda l’area di un cenotaphium, che secondo gli
imperatori si poteva vendere, anche se in precedenza sembra esistesse un divieto di
farlo (Dig. 11, 7, 6, 1; cf. 1, 8, 7 con 1, 8, 6, 5). La decisione è però logica, perché un
cenotaphium per definizione non conteneva nessun corpo e quindi non era un locus re-
ligiosus 88. È vero che questa sentenza sembra attestare una scarsità di terreno per scopi
funerari 89, ma ovviamente la peste non è l’unica causa per cui qualcuno avrebbe po-
tuto richiedere un’opinione in materia dagli imperatori. Bisogna anche ricordare che
il passo non è databile con esattezza, e che potrebbe quindi anche appartenere al pe-
riodo anteriore allo scoppio della peste, prima che Vero partisse per la guerra partica
nel 162. Se il rescriptum invece si data nel periodo 166-169, anche altre spiegazioni
sono possibili o addirittura preferibili. La proliferazione di cenotaphia logicamente
ebbe luogo soprattutto durante periodi di guerra 90, e potrebbe ben darsi che dopo la

87
Si vedano De Visscher 1963, passim; Kaser 1978, passim, sull’actio sepulchri violati e altri
questioni di diritto funerario.
88
Dig. 1, 6, 4: Religiosum autem locum unusquisque sua voluntate facit, dum mortuum infert in
locum suum, ma 1, 6, 5: Cenotaphium quoque magis placet esse religiosum, sicut testis in ea res est
Vergilius. Il poeta però non fu un giurista. Su questo si veda De Visscher 1963, 52-53.
89
Non mi pare che A. Birley 1993, 151, abbia ragione a includere anche la frase precedente in Dig.
11, 7, 6, 1 Si adhuc monumentum purum est, poterit quis hoc et vendere et donare, nella risposta
degli imperatori, piuttosto, si tratta dell’opinione di Ulpiano; cf. De Visscher 1963, 52 nt. 31.
90
Il caso più famoso è ovviamente rappresentato dall’epitaffio di M. Caelius, che cecidit bello Va-
riano, e la cui iscrizione funeraria annuncia ossa inferre licebit (CIL XIII 8648 = ILS 2244). Laubry
2007, 153 nota che nella maggioranza dei casi noti dall’epigrafia, quando si tratta di trasportare

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 141

campagna partica di Lucio Vero la situazione in qualche parte dell’impero fosse di-
ventata difficile, con forte pressione di riutilizzare l’area occupata da cenotaphia di le-
gionari, ufficiali o anche lixae caduti.
In un’altra risposta (Dig. 11, 7, 39), i due imperatori admonuerunt, ne iustae se-
pulturae traditum, id est terra conditum corpus inquietetur. Il passo è seguito dal com-
mento di Marciano: videtur autem terra conditum et si in arcula conditum hoc animo
sit, ut non alibi transferatur. Sed arculam ipsam, si res exigat, in locum commodiorem
licere transferre non est denegandum. Secondo il Birley, questo è un editto «to prevent
unlawful appropriation of other people’s graves» 91, ma egli non fa menzione del com-
mento di Marciano che segue, dal quale mi sembra scaturire che non si tratta tanto
della sepoltura di nuove salme in una tomba pre-esistente (di “disturbare”, inquietare,
in questo senso), ma del trasporto di una salma già sepolta, anche se in un’arca; i verbi
transferatur e transferre rappresentano qui la chiave 92. Sia il passo precedente (Dig.
11, 7, 38, su cui sotto) sia quello seguente (Dig. 11, 7, 40), trattano lo spostamento di
corpi e usano il verbo transferre. Mi pare dubbio che la causa per un tentativo di muo-
vere corpi che hanno già avuto la iusta sepultura sia da cercare in una calamitosa pe-
stilenza. Si potrebbe aggiungere che durante una pestilenza dovrebbero essere i corpi
non sepolti a necessitare dell’emanazione di norme specifiche, non quelli già sistemati
secondo la prassi normale, ma di questo non abbiamo nessuna prova sotto Marco Au-
relio. Invece un rescritto dell’imperator Antoninus (Caracalla), in cui si legge si quis
in hereditarium sepulchrum inferat … contra voluntatem testatoris (Dig. 47, 12, 3, 3)
sembra rispecchiare la situazione ipotizzata dal Birley molto meglio del passo segna-
lato dallo stesso 93 (ma per questo non vorrei proporre la presenza di una calamitosa
peste in quegli anni).
Nel rescritto di Marco, in cui si dice che l’erede, qui prohibet funerari ab eo quem
testator elegit, non recte facere (Dig. 11, 7, 14, 14), abbiamo probabilmente a che fare
con un caso, in cui motivi economici giuocano un ruolo, che però rimane oscuro; un
nesso con la peste sfugge 94.
In un altro rescriptum di Marco Aurelio imperatore unico si dice nullam poenam
meruisse eos, qui corpus in itinere defuncti per vicos aut oppidum transvexerunt, quam-
vis talia fieri sine permissu eorum, quibus permittendi ius est, non debeant (Dig. 47,
12, 3, 4). Anche se il passo è discusso dal Birley nel contesto della peste, egli non in-
dica nessuna ragione specifica per cui l’epidemia avrebbe spinto l’imperatore a un ver-

salme, abbiamo a che fare con soldati. Si potrebbe ovviamente anche ipotizzare che la questione dei
cenotaphia sia divenuta un problema acuto quando, durante un’epidemia, persone in viaggio mori-
vano con grande frequenza fuori casa.
91
A. Birley 1993, 150.
92
Questa interpretazione si trova anche in Paturet 2007, 350. Come notato dal Paturet 2007, 349,
la questione del trasporto dei morti non è trattata nell’opera classica di De Visscher 1963.
93
Sul passo si veda De Visscher 1963, 97 con nt. 5; Kaser 1978, 53-55.
94
A. Birley 1993, 150-151 giustamente sottolinea la probabilità di qualche ragione economica, per
poi avanzare ulteriori ragioni derivate dalla peste.

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142 CHRISTER BRUUN

detto del genere, oltre la frase generale «Naturally a good deal of the legal activity of
this time was concerned with the plague and its effect» 95. Una situazione, in cui una
persona morisse a qualche distanza dal luogo in cui doveva essere sepolto, non deve
però essere stata inusuale o limitata al periodo della “Peste Antonina”. Un editto di
Settimio Severo stabilì che Non perpetuae sepulturae tradita corpora posse transferri,
ammonendo anche ne corpora detinerentur aut vexarentur aut prohiberentur per ter-
ritoria oppidorum transferri (Dig. 47, 12, 3, 4). Un passo simile da Ulpiano (liber
nonus de omnibus tribunalibus) dice ne corpora aut ossa mortuorum detinerentur aut
vexarentur neve prohiberentur quo minus via publica transferrentur aut quominus se-
pelirentur, praesidis provinciae officium est (Dig. 11, 7, 38). Sostanzialmente sembra
trattarsi della stessa situazione, anche se le indicazioni circa l’ambito cui si riferisce la
prescrizione variano: per vicos aut oppidum (Marco) – per territoria oppidorum (Se-
vero) – via publica (Ulpiano). La differenza fra quello che dice Marco Aurelio e quello
che dicono i due altri passi non sta nell’itinerario della salma (neanche il per vicos di
Marco deve significare che si passi per il centro di qualche città, che in effetti sarebbe
stato un sacrilegio 96; si tratta semplicemente di attraversare il territorio). Invece ab-
biamo a che fare con non perpetuae sepulturae tradita corpora (Severo), che ovvia-
mente possono essere spostati, e corpi evidentemente già sepolti regolarmente (Marco
Aurelio), che però (tamen) possono essere trasportati senza penalità nel caso che si sia
avuto il permesso di coloro che questo permesso possono legalmente dare. La neces-
sità del permesso, che normalmente veniva dato dal collegio dei pontifices, oppure
dall’imperatore, raramente da qualche magistrato urbano, e nelle provincie anche dal
governatore 97, complica ovviamente la situazione, e tutto sommato rende poco credi-
bile che questo scenario abbia potuto servire ai bisogni proprio sotto una calamitosa
peste, quando l’efficienza dell’amministrazione sicuramente era venuta meno, quando
si viaggiava di meno, e probabilmente era più difficile venire a sapere che cosa fosse
successo a un viaggiatore lontano da casa.
Ironicamente, se fosse stata la peste a suggerire a Marco Aurelio di emettere tale or-
dinanza, bisognerebbe concludere che il suo editto deve avere avuto un effetto nega-
tivo (questo però non basta come ragione per rifiutare l’interpretazione del Birley; un
imperatore può sbagliare). La cosa più importante durante un’epidemia è ovviamente
seppellire i morti al più presto possibile, per minimizzare il rischio di contagio 98 – al-
troché trasportare la salma per vicos aut oppidum, dopo aver prima aspettato il per-
messo per un tempo probabilmente anche lungo.
Tutto sommato, non mi sembra che le fonti giuridiche riflettano davvero situazioni

95
A. Birley 1993, 150.
96
Si veda Laubry 2007, 164 con Sent. Paul. 1, 21, 2: Corpus in civitatem inferri non licet, ne fu-
nestentur sacra civitatis.
97
Van Haeperen 2002, 322-323.
98
Regolamenti di questo genere sono infatti comuni nelle città italiane studiate da Varanini 1994,
306.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 143

determinate da una pestilenza di singolare gravità e calamitosa sotto Marco Aurelio.


Abbiamo a che fare con alcuni singoli eventi, che, anche se in qualche caso (ma sicu-
ramente non in tutti i casi appena discussi) potrebbero riflettere una seria epidemia, co-
munque possono sempre essere spiegati anche in altri modi. In nessun caso i luoghi qui
esaminati delle fonti giuridiche fanno riferimento a una pestilenza. Con ciò non voglio
escludere che una ricerca più ampia su tali fonti possa ancora rivelare altri aspetti della
“Peste Antonina” 99. Lo studio di Robert Palmer della legislazione inglese dopo la Peste
Nera infatti ha mostrato come alcuni cambiamenti sono immediatamente individuabili
dopo il 1348. Ma si tratta di leggi che riguardano ben altri ambiti della vita sociale. Fra
l’altro si trova il tentativo di regolare la qualità del lavoro svolto dagli artigiani, i quali,
a causa del divieto di alzare gli stipendi in una situazione di scarsità di manodopera e
di personale specializzato, invece tendevano a lavorare con meno cura. Altre norme
concernevano la questione delle responsabilità dei medici in caso di fallimento delle
loro cure, e ancora i rapporti di vicinato, in particolare le inondazioni dei campi cau-
sate dal fatto che il vicino, vittima della peste, non era più in grado di curare le strut-
ture che avrebbero dovuto trattenere l’acqua 100. Analogamente l’unico esempio di
legislazione giustinianeo che si può connettere con la peste (perché datato al 544 d.C.)
riguarda i prezzi e gli stipendi di coloro che negotiationes et artificia exercent et di-
versarum artium opifices et agricultores nec non nautae; essi dovevano essere abbas-
sati al livello che esisteva prima della peste (la quale viene chiamata castigatio, quae
secundum domini dei clementiam contigit) 101. Fra le Novellae di Giustiniano si tro-
vano anche tre testi che riguardano la prassi funeraria e situazioni causate dalla morte
di una persona (le novelle 59, 60, e 87), ma essi non sono rilevanti nel nostro contesto
perché datati al 537 (le due prime) e al 539 d.C., cioè prima della peste.

6. Lo spostamento di individui

Nella sezione precedente si è brevemente fatta menzione anche della situazione dei
viaggiatori. Un altro aspetto da considerare quando si va alla ricerca di segni di una si-
tuazione catastrofica è infatti lo spostamento delle persone. Come sappiamo da con-
fronti con altri tempi e altre epidemie, quando una città viene colpita da un morbo
letale, quelli che ne hanno i mezzi tendono a lasciare il luogo malsano 102. Per esem-

99
A. Birley 1993, 133, rileva che nella Historia Augusta la lunga sezione sulla legislazione è in-
serita prima della fine della guerra partica, v. HA. vita M. Ant. 9, 7 - 12, 6. Ma l’attività legislativa
continuava anche dopo, come evidenziato, ad es., ibid., 138.
100
Palmer 1993, 139-144 (“quality of work”), 185-196 (medici), 283-284 (inondazioni); cf. Lit-
tle 2007, 22. Secondo il Palmer, op. cit., 185, la legislazione riguardante i medici non era comunque
causata direttamente dalla peste, ma era un prodotto della legislazione che cercava di regolare le at-
tività dei professionisti.
101
Schoell e Kroll 1895, 592-593; cf. Little 2007, 22.
102
Carmichael 1986, 100-101 per il XIV secolo. Similmente Duncan-Jones 1996, 121: «Parallels
from modern Europe show the regular exodus of inhabitants, especially the rich, from plague-stricken

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144 CHRISTER BRUUN

pio, durante la Peste Nera a Firenze nel 1348, troviamo il gruppo di giovani nobili nel
Decamerone di Boccaccio congregati in un luogo fuori dalla città 103. Varie notizie dai
secoli della peste giustinianea parlano di fuga dai centri abitati 104. A Roma ci sono in-
dizi del fatto che, anche nei periodi senza epidemie, i membri della classe dirigente pre-
ferivano rimanere fuori città durante la parte dell’anno meno salubre 105, e in ogni caso,
come viene osservato dal Duncan-Jones (nt. 102), il medico romano Celso consigliava
di partire in tempi di epidemia: … in pestilentia … Tum igitur oportet peregrinari, na-
vigare (De medicina 1, 10, 1) 106.
Ci conviene, quindi, per esempio tenere d’occhio lo spostamento degli imperatori.
Quale fu la loro reazione, come si comportarono la corte imperiale e i consiglieri im-
periali?
Di Commodo infatti Erodiano racconta che egli lasciò Roma quando la peste colpì
la capitale alla fine degli anni 180, e su consiglio dei suoi medici egli si ritirò nella villa
imperiale a Laurentum (Herod. 1, 12, 2).
Circa vent’anni prima, Marco Aurelio invece tardò a lasciare Roma quando la
“Peste Antonina” si manifestò per la prima volta, perché sembra che la sua partenza non
sia da datare prima della primavera del 168 d.C., circa un anno e mezzo dopo l’arrivo
dell’epidemia 107. Anthony Birley spiega questo atteggiamento con la volontà dell’im-
peratore di rimanere nella capitale con il suo popolo sofferente 108, ed è innegabile che
per la popolazione di Roma la presenza dell’imperatore avrà avuto un incoraggiante si-
gnificato simbolico. È pur vero che l’imperatore era uno stoico, ma si potrebbe pen-
sare che egli avesse almeno preferito ritirarsi in una delle tante ville imperiali nell’Italia
centrale, se la città era in preda a un’epidemia mortale di una dimensione inaudita 109.
La permanenza dell’imperatore a Roma suscita qualche dubbio sulla severità della ma-
lattia, che almeno non sembra essere stata pari alla Peste Nera.
Dopo un viaggio oltre le Alpi, troviamo Marco Aurelio e Lucio Vero ad Aquileia
nell’inverno del 168/169, come testimoniato da Galeno, il quale poté osservare una

communities», che adduce materiale comparativo da vari luoghi e periodi. Cohn 2003, 125, presenta
numerosi esempi della fuga di persone facoltose durante le epidemie della Peste Nera.
103
Ma non tutti reagirono nello stesso modo, come rilevato da Carmichael 1983, 510, e Carmi-
chael 1986, 100: a Firenze, Coluccio Salutati, la cui famiglia fu colpita dalla peste nell’anno 1400,
consigliò ai suoi concittadini di rimanere sul luogo; rilevato anche da Cohn 2003, 125. Qui però si
tratta soprattutto di una mentalità stoico-civica, v. Varanini 1994, 302.
104
Sallares 2007, 279-280.
105
Scheidel 2003, 166-167.
106
Si noti anche che Andorlini e Marcone 2004, 82 ipotizzano che parte della popolazione sia
fuggita davanti alla peste nel villaggio egizio di Thmouis nella seconda metà degli anni ‘60, contri-
buendo così al declino della popolazione (P. Thmouis 1, col. 104, 10-18); enfasi diversa in Blouin
2010, 415-417.
107
Halfmann 1986, 212: l’imperatore era a Roma ancora il 5 gennaio del 168, ma poi partì nel
”Frühjahr 168” (basandosi su HA. vita M. Ant. 14, 1; HA. Verus 9, 7).
108
A. Birley 1993, 150-151; ci fu anche un lectisternium di 7 giorni nel 167 d.C., che necessitava
la presenza dell’imperatore come pontifex maximus.
109
Si puo ricordare che molti studiosi considerano Roma colpita in modo particolarmente severo:
A. Birley 1993, 150; Frier 2000, 816; Scheidel 2003, 171.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 145

gravissima epidemia fra i soldati. All’inizio del 169 gli imperatori lasciarono Aquileia per
recarsi a Roma (un luogo evidentemente ritenuto più sano) 110, ma Lucio Vero morì ad Al-
tinum. Si noti che la sua morte normalmente non viene attribuita alla peste 111. La Histo-
ria Augusta descrive i suoi ultimi momenti con la frase: sedens cum fratre in vehiculo
Lucius apoplexi arreptus periit (HA. vita M. Ant. 14, 8) 112. Anche il fatto che Marco Au-
relio stesse insieme a Lucio Vero quando questi fu colpito da un’apoplessia parla contro
la presenza della peste 113. Si noti che dei dodici o tredici figli di Marco Aurelio, sette
erano morti prima del 166, il figlio M. Annius Verus morì nel 169, Lucilla fu giustiziata
nel 181, mentre gli altri sopravvissero fino agli anni ’90 del secondo secolo 114.
Rivolgendo l’attenzione al comportamento dell’elite, una persona ben nota che la-
sciò Roma nel 166 fu il medico Galeno. Da tempo la sua partenza è stata praticamente
all’unanimità attribuita all’arrivo della peste a Roma, e sembrerebbe quindi che egli sia
“fuggito” 115. La recente rivalutazione dell’informazione sulla partenza di Galeno da
Roma da parte di Heinrich Schlange-Schöning ha però rivelato due aspetti significa-
tivi. In primo luogo, la fonte (De libris propriis) in cui Galeno parla della peste in con-
nessione con la sua partenza è un testo tardo, scritto intorno all’anno 200. Il suo De
praecognitione fu invece scritto poco dopo gli eventi e narra una storia ben diversa. Vi
erano due ragioni per la sua partenza; primo, egli desiderava tornare in patria, a Per-
gamo, dove aveva i suoi possedimenti, e aspettava solo che la stasis che aveva afflitto
la città si fosse calmata. Secondo, alcuni suoi benefattori fra i cortigiani di Marco Au-
relio avevano l’intenzione di presentarlo all’imperatore, evidentemente con l’idea che
lui diventasse qualche cosa come un medico di corte. Ma Galeno aveva poca voglia di
assumere le responsabilità connesse con una posizione così elevata, e quindi lasciò
Roma prima che l’invito imperiale lo potesse raggiungere (un simile invito, ovvero

110
Gilliam 1961, 227-228 con note 10-11; Halfmann 1986, 213.
111
In tutta la letteratura consultata da me, non c’è nessuna esplicita affermazione che la peste
abbia causato la morte di Vero; solo Duncan-Jones 1996, 118 sembra prendere in considerazione la
possibilità, come anche Marcone 2002, 806. Ora però è più esplicito Oesterheld 2008, 43 nt. 2: «Er
kam aber … wohl ebenfalls infolge der Epidemien …ums Leben». Si può notare che la descrizione
che Sallares 2007, 235, dà dei sintomi di “septicemic plague”, citando anche morte per apoplessia,
potrebbe suggerire la peste come causa della morte dell’imperatore. Questo comunque non mi pare
probabile; v. le due note seguenti.
112
Nella biografia di Lucio Vero non si fa menzione della presenza di Marco Aurelio: sed non
longe ab Altino subito in vehiculo morbo, quem apoplexin vocant, correptus Lucius depositus e ve-
hiculo detracto sanguine Altinum perductus, cum triduo mutus vixisset, apud Altinum periit (HA.
Verus, 9, 11). Invece Girolamo menziona la presenza del collega imperiale: sedens cum fratre in ve-
hiculo, Hier. chron. 205 (Helm).
113
Pare che Marco Aurelio fosse consapevole del rischio del contagio: si noti che sul letto di morte
non volle che il figlio gli stesse vicino per molto, HA. vita M. Ant. 28, 8 (dopo però aver ricevuto tante
altre persone nei giorni precedenti, ibid. 28, 1. 4).
114
Kienast 1996, 139-140.
115
Gilliam 1961, 227 nt. 10 (più cauto sulla causa della partenza, “perhaps as a consequence”);
Littman e Littman 1973, 244; A. Birley 1993, 149-150; Huber 2005, 135; Jones 2005, 300. Il passo
citato da questi studiosi è De libris propriis 1, in Galeno, Scripta Omnia XIX, p. 15 (Kühn) = Scripta
Minora II, p. 96 (Müller).

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146 CHRISTER BRUUN

ordine, lo raggiunse poi a Pergamo nel 168 e lo fece tornare in Italia, ad Aquileia). Dal
De praecognitione trapela anche che, al momento della partenza di Galeno, Lucio Vero
non era ancora tornato dall’Oriente. Egli celebrò il trionfo partico il 12 ottobre 166, ed
era arrivato alcune settimane prima. Galeno quindi partì verso la fine dell’estate, ma
sembra improbabile che la peste si fosse già diffusa a Roma a quel momento; normal-
mente l’arrivo è messo in connessione con il ritorno dell’esercito (anche se i primi
messaggeri con la notizia della vittoria sicuramente erano arrivati già nella primavera
o nell’estate del 166) 116. Invece, nel De libris propriis di Galeno, scritto alcuni decenni
più tardi, l’arrivo della peste (di cui ovviamente non si può dubitare) viene menzionato
come un elemento generale di orientamento cronologico, non con l’intenzione di spie-
gare il motivo per la sua partenza. Inoltre, la menzione della peste non è localizzata, e
si potrebbe anche pensare che Galeno si riferisse all’epidemia prima scoppiata nel-
l’oriente, e che la sua preoccupazione per gli eventi a Pergamo, inclusa la peste, lo
abbia spinto a partire 117.
La nuova ed acuta lettura di Galeno da parte di Schlange-Schöningen comporta
quindi due risultati: non c’è più segno della peste a Roma prima dell’arrivo di Lucio
Vero all’inizio dell’autunno, e la partenza di Galeno non è attribuibile all’effetto della
peste a Roma.
Dopo l’arrivo della peste verso la fine del 166 (ma vedi la nota 116), come sempre
varie persone avranno avuto i loro motivi per lasciare Roma, per esempio quei sena-
tori o equites Romani che erano detentori di cariche militari o civili fuori della capi-
tale. Ma in generale mancano informazioni sullo spostamento delle famiglie senatorie
o equestri, e non è possibile pervenire a conclusioni generali in materia. Un’eccezione
sotto questo rispetto è rappresentata dai documenti degli Fratres Arvales, che narrano
una storia diversa da quello che forse ci si sarebbe aspettato. Questo onorevole colle-
gio si soleva riunire parecchie volte all’anno per le sue celebrazioni. Sta di fatto che
per qualche ragione una raccolta relativamente ricca di testi epigrafici ci è pervenuta
per gli anni seguenti allo scoppio della peste 118:

framm. 83 – 162/164 d.C.


framm. 84 – 164/169
framm. 85 – 169/177
framm. 86 – 170/176

116
Come è stato mostrato da Alföldy 1987, conosciamo da una iscrizione (AE 1979, 601) la per-
sona, Iunius Maximus trib. mil. leg. III Gallicae, che portò le laureatae litterae con il messaggio
della vittoria al senato, e il suo arrivo a Roma dovrebbe datarsi «ungefähr auf das Frühjahr 166» (p.
216), quindi a prima della partenza di Galeno e a parecchio prima dell’arrivo di Lucio Vero. Alföldy
1987, 212 non esclude che sia stato Iunius Maximus a portare la peste a Roma.
117
Per l’intero argomento, si veda Schlange-Schöningen 2003, 133, 139-146. Hahn 2005, 420-421
è d’accordo, e anche Mattern 2008, 3, sembra seguire Schlange-Schöningen.
118
Questi frammenti degli Acta Arvalium degli anni di Marco Aurelio sono presentati e com-
mentati da Scheid 1998, 245-257. Ancora due frammenti molto piccoli, i nn. 92-93, sono attribuiti
al regno di Marco Aurelio.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 147

framm. 87 – dopo 169


framm. 88 – 176
framm. 89 – 180
framm. 90 – sotto M. Aurelio (forse la lastra del 176)
framm. 91 – fine M. Aurelio / inizio Commodo

Per la maggior parte, si tratta di piccoli frammenti, spesso di dimensioni minori di


alcuni altri frammenti degli anni precedenti e successivi (per ragioni che però non
penso possano avere niente a che fare con l’occorrenza della peste). Ma la cosa che mi
sembra notevole è che la documentazione pervenutaci riguardante le riunioni degli Ar-
vales non è fondamentalmente diversa per gli anni dopo il 166 da come si presenta per
i regni di Traiano, Adriano o Antonino Pio 119.
Purtroppo i frammenti del periodo 166-180 non contengono nemmeno la lista dei
partecipanti, e quindi non è neanche possibile presentare una statistica delle presenze
nel collegio oppure una ipotesi sulla mortalità. (Parlando di statistiche di mortalità,
potrebbe ben darsi che l’informazione di Livio, secondo cui fra il 10 e il 20% dei sa-
cerdotes morirono nel 174 a.C. 120, sia la cifra più significativa a nostra disposizione per
tutta la storia romana, anche se basata su una sezione minuscola della popolazione). Ma
la cosa significativa mi pare sia che, a giudicare da queste testimonianze, la vita a
Roma continuò come prima, i Fratres Arvales continuarono a radunarsi, i verbali fu-
rono redatti e scolpiti nel marmo 121.
Per converso, a Firenze, dopo lo scoppio dell’epidemia di peste all’inizio del 1348,
la redazione di una cronaca scritta cessò a giugno/luglio 122. A Pistoia, il Consiglio
comunale continuò le sue sedute fino alla fine di giugno dello stesso anno 123. A Or-
vieto, dove si stava costruendo il Duomo, la documentazione dei turni giornalieri di
lavoro e dei pagamenti ai lavoratori cessa col 12 luglio del 1348 (dopo che la peste
era arrivata a maggio), e non riprende che col 16 settembre dell’anno dopo 124. Si po-
trebbero citare altri esempi ancora 125. La descrizione che Giovanni da Efeso dà della
situazione a Costantinopoli durante la peste giustinianea è simile (e lo è anche il rac-
conto di Procopio): Tutta la vita si fermò, nessuno volle comprare o vendere, non

119
Scheid 1998, 177-241 per i frammenti degli altri regni.
120
Liv. 41, 25, 8-9: perirono due pontifices (fra un totale di nove), due auguri (fra nove), il curio
maximus e un Xvir s. f. I pontifices erano 9 fino alle riforme di Silla nel 82 a.C. (van Haeperen 2002,
108).
121
Ovviamente, si potrebbe spiegare questo fatto ipotizzando che i senatori si fossero recati a
Roma dalle loro ville nella campagna soltanto per assistere alle riunioni, e inoltre il lucus Deae Diae,
dove si riunirono, si trova alla periferia di Roma.
122
Carmichael 1983, 511.
123
Carmichael 1986, 108-109.
124
Riccetti 1988, 175.
125
Un quadro più completo in Varanini 1994, 297-299. Bisogna però anche rilevare, con l’autore,
che in alcune città colpite dalla peste si svolsero anche varie attività normali, e furono fatti sforzi
anche sorprendenti (pp. 300-301).

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148 CHRISTER BRUUN

c’era nessuno in grado di lavorare; tutti i prodotti sparirono dal mercato, e non c’era
più da mangiare. Questo fatto aggravò la situazione anche per quelli che soffrivano
di altre malattie 126.
Parlando di viaggi e spostamenti di persone ci imbattiamo anche nella questione
della quarantena. Questa protezione contro le malattie infettive fu introdotta dopo lo
scoppio della Peste Nera nel ’300, ma bisogna concedere che il sistema con lungo iso-
lamento di nuovi arrivati fu messo in opera per la prima volta solo una trentina di anni
dopo lo scoppio della peste 127. Invece ben presto furono emessi divieti di accesso per
viaggiatori da città in preda al morbo 128. Nel mondo romano invece non troviamo in-
dizi che viaggi e viaggiatori avessero incontrato controlli o barriere, né all’inizio del-
l’epidemia, né più tardi sotto Commodo. Al contrario, per tornare a un argomento che
ho avanzato nel passato, ad esempio i viaggi fra Ostia e Roma, a giudicare da un certo
gruppo di fonti, continuarono come prima. Mi riferisco alla missione regolare di
un’unità dei vigiles di Roma nei Castra Vigilum ad Ostia. La missione durava quattro
mesi, e per qualche ragione le testimonianze di uomini che partecipavano a questi spo-
stamenti sono particolarmente ricche durante il primo decennio dopo l’arrivo a Roma
della “Peste Antonina”, vale a dire per gli anni 166, 168, 169, 175, 181, 182, e 183. Oc-
corre anche menzionare il fatto che la ragione per cui queste iscrizioni furono eseguite
era l’ammissione al frumentum publicum dei vigiles, che vi viene ricordata 129. Quindi
è da rilevare che anche questo aspetto degli servizi dell’Urbe apparentemente funzio-
nava in modo usuale in quegli anni. Qui siamo ancora una volta di fronte a una docu-
mentazione che non solo non quadra bene con la visione catastrofica della Peste, ma
che inoltre rappresenta un segno di normalità.

7. Mini-racconti individuali degli anni della “Peste Antonina”

All’inizio di questo contributo si è sottolineato lo scarso valore attribuibile a sin-


gole iscrizioni quando si tratta di valutare la dimensione e la serietà della “Peste An-
tonina” (sopra p. 124 con le note 5-6). Ciò nonostante, anche questo tipo di documen-
tazione episodica richiede qualche parola in più, se non altro perché si continuano a
scoprire nuove iscrizioni che potrebbero riferirsi alla peste sotto Marco Aurelio, oppure
si attira nuovamente l’attenzione su testi già noti. Un caso recentissimo è stato segna-
lato da Marina Vavassori, secondo cui la frase eodem fato fu[nctis] potrebbe riferirsi

126
Morony 2007, 80-81 con nt. 150; la descrizione in Procopio, Bell. Pers. 2, 23, 18 è molto si-
mile.
127
Si veda la nota 75 sopra; cfr. nota 76.
128
Carmichael 1983, 510.
129
Per le fonti, si veda Bruun 2003, 433-434; Sablayrolles 1996, 326-328, 331-332 (la documen-
tazione epigrafica preservata ha inizio nel 161 d.C.); Virlouvet 1995, 273-282; Virlouvet 2009, 23-
25, 28-31.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 149

a due figli morti dalla peste, mentre elementi onomastici nell’epigrafe molto fram-
mentaria potrebbero indicare il periodo tardo-antonino 130.
Indubbiamente, racconti individuali di individui vissuti sotto la peste sarebbero
utili e anche importanti, anche se non statisticamente significativi. Per qualche ragione,
gli intellettuali e scrittori del periodo, le cui opere sopravvivono, danno pochi cenni alla
“Peste Antonina” (con eccezione di Galeno, su cui sopra pp. 24-25). Nelle Medita-
zioni di Marco Aurelio si trova un solo riferimento, molto generale, alla peste 131; mi
chiedo se è lecito concluderne che o la sua formazione filosofica gli abbia insegnato a
non badare a fenomeni insignificanti come la morte inaspettata di milioni di cittadini,
adulti e bambini, oppure che quello che egli osservò non dovesse poi essere tanto di-
verso dalle vicende consuete nel mondo romano 132.
C’è poco da aggiungere dai testi letterari. Il maestro e corrispondente di Marco Aure-
lio, Cornelio Frontone, morì prima di poter registrare qualche effetto della peste 133. Fra i
letterati dell’epoca abbiamo brevissimi accenni da parte di Elio Aristide e Luciano 134. Il
cd. Ottavo Oracolo Sibillino è stato datato all’anno 175 o poco prima da Strobel e come
osserva lo studioso tedesco, la prima parte, in cui si parla della crisi imminente per il
mondo romano, non contiene nessun riferimento alla “Peste Antonina”, anche se secondo
Strobel il testo ebbe origine nella Siria 135, dove sicuramente la peste si era manifestata.
Per ulteriori racconti dipendiamo quindi dalle epigrafi. Come già accennato, esiste
un piccolo numero di iscrizioni che presentano o potrebbero presentare un riferimento
alla “Peste Antonina”; questi testi continuano a suscitare interesse. Quando sono da-
tati con sicurezza e registrano decessi in numeri cospicui, oppure considerano causa del

130
Vavassori 2007, 130-131. Si veda anche il commento di Spitzlberger 1968, 98-99, finora non
ripreso negli studi sulla Peste Antonina, secondo cui l’iscrizione CIL III 5969 dalla Retia, in cui il
padre ricorda la morte di tre figli, sarebbe da datare intorno all’anno 180 e possibilmente da connet-
tere con la peste, così come CIL III 11968 da Regina Castra (Regensburg), che registra la perdita della
moglie, una figlia e due figli. Cfr. anche la nota 6 sopra.
131
Secondo A. Birley 1993, 150, M. Aur. Med. 9, 2 è da riferire alla Peste Antonina; Gilliam 1961,
228 nt. 15 è più cauto.
132
Si noti comunque che in HA. vita M. Ant. 28, 4 si dice che l’imperatore morente dedicò alcune
parole alla situazione sanitaria: Quid de me fletis et non magis de pestilentia et communi morte co-
gitatis?
133
La data della morte di Frontone è discussa, ma non mi pare che si possa rifiutare l’argomento
di Champlin 1980, 139-142, secondo cui la probabilità che egli fosse sopravvissuto all’anno 167 è
minima. In ogni caso, testi suoi che si datino a dopo l’arrivo della peste non ci sono. Verso la meta
degli anni ‘60, Frontone era già molto anziano e malato da molti anni (quindi non è neanche detto
che sia morto di peste). Altri hanno voluto estendere la sua vita almeno fino al 175 d.C., in base a una
erronea lettura del suo De orationibus. A. Birley 1993, 146, è d’accordo con Champlin, cfr. A. Bir-
ley 2005, 161. Sorprende vedere la data del 176 (o dopo) per la morte di Frontone, senza alcun ac-
cenno alla discussione, in Schmidt 1998, 679. Anche Sordi 1977, 180, data la sua morte a dopo il 176.
Price 1999, 112 per un refuso sembra considerarlo attivo ancora verso la fine degli anni ‘70.
134
Duncan-Jones 1996, 118-119.
135
Per questa analisi, si veda Strobel 1993, 49-59. Non mi sembra che Rossignol 1999, 35 nt. 16
abbia pienamente colto l’argomento di Strobel.

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150 CHRISTER BRUUN

decesso una lues o un morbus, è evidente che si tratta di materiale di considerare se-
riamente, come si è anche fatto di recente 136. Ma spesso manca una data esatta e le
formulazioni sono troppo approssimative o poco chiare, come nel caso dell’iscrizione
dall’agro di Trieste, citata sopra a nota 5, che forse ricorda la morte e il seppellimento
di 21 persone (senza contenere criteri datanti) 137.
Avendo quindi ridimensionato il valore di singole epigrafi, potrebbe sembrare fuor-
viante citarne ancora una, ma vorrei attirare l’attenzione su un testo con un messaggio
diverso solo per ricordare che nella vita quotidiana esistevano evidentemente comun-
que diverse realtà.

M oribus hic simplex situs


est Titus Aelius Faustus
A nnis in lucem duo de
triginta moratus
C ui dederant pinguem
populis praebere liquorem
A ntoninus item Commodus
simul induperantes
R ara viro vita et species
rarissima fama
[I]nvida sed rapuit semper
fortuna probatos
V t signum invenias quod
erat dum vita maneret
S elige litterulas primas
et versibus octo
(CIL VI 34001 = CLE 1814 = ILS 9022 = BullCom 24, 1896, 62)

Abbiamo qui l’epitaffio di Titus Aelius Faustus, che morì abbastanza giovane, al-
l’età di 28 anni, ma quelli che eressero l’iscrizione funeraria consideravano comunque
il suo destino in termini positivi: si noti che l’acrostico è Macarius – “felice”.
Faustus visse sotto il regno di Marco Aurelio e Commodo, Antoninus item Com-
modus simul induperantes, cioè negli anni 177-180, e in quel periodo era coinvolto
nella distribuzione di pinguis liquor (probabilmente olio) al popolo 138. Egli dev’essere
nato dopo il 150 e prima del 163 d.C. (è inverosimile che abbia potuto compiere una
qualche funzione prima di compiere 17 anni), e quindi visse durante gli anni della peste

136
Jones 2005, 300; Vavassori 2007, 161-164.
137
Segnalato da Degrassi 1963, 155-156.
138
Si è discusso sul significato di pinguis liquor, che dovrebbe indicare l’olio, anche se in quel pe-
riodo le distribuzioni d’olio erano ancora eccezionali v. Pavis d’Escurac 1976, 197; Tchernia 1986, 27-
28; Virlouvet 2000, 122-123 con nt. 69. Ma la peste non deve necessariamente essere stata la causa
della distribuzione; un evento tale viene anche segnalato sotto Antonino Pio (HA, Ant. Pius 8, 11).

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 151

(e evidentemente sopravvisse per tanti anni, almeno fino all’inizio degli anni 180, se
non oltre) 139.
Si potrebbe considerare banalissima l’introduzione di un testo di questo tipo nella
nostra discussione – come se fosse significativo trovare un romano di Roma che sia so-
pravvissuto alla peste! In fin dei conti, i sopravvissuti in tutto l’Impero si contano ov-
viamente in decine e decine di milioni, anche a ipotizzare che la “Peste Antonina” sia
paragonabile alla Peste Nera! Sono perfettamente conscio di questo argomento, ma il
mio obiettivo, nel citare l’epigrafe di uno che fu “felice” o fortunato, è proprio di atti-
rare l’attenzione sul carattere frammentario ed episodico delle fonti epigrafiche. Ab-
biamo sì e no un grappolo di testi a disposizione.
I testi con menzione di malattie e morbi sicuramente databili ai decenni della “Peste
Antonina” sono purtroppo pochissimi. Essi dimostrano che qualche cosa succedette
in alcuni luoghi dell’Impero, ma bisogna essere attenti a non attribuire loro troppo
peso.

8. Breve riferimento a del materiale archeologico rispecchiante il commercio

Trovo molto interessante il breve articolo di Ulrike Ehmig apparso nel 1998, che
purtroppo ha ricevuto poca attenzione da altri studiosi 140. Basandosi sui ritrovamenti in
Germania di anfore bollate, e perciò databili con relativa esattezza, provenienti dalla
Betica, la studiosa si chiede cosa i reperti indichino della vita economica nel periodo an-
tonino. La statistica stilata dalla Ehmig si presenta in questo modo 141:

Tab. 1. Anfore olearie bollate Dr. 20/23 in Germania provenienti dalla Betica (da Ehmig 1998).
Magonza (Mainz) Augst / Kaiseraugst Gallia nord-orientale
numero % numero % numero %
Prima dei Flavi 36 15 47 28 11 6
Flavi-Traiano 56 23 57 34 66 36
1. metà II sec. 19 8 14 8 13 7
2. metà II sec. 60 25 30 18 56 30
III sec. 69 29 22 13 39 21
Totale 240 100 170 101 185 100

La Ehmig sottolinea che non si vede nessun segno di crisi nella seconda parte del II
secolo, al contrario. Questo fatto urta contra la visione comune secondo cui la peste tra-

139
Breve commento sul testo dell’editore Marucchi 1896, 62, 65.
140
Ehmig 1998; citata da Jones 2005, 299.
141
Ehmig 1998, 208.

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152 CHRISTER BRUUN

volse tutto l’impero occidentale. E mentre è vero che la penisola iberica si trova al-
l’estremità occidentale dell’impero, è anche il caso che i suoi rapporti economici sia
con l’Italia sia con le province settentrionali erano fittissimi in questi anni, a causa del-
l’esportazione di olio e altri prodotti. Quindi non si vede come le province iberiche ab-
biano potuto evitare di essere colpite in modo simile al resto dell’Occidente.
Evidentemente nella tabella non si distingue fra “prima” e “dopo” l’inizio della
“Peste Antonina”, perché la seconda metà del II secolo è considerata un periodo a sé.
Ma dato che si pensa che la peste abbia perdurato per decenni e che interviene anche il
periodo della peste sotto Commodo, è ovvio che i numeri dovrebbero attestarlo, se ci
fosse stato un effetto catastrofico sulla società e sull’economia, come si suole pensare.
Come confronto, per il periodo iniziale della peste giustinianea c’è qualche indi-
cazione archeologica che il traffico di merci si ridusse nel periodo 550-600 142, anche
se questo non è dimostrabile attraverso l’analisi statistica di relitti scoperti nel Medi-
terraneo, un indicatore che ha suscitato e continua a suscitare grande interesse fra gli
storici dell’economia antica 143. Anche per il periodo della “Peste Antonina” è il caso
che il numero dei relitti non vale a confermare la visione dell’epidemia come un cata-
clisma. Secondo la statistica presentata dal Parker nel 1992 (spesso citata e anche molto
di recente 144), il commercio marittimo, a giudicare dal numero di relitti ritrovati, era
al massimo durante un periodo di duecento anni, nel I sec. a.C. e nel I sec. d.C. Dopo
di che, il numero dei relitti diminuisce secolo per secolo fino a raggiungere il punto più
basso nell’VIII sec., con la sola eccezione del VI secolo, proprio quello della Peste
Giustinianea, che mostra una piccola crescita 145. Invece in un diagramma con intervalli
più brevi, di soli 50 anni, e che riflette la situazione della parte occidentale del Medi-
terraneo, si individuano tre momenti di minore incidenza, nei periodi in cui cadono i
regni di Augusto, Marco Aurelio, e Diocleziano 146. Questo fatto dimostra che, come
sarebbe da aspettarsi, altri fattori e non solo le epidemie possono spiegare le fluttua-
zioni del commercio. Infine bisogna anche prendere atto della discussione metodolo-

142
Sallares 2007, 287, con riferimento al commercio di ceramica in Spagna.
143
Sintomatica la considerevole frequenza della voce “shipwrecks” nell’indice a Scheidel et al.
2007, un’opera recente e autorevole.
144
Scheidel et al. 2007, 572, ma anche, ad es., De Callataÿ 2005, 369-370, il quale incomprensi-
bilmente si riferisce a «wrecks datable within nearly a quarter-century». La figura presa dall’opera
di Parker 1992, fig. 3 non si basa su un intervallo temporale così ristretto, mentre invece in Parker
1992, fig. 5, i rinvenimenti della parte occidentale del Mediterraneo sono inseriti in un diagramma
con intervalli di 50 anni. V. ora Wilson 2009, 224: “the drop occurs to early to be a result of the An-
tonine plague”.
145
Parker 1992, fig. 3. Si noti anche la nuova opera di Jurisic 2000, che presenta materiale ar-
cheologico dalle coste e dalle acque della Croazia, inclusi molti relitti non presi in considerazione dal
Parker. Redigendo la statistica sui relitti in questo lavoro (operazione non svolta dall’autore), risulta
che 30 relitti fra un totale di 49 sono datati al primo secolo d.C., e al massimo due potrebbero ap-
partenere al periodo dal 150 d.C. in poi.
146
Parker 1992, fig. 5 (una figura non citata nella ricerca recente).

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 153

gica che ha investito il problema della rappresentatività del materiale statistico di que-
sto genere 147.
Non voglio ovviamente tacere del fatto che una discussione ben più complessa si
sia sviluppata intorno alla situazione economica dell’Impero romano in seguito alla
peste sotto Marco Aurelio 148. Devo comunque lasciare ad altri contributori a questo vo-
lume la continuazione di questo dibattito.

9. La situazione dei Cristiani

Ancora un altro confronto storico con la Peste Nera mi sembra non sia privo di in-
teresse. Sappiamo che nel Medioevo in molti luoghi la colpa per la peste fu data alle
minoranze devianti, in particolare agli ebrei (anche se Papa Clemente VI nel 1348 ri-
petutamente si oppose alle persecuzioni). Negli anni 1348-49 persecuzioni antisemite
violentissime ebbero luogo in Francia, Catalogna, Germania, Svizzera, e altrove ancora
(invece il re Casimiro III di Polonia accolse gli ebrei, il quale fatto diede luogo a un
movimento demografico significativo) 149. Come rilevato da Duncan-Jones, il quadro
per l’antichità è simile riguardo alle persecuzioni di stranieri e minoranze durante pe-
riodi di epidemie. Secondo le nostre fonti, fu così per la peste di Atene, per la peste a
Roma nel 329 a.C., e anche per quelle sotto Domiziano e Commodo 150.
Visto in questa ottica, potrebbe considerarsi sorprendente il fatto che sia abbastanza
raro trovare studiosi che vedono nella “Peste Antonina” una causa delle persecuzioni
dei Cristiani sotto Marco Aurelio 151. Ma spiegherei questo fatto anche con la scarsa fa-
miliarità dei vari studiosi con la peste; potrebbe darsi che questo atteggiamento non sia
il frutto di una profonda analisi. Questa conclusione mi pare si possa ricavare dalle pa-

147
Per fare in esempio, Parker 1992, 6, nota come in particolare tanti relitti nelle acque della Croa-
zia e della Grecia rimangono inediti, un fatto che ovviamente sbilancia la statistica. Secondo De Cal-
lataÿ 2005, 369, si scoprono 50 nuovi relitti ogni anno, il che vuol dire che dopo la pubblicazione del
libro del Parker circa 900 altri relitti sono stati aggiunti al numero considerato da quest’ultimo (più
di 1.250). Il commercio marittimo in generale dipende ovviamente anche da quali regioni sono at-
tive nell’importazione e l’esportazione, senza che questo necessariamente debba significare una
svolta nella vita economica dell’impero in senso globale; v. anche N. Morley in Scheidel et al. 2007,
572-573. V. ora Wilson 2009, 219-229.
148
Si vedano, ad es., Scheidel 2002; Bagnall 2002; cfr. anche altri contributi in questo volume.
149
Bergdolt 1994, 119-151; Graus 1987 (non vidi); più brevemente Ginzburg 1991, 63-68, e Foa
2000, 13-14; cfr., fra l’altro sulla situazione in Polonia, Harrison 2000, 243-260, 433-434 (in svedese).
Commenti generali sul fato di gruppi marginali durante epidemie in Hays 2007, 37-38.
150
Per l’antichità greco-romana Duncan-Jones 1996, 115: «Societies with no effective medical ex-
planation for plague could easily blame it on human agency».
151
Accenni abbastanza vaghi in Oliver e Palmer 1955, 327; Frend 1965, 269; Sordi 2004, 103. Oli-
ver 1970, 75, a proposito della Peste Antonina: «the scapegoats were Christians and freedmen»; A.
Birley 1993, 152: «One reflection of public feeling at Rome among a population suddenly affected
by the plague was hostility towards the Christians»; Bammel 1993, 308, rinvia a studiosi che vedono
azioni anticristiane di Marco Aurelio a Roma negli anni 166-167, allo scoppio delle peste.

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154 CHRISTER BRUUN

role di un grande autorità in materia, che scrisse, a proposito dei martirii di Blandina
a Lione (177 d.C.) e di Perpetua a Cartagine (203 d.C.): «the last quarter of the second
century AD saw the high watermark in the growth and prosperity of the Greco-Roman
cities … Population was visibly increasing. There was relative security …» 152. La
“Peste Antonina” evidentemente non c’entra in questo discorso.
In ogni caso, ci conviene qui approfondire la tematica, con lo scopo di studiare se
gli anni della “Peste Antonina” portassero conseguenze per la situazione dei Cristiani
nel mondo romano. Ovviamente è impossibile, in poche pagine, dare un quadro com-
pleto delle persecuzioni durante il II secolo, dell’atteggiamento delle autorità e della
letteratura apologetica cristiana, ma si spera di cogliere l’essenziale relativo alla pro-
blematica che qui interessa.
Di grande notorietà è la sorte dei Cristiani dopo la conflagrazione di Roma sotto Ne-
rone. Cent’anni dopo, durante il regno di Marco Aurelio, il culto cristiano si era ormai
stabilito da tempo nell’impero, probabilmente quasi ovunque, ma i suoi praticanti erano
pur sempre in chiara minoranza e l’ostinato rifiuto di venerare gli dèi tradizionali e
l’imperatore rimaneva un ostacolo insormontabile per la loro integrazione 153. La no-
stra documentazione suggerisce infatti che la situazione dei Cristiani fu precaria sotto
tutti gli imperatori da Traiano fino al regno di Marco Aurelio e Lucio Vero. Si evita-
rono persecuzioni vere e proprie, e le autorità seguivano in generale la politica delineata
nella lettera di Traiano a Plinio in Bitinia (Plin. ep. 10, 97), e rafforzata nella lettera si-
mile di Adriano a Minucio Fundano (considerata sospetta da alcuni 154, mentre quella
attribuita a Antonino Pio sicuramente non è genuina 155), ma processi sporadici e con-
danne di Cristiani “ostinati” ebbero comunque regolarmente luogo 156.
Mi chiedo se, essendo questo lo scenario, non ci si sarebbe dovuta attendere una
violenta polemica contro i Cristiani, se la peste fosse stata cosi drammatica come molti
studiosi oggi tendono a pensare, che cioè i Cristiani fossero stati designati come dei
capri espiatori. Si pensi, a questo proposito, al proverbio citato da S. Agostino ancora
nel IV secolo: Pluvia deficit, causa Christiani (De Civitate Dei 2, 3).

152
Frend 1978, 168.
153
Il rifiuto di partecipare al culto dell’imperatore era forse di minore importanza, v. Millar 1973,
reiterato da A.R. Birley in l’Apologétique chretienne 2005, 280.
154
Barnes 1968, 36-39 sulla legislazione contro i Cristiani. L’epistola di Adriano è nota da Euse-
bio, hist. eccl. 4, 8, 6; 4, 9, 1-3, il quale trovò il testo nella ‘Prima apologia’ di Giustino; per una di-
scussione Freudenberger 1969, 216-234; l’epistola è citata ad es. da Pouderon 2005, 25. Dubbi sulla
genuinità della lettera di Adriano sono espressi da A. Birley 1993, 262 (con altra bibliografia).
155
La lettera di Antonino (Pio) si trova in Eusebio, hist. eccl. 4, 13, 1-7; essa è considerata con
grande probabilità spuria da Barnes 1968a, 37-38; A. Birley 1993, 257; diversamente Sordi 2004, 99-
102; forse in parte genuina secondo Pouderon 2005, 26.
156
Sulle persecuzioni Frend 1965, 1-30, 236-302; brevemente Edwards 2005; Frend 2006, 506-
509. Delle persecuzioni ci informano in particolare gli atti dei martiri, per i quali, fino ai tempi di
Marco Aurelio, si veda Musurillo 1972, xiii-xxii, 2-85; inoltre Barnes 1968b, 509-519; A. Birley
1993, 153-155, 260-261. Traduzione italiana di alcuni di essi in Di Meglio 1989, 32-41, 46-63, 76-
80, che include anche atti meno attendibili di altri martiri.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 155

Le accuse rivolte ai Cristiani dalle autorità e dagli scrittori pagani raramente soprav-
vivono in originale 157. Quindi, per lo studio di questa problematica la letteratura apolo-
getica cristiana rappresenta una fonte di singolare importanza, che in questo contesto si
può cercare di trattare solo sommariamente, cercando di individuarne le grandi linee. I
primi apologeti a noi noti, Quadrato e Aristide, apparvero già sotto Adriano. Dopo di
loro troviamo S. Giustino sotto Antonino Pio, e di lui sopravvivono anche alcune opere 158.
Non bisogna trascurare il fatto che l’attività apologetica sembra intensificarsi pro-
prio durante il regno di Marco Aurelio negli anni ‘70 del II secolo, probabilmente come
segno di un nuovo atteggiamento da parte del governo imperiale, anche se non è cre-
dibile che Cornelio Frontone abbia recitato un’orazione contro i Cristiani negli anni
‘60, malgrado alcuni studiosi siano di questa opinione 159. Si possono identificare ad-
dirittura cinque apologeti in questo periodo (Apollinare di Ierapoli, Melitone di Sardi,
Atenagora di Atene, Taziano e Milziade), dei quali i primi tre davano alla loro difesa
dei fedeli la forma di una petizione all’imperatore (ma sussistono molti dubbi intorno
all’eventualità che l’imperatore avesse realmente ricevuto le apologie) 160.
Non solo gli apologeti contemporanei di Marco Aurelio sono però d’interesse nel
nostro contesto. Se la colpa della peste fosse stata una delle accuse rivolte ai Cristiani,
mi aspetterei un riferimento a questo riguardo anche dagli apologeti posteriori alla
“Peste Antonina”, negli scritti dei vari Tertulliano, Minucio Felice, Origene, S. Ci-
priano e altri ancora 161.
Ma nelle apologie cristiane si trovano pochissimi riferimenti a qualche malattia, di
cui la colpa sia stata data ai Cristiani (v. sotto). Fra gli apologeti la forma letteraria e
l’approccio variano (anche secondo l’educazione e gli interessi filosofici e culturali
dello scrittore) 162, ma principalmente le accuse contro cui bisognava difendere i pra-

157
Per un breve sommario dei scritti “pagani”, inclusi quelli di Cornelio Frontone e Marco Aure-
lio, si veda A. Birley 1993, 154, 262-265.
158
Su questi tre apologeti, Fiedrowicz 2000, 37-43; Pouderon 2005, 115-117, 121-171; la fonte
storica ancora una volta è la Historia ecclesiastica di Eusebio (4, 3; 4, 8, 3-8).
159
La critica di Frontone ai Cristiani è menzionata da Min. Fel., Oct. 9, 6-7 (e in 31, 2). Come è
stato ripetutamente suggerito, potrebbe essere stata questa l’occasione in cui le accuse usuali anti-
cristiane furono elevate su un piano mitologico (simili riferimenti si trovano anche in altri apolo-
geti). È convincente l’argomento di Champlin 1980, 64-66, seguito da A. Birley 1993, 263, che
Frontone non pronunciò una vera e propria orazione Contra Christianos (e comunque non nel Se-
nato), ma che la frase faceva parte di una sua nota orazione contro un certo Pelops, databile a qual-
che decennio prima del regno di Marco Aurelio. Diversamente Fiedrowicz 2000, 50 (che parla di
un’orazione nel Senato negli anni 162/64); mentre Sordi 1977, 184, data l’orazione a poco prima del
177 d.C. Bammel 1993, 297 pensa a un attacco diretto ai Cristiani, che ella comunque preferisce da-
tare al regno di Antonino Pio. Per la data della morte di Frontone (nel 167 al più tardi), v. sopra alla
nt. 133.
160
Oltre a Fedorowicz 2001, 43-47, 52-54; Pouderon 2005, 175-239, 269-271; si veda in qualche
dettaglio Grant 1988b; A. Birley 1993, 258-259; Wlosok 2005, 13-19 (dubbi).
161
Una presentazione generale degli apologeti del tardo II e della prima metà del III sec. in Fie-
drowicz 2000, 57-67; su alcuni di loro v. Price 1999; Fredouille 2005.
162
Opere generali recenti sugli apologeti includono Grant 1988a; Young 1999; Fiedrowicz 2000;
Pouderon 2005; L’Apologétique chrétienne 2005.

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156 CHRISTER BRUUN

ticanti della fede cristiana erano quattro: la mancanza di rispetto verso gli dèi e l’ab-
bandono della cultura tradizionale greco-romana, e, fra le accuse più dettagliate, ince-
sto e cannibalismo 163.
A quanto sappia, in una sola occasione, prima della metà del III secolo, troviamo un
riferimento a un qualche morbo 164. Nel suo Apologeticum, scritto nell’anno 197, Ter-
tulliano cita una litania di accuse che vengono rivolte ai Cristiani: Si Tiberis ascendit in
moenia, si Nilus non ascendit in arva, si caelum stetit, si terra movit, si fames, si lues,
statim Christianos ad leonem! (apol. 40, 5). Di ogni male concepibile, quindi, si poteva
dare la colpa ai Cristiani. Se quindi da una parte il passo è troppo generale e schema-
tico per poterci dire qualche cosa in particolare della situazione nel periodo immedia-
tamente seguente alla “Peste Antonina”, dall’altra parte ci ricorda il fatto che dare la
colpa alle minoranze devianti era un fenomeno ben noto anche nel mondo romano.
L’indagine sembra complicarsi per qualche verso quando veniamo agli scritti di S.
Cipriano, vescovo di Cartagine negli anni 249-258. Egli scrisse dopo che una nuova
ondata di persecuzioni era stata avviata durante il breve regno di Decio (249-51) 165. Le
fonti letterarie raccontano dello scoppio di un nuovo morbo letale praticamente nello
stesso tempo. Ma è importante notare che la persecuzione sotto Decio non fu causata
dallo scoppio dell’epidemia, perché la prima notizia del morbo lo data all’anno 251 (o
anche più tardi) 166. Quindi è chiaro che quando nel 252 Cipriano compose il suo Ad
Demetrianum, né lui né il suo antagonista (tale Demetriano, che evidentemente aveva
scritto ancora prima) potevano basarsi su delle esperienze della nuova epidemia. Si
tratta piuttosto di un elenco generale di catastrofi, un topos, quando subito all’inizio
della sua opera, il vescovo cita le accuse di Demetriano: Sed enim cum dicas plurimos
conqueri et quod bella crebrius surgant, quod lues, quod fames saeviant, quodque im-
bres et pluvias serena longa suspendant nobis imputari … (Ad Dem. 2). Nella sua riposta
(e in altri suoi scritti) Cipriano evita di pronunciarsi in dettaglio sulla manifestazione
delle pestilenze, ma niente indica che egli abbia in mente accuse concrete datate al regno

163
Fiedrowicz 2000, 147-311 per una trattazione generale delle tematiche nell’apologetica cri-
stiana; Pouderon 2005, 55-84 su «Les grands thèmes de l’apologétique».
164
Già Gilliam 1961, 233 osservò che «no contemporary Christian writer seems to mention the
plague», ma altrettanto importante è il fatto che non lo fanno neanche quelli posteriori al regno di
Marco Aurelio. Se i Cristiani fossero stati accusati di aver causato la peste, sicuramente gli apologeti
della prima parte del III secolo avrebbero reagito con una trattazione dell’argomento.
165
Si veda la discussione in Rives 1999.
166
La prima menzione dell’epidemia è in Zosim. 1, 26, 2, sotto l’imperatore Volusiano Gallo (251-
253); poi in Zosim. 1, 36, 1 (sotto Valeriano, che regnò nel periodo 253-260). Altri riferimenti in
HA. Gallieni duo 5, 2; Euseb., hist. eccl. 7, 22, 1. Un errore cronologico in Little 2007, 25: «One par-
ticularly apt precedent is the pestilence that raged in the Roman Empire between 250 and 270. Chris-
tians suffered not only sickness and death from it, but accusations as well that they had caused it by
their unwillingness to participate in the state religion. Bishop Cyprian of Carthage wrote a vigorous
refutation of these accusations». Secondo Euseb., hist. eccl. 7, 22, 7-10 durante la peste in Egitto i
Cristiani in realtà venivano lodati perché erano gli unici ad aiutare gli ammalati e sofferenti.

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LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 157

di Marco Aurelio. Invece il vescovo mise la situazione critica globale (probabilmente


anche esagerandola) in relazione con il progresso verso la salvezza 167.
Per tornare al regno di Marco Aurelio, a giudicare dalle frequenti apologie, sembra
che i rapporti fra i Cristiani e l’impero fossero entrati in una nuova fase negli anni ‘70.
Ma vi furono eventi diversi dalla peste che evidentemente ebbero un effetto maggiore
sulla situazione dei Cristiani. Il più famoso caso di persecuzione del periodo tardo-an-
tonino viene comunemente datato all’anno 177 ed è quindi posteriore di una decina di
anni all’arrivo della peste nella parte occidentale dell’Impero 168. Mi riferisco ovvia-
mente ai ”martiri di Lione”, a una serie di avvenimenti, che culminarono nella morte di
un gruppo di Cristiani nell’anfiteatro di Lione 169. Si è fatto qualche tenue tentativo di
mettere la persecuzione in rapporto con la “Peste Antonina” 170. Altre spiegazioni sono
però più comuni e credibili. Parecchi studiosi vedono un nesso fra le persecuzioni e un
senatus consultum dell’anno 177, in cui si cerca di ridurre il costo degli spettacoli di
gladiatori e si permette l’utilizzo di trinqui (interpretato come un termine per indicare cri-
minali condannati) nell’arena 171. La possibilità di condannare Cristiani alla morte rap-
presentava un metodo ovvio per procurare un numero considerevole di trinqui. Per la
nostra inchiesta si pone la questione, se fu soprattutto la peste a causare la situazione, in
cui il governo si vide costretto a emettere questa nuova normativa. A giudicare dalle in-
formazioni di cui disponiamo, direi che la peste al massimo può essere stata un fattore
fra tanti altri problemi di cui l’impero soffriva negli ultimi anni di Marco Aurelio 172.
Né bisogna ricorrere alla peste per spiegare un’altra iniziativa praticamente con-
temporanea dell’amministrazione romana, i καινὰ δόγματα (“nuove procedure”) di
cui parla Melitone di Sardi nella sua apologia (Euseb., hist. eccl. 4, 26, 5). Queste
nuove procedure, che minacciavano i Cristiani in Asia Minore, evidentemente per-

167
Sulla concezione della crisi del mondo in Cipriano, v. Alföldy 1989, 295-318. Poca attenzione
all’accusa della peste in Price 1999, 113, mentre Fredouille 2005, 51, caratterizzando i Cristiani come
«accusés de tous les malheurs du monde, et plus précisément de la ‘peste’ qui sévissait alors dans tout
l’Empire», non considera che nel 252 non è plausibile che l’effetto della peste fosse già così dram-
matico, in particolare nella provincia di Africa.
168
Barnes 1978, 140-141, osserva comunque che la data deriva unicamente dal testo di Eusebio
(hist. eccl. 5 pr.: il diciassettesimo anno di Antonino Vero (!)), uno scrittore che in materia di data-
zioni normalmente è poco preciso. Lo studioso propone il 175 d.C. come terminus post quem, ma egli
ritiene possibile una data più tarda e non esclude una datazione al regno di Commodo; cfr. A. Birley
1993, 261.
169
Frend 1965, 1-30; Les martyrs de Lyon (177); con Musurillo 1972, 62-85 per la documenta-
zione (da Eusebio).
170
A. Birley 1993, 202: «War and plague had been taking a heavy toll … and scapegoats were
wanted», ma v. più sotto per altri motivi. Già Oliver e Palmer 1955, 327, che vigorosamente pro-
pongono un’altra spiegazione, accennano anche al non conformismo dei Cristiani: «Under the cir-
cumstances, the attitude of the Christians became more noticeable and offensive».
171
Oliver e Palmer 1955, in part. 324-326, seguiti, ad es., da Frend 1965, 5; Sordi 1978, 181-182.
Gómez-Pantoja 2009, 66 si limita a un brevissimo sunto delle posizioni. Più cauto A. Birley 1993,
261: «this must remain uncertain». Il senatus consultum è in CIL II 6278 = ILS 5163, adesso discusso
in dettaglio da Gómez-Pantoja 2009, 44-66 (cfr. un altro frammento da Sardi in ILS 9340).
172
Così già Oliver e Palmer 1955, 326-327.

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158 CHRISTER BRUUN

mettevano una persecuzione organizzata e contraria alle istruzioni emesse da Traiano


sette decenni prima. Ma qui la ricerca si è orientata verso la recente ribellione di Avi-
dio Cassio e la necessità di spegnere ogni resto della rivolta. Le nuove direttive colpi-
rono i Cristiani soprattutto a causa della loro associazione con la setta cristiana radicale
dei montanisti, un movimento che poteva apparire sovversivo alle autorità 173.
Gli autori cristiani quindi tacciono sulla peste. Il fatto che i praticanti della fede
cristiana non divennero mai i “capri espiatori” della “Peste Antonina” mi pare un altro
indizio che la peste fu più lieve di quanto i più pessimisti assumono, e che l’epidemia
non causò un trauma simile alla situazione creata dalla Peste Nera.

11. Conclusione

Mi si può forse rivolgere la critica che sono andato in cerca di informazioni che non
possono esistere nelle nostre fonti, che è inutile chiedere un tipo di documentazione che
solo periodi più moderni possono fornire. Invece, si potrebbe sostenere, la ricerca do-
vrebbe seguire il noto dictum di Sir Ronald Syme: «one uses what one has and there
is work to be done».
In un certo senso però il presente contributo ha fatto proprio questo principio, con-
centrandosi non (solo) sulle esplicite menzioni della peste, ma soprattutto su varie pro-
blematiche che potrebbero contribuire a confermare l’idea che la “Peste Antonina” fu
particolarmente grave, mentre, nel caso contrario, i dubbi andrebbero rafforzati. Alcune
questioni, come la legislazione, erano già state trattate in precedenza, ma serviva una
visione più globale. In altri ambiti, come l’interpretazione dei responsa oracolari, il
dibattito è stato vigoroso negli ultimi anni, e un riassunto sia pur breve pareva utile. Si
è inoltre tentato di applicare una perspettiva comparatistica, entro i limiti possibili del
contributo, e partendo da questo punto di vista si è tra l’altro studiata la questione della
fuga dai focolai dell’epidemia. Infine si pone la questione del fato dei Cristiani. La
storia mostra come in tempi di grande crisi sono le minoranze devianti a soffrire. Non
sembra invece possibile connettere le persecuzioni sotto Marco Aurelio con la peste.
Questo fatto ovviamente non prova che la peste non fosse grave, ma tende a indebo-
lire l’argomento di quelli che propongono che si trattasse una pandemia paragonabile
alla Peste Nera.
Non voglio negare che qualche mio commento si possa anche chiamare “ipercri-
tico”. Ma questo volume, come già prima il convegno da cui è nato, è caratterizzato da
una discussione aperta, e spero che l’approccio scelto possa anche servire a bilanciare
un altro atteggiamento, quello di voler connettere ogni frustulo di evidenza, letterario
ma soprattutto epigrafico, anche non databile, proprio alla “Peste Antonina”, sulla

173
Sordi 1978, 180-184; Fiorellino 2006-07. Per una discussione della natura del montanismo,
Mazza 1973, 478-483.

l ’ i m pat t o d e l l a “ p e s t e a n t o n i n a ” - © 2 0 1 2 · e d i p u g l i a s . r. l . - w w w . e d i p u g l i a . i t
LA MANCANZA DI PROVE DI UN EFFETTO CATASTROFICO DELLA “PESTE ANTONINA” 159

quale la ricerca degli ultimi anni si è concentrata per varie ragioni, alle volte esclu-
dendo possibili alternative.
Come osservò già il Gilliam, di pestilenze ce ne furono tante altre anche durante il
periodo imperiale 174. Per esempio, in Tacito (ann. 16, 13) troviamo una descrizione or-
renda di una pestilenza che colpì la capitale nell’anno 65 d.C.: omne mortalium genus
vis pestilentiae depopulabatur … domus corporibus exanimis, itinera funeribus com-
plebantur; non sexus, non aetas periculo vacua; servitia perinde et ingenua plebes
raptim extingui …
Che cosa possiamo dire di questa pestilenza? Se vogliamo prendere Tacito alla let-
tera, anche questo evento meriterebbe di essere seriamente considerato. Al livello di tra-
gedia umana questa pestilenza neroniana sembra simile o anche più grave rispetto alle
descrizioni che abbiamo della peste sotto Marco Aurelio. Ciò nonostante la ricerca si
è concentrata quasi esclusivamente sulla “Peste Antonina”, mentre nessuno si occupa
della “Peste Neroniana”.
Da quanto si è visto in questo contributo, risulta difficile trovare sostegno per una
dimensione catastrofica della “Peste Antonina” nelle fonti epigrafiche e archeologiche,
come anche letterarie, e penso che sia il caso di relativizzare gli eventi sotto Marco Au-
relio e Commodo. Mi pare importante tenere d’occhio la totalità della storia romana e
non isolare la “Peste Antonina”.

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