Sei sulla pagina 1di 285

Ilda

Boccassini
La stanza
numero 30
Cronache di una vita
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione digitale 2021
da prima edizione in “Serie Bianca” ottobre 2021

Ebook ISBN: 9788858845707

In copertina: © Carlo Ferraro/Ansa.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Ad Antonio e Alice.
A Martino, Sebastiano e Giona.
1.
La stanza numero 30

Poco prima di andare in pensione ho cominciato a fare pulizia nell’ufficio in


cui ho lavorato per decenni, a riguardare vecchie carte per decidere cosa
conservare. Operazione non facile, perché è come maneggiare brandelli di vita,
ritagli di gioia e di dolore, di speranza e di frustrazione. Ma è stata la mia vita e
spetta solo a me decidere cosa farne.
Mi sono messa a rileggere alcune lettere ricevute negli anni. Ne ho conservate
parecchie, perché ricevere apprezzamento e incoraggiamento da parte di tanti
cittadini comuni mi è stato di conforto, specie nei momenti più bui. Ma ho
conservato anche i messaggi cattivi, quelli che mi auguravano la morte e molto
altro non riferibile per decenza. Anche leggere quelle lettere piene di critiche e
insulti mi ha spesso fatto bene, perché avevano l’effetto di farmi salire
l’incazzatura e sono state uno sprone per andare avanti.
Tra le altre, mi ha colpito in particolare una lettera che ho trovato
perfettamente aderente al momento che stavo vivendo. È datata 31 dicembre
1991. Così mi scriveva questo sconosciuto:
Le apparirà strano che un “cittadino”, come oggi si usa dire o, forse, meglio, una persona comune
avverta l’esigenza di inviarle queste due righe per farle conoscere l’apprezzamento non solo personale
(che sarebbe poca cosa) ma di una cerchia ampia di qualificati amici e conoscenti di diversa estrazione
sociale, per il modo con il quale ella assolve l’alta funzione che è stata chiamata a svolgere.

La lettera, poi, si concludeva così:


Mi consenta un garbato suggerimento: non butti via questa lettera, la riponga in una cartellina insieme a
ritagli di stampa, ad altre lettere, testimonianze di amici e colleghi e cose simili che le farà piacere un
giorno, quando sarà vicina alla mia età, sfogliare e rileggere di tanto in tanto. Io proprio così sto facendo
da qualche mese e il piacere di concedersi una “carrellata” di ricordi, anche di momenti amari e non
facili, di rileggere lontane e insospettate o dimenticate attestazioni di stima è estremamente appagante,
anche nelle mille difficoltà incontrate e talvolta non superate, che nella prospettiva sfumata del ricordo
risultano per fortuna meno pungenti. Coraggio, quindi. Buona fortuna e buon lavoro. E poiché oggi è
l’ultimo giorno dell’anno, tanti sinceri auguri per un sereno 1992.

Non buttare via i ricordi. Era quello che stavo facendo da qualche settimana,
rileggendo pezzi della mia vita attraverso le carte che ritrovavo in quella miniera
esistenziale che era la stanza numero 30 al quarto piano del palazzo di giustizia
di Milano, la stessa stanza in cui lavoravo dal 1979. Selezionando, riordinando o
cestinando pezzi di carta, ripercorrevo al contrario nel tempo gioie e dolori,
sprazzi di felicità e momenti di abisso.
Quanto agli auguri per il 1992, nessuno avrebbe potuto immaginare che
proprio quell’anno avrebbe cambiato radicalmente la mia vita privata e
professionale. Un anno che vale la pena di ripercorrere, senza trascurare il prima
e il dopo, lasciando i ricordi nell’ordine in cui riaffiorano. Sono sicura che la
selezione fatta dall’anima produca sempre una sequenza autentica.
2.
Da Napoli a Milano

Sono nata a Napoli e fino all’adolescenza ho vissuto nel rione popolare di


Fuorigrotta. La vita di quartiere ha dato un’impronta decisiva alla mia infanzia:
ho respirato la stessa aria dei romanzi di Elena Ferrante, condividendo anche il
percorso della generazione a cui appartengono i suoi protagonisti.
Il nostro appartamento era al quinto piano. Lo stabile aveva l’ascensore, ma
noi bambini non potevamo usarlo se non accompagnati da un adulto. A me
piaceva fare su e giù per le scale, anche più volte al giorno, e quando mi capitava
di usare l’ascensore provavo un certo malessere in quella cabina angusta, senza
aperture che lasciassero passare un po’ di luce fino a che non si arrivava al
piano. E non sopportavo quel fetore di vecchiume, di aria stagnante che
sprigionavano le pareti di legno. Anche oggi, se chiudo gli occhi e ripenso a quei
momenti, mi sembra di sentire lo stesso odore nauseante.
Un giorno, vicino all’ascensore, intravidi un grosso topo che si dirigeva
velocemente al piano sotterraneo, dov’erano le cantine, un luogo vietato a noi
bambini e per questo, nella nostra immaginazione, abitato da mostri.
Quell’avvistamento del ratto, che purtroppo si ripeté, mi lasciò terrorizzata, e la
paura di quei locali bui e proibiti aumentò a dismisura.
La presenza dei topi dipendeva dal degrado postbellico e dal fatto che i palazzi
erano circondati da campagna e da vaste aree ancora vergini. Oltre la campagna,
intorno alle case del rione sorgevano baracche fatiscenti abitate dai reietti della
società. La guerra aveva lasciato il segno sulla via in cui vivevo, viale Augusto:
c’erano case sventrate dai bombardamenti, abitazioni disastrate e occupate da
povera gente. L’immagine di quella desolazione si è impressa dentro di me e, se
mi capita di pensarci, rivivo la paura di quando, da bambina, passavo di lì con
mia madre. Come mi ricordo il terrore che provavo davanti alle sculture in
rilievo del Ventennio fascista che ornavano una struttura poco lontano dalla
Mostra d’Oltremare. All’epoca mi sembravano creature enormi, minacciose: le
ho riviste da adulta, esistono veramente, non erano mostri che affollavano i sogni
della mia infanzia, come pure mi è accaduto di dubitare.
Quel quartiere, però, era anche vita spensierata. Giocavamo dalla mattina alla
sera, liberi, senza correre pericoli, con i miei fratelli e tutti i bambini del
caseggiato. Mia madre ci controllava dal balcone e al suo richiamo
immediatamente ci ritiravamo. I giochi più gettonati, oltre ad andare in bicicletta
o sui pattini, erano gli scambi di figurine, maz e pivisu, che consisteva nel
lanciare lontano un pezzo di legno utilizzandone un altro più lungo, la campana,
la cavalletta e, ovviamente, nascondino. Nel periodo in cui ho vissuto a
Fuorigrotta non mi sono spostata molto, il mio mondo iniziava e finiva in viale
Augusto con le sue palme, che oggi incuria e malattie hanno fatto scomparire. Il
mare lo vedevo solo d’estate, quando andavamo in vacanza a Ischia.
La casa della mia famiglia era tra quelle Incis, destinate agli impiegati
pubblici. Un’abitazione modesta, ma decorosa grazie alle cure di mia madre. Lo
spazio era insufficiente per le esigenze della famiglia, così dividevo una stanza
con i miei fratelli più piccoli, Domenico detto “Momo” e Marcello. Quegli anni
di promiscuità non mi pesarono, perché avevo paura del buio e la loro presenza
mi rassicurava. Ma per studiare ci dovevamo adattare, avevamo una sola
scrivania in tre. Conservavo in una scatola di latta i miei piccoli segreti – i
bigliettini scambiati con alcune compagne di classe, i ricordi delle estati,
chincaglieria di ogni genere, per me preziosa quanto un tesoro – che nascondevo
nel cassetto della biancheria.
A Fuorigrotta ho frequentato le elementari e le medie. Ho un ricordo molto
vivo dei primissimi giorni di scuola, in una classe di sole femmine. C’erano un
ingresso maschile e uno femminile; indossavamo il grembiule nero con un
grande fiocco bianco allacciato sotto il colletto; avevamo i quaderni con la
copertina nera, le penne con cannello e pennino, i banchi di legno con il foro per
il calamaio dell’inchiostro, nero come la pece.
Io venivo da una famiglia di magistrati: lo era mio nonno (che non ho fatto in
tempo a conoscere), lo erano mio padre e anche suo fratello, lo zio Nicola. Le
mie compagne di classe – ricordo il viso di molte di loro – non provenivano dal
mio stesso ceto sociale, anzi la maggior parte viveva nelle baracche, alcune già
lavoravano e venivano a scuola con le mani nere di carbone.
All’epoca ovviamente non consideravo le differenze di ceto, non sapevo
quanto fossi più fortunata di tante mie compagne, né mi interrogavo sul motivo
per cui, alla refezione, venisse fatto circolare un cesto di rosette fragranti da
accompagnare – a seconda del giorno – con un formaggino, la cotognata o un
gianduiotto (buonissimo!). Tutte avevano diritto alla merenda. Tutte tranne me e
Silvana, l’amica del cuore con la quale ho condiviso tanti momenti di vita anche
adulta, fino alla sua scomparsa avvenuta qualche anno fa. Vivevo
quell’esclusione come una violenza, anche se mi era stato spiegato che era
dovuta alla mia appartenenza a una famiglia più agiata. Ma mia madre non mi
faceva portare la merenda e quindi è facile immaginare l’acquolina in bocca
guardando le altre bambine che mangiavano il loro panino. Il giorno della
cioccolata, poi, l’invidia diventava incontenibile.
A scuola distribuivano anche le scarpe – bruttissime –, tutte nere e con i
laccetti: per quelle non invidiavo le beneficiarie, così come quando le mettevano
in fila e le obbligavano a ingurgitare una dose di sciroppo ricostituente. Lo stesso
cucchiaio che andava di bocca in bocca...
Della scuola media mi torna in mente solo la preside, un donnone di età
indefinita, zitella, respingente, con una concezione dell’insegnamento
tradizionale e reazionaria. Anche se avevo soltanto undici anni, forse per i
discorsi che sentivo in casa capivo vagamente perché la chiamavano fascista e
dicevano fosse nostalgica del Ventennio. Il suo modo di dirigere la scuola era
militaresco: ci costringeva a frequenti adunate in cortile per ascoltare sull’attenti
l’inno di Mameli, e dedicava ore e ore alla preparazione del saggio di fine anno.
Uno strazio! Come se non bastasse, la preside mostrava anche di non sopportare
le bambine di origini umili – peraltro in maggioranza –, quasi rimproverasse loro
la pretesa di esercitare il diritto all’istruzione, anziché andare a lavorare come
spettava al loro basso rango. Forse per quello privilegiava l’insegnamento
dell’economia domestica, materia a quei tempi obbligatoria ma per me
faticosissima, dato che non sapevo ricamare né lavorare a maglia.
Quegli anni mi hanno segnata, perché mi hanno permesso di capire cosa sono
la miseria, il degrado, la differenza determinata dal luogo in cui si cresce o dalla
famiglia in cui si ha la ventura di nascere. Insomma, penso che la mia infanzia
abbia contribuito a radicare in me quel senso della giustizia che riconosco ancora
oggi.
Quando avevo tredici anni ci trasferimmo in una zona residenziale di Napoli,
non lontano dal centro, dove finalmente ebbi una stanza tutta per me. Quel
trasloco coinciso con l’arrivo dell’adolescenza, quando la convivenza forzata
con i miei fratelli cominciava a farsi difficile, mi rese felice.
Mentre crescevo, osservavo con curiosità sempre maggiore mio padre che
lavorava molto anche a casa: per un periodo ha fatto parte del collegio di Corte
d’assise di Napoli e il suo studio – meglio, la sua scrivania – per noi era
inaccessibile. Non solo non dovevamo toccare niente, ma era proibito persino
avvicinarsi ai fascicoli ammonticchiati sul ripiano che papà compulsava mentre
scriveva le sentenze. Ma quando lui non c’era andavo a sbirciare, incuriosita
soprattutto dalle fotografie dei cadaveri, dei luoghi in cui era avvenuto un
omicidio, dei dettagli contrassegnati da cartellini con lettere o numeri. Ne ero
talmente affascinata che non mi preoccupavo delle punizioni che arrivavano
quando papà si accorgeva di un fascicolo fuori posto. Insomma, ero attratta in
modo irresistibile da quelle montagne di carta, ma quanti incubi notturni per
quelle fotografie, effettivamente poco adatte agli occhi di una bambina.
Mio padre era anche molto attivo nell’associazionismo della magistratura.
Anzi, era stato uno dei fondatori di Magistratura indipendente, corrente che
esiste ancora oggi e che negli anni è diventata la più numerosa e influente, anche
se, a mio avviso, ha anche perso i tratti distintivi pensati da quel liberale vecchio
stampo che era papà, con i suoi valori che oggi sembrano fuori corso. Mi
capitava di assistere a riunioni lunghissime e telefonate altrettanto lunghe con i
colleghi, molto frequenti in certi periodi, al loro disaccordo e ai loro litigi. Di
questa larga rete di relazioni, ricordo in particolare il rapporto di mio padre con
Adolfo Beria di Argentine, uno dei protagonisti della storia associativa dei
magistrati. Beria e mio padre avevano idee diverse, a volte radicalmente diverse,
ma si rispettavano e si stimavano.
Com’è ovvio, allora mi sfuggiva il senso di tutto quel fervore, come la
situazione del Paese potesse incidere sugli assetti interni della categoria dei
magistrati. Ma avvertivo vagamente che quelle differenze, quei confronti anche
aspri tra colleghi, erano importanti e che un giorno anche io – com’è poi
avvenuto per un lungo periodo – vi avrei preso parte. Tutti questi aspetti,
sommati alle mie curiosità, in qualche modo prefiguravano scelte future come
quella di iscrivermi a Giurisprudenza e poi di tentare il concorso in magistratura.
Il 1972 è stato un anno fondamentale. A marzo mi sono sposata, già in attesa
di Antonio; a luglio mi sono laureata in compagnia del mio bel pancione e con il
massimo dei voti; a ottobre è nato mio figlio. Ero molto giovane, lo so – troppo
giovane, posso dire ora –, certamente impreparata a fare la mamma. E mentre le
mie amiche del cuore, Silvana e Francesca, si divertivano com’è normale a
vent’anni, la mia quotidianità era un turbinio di poppate, pannolini, risvegli
notturni, occhiaie indelebili, qualche rimpianto. Ma se Antonio è stato il figlio
della lotta e della fatica, lui e sua sorella sono anche le cose più belle della mia
vita.
Antonio giocava con i Codici mentre io studiavo per il concorso, lo portavo
con me – a volte lo trascinavo – alle manifestazioni. Sulla sua culla non c’era
un’immaginetta religiosa e nemmeno un poster gioioso, colorato, con disegni da
bambini: c’era un manifesto con un mitra e la scritta “No al crimen politico”,
riferito al golpe cileno del 1973. Antonio ha ancora quel manifesto appeso in
casa.
Lo portai anche alla giornata conclusiva del Festival dell’Unità, alla Mostra
d’Oltremare, dove si sarebbe tenuto il comizio di Enrico Berlinguer. Arrivammo
in autobus, il piazzale era stracolmo di persone, migliaia di bandiere, folla
festosa e rumorosa. Tanto rumorosa che il piccolo Antonio si spaventò e
cominciò a piangere. Cercai di rassicurarlo, di dirgli che era una festa, ma lui
non smetteva di piangere e non riuscii a calmarlo. Circa un anno fa, il quotidiano
“la Repubblica” ha pubblicato una fotografia di quella giornata. Quando l’ho
vista ho mandato a Toni (lo chiamiamo così in famiglia) un messaggino di
questo tenore: “C’eravamo anche noi!”. Lui mi ha risposto: “Se sono quello che
sono, lo devo anche a questo. Grazie”. Quell’sms mi ha regalato un attimo di
felicità.
Gli esami scritti del concorso per entrare in magistratura si tenevano a Roma,
al palazzo dei congressi dell’Eur: tre giorni di prove su diverse materie che per
molti sono causa di incubi notturni anche dopo anni. Avevo la sensazione di
stare su una nave alla deriva, prossima al naufragio, nelle cui scialuppe
avrebbero trovato posto in pochissimi: per salvarti dovevi contare sul fatto che
qualcun altro non ce la facesse. Io avevo puntato tutto su quella scelta maturata
in anni molto difficili e faticosi, ma non avevo voluto prevedere alternative
quindi fallire sarebbe stato disastroso. Antonio era ancora piccolo, io ero già
separata da mio marito e il pensiero di non farcela mi faceva apparire il futuro
come un’unica, enorme ombra scura.
Studiare e fare la mamma è stata un’esperienza molto dura, sicuramente ha
tolto a mio figlio sprazzi di infanzia felice, la mia mancanza di serenità lo
avvolgeva e pesava su di lui. Pur senza volerlo, finivo con il dedicare allo studio
più tempo e maggiori energie che all’attenzione e alle cure necessarie a un
bimbo così piccolo. Arrivai all’esame del concorso stanca e sfiduciata. La mia
vita privata era inesistente: niente distrazioni, mai un cinema o una sera a teatro,
era complicato anche uscire con le amiche, di amori nemmeno a parlarne. Per di
più guadagnavo pochissimo, contando solo su una borsa di studio collegata alla
cattedra di Diritto penale. Mi pesava molto dover ricorrere all’aiuto dei miei
genitori né loro mancavano di farmelo notare. Insomma, ricordo quegli anni
come un periodo estenuante.
Gli esiti degli esami scritti furono resi noti nel marzo 1977. Ce l’avevo fatta!
Una gioia indescrivibile, anche se non era finita: mi aspettavano altri mesi di
studio intensissimo per la prova orale. China sui libri per ore e ore ogni giorno,
alternavo ancora una volta lo studio con la cura di Antonio.
All’epoca abitavo vicino a via Petrarca, una delle strade più belle di Napoli,
con un panorama mozzafiato. Nello stesso stabile viveva la famiglia del
professor Francesco Paolo Bonifacio, in quegli anni ministro della Giustizia. Un
giorno, mentre ero in casa a studiare, Antonio era sceso nella guardiola del
custode del palazzo, in attesa del pulmino che lo avrebbe portato a scuola. A un
certo punto era entrato il ministro circondato dalla scorta e Antonio, dopo averlo
osservato, gli aveva detto: “Tu sei il ministro. Mia madre dice che hai una faccia
di c...”. Momenti di panico: il custode ben sapeva la fatica che mi stavo
sobbarcando per superare il concorso ed era preoccupato per le possibili reazioni
del ministro. Ma Bonifacio, con perfetto aplomb, carezzò Antonio sulla testa e
proseguì verso il suo appartamento. Per diverse notti ebbi gli incubi, sognavo
Bonifacio che entrava nell’aula durante gli orali del concorso e ordinava
minaccioso alla commissione: “Bocciatela!”. E per un lungo periodo, uscendo
dal mio appartamento, sono stata bene attenta a non incrociarlo: meno male che
per i suoi impegni trascorreva più tempo a Roma che a Napoli...
Il giorno degli orali ero tesissima. Avevo studiato tanto ma, come succede
prima di qualsiasi esame, mi sentivo impreparata. La prova si teneva in via
Arenula, al ministero della Giustizia. Arrivai a Roma il primo novembre, dopo
una notte insonne trascorsa tra dubbi e picchi di tensione. Il giorno successivo
l’aria era tiepida, c’era un bel sole nonostante fossimo quasi in inverno. Era la
festività dedicata ai defunti e da buona napoletana la coincidenza non mi
piaceva. I candidati aspettavano il loro turno in un corridoio adiacente alla stanza
in cui era riunita la commissione. Non ricordo più quanto dovetti aspettare in
quel corridoio, insieme alla mia compagna di studi, Annamaria Gatto, che
intanto aveva già superato la prova. L’usciere chiamò: “Dottoressa Boccassini,
prego. Tocca a lei”.
Entrai. Mi sentivo mancare, ma credo di essere riuscita a dissimulare l’ansia.
Mi sedetti di fronte alla commissione con la netta sensazione di essere davanti a
un plotone di esecuzione. L’esame durò più o meno un’ora. I commissari
competenti per le singole materie mi posero le domande, risposi a tutto.
Dopodiché uscii dalla stanza e per un eterno quarto d’ora rimasi in attesa del
responso in preda a un’angoscia che non saprei descrivere. Finalmente l’usciere
chiamò il mio nome e io, con le gambe che mi tremavano, rientrai nella stanza
dell’esame. Intuii immediatamente, dai volti dei commissari, che ce l’avevo
fatta, ma attesi educatamente l’ufficializzazione dell’esito, poi corsi fuori in
preda all’euforia. Piangendo per la gioia buttai in aria i Codici e telefonai subito
ai miei genitori: pianse persino mio padre e io potei finalmente dirgli che non
l’avevo deluso, visto che quando mi ero sposata – così giovane e con un figlio in
arrivo – si era detto convinto che mai avrei affrontato la fatica del concorso, che
avevo buttato via la mia vita.
Durante l’uditorato a Napoli, per mesi, ancora prima della nomina, cominciai a
frequentare le aule d’udienza, tale era il desiderio di respirare quell’aria che
sarebbe poi diventata l’habitat naturale, il terreno di coltura della mia seconda
pelle. Ero attratta dalla celebrazione di quel rito civile e, napoletana a Napoli,
non ero turbata dagli squarci di vita reale che di tanto in tanto irrompevano
anche tra le mura di Castel Capuano. Come, per esempio, il dialogo tra il giudice
e il poveraccio che vendeva sigarette di contrabbando dentro il tribunale.
“President’, buongiorno, scusate tanto si disturb’...” “Ah, site vuje! Venite: tenite
’e Malbòro?” “Sì, sì, ’e teng! Quanti pacchètt’ ne vulite?”
A quei tempi il tirocinio prevedeva anche periodi romani, per cicli di lezioni
teoriche. Finalmente, dopo le fatiche e lo stress dello studio, anche se con pochi
soldi e nessuna certezza, iniziò un periodo bellissimo, indisciplinato, goliardico,
felice per la rinnovata fiducia dei miei genitori. I vincitori del concorso erano
divisi per regioni, perciò i napoletani erano insieme ai siciliani, ai pugliesi, ai
romani. Conobbi in quei mesi colleghi simpaticissimi con i quali, oltre a (o forse
meglio: più che) seguire le lezioni, vagavo per Roma alla scoperta della Città
eterna. Insomma, lezioni o no, furono settimane di puro divertimento.
Durante una di queste lezioni mi resi conto che uno degli uditori – uno tra i
primi in graduatoria – era armato. Ne restai interdetta, e così con Annamaria
decidemmo di comprare una pistola ad acqua di colore rosa e di portarla in aula
per prendere in giro il collega. Ma proprio quel giorno erano presenti a lezione
alcuni membri del Consiglio superiore della magistratura i quali, alla vista della
nostra pistola ad acqua, ci rimproverarono duramente, nonostante Annamaria e
io ci affannassimo a spiegare il significato del gesto. L’arma vera, per di più in
tasca a un futuro magistrato che si atteggiava a sceriffo, avrebbe dovuto
ingenerare nei consiglieri ben maggiore preoccupazione, magari traendone lo
spunto per una lezione sul modo giusto di essere magistrati. Invece no, e quel
rimprovero, vissuto da me e Annamaria come un pugno in faccia, ci chiarì un
concetto che avrei visto confermato innumerevoli volte negli anni successivi: il
cammino di noi donne all’interno della categoria non sarebbe stato una
passeggiata.
Arrivò il momento della scelta delle sedi. Mi era chiaro che non sarei potuta
rimanere in Campania, perché all’epoca i candidati provenienti dal Meridione
erano molto più numerosi di quelli del Nord e perciò toccava emigrare. In quel
momento sapevo con certezza solo che avrei scelto una procura, perché ero
affascinata dal ruolo e non provavo alcuna attrazione per la funzione giudicante
né, tanto meno, per quella di giudice istruttore. Speravo, in cuor mio, di
conquistare un posto alla procura di Milano, ma c’erano due problemi:
innanzitutto ero a metà graduatoria e prima di me avevano il diritto di indicare
l’ufficio desiderato i colleghi con un punteggio più alto; inoltre, Milano era
considerata sede disagiata e i lombardi avevano la priorità, indipendentemente
dal punteggio conseguito, perché era più probabile che si sarebbero fermati a
lungo nella propria regione. Milano sede disagiata? Può suonare strano, ma in
quegli anni funestati dal terrorismo Milano aveva bisogno di un organico al
completo, mentre i magistrati scarseggiavano perché i colleghi meridionali non
appena possibile presentavano domanda per avvicinarsi a casa. E Palermo e la
Sicilia, dove imperversava la guerra di mafia con centinaia di morti? No, quelle
erano considerate sedi in cui si operava in piena normalità, perché il fenomeno
mafioso non era ancora percepito come un cancro del Paese, anzi era
sconosciuto ai più. Fatto sta che anche nel mio concorso nemmeno uno dei
neomagistrati lombardi indicò la preferenza per la procura di Milano, nella quale
risultarono così ben nove posti vacanti.
Annamaria fu la prima a indicare come sede Milano, ricevendo per questo i
complimenti della commissione e io la indicai subito dopo, ben felice di poterlo
fare. Fu così che i nove posti disponibili al quarto piano di via Freguglia furono
coperti tutti tranne uno da magistrati originari del Sud, napoletani e siciliani in
particolare. La formazione della graduatoria definitiva di assegnazione teneva
conto del punteggio conseguito all’esame, cui si aggiungevano i punti per chi
fosse sposato o avesse figli. E così, in quegli anni mio figlio Antonio diventò
scherzosamente “Punto”, poiché in graduatoria ne valeva ben due.
Partii da Napoli piena di entusiasmo perché stavo per iniziare una vita, tutta
mia, in una grande città, tra persone che non conoscevo, anche se da sola e con
un figlio di quasi sette anni. Non trovai subito casa a Milano, ma a Noverasco,
nell’hinterland a sud della metropoli, in un centro residenziale con palazzi tutti
uguali, però nuovi e funzionali, con enormi spazi verdi, il campo da calcio, un
parco giochi, la scuola elementare vicinissima. Una collocazione importante per
Antonio che, sradicato dai suoi affetti e allontanato dai suoi amichetti, aveva
bisogno di un contesto che gli permettesse di stringere nuove amicizie. Anche lui
doveva ricominciare da capo. Molto presto conobbi Alberto, un collega
simpatico, bravo e affascinante che nel 1983 sarebbe diventato il papà di Alice.
Avevo preso la patente qualche tempo prima e, anche se non mi è mai piaciuto
guidare, la nuova vita milanese rendeva indispensabile la mia vecchia Ford
Fiesta targata Napoli, di un improbabile color carta da zucchero. Forse per
questo più di una volta sono stata fermata ai posti di blocco, che in quegli anni a
Milano erano molto diffusi.
Così cominciò la mia avventura alla procura di Milano, dove sono rimasta
ininterrottamente fino al 2019, eccezion fatta per i periodi siciliani. Sempre al
quarto piano, sempre nella medesima stanza numero 30, che non ho voluto
cambiare nemmeno quando, da procuratore aggiunto, ho coordinato la Direzione
distrettuale antimafia. Non ho cambiato neanche la targa accanto alla porta.
Dentro l’ufficio non una pianta, solo vecchi mobili rimasti gli stessi per anni,
tanta carta, decine di fascicoli e i crest, le piccole targhe con data e nome delle
operazioni, ricevuti in dono dalle forze dell’ordine, tra cui i più cari, quelli
appartenuti a Giovanni Falcone. Insomma, la mia stanza è stata – e io l’ho voluta
così – un luogo di battaglia. Sono sempre riuscita a separare la casa dall’ufficio,
dove ho preferito lavorare anche fino a notte fonda, lasciando che l’abitazione
restasse un porto sicuro per me e per i miei figli.
3.
Saverio

Nel corso della mia carriera di sostituto procuratore della Repubblica a


Milano, si sono succeduti sei capi dell’ufficio: Mauro Gresti, Francesco Saverio
Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Manlio Minale, Edmondo Bruti Liberati e infine
Francesco Greco.
Quando, ancora fresca di concorso, arrivai al quarto piano di corso di Porta
Vittoria, nella stanza numero 30, la procura era retta da Mauro Gresti, un
anziano collega di orientamento conservatore, decisamente sensibile alle logiche
del potere e che, com’era prassi in quel periodo, esercitava appieno il metodo
gerarchico, nel senso che disponeva dei suoi sostituti come meglio credeva,
dispensando poteri interni ai colleghi culturalmente più vicini a lui e
all’establishment dominante agli albori degli anni ottanta.
Quando arrivammo in procura – come ho detto nove uditori, tra cui sei donne
–, Gresti non ne fu affatto contento, anzi ci accolse confidando maliziosamente
al cronista giudiziario del “Corriere della Sera” – che ovviamente ne scrisse un
articolo – il suo disappunto per l’arrivo di tante donne, lasciando intravedere il
rischio di chissà quali disservizi all’interno dell’ufficio. “Corriere Milano”
dell’11 giugno 1979. Titolo: “Sette giudici ‘lasciano’: in arrivo alla procura sei
donne di prima nomina”. Svolgimento: “Alla procura si ritiene che, al di là della
preparazione e delle capacità innate delle singole persone, il lavoro di inquirente
poco si adatti alle donne, specialmente se alle prime armi. Maternità,
preoccupazioni famigliari, soprattutto per quanto riguarda i figli, sono tutte
condizioni che male sembrano conciliarsi con un lavoro duro, stressante e oggi,
purtroppo, anche pericoloso come è diventato quello del pm specialmente a
Milano. Senza contare le difficoltà che una giovane donna può incontrare sul
piano operativo e psicologico nei confronti di ufficiali e funzionari di polizia
giudiziaria, rotti a tutte le esperienze e abituati a condurre e a sbrogliare di
persona le situazioni più intricate e pericolose”. Insomma, il procuratore
associava il nostro arrivo all’inizio di un periodo molto difficile per l’ufficio. Gli
anni successivi avrebbero dimostrato quanto si sbagliasse, ma in quel momento
il messaggio ci parve molto chiaro: le donne non sono adatte a fare il pubblico
ministero.
Annamaria e io occupammo lo stesso ufficio nel corridoio della procura,
quella stanza numero 30 arredata da scaffali e da ben tre scrivanie: una a testa
per me e per lei, la terza per il cancelliere che ci era stato assegnato. Da giovani
“immigrate”, fummo contente della nostra convivenza, ci facevamo forza a
vicenda, consapevoli di essere come dei pulcini cui venivano affidati grandi
compiti, circondate da figure già importanti e intimorite dai loro nomi che
avevamo fino a quel momento letto solo sui giornali: Armando Spataro, Enrico
Pomarici, Guido Viola, per citarne alcuni.
Proprio con Guido venni abbinata per il “turno esterno”, che in quegli anni
prevedeva la disponibilità per tre giorni (72 ore!) consecutivi. Viola, che era
impegnato a suo dire in altri processi, mi avvertì bonariamente che avrei dovuto
cavarmela da sola: “Chiamami solo se succede una strage,” aveva concluso
scherzando (ma nemmeno troppo). Insomma, capii che il peso del turno esterno
sarebbe ricaduto su di me. Un’esperienza dura e formativa, che consisteva, come
oggi, nel ricevere a ogni ora del giorno e della notte le telefonate delle forze
dell’ordine che segnalano arresti, fermi, omicidi, incidenti, insomma tutto quello
che può succedere in tre giorni in una metropoli come Milano. Disponibilità e
reperibilità assoluta, continuativa, senza mai allontanarsi da un telefono: il che
voleva dire restare a casa o comunicare il numero del luogo in cui ci si spostava.
Il servizio di turno esterno ha un’importanza decisiva nella formazione pratica,
sul campo, dei giovani magistrati, notti insonni e levatacce comprese, perché è
indispensabile che ogni sostituto veda con i propri occhi la scena del crimine,
prenda fin dall’inizio le redini delle indagini, sia in grado di impartire direttive
precise alle forze dell’ordine. So, invece, che molti colleghi, anche giovani, non
amano il turno esterno e fanno l’impossibile per esserne esonerati. Ma questo
vuol dire non comprendere l’importanza di misurarsi senza filtri con casi violenti
o pietosi, di avere a che fare con le miserie umane e – in molti casi – con i reietti
della società; con l’importanza di gestire le forze dell’ordine: sono esperienze
che finiscono per dare una miglior misura anche della propria vita e soprattutto
aiutano a comprendere quanto sia difficile stabilire un discrimine tra il bene e il
male.
Negli anni del mio servizio mi sono imbattuta in processi complessi, a volte
epocali, che hanno richiesto grande dispendio di energie e che non di rado mi
hanno tolto la serenità. Ma non ho mai chiesto di essere esonerata dal turno
esterno che, anzi, proprio in quei periodi mi ha tenuta ancorata alla realtà, quella
vera, quella che riguarda la maggior parte delle persone. Mentre stai indagando
su Berlusconi, o su magistrati infedeli, imprenditori dalla mazzetta facile e
potenti vari, il turno esterno ti costringe a tenere i piedi bene in terra e ad
assumere una varietà di ruoli oltre a quello irrinunciabile di magistrato:
assistente sociale, confessore, madre putativa.
Intanto, giovane magistrata, continuavo a passare le mie giornate in ufficio,
sotto la gestione Gresti, sulla quale non c’è molto da aggiungere: non credo che
abbia lasciato un segno nella storia della magistratura e non nascondo che,
quando una mattina seppi di perquisizioni in corso da parte della guardia di
finanza nel suo ufficio e in quello di un affermato collega, per la vicenda del
passaporto rilasciato al banchiere Roberto Calvi, non solo non ne fui stupita, ma
nemmeno dispiaciuta.
Nel 1983 Saverio Borrelli fu nominato procuratore aggiunto. Nel 1988 diventò
procuratore della Repubblica di Milano e dal 1999 fino al pensionamento (nel
2002) fu procuratore generale presso la Corte d’appello dello stesso distretto.
Con l’arrivo di Saverio, in ufficio si cominciò a respirare un’aria diversa, più
salubre, più trasparente. Piano piano, grazie alla sua interpretazione del nostro
incarico, furono annullate le differenze tra noi peones, giovani colleghi appena
arrivati, e i big che già operavano nel capoluogo lombardo. Noi neofiti
finalmente cominciammo a sentirci parte attiva e riconosciuta dell’ufficio, a
essere apprezzati per le competenze acquisite; a non sentirci più discriminati per
l’appartenenza a questa o quella corrente o, peggio, perché donne. Allo stesso
tempo, gradualmente, Borrelli circoscrisse e ridusse i privilegi che alcuni
sostituti avevano via via consolidato e di cui godevano senza motivo reale.
Per esempio, a rotazione fu consentito a ognuno di noi di svolgere la funzione
di pubblico ministero in Corte d’assise, una possibilità preclusa fino ad allora,
essendo quell’ambito considerato monopolio esclusivo dei colleghi con una
solida anzianità. Avrei capito solo più tardi la vera origine di questa piccola
discriminazione ai danni degli ultimi arrivati: una ragione non legata alla
maggior esperienza, bensì alla possibilità di godere di carichi di lavoro ridotti.
Uno dei tanti privilegi, insomma. La Corte d’assise, infatti, funzionava a
semestri e, se in un certo periodo non c’erano processi da celebrare, non si
tenevano udienze anche se già calendarizzate: i colleghi, però, risultavano
assegnatari di quelle udienze-fantasma, funzionali soltanto al loro tempo libero e
al loro curriculum. Saverio riteneva invece che tutti i sostituti dovessero
confrontarsi con i processi di Corte d’assise, perché solo così il pubblico
ministero si trovava di fronte anche una giuria popolare.
Il compito di sostenere l’accusa, già complesso a quel livello (la Corte d’assise
giudica per omicidi e per tutti i reati più gravi come, per esempio, i fatti di
terrorismo), è ancora più difficile per la presenza in aula dei cittadini-giurati
digiuni di diritto e di procedure. Questo implica un approccio meno tecnico, più
realistico e – direi – più emotivo, più concentrato sui fatti che sulla norma.
In quarant’anni ho istruito tanti processi in Corte d’assise, soprattutto casi di
omicidio: rendere giustizia alle vittime e ai loro parenti è un’esperienza esaltante
perché, anche se niente può lenire il dolore dei famigliari, viene almeno
risparmiata loro l’ulteriore sofferenza di sentirsi abbandonati dallo Stato. Forse
sono stata fortunata, forse professionale, o forse entrambe le cose: fatto sta che,
in tutti i casi di morte violenta su cui ho indagato e che ho poi trattato in aula,
non sono stata mai smentita da un’assoluzione.
Nell’agosto 1996 accadde un fatto che mi sarebbe rimasto nel cuore. Da pochi
mesi erano state notificate le misure cautelari nei confronti dell’allora capo
dell’Ufficio delle indagini preliminari del tribunale di Roma, Renato Squillante,
degli avvocati Giovanni Acampora e Attilio Pacifico, indagini che
coinvolgevano l’ex ministro della Difesa Cesare Previti, braccio destro e uomo
di fiducia di Silvio Berlusconi, nonché lo stesso ex presidente del Consiglio.
Insomma, un periodo complicato, in cui ero oberata di lavoro e per di più
funestato da tensioni politiche e attacchi virulenti. Proprio in quello stesso
periodo ricevetti una lettera dalla madre di un uomo di trentatré anni, ucciso –
sgozzato, per essere brutalmente precisi – mentre stava svolgendo il suo lavoro,
la raccolta degli incassi delle aree di servizio sulla tangenziale di Milano. Un
vecchio caso risalente al 1981, di cui mi ero occupata all’inizio della carriera.
Quella breve lettera mi riempì il cuore ed ebbe il benefico effetto di farmi
sentire meno sola in un periodo molto difficile, nel quale mi trovavo a
fronteggiare imputati eccellenti, uomini di grande potere in grado di mobilitare a
loro difesa truppe armate di penna e veleno.
Così scriveva la madre della vittima:
Cara dottoressa Boccassini, è passato ormai tanto tempo da quando, nell’esercizio delle sue funzioni, ha
dovuto occuparsi del tragico evento che vide mio figlio morire per mano assassina. Non ho avuto finora
l’occasione di ringraziarla per l’impegno che profuse nello scoprire chi furono i colpevoli. Il vederli
condannati non ha soddisfatto alcun desiderio di vendetta, né sminuito il dolore; anche durante il
processo l’atteggiamento mio e dei miei famigliari poté sembrare, agli occhi di molti, distaccato o
addirittura disinteressato. In realtà i sentimenti e le emozioni, conseguenti alla morte di mio figlio, sono
stati prima racchiusi nell’intima riservatezza che deriva dalle nostre radici di “gente di montagna”, poi
condizionati dallo sforzo di dover cristianamente perdonare coloro i quali hanno commesso un così
feroce delitto. Tuttavia le sono riconoscente perché, con il suo esempio di tenacia nel perseguire la
giustizia, ci ha aiutato a ritrovare quella necessaria fiducia nella vita per guardare avanti con maggiore
serenità. Soprattutto pensando ai miei nipoti che, oltre ad affrontare il vuoto per la perdita del padre,
senza il suo operato avrebbero dovuto cominciare il loro cammino nella società accompagnati da un
profondo senso di ingiustizia. Ammirai allora la sua professionalità e serietà, per averne conferma
nell’arco degli ultimi anni, durante i quali ho potuto seguire le sue difficili battaglie contro i criminali e
constatare quanto forte sia lo spirito di abnegazione con il quale combatte la malvagità degli uomini.
Abbiamo bisogno di persone come lei, e per questo è spesso presente nelle mie preghiere. Con
gratitudine.

Ho voluto riportare queste parole, che conservo ancora dopo venticinque anni,
per far meglio comprendere l’importanza che nella mia esperienza ha avuto
confrontarmi con quei casi. Tutto merito della gestione della procura da parte di
Saverio Borrelli. Come spesso accade nei rapporti autentici, il nostro legame ha
oscillato tra momenti di intensa collaborazione, momenti di incomprensione,
momenti di rottura seguiti da nuovi riavvicinamenti. Il più traumatico per me –
ma anche per lui, ne sono certa – fu il mio allontanamento dal “pool criminalità
organizzata” a causa di una dura controversia, uno scontro frontale, con
Armando Spataro, sull’opportunità di catturare immediatamente il boss mafioso
Gaetano Fidanzati, intercettato e localizzato in Argentina, oppure dilazionare
l’operazione per seguirne le mosse e individuarne i contatti. Una diversità di
vedute (conducevamo due indagini parallele) sostenuta da un lato dai carabinieri
con cui lavorava Spataro (a loro avviso era meglio ammanettare il boss senza
indugio), mentre la polizia di Stato avrebbe preferito monitorare ogni
movimento del siciliano per risalire ad altri narcotrafficanti. Le indagini su
Fidanzati erano condotte in comune con Giovanni Falcone. Il latitante era stato
individuato, si muoveva tranquillo in Argentina ed era in contatto sia con
trafficanti di droga di altissimo livello sia con esponenti di Cosa nostra, non
ancora sfiorati o non sufficientemente presenti nelle indagini tanto da
consentirne la cattura. L’indagine, coordinata da me, aveva acceso un faro su un
personaggio di grande interesse per i suoi spericolati legami con i servizi segreti,
con la massoneria e con il mondo criminale dei colletti bianchi, insomma uno
che faceva il doppio-triplo gioco come fonte dei servizi mentre era sotto
osservazione da parte della polizia.
Non occorre spendere tante parole per raccontare chi sia Armando Spataro. È
un magistrato molto noto, un collega competente e preparato che nel suo
curriculum può citare il contrasto al terrorismo, alla criminalità organizzata, fino
a un complicato braccio di ferro con la Cia per il sequestro di Abu Omar. Il mio
rapporto con Spataro era stato inizialmente di amicizia, abbiamo anche fatto
insieme una lunga vacanza all’estero, come insieme siamo andati a dei concerti
rock. Ma poi l’amicizia si è guastata, e il rapporto è degenerato senza che – negli
anni e ancora oggi – riuscissimo a cogliere l’occasione per chiarirci. Ma penso
che ormai vada bene così.
All’epoca del mio allontanamento dal “pool criminalità organizzata” deciso da
Borrelli ero – come mi definì Falcone – una “selvaggia”, ovvero una giovane
donna con il vizio di fare di testa sua e di dire a chiunque quello che pensava.
Non mi smentii nemmeno quando venni convocata dal capo, che voleva sentire
la mia versione sul contrasto con Spataro il quale, male informato dai
carabinieri, sosteneva di non sapere nulla della mia indagine su Fidanzati.
Nell’ufficio di Borrelli, più che spiegarmi diedi sfogo al mio nervosismo e
aggredii verbalmente il collega (che non fu da meno) senza riuscire ad
argomentare né a convincere. Insomma, nessuno di noi due cedette di un
millimetro, volarono parole incandescenti, finché non si ottenne la mia testa.
Ammetto che i toni da me usati in quell’occasione furono eccessivi, ma ero
convinta, e lo sono ancora, di essere stata vittima di un’ingiustizia. Avevo
un’unica consolazione, ma mi bastava: Falcone era d’accordo con me. Anzi, dato
che proprio negli stessi giorni era in corso il dibattimento della “Duomo
connection”, Giovanni era certo che il provvedimento di Borrelli mi
delegittimasse agli occhi dei mafiosi imputati e nei giorni successivi
all’espulsione dal pool mi convinse – meglio, mi costrinse – a leggere in aula
una dichiarazione sull’accaduto. Ovviamente la scrissi per evitare i rischi del
parlare a braccio, gliela sottoposi e lui la corresse, facendomi aggiungere frasi
ancora più incisive.
Il mio allontanamento dal pool trovò parecchio spazio sui media, a cui seguì in
ufficio uno dei tanti momenti di ostracismo da parte dei colleghi, perché anche
chi pensava che io non avessi torto e stava dalla mia parte non lo dava a vedere
temendo, più che la reazione di Borrelli, di incappare in quella di Spataro.
So per certo che negli anni Saverio si è ricreduto sulla durezza adottata nei
miei confronti, soprattutto per le parole eccessive scritte nel suo provvedimento,
che sarebbero state utilizzate per denigrarmi anche all’interno della magistratura
e, all’occorrenza, per stoppare una qualche mia iniziativa ricorrendo alla frase:
“Ilda ha un brutto carattere!”.
Ricordo altri due momenti di frizione con Borrelli. Il primo risale alla
commemorazione di Falcone nell’aula magna, appena dopo la strage di Capaci,
quando la durezza delle mie parole verso i colleghi non lasciò spazio a
distinzioni. Il secondo, di cui porto la responsabilità, si colloca nell’ottobre 1994,
quando tornai a Milano dopo il biennio di applicazione a Caltanissetta dedicato
alle indagini sull’attentato a Falcone. In quel momento, pur avendolo già deciso,
non dissi a Saverio (né tanto meno ai colleghi milanesi) che sarei tornata in
Sicilia, a Palermo, per altri due anni. Questo almeno era il progetto, anche se poi
tornai a Milano prima del previsto con l’intesa che avrei continuato a occuparmi
delle stragi e di altri procedimenti più o meno collegati alla strategia della
tensione mafiosa che stava insanguinando il Paese dalla Lombardia alla Sicilia.
Ritornai dunque a Palermo (nel marzo ’95) e Saverio non ne fu affatto
contento. Era molto preoccupato per me, per la mia incolumità, per la mia vita
privata andata in pezzi. Quando mi elencò tutti questi suoi timori, gli risposi che
non potevo agire diversamente, che non volevo né potevo dimenticare Palermo.
Capì e mi lasciò andare.
Quando tornai a Milano, fui accolta dai colleghi del pool di Mani pulite, Paolo
Ielo, Francesco Greco, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, con uno
splendido mazzo di rose rosse. Ne restai commossa e qualche giorno dopo capii
almeno uno dei motivi di quel gesto bello e gradito. Senza preamboli, Borrelli
mi pregò di dare una mano ai colleghi, stanchi e delusi per la scelta di Antonio
Di Pietro, che aveva lasciato la magistratura. Mi accennò vagamente a una certa
signora Ariosto che intendeva collaborare con gli inquirenti.
Cosa potevo rispondere, se non che ero onorata di quella proposta, ma anche
molto provata dagli anni trascorsi in Sicilia? Al che mi dissero tutti: “Abbiamo
bisogno di te” e io, guardando negli occhi Saverio, decisi di accettare.
La figura di Borrelli in quel periodo fu per me determinante. Non ce l’avrei
fatta senza la sua ala protettiva, la sua sapienza e saggezza nel gestire, tra i mille
problemi, anche quel gruppetto di ribollenti sostituti. Sapevo di poter contare su
di lui e che la sua porta era sempre aperta per tutti noi, neofiti inclusi.
Durante le indagini sui colleghi e gli avvocati romani di cui riferiva Stefania
Ariosto, era sotto particolare osservazione l’avvocato Attilio Pacifico, che
avevamo intuito essere l’anello di congiunzione tra magistratura, potere politico
e mondo della finanza. Pacifico era solito incontrarsi la domenica mattina con i
suoi accoliti presso il bar Tombini, a Roma. Rispondendo a una nostra richiesta,
il giudice per le indagini preliminari aveva autorizzato l’uso di una microspia
ambientale “aperta”, nel senso che si utilizzava esclusivamente la domenica,
qualora ci fosse stato un incontro, circostanza che avremmo potuto conoscere in
anticipo grazie all’ascolto dei telefoni intercettati.
Le indagini erano delegate allo Sco, il Servizio centrale operativo della polizia,
nella persona di Alessandro Pansa, all’epoca direttore della Divisione criminalità
economica, alle cui dipendenze agivano diversi funzionari, tra cui Alessandro
Giuliano, che divenne il mio referente e coordinatore delle attività dinamiche sul
territorio. Per comunicare in sicurezza, Giuliano e io usavamo un telefono
criptato. Ero molto in ansia per quell’intreccio di complicate circostanze, tanto
che lo chiamavo anche trenta volte o più al giorno. Anni dopo, Alessandro mi ha
confessato che non sempre rispondeva, perché con tutte quelle chiamate “lo
sfinivo”. Sulla sua bravura non dirò mai abbastanza, e in ogni caso quel periodo
di indagini condivise con lui è stato faticoso e difficile, ma anche esaltante e ci
ha lasciato ricordi che ci hanno legato profondamente. Almeno così è per me.
Ma torniamo al bar Tombini. Una domenica di gennaio del 1996, ero a casa
tranquilla dopo un bel bagno, quando squillò il telefono. Era Alessandro Pansa,
che esordì dicendo: “Cosa può capitare di più grave in un’indagine?”. Non
riuscivo a capire, ero frastornata da quelle parole, anche se l’incertezza durò
poco, perché la risposta la diede lui stesso e fu un vero pugno nello stomaco:
“Hanno scoperto la microspia al bar Tombini”. Aggiunse che era scoppiato
l’inferno, anche perché oltre a Renato Squillante nello stesso bar erano presenti
altri magistrati, tra cui Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, e diversi
avvocati. Avvertita del ritrovamento, la polizia scientifica aveva sequestrato la
microspia collocata sul fondo di un posacenere e l’aveva portata in laboratorio
per ulteriori approfondimenti.
Naturalmente la notizia arrivò subito ai media. Il danno alle indagini ci
apparve lì per lì irreparabile, ma in realtà non fu così, perché studiammo altre
strategie, puntando sulla paura che certamente avrebbe attanagliato gli indagati,
innanzitutto lo stesso Squillante.
Mi feci raccontare dagli investigatori in servizio nel bar cosa fosse accaduto.
In modo del tutto casuale, un bambino aveva adocchiato un pacchetto di patatine
posto su un contenitore proprio a ridosso del tavolino sul quale era stato
collocato il posacenere con la cimice. Nel prendere il pacchetto, il bimbo aveva
fatto cadere l’intero contenitore, che aveva centrato e spaccato il posacenere,
lasciando in bella mostra il piccolo microfono trasmittente. Nessuno dei presenti
al tavolo di Squillante si era accorto di nulla, tanto che un poliziotto, seduto al
tavolo vicino, aveva cercato di allontanare con il piede la microspia dalla loro
visuale ma – colpo di sfortuna – il personale del bar l’aveva notata, raccolta e
mostrata proprio ai magistrati oggetto dell’indagine. In uno stupido accesso
d’ira, sentii di odiare quel povero bambino sconosciuto che per le sue patatine
aveva mandato all’aria i nostri piani.
Dopo l’esame del piccolo apparecchio, era cominciato il toto-indagine su
“quale procura, quali pm” avessero orchestrato lo spionaggio dei colleghi
romani. Se lo chiedevano innanzitutto le persone presenti al bar, ma fecero loro
eco i giornali e le televisioni. Il procuratore della Repubblica di Roma era a quel
tempo Michele Coiro, uno dei fondatori di Magistratura democratica, il quale
scrisse a Borrelli per sapere se fosse Milano a indagare e chi fosse l’obiettivo
dell’indagine. Un intervento diretto che superava ogni cortesia istituzionale e che
ci stupì non poco. Ma Borrelli non si lasciò confondere né intimidire: rispose per
iscritto a Coiro che Milano non c’entrava e che nulla sapeva dei fatti riportati dai
media. Insomma, per salvaguardare le nostre indagini, il capo aveva
meritoriamente scelto di mentire. Quando, dopo l’esecuzione dell’ordinanza di
cattura, gli atti furono messi a disposizione degli indagati, emerse che le indagini
erano milanesi. Al che Coiro si arrabbiò accusando Borrelli di averlo preso in
giro, e questi gli rispose: “È stato il tuo ufficio, con quell’assurda richiesta
pubblica, a violare i principi che regolano le indagini”.
Ecco chi era Saverio Borrelli, il nostro capo fino al 1999. Anni difficili, come
si sa. La procura era sotto assedio, ma lui ha saputo parare i tanti colpi bassi, la
sua autorevolezza era benefica e capace di risvegliare la voglia di combattere
senza risparmiarsi.
Anche tra noi del pool ci furono contrasti. Il peso delle indagini gravava su me
e Gherardo Colombo, mentre Piercamillo Davigo, Paolo Ielo e Francesco Greco
si occupavano di altro. Io ero molto stanca e a un certo punto dissi che dopo i
rinvii a giudizio sarei voluta tornare all’Antimafia, che i dibattimenti avrebbero
ben potuto condurli gli altri colleghi del gruppo. Sì, ero esausta: basti pensare
che solo l’udienza preliminare per la vicenda “toghe sporche” durò più di due
anni. Un vero incubo.
Davigo era contrario, disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe
intentato causa civile per astenersi. Con Francesco Greco e Paolo Ielo neanche
se ne poteva parlare. Fallito un ennesimo tentativo, Borrelli ci guardò sfiduciato
perché nemmeno lui riusciva a trovare una quadra. Ancora una volta si rivolse a
me e ancora una volta chinai la testa e dissi “va bene”. Ottenni, però, in cambio
che anche Francesco Greco firmasse la richiesta di rinvio a giudizio della
vicenda Lodo Mondadori, nonostante fosse recalcitrante. Per questo Saverio
mandò un autista a Courmayeur, dove Greco si trovava in vacanza, con il
provvedimento da sottoscrivere, ritenendo importante che su vicende così
delicate ci fosse la firma del pool al completo (per il Lodo Mondadori furono
condannati tutti gli imputati con sentenza passata in giudicato).
Quando finì la gestione di Saverio, in attesa della nomina del nuovo
procuratore, facente funzione era l’aggiunto più anziano, Ferdinando Vitiello.
Gli scontri con i difensori di Silvio Berlusconi, gli attacchi nei confronti miei e
di Gherardo si facevano ogni giorno più agguerriti e non ci sentivamo
adeguatamente tutelati. Insomma, furono anni pazzeschi. Oltre ai processi da
gestire verso imputati decisi a tutto e con grandi mezzi, legali e mediatici,
sentivamo intorno a noi anche l’ostilità di una parte della magistratura, nel suo
insieme sotto attacco proprio per i procedimenti in corso. Borrelli, diventato
procuratore generale, poteva fare poco per tutelarci, anche se un po’ ci consolava
il solo fatto che fosse ancora nel palazzo. Quando proprio non ne potevo più, lo
chiamavo per sfogarmi e per chiedergli consigli. Parlare con lui era una
medicina che allentava la tensione e mi faceva stare meglio. Fu proprio su suo
suggerimento che cominciai a mettere per iscritto gli episodi che mi
allarmavano, quelli da cui mi pareva di percepire velate minacce di ritorsioni e
altro. “A futura memoria,” dicevamo tra noi.
Nel 1996 fui proposta da Cesare Garboli per il premio Viareggio, con una
motivazione che mi fece molto piacere: “Non può esistere cultura senza il
rispetto della legalità”. La giuria accolse la mia candidatura ed era prevista la
mia partecipazione alla serata della consegna del premio. Borrelli propose di
accompagnarmi, ne fui onorata e porto dentro di me quella serata bellissima
insieme a una persona eccezionale come Garboli e agli altri vincitori, Ermanno
Rea, Alda Merini e Vittorio Foa. A intrattenerci fu invitato Roberto Benigni,
cosa che un po’ mi preoccupava, perché temevo qualche battuta nei miei
confronti; una situazione pubblica cui non mi sono mai abituata, ed ero quindi
tesissima. Incontrando Benigni dietro le quinte, lo pregai di risparmiarmi. Al che
lui, tra il serio e il faceto, rispose: “Non ci penso proprio a prenderla in giro,
dottoressa. Lei mi mette in soggezione!”. Fu una bella serata.
E come non ricordare il viaggio con Saverio, Corrado Stajano e sua moglie
Giovanna? Andammo a Mosca, invitati per una conferenza dal Centro culturale
italiano: giornate intense e gioiose a parte un caldo pazzesco cui nessuno di noi
aveva pensato.
Arriviamo così alla fine della carriera di Borrelli. Le regole in vigore nei primi
anni del 2000 prevedevano il pensionamento dei magistrati al compimento dei
settantadue anni, ma con la possibilità di rimanere in servizio fino al limite dei
settantacinque. Saverio, come altri dirigenti togati, ne avrebbe sicuramente
approfittato, ma proprio per impedirglielo, con una disposizione contra
personam, la politica ripristinò l’età pensionabile inderogabilmente a settantadue
anni e così, nell’aprile del 2002, Borrelli lasciò la magistratura. Fu festeggiato
per giorni. A salutarlo e a rendergli l’onore che meritava si ritrovarono non solo i
magistrati della procura della Repubblica e di quella generale, ma tantissimi
giudici anche di altre sedi, avvocati, personale amministrativo, esponenti delle
forze dell’ordine. Insomma, il mondo giudiziario milanese accompagnò con
rispetto e gratitudine quell’uomo grande e saggio verso la nuova fase della sua
vita.
Proprio nel gennaio 2002 Saverio aveva tenuto, come procuratore generale,
l’ultimo discorso per l’apertura dell’anno giudiziario. L’aula magna era gremita,
l’enorme androne del palazzo di giustizia stracolmo, anche di cittadini comuni,
che non erano riusciti a trovare posto all’interno. Quella mattina, lo attesi sulla
porta e lo abbracciai commossa quando, nella sua toga rossa, con ermellino e
tocco, passò in rassegna il picchetto d’onore ed entrò nell’aula magna.
Fu il giorno del suo memorabile “Resistere, resistere, resistere”, rimasto
ancora oggi una speranza delle persone oneste. Non mi vergogno a dire che
piansi. A parte lo storico invito a resistere, ogni parola di quel discorso fu un
pugno nello stomaco per chi ci attaccava a testa bassa e allo stesso tempo
governava il Paese. Eccone alcuni brani:
La qualità del servizio giustizia reso ai cittadini dipende certo dal livello intellettuale, professionale,
morale degli appartenenti all’ordine giudiziario, tuttavia dipende in pari misura dalla capacità e volontà
negli altri poteri di fornire alla magistratura gli strumenti necessari per garantirne l’indipendenza e
l’efficacia di azione, e dal clima di fiducia e di rispetto che il contesto crea attorno a essa nella comunità
nazionale, oggi anche in quella internazionale. Non sembra che gli scenari attuali giustifichino, in linea
generale, valutazioni ottimistiche, non foss’altro per il continuo parlare e scrivere di riforme della
giustizia, quando in realtà il nostro mondo, dopo aver attraversato una stagione di incisivi cambiamenti
ordinamentali e processuali, avrebbe bisogno semmai di una fase di assestamento ermeneutico e non del
preannunzio di ulteriori scosse telluriche, con il senso di precarietà, di disimpegno, di protratta incertezza
che ne può derivare.
Ma c’è dell’altro. Le riforme annunciate, meglio minacciate a ogni piè sospinto con trasparenti intenti
punitivi verso una magistratura certamente non al massimo dell’efficienza ma altrettanto certamente
indipendente, ben poco hanno a che fare con l’efficienza. Si parla di separazione delle carriere – più
blandamente, ma ingannevolmente, delle funzioni – tra requirenti e giudicanti, proprio mentre con le
scuole postuniversitarie di specializzazione si punta su una formazione culturale comune tra varie
categorie di operatori del diritto e con l’ampliamento della giurisdizione onoraria si aprono occasioni di
osmosi tra il mondo forense e quello giudiziario. Una scelta, la separazione, che, se motivata dalla temuta
arrendevolezza dei giudici ai pubblici ministeri (ma non si citano, a disdoro di questi ultimi, proprio le
alte percentuali delle assoluzioni?), dovrebbe almeno essere supportata da studi sul campo e da
monitoraggi; ma che, per ferrea analogia, dovrebbe portare a maggior ragione verso la separazione delle
carriere tra giudici di primo grado, giudici del riesame, giudici di appello, giudici di legittimità. Se
motivata invece dall’intenzione di vincolare il pubblico ministero all’esecutivo, come con ingenua
imprudenza si è fatto capire in Parlamento, vulnererebbe indirettamente la stessa indipendenza del
giudice penale e la signoria della legge, tanto più quando si realizzassero anche la ventilata distinzione
organizzativa e funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e la formulazione di direttive
di priorità nell’esercizio dell’azione penale che non potrebbero non essere politicamente connotate.
Si afferma, ancora, la necessità di combattere il crimine transnazionale senza l’impaccio delle frontiere,
ma di fatto allo spazio giuridico europeo si è tentato, per fortuna con mezzi tecnicamente inidonei, di
frapporre ostacoli, con la legge sulle rogatorie e con le riserve unilaterali all’estradizione semplificata –
alias mandato di arresto europeo – e l’orchestrazione di campagne di rabbiosa disinformazione. Si parla
di riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, spacciando la soppressione
delle liste concorrenti come benefico strumento per emarginare le formazioni interne all’Associazione
nazionale magistrati, e si ignorano i ricchi fermenti di riflessione che tutte queste hanno immesso nella
vita della magistratura, soprattutto si apre la strada a pratiche occulte di intesa per il coagulo di voti su
candidature di fatto.
Di altri fenomeni di questa sconcertata fase della nostra civiltà giuridica deve pur farsi menzione. Le
accuse generiche di parzialità preconcette, formulate contro i giudici, con l’insistenza martellante degli
imbonimenti televisivi, da rappresentanti anche elevati della classe politica; l’analfabetismo storiografico
che ha indotto qualcuno a lanciare come anatema contro i magistrati la parola “giustizialismo”, che nel
secolo XX ha indicato una certa ideologia di destra basata sull’interclassismo e su un populismo
demagogico dominato dal ruolo carismatico del capo; la manipolazione della pubblica opinione italiana e
straniera, cui uffici giudiziari vengono indicati con il pronto e prono ausilio di media come centrali
rivoluzionarie promotrici di complotti internazionali o come falsificatori di documenti (qualcuno ha
rievocato recentemente il calunniato “pretore rosso” di fascistica memoria, del quale parlava il mio
maestro Piero Calamandrei nell’Elogio dei giudici; ma già Adam Smith, centocinquant’anni prima,
osservava che chi contrasta gli affaristi legati al potere politico si espone ad accuse infamanti, ingiurie,
minacce); la reinvenzione della storia giudiziaria, quando pacchi interi di sentenze di condanna, spesso
patteggiate a seguito di confessione, vengono attribuiti a una guerra civile condotta da magistrati contro
élite politiche della Prima repubblica affossatesi in realtà da sole, tra l’esecrazione anche di molti odierni
convertiti, nelle sabbie mobili della corruzione più sfacciata (ma forse la sentenza della Corte di
Strasburgo sul caso Craxi è già stata dimenticata); la minaccia di provvedimenti disciplinari contro
magistrati che esprimono su problemi generali e tecnici il proprio libero pensiero di cittadini e di esperti;
la volgarizzazione di questioni giuridico-costituzionali e procedurali per slogan gridati, con voluta
ignoranza dei reali contenuti di testi normativi, sentenze, ordinanze, anche da parte di firme autorevoli
del giornalismo, per poter demonizzare questo o quel magistrato o collegio giudicante, magari poi
attaccandolo con esposti o denunzie; la riduzione infine delle protezioni a magistrati esposti a rischi di
incolumità personale per vendette mafiose e/o per rancori politici sapientemente attizzati, conseguente,
come è accaduto a Milano, a irremovibili determinazioni discendenti per i rami dell’obbediente
burocrazia. Bene, tutto ciò procede in direzione esattamente opposta alla valorizzazione del ruolo del
magistrato come scudo della legalità, alla cultura della fiducia nei meccanismi talora laboriosi e
complicati per la ricerca della verità, al mantenimento di un clima di serenità che permetta al giudice di
operare, senza timori e senza aspettative personali, alla solidale unità delle istituzioni cui tanto spesso
esortava il mio illustre predecessore Adolfo Beria di Argentine. Nessuna istituzione, nessun principio,
nessuna regola sfugge ai condizionamenti storici e dunque all’obsolescenza, nessun cambiamento deve
suscitare scandalo, purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del
pensiero e dell’azione, non subisca sopraffazione dagli interessi. Ai guasti di un pericoloso
sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del
diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività “resistere, resistere,
resistere” come su una irrinunciabile linea del Piave.
Quando, in quell’indimenticabile discorso, Saverio affrontò il tema delle
scorte (“la riduzione delle protezioni”), attaccò pubblicamente Claudio Scajola,
all’epoca ministro dell’Interno, ribadendo quanto aveva più volte detto al
prefetto di Milano, Bruno Ferrante: togliermi la scorta era stata nient’altro che
una ritorsione per le vicende processuali che coinvolgevano il presidente del
Consiglio. Per solidarietà nei miei confronti, Saverio volle rinunciare alla sua
tutela, costituita da un poliziotto che lo accompagnava negli spostamenti. Per le
sue parole di fuoco venne persino querelato da Scajola, che comunque preferì
ritirare la querela qualche tempo dopo.
Ad aprile un saluto per Saverio venne organizzato dall’Associazione nazionale
magistrati, nell’aula magna del palazzo di giustizia. I dirigenti locali dell’Anm
mi chiesero di pronunciare il discorso di commiato: inizialmente rifiutai perché
ero certa che sarei stata sopraffatta dall’emozione, ma i colleghi insistettero
(cosa che mi fece molto piacere). Per cercare di controllare meglio le emozioni,
preferii leggere il mio breve intervento.
Caro Saverio, eccoci qui a convincerci fino in fondo che te ne vai davvero. Peccato che tu compia gli
anni in aprile, perché è già pronta una legge e tutti quelli della tua età (non necessariamente delle tue
doti) rimarranno “sacerdoti di Dike” per almeno un altro triennio. Era un così grande sforzo, per te e la
tua mamma, trattenersi un pochino e tu nascere alla fine di maggio? Avremmo rinviato la “festa” al
2005.
Così, invece, ci lasci da dopodomani un po’ orfani. Certo, per noi del quarto piano c’era già stato un
distacco. Ma non si trattava ancora di una separazione, in fondo scendevi di un piano, ma eri sempre lì e
non sarebbe stato difficile parlarti, vederti, domandarti consigli, opinioni, chiederti aiuto nei tanti
momenti di bisogno o di sconforto. E poi, noi della procura... chiamiamola “semplice”, ci avevi lasciato
nelle mani premurose e nel cuore saggio di Gerardo, che continuava il tuo impegno ed era il trattino di
unione, il collegamento con il tuo nuovo incarico, le tue nuove funzioni. Quante volte ci siamo ancora
ritrovati insieme, nei momenti di maggiore necessità!
E ancora: quello era un distacco voluto, che avevi scelto, era una prosecuzione nella medesima veste,
anche se in un posto diverso. Ora, invece, oltre al dolore per non averti costantemente qui, tutti noi
soffriamo per l’imposizione che ci sembra tanto più ingiusta quanto più ci guardiamo intorno. Non
riusciamo a comprendere perché tu non possa continuare a comunicarci la tua saggezza, a difendere la
nostra indipendenza, a trasmetterci la tua cultura nel Paese di Ciampi e Wojtyła – al cui confronto sei un
giovanotto – e nella città del cardinal Martini, che potrebbe esserti fratello maggiore.
È quasi naturale, in questa occasione, il rischio della retorica. Non perché non ci sia nulla di vero da dire.
Al contrario, perché il coinvolgimento è assoluto. E allora devi difenderti dai sentimenti, dalle emozioni,
dalla fine. Devi porre un diaframma ricorrendo, appunto, alla retorica oppure a una umoristica arguzia. E
siccome un recente sondaggio tra le più alte cariche istituzionali ha decretato che queste ultime non sono
doti che mi appartengono, l’unica via per salvarmi sarebbe lastricata di enfasi, iperboli, ridondanze e
gonfiezze.
Saverio, non sono capace nemmeno di quello. E allora ecco a nudo i miei sentimenti, che sono poi quelli
di tutti. Sia chiaro: questo grande periodo che ci ha visto con te non è stato del tutto privo di spine;
abbiamo anche avuto, come succede, i nostri screzi e i nostri scazzi. Abbiamo avuto momenti di tensione
e anche incomprensioni. Ma, come succede nei rapporti veri, come succede quando si vive per uno scopo
condiviso, anche questi hanno alla fine contribuito ad aumentare stima e considerazione. Ti vogliamo
bene, Saverio, e so che continueremo a vederci al di fuori delle nostre funzioni. Ma come capo, nella
quotidiana vita d’ufficio, ci manchi e ci mancherai fino a quando anche noi non saremo costretti ad
appendere le scarpe al chiodo. Perché sei insostituibile.

Ho continuato a frequentare Borrelli anche dopo la sua uscita dal palazzo. Ci


sentivamo al telefono e ricevevo i suoi complimenti per le operazioni antimafia
di cui leggeva sui giornali. Solo negli ultimi tempi non l’ho più visto: la sua
malattia si stava aggravando e io preferivo ricordarlo come era prima, nel pieno
della vitalità, sempre pronto a sfoderare il suo sorriso magnetico.
Non sono andata nemmeno alla camera ardente allestita al palazzo di giustizia.
Come prevedevo, ci furono alcuni colleghi che pensarono bene di sfruttare anche
quella circostanza per il tornaconto personale. Addirittura insopportabile, per
me, la scena di Di Pietro inginocchiato accanto alla bara.
Passata l’ondata mediatica, ho dedicato a Saverio un necrologio, poche parole
per ringraziarlo di esserci stato: “Hai resistito alle lusinghe del potere, la tua
integrità è stata un esempio per chi, come me, non ha ceduto a compromessi.
Dopo di te, solo tenebre. Già mi manchi”.
4.
Giovanni

Conobbi Giovanni Falcone a metà degli anni ottanta, quando venne a Milano
alla sede della Criminalpol, in piazzetta San Sepolcro. All’epoca, insieme ad altri
colleghi ci occupavamo delle indagini sul traffico di stupefacenti e costituivamo
una specie di pool antidroga. Erano gli anni in cui Milano era inondata
dall’eroina, ragazze e ragazzi morivano di overdose per strada, in luoghi
squallidi, e molti, paradossalmente, si salvavano finendo in carcere. Il “turno
arrestati” di quel periodo forniva un quadro desolante, con giovani ridotti a
zombie. Un quadro che faceva male al cuore. Riuscimmo a ripulire alcune zone
di Milano, quelle in cui il fenomeno era più visibile, ma sapevamo che era come
togliere con un secchiello l’acqua dall’oceano.
Le indagini portarono anche a individuare le reti organizzative, a capo delle
quali i trafficanti turchi la facevano da padroni. Falcone si era imbattuto prima di
noi in quella rete criminale, e oltre a ciò le indagini milanesi portavano
inevitabilmente verso la Sicilia, poiché in quegli anni esponenti di spicco di
Cosa nostra avevano scelto Milano come quartier generale per il traffico di
droga. Sarà così che il mio destino, non solo professionale, si incrocerà con
quello di Giovanni.
Molti di noi lo conoscevano solo di nome e anch’io conoscevo, come tutti, la
storia di quel giudice già leggendario. Quindi decisi di partecipare all’incontro di
piazza San Sepolcro più per curiosità che altro. Ciò che vidi in quell’occasione
non mi piacque per nulla. Ero giovane e animata da un fuoco sacro originato per
lo più dall’inesperienza. E Falcone, da subito gentile e disponibile con tutti noi,
mi fece venire in mente il papa che elargiva benedizioni ai fedeli. Mi colpirono
solo i suoi occhi profondi e quella patina di malinconia che accompagnava il suo
sguardo. “Comunque è un figo,” pensai.
Arrivò il nostro turno. Presentazioni veloci, una stretta di mano e l’intesa che
ci saremmo scambiati atti e che per qualsiasi esigenza sarebbe stato a nostra
disposizione.
Mi sono spesso interrogata su quel nostro primo incontro. Non nascondo che
all’epoca ero piuttosto invidiosa di quella sua cortese autorevolezza pensando
che non sarei mai stata in grado di avvicinarmi a quel modo di fare. Non so
perché, ma sentii stupidamente anche il peso di essere donna.
Ancora non sapevo che sarei diventata adulta con la sua morte.
In quello stesso periodo fu trasferito a Milano dalla Sicilia un giovane tenente
dell’Arma dei carabinieri: Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo. Vestito
come un punk, i capelli raccolti in un codino e il viso da quindicenne, quando
venne a presentarsi dissi al suo comandante: “Che dobbiamo farci con questo
ragazzino?”.
Dovetti accorgermi ben presto che quella mia prima impressione era stata
precipitosa e sbagliata. Cominciammo a collaborare e ne nacquero indagini
importanti come la “Duomo connection”, che per la prima volta avrebbe
dimostrato i collegamenti tra Palermo e le attività economiche (legali e illegali)
di Cosa nostra in Lombardia. Ultimo affibbiò a tutti gli uomini della sua squadra,
e anche a me, un nome in codice: il mio era Nikita. Fu un periodo esaltante, di
riunioni che duravano fino a notte inoltrata per confrontarci, elaborare strategie,
condividere analisi della situazione man mano che le indagini evolvevano,
individuare obiettivi sensibili.
Ultimo era un’anomalia all’interno dell’Arma quanto lo ero io rispetto alla
magistratura, ma non ho mai conosciuto nella mia lunga carriera una persona che
sentisse così profondamente l’essere carabiniere. Ed era anche bravissimo, acuto
conoscitore del fenomeno mafioso, brillante e tenebroso allo stesso tempo. Era,
per giunta, un fan sfegatato di Falcone, tanto da ottenere di essere nuovamente
trasferito in Sicilia quando Giovanni fu ucciso. Non vedo Sergio De Caprio da
molto, preferisco ricordarlo com’era ai tempi della nostra collaborazione. Da
anni non condivido le sue prese di posizione, i contenuti delle sue interviste, per
non parlare – anche se si è dimesso dall’Arma – della sua decisione di entrare
nella Giunta regionale calabrese.
Le indagini della “Duomo connection” progredivano e cominciarono le mie
trasferte a Palermo, spesso accompagnata da Ultimo. Ricordo la prima volta che
varcai la soglia della stanza-bunker del palazzo di giustizia in cui lavorava
Giovanni. Ne rimasi impressionata e mi chiesi come potesse quell’uomo vivere
così. Fumava molto, persino più di me. Mentre parlavamo, quando affrontava i
temi delle indagini lo guardavo come un’ebete: ero ipnotizzata dai suoi occhi,
affascinata dall’uso calibrato delle parole, dai suoi tanti silenzi, da quella
cadenza palermitana, che trovavo adorabile. Lo avrei ascoltato per ore, anche
perché – me ne rendevo conto – stavo approfittando di quegli incontri per
imparare più che in mesi di lavoro.
Me ne innamorai.
È molto complicato, per me, ancora oggi, parlarne. Sicuramente non si trattò
dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita.
No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di
vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero
innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo
essere più importante di tutto il resto. Sapevo di non poter condividere con lui un
cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera
privata né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse
travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso.
Ricordo che durante una trasferta ci fu una riunione amichevole a casa di
Giuseppe Ayala, suo collega e amico, che aveva invitato anche altri componenti
del pool palermitano. A un certo punto Giovanni e io uscimmo sul terrazzo per
ammirare il panorama. Era una serata bellissima. Non ci dicemmo granché,
stavamo soltanto lì, a respirare l’aria di Palermo, ma quasi subito lo fecero
rientrare, perché era pericoloso, qualcuno avrebbe potuto colpirlo. Ne fui
angosciata, sentii un desiderio profondo di proteggerlo, ma capii che quella vita
di merda era la sola che lui potesse permettersi.
Quando scendevo a Palermo, costringevo Ultimo a portarmi di notte in giro
per i quartieri e nelle campagne intorno: volevo conoscere a fondo i luoghi per
meglio comprendere le dinamiche che da lì prendevano vita. Una volta
attraversammo una zona di campagna – non ricordo il posto preciso – poco
prima che vi venisse commesso un omicidio di mafia. Venuto a saperlo,
Giovanni si arrabbiò moltissimo, perché non avevamo ascoltato i suoi ripetuti
inviti alla prudenza e fu da allora che cominciò a definirmi “la mia selvaggia”. In
effetti litigavamo spesso, gli scaricavo addosso tutta la mia rabbia. Non capivo
allora – acerba e ancora poco conoscitrice delle miserie umane – i giochi di
potere né la sua capacità di mediazione, quel suo accettare senza reagire stilettate
e attacchi pesantissimi più o meno mascherati. Ci sono volute la sua morte e la
vita, che mi ha fatto conoscere il potere nelle sue forme più oscure, per
comprendere fino in fondo quanto avesse ragione, mentre la sua sofferenza
diventava la mia sofferenza.
Qualche volta cenavamo a Mondello, in un ristorante dove lui ordinava sempre
spaghetti ai ricci di mare. Una vera bontà. A volte passeggiavamo sulla spiaggia
e mi riempivo i polmoni della brezza marina. In quei momenti il male di
Palermo mi sembrava così lontano e il mio cuore era pieno di Giovanni. Per anni
non sono riuscita a tornare a Mondello, ad affrontare l’intensità dolorosa di quei
ricordi.
La sua decisione di candidarsi al Consiglio superiore della magistratura mi
fece imbestialire, anche se avrebbe rappresentato uno schieramento nuovo, il
Movimento per la giustizia, nato da pochi mesi in polemica “con le deviazioni
delle prassi correntizie” dell’Associazione nazionale magistrati: come poteva
pensare a Roma, quando si doveva combattere contro l’arroganza del potere,
dare giustizia al sangue versato da vittime innocenti? Anche sua moglie
Francesca era dubbiosa e contraria a che Giovanni intraprendesse quella strada,
cedendo alle insistenze di colleghi convinti che il suo nome sarebbe servito a
convogliare voti verso quel nuovo Movimento in grado – sempre secondo loro –
di cambiare il modo di intendere la professione.
Almeno all’inizio, anche Giovanni ci credeva e così accettò per essere – anche
sotto questo aspetto – ligio al suo dovere di rappresentanza. Era convinto di
farcela ma, mi disse, “subito dopo rinuncerò alla poltrona di consigliere”. Sì, era
certo di essere eletto, perché confidava nella strategia esposta dai colleghi ma
anche – soprattutto, direi – nella sua professionalità di magistrato, nella sua
integrità nota e riconosciuta da tutti.
E invece fu bocciato, ricevendo pochi voti, pochissimi nella sua Palermo. I
suoi colleghi ed estimatori a parole sconfissero così il giudice in quel momento
più famoso al mondo. Per dirla tutta, un po’ me lo aspettavo. O almeno, mi
aspettavo che tanti gli avrebbero voltato le spalle, ma non così numerosi. Fu un
duro colpo per lui, ancora una volta tradito dal suo stesso ordine, da quei
colleghi che in qualche caso riteneva persino amici. E che invece gli remavano
contro.
Non dimentico la sua amarezza di quei giorni, la rabbia, anche se in pubblico
non lasciò trasparire nemmeno un grammo della sua profonda sofferenza. Aveva
ricevuto uno schiaffo tremendo dalla sua stessa categoria e in quel momento
aveva potuto percepire tutto il livore che lo circondava. Di fronte a un magistrato
così bravo, la risposta – spietata – era stata quella di non votare l’uomo, e
dunque fu punito l’uomo, non il magistrato.
L’anno prima, il 21 giugno 1989, c’era stato l’attentato alla scogliera
dell’Addaura, dove Giovanni e Francesca avevano preso in affitto una casa.
Sulla dinamica di quel fatto non mi soffermo perché se n’è scritto in lungo e in
largo, dicendo di tutto e spesso a sproposito. Mi piace soltanto ricordare la volta
in cui andai in quella casa meravigliosa. Ero a Palermo, per attività istruttorie,
una settimana prima del fallito attentato e andai a colazione da loro. Era una
bella giornata, anche se i raggi del sole non erano ancora quelli dardeggianti
della calura estiva. Con l’entusiasmo di un bambino, Giovanni mi fece visitare la
casa. Si capiva benissimo che era felice di stare lì, di poter andare a nuotare
quando voleva, di godersi i tramonti le poche volte che il lavoro glielo
permetteva. Aveva imparato proprio dagli uomini d’onore, costretti a vivere in
uno stato di perenne allerta con il rischio costante della morte, ad apprezzare la
bellezza dell’attimo, a godere di quello che la vita offriva come fosse stato
l’ultimo dono.
Certo, l’Addaura è un posto incantevole, ma avvertii immediatamente dentro
di me un’ansia, un sentimento di paura e gli dissi che stare lì era pericoloso, che
era un bersaglio troppo facile, nonostante la stretta vigilanza, che anche quel
mare così amato poteva diventare un suo nemico. Giovanni mi ascoltò e sorrise
senza rispondere nulla: lo sapeva anche lui.
Al telefono, prima che andassi, mi aveva raccomandato di portare un costume
da bagno, cosa che feci, anche se mi pareva che persino in Sicilia fosse troppo
presto per tuffarsi. Eppure mi propose – anzi mi impose – di fare un bagno.
Francesca si rifiutò, mentre io, come un soldato, obbedii. Mi cambiai e scesi i
gradini di pietra che portavano sugli scogli dove qualche giorno dopo sarebbe
stato collocato il borsone da sub imbottito di esplosivo.
Come pensavo, il mare era freddo. Giovanni si tuffò e iniziò a nuotare verso il
largo, poi si girò e mi disse: “Vieni! L’acqua è bellissima!”. Caspita se era
fredda, quell’acqua, e poi pensavo alla messa in piega appena fatta. Insomma,
pensieri da donna che però non mi fermarono e lo raggiunsi. Giovanni prima mi
prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto...
Nel pomeriggio Francesca andò via e rimanemmo soli. L’atmosfera magica di
quella mattina si era dissolta, Giovanni era di nuovo preoccupato, angosciato.
Non parlò quasi più, voleva solo che gli stessi accanto. Sapeva – sentiva – che lo
avrei sostenuto senza fare domande.
Quando conobbi Giovanni ero giovane, flessuosa, scattante, un viso
mediterraneo, che parlava da solo con una risata oppure rabbuiandosi, una massa
di riccioli rossi. Già, i famosi capelli di “Ilda la rossa”. In realtà il colore dei miei
capelli è un normale castano senza infamia e senza lode, ma fin dagli anni della
giovinezza mi piaceva tingermi con l’henné, un segno di libertà molto in voga
tra le ragazze che negli anni settanta tenevano alla loro emancipazione e
volevano farlo vedere. Nel corso del tempo ho cambiato tante sfumature, a volte
più leggere, a volte così intense da sfiorare l’arancione. Penso dipendesse
dall’umore, o meglio dal grado di arrabbiatura del momento in cui andavo dal
parrucchiere.
Potrà sembrare frivolo, ma il colore dei capelli di “Ilda la rossa” ha inciso sulla
mia vita. E anche sul mio rapporto con Giovanni. A lui piacevano molto i miei
riccioli. Quante volte mi ha detto che i miei occhi “erano bellissimi”, che –
specie con l’effetto della luce del sole – tendevano al verde e non potevano che
abbinarsi al rosso dei capelli, un colore cangiante che rispecchiava appieno il
mio carattere a volte impulsivo, a volte ribelle, a volte sottomesso, soprattutto
nei suoi confronti. In realtà ci confrontavamo e anzi litigavamo spesso, perché –
per esempio – non capivo ancora certe sue scelte di mediazione, così lontane
dalla mia visione dei rapporti con il mondo.
Come non ricordare la collera quando il 10 agosto 1989 vidi in televisione le
immagini della “riappacificazione” tra Giovanni e l’alto commissario antimafia,
Domenico Sica? Sapevo perfettamente che questo personaggio non gli aveva
risparmiato attacchi, insinuazioni e critiche, all’interno di un’impari lotta di
potere condotta da ambienti istituzionali contro un uomo solo. Fino al punto di
alimentare la velenosa insinuazione secondo cui il fallito attentato dell’Addaura
di poche settimane prima fosse stata una trovata autopromozionale di Giovanni
stesso: come a dire che il borsone con l’esplosivo sulla scogliera se l’era messo
da solo.
Ero a casa quando il telegiornale stava trasmettendo le immagini di
quell’assurda stretta di mano e dei sorrisi tirati dei due. Presi il telefono e
chiamai Giovanni per gridargli tutta la mia indignazione e disapprovazione:
“Come hai potuto stringere la mano a Sica? Con tutto quello che fa contro di te?!
Sai benissimo che c’è anche lui dietro la campagna denigratoria che dura ormai
da mesi!”. Lui mi lasciò sfogare, poi con molta calma e altrettanta fermezza si
sforzò di farmi capire le sue ragioni, i motivi per cui – a fronte di quanto stava
accadendo e ben consapevole che gli ostacoli sotterranei e le trappole sarebbero
continuati –, nonostante tutto ciò, lui si sentiva fermamente un uomo delle
istituzioni. E aveva quindi il dovere, con quel gesto di riappacificazione anche
solo apparente, di salvaguardare il bene e l’immagine dello Stato, come entità in
cui tutti combattevano nella stessa trincea contro la mafia. Capivo il prezzo che
stava pagando, orgoglioso com’era, eppure non mi convinse, restai arrabbiata
con lui e non ci sentimmo né ci vedemmo per un periodo che parve a entrambi
troppo lungo.
La lontananza si concluse quando cedetti alle sue insistenze e al mio desiderio
di vederlo e tornai a Palermo. Riprendemmo il discorso e nemmeno quella volta
mi convinse, ma ricordo le parole che mi disse. Eravamo ancora in auto e a metà
strada fra l’aeroporto e la città, tenendomi vicino a sé, puntò il dito verso l’Isola
delle femmine. Con il suo sorriso sornione disse: “Sai perché si chiama Isola
delle femmine? Perché lì venivano confinate le donne un po’ troppo ribelli.
Ecco, anche tu meriteresti lo stesso trattamento”. Restai per un momento
interdetta perché mi parve un rimprovero, ma quello che aggiunse subito dopo
mi sciolse il cuore: “Sei una ribelle, ma comunque verrei ogni giorno a nuoto pur
di vederti”. In quel momento dimenticai strette di mano, commissari antimafia e
tutto il resto.
Solo con il tempo, dopo la sua morte, riuscii a cogliere la valenza di quella
scelta di Giovanni, quando nel mio piccolo mi trovai a vivere situazioni
analoghe – fingere cortesia con persone che non mi piacevano affatto o che
disprezzavo – e a reprimere il mio istinto per senso delle istituzioni, accettando
di ingoiare amarissimi rospi e sorridendo perché nulla trapelasse di quello che si
agitava nel mio animo.
La mattina dell’attentato di Capaci ero andata dal parrucchiere per correggere
il colore dei capelli, che mi sembrava troppo acceso, un rosso sgargiante che mi
avrebbe messo in imbarazzo per il lunedì successivo, quando era prevista la
lettura della sentenza del processo “Duomo connection”. Invece, ironia della
sorte, quella correzione del colore servì per affrontare le ore della morte di
Giovanni, una tonalità meno vistosa e più consona alla tragedia che avrei
vissuto.
Ogni dettaglio, anche il più banale, mi riporta al ricordo doloroso di Giovanni,
a tutto quello che gli hanno fatto subire, alla sua morte. Ma arrivata a questa età,
dopo quasi trent’anni, vorrei riuscire a liberarmi dei demoni e dei rimpianti con
cui ho convissuto finora e che hanno offuscato i ricordi meravigliosi che mi
legano a lui. Anche per questo, forse, sto scrivendo: perché vorrei tentare di
lasciarmi alle spalle il passato e godere di quello che la vita ha ancora da offrirmi
in questi ultimi anni.
Tra i ricordi più belli che conservo c’è il viaggio in Argentina che ho avuto la
fortuna di fare con Giovanni, per l’interrogatorio di Gaetano Fidanzati,
nell’ambito delle indagini condotte insieme tra Milano e Palermo. Era il giugno
1991, scrissi con molta cura la richiesta di rogatoria. Giovanni la lesse con
attenzione e commentò: “Perfetta, la firmerò anch’io senza cambiare nulla”. Che
soddisfazione!
Partimmo da Roma, Giovanni era accompagnato dall’allora capitano dei
carabinieri Giuseppe De Donno, io dal funzionario di polizia Massimo Mazza,
mentre a Buenos Aires ci aspettava un ufficiale della guardia di finanza che
collaborava con Falcone. Io viaggiavo in business, Giovanni in top class perché
era consigliere di Corte di cassazione. Quella fu la prima e unica volta (e tale
resterà) in cui ho provato l’ebbrezza e la comodità della superclasse. Infatti De
Donno prese il mio posto e io feci tutto il viaggio seduta accanto a Giovanni.
Avevo portato con me Insciallah di Oriana Fallaci e venni presa in giro per
quanto era voluminoso e poco adatto a un bagaglio da aereo. Avevo anche un
walkman con una cassetta di Gianna Nannini, che ho imposto a Giovanni per
tutta la durata del viaggio. Alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia
e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui.
In top class non c’erano altri passeggeri, eravamo soli in quel lusso rilassante,
la nostra intimità disturbata solo dall’arrivo delle hostess. Rimanemmo
abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando Gianna Nannini e
dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell’interrogatorio e ai possibili
sviluppi dell’indagine. Che notte...
A un certo punto, molto tardi, ci addormentammo. Anzi, Giovanni si
addormentò, mentre io rimasi sveglia più a lungo, non mi stancavo di guardarlo,
sembrava un bambino.
La mattina seguente, nelle ultime ore di volo, dopo esserci rinfrescati ci venne
servita la colazione, ma già aspettando i vassoi Giovanni aveva inforcato i suoi
famosi occhialetti da lettura immergendosi in un’informativa, mentre io aprivo il
volume della Fallaci. A un certo punto, scostando la tendina, comparve il
comandante dell’aereo che, evidentemente emozionato, disse che era onorato di
avere a bordo Falcone. Al che Giovanni sorrise, lo ringraziò a sua volta con una
certa timidezza e da quel momento fu un susseguirsi ininterrotto di visite,
omaggi e ringraziamenti al suo lavoro, una testimonianza che mi riempì di
orgoglio come italiana e come magistrato. Un vero, piccolo, bagno di folla
spontaneo, sincero, che diceva molto di quanto quell’uomo fosse amato dalla
gente comune. Sono anche certa che quella solidarietà, quel grande rispetto, e
anche quell’affetto per la statura morale di Giovanni e per il suo impegno hanno
avuto un peso determinante nel suscitare l’odio dei mafiosi e l’invidia, la
maldicenza, il contrasto – anche all’interno della nostra categoria – che hanno
funestato la sua vita fino alla fine.
Per me era diverso. Quando eravamo insieme diventavo una specie di spugna
che assorbiva quanto possibile della sua sapienza, in una smisurata ammirazione,
mai sconfinata nel fanatismo e che non dipendeva dai sentimenti che provavo
per lui, ma dalla lucida considerazione verso un magistrato decisamente al di
sopra di ogni altro. Così, al contrario di molti colleghi, non mi sono mai sentita
sminuita né condizionata, inibita nell’esprimere dissenso o pareri opposti ai suoi.
Il suo successo e la sua notorietà mi inorgoglivano, forse anche perché sapevo di
avere un posto particolare nella sua considerazione e nel suo affetto. Ma nella
nostra casta la figura di Giovanni provocava per lo più violenti mal di pancia.
A Buenos Aires fummo accolti dai vertici della gendarmeria e da tanti
poliziotti arrivati lì per tutelarlo. Io ero “la dottora”. Anche l’albergo era
presidiato da uno spiegamento imponente di forze dell’ordine. Venimmo invitati
a cena in un ristorante ovviamente specializzato in piatti di carne, che di solito
non mangio (ma su quella argentina dovetti ricredermi). Dopo cena tornammo in
albergo con l’intesa di andare, l’indomani, dai colleghi argentini per lavorare
insieme a loro. Salutammo tutti e andammo nelle nostre camere.
Le due giornate successive furono caotiche, piene di impegni, riunioni,
interrogatori, scambi di carte con i colleghi locali. In ragione di ciò, per sfruttare
appieno quelle ore all’altro capo del mondo proposi di restare un giorno in più.
Siccome una parte della documentazione che volevamo portare in Italia non era
ancora pronta, potevamo restare a nostre spese e, nell’attesa, andare a visitare le
famose cascate di Iguazú. Giovanni, però, voleva a tutti i costi rientrare in Italia
e discutemmo animatamente: non voleva che la sua permanenza fosse etichettata
come “turismo giudiziario”, una pratica tra le più gettonate nel nostro ambiente.
Confesso che, pur comprendendo le sue ragioni, rimasi male quando lui se ne
andò. Restai io sola ad aspettare i documenti e da sola andai a Iguazú. Fu
un’esperienza incredibile, che mi emozionò fino alle lacrime: la vista di quella
meraviglia, il fragore assordante dell’acqua che precipita, la sensazione di
immensità che ti afferra alla gola. La gendarmeria aveva organizzato tutto alla
perfezione, compreso il sorvolo delle cascate in elicottero. L’idea mi
entusiasmava, ma non ero mai stata su un elicottero e passai minuti di angoscia:
“E se mentre sono lassù mi sento male? Che figura faccio se mi viene da
vomitare?”. Mi feci coraggio e salii sul velivolo, anche perché non si dicesse che
ero la solita donnetta in preda alla paura. E feci bene, perché nonostante un po’
di nausea fu un’esperienza indimenticabile.
Quell’esperienza così forte mi fu utile come battesimo dell’aria e quando poi,
due anni dopo, sarei stata a Caltanissetta per indagare sulla morte dei colleghi,
mi fu più facile volare in elicottero, come imponevano le misure di sicurezza.
Che cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così
precocemente? Non lo so dire, anche se in tutti questi anni mi sono tormentata
con questo interrogativo. Ho invece potuto rispondere a un’altra domanda: ho
onorato abbastanza la sua memoria con il mio lavoro? La mia risposta è “sì”, e
poco mi interessa se altri non la pensano allo stesso modo.
Potrei raccontare anche di tante e dolorose confidenze ricevute da Giovanni,
delle persone e dei colleghi di cui aveva letteralmente paura; dei momenti di
estrema debolezza e di caduta che pure ha vissuto. Potrei raccontare di segreti
che mi ha confidato, ma non lo farò, non voglio farlo e tutto resterà chiuso nella
mia memoria e nel mio cuore. Ma quanto ho disprezzato, in questi anni, gli
omuncoli che hanno mentito raccontando o riferendosi a fatti mai accaduti e
circostanze di assoluta fantasia, certi di non essere smentiti da un morto.
Per questo penso che i giovani e le prossime generazioni dovrebbero ricordare
Giovanni Falcone per quello che ha fatto, non per quello che altri hanno detto di
lui; dovrebbero cogliere la sua grandezza da ciò che ha scritto di suo pugno e
dalle parole che ha pronunciato, diffidando di quelle riferite e a lui attribuite,
perché questa attenzione alla verità dell’uomo li renderà persone e cittadini
migliori.
Nel 1999 ricevetti una lettera da una donna che non conosco. Tra le altre cose,
la signora mi raccontava che quando morì Falcone aveva solo quindici anni e
nulla sapeva di quel magistrato, perciò, a me che lo avevo conosciuto e che
pubblicamente dichiaravo di ispirarmi al suo lavoro, chiedeva se potessi
scriverle qualcosa di lui. Ecco, cara signora, non so dove sia lei ora e se mi
leggerà, ma lo sto facendo, sto scrivendo di Giovanni.
“Un uomo abbraccia una ragazza dopo che aveva pianto... guardò quegli occhi
verdi come il mare e gli sembrò più dolce anche la morte.” Proprio così ci siamo
guardati io e Giovanni quel pomeriggio del 13 maggio 1992, prima che si
imbarcasse per Roma. Fu il nostro ultimo sguardo. Dopo la sua morte, quella
canzone mi ha ossessionato: la ascoltavo per ore, soprattutto nel periodo
siciliano. Parole di amore e di morte, come è stata la sua vita.
5.
Maggio 1992

13 maggio
Era una giornata bellissima. Sole e temperatura ideale. Giovanni era atteso in
mattinata a Pavia per un dibattito organizzato dal giurista Vittorio Grevi al
Collegio Ghislieri. Eravamo d’accordo che lo avrei raggiunto per l’inizio della
sua relazione. Ero felice, non ci vedevamo da un po’ di tempo anche se i nostri
contatti telefonici erano pressoché quotidiani. Avevo scelto con cura l’abito da
indossare: un tailleur blu scuro.
Arrivai a Pavia prima che Giovanni cominciasse a parlare e presi posto tra il
pubblico. L’aula del Ghislieri era per lo più gremita di studenti della facoltà di
Legge, nella quale insegnava Grevi, ma non mancavano colleghi, avvocati,
semplici curiosi. Insieme a loro lo ascoltai mentre illustrava le sue riforme: la
Dia, formata dalle varie forze di polizia, le Direzioni distrettuali antimafia nelle
procure, la Direzione nazionale antimafia. In sala, tra i magistrati, c’era anche
l’allora procuratore capo di Pavia, che prese la parola intenzionato a demolire
punto per punto le tesi illustrate da Giovanni. E quello fu solo il primo di una
serie di interventi dello stesso tenore, tutti svolti da colleghi, tesi a smontare gli
argomenti di Falcone e, naturalmente, il suo ruolo di direttore degli Affari penali
che pochi mesi prima aveva accettato dal ministro Claudio Martelli. Una scelta
intollerabile, secondo molti magistrati, che coglievano ogni occasione per
prenderne platealmente le distanze.
Quello che mi colpì fino a togliermi il respiro, ed era purtroppo accaduto altre
volte, non erano tanto le critiche in sé, ma il clima di astio che si percepiva nei
suoi confronti. Toni sferzanti, respingenti, argomentazioni aspre, piene di livore,
che mostravano una verità non dissimulabile: Giovanni avrebbe potuto trattare
qualsiasi altro argomento e non sarebbe cambiato nulla, perché gli attacchi erano
mirati all’uomo, non alle sue idee o alle sue proposte. Anche in quella giornata
pavese potei toccare con mano quanto Giovanni fosse inviso all’interno
dell’ordine giudiziario, nonostante fosse una persona buona, solare, unica.
Quindi una figura imperdonabile agli occhi dei più, perché impossibile da
eguagliare e quindi frustrante nel paragone. Mi chiesi che cosa pensassero i
giovani presenti in aula, se anche loro avessero percepito quell’alone di sulfurea
ostilità che rendeva l’aria irrespirabile, almeno per me.
Quel giorno, come tante altre volte, Giovanni si trattenne, non diede a vedere
la sua amarezza e nascose la frustrazione dietro il sorriso e le parole misurate di
cui era capace.
Terminato il convegno, ci fermammo a colazione con il professor Grevi,
dispiaciuto e imbarazzato per l’accoglienza riservata al suo ospite. A tavola si
parlò ancora delle riforme, dell’imminente decisione del Consiglio superiore
della magistratura sulla nomina del direttore nazionale antimafia, si accennò alle
previsioni, tutte sfavorevoli a Giovanni, dato che aveva contro magistrati,
politici e media, nonostante a parole tutti riconoscessero – né poteva essere
altrimenti – il suo profilo eccezionale per professionalità, competenza, dirittura
morale. Nel migliore dei casi, le critiche muovevano dalla preoccupazione per
un’eccessiva concentrazione di poteri in capo al procuratore nazionale antimafia;
nella versione dei peggiori detrattori – purtroppo in netta prevalenza – Giovanni
era considerato scomodo perché ingovernabile, troppo indipendente, un utopista
che non si limitava a sognare, ma che agiva con determinazione e intelligenza
per realizzare il cambiamento.
Tornammo a Milano seduti sul sedile posteriore dell’auto di servizio. Giovanni
aveva detto all’autista di guidare con calma, poi mi aveva preso la mano
stringendola forte e, dopo un po’ di tempo trascorso in silenzio, aveva
cominciato a lasciarsi andare, esternando la rabbia, la mortificazione, la
stanchezza per gli attacchi che subiva e per la cattiveria che lo circondava. Io lo
ascoltavo e, comprendendo pienamente il suo stato d’animo, non avevo nulla da
replicare. Eravamo entrambi consapevoli che non sarebbe stato nominato
procuratore nazionale antimafia. Mi sentivo impotente, non ero in grado di
attenuare il suo dolore, se non mostrandogli una volta di più il mio affetto, la mia
sincera amicizia, la stima profonda che nutrivo per lui. Durante il tragitto aveva
anche chiamato la moglie e dopo aver scambiato con lei qualche frase mi aveva
passato il telefono. Francesca e io ci eravamo salutate brevemente, ripetendoci
che ci saremmo molto presto viste a Palermo. Ma a Palermo la rividi su un
tavolo di obitorio.
Mentre l’automobile si avvicinava all’aeroporto, avevo scorto tra i capelli di
Giovanni una specie di minuscolo verme bianco. Avrei voluto toglierlo, ma la
mano si era bloccata: percepivo una strana sensazione di morte che mi turbava
profondamente. Non avevo detto nulla ma avevo continuato a fissargli i capelli,
tanto che Giovanni mi aveva chiesto cosa avessi. “Nulla,” avevo risposto,
stringendogli più forte la mano. Questione di attimi, ma ho vissuto quella
suggestione come un inequivoco presagio di morte. Solo molti mesi dopo sarei
venuta a sapere dai verbali del mafioso Gioacchino La Barbera – uno degli
esecutori della strage – che proprio quel 13 maggio erano terminate le operazioni
per imbottire di tritolo il condotto sotto l’autostrada all’altezza di Capaci. Quel
giorno, quindi, stringevo angosciata la mano di un uomo già condannato a morte.
Quando arrivammo a Linate, l’aereo dei servizi di sicurezza sul quale
Giovanni era tenuto a viaggiare era già pronto al decollo. Nel salutarlo, una volta
scesi dall’auto, lo avevo stretto nuovamente a me, pregandolo di non mollare, di
continuare a combattere come aveva sempre fatto. Lui non aveva risposto nulla,
si era limitato a ricambiare l’abbraccio per poi avviarsi alla scaletta. Saliti pochi
gradini, si era girato per salutarmi con lo sguardo triste ed era scomparso dentro
il piccolo aereo. Non avrei voluto e non so perché lo feci, ma in quel momento
piansi.
In tutti questi anni non ho mai dimenticato quella giornata, quel tragitto in
auto, quel suo ultimo sguardo. Se non ci fossimo visti quel giorno, forse non
avrei ribaltato la mia vita, com’è invece accaduto. Ma quegli occhi pieni di
tristezza posati su di me non mi hanno lasciato alternative. Ed è così che sono
arrivata a decidere di indagare sulla sua morte, a inseguire per mesi i suoi
carnefici.

23 maggio
Quel 23 maggio mi trovavo in una stanza del San Raffaele al capezzale di mio
padre, ricoverato in gravi condizioni. Sarebbe morto il 23 luglio, a settantanove
anni. Terminato l’orario di visita, ero uscita dal padiglione e mi ero diretta verso
le auto di servizio che mi aspettavano. L’espressione cupa, immobile, sui volti
degli uomini della scorta non lasciava dubbi: era successo qualcosa di grave.
Nessuno di loro proferì parola e dentro di me cominciò a salire un’ansia
difficile da descrivere. Eppure non pensai ai miei figli, o a qualche altro
famigliare. Il mio pensiero era corso subito a Giovanni e riuscii a pronunciare
solo una frase, una frase che non avrei mai voluto sentirmi pronunciare: “È
successo qualcosa a Falcone?”. Dallo sguardo che si scambiarono i due poliziotti
capii di non essermi sbagliata: “Sì, dottoressa, c’è stato un attentato a Palermo. Il
dottor Falcone è vivo, ma è ferito gravemente”.
Ne seguì una corsa verso casa a sirene spiegate. Non ho mai autorizzato l’uso
della sirena a Milano, ma quel giorno fui io a richiederlo. In preda all’angoscia,
telefonai a Ultimo e non ci fu bisogno di troppe parole: giunta a destinazione, lo
trovai ad attendermi sotto casa con i suoi uomini. Proprio in quel momento
arrivò la notizia che Giovanni era morto. Mi accasciai sul marciapiede, il mondo
mi girava intorno, le lacrime sgorgavano senza freni. Ero disperata. Dissi a
Ultimo che volevo partire subito per Palermo. “È impossibile,” fu la risposta, “la
strada dall’aeroporto alla città è chiusa per la voragine causata dall’esplosione.”
Non volli sentire ragioni, solo partire a ogni costo, sarei arrivata a Palermo anche
a piedi. Ultimo mi assecondò.
Confesso di avere ricordi confusi di quelle ore: ero come in trance. Mi
portarono a Linate e attendemmo l’orario di partenza del volo in una saletta
riservata, dove incontrai Liliana Ferraro, all’epoca collaboratrice di Falcone al
ministero, in missione a Milano. Non le andai incontro come avrei fatto
normalmente, pur sapendo quanto Liliana fosse legata a Giovanni. Ero come
pietrificata, gli uomini di Ultimo mi dovevano sostenere e lo fecero fino a che
non presi posto sull’aereo. Atterrammo a Palermo a notte fonda. Grazie a un suo
collega, Ultimo era riuscito a procurarsi una jeep militare, a bordo della quale
raggiungemmo la città lungo un percorso alternativo all’autostrada,
attraversando paesini e sobbalzando su strade sterrate. Intorno a noi, il buio
pesto.
Pretesi che mi portassero subito all’obitorio. Entrai in quella stanza poco
illuminata, dove su un piano d’acciaio, lo stesso utilizzato per le autopsie, c’era
Giovanni. Sembrava che dormisse, il suo viso era disteso, l’esplosione gli aveva
risparmiato il volto, sul quale vedevo solo una leggera abrasione vicino
all’occhio sinistro. Il suo corpo era stato coperto con un lenzuolo. Mi avvicinai.
Purtroppo in quel momento c’erano anche tre colleghi palermitani. Uno di loro
venne verso di me, ma lo respinsi con un gesto rabbioso: sapevo che tutti e tre
quei colleghi avevano ostacolato Giovanni, vivevo la loro presenza in quella
stanza come un insulto alla sua memoria. Fortunatamente uscirono poco dopo il
mio arrivo, o forse proprio per questo, perché sentii uno di loro sussurrare: “Be’,
andiamo. L’aria comincia a farsi pesante”. Non li salutai né loro salutarono me.
Del resto, tutto il mio essere sprigionava disprezzo nei loro confronti.
Rimasta sola, gli toccai il viso e lo accarezzai. Nel mio stato di quel momento,
mi sembrò quasi che mi sorridesse. Sollevai lentamente il lenzuolo, volevo
vedere quanto il suo corpo avesse subìto l’impatto dell’esplosione. Lo coprii
nuovamente e gli rimboccai il telo bianco, con amore.
Fu in quel momento che giurai a lui e a me stessa che avrei fatto qualsiasi cosa
perché il suo lavoro non andasse perduto, che avrei protetto la sua memoria, che
avrei sempre agito in un modo che lo avrebbe reso orgoglioso di me.
Entrò Ultimo. Con dolcezza mi disse che era ora di ritirarci. “No!” esclamai
con la foga della disperazione. “Non lo lascio da solo, al buio, in questa stanza.”
Ultimo e i suoi cercarono di riportarmi alla ragione, di farmi comprendere che
non era possibile fermarsi lì, fino a che non mi presero delicatamente per le
braccia e, mentre urlavo e singhiozzavo senza ritegno, mi trascinarono
letteralmente via. Quando arrivammo in albergo – non saprei dire quale – ero in
uno stato simile all’incoscienza. Mi accompagnarono in camera dove, rimasta
sola, mi accovacciai vicino a uno specchio e rimasi così per il resto della notte
finché mi accasciai assopita per un paio d’ore. Fuori dalla porta, vegliavano gli
uomini di Ultimo.
La mattina del 24 maggio era previsto il trasporto delle salme di Giovanni e
Francesca dall’obitorio al palazzo di giustizia. Prima che chiudessero la bara,
volli tornare alla camera mortuaria per un ultimo saluto. Non appena entrata,
venni investita da fortissime esalazioni di formalina, un odore che da allora mi è
rimasto nelle narici. Purtroppo non ero sola, nella stanza c’era il procuratore di
Caltanissetta, ancora per qualche settimana titolare dell’inchiesta sulla strage,
perché poco dopo sarebbe andato in pensione. Mi avvicinai alla bara. L’odore di
formalina era davvero insopportabile. Guardai per l’ultima volta Giovanni. La
salma era vestita con un abito scuro e un’orribile cravatta, il suo viso era ancora
bello, se non fosse stato per il pallore della morte. Lo accarezzai per un’ultima
volta e subito dopo mi allontanai velocemente, come un animale in fuga.
Mi feci accompagnare all’aeroporto, non avevo alcuna intenzione di prendere
parte ai funerali e tanto meno alla veglia a palazzo di giustizia. Già immaginavo
gli sguardi compunti dei colleghi (palermitani e non) e il solo pensiero mi era
insopportabile perché, tolta qualche eccezione, sapevo che quei volti sarebbero
stati l’apoteosi dell’ipocrisia e del cattivo gusto. Un’esibizione di squallore che
mi volevo risparmiare.
In questi anni ho guardato e riguardato le immagini del funerale di Giovanni.
L’ho fatto per fissare sullo schermo i volti dei presenti, così da tener viva la mia
rabbia, proprio come è accaduto quando – solo per i primi anni – ho accettato di
partecipare alle celebrazioni dell’anniversario del 23 maggio. Non me ne
vergogno.
Va tuttavia detto che, nel profluvio di false lacrime sparse al funerale, sono
sempre stata capace di cogliere quelle sincere di chi gli voleva bene davvero: le
più autentiche, quelle di Paolo Borsellino.
25 maggio
L’ultima volta che parlai con Giovanni fu in una telefonata poche ore prima
che morisse. Nel primo pomeriggio di quel sabato 23 maggio, lo chiamai per
dirgli che il lunedì successivo sarebbe stata emessa la sentenza per la “Duomo
connection”. Me lo aveva comunicato la cancelleria, dopo che il collegio
giudicante era riunito in camera di consiglio già da alcuni giorni.
Ero tesa, com’è ovvio. Giovanni aveva cercato di tranquillizzarmi,
spiegandomi che a suo giudizio l’impianto dell’inchiesta era granitico, pur con
tutte le difficoltà incontrate nel lungo dibattimento, dato che quello era il primo
maxiprocesso celebrato con il rito accusatorio, la nuova formula entrata in vigore
con la riforma dei Codici varata solo tre anni prima. Tra le non poche difficoltà
da affrontare, come l’esame dei testi o la produzione della documentazione, il
collegio non aveva più a disposizione le carte raccolte con l’indagine e non
conosceva, quindi, il lavoro d’inchiesta svolto negli anni precedenti. Spettava al
pubblico ministero guidare i giudici nella comprensione dell’indagine stessa e
convincerli della solidità delle prove raccolte. Compito non facile, soprattutto
per gli aspetti di novità procedurali che accomunava giudici, avvocati, pubblici
ministeri, ciascuno dalla propria visuale. Ce l’avevo fatta? Lo avrei saputo dopo
due giorni, ma intanto sentivo su di me tutto il peso di un’indagine avviata con lo
stesso Falcone, quando lui era ancora procuratore aggiunto a Palermo.
In quell’ultima telefonata restammo intesi che mi avrebbe richiamata dopo
l’atterraggio a Punta Raisi. Ma il tritolo che avrebbe spazzato via la sua vita,
quella di Francesca e della loro scorta era già stipato nel cunicolo sotto la A29,
pronto a esplodere.
Il 25 mattina decisi di andare in aula con indosso lo stesso tailleur che avevo
scelto per incontrare Giovanni al Ghislieri pochi giorni prima. La lettura del
dispositivo era prevista intorno alle 11, orario tassativo perché l’Associazione
nazionale magistrati aveva indetto per le 12 in aula magna una commemorazione
dei colleghi uccisi a Capaci. L’aula della “Duomo connection” era – ironia della
sorte – proprio di fronte all’aula magna: a dividerle c’era solo il lungo e
maestoso androne del secondo piano. Pregai la cancelleria di chiamarmi
all’ultimo momento, quando il collegio stava per uscire dalla camera di
consiglio.
Un paio di occhiali scuri mi copriva parzialmente il viso, segnato dalle lacrime
dei due giorni precedenti. Ho sempre portato gli occhiali da sole, anche quando
nei primi anni a Milano la nebbia la faceva da padrona: sono sempre stati una
difesa, prima da un mondo che non conoscevo e poi da una malvagità che avevo
imparato a conoscere.
Mentre il presidente leggeva il dispositivo, non riuscivo a concentrarmi su ciò
che sentivo, la testa mi girava ma, soprattutto, in quel momento non mi
interessava l’esito del processo. Gli imputati erano stati tutti condannati, ma la
voce che elencava gli anni di reclusione era solo un sottofondo, perché intanto
tenevo lo sguardo fisso sulla gabbia in cui erano rinchiusi gli imputati
appartenenti a Cosa nostra. Sapevo che avevano esultato per la fine di Falcone e
con il mio sguardo colmo di disgusto volevo comunicare a quelle persone che ci
sarebbe comunque stato chi avrebbe continuato a combatterli senza dargli
tregua. Sicuramente ci sarei stata io, anche se nessuno – mi venne da pensare –
avrebbe mai più potuto farlo con la determinazione e l’efficacia di Giovanni.
A udienza terminata, mi diressi verso l’aula magna già gremita di colleghi,
compresi i big del momento, come Gerardo D’Ambrosio e il pool di Mani pulite
al completo. Chiesi di prendere la parola, mi avvicinai al banco posto di fronte al
pubblico, domandai ai cameraman rispetto per il mio dolore e iniziai il mio
j’accuse.
Il giorno successivo, 26 maggio, così riferiva il “Corriere della Sera”, a pagina
7, a firma di Goffredo Buccini.
“Voi avete fatto morire Giovanni Falcone. Con la vostra indifferenza. Con le vostre critiche... voi lo
avete infangato. Voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali...”
I Ray-Ban nerissimi coprono occhi che non hanno più lacrime. I capelli rossi piovono disordinati sulla
giacca scura. La voce è stridula, rotta a tratti. Ilda Boccassini, il pubblico ministero della “Duomo
connection”, sta in piedi davanti ai suoi colleghi, raccolti a centinaia nell’aula magna di palazzo di
giustizia. Tutti lì, a ricordare Falcone. Tutti lì ad ascoltare una requisitoria inattesa, clamorosa, talvolta
scomposta, ma sincera fin nell’anima. Un violento atto d’accusa di un giudice contro altri giudici, contro
un’intera corporazione e contro una parte della classe politica. Entra alle 13.15, la Boccassini. Supera
veloce file di sedie dove i magistrati di Milano, chiamati a raccolta dall’Anm, si sono sistemati, forse
convinti di assistere a una commemorazione di circostanza. [...] “A Giovanni è stato impedito nella sua
città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il ministero della Giustizia,
per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una
rivoluzione.” Quindi, ecco un attacco tutto diretto a Milano: “Io la rivoluzione di Giovanni l’ho difesa...
Ma sono stata spazzata via. Perché ero sua amica e perché credevo in lui. Ma i colleghi che oggi sono
andati a Palermo, ai suoi funerali, dicevano fino all’altro giorno di diffidare di lui”. Il tono si alza ancora,
la requisitoria si concentra sulle persone, sui pm dell’inchiesta Mani pulite: “Tu, Gherardo Colombo, che
diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l’amarezza di sapere che i
suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da quelli di Milano,
che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi
ha detto: ‘Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali’”. Ancora silenzio. Ilda Boccassini
guarda negli occhi Giulio Catelani, il procuratore generale che aveva equiparato la situazione di mafia a
Milano a quella di una qualsiasi città del Nord, e riprende: “Oggi è finita la ‘Duomo connection’, alla
quale Giovanni e io avevamo lavorato assieme. La mafia si può sconfiggere. Ma esiste, signor
procuratore. A Milano come a Palermo, non ci sono confini. E Nenè Geraci, capo del mandamento di
Partinico, componente della Cupola, era a Milano, alla ‘Duomo connection’, pochi giorni fa. Lui già
sapeva. Avevano deciso la morte di Falcone. Era qui per intimidire”. Quindi, quasi un rigurgito di rabbia:
“Ma chi pensa che Giovanni non fosse indipendente non può andare ai suoi funerali. [...] Giovanni è
morto con l’amarezza di essere solo. Mi rivolgo all’onorevole Martelli: non abbandoni i giudici che
hanno creduto nel progetto di Giovanni. Io credo che non è così che passeremo sotto l’Esecutivo, non è
su questo che si gioca la nostra autonomia: la si compromette solo facendo i servi del sistema. Se
qualcuno pensa che Falcone è un venduto, lo dica ora. Poi voltiamo pagina. Ciao, Giovanni”.

In aula magna il silenzio era assoluto. Capivo che tutti erano rimasti spiazzati
dal mio intervento. I giorni successivi furono tremendi. Al dolore che provavo
per la perdita di Giovanni si sommarono attacchi e critiche impietose provenienti
dai soliti avversari, ma anche dagli amici. Mi sentivo un pugile che prendeva
colpi in faccia senza riuscire a reagire fino ad accasciarsi, tramortito da quella
tempesta. Avevo bisogno di scuotermi e, per fortuna, uno stimolo forte venne da
una bella lettera inviatami da un uomo che simulava di scrivere sotto la dettatura
della figlioletta di appena due anni:
Il mio papà si è incaricato di scrivere per me due righe affinché lei conosca il mio pensiero nei suoi
riguardi. Noi possiamo sperare in bene per il futuro solo se persone come lei continuano la loro lotta con
lo spirito di abnegazione e di un grande amore per il prossimo, come ha fatto sino a ora. L’esempio di
Falcone le sarà senza dubbio di grande aiuto. Mi perdoni questa intrusione nella sua vita ma, dopo aver
letto la sua risposta a quei magistrati che non condividono le sue idee, mi sono sentita in obbligo di
manifestarle la mia solidarietà e il mio affetto. Quando sarò grande le scriverò personalmente.

Nella busta c’era la foto di una splendida bambina sorridente, cui ho sempre
augurato tutto il bene possibile.

Estate
Nei mesi seguiti al mio intervento in aula magna, i colleghi della procura e, in
generale, del palazzo di giustizia di Milano mi evitavano come fossi
un’appestata. Tesissimi anche i rapporti con Borrelli. Mi sentivo –
oggettivamente ero – sola con il mio dolore, anche se più che mai convinta di
aver detto esattamente quello che pensavo e che le mie parole fossero state
quelle giuste da dire. Non avevo sbagliato a puntare il dito verso chi riteneva
Falcone un venduto per aver accettato l’incarico al ministero; verso chi aveva
approfittato del suo funerale per tornaconto personale, solo per un po’ di
visibilità.
Non conoscevo i colleghi siciliani che avevano deciso di farsi applicare a
Caltanissetta per rinforzare le file dell’inchiesta sulle stragi – nel frattempo, il 19
luglio, c’era stata la carneficina di via D’Amelio – né tanto meno Giovanni
Tinebra, il capo della procura appena nominato. Perciò pensai a uno scherzo
quando, verso fine luglio, da Caltanissetta mi arrivò la telefonata per sapere se
ero disponibile a unirmi a loro chiedendo a mia volta l’applicazione.
Sinceramente spiazzata, lì per lì non seppi cosa rispondere, di fatto non ebbi
alcuna reazione e la cosa finì nel dimenticatoio. Ma a fine agosto mi arrivò
un’altra telefonata. Stavolta era Tinebra in persona che mi ripropose con forza la
stessa domanda: “Pensaci, Ilda. Qui c’è bisogno di te”.
Perché io? Ancora oggi non lo so con certezza. Benché abbia poi avuto modo
di conoscere a fondo i colleghi che insistevano perché lavorassimo insieme in
Sicilia, la loro scelta mi apparve allora ed è ancora oggi un enigma. Comunque
sia, quelle richieste ebbero l’effetto di gettare nella mia mente il seme del
dubbio, che ben presto cominciò a germinare. “Perché no?” Andare via da
Milano, dati anche i rapporti difficili all’interno dell’ufficio, non era da
considerare un’ipotesi così irrealistica. E trasferirmi per un periodo in Sicilia –
proprio per indagare sulla morte di Giovanni – lentamente diventava una
prospettiva sempre più coinvolgente. La decisione, però, era difficilissima: i miei
figli erano uno sbarramento oggettivo alla possibilità di lasciare Milano,
soprattutto Alice, che aveva solo otto anni.
In questa tempesta di pensieri e di dubbi, vissi un periodo lacerante, aggravato
dal senso di enorme solitudine. Mi mancavano il sostegno della famiglia e quello
degli amici. Anche perché mi era del tutto chiaro che, se anziché “una” pm fossi
stata “un” pm, la scelta di partire per dedicarmi altrove al lavoro sarebbe stata
normale, persino un’opportunità da non lasciarsi sfuggire, o, alla peggio, una
dolorosa ma doverosa necessità con un costo personale molto alto.
Ma io sono una donna, una madre e, nel pensiero comune, la medesima scelta
era come commettere un reato, qualcosa di innaturale, che meritava una
condanna senza appello. “Ma come,” mi sono sentita dire in faccia (o alle
spalle), “abbandoni i tuoi figli per il lavoro? Non pensi alle conseguenze? Sei
fuori di testa?” E via così. Amiche che pensavo solidali e pronte a sostenermi
hanno pronunciato giudizi durissimi, senza comprensione, senza attenuanti,
senza alcun conforto. Ero consapevole che, qualunque decisione avessi preso, la
mia vita sarebbe cambiata per sempre. L’unico incoraggiamento venne da
Gianni De Gennaro, appena nominato vicedirettore della Direzione investigativa
antimafia: a suo parere l’impegno in Sicilia era una chiamata alle armi cui non
avevo il diritto di sottrarmi. Ed escludeva che potessero essere di impedimento le
questioni personali o le difficoltà famigliari.
Ricordo, con tenerezza, che tra gli argomenti cui mi aggrappavo per escludere
la richiesta di applicazione ce n’era uno goffo, infantile: avrei dovuto cambiare
parrucchiere, la mia Lia di Professional’s, che si prende cura dei miei capelli da
più di trent’anni, una persona speciale, l’artefice di “Ilda la rossa”.
6.
L’arrivo a Caltanissetta

Quel settembre fu un mese adrenalinico. La decisione sull’applicazione che mi


avrebbe portato per due anni a Caltanissetta mi lacerava: nel mio animo si
alternavano euforia, angoscia pura, senso di soffocamento. Avevo tutti contro:
innanzitutto Alberto, il mio compagno e padre di Alice, anche lui magistrato,
con il quale fino all’ultimo avevo sperato di poter condividere la mia decisione.
Ma così non fu e anche per questo, con il passare del tempo, il nostro legame si
dissolse.
Infine decisi: sarei partita per la Sicilia.
Accettata l’applicazione, fu piuttosto complicato anche l’iter burocratico, che
richiedeva il parere del procuratore nazionale antimafia pro tempore e il
nullaosta di Saverio Borrelli. Quest’ultimo, però, fu rilasciato immediatamente,
forse anche perché – dopo il mio intervento in aula magna – i nostri rapporti si
erano deteriorati, come quelli con i colleghi dell’ufficio, che a malapena mi
salutavano. Avevo dalla mia parte solo De Gennaro che, all’indomani delle
stragi di Capaci e via D’Amelio, aveva costituito il centro Dia proprio a
Caltanissetta puntando su due bravi funzionari, Massimo Mazza e Guido
Marino, all’epoca in servizio alla questura di Milano, con i quali ho avuto il
privilegio di lavorare per anni. Mazza e Marino accettarono di andare in trincea,
in un ufficio che a stento era dotato di scrivanie, sedie, per tacere della scarsità di
apparecchiature elettroniche. Ma il segnale che si voleva lanciare era proprio
quello: non retrocedere. Anche se non tutto era organizzato alla perfezione,
bisognava dimostrare che il Paese non rinunciava a combattere la mafia.
Ebbi modo di incontrare Massimo Mazza a Milano, quando lui riusciva a
tornare in famiglia e io non avevo ancora deciso di andare verso l’ignoto. I suoi
racconti non erano tranquillizzanti: ne emergeva uno scenario di
disorganizzazione e approssimazione. Mi raccontava di carte che si
accumulavano senza che gli inquirenti, privi dell’incisività e della professionalità
necessarie per affrontare indagini così complesse, riuscissero a elaborare una
strategia che guidasse il lavoro degli investigatori. Resoconti inquietanti, specie
quelli riferiti alle inchieste sulle stragi.
Proprio quelle impressioni così negative ebbero tuttavia un peso nella
decisione che presi di lì a un mese e non mi stupì, perciò, la reazione di Mazza
quando gli comunicai la proposta della mia applicazione: mi disse che sbagliavo,
che era una sfida impossibile, che in quel contesto nulla poteva essere tentato.
Giudizi doppiamente scoraggianti, anche perché lui era noto per la sua
pacatezza, la sua signorilità, mentre nel raccontarmi di Caltanissetta, per la prima
volta, avevo di fronte un uomo deluso, rabbioso. E aveva ragione a esserlo: ma
questo lo verificai solo una volta arrivata in trincea.
Faccio fatica a trovare le parole per descrivere il mio ultimo mese a Milano,
prima della partenza. Nei momenti peggiori pensavo a Giovanni, al suo diritto di
vivere, di sorridere, di amare e mi convincevo che stavo facendo la cosa giusta.
Ma quando a quei pensieri si sovrapponevano il sorriso – o peggio, il pianto – di
mia figlia, i silenzi di mio figlio, i litigi con il mio compagno, venivo risucchiata
in una disperazione cieca. Emotivamente prevaleva la voglia di rimanere,
razionalmente no, perché avevo tutto il diritto di partire senza essere giudicata
dato che mi apprestavo a compiere una scelta totalizzante, lasciando fuori dalla
porta i figli, la famiglia, gli amici.
Arrivò infine il giorno della partenza. Un momento di cui non ricordo quasi
nulla, se non la consapevolezza che mi sarei ben presto ritrovata in un luogo
ignoto e ostile. Le sole note positive furono che uno dei miei collaboratori, il
brigadiere della guardia di finanza Gianni Fenu, volle seguirmi e che i miei
angeli custodi di allora – Sabrina, Michele, Sante e Antonio – avevano ottenuto
il trasferimento temporaneo in Sicilia, perché non volevano lasciarmi sola. Gesti
di autentica vicinanza, senza i quali sarebbe stata ancora più dura. Volti amici
che mi spronavano ad andare avanti senza bisogno di parole, bastavano gli
sguardi. La mia riconoscenza verso di loro è immensa.
Arrivai a Caltanissetta il 24 ottobre 1992. Mi recai in ufficio, dove fui accolta
dal procuratore Giovanni Tinebra e dai colleghi Paolo Giordano, Carmelo
Petralia, Pietro Vaccara e Fausto Cardella, tutti applicati in quella sede.
Giordano e Petralia erano in servizio a Catania, Vaccara a Messina, Cardella a
Perugia. Mi mostrarono il mio ufficietto, dove sarei rimasta per due lunghi anni.
Oltre alla mia scrivania c’erano la postazione per il brigadiere Fenu e una
cassaforte.
Dopo le presentazioni andai in albergo, il San Michele, dove un intero lato del
piano terra era stato adattato per garantire la sicurezza ai nostri alloggi.
L’albergo era confortevole. Chissà perché – venne da chiedermi quando ebbi
conosciuto meglio la città, non bellissima – qualcuno avrà pensato di costruire
proprio lì un hotel allora a cinque stelle, dotato persino di una pista per elicotteri.
Sistemai la mia roba e constatai che vi era un letto singolo, al quale non ero più
abituata, ma me lo sarei fatto bastare.
A tutela di noi magistrati era stato assegnato personale dell’esercito, già in
Sicilia per i “Vespri siciliani”, l’operazione decisa subito dopo Capaci per
controllare più efficacemente il territorio e salvaguardare gli obiettivi sensibili.
Per evitare che gli anfibi dei militari rovinassero la moquette, il pavimento
dell’ala del piano terra su cui si aprivano le nostre stanze era stato ricoperto da
grandi fogli di cellophane. I soldati erano ovunque: nelle parti comuni dell’hotel,
fuori dalla porta delle camere e io ne avevo pure uno fuori dalla portafinestra che
dava su un balconcino. Non potrò mai dimenticare il rumore degli scarponi che
stropicciavano il cellophane, né la paura dei primi giorni al minimo sussurro che
proveniva, in realtà, proprio dai soldatini che ci proteggevano. Sì, “soldatini”,
perché erano tutti dell’età di mio figlio Antonio. Lo dico con rispetto e tenerezza
infiniti, misti a rabbia per quella realtà fatta di armi a tracolla, sacchetti di sabbia
fuori dall’albergo, in prossimità del nostro corridoio, fuori dal palazzo di
giustizia. Nessun dubbio: eravamo in guerra.
L’albergo non era distante dal tribunale, direi meno di due chilometri. I primi
tempi mi venne assegnato un autista piuttosto anziano e molto miope. Lo capii
un giorno che, a causa di una forte pioggia, rimanemmo impantanati in una
pozzanghera larga e profonda che non aveva visto! Chiesi a Tinebra di
sostituirlo: “Va bene rischiare la vita,” dissi al procuratore, “ma non per un
incidente stradale...”. Tinebra non obiettò e per tutto il periodo successivo mi fu
assegnato Liborio, un bravissimo ragazzo, attento e scrupoloso, che legò sin da
subito con il personale della scorta e che, grazie al suo carattere, portava una
ventata di allegria nelle lunghe giornate di lavoro: dodici ore se non di più, a
seconda delle non rare emergenze.
Nel primo periodo i rapporti con i colleghi furono piuttosto freddi. Ci
guardavamo con diffidenza, ci studiavamo e non mi ci volle troppo tempo per
cogliere le (notevoli) differenze tra me e loro: soprattutto con Giordano, Petralia
e Vaccara; con Fausto Cardella mi parve invece più facile legare.
Per circa un mese, ogni giorno sono tornata al San Michele con i colleghi per
pranzo. Si mangiava benissimo, anche troppo, almeno per me che non ero
abituata a una pausa così lunga: dopo il pasto i colleghi andavano a riposare e
tornavano in ufficio verso le 17, per poi ricomparire dopo qualche ora per la
cena. Non sapevo come uscire da quella situazione senza urtare la loro
suscettibilità, e così mi inventai che ero dispiaciutissima, ma che a causa della
bontà del cibo stavo ingrassando troppo e non me lo potevo permettere (cosa
peraltro vicina al vero). Anche perché, con tutte quelle ore alla scrivania, non
riuscivo a fare sport o almeno qualche camminata (figuriamoci, io antisportiva
per eccellenza oltre che inamovibile pigrona!): dissi loro che sarei rimasta in
ufficio e che mi sarei limitata a un panino che mi avrebbe portato Liborio. La
scusa funzionò e con il tempo riuscii a non tornare nemmeno per cena: ordinavo
un pasto freddo, che trovavo in camera al rientro dal palazzo di giustizia.
Quante volte, in quelle serate di solitudine, chiusa nella mia stanza, mi è
capitato di dare sfogo alla tristezza! Tanto non mi vedeva nessuno e se pure mi
mancavano i miei figli, mi mancava il calore di chi mi voleva bene, la realtà era
che combattevamo una guerra: io avevo deciso di parteciparvi e quella mia
solitudine era il prezzo da pagare.
Nel primo periodo trascorso a Caltanissetta non riuscii a tornare a casa.
Proprio come aveva raccontato mesi prima Massimo Mazza, mi trovavo
sommersa da una valanga di carte senza un filo logico, migliaia di fogli da
leggere e da riordinare prima di poter elaborare una strategia investigativa.
Impiegai un mese a mettere un po’ d’ordine in quell’ammasso informe, grazie
anche all’aiuto del valoroso Fenu. Tinebra mi aveva portato nello stanzone in cui
si era installato anche l’avamposto della Dia e mi disse più o meno: “Cocca mia,
quelle sono le carte della strage di Capaci”, aggiungendo bonariamente un
“arrangiati!” perché gli altri colleghi “sono impegnati nelle indagini seguite al
pentimento di Leonardo Messina”, un importante mafioso che con le sue
dichiarazioni aveva consentito di individuare i responsabili di reati gravissimi
commessi nella provincia nissena, oltre a svelare intrecci tra la mafia locale e la
politica: dopo le verifiche svolte dal servizio centrale della polizia, i colleghi
sarebbero stati impegnati nella richiesta di misura cautelare nei confronti di
centinaia di indagati. Per giorni e notti lessi pagine e pagine di carte ferme da
mesi perché nessuna direttiva era stata impartita alle forze dell’ordine, che si
muovevano perciò in modo caotico e poco produttivo, pur desiderose com’erano
di contribuire a individuare gli assassini di colleghi e magistrati.
Per un mese riempimmo pagine di appunti per dare un senso a tutto quel
materiale e così, piano piano, prese a delinearsi sempre più chiaramente nella
mia testa il quadro di intervento. Per fortuna il procuratore Tinebra mi aveva
dato carta bianca, ero libera di convocare riunioni e anche di stabilire in
autonomia strategie che poi, ovviamente, comunicavo a lui come pure agli altri
colleghi.
Il primo che incontrai fu Arnaldo La Barbera, capo della Squadra mobile di
Palermo e coordinatore del gruppo Falcone-Borsellino, espressamente dedicato a
indagare sui responsabili delle stragi, voluto dall’allora capo della polizia
Vincenzo Parisi. Con La Barbera in passato c’erano state frizioni a causa delle
indagini sulla famiglia Fidanzati. In sostanza, ero venuta a sapere di servizi di
osservazione effettuati a Milano dalla Squadra mobile di Palermo proprio mentre
anche noi indagavamo sugli stessi clan, con il rischio di intralciarsi o di creare
incidenti: ne parlai con Giovanni che concordò sull’opportunità di non
“invadere” un territorio già presidiato da Ultimo con la sua squadra, da tempo
operativi in Lombardia. Com’era prevedibile, La Barbera non digerì il mio
intervento su Falcone, ma De Gennaro lo zittì ricordandogli da dove arrivava la
disposizione e aggiungendo che, se La Barbera non voleva irritare Falcone, era
bene “non toccare” la Boccassini.
A Caltanissetta feci a La Barbera un discorso franco e accorato, sottolineai che
la mia decisione di accettare quella sfida era basata anche sulla sua presenza e
che sapevo che Giovanni lo stimava al punto da affidargli la sua vita. Il burbero
funzionario – che una volta conosciuto meglio si rivelò un orso generoso e
simpatico – si limitò a bofonchiare un “va bene”, mi strinse la mano e così iniziò
una collaborazione durata fino alla fine.
Nel Dna di La Barbera mancava il gene del coordinamento con le altre forze di
polizia (specie con i carabinieri), ma gli avevo detto con chiarezza che, per
vincere quella guerra, dovevamo collaborare lealmente. Feci leva sul suo affetto,
sul profondo rispetto per Giovanni e così – sempre bofonchiando – anche su
questo impegno ricevetti il suo “va bene”.
Ultimo, diventato capitano, si trovava a Palermo già prima del mio arrivo in
Sicilia. Subito dopo le stragi aveva deciso di andare laggiù con i suoi uomini, ai
quali aveva ordinato di girare per i quartieri annusando la gente, insomma
mischiarsi ai palermitani senza farsi “sgamare”. Per un mese la squadra di
Ultimo aveva vagato per la città studiando le strade, memorizzando le vie di fuga
utili nei servizi di pedinamento, annotando i sensi unici, i divieti, i vicoli senza
uscita. La professionalità del gruppo e di chi lo coordinava era proprio in quei
gesti quotidiani e semplici ma fondamentali per salvare la pelle in casi estremi.
Dopo aver parlato a lungo con i consulenti, tra i quali operavano persone di
altissima professionalità come gli ufficiali della Marina militare, decisi che era
arrivato il momento di ripetere il sopralluogo a Capaci. Mi ero resa conto, infatti,
dell’approssimazione, delle carenze e dei dettagli sfuggiti alla prima analisi del
tratto di autostrada divelto dall’esplosione. Del resto, basta rivedere le foto e i
filmati di quell’intervento per rendersi conto della confusione che imperava e
dell’inadeguatezza dei rilievi effettuati. La zona non era stata recintata né chiusa
al pubblico, chiunque poteva accedervi liberamente. Non potevo nemmeno
escludere che in quelle prime, frenetiche ore potessero essere stati portati via
come macabri souvenir frammenti di asfalto, di guardrail, magari oggetti o pezzi
di tessuto per non dire di peggio, che avrebbero potuto essere utili per le
indagini. Sulla scena dell’attentato, insomma, mancava solo il venditore di “pane
e panella” e il quadro folcloristico sarebbe stato completo.
La riunione per stabilire i compiti di ognuno durante il sopralluogo fu
snervante: bisognava mettere d’accordo consulenti, poliziotti, carabinieri,
guardia di finanza, vigili urbani, vigili del fuoco, nonché personale dell’Fbi,
inviato dall’allora direttore Louis Freeh, amico e collaboratore di Giovanni. Un
summit faticoso, ma alla fine ben riuscito: ognuno uscì dalla stanza soddisfatto e
con le idee chiare. Si percepiva nell’aria un che di esaltante: ognuno era
consapevole dell’apporto che poteva dare, senza gelosie, invidie né voglia di
primeggiare. Tutti eravamo animati esclusivamente dal desiderio di dare un
volto agli assassini di Giovanni, Francesca e dei tre giovani della scorta.
Insomma, fu una bella giornata. Tornai in albergo stravolta e piansi, sentivo su di
me il peso di tutta quella complessa organizzazione e, al solito, non ero sicura di
essere all’altezza. Mi addormentai con il fruscio degli anfibi sulla plastica del
corridoio e il parlottio discreto dei soldatini di guardia.
Tuffarsi nel lavoro, restare in ufficio fino a notte fonda, era l’unico modo per
attutire i sensi di colpa, che mi portavo dentro nonostante tutte le battaglie per
l’emancipazione e l’aver vissuto gli anni del femminismo. Stordirsi di lavoro,
scelta peraltro obbligata data la mole di incombenze e la concentrazione
necessaria, era un modo per difendermi dal resto del mondo, per dimenticare il
pianto di mia figlia, che chiedeva – che giustamente pretendeva – di avermi a
fianco nella quotidianità, e i duri sguardi di mio figlio, che assisteva con
angoscia al progressivo sgretolarsi della famiglia.
Perché una donna non riesce a scrollarsi di dosso tutto questo? Per debolezza?
Per atavica sopportazione? Sta di fatto che, mentre trascorrevano i giorni
siciliani, sentivo prevalere in me il richiamo dei miei diritti, la mia scelta di
sbagliare, di cadere nel baratro, il diritto di vivere la mia battaglia. Dovevo
ammettere che volevo essere a Caltanissetta, che volevo scoprire gli assassini di
Giovanni, che quel percorso era totalizzante e non ammetteva ripensamenti né
cedimenti.
In quel periodo ebbi modo di frequentare di più Fausto Cardella, con il quale
nacquero una bella amicizia e una fattiva collaborazione.
Lui si occupava principalmente delle indagini sulla strage di via D’Amelio,
mentre io conducevo quelle sull’attentato di Capaci. Ci confrontavamo su tutto,
anche se ognuno di noi sviluppava i segmenti di indagine che riteneva più
opportuni.
Nei primi giorni di dicembre, in una giornata ancora tiepida, procedemmo al
nuovo sopralluogo a Capaci. La zona venne divisa in settori, fu ispezionata ogni
zolla di terra e contemporaneamente perquisite alcune abitazioni circostanti. Tra
queste una baracca, appartenente a tal Giovanni Battaglia, una catapecchia che si
sarebbe rivelata un elemento di grande importanza. Nonostante la contrarietà del
dottor La Barbera, che escludeva categoricamente la mia presenza sul posto –
una donna, per di più magistrato, non sarebbe stata vista di buon occhio –, decisi
di andare proprio in quanto donna e titolare delle indagini.
Capii che la contrarietà di La Barbera era dettata da un senso di protezione ma,
ragionando tra noi qualche giorno dopo, anche lui convenne che la mia
partecipazione era stata un segnale forte e opportuno, lanciato come una sfida al
mondo mafioso: come istituzione e come spregio per la loro becera cultura
maschilista.
Come dimenticare l’ostilità che esondava dagli occhi di quel Battaglia: non
solo perché stava subendo una perquisizione, ma perché a condurre le operazioni
era una donna. L’uomo, completamente preda del suo odio, tentò persino di
aggredirmi, ma fu allontanato dagli agenti che mi guardavano a vista in quel
frangente inedito e quanto mai delicato. Ebbi paura, fino a pensare che forse il
mio gesto fosse stato una provocazione eccessiva. Ma il dubbio durò solo un
attimo: quello era senz’altro il mio posto, in quel momento.
Mesi dopo ebbi conferma che la baracca di Giovanni Battaglia era stata una
tappa importante nella preparazione dell’attentato: in quella casupola, infatti, si
erano nascosti gli uomini del commando, per attendere il corteo delle auto di
Falcone e dare il segnale per l’esplosione.
Oggi Battaglia sta scontando l’ergastolo. Io sono qui a raccontare la mia storia.
7.
Buscetta e la questione dei pentiti

Di Tommaso Buscetta sapevo molto, avevo letto le sue deposizioni, conoscevo


la sua storia, il suo destino che aveva incrociato quello di Falcone. Che tenerezza
rivedere in televisione i verbali di interrogatorio scritti a mano da Giovanni con
l’inchiostro verde della sua inseparabile Montblanc... Mesi e mesi di
dichiarazioni che Buscetta aveva deciso di affidare solo a Falcone, a quest’uomo
dello Stato, come unica forma di rivalsa contro una mafia che gli aveva ucciso
figli, cognati, nipoti. Anche se non ha mai smesso di essere un mafioso e di
sentirsi tale. Non sta a noi giudicare l’uomo: Buscetta ha saldato il suo conto con
la giustizia e credo – anzi sono certa – che per tutta la vita sia stato tormentato
dai fantasmi delle persone care morte a causa della sua scelta di collaborare. Di
un’altra cosa sono certa: era sincero il suo dolore per la morte di Falcone.
Il rapporto tra il magistrato e l’uomo di Cosa nostra è stato da subito
improntato al rispetto reciproco, entrambi erano consapevoli delle rispettive
collocazioni nello Stato e nell’anti-Stato. Al pari di tutti gli altri, anche Buscetta
percepiva l’autorevolezza di Giovanni e, sebbene siano stati a stretto contatto per
molti anni, non si sono mai dati del tu, così distanti da non ammettere alcun
ammiccamento. Anche in questo consisteva l’unicità di Giovanni.
Quante volte ho sentito pubblici ministeri dare del tu a un collaboratore,
quante volte ho visto instaurarsi un falso rapporto amicale che, purtroppo, in
alcuni casi è servito ai mafiosi per intuire le aspettative di chi li stava
interrogando, fino ad adattare a tali aspettative le proprie dichiarazioni. Per non
parlare degli interrogatori resi alla presenza di più pubblici ministeri e di diversi
ufficiali giudiziari, in quel crescendo di confusione e di accavallarsi di domande
che provocano sconcerto nell’imputato o, peggio, favoriscono chi sa come
approfittare di questo scarso rigore. Quante carriere si sono sviluppate a scapito
della verità e dell’obiettività in questi ultimi trent’anni? Preferisco non pensarci,
anche se solo a sentir parlare di “eredi del metodo Falcone sulla gestione dei
pentiti” mi si torce lo stomaco.
Buscetta aveva deciso di tornare in Italia dall’America, dove viveva sotto falsa
identità, dopo la morte di Giovanni. Quando lo incontrai per la prima volta nella
sede centrale della Dia a Roma, alla presenza di alcuni colleghi e di funzionari di
polizia, ero già applicata a Caltanissetta. Restai subito colpita dall’intonazione
della sua voce, pacata ma non sommessa, dal suo modo di gesticolare, dallo
sguardo sempre vigile, dal dolore che traspariva ogni volta che pronunciava il
nome del magistrato che aveva cambiato per sempre la sua vita.
A un certo punto, Buscetta aveva girato lo sguardo verso di me. Fu una
questione di secondi: quell’uomo sapeva della mia amicizia con Giovanni ed era
al corrente della mia scelta di andare in Sicilia per indagare sulla sua morte. Tutti
questi pensieri mi erano scoppiati dentro nello stesso momento, non avevo
resistito all’emozione e le lacrime erano sgorgate, irrefrenabili. Non avevo avuto
alcuna remora a piangere davanti a lui e a tutte le altre persone presenti. Ricordo
il suo sguardo posato su di me: prima stupito, poi con una luce di tenerezza. O
almeno così mi parve.
Comunque aveva continuato a parlare, ribadendo che era a disposizione della
giustizia e che sarebbe rimasto in Italia per tutto il tempo necessario alle
indagini. Non aveva mancato di sottolineare la solitudine che aveva vissuto
Giovanni, di deprecare quanti lo avevano tradito, alludendo chiaramente ai suoi
colleghi, ma senza fare nomi. Da buon siciliano sapeva che i presenti avrebbero
colto il messaggio e, soprattutto, concludendo, aveva voluto ribadire che non
c’erano eredi di Falcone. A quel punto aveva salutato i presenti con una stretta di
mano e quando toccò a me aveva sussurrato: “Ci rivedremo”.
Gianni De Gennaro non aveva partecipato all’incontro, ma, evidentemente
aggiornato dai suoi uomini, nel pomeriggio mi aveva telefonato chiedendomi di
tornare nella sede della Dia perché mi voleva parlare. Dato che mi trovavo
ancora a Roma, avevo accettato l’invito senza alcun problema. Appena soli nel
suo ufficio, De Gennaro mi aveva apostrofato in tono aspro, perché avevo pianto
davanti a tutti. E aveva aggiunto che, se non ero in grado di governare la mia
emotività, sarebbe stato meglio per tutti se fossi tornata a Milano. “Il compito
che ti è stato affidato è troppo importante per metterlo a rischio con i piagnistei.”
Parole pesanti, ma non avevo reagito. Sapevo che aveva ragione e io stessa non
ero convinta di potercela fare, ma sapevo anche che dovevo provarci e che avrei
fatto di tutto per riuscire.
Durante la sua permanenza romana, incontrai Buscetta altre volte nella sede
della Dia. Parlavamo di tante cose: di Giovanni, del momento storico cupissimo
che stava vivendo il nostro Paese, della sua nostalgia per la Sicilia e della
consapevolezza che non ci sarebbe più tornato. Erano conversazioni, non
interrogatori e in quelle occasioni non affrontammo mai il tema delle indagini o
gli argomenti di cui avrebbe successivamente parlato con i colleghi, ossia i
rapporti tra Cosa nostra e politica.
Che tipo di relazione si era instaurata tra me e Buscetta? Certamente non di
amicizia, almeno non nel significato che io do a questo termine. Ci rispettavamo,
questo sì, e la considerazione che Buscetta aveva per me credo fosse dettata dal
fatto che mi ero messa in gioco, avevo sfidato il pensiero comune per gettarmi in
un’avventura sicuramente più grande di me. Sapeva della genuinità del mio
rapporto con Giovanni e De Gennaro aveva fatto la sua parte, raccontando di me,
della fiducia che riponeva nei miei confronti e di quanto Giovanni mi stimasse.
Era all’interno di questa strana dimensione (ma in quel periodo la normalità non
era all’ordine del giorno) che incontravo Buscetta.
Conservo in particolare il ricordo di due occasioni. La prima, nell’autunno
1993, fu a cavallo del pentimento di Santino Di Matteo, uno degli esecutori della
strage di Capaci. Il Dna di Di Matteo era stato recuperato su alcuni mozziconi di
sigaretta ritrovati sul monte Pellegrino, nel punto in cui il commando si era
posizionato in attesa di far saltare in aria le auto di Giovanni e della scorta.
Quando Santino Di Matteo manifestò al direttore del carcere di Pianosa la
decisione di collaborare, i funzionari della Dia si recarono subito sull’isolotto per
prelevarlo e condurlo in una località sicura, in attesa degli interrogatori da parte
dei pubblici ministeri.
Io mi trovavo a Milano per il weekend quando Tinebra mi telefonò per
comunicarmi la notizia. Dissi al procuratore che sarei tornata a Caltanissetta con
il primo aereo e rimanemmo d’accordo che avremmo interrogato
immediatamente Di Matteo. Ero addirittura euforica quando cominciai a
preparare il bagaglio: poche cose, dato che avevo già in Sicilia tutto quello che
mi serviva. Ma poco dopo ricevetti un’altra telefonata dallo stesso Tinebra: “Fai
pure con calma,” mi disse, “perché tanto il primo interrogatorio lo farà la
procura di Palermo. Anzi, andrà Caselli in persona”. A quella notizia sentii
montare l’indignazione: era una decisione sbagliata, eravamo noi a indagare
sulle morti dei colleghi e dovevamo essere noi a porre al nuovo collaboratore le
primissime domande sulla strage. Pregai Tinebra di imporsi, di far presente a
Caselli l’incongruità di quella scelta, ma il procuratore mi invitò a portare
pazienza e concluse la telefonata augurandomi di trascorrere un buon weekend
milanese.
Non mi arresi. Telefonai a De Gennaro (Di Matteo era sorvegliato dalla Dia) e
gli chiesi cosa fosse accaduto. Mi ribadì che Caselli sarebbe stato il primo a
interrogarlo. Al che esternai anche a lui tutta la mia contrarietà, sottolineai che
mi stavo “facendo il mazzo” in Sicilia tra mille difficoltà e gli ricordai quanto
fosse sbagliato che a interrogare Di Matteo non fosse la procura di Caltanissetta,
la sola in grado di verificare la genuinità delle dichiarazioni, perché aveva alle
spalle mesi di attività proprio su quel filone. Non ci fu nulla da fare. Addebitai a
De Gennaro la responsabilità di non essere riuscito a convincere Caselli a
desistere. Sapevo che Tinebra non sarebbe mai entrato in frizione con Palermo,
certo più per quieto vivere che per galateo istituzionale.
Per me non si trattava di mettere un’altra tacca sul tabellone dell’Antimafia,
ma di difendere il lavoro svolto e di cogliere un’occasione importantissima per
fare passi avanti nell’indagine. Quindi resto convinta di aver assistito, impotente,
a una prevaricazione. Sentii la necessità di scrivere a De Gennaro una lettera
personale – anzi, molto personale – pregandolo di cestinarla dopo averla letta.
Da quel momento, i nostri rapporti cessarono, almeno per un periodo.
Capitò, qualche tempo dopo, di partecipare a un confronto tra Buscetta e
Salvatore Cancemi, che dopo essersi costituito ai carabinieri aveva anche
iniziato a collaborare. All’atto istruttorio eravamo presenti molti – troppi –
magistrati. Non appena concluso il confronto, Buscetta salutò tutti con
educazione e, nello stupore generale, chiese di poter parlare con me, a tu per tu.
Andammo in una stanza per conversare liberamente, mi sedetti e, con mia
enorme sorpresa, senza proferire parola, anziché sedersi a sua volta si mise in
ginocchio davanti a me. Buscetta cominciò a spiegare che aveva letto la mia
lettera di veemente protesta a De Gennaro, che sapeva del nostro litigio a
proposito dell’interrogatorio di Di Matteo, e dichiarò la sua necessità di ripartire
per gli Stati Uniti con la certezza di poter contare sui riferimenti che aveva in
Italia: “Per questo, dottoressa, la prego con il cuore in mano di fare pace con il
dottore De Gennaro”.
Ero attraversata da sentimenti opposti. Da un lato provavo disappunto perché
Gianni aveva mostrato a un estraneo quella mia lettera esplicita e assolutamente
personale; dall’altro, ero contenta che lo avesse fatto, vivevo quel gesto come
una sorta di liberazione, anche perché ero certa che Buscetta non ne avrebbe mai
fatto parola con nessuno. Dopo quella richiesta, riallacciai i rapporti con De
Gennaro, anche se non abbiamo mai più parlato della mia lettera né dei motivi
per cui aveva deciso di farla leggere a Buscetta.
A pensarci adesso, a distanza di anni, mi rendo conto di come quella
situazione fosse anomala, paradossale, ma allora vivevo come su un altro pianeta
e mi sembrava accettabile (anche se non lo era) affidare i miei segreti a un
mafioso.
Nelle mie insensatezze di quel periodo vivevo Buscetta e De Gennaro come i
miei soli legami con Giovanni, arrivando a immaginare che fosse ancora vivo e
nascosto in un posto sicuro, noto solo a De Gennaro. È pazzesco, lo so, ma
questa fantasia che sfiorava il macabro mi aiutava. A nulla valeva la realtà
inoppugnabile delle foto del suo corpo disteso sul lettino d’acciaio dell’obitorio,
immagini che di tanto in tanto guardavo per trovare anche così la forza di
sopravvivere senza di lui.
Il secondo ricordo che mi collega a Tommaso Buscetta ha come scenario gli
Stati Uniti. Se non mi sono mai pentita di aver scritto quella lettera finita nelle
mani di un estraneo, sono invece sinceramente rammaricata per aver contribuito,
nel nostro ultimo incontro, a convincere Buscetta a raccontare ciò che sapeva sui
rapporti tra mafia e politica. Ma è quanto accadde nel corso della trasferta negli
Usa per interrogare lui e Marino Mannoia, un altro importantissimo
collaboratore.
Ingenuamente, molti tra noi erano stati fuorviati o avevano voluto sperare nella
volontà di riscossa sulla mafia dichiarata dalle istituzioni – e rivelatasi effimera –
subito dopo le stragi firmate dai Corleonesi. Nell’immediatezza, in effetti,
c’erano stati segnali incoraggianti, come l’approvazione di leggi che andavano
nella direzione giusta, l’introduzione dell’articolo 41bis nell’ordinamento
penitenziario, per impedire ai boss di comandare anche da dietro le sbarre, i
mezzi e le risorse messi a disposizione delle forze dell’ordine, il numero
crescente di affiliati a Cosa nostra che grazie alle nuove regole decidevano di
collaborare con la giustizia.
Partimmo quindi per oltreoceano fiduciosi, benché consapevoli del fatto che,
se le dichiarazioni avessero toccato temi scottanti, sarebbe stato necessario
gestire quei filoni con grande rigore. Proprio per questo mi interrogavo sulla
tenuta dei partecipanti alla trasferta, pur contando sulle qualità professionali e
sulla persona di Gian Carlo Caselli, nominato all’unanimità procuratore della
Repubblica di Palermo.
Il gruppo decollato dall’Italia era così composto: il procuratore Tinebra,
Carmelo Petralia e io, per la procura di Caltanissetta; Gian Carlo Caselli e Guido
Lo Forte per la procura di Palermo; Francesco Gratteri, all’epoca funzionario
della Dia nonché uomo di fiducia di De Gennaro. Completavano la folta
delegazione un interprete e l’avvocato Luigi Li Gotti, difensore dei due
collaboratori di giustizia.
La nostra meta era New York, dove ci aspettava un clima glaciale, 10 gradi
sotto lo zero. Per ragioni di sicurezza viaggiavamo sotto falso nome, ma non
ricordo quello che mi appiopparono. Arrivati negli Usa, avevamo trovato ad
attenderci in aeroporto i funzionari dell’Fbi e una squadra di marshal, gli agenti
deputati alla protezione dei pentiti, che in quel caso dovevano garantire la nostra
sicurezza.
Arrivammo in albergo che era quasi ora di cena, chiesi e ottenni una stanza per
fumatori, ignorando gli sguardi di disapprovazione puntati su di me. Giusto il
tempo di salire in camera, posare i bagagli, darsi una sistemata e poi ci saremmo
ritrovati nella hall per andare a cena. Ad attenderci, diverse automobili con i
vetri oscurati e tutto intorno i tenebrosi marshal dal viso imperturbabile, che non
ho mai visto aprirsi in un sorriso. Primo imprevisto: tramite l’interprete, Caselli
chiese di passare prima in un supermercato perché aveva dimenticato la spazzola
e la lacca per i capelli. Tutti ricorderanno la magnifica chioma di Gian Carlo e il
suo impeccabile ciuffo bianco, ma ovviamente il dettaglio non era così noto
oltreoceano e, stavolta, l’espressione sul volto dei marshal e le occhiate che si
scambiarono tradirono non solo una certa sorpresa ma anche un freddo
disappunto per il fuori-programma. Comunque, come da richiesta, la prima tappa
fu un market nei paraggi e quindi, finalmente, il ristorante.
Il giorno dopo, il primo interrogatorio, quello di Marino Mannoia, si teneva
nei locali del dipartimento di Giustizia dove era rigorosamente vietato fumare.
Tuttavia, dopo ore di verbalizzazione, mi rifugiai con Guido Lo Forte in un
angolino riparato da una pianta e, aspirando con voluttà, ci concedemmo una
sigaretta. Ma, ahimè, i sensori antincendio erano molto sensibili e così scattò
l’allarme. Come ladri che rischiavano di essere colti in flagrante, Guido e io
gettammo i mozziconi nel vaso e ci allontanammo a passo svelto per non essere
indicati come la causa del trambusto.
Ricordo poco della deposizione di Mannoia, se non che erano presenti troppe
persone. Il collaboratore appariva (o voleva mostrarsi) spaesato, davanti a certe
domande – in particolare quelle sui magistrati collusi – prendeva tempo dicendo
che soffriva di una forte emicrania (una scusa, secondo me). Va anche detto che
Tinebra, capo della procura competente per i fatti che riguardavano magistrati in
servizio a Palermo, non insistette più di tanto. Magari mi sbagliavo, ma avevo la
sensazione che Mannoia sapesse molto più di quello che diceva. Ma era frenato
da cosa? Dai magistrati presenti? Dalla convinzione che non si sarebbe indagato
a sufficienza? Impossibile saperlo.
Venne il turno di Buscetta. A quel punto ci comunicarono in modo spiccio che
avremmo dovuto raggiungere don Masino in Florida. Misure di sicurezza, certo,
ma qualcuno avrebbe potuto avvertirci che metà della missione si sarebbe svolta
a -10° e l’altra metà a +30°. Né ci venne dato il tempo per provvedere. Così, il
nostro arrivo all’aeroporto di Miami fu da comica: noi sudati, con i montoni, i
piumini e le sciarpe in mano, scarpe pesanti ai piedi e dovunque intorno camicie
variopinte, sandali e sguardi incuriositi, come fossimo marziani.
Meglio non riferire le nostre espressioni più che colorite, indirizzate a chi non
ci aveva avvertiti di quella tappa in Florida. E neppure finì lì, perché dopo una
notte in un albergo orribile, ci venne imposto un ulteriore spostamento a Fort
Lauderdale, dove finalmente avremmo incontrato Buscetta. Faceva davvero
molto caldo e io, ovviamente più attenta all’abbigliamento rispetto al gruppo di
uomini con cui viaggiavo, ero meglio organizzata e potei permettermi il “lusso”
di indossare una camicetta di seta a maniche corte e persino un paio di
mocassini, togliendo le calze. I colleghi se la passarono decisamente peggio.
Arrivati a Fort Lauderdale, fummo confinati per la notte in un altro albergo
scadente, ma poco mi importava perché eravamo stremati per il viaggio, la
tensione per l’interrogatorio imminente, il caldo opprimente. Le sorprese, però,
non erano finite. Ero pronta per andare a dormire quando sentii bussare alla
porta. Stupita e anche leggermente impaurita, sussurrai più volte: “Chi è?” fino a
quando non riconobbi la voce di Caselli. Aprii, guardandolo perplessa e
sentendomi un po’ in imbarazzo dato che ero già in camicia da notte. Per un
attimo pensai addirittura a un tentativo di corteggiamento, ma ben altro era il
motivo di quella visita notturna. Gian Carlo era irritatissimo perché nella
dotazione della camera mancava uno strumento essenziale, il phon, che
nemmeno alla reception erano riusciti a procurargli. Così si era deciso a bussare
alla porta dell’unica donna del gruppo, certo che ne avessi portato uno dall’Italia.
Tanto certo che mi chiese direttamente: “Mi dai il tuo phon?”. Mi veniva un po’
da ridere, ma mi trattenni e gli risposi che non l’avevo, perché ero pienamente
soddisfatta dei miei riccioli ribelli. Mi guardò come se avesse appena ascoltato
un’eresia e se ne andò scuotendo il capo.
Probabilmente, prendersi cura della sua chioma candida era un modo per
esorcizzare la tensione. Ma quando nel film Il divo ho visto la scena in cui
l’attore che interpreta Caselli si osserva attentamente allo specchio e si spruzza
la lacca sui capelli, mi sono chiesta se Sorrentino avesse saputo di quella
coltivata attenzione direttamente da Gian Carlo o da qualcuno che lo conosce
molto bene.
La mattina seguente ci portarono all’appuntamento con Buscetta. Su sua
richiesta, prima di cominciare la deposizione, io e Francesco Gratteri lo
incontrammo da soli. Buscetta ci disse di essere molto dubbioso su ciò che era
opportuno mettere a verbale, perché secondo lui, nonostante l’emozione
suscitata dalle stragi, il Paese non era ancora pronto a fare i conti con la sua
storia. Il suo fu un discorso generale, non accennò minimamente a ciò che
sapeva né fece nomi. Indecisa su cosa rispondergli, mi limitai a dirgli che
doveva a Giovanni una leale collaborazione con la giustizia e che doveva fidarsi
di Caselli. In quel momento non pensavo al contesto in cui lo stesso Caselli si
sarebbe dovuto muovere.
Di lì a poco cominciò la deposizione vera e propria in cui Buscetta rispose alle
domande dei colleghi di Palermo. Che cosa successe dopo è noto. Da quelle
dichiarazioni nacquero i processi sui presunti legami di Giulio Andreotti con
Cosa nostra e il coinvolgimento della mafia nell’omicidio del giornalista Mino
Pecorelli. Falcone scriveva:
Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili.
Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua
colpevolezza significa rendere un pessimo servizio. Il mafioso o il colluso verrà rimesso in libertà o
assolto, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Solo il
rigore professionale di magistrati e investigatori darà alla mafia la misura che la Sicilia non è più il
cortile di casa sua e quindi servirà a smontare l’insolenza e l’arroganza del mafioso che non si inchina
all’autorità dello Stato. I risultati si ottengono con un impegno duro, continuo, quotidiano. Senza bluff.
Senza dilettantismi. Dato che la lotta che stiamo combattendo è una vera e propria guerra con i suoi
morti e i suoi feriti, come tutte le guerre deve essere combattuta con il massimo impegno e la massima
serietà.

Giovanni ha insegnato a tanti l’importanza di termini come laboriosità,


autoeducazione, disciplina. Prudenza nell’agire senza provocazioni e sfide
inutili, prudenza nel giudicare rispettando la verità anche quando non ci serve,
contraddice le nostre convinzioni o smentisce un teorema comune. Senza entrare
nel merito delle vicende giudiziarie scaturite dall’interrogatorio di Buscetta, mi
limito a dire che dopo le sue dichiarazioni era doveroso investigare, ritirare fuori
e riesaminare vecchie carte, cercare riscontri anche se i fatti risalivano a molti
anni addietro (Pecorelli fu ucciso nel 1979), insomma non si poteva fare a meno
di frugare nelle pieghe della storia per trovarne le angolazioni più nascoste. Un
compito difficile, che ha impegnato lungamente i colleghi, anche se a mio avviso
con qualche eccesso di clamore mediatico.
Mi spiego. Quando, per provare le accuse, un pubblico ministero ha bisogno di
citare decine di testimoni, o di chiedere al tribunale di far acquisire una vignetta
(quella di Forattini, che aveva disegnato Andreotti come fosse Nostro Signore,
che teneva accanto i cugini Salvo), significa che l’impianto accusatorio è debole
e, oltretutto, si contribuisce alla dilatazione oltremisura del dibattimento. Ma un
processo che dura anni è inaccettabile, specie se a essere imputate sono figure a
vario titolo facenti parte delle istituzioni. Il “popolo”, in nome del quale
agiscono i magistrati, ha diritto di sapere in tempi ragionevoli se una persona cui
il voto ha affidato rappresentatività e potere è responsabile oppure no di reati
infamanti. E l’accusato, come qualunque imputato, ha diritto di conoscere la
propria sorte in tempi altrettanto rapidi. È di questo genere di errori che si
nutrono quanti vogliono minare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
A riprova di questa mia tesi, cito il fatto che l’indicazione di una lista
strabordante di testimoni sarebbe stata adottata, anni dopo, dalla difesa di Silvio
Berlusconi e Cesare Previti, all’unico scopo di allungare i tempi processuali e
allontanare il verdetto finale. Nel caso dell’ex premier e dei suoi sodali, peraltro,
il cocktail micidiale per difendersi dal processo prevedeva anche leggi ad
personam, raffiche di ispezioni ministeriali, ricorsi al Csm e persino denunce
contro i pm per fantasiosi reati che sarebbero stati commessi nell’esercizio delle
loro funzioni.
Accostare le tattiche dell’accusa e quelle della difesa non è una forzatura,
poiché, a volte, gli estremi si toccano: tanto la “sovrafatturazione” dei testimoni
quanto la sterminata documentazione depositata nei processi, inutili per
dimostrare le tesi accusatorie o difensive, rendono un cattivo servizio alla
giustizia.
Mi pare utile, a questo proposito, richiamare alcune considerazioni dello stesso
Falcone riportate nel libro Cose di Cosa nostra, pubblicato nel novembre del
1991:
Oltre ad avermi insegnato una lingua e una chiave di interpretazione, Buscetta mi ha posto di fronte a un
problema decisivo. Mi ha fatto comprendere che lo Stato non è ancora all’altezza per fronteggiare un
fenomeno di tale ampiezza. Con grande franchezza mi ha detto: “Le dirò quanto basta perché lei possa
ottenere alcuni risultati positivi senza tuttavia che io debba subire un processo inutile. Ho fiducia in lei,
come ho fiducia nel vicequestore De Gennaro. Ma non mi fido di nessun altro. Non credo che lo Stato
italiano abbia veramente l’intenzione di combattere la mafia”. E ha aggiunto: “L’avverto, signor giudice.
Dopo questo interrogatorio diventerà una celebrità ma cercheranno di distruggerla fisicamente e
professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto aperto con Cosa nostra non
si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”. Così ebbe inizio la collaborazione. Anche durante
quel periodo fecondo, ho sempre evitato di scambiare ipotesi di lavoro con la realtà. Ho sempre saputo
che molte di esse, benché meritevoli di essere esplorate, erano del tutto al di fuori delle mie possibilità e
delle forze a mia disposizione. Ho sempre evitato di prendere iniziative che non avessero qualche
ragionevole possibilità di successo.

Non c’è dubbio che, a seguito delle stragi, grazie soprattutto all’entrata in
vigore delle Direzioni distrettuali antimafia, all’approvazione di leggi importanti
e a una presa di coscienza collettiva, il contrasto al crimine organizzato si fece
più incisivo; fondamentale fu il proliferare dei collaboratori, persone che, se
gestite bene, potevano portare “nelle casse dello Stato” ingenti patrimoni di
conoscenza. Mi chiedo se la magistratura fosse pronta a gestire quel patrimonio,
se avesse digerito la centralizzazione delle indagini e la creazione delle Dda,
visto che alla proposta di Giovanni, poi diventata legge, si oppose la quasi
totalità dei pubblici ministeri da Milano a Palermo, con un’unica voce di
dissenso, quella di Pier Luigi Vigna. Anche Paolo Borsellino firmò il documento
che prendeva le distanze dalle scelte e dalle teorie di Giovanni, che di questo
soffrì tantissimo: non solo perché si sentì pugnalato alle spalle, ma soprattutto
perché Borsellino sapeva perfettamente che concentrare le indagini era l’unico
modo per contrastare davvero la mafia.
In tutti questi anni non ho sentito i colleghi ricredersi, nemmeno quelli, la
stragrande maggioranza, che nei fatti si sono resi ben conto che Falcone aveva
visto giusto, che la sua visione rivoluzionaria e nello stesso tempo quasi banale
era l’unica strada da percorrere. All’epoca non ero stata neanche interpellata su
questi argomenti, già scontavo la mia vicinanza a Falcone e il fatto che, in
seguito agli attacchi alla sua integrità e alla sua professionalità, avevo stracciato
la tessera di Magistratura democratica.
Paradossalmente l’attentato di Capaci ha tolto dall’imbarazzo molti dei suoi
nemici e dei colleghi a lui ostili. Infatti Falcone non sarebbe diventato
procuratore nazionale antimafia perché le correnti, compresa Md, erano schierate
nella quasi totalità per Agostino Cordova, magistrato modesto, come pure i
membri laici in quota al centro-sinistra. A mostrarsi titubante era stato solo il
consigliere togato Elvio Fassone, che mi telefonò. Mi sembrò veramente
tormentato per la decisione da prendere, chiese la mia opinione e così decisi di
scrivergli questa lettera, di poco precedente alla strage:
Carissimo Elvio, se non ne avessimo parlato stamane al telefono, non avrei mai trovato il coraggio di
scrivere queste poche righe. Non credo, e per questo mi scuso fin da ora, di riuscire a tirar fuori dal mio
cuore tutto quello che penso circa la ormai nota “vicenda Falcone”. Probabilmente il mio pessimismo di
fondo deriva anche dalla mia situazione personale ma, forse, sono proprio gli accadimenti di questi
ultimi mesi che mi consentono di essere molto più vicina al collega e di essere nello stesso tempo – per
quanto può sembrare assurdo – più distaccata emotivamente sulle valutazioni che si possono trarre dagli
avvenimenti del caso.
Non ci conosciamo abbastanza e quindi non hai tutti quegli elementi necessari per valutare il mio modo
di essere e le mie scelte di vita. Io ritengo, invece, se vuoi con un pizzico di presunzione, di potermi
rivolgere a un uomo che ho sempre apprezzato come persona dotata di grande forza interiore e capace,
quindi, di capire questo mio sfogo e di giustificarlo. Sicuramente due cose ci accomunano: l’aver creduto
e credere nella funzione del nostro ruolo di salvaguardia, nel pieno rispetto dei principi costituzionali e
delle leggi, degli interessi dei cittadini, soprattutto di quelli che non vogliono soccombere all’arroganza
del potere e alla distruzione dello Stato democratico.
In tutti questi anni, insieme a tanti altri colleghi abbiamo combattuto contro le forme perverse del potere,
anche all’interno della nostra categoria, che volevano una magistratura asservita e arroccata su scelte
reazionarie del tutto avulse dalle istanze sociali provenienti dai soggetti più deboli. Sono convinta che chi
ti ha consentito con il proprio voto di sedere su quella poltrona non comoda e non facile al Csm lo abbia
fatto nella convinzione di vedersi rappresentare in quella sede da un uomo capace soltanto di far
prevalere la forza della ragione sulle ottuse regole di schieramento. Posso immaginare che cosa provi in
questo momento e quali difficoltà puoi avere all’interno del gruppo che rappresenti, ma sono convinta
che non pochi magistrati saprebbero apprezzare una tua scelta coraggiosa; io sono una di questi non
perché sono stata plagiata in questi anni dal “fascino del mito Falcone”, ma perché, lavorandoci assieme
giorno dopo giorno, ne ho potuto apprezzare non solo l’enorme professionalità ma, cosa più importante,
la sua integrità morale, il suo coraggio, la sua umiltà e, cosa che può apparire assurda ai più, la sua
mancanza di qualsiasi forma di protagonismo. Quello che mi amareggia e mi provoca un dolore
indicibile in questi giorni è che in molti ritengono Giovanni persona ormai condizionabile dal potere
politico.
È vero che tra me e Giovanni esiste, oltre il legame professionale, una meravigliosa amicizia e forse a
causa di questo legame posso apparire parziale e quindi poco affidabile. L’unico torto che mi sento di
dover riconoscere a Giovanni in questi anni è quello di aver dato poco di sé come uomo. Il suo carattere
schivo è stato scambiato per presunzione e arroganza da chi evidentemente non voleva capire, ed è per
questo che il “mito Falcone” voluto dalla stampa è prevalso sull’uomo; nessuno si è preoccupato,
neanche le persone a lui più vicine, di considerare Giovanni soprattutto un uomo, con le sue debolezze, le
sue paure, le sue cadute. Con me è stato diverso, forse perché sono una donna e non mi sono mai posta
nei suoi confronti in un rapporto di conflittualità e di gelosia, ero consapevole della sua enorme
esperienza, lo vedevo e lo vedo come un buon maestro da cui apprendere.
Giovanni in tutti questi anni ha rinunciato a vivere perché, quale servitore dello Stato, riteneva doveroso
esercitare al meglio le sue funzioni istituzionali, e non certo perché si ritenesse un giudice vendicatore o,
ancor peggio, unico detentore della verità.
Se oggi i giovani – nostra unica speranza di un mondo migliore – si ribellano e continuano a credere a
qualcosa nelle tormentate terre del Sud, se si discute di mafia, se oggi il potere politico – forse in maniera
strumentale – si dà da fare perché non vincano l’oscurantismo e la barbarie, lo dobbiamo a lui, a un
uomo semplice ma estremamente forte che è riuscito, per la prima volta, a insinuare nelle coscienze il
problema “mafia”. Non faccio torto a Giovanni se ti racconto quello che da lui apprendo in questi giorni
e, credimi, fa male sentire un uomo che soffre per la malvagità e l’ingratitudine dei suoi simili. Per la
prima volta in questi anni vedo Giovanni rassegnato e non certo per gli ostacoli che si sovrappongono
alla sua nomina, bensì per i tradimenti, per le meschinità, per la malvagità che mostrano intorno alla sua
figura.
L’altro giorno al telefono mi ha detto, con la serenità che lo contraddistingue sempre, che vuole
ricominciare a vivere; ma io ho percepito tutta l’amarezza di quelle frasi e gli ho chiesto allora se il
ministro Martelli avesse intenzione di esprimere il proprio assenso anche per Cordova; mi ha risposto
che non lo sapeva perché non parlava mai con il ministro dei fatti collegati alla nomina del procuratore
antimafia. Sono rimasta stupita, e me ne vergogno, per la sua risposta perché mi sembrava del tutto
naturale, e anche logico se vuoi, che Giovanni discutesse a lungo con Martelli di questa vicenda; conclusi
il discorso dicendo testualmente: “Giovanni, ma se i nostri colleghi sapessero che tu addirittura ti rifiuti
di parlare con il ministro”.
Lui non mi ha risposto, ha riso. Forse sbaglierò ma mi sento in dovere di riferirti queste cose. Non credo
di essere la sola ad augurarmi la vittoria di Falcone; sono convinta che tanti altri colleghi, che come me
in questi anni si sono occupati di criminalità organizzata, siano del mio stesso parere. E comunque, anche
se fossimo una sparuta minoranza, tu hai il dovere, se la pensi come noi, di tutelarci con il tuo voto.
Come tu sai, ho presentato domanda per concorrere ai venti posti di sostituto, anche se ritengo di avere
pochissime chance considerato il massacro nei miei confronti che si sta operando da tanti mesi grazie
soprattutto all’atteggiamento di una parte della magistratura. Pur ritenendo giusta e necessaria la
normativa che ha previsto una Direzione centrale antimafia, avrei preferito restare a Milano a fare il mio
dovere; per dieci anni ho cercato di costruirmi una professionalità in questo settore per contribuire come
magistrato, come donna, come cittadino alla possibilità di vivere in un mondo migliore; l’ho fatto perché
avessi ancora il coraggio di guardare in faccia i miei figli pur avendo loro sacrificato tanto; ma non me
ne pento, sono pronta ad assumere le mie responsabilità nei confronti di Antonio e Alice.
Oggi questa possibilità mi è stata negata ingiustamente ma credendo ancora fortemente nella possibilità
di non convivenza con il sopruso e la violenza e ho deciso di “candidarmi”; se Giovanni non ce la farà
revocherò immediatamente la domanda e non certo per solidarietà ma perché sono consapevole che una
struttura può avere delle speranze di funzionare – e soprattutto questa, in un contesto storico così critico
– soltanto se a dirigerla vi sarà una persona dotata di capacità organizzative, di conoscenza del fenomeno
mafioso, di enorme professionalità, di conoscenza delle realtà regionali ad alto rischio e di quelle
oltrefrontiera, nonché di conoscenza personale degli appartenenti alle tre forze di polizia e la conoscenza
personale della quasi totalità dei colleghi appartenenti alle procure distrettuali. E soltanto Giovanni, tra le
candidature presentate, per la sua attività lavorativa di questi anni rappresenta il coagulo di tutte le
situazioni minimali da cui si può partire per avviare un meccanismo così difficile e complesso. Si è
conquistato i suoi meriti sul campo, diamogli la possibilità di provare e, se vuoi, per assurdo, anche di
sbagliare.
Su un dato, probabilmente, potremmo trovarci in accordo se avessimo il coraggio di ammetterlo: se
Falcone non ce la farà non sarà certo per aver meno meriti di quelli di Cordova, ma perché prevarrebbero
sentimenti quali la gelosia, l’invidia e il rancore anche se, per tacitare le coscienze, tutto questo verrebbe
giustificato da ragioni di opportunità di natura ideologica.
Perdona queste mie parole che non intendono in alcun modo condizionare la tua scelta di uomo libero;
qualsiasi decisione tu prenderai non farà venir meno l’enorme stima che nutro nei tuoi confronti. Voglio
concludere con la stessa domanda che ti ho esplicitato al telefono: chiediti se Totò Riina preferisca
Cordova o Falcone alla Direzione nazionale antimafia.
Con affetto,
Ilda

La risposta arriverà il 23 maggio: il corleonese dà l’ordine di uccidere


Giovanni Falcone.
In questi ultimi trent’anni sono stati sferrati duri colpi alla mafia siciliana,
sono stati arrestati Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e decimate le famiglie,
individuati i responsabili di centinaia di omicidi e altri gravi reati. Grazie ai
pentiti, i magistrati potevano pescare come si fa in un allevamento artificiale,
dove anche un bambino riuscirebbe a tirar su un bel po’ di trote.
Bene, quindi, sul lato militare. Ma si può dire altrettanto sul fronte dei rapporti
di Cosa nostra con le istituzioni, la borghesia dominante a Palermo, gli
imprenditori? Non direi. Su questo versante si è fatto poco, forse anche per
l’apporto di quei magistrati collusi, basilare per l’organizzazione criminale
siciliana: sono convinta che molti siano ancora in servizio e che alcuni abbiano
addirittura percorso una brillante carriera.
Quando ero a Caltanissetta, erano stati giocoforza aperti fascicoli a carico di
pm e giudici in servizio a Palermo, ma le indagini non furono mai incisive, tant’è
che furono rinviati a giudizio e poi condannati colleghi della cui collusione erano
a conoscenza anche le pietre, un nome per tutti: Giuseppe Prinzivalli.
D’altro canto la reciprocità tra la procura di Palermo e quella di Caltanissetta
consentiva una sorta di ricatto morale: se tu indaghi su di me io potrei aprire un
fascicolo contro di te. Nel mio periodo nisseno l’ho visto accadere, anche se mai
in modo esplicito.
Mi sono occupata solo marginalmente di questo genere di indagini, perché ero
concentrata sulle stragi, ma ciò non mi ha impedito di conoscere i nomi di
colleghi indicati dai collaboratori di giustizia, i cui ricordi, però, si facevano più
sfocati man mano che anche loro capivano che non c’era la volontà di incidere
concretamente. Per non parlare degli interrogatori, condotti proprio da chi poteva
essere indicato o era stato già indicato come colluso.
È doveroso chiedersi se, almeno in alcuni casi, le confidenze potessero essere
false, tese a screditare questo o quel collega, ma la risposta non può che essere
negativa; gli uomini di Cosa nostra che in quegli anni hanno affidato la loro vita
allo Stato confessando omicidi, estorsioni, traffici illeciti non avevano alcun
interesse a rivelare nomi di magistrati a degli altri magistrati, per giunta siciliani.
Proprio per questo sarebbe stato doveroso investigare, a fondo e in tempi brevi,
per la tutela delle istituzioni. Ma in molti casi così non è stato.
Il coinvolgimento, per esempio, del pubblico ministero del maxiprocesso
Domenico Signorino fu un episodio eclatante: a indicarlo era stato il
collaboratore Gaspare Mutolo. Il magistrato fu interrogato in procura dai
colleghi Cardella e Vaccara qualche giorno prima del secondo sopralluogo a
Capaci.
Il 3 dicembre 1992 Signorino si tolse la vita. Il giorno dopo il suicidio, su un
giornale siciliano comparve un’intervista a Vaccara nel corso della quale il
collega lasciò intendere che a porre le domande era stato Cardella, come a voler
prendere le distanze dall’interrogatorio che aveva preceduto il suicidio. Rimasi
sconcertata, ma con il tempo capii che la magistratura siciliana era anche quella.
8.
Prime misure per la strage di Capaci

A un anno dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, tra maggio e luglio 1993
altre esplosioni per mano di Cosa nostra colpirono luoghi di cultura e chiese a
Roma, Firenze e Milano, provocando la morte di dieci persone.
14 maggio: Roma. Alle 21.37 in via Ruggero Fauro un composto di sostanze
esplosive deflagra al passaggio dell’auto di Maurizio Costanzo, obiettivo
dell’attentato, che resta fortunosamente illeso.
27 maggio: Firenze. All’1.24, in via dei Georgofili, accanto alla Torre del
Pulci esplode un ordigno nascosto dentro una Fiat Fiorino. Muoiono cinque
persone, tra cui una neonata di cinquanta giorni. Gravissimi i danni anche alla
Galleria degli Uffizi.
27 luglio: Milano. Intorno alle 23, in via Palestro esplode un’autobomba
vicino al Padiglione d’arte contemporanea, provocandone il crollo del muro
esterno. Rimangono uccise cinque persone.
28 luglio: Roma. Due autobombe esplodono a distanza di pochi minuti (alle
00.03 e alle 00.08) rispettivamente davanti alla basilica di San Giovanni in
Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro: ingenti i danni al patrimonio
artistico, restano ferite ventidue persone.
Eppure Milano, città colpita dall’esplosione in via Palestro e dalle sue cinque
vittime, sembrava non accorgersi di quella guerra, viveva una stagione di
successi, con i cittadini che riempivano le piazze inneggiando alle inchieste di
Mani pulite. L’atmosfera, almeno per come io la percepivo quando riuscivo a
tornare a casa, era di euforia collettiva: cadevano teste, si azzeravano i partiti,
una voglia di rivoluzione pervadeva gli animi, la città era piena di “W Di
Pietro”, la televisione trasmetteva i bagni di folla dei colleghi, nei corridoi della
procura bivaccavano in pianta stabile cameraman e giornalisti.
Io vivevo come spaccata in due: stavo male sia in Sicilia sia a Milano. Sentivo
l’odore della guerra che si stava combattendo e, in mancanza di risultati concreti
nonostante il lavoro enorme, nei momenti di sconforto invidiavo bonariamente i
colleghi milanesi del pool di Mani pulite. Ricordo di aver detto una volta a uno
di loro qualcosa come: “Vieni a Caltanissetta e tocca le carte: porti bene”.
Lavoravo in silenzio, chiusa nel mio ufficio nisseno, dove sarei potuta andare
in pigiama visto che non incontravo nessuno, a esclusione del dottor La Barbera
e degli investigatori con cui collaboravo.
Ero consapevole dell’abbrutimento fisico in cui potevo finire e così, per la mia
sopravvivenza, mi vestivo con cura: non ho mai più utilizzato tante creme per il
corpo come in quel periodo, sempre impeccabile anche quando la stanchezza e la
solitudine mi spingevano verso la sciatteria.
Venire a Milano, soprattutto al palazzo di giustizia, era come affrontare rumori
assordanti dopo un periodo di buio e di silenzio. Non mi era congeniale
quell’atmosfera, mi rendevo conto che un momento magico può produrre
eccessi, che era fondamentale mantenere i piedi per terra: la guerra di mafia non
era un problema squisitamente siciliano, anzi, Milano era una piazza importante
per capire quello che stava succedendo. Basti pensare che i fratelli Graviano,
all’epoca latitanti e poi riconosciuti mandanti delle stragi, vennero arrestati nel
febbraio 1994 proprio a Milano.
Nel novembre 1993 furono notificate le prime misure cautelari nei confronti
del commando esecutivo della strage di Capaci. Raccogliere tutti gli elementi
necessari non fu semplice: testa china sulle carte, istruttoria, verifica e
annullamento di false piste, spostamenti a Roma e a Palermo, viaggi in
elicottero, sempre in allerta per timore di altri attentati. Riuscii a scrivere la
richiesta in una notte, avevo ben presente il rischio concreto che anticipazioni di
stampa potessero danneggiare le indagini e favorire gli indagati a piede libero.
La collaborazione di due personaggi importanti coinvolti nella strage (indicati
nella misura come “omega” e “zeta”, in realtà Salvatore Cancemi e Santino Di
Matteo), opportunamente riscontrata, mi rese possibile procedere con rapidità,
ma che fatica!
Nella richiesta scrissi testualmente:
Giova fin da ora premettere che la presente richiesta prenderà in esame, quasi esclusivamente, le
posizioni di coloro che sono stati individuati come facenti parte del commando operativo che ha
organizzato ed eseguito la strage e in tale veste incaricati di:
– individuare il luogo più idoneo per l’esecuzione dell’attentato;
– determinare le basi di supporto logistico, utilizzate per le riunioni operative e per l’occultamento dei
materiali necessari al compimento dell’azione delittuosa;
– reperire l’esplosivo (e congegno d’innesco) utilizzato per l’evento;
– mettere a disposizione gli automezzi necessari per gli spostamenti dei singoli soggetti e per il trasporto
di tutto il materiale necessario per la buona riuscita dell’operazione;
– procurare i telefoni cellulari utilizzati, da un lato, per comunicazioni di tematiche interne ai membri del
commando e, dall’altro, per segnalare gli spostamenti del giudice Falcone, sia durante la permanenza
dello stesso in Roma sia al momento del suo arrivo all’aeroporto di Punta Raisi il giorno 23.05.1992.
Pertanto, non costituirà oggetto di esame, in questa prima fase delle indagini preliminari:
– né l’individuazione delle motivazioni che indussero i massimi vertici di Cosa nostra a rendere
esecutivo, proprio nel maggio ’92, il disegno di soppressione del giudice Falcone;
– né le responsabilità dei mandanti facenti parte del governo di Cosa nostra (la c.d. “Commissione”);
– né l’ipotesi che tale decisione sia stata il frutto di una convergenza d’interessi tra parti deviate delle
istituzioni e la stessa Cosa nostra.
Su tali spunti investigativi le indagini, da tempo avviate, continueranno il loro corso indipendentemente
dalle prime risultanze processuali oggetto della presente richiesta, che viene oggi avanzata da questa
procura distrettuale in quanto, essendosi raccolti indizi concreti a carico degli indagati in epigrafe, vi è il
rischio, concreto e tangibile, che le risultanze dell’attività istruttoria esperita vengano vanificate da una
pubblicizzazione anticipata di notizie in ordine all’adozione di provvedimenti restrittivi per i fatti per cui
si procede, con la conseguente possibilità che soggetti non detenuti si rendano irreperibili.

Avevo seguito il metodo Falcone.


Dopo le catture furono convocate due conferenze stampa, una a Caltanissetta e
l’altra, per volere del capo della polizia Parisi, a Roma, con la partecipazione
anche del procuratore di Palermo. Fu una bella giornata, il mondo ebbe la
percezione che l’Italia non stava con le mani in mano, che la magistratura
siciliana sapeva reagire. In quel momento ero felice: unica donna in mezzo a
tanti uomini, avevo anch’io reso possibile quel primo successo.
Tornai a casa e la prima stilettata la ricevetti da mia figlia, che mi disse:
“Mamma, ora che hai preso gli assassini di Falcone, torni a casa?”. Cazzo, come
facevo a dirle che il percorso era ancora lungo, che la mamma doveva tornare in
Sicilia? Cercai di farglielo capire, ma il lunedì successivo la mia partenza fu
accompagnata dalle lacrime di Alice.
Non mi aiutavano a star meglio le manifestazioni di solidarietà. Anzi, mi
imbarazzavano gli applausi quando venivo riconosciuta o quando partecipavo a
eventi pubblici insieme ai colleghi. Non voglio essere fraintesa: l’affetto delle
persone oneste, di chi intuiva le ragioni della nostra scelta scalda il cuore, però
l’applauso non mi è congeniale, mentre ci sono colleghi che se ne sentono
gratificati, lo cercano, e che su queste manifestazioni di consenso hanno
costruito carriere. Ma i fan, soprattutto giovani, troppo spesso sono stati
ingannati da falsi miti; la mia speranza è che se ne avvedano prima che il tempo,
che è galantuomo, faccia cadere quei miti nella polvere.
Detesto la famosa foto che ritrae Giovanni e Paolo vicini e sorridenti: è
bellissima ma in troppi casi è entrata negli uffici a mo’ di trofeo, come per dire
“anch’io faccio antimafia”. Che orgoglio, invece, quando penso alla statua di
Falcone collocata all’accademia dell’Fbi a Quantico, in una posizione che
consente a tutti coloro che entrano di guardarla: negli Stati Uniti, Giovanni è
considerato un uomo da cui prendere esempio.
Mi sono chiesta, in quegli anni, se diventare un personaggio pubblico avrebbe
cambiato la mia vita, come avrebbe influito sulla quotidianità, sui rapporti
famigliari, le amicizie, magari gli amori. Forse devo ringraziare il “cattivo
carattere”, che mi ha fatto rifiutare trasmissioni televisive, e in generale rapporti
con giornalisti, se non per momenti istituzionali.
Mi sono chiesta spesso anche qual è il discrimine tra il bene e il male, quando
dobbiamo fermarci per non diventare noi stessi carnefici. È difficile dare una
risposta in astratto, preferisco fare un esempio che ho ben impresso nella
memoria.
Giovanni Brusca è stato catturato il 20 maggio 1996. È lui che ha premuto il
telecomando a Capaci, ed è responsabile di tanti omicidi efferati, tra cui lo
scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, la cui unica colpa era
quella di essere figlio del collaboratore Santino Di Matteo. Il giorno della cattura
di Brusca ero già a Milano e provai una grande soddisfazione, che però durò
poco. Mi bastò guardare in televisione i momenti della cattura, i primi piani sul
viso stralunato di Brusca circondato dai poliziotti con la folla che, se avesse
potuto, lo avrebbe linciato. La sequenza più sconvolgente fu l’arrivo delle
volanti in questura a Palermo: i poliziotti con il viso coperto da passamontagna, i
mitra spianati, le auto che strombazzavano a forte velocità.
Come non capire i sentimenti che animavano quei poliziotti? Avevano preso
l’assassino dei loro compagni, un criminale spietato. Ma in uno Stato
democratico nessuno può lasciarsi andare, perché la differenza tra noi e loro è
nel rigore dei comportamenti. Quelle scene di giubilo a volto coperto e con il
mitra fra le mani facevano sembrare Brusca una vittima, rievocavano Stati
totalitari, dove non c’è spazio per giustizia e legalità. Gli stessi pensieri mi sono
riaffiorati alla mente per l’indignazione nel gennaio 2019, quando ho visto in tv
la parata di ministri che a Ciampino hanno accolto il terrorista Cesare Battisti,
catturato in Sudamerica dopo trentotto anni di latitanza. Un altro delinquente,
certo, ma noi siamo pur sempre lo Stato...
Purtroppo in questi anni molte catture di latitanti eccellenti, fossero di
camorra, ’ndrangheta o Cosa nostra, hanno mostrato le stesse scene da film di
quart’ordine. Sta alla magistratura impedire che ciò avvenga, ai pubblici
ministeri in primis. Per questo, al momento della notifica delle ordinanze di
misura cautelare, ho sempre imposto di non far riprendere il catturando e di non
permettere di filmare i luoghi delle perquisizioni. Brusca è stato una bestia, ma
noi non lo siamo. E nemmeno possiamo sostituire i fallimenti nelle aule di
giustizia con la ricerca del consenso mediatico. Una tentazione cui non pochi
colleghi hanno ceduto in questi ultimi trent’anni.
9.
Una vita da pendolare

Non ho mai viaggiato tanto come nel periodo di applicazione a Caltanissetta. E


non solo per i rientri a Milano, quando riuscivo a trascorrere un weekend con i
miei figli, ma per il lavoro che mi portava un po’ ovunque. Considerate le
distanze, viaggiavo spesso in aereo e nel primo periodo – fino a quando, per
ragioni di sicurezza, non cominciai a utilizzare un aereo di Stato – ho
sperimentato lunghe attese negli aeroporti, soste forzate che aumentavano lo
stress e la fatica.
Caltanissetta dista cento chilometri da Palermo e altrettanti da Catania.
Quando gli orari lo consentivano, preferivo partire da Fontanarossa, l’aeroporto
di Catania, perché la sua ubicazione rispetto all’autostrada evitava di attraversare
la città. Al contrario, per partire da Punta Raisi – oggi intitolato “Falcone-
Borsellino” – bisogna attraversare Palermo, con tutti gli imprevisti e i
contrattempi annessi. Insomma, in quegli anni da pendolare, gli inconvenienti
non mancavano.
Una volta subii un furto di gioielli a Capodichino, mentre aspettavo la
coincidenza per Catania. Ero a Napoli, ai primi di dicembre, perché avevo
trascorso il compleanno con mia madre, che mi aveva regalato un bellissimo
girocollo con tre dischi trasparenti al cui interno erano incastonate schegge di
smeraldo disposte a forma di stella. Ma accadde che, per un malinteso tra me e i
miei (adorati) angeli custodi, questi ultimi fecero imbarcare in stiva anche il
bagaglio con il gioiello, che avrei voluto portare a bordo. Ne sono certa: gli
agenti ricorderanno ancora la mia sfuriata quando mi accorsi dell’errore e
soprattutto quando, al mio arrivo a notte fonda a Caltanissetta, mi resi conto che
la valigia era stata aperta e il gioiello era sparito, insieme ad altri. Per non dare
un dispiacere a mia madre, non le dissi del furto e feci subito rifare dall’orafo un
gioiello identico.
Ma le sensazioni più forti le ho vissute volando in elicottero, per gli
spostamenti da Caltanissetta a Palermo o da Roma per le isole di Pianosa e
Asinara dove, dopo la strage di via D’Amelio, l’allora ministro della Giustizia
Claudio Martelli aveva deciso di ripristinare le carceri dismesse da alcuni anni e
dove furono trasferiti in una notte frenetica i mafiosi detenuti più pericolosi. Non
sempre i voli erano tranquilli, mi è capitato di viaggiare in condizioni climatiche
pessime, con nebbia, vento o pioggia. Però l’elicottero mi trasmetteva un enorme
senso di libertà. Persa nel vortice delle grandi pale, in quei momenti non pensavo
a nulla, mi lasciavo cullare dal rumore assordante e da quella meravigliosa
natura che mi circondava. Certo, dovevo stare attenta a cosa indossare, perché
nel turbinio in cui ci si trova quando si sale o si scende la gonna non è davvero
indicata: gli uomini sono fortunati anche in questo. Solo una volta non ho
pensato alle conseguenze di quelle particolari condizioni e, arrivati all’eliporto,
quasi non volevo scendere dall’auto: indossavo un gonnellino a pieghe di seta,
calze a rete e scarpe con tacchetto, un abbigliamento decisamente incongruo per
la situazione. Mi feci coraggio, pregai un poliziotto della scorta di reggermi la
borsa, con le mani afferrai i lembi della gonna per non farla svolazzare e così
riuscii un po’ goffamente a salire la scaletta (peraltro scomodissima). Una scena
non esaltante, considerato anche che ero circondata da agenti con il mitra
imbracciato e il passamontagna, mentre ero costretta a camminare impacciata,
piegata su me stessa.
Ho ancora, in un armadio, quella gonna allegra e giovanile, anche se non l’ho
più indossata. Quel capo è tra le mie “reliquie” personali, come il tailleur blu che
indossavo a Pavia il 13 maggio e il giorno della commemorazione di Giovanni.
Anche quello è un abito che non ho mai più messo. Chissà, forse è arrivato il
momento di liberarmi anche di questi feticci.
Quei viaggi in elicottero sono stati fra i più emozionanti. Ne ricordo uno dei
primi, da Caltanissetta all’Asinara, quando mi si parò davanti lo scenario da
favola dell’isolotto quasi attaccato a Porto Torres: animali in libertà nella natura
incontaminata, insenature di sabbia bianca con le mucche che brucavano l’erba
rada e riarsa, il colore di un mare mai violato dagli uomini perché allora
inaccessibile al turismo e ai pescatori, la macchia mediterranea selvaggia e
ribelle. Quando scesi dall’elicottero mi commossi fino alle lacrime, associando a
quella vista la morte di Giovanni, che mi aveva paradossalmente dato la
possibilità di essere in quei luoghi meravigliosi. Porto vivissima nel cuore
quell’esperienza e sono grata alla polizia penitenziaria che, dopo l’interrogatorio
di Salvatore Riina, mi accompagnò in un giro dell’isola a bordo di una jeep. Fu
l’unica volta in cui potei fermarmi nelle insenature, toccare l’acqua di quel mare
incredibile, vedere da vicino gli asinelli bianchi e anche il piccolo cimitero. E in
quel momento non mi importava che a poca distanza da quella magnificenza ci
fosse la cella con rinchiuso Salvatore Riina.
Riina fu catturato il 15 gennaio 1993 da Ultimo e i suoi uomini. Ebbi la notizia
dallo stesso Ultimo, e il cuore cominciò a battermi forte. Erano passati meno di
otto mesi dalle stragi palermitane, lavoravo come un’ossessa, sentivo tutta la
responsabilità di conseguire un risultato. La cattura di Riina fu una salutare
boccata di ossigeno per continuare senza cedimenti. Proprio in quei giorni ero
all’aeroporto di Palermo, già a bordo pista in attesa del mio volo, circondata
dagli agenti in tuta mimetica, passamontagna e mitra. Gli aerei di linea
“scaricavano” i passeggeri, molti i turisti, che a piedi si incamminavano verso
l’uscita. Non mi sfuggivano i loro sguardi di curiosità e sono sicura che in tanti
non saranno riusciti ad associare quello spiegamento di forze, quelle armi in
pugno, alla guerra in corso a Palermo, tra lo Stato e la mafia stragista. Lo
sguardo distratto di quei passeggeri mi confermava che chi stava vivendo quella
guerra avrebbe avuto anche il dovere di raccontarla. Senza enfasi né
mistificazioni, ma senza tacere nulla nemmeno degli errori commessi e degli
ostacoli incontrati sul fronte.
Tutto questo e molto altro accadeva in quei mesi adrenalinici e rabbiosi. A
essere sincera, quella vita intensa, piena, nomade non mi dispiaceva, mi faceva
sentire meno in colpa rispetto ai miei figli e a quella parte della mia vita cui
stavo rinunciando.
Non è facile da spiegare, ma quell’instabilità e precarietà in certi momenti mi
ha aiutato, mi ha fatto sentire assolutamente libera, anche se nel tempo mi sarei
resa conto che quella concentrazione estrema, quella frenesia, quel dedicarsi
completamente al lavoro era diventata una sorta di dipendenza. Quando, nel
1995, sono tornata definitivamente a Milano, quei ritmi mi sono mancati. Pur
amandola, la mia casa mi soffocava e, nonostante fossi finalmente vicina ai
ragazzi, ero come un animale in gabbia, tutto mi sembrava lento e privo di senso,
mi pareva di non avere più un obiettivo da raggiungere. Insomma, mi sentivo
come un reduce che aveva respirato per due anni l’odore del sangue. Così, nella
Milano dell’ufficio, della famiglia, degli amici, al cui pensiero tante volte mi ero
aggrappata mentre ero lontana, quella normalità mi spaventava e mi respingeva.
Non era quello che volevo.
La mia città non mi rasserenava, riuscivo in parte a placare l’ansia solo
tornando con il pensiero ai soldati in assetto di guerra che vigilavano a Palermo,
ai sacchetti di sabbia ammonticchiati davanti agli edifici sensibili, all’immagine
del cratere di Capaci, ai corpi feriti e smembrati delle stragi. Sicuramente in quel
periodo non era facile starmi accanto per chi mi voleva bene né per chi doveva
lavorare con me. Nonostante le fortissime emozioni accumulate in Sicilia e che
continuavano a bruciarmi dentro come lava, capivo da sola che dovevo
“disintossicarmi” e così la proposta di Saverio e dei colleghi di Milano, di
rinforzare il pool di Mani pulite, sarebbe stata nell’immediato la mia medicina.
Anche se poi si sarebbe trasformata in un veleno.
10.
Il pentimento di Gioacchino La Barbera

Nelle indagini che avrebbero portato ai primi arresti per la strage di Capaci, si
era rivelata molto importante la collaborazione di Gioacchino La Barbera,
catturato nel marzo 1993 insieme ad Antonino Gioè in un appartamento di via
Ughetti, a Palermo. I due vivevano in sostanziale clandestinità, anche se non
ancora raggiunti da alcun provvedimento giudiziario. Entrambi avevano preso
parte all’esecuzione dell’attentato.
La Barbera decise di cominciare a collaborare il 25 novembre 1993, pochi
giorni dopo la notifica della misura cautelare a suo carico. Le sue dichiarazioni
furono determinanti, dato che aveva partecipato a tutte le fasi della strage. Il
primo interrogatorio, il 2 dicembre 1993, avvenne a Roma, in un luogo segreto.
In quell’occasione La Barbera raccontò, sia pur sommariamente, come si erano
svolti i fatti quel maledetto 23 maggio.
Ricevetti sul mio cellulare la telefonata che segnalava l’arrivo della macchina del giudice sull’autostrada
per Punta Raisi. L’autovettura, come da accordi, venne seguita fino al punto in cui si aveva la certezza
matematica che imboccava l’autostrada che portava all’aeroporto. Non so dire chi materialmente effettuò
la telefonata, perché la conversazione durò poco e non riuscii a riconoscere la voce.
Il contenuto della telefonata era convenzionale, così come stabilito, nel senso che fu fatto il nome di una
persona e io risposi che avevano sbagliato.
Io mi trovavo nel casolare insieme a Gioè, Brusca, Biondino, Troia, Battaglia, Ferrante e il Salvatore.
Rampulla non c’era perché proprio quel sabato aveva chiesto di allontanarsi e difatti era stato con noi il
giorno precedente fino alla sera.
Appena ricevuta la telefonata, ognuno di noi assunse il compito prestabilito e cioè: Ferrante e il Salvatore
si diressero all’aeroporto di Punta Raisi, per dare conferma che effettivamente l’autovettura del giudice
era arrivata o stava per arrivare all’aeroporto; Gioè, insieme a Troia, andò a collocare la ricevente nel
tombino mettendo in funzione anche l’interruttore, dopodiché, insieme a Brusca e a Battaglia, si portò
nel luogo, lato montagna, da dove sarebbe stato azionato il telecomando; io, a bordo di una Delta
integrale di colore verde, mi portai in una strada parallela all’autostrada e mi fermai in una zona cui si
accede dal bar Johnny Walker, per l’esattezza dove c’era uno spiazzo ove di solito vengono parcheggiate
roulotte. Lì mi fermai e aspettai di vedere passare il corteo di auto del giudice Falcone.
Da dove ero posizionato avevo una visione totale dell’autostrada, e potevo quindi avvistare le autovetture
a occhio nudo. Io sapevo che l’autovettura del giudice Falcone era una Croma di colore bianco.
Quando avvistai l’autovettura, io che ero già in auto misi immediatamente in moto e seguii il corteo,
sulla strada parallela che costeggia l’autostrada.
Immediatamente telefonai al cellulare che sapevo in mano a chi stava sulla montagna; mi rispose Gioè.
La conversazione durò molto, per tutta la strada che costeggia e che arriva fino al Johnny Walker. Si
parlava del più e del meno, senza minimamente accennare a quello che stavamo facendo, per paura che
la telefonata venisse intercettata.
Io marciavo a una velocità analoga a quella delle auto in corteo, e cioè ottanta chilometri orari circa, di
gran lunga inferiore a quella calcolata facendo le prove su strada. Questo particolare è stato sicuramente
captato dal Gioè, perché, conoscendo la mia posizione e sapendo che dovevo terminare l’avvistamento
all’altezza del bar Johnny Walker, la durata della telefonata è stata tale che gli ha sicuramente consentito
di calcolare in quanto tempo l’autovettura sarebbe arrivata all’altezza dell’esplosione.
Arrivato all’altezza del bar sopramenzionato, ho smesso la comunicazione con Gioè, ho imboccato
l’autostrada in direzione Partinico e mi sono allontanato. Non ho avuto modo di sentire neanche da
lontano il “botto”.

Negli interrogatori successivi, La Barbera riferì dettagliatissimi particolari,


talvolta marginali ma significativi, sui diversi momenti della preparazione e
dell’esecuzione dell’attentato. Soprattutto, ci permise di raccogliere elementi
fondamentali per la ricostruzione della vicenda, tra cui: la predisposizione, nella
prima decade di maggio, del congegno che provocò l’esplosione; la scelta del
posto in cui collocare l’esplosivo e l’azionamento del telecomando; le prove di
velocità su strada; le fasi del trasporto dell’esplosivo e del suo travaso nei
contenitori finali; le modalità di caricamento dell’esplosivo nel condotto sotto
l’autostrada; i ruoli di ciascun imputato; l’individuazione dei componenti del
commando il giorno della strage; la ricostruzione della fase successiva
dell’attentato e gli spostamenti di alcuni dei membri del commando.
Il racconto del collaboratore coincideva quasi totalmente con le risultanze sino
ad allora acquisite: i tasselli cominciavano a formare il puzzle di quella giornata
e dei giorni precedenti, fin da quel 13 maggio, quando fu ultimato il caricamento
dell’esplosivo nel condotto e il destino di Giovanni fu segnato. Questa la
scansione delle sue ultime ore, come è stata ricostruita dalle indagini:
ore 9.00: l’autista Costanza telefona al ministero al dottor Falcone il quale gli comunica che l’arrivo a
Punta Raisi è previsto per le ore 17.45; immediatamente dopo, Costanza comunica l’orario all’Ufficio
scorte di Palermo;
mattinata: il dottor Falcone è in ufficio;
ore 13.45: il dottor Falcone chiede di essere accompagnato a casa; qui giunto, dà appuntamento alla
scorta per le ore 16.00 preannunciando un passaggio al ministero e quindi la partenza per l’aeroporto
anche se non specifica quale;
ore 13.00-14.00: gli agenti di scorta di Palermo all’atto di iniziare il servizio apprendono dal collega
Montinaro che il dottor Falcone sarebbe giunto a Palermo quel pomeriggio;
ore 15.30: la Cai inoltra il piano di volo all’Ente di controllo operazioni di volo;
ore 15.40: il piano del volo classificato I-SOBE DA21 (privo del nominativo dei passeggeri) giunge
all’aeroporto di Punta Raisi con sigla identificativa “State-Flight”;
ore 16.00-16.30: il dottor Falcone con la scorta passa dal ministero dove viene raggiunto dalla moglie; si
pone alla guida del mezzo blindato accompagnato dalla moglie; il corteo si dirige alla volta di Ciampino
percorrendo la via Appia e dando notizia dello spostamento alla centrale operativa di Roma;
ore 16.00-16.30: le due auto di scorta a Palermo giungono a Punta Raisi;
ore 16.45: Costanza preleva l’auto blindata, parcheggiata in via Notarbartolo;
ore 16.30-17.00: giunti a Ciampino, un agente di scorta, con il telefono cellulare installato sulla Croma
del giudice, telefona all’Ufficio scorte di Roma e comunica, per la prima volta, che la personalità è in
partenza per Palermo. Contemporaneamente l’Ufficio scorte trasmette un fonogramma all’Ufficio di
gabinetto della questura di Roma e telefona all’Ufficio scorte di Palermo;
ore 17.02: il Falcon decolla da Ciampino;
ore 17.30: Costanza arriva a Punta Raisi;
ore 17.43: il Falcon atterra a Punta Raisi;
ore 17.56’.48”: avviene l’esplosione (orario rilevato dall’Istituto nazionale di geofisica stazione di Monte
Cammarata).

A Capaci, il commando era già pronto a riceverlo, pur non avendo la certezza
che quel sabato Giovanni sarebbe tornato a Palermo. Certezza che ebbero dal
prelievo dell’auto blindata da parte di Costanza quando l’autista imboccò
l’autostrada in direzione dell’aeroporto, così come venne comunicato da
Calogero Ganci di vedetta in via Notarbartolo.
Gli uomini della morte a quel punto diventarono operativi, ognuno con il
proprio ruolo già assegnato. Il piccolo corteo delle auto era stato intercettato e
seguito per tutto il percorso, come ha riferito La Barbera: fatti fissati per sempre
dall’analisi dei tabulati delle utenze utilizzate dal commando.
ore 17.02: La Barbera Gioacchino riceve una telefonata dal cellulare intestato a “Ruisi G.G.” di
Utromkriano Sas Palermo della durata di 8 secondi;
ore 17.05: La Barbera riceve una telefonata dal cellulare intestato a Ferrante Giovan Battista, della durata
di 11 secondi;
ore 17.48: La Barbera riceve ancora una telefonata dal cellulare intestato a Ferrante Giovan Battista della
durata di 10 secondi;
ore 17.49: La Barbera chiama il cellulare intestato a Di Matteo Mario Santo, per 325 secondi;
ore 18.39: La Barbera riceve una telefonata dal cellulare intestato a Di Matteo Mario Santo; durata 25
secondi.

Tutto era stato preparato con professionalità e freddezza, ma Brusca aveva


sbagliato ad azionare il telecomando, e così venne colpita la prima auto con a
bordo Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, che si disintegrò. La
seconda auto, con Giovanni alla guida, Francesca al suo fianco e sul sedile
posteriore Costanza, si era bloccata all’imboccatura del cratere ma l’onda d’urto
era stata ugualmente letale, aggravata dal fatto di non aver allacciato le cinture di
sicurezza. Solo l’autista si sarebbe salvato nonostante le ferite riportate.
La ricostruzione così dettagliata delle ultime ore di vita e della morte di
Giovanni, raccontata pezzo per pezzo da La Barbera, non mi scosse più di tanto
perché ebbi la capacità di estraniarmi da quei racconti. Con freddezza incalzavo
il collaboratore affinché mi riferisse anche dei particolari per lui insignificanti,
ma importanti per provare la sua attendibilità.
Ponevo domande su domande, sezionavo la sua memoria, non gli davo tregua.
Più volte La Barbera reagì con nervosismo, ma io andavo avanti come un
panzer. Una notte, finalmente, tornata in albergo, realizzai quello che stava
succedendo: avevo ricostruito gli ultimi giorni di vita di Giovanni. Sentii tutta la
stanchezza accumulata e l’emozione repressa, mi lasciai andare a un pianto
liberatorio e vomitai. Ma ero riuscita per mesi a non farmi sopraffare
dall’emotività e avevo raggiunto il mio obiettivo: la ricerca della verità, non la
cattura di un colpevole, ma degli assassini. Ne ero certa.
Il 1994 cominciò con l’arrivo a casa di un cane, un bulldog inglese che mio
figlio desiderava da tempo. Gli feci una sorpresa: ero andata, a fine novembre, in
un allevamento alle porte di Roma e avevo scelto un cucciolo, tenerissimo,
cicciottello, ancora bisognoso della mamma per lo svezzamento. Rimanemmo
d’intesa che sarei andata a prenderlo ai primi di gennaio e così fu. Avvolto in
una copertina, il cagnolino tremava, durante il volo fui allietata da più di una
pipì, ma arrivammo a destinazione senza intoppi.
Nascosi il cane in una borsa, aprii la porta di casa, chiamai i ragazzi, li salutai
e dissi ad Antonio di controllare il bagaglio: sbucò il musino rosa con una
macchia bianca e mio figlio impazzì dalla felicità, cominciò a telefonare ai suoi
amici, gridava la sua gioia e decise di chiamarlo Giò, per una canzone di Pino
Daniele. Ovviamente Antonio non sapeva che Giò era anche il soprannome che
avevo dato a Falcone: lo presi come un segno del destino.
L’arrivo del cane mi alleggerì dai sensi di colpa. Ero consapevole che il suo
ingresso nelle nostre vite non avrebbe cancellato il clima di tensione che regnava
in quegli anni, ma in quel momento eravamo felici e Antonio divenne a tutti gli
effetti il padrone di Giò.
Quella sera ripensai a un episodio che mi aveva riferito Gioacchino La
Barbera, verificatosi la notte della preparazione dell’attentato. Mentre gli uomini
del commando erano in piena attività – alcuni di vedetta, armi in pugno, due di
loro intenti a stipare i bidoni dell’esplosivo nel condotto con uno skateboard –,
era stata avvistata una pattuglia di carabinieri proprio in quella zona. Leoluca
Bagarella, armato di kalashnikov, aveva ordinato di sparare se i militari si
fossero avvicinati ancora. Ma l’auto si era fermata quasi subito, uno degli uomini
era sceso per risalire dopo pochi minuti e la pattuglia era tornata indietro.
Sguinzagliai l’Arma per recuperare lo statino dei servizi di quella notte, e così
seppi i nomi dei carabinieri scampati alla morte e il motivo della sosta: un
impellente bisogno fisiologico! Sdraiata nel letto pensai che il destino di
Giovanni era proprio segnato e mi ritornarono in mente tutti i “se” di quella
storia: se i carabinieri si fossero accorti della presenza di persone vicino al
condotto avrebbero chiamato rinforzi, forse li avrebbero affrontati, ma sono
sicura che il commando avrebbe solo rinviato l’azione a un momento più adatto.
Se, se, se...
Caddi addormentata tenendo fra le mani una lettera ricevuta da poco:
Ho sentito parlare di lei, per la prima volta nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa del
dottor Falcone. La prima volta che la vidi in tv, ella, fra tutti, mi sembrò veramente addolorata e
sconvolta dall’accaduto e ciò risultava ancor di più fra i tanti che, fingendo di piangere Falcone, erano là,
secondo me, per sincerarsi che egli fosse veramente morto. Nei giorni successivi alla scomparsa del
dottor Falcone lessi su qualche quotidiano, a proposito dell’isolamento dello stesso giudice, sue parole di
fuoco, senza mezzi termini, e che, sempre a mio avviso, non erano dettate dallo sconvolgimento del
momento ma riflettevano in tutta la sua durezza uno stato di cose quale io – ripeto – da sempre abitante
di questa città ho sempre ritenuto essere la realtà, delle sue parole la tv ha riportato ben poco. Dopo non
ho più avuto occasione di imbattermi in lei. L’ho ritrovata in questi giorni a fianco del procuratore di
Caltanissetta nel momento in cui siete risaliti ai mandanti e agli esecutori materiali della strage di Capaci
e la mia mente di speranzoso sognatore di un mondo migliore di questo, dove poter far crescere ed
educare mio figlio, ha voluto immaginare che ella abbia lasciato un comodo ufficio di una bella città al
fine esclusivo di interessarsi dell’indagine più difficile e pericolosa possibile. La mia mente di sognatore
ama pensare che ella ha fatto ciò per essere consequenziale alle sue parole di un anno e mezzo fa in una
coerenza esistenziale divenuta oggi merce rarissima, scambiando una vita, non solo professionale,
comoda per un’altra quanto meno “incerta” in nome della stima e credo dell’amicizia nutrita nei
confronti di Falcone. E al mondo di oggi, che privilegia e apprezza la cultura dell’apparire e non
dell’essere e la mistificazione della realtà, ella ha dato un esempio, a chi può e lo vuole cogliere, di rara
bellezza nell’accezione più ampia del termine. Mi scuso per averla importunata, ma se, probabilmente,
queste poche parole a lei serviranno ben poco, a me servono moltissimo per sentirmi meno solo e un po’
più speranzoso nel futuro.
11.
Danni collaterali

Ragioni di sicurezza hanno imposto che per diversi anni sotto la mia
abitazione stazionasse giorno e notte una volante con a bordo due agenti di
polizia. Nel quartiere, tutti sapevano che in quel palazzo di viale Monte Nero, a
metà strada fra piazza Cinque Giornate e Porta Romana, vivevamo io e i miei
figli. La presenza delle forze dell’ordine era gradita alla maggior parte dei
negozianti e dei vicini, ma evidentemente non a tutti faceva lo stesso effetto.
Non saprei dire se per rabbia verso quello che si poteva considerare uno sfoggio
di potere o per un assurdo malanimo verso di me (o, meglio, verso l’immagine
che di me veniva data), sta di fatto che a quell’indirizzo arrivavano lettere
anonime di minaccia, di insulti, di malaugurio. Oggi quei miserabili sarebbero
definiti “leoni da tastiera”, ma ancora non avevano una rete digitale a
disposizione, e perciò componevano e spedivano scritti che mi auguravano i
destini peggiori, ogni genere di malattia incurabile, immaginando di potermi
infliggere le violenze più perverse.
Essere repellente. Ti credi una giustiziera, guardati allo specchio e sputati in faccia. [...] un utero umano
non poteva concepirti. Io, impotente, non posso fare altro che odiare te e i tuoi compagni di merenda.
Volete solo distruggere chi dà lavoro solo perché è un vostro avversario politico! Tutte le mattine vado in
chiesa, accendo un cero alla Madonna e prego che ti faccia crepare dannata. [...] Mi auguro che tu non
possa trovare pace nemmeno nella tomba e verrà quel giorno: anche se ti credi la padrona del mondo
dovrai crepare e non avrai pace nemmeno con la benedizione del papa. Mi piacerebbe vederti saltare in
aria come è stato con quel poveretto di Falcone, poi morire dopo di te con la gioia di averti vista andare a
pezzi. Sei puzzolente, MARCIA, PUTREFATTA. TROIA. Speriamo che qualcuno si svegli e ti faccia
abbassare le arie che ti dai. Schifosa.
TU SEI FANGO PUZZOLENTE, DIFFAMATRICE. Povera Boccassini, sei ammalata al cervello, credi
di essere una grande donna. Non sei nessuno. Nessuno ti minaccia perché non vali niente. Sei gonfia,
brutta, piena di rughe e le tue collane di corallo ti fanno il collo grosso e corto. Evita la televisione, sei
oscena, così pure la tua voce stridula da cornacchia. Ecco, sembri nel fisico e nella voce una vecchia
cornacchia. TU SEI MERDA. Noi cittadini vi odiamo. Siete una categoria di ladri farabutti. Ci rubate un
sacco di soldi con il vostro stipendione e le cause comuni le ignorate protraendole per decenni.
Vergogna! Pagate con i nostri soldi le scorte ai delinquenti, alle donnacce come la invidiosa Ariosto e il
cittadino paga un sacco di tasse per mantenervi. Spero tanto che un giorno non lontano sia punita per la
tua maligna cattiveria, insieme a Colombo, brutto mantenuto occhialuto. Che la maledizione ricada su
ognuno della vostra spregevole categoria.
Una italiana vera

Sulla facciata di questa lettera, scritta a mano dall’“italiana vera”, è addirittura


impresso il logo di Camera e Senato e il riferimento a un’occasione pubblica
organizzata dai due rami del Parlamento. Anche si fosse trattato di un
fotomontaggio, la fantasia malata di chi l’ha scritta non risultava estranea a un
contesto politico e mediatico di astio nei miei riguardi. In alcune lettere non
venivano risparmiati nemmeno riferimenti ai miei figli, ai quali non ho mai detto
nulla sia per non spaventarli sia per non aggiungere altri pesi alle loro giovani
vite, dato che già soffrivano per le tensioni sorte nel tempo con il mio compagno
nonché padre di Alice. Oltre che, dall’autunno 1992, per la mia lontananza da
Milano.
Una nota divertente di quel periodo così difficile è legata al nostro bulldog Giò
che, per non so quale motivo, portato fuori per i suoi bisogni tentava ogni volta –
spesso riuscendoci – di fare pipì sulla fiancata dell’auto bianco-azzurra in
servizio di vigilanza. I poliziotti erano per fortuna molto pazienti ma, per
prudenza, non appena il cane spuntava dal portone, si allontanavano di qualche
passo.
Al mio indirizzo privato, così facilmente identificabile, ricevevo anche
testimonianze di affettuosa vicinanza. Tra queste, ho conservato quella che mi
scrisse Anna, all’epoca studentessa di Giurisprudenza molto determinata a
entrare in magistratura. Ne riporto qualche brano:
Sono una studentessa di Giurisprudenza, ho avuto casualmente la fortuna di incontrarla nel negozio di
ottica vicino alla sua abitazione. In quel momento nel negozio eravamo solo lei, io e una mia amica, e
forte è stata l’emozione di averla accanto, tanto da impedirmi di pronunciare qualunque parola. Ed ecco
allora questa mia lettera per esprimerle quelle parole mai proferite: grazie, grazie infinitamente per il
servizio che ogni giorno rende alla nostra collettività, per l’integrità deontologica con cui svolge il suo
lavoro, consapevole degli estremi sacrifici che questo comporta. So che lei mi risponderebbe che è solo
un magistrato che svolge il suo compito fino in fondo, secondo ciò che la coscienza le impone, ma posso
immaginare quali rinunce, quali costrizioni esso implichi, fino alla limitazione di ciò che è un bene e un
diritto fondamentale per ognuno, la propria libertà. Ma finché esisteranno persone coraggiose e
“immense” come lei, il suo alto senso morale diventerà la nostra etica di cittadini che si volgono al futuro
più consapevolmente, memori di chi ha dato la propria vita per rendere la nostra migliore. Nessuna
parola potrà mai esprimerle la mia ammirazione e gratitudine.

Anna non si era fermata alle apparenze. Aveva probabilmente potuto


constatare di persona le limitazioni e i sacrifici che comportava il mio ruolo
pubblico senza lasciarsi ingannare dalle possibili gratificazioni derivanti da una
notorietà e una visibilità mediatica decisamente non cercate. Anna, insomma,
non era tra quelli che mi fermavano per strada chiedendomi se fossi proprio io,
ricordando un viso visto in tv, o tra coloro che mi volevano stringere la mano o
tentavano di sputarmi addosso, a volte riuscendoci.
“La televisiun la g’ha na forsa de leun” (la televisione ha la forza del leone)
cantava Enzo Jannacci ironizzando sul potere mediatico del piccolo schermo. Ed
è così: gli effetti della tv sul pubblico sono pazzeschi. Mio malgrado vi
comparivo di frequente, nei servizi sui processi in corso, ma anche tallonata nei
corridoi del palazzo di giustizia mentre mi spostavo tra la mia stanza e l’aula del
dibattimento. Anche se facevo di tutto per evitare le telecamere, non sempre era
possibile sfuggire a fotografi e cameraman per limitare i danni di una notorietà
quanto meno fastidiosa, se non peggio. Per esempio, mia figlia Alice non voleva
che l’accompagnassi a scuola perché si vergognava della scorta, dell’auto
blindata con i lampeggianti blu e pretendeva che la lasciassi lontana
dall’ingresso. Era ancora una bambina, ne comprendevo l’imbarazzo, ma
ugualmente ne soffrivo, perché mi ricordava quanto marginale fossi rispetto a
troppi momenti importanti della sua vita. Dentro di me, però, preferivo questo
imbarazzo all’eccitazione dei suoi compagni di scuola, i maschietti in
particolare, che la invidiavano perché poteva salire su “una macchina con la
sirena”, per non dire degli “uomini con le pistole, e i mitra!”.
Ho sempre rifiutato gli inviti a trasmissioni televisive, talk show di
intrattenimento e altre amenità: non mi hanno mai interessata né attratta. L’unica
intervista televisiva che decisi di accettare, e che anzi considerai un onore, fu
quella rilasciata il 20 febbraio 1998 a Enzo Biagi, un uomo saggio, di grande
sapienza ed equilibrio. Quel mio intervento colpì evidentemente i telespettatori,
perché fu un altro periodo in cui ricevetti tante lettere e testimonianze di
sconosciuti che apprezzavano il mio lavoro. Come quella della signora Gabriella
che, con una sensibilità tutta femminile, aveva colto nel mio volto e nel mio
modo di rispondere a Biagi tratti di delicatezza e di umanità in netto contrasto
con l’immagine diffusa dai media: “Ilda la rossa”, la donna dura dal viso
perennemente corrucciato, sempre pronta a graffiare, mai un sorriso. Ecco cosa
mi scrisse:
Come semplice cittadina che quando può cerca di dare una piccola presenza in questa società, la
ringrazio tantissimo per le cose bellissime che ha detto l’altra sera. La ringrazio per la presenza che ha
voluto dare, accettando l’invito perché è venuta fuori una bellissima umanità e dolcezza dal suo volto che
purtroppo non è ravvisabile nelle altre occasioni in cui, di sfuggita, è dato vederla in tv. La ringrazio per
quanto fa alla nostra società con tanta semplicità, da vera cittadina, ma con una profondità di ispirazione
che dovrebbe muovere tutti. La ringrazio per le parole spese per Giovanni Falcone che è sempre nel mio
cuore e che ci ha trasmesso un amore concreto dando la sua vita per tutti noi.

Non nego di aver contribuito a dare di me un’immagine pubblica che so


diversa da quella reale. È vero, ho fatto sì che si affermasse una Ilda che non
sorride, dallo sguardo serio, a volte torvo, uno sguardo che non vuole blandire né
rassicurare. Insomma, per difendermi ho indossato una maschera che con il
tempo è diventata la mia faccia, ho lasciato che si ricamasse sul mio essere una
donna severa, poco incline ai sentimenti, tutta Codice e tintinnio di manette.
Sgradevole? Forse a volte, anche non volendo. La grande stanchezza accumulata
in quegli anni e il desiderio di non vedere quello che mi circondava, che troppo
spesso non mi piaceva, mi portavano a indossare dei grandi occhiali da sole,
anche se c’era nebbia o stava calando la sera. Quelle lenti scure erano una
paratia tra me e il mondo. Ancora oggi non potrei farne a meno. Anche perché in
tutti gli anni da pubblico ministero ho percepito in troppe occasioni intorno a me
cattiveria, invidia e meschinità. Ne ho sofferto e ne soffro ancora tanto, ma sono
stata attenta a non manifestare l’inquietudine, a volte le tempeste che queste
emozioni provocavano dentro di me: non volevo lasciar trasparire quanto ne
fossi – e ne sia ancora oggi – colpita nel profondo. Non sempre ci sono riuscita,
come non sempre ho saputo contenere la rabbia. Ma mi sono sforzata di
imparare – talora pagando prezzi pesanti in termini di serenità nella vita privata e
pure di carriera – ad assumere, come lo definisco, quel tratto “corleonese”
osservato a lungo nel corso delle indagini: pensare bene prima di aprire bocca,
fare buon viso a cattivo gioco, fingere di assecondare chi vorresti stritolare e poi,
al momento giusto, reagire, colpire, anche con durezza se necessario.
Potrà sembrare paradossale, ma le più sgradevoli manifestazioni di inimicizia
le ho subite da donne. Donne che non nascondo di ritenere mediocri, insicure,
mosse dall’ambizione, incapaci di riconoscere i propri limiti. Donne che si sono
adattate a convivere con le più becere espressioni di maschilismo pur di
raggiungere i loro obiettivi. Non voglio generalizzare, ma sarebbe altrettanto
impietoso citare nomi e cognomi di quante, con toni falsamente amichevoli, mi
chiedevano se davvero, e come, fossi riuscita a tenere insieme famiglia e lavoro,
oppure osservavano come fossi “sempre così elegante, nonostante tutti i guai”,
incredule che non avessi mai “ceduto alle lusinghe del potere”. Oppure, sempre
con un certo retrogusto di malcelata invidia e di gossip: “Come sei brava! Come
fai? Perché non vai in televisione? Ce l’hai il fidanzato? Fortunata te che conosci
persone importanti! Ti piacciono le tue foto sulle copertine dei rotocalchi?”. E
via di questo passo.
I peggiori, comunque, restano i magistrati, che si sono gettati sul filone
“paladino o paladina dell’Antimafia”, un filone redditizio in termini di carriera e
visibilità mediatica. Piccoli miti fugaci, che si sono dissolti come neve al sole.
Un nome per tutti: Antonio Ingroia, che nel corso della campagna elettorale del
2013 osò addirittura paragonarsi a Giovanni. In quell’occasione non resistetti e
gli risposi pubblicamente, infrangendo con due righe la regola del silenzio:
“Come ha potuto paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di
Giovanni Falcone? Tra i due la distanza si misura in milioni di anni luce. Si
vergogni”.
Non è facile, per persone normali, che non siano attori, sportivi o esponenti
delle istituzioni, confrontarsi con la visibilità mediatica, essere trascinati sotto i
riflettori. Il rischio è quello di finire stritolati. Ma, d’altra parte, è innegabile che
l’applauso della gente – pur creandomi imbarazzo – regala anche momenti di
calore umano. Il vero guaio è quando queste gratificazioni affievoliscono la
consapevolezza che comparire sui giornali (o, peggio, in televisione) non è che
un momento particolare e fugace della tua vita. Io stessa mi sono chiesta se il
virus della visibilità mi avesse contagiato. La perfezione certo non esiste, ma
riflettendo con maggior distacco sul mio rifiuto ostinato, a volte brusco, di ogni
approccio, credo di poter dire che solo così sono riuscita a mascherare i miei
momenti di fragilità.
Per anni le mie fotografie sono state accuratamente scelte tra le peggiori
possibili, dai quotidiani che avevano l’indicazione di attaccarmi, a volte anche
con ferocia. Per carità: massima libertà di opinione e capisco titoli e articoli
critici, sopra le righe, dispregiativi nei miei riguardi. Ma vederli corredati da
fotografie davvero brutte, cercate con il lanternino, mi pareva un plus di
cattiveria e una mancanza di rispetto alla persona, che andava ben oltre i giudizi
negativi sulle scelte di un pubblico ministero, guarda caso una donna...
Come se non bastasse, è capitato più volte che diventassi il bersaglio dei
fotografi pur trovandomi a fianco di colleghi più famosi (e meno ostili alla
ribalta) di me. Al che mi bastava sbirciare le loro espressioni per pensare,
sorridendo dentro di me: “Ecco, mi sono fatta un nemico in più”.
In questo clima generale non propriamente amichevole dentro e fuori la
categoria, mi ha fatto piacere ricevere un ritratto realizzato a china: capigliatura
arruffata da Erinni, occhiali da vista, il volto contratto in un’espressione di
profondo sconforto. Quel disegno mi ricorda le innumerevoli schermaglie nei
processi che mi hanno vista impegnata dagli anni novanta in poi, quando cercavo
di oppormi all’ennesima richiesta delle difese di Berlusconi e di Previti per
procrastinare, annacquare ed evitare il dibattimento. Il mio sguardo,
perfettamente reso dallo sconosciuto artista, gridava: “Nun ce ’a faccio cchiù!” e
quel piccolo omaggio è ancora appeso al muro di casa.
Non tutte le mie fotografie sono da cestinare. Anzi, quelle più riuscite (a mio
giudizio, s’intende) sono incorniciate su un mobile, perché rimandano a qualche
momento importante o evocativo della vita. Una di queste mi ritrae seduta sullo
scranno del pubblico ministero, in una pausa di udienza, in toga e scarpe da
tennis bianche. Un’altra, meno nota, mi riporta alla consegna del premio
Viareggio, accanto a un sorridente Saverio Borrelli. Chiudo questa piccola
digressione un po’ frivola, ma d’altra parte erano tempi in cui ero giovane, bella,
piena di energia e di speranze.
12.
Scarantino comincia a collaborare

Anche il 1994, il mio ultimo anno a Caltanissetta, fu intenso e faticoso sia per
la mole di lavoro da cui ero sommersa, sia per il clima politico di profonda
incertezza che attanagliava il Paese. Le indagini di Mani pulite avevano azzerato
i partiti storici come la Democrazia cristiana e il Partito socialista, e nuove
formazioni si affacciavano sulla scena, prima fra tutte Forza Italia di Silvio
Berlusconi. I morti provocati dagli attentati dell’anno precedente a Firenze e
Milano, oltre a quelli delle stragi siciliane, turbavano le coscienze degli italiani e
si avvertiva un diffuso desiderio di cambiamento.
Un clima generale di instabilità che angosciava anche me, già provata dalla
responsabilità di chiudere entro l’anno le indagini sui vertici di Cosa nostra –
cioè sui membri della Commissione provinciale di Palermo e di quella regionale
– come mandanti della strage di Capaci. Contemporaneamente, peraltro, erano
state aperte le inchieste sull’ipotesi dei “mandanti occulti”, nel tentativo di
verificare se la stagione stragista fosse stata solo il frutto del feroce azzardo
corleonese oppure se ci fosse stata una convergenza di interessi tra Cosa nostra,
esponenti del mondo politico, finanziario, imprenditoriale e settori deviati delle
istituzioni.
Il primo a parlare dell’esistenza di contatti tra Salvatore Riina e “persone
importanti” non affiliate a Cosa nostra era stato Salvatore Cancemi, reggente del
mandamento di Porta nuova che aveva già raccontato di un dialogo con un altro
boss, Raffaele Ganci, capo mandamento della Noce. Cancemi e Ganci avevano
partecipato a una riunione preparatoria dell’attentato di Capaci, alla presenza di
Riina in persona. Cancemi aveva già precisato in altri interrogatori che la
conversazione con Ganci su queste figure “esterne” era avvenuta mentre
tornavano in auto da Capaci a Palermo e che il suo interlocutore non aveva fatto
i nomi delle “persone importanti” cui si riferiva: si era limitato a precisare che
non erano da cercare nel gotha di Cosa nostra e nemmeno in una sua
ramificazione perché, per l’appunto, non appartenevano al tradizionale mondo
mafioso isolano.
Un ulteriore interrogatorio di Cancemi era fissato per il 18 febbraio. Ma all’ora
indicata, nella caserma dei carabinieri scelta per l’incontro, il procuratore
Tinebra non c’era. Cercai di informarmi sui motivi di quel ritardo, per capire se
aspettarlo o meno, ma non ebbi alcuna notizia. Così decisi di cominciare da sola.
La prima domanda che rivolsi al collaboratore riguardava proprio quel dialogo
con Ganci sui rapporti tra Riina e le “persone importanti” non affiliate a Cosa
nostra. Speravo che gli fossero tornati in mente nuovi particolari su quella
conversazione... No, Cancemi non era in grado di aggiungere altro su quel breve
scambio ma, agganciandosi alla mia domanda, dopo una lunga premessa di
carattere generale sugli obiettivi dei Corleonesi, aveva cominciato a parlare di
Silvio Berlusconi. Ecco come.
Domanda: Nei precedenti verbali lei ha riferito di aver saputo da Raffaele Ganci che Salvatore Riina
avrebbe avuto un incontro con persone importanti prima che venisse ucciso il giudice Falcone.
Personaggi che avrebbero garantito a Riina la revisione dei processi. Conferma queste circostanze?
Risposta: Dottoressa Boccassini, quello che vi ho riferito è la sacrosanta verità. [...] Non posso che
confermare che il Ganci, tornando da Capaci, ove avevamo partecipato a una riunione preparatoria
dell’attentato in danno del giudice Falcone, in auto mi confidò quanto sopra. Ribadisco che il Ganci non
mi fece il nome delle persone importanti con cui Riina si incontrò, ma una cosa dev’essere chiara: queste
“persone importanti” non erano certo uomini di Cosa nostra, perché più importanti di Riina e Provenzano
non ce ne sono all’interno dell’organizzazione e quindi i personaggi con cui Riina si è incontrato li
dovete cercare fuori dall’organizzazione. [...] Ribadisco di non aver saputo da Ganci né in
quell’occasione né successivamente i nominativi dei personaggi importanti con cui Riina era sceso a
patti, né posso dire con onestà se poi questi discorsi si sono concretizzati, anche se però sono convinto
che purtroppo ciò si è verificato. Non deve sembrare cosa di poco conto per Salvatore Riina e per i
Corleonesi ottenere la revisione del processo perché con ciò otterrebbero la delegittimazione dei
collaboratori di giustizia. Voi sapete perfettamente l’enorme peso che hanno avuto Buscetta, Contorno e
gli altri [...]. Annullare il contributo dei pentiti per il passato significava che il futuro non avrebbe potuto
più prendere in considerazione la collaborazione di tutti i successivi adepti che intendevano assumere
atteggiamento di collaborazione con l’autorità giudiziaria. Se Salvatore Riina arriverà a ottenere delle
modifiche radicali a livello legislativo, per tutti noi collaboratori e per gli altri che potrebbero venire non
ci sarà più spazio.

Intanto era arrivato anche l’avvocato difensore di Cancemi, e così ascoltammo


insieme il dettagliato racconto del boss.
Dicevo di non sapere i nomi delle persone importanti con cui si è incontrato Riina, ma ho il dovere di
riferire queste circostanze, che io ho vissuto in questi anni da protagonista. Nel 1990 o 1991, in questo
momento non riesco a essere più preciso [...], Ganci Raffaele mi disse che Salvatore Riina voleva
parlarmi, ci incontrammo nell’ormai famosa villa di Girolamo Guddo. Eravamo presenti all’incontro io,
Raffaele Ganci, Salvatore Biondino e Salvatore Riina. Faccio presente che il Riina si rivolgeva
esclusivamente a me, gli altri due erano però presenti. Riina cominciò parlando di Vittorio Mangano,
persona che peraltro non era molto gradita allo stesso Riina perché in passato Mangano era vicino a
Stefano Bontade. Riina mi disse di riferire a Mangano che non doveva più interferire nel rapporto che lo
stesso aveva instaurato da anni con un tale Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, perché da quel
momento i rapporti con il Dell’Utri li avrebbe tenuti direttamente Riina. Quest’ultimo precisò che,
secondo gli accordi stabiliti con Dell’Utri che faceva da emissario per conto di Berlusconi, arrivavano a
Riina 200 milioni l’anno in più rate, in quanto erano dislocate a Palermo più antenne (questa è
l’espressione che usò Riina, ma ovviamente si riferiva a emittenti private). Questo fu più o meno il
discorso di Riina; devo dire che usò un tono minaccioso nei confronti di Vittorio Mangano, lasciandomi
intendere chiaramente che, se quest’ultimo non si fosse tolto di mezzo, lo avrebbe eliminato. Ovviamente
Riina ne volle parlare con me, perché essendo io in quel momento il reggente di Porta nuova, dovevo
garantire che il Mangano si sarebbe adeguato agli ordini di Riina.
[...] Per far capire meglio il mio pensiero, prima di proseguire nel discorso devo fare un passo indietro.
Quando Riina mi fece il nome di Dell’Utri e mi disse che era una persona di fiducia di Silvio Berlusconi,
dando quindi per implicito che Dell’Utri fosse in contatto con la nostra organizzazione, la cosa non mi
stupì perché io già sapevo dallo stesso Mangano dell’esistenza di questi contatti.
[...] Fatta questa doverosa premessa, riprendo il racconto. Dopo aver avvertito Mangano, ho avuto modo
nel corso degli anni di saperne di più circa i contatti tra Salvatore Riina e il Dell’Utri. Non sono in grado
di dire con certezza che vi erano contatti diretti tra Riina e Dell’Utri, oppure se questi contatti fossero
filtrati da emissari, ma una cosa è certa e corrisponde al “cento per cento” a verità: Riina era in contatto
con Dell’Utri e quindi con Silvio Berlusconi.
Per quanto riguarda gli anni che ci interessano, li dobbiamo collocare dall’89-90 in poi, cioè fino alla mia
costituzione. Ho assistito più volte alla consegna di queste rate dei 200 milioni che arrivavano dal Nord.
Come ho già detto, la somma stabilita nell’arco di un anno era di 200 milioni. Ma venivano pagate
sempre con denaro contante in rate da 40-50 milioni. Queste rate venivano consegnate non so da chi a
Pierino Di Napoli, reggente della famiglia di Malaspina, compresa nel mandamento La Noce.
Ho visto personalmente – ripeto, in più occasioni – Pierino Di Napoli consegnare a Raffaele Ganci il
denaro proveniente dal Nord. Anzi, posso aggiungere che più volte, quando c’erano ritardi nelle
consegne, ho sentito personalmente Salvatore Riina dire a Raffaele Ganci: “Faluzzo, viri di viriri a
Pierino se siggiu di’ picciuli, viri di sollecitari (vedi di dire a Pierino se sono arrivati i soldi, vedi di
sollecitare)”. Ho visto personalmente consegnare più volte da Pierino Di Napoli a Ganci somme di
denaro dell’importo di 40-50 milioni. Le mazzette erano da 50 e 100.000 lire, non erano fascettate come
fossero uscite da una banca, bensì banconote già usate legate con un elastico. Il denaro era custodito in
sacchetti di plastica. [...] So che questi 200 milioni che in questi anni sono pervenuti a Salvatore Riina
riguardavano le emittenti private dislocate a Palermo di proprietà di Silvio Berlusconi. Io non so indicare
le sigle di queste emittenti, ma penso di essere in grado di individuarle se portato a Palermo.

Insomma, un racconto spiazzante, molto dettagliato e con implicazioni


inquietanti. Ma non poteva trattarsi di “normali” estorsioni, come ne avvenivano
un po’ su tutto il territorio controllato dalla mafia? Cancemi rispose a queste
obiezioni con argomentazioni tutto sommato ragionevoli:
Non credo che il pagamento di quella somma annuale costituisse una specie di pizzo affinché
l’imprenditore Berlusconi potesse lavorare tranquillamente a Palermo, ma c’era qualcosa di più, lo avevo
intuito perfettamente. D’altro canto Riina, quando mi disse che Mangano si doveva togliere di mezzo, era
molto determinato, aveva chiaramente fatto capire che avrebbe eliminato Vittorio se avesse fatto storie.
Per il semplice pizzo non si sarebbe mai scoperto in quella maniera. Comunque è probabile che io ricordi
qualche altra cosa di quell’episodio e che possa meglio chiarire la natura dei rapporti tra Berlusconi e
Salvatore Riina.

Non potevo non insistere per saperne di più.


Domanda: Lei ricorda se nel maggio 1992, cioè dopo che lei apprese da Salvatore Biondino che il
giudice Falcone doveva essere ucciso e prima della morte di quest’ultimo, ha avuto modo di assistere a
una consegna di una rata dei 200 milioni da parte di Pierino Di Napoli a Raffaele Ganci?
Risposta: Sì, certamente, ci fu una consegna di denaro due mesi prima, più o meno, della morte del
giudice Giovanni Falcone. Ricordo che Pierino venne nella macelleria di Raffaele Ganci in via Lancia di
Brolo e in mia presenza consegnò il denaro a Raffaele.

Ovviamente verbalizzai tutto in fretta, perché intuivo il peso politico che quel
racconto avrebbe potuto assumere. Avevo già visto altre volte le reazioni che
provocavano in alcuni colleghi particolarmente prudenti argomenti così spinosi e
forieri di possibili, ulteriori spine. Mi era, cioè, capitato di assistere a tentativi di
smussare, di limare un’espressione troppo forte, un verbo troppo esplicito, di
riversare nei verbali il minor potenziale dirompente possibile, pur senza tradire
la lettera delle dichiarazioni raccolte. E quel giorno avevo il timore delle
eccessive “cautele” che sarebbero potute intervenire.
Quando il procuratore finalmente arrivò, il verbale era già in uno stadio molto
avanzato, ma io volli insistere nonostante dalla sua espressione e dal tono irritato
con cui mi chiese conto dell’attività che avevo svolto in sua assenza avessi avuto
la sensazione che il collega (e capo dell’ufficio da cui dipendevo in quei mesi)
non avesse gradito la mia iniziativa.
Domanda: Lei ricorda se ha avuto modo di assistere a consegne di denaro anche dopo la morte del
giudice Giovanni Falcone?
Risposta: No, ma posso dirvi con certezza, per averlo appreso dallo stesso Ganci, che le consegne sono
andate avanti almeno fino al suo arresto. [...]
Domanda: Tornando all’episodio di Ganci che le riferisce dell’incontro di Riina con “persone
importanti”: secondo lei, con quelle poche parole, Ganci ha lasciato intendere che l’obiettivo Falcone era
stato concordato?
Risposta: Voglio precisare ancora una volta che il discorso di Ganci non mi fu riferito da quest’ultimo
nel corso di un occasionale incontro tra di noi, bensì dopo che c’eravamo recati a una riunione operativa
per la preparazione dell’attentato in danno del giudice Falcone. Questo significa che Ganci, pur secondo
il suo stile – e cioè con poche parole –, mi aveva lanciato un messaggio ben preciso: dietro la morte di
quel magistrato c’era dell’altro. [...] Tutti sanno, e noi ne eravamo perfettamente consapevoli, che quel
magistrato era stato l’artefice dei processi contro Cosa nostra. Il giudice Falcone era stato condannato da
anni da Cosa nostra e doveva morire. Ma queste considerazioni non sono sufficienti per capire perché il
progetto è andato in esecuzione proprio nel maggio 1992 e dico questo perché Ganci mi ha fatto quel
discorso. Potrei usare una frase che forse rende bene il mio pensiero: “Sono stati presi due piccioni con
una fava”. Da un lato Riina ha eliminato un suo nemico personale, dall’altro questo suo interesse è
coinciso con l’interesse di altri. Agli occhi dell’organizzazione sia per i carcerati sia per quelli fuori
appariva più che normale, anzi più che giustificata, l’eliminazione del giudice Falcone. Vi era stata la
sentenza del maxiprocesso e le condanne quindi erano diventate definitive. Non sottovalutate – ve lo
ripeto ancora una volta – quanto fosse fondamentale per Salvatore Riina ottenere la delegittimazione dei
pentiti, annullare quindi la normativa premiale, ecco perché sono da considerare importantissime quelle
parole di Ganci per capire tutti i moventi che hanno determinato la morte di quel magistrato. [...] Questa
non è una mia deduzione ma è la verità. Quante volte ho sentito Riina dire: “Pure i denti mi iuoco (pure i
denti mi gioco)”, intendendo riferirsi all’annullamento della legislazione premiale sui collaboratori di
giustizia. Per queste ragioni sono certo che le bombe di Firenze, di Milano e Roma (basilica di San
Giovanni e chiesa di San Giorgio in Velabro) siano da mettere in relazione a questo progetto e che quindi
gli obiettivi da colpire siano stati “suggeriti” a Riina e Provenzano. In questi casi non si voleva fare
danno e le morti che pure ci sono state sono da considerarsi del tutto casuali. Considerate che
l’espressione “mi gioco i denti” è molto forte, perché i denti sono una cosa preziosa, senza i quali non si
può mangiare e quindi vivere.

“Ecco perché io dico,” era stata la conclusione di Cancemi, “che gli interessi
di Riina sono coincisi con gli interessi di quelle persone importanti cui ha fatto
riferimento Raffaele Ganci.”
In buona sostanza, Cancemi aveva dichiarato, verbalizzato e sottoscritto che
fino al luglio 1993 un intermediario di Cosa nostra si era adoperato per far
transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro
provenienti da Silvio Berlusconi; ci aveva detto il nome del tramite palermitano
e la complicata procedura usata per la consegna; Cancemi inoltre aveva
personalmente assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire
in banconote usate raccolte in buste di plastica. Il collaboratore era certo che tali
consegne fossero ancora in corso e, infine, escludeva che quei passaggi di denaro
costituissero una “normale” estorsione pagata per far lavorare le “antenne”
berlusconiane dislocate in Sicilia. A suo giudizio, quelle elargizioni facevano
parte di un rapporto del tutto speciale che legava l’imprenditore milanese al capo
dei capi della mafia, Totò Riina.
Con i fatti riferiti e con le sue valutazioni, quindi, Cancemi offriva uno spunto
investigativo da coltivare, innanzitutto per verificare se aveva detto il vero a
proposito di scenari tanto delicati e potenzialmente esplosivi. Non solo era
necessario indagare a fondo, ma anche farlo subito, senza perdere un minuto.
Alla lettura delle dichiarazioni di Cancemi e alle mie argomentazioni il
procuratore Tinebra si era mostrato contrariato ma, messo di fronte a un verbale
firmato e controfirmato, aveva acconsentito a dare il via a quel filone di indagini
insistendo perché venissero condotte nella massima segretezza, dato che
coinvolgevano niente meno che il leader di Forza Italia, il partito appena nato e
presentato in tv pochi giorni prima con il famoso messaggio in cui Berlusconi
annunciava la sua “discesa in campo”: “L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le
mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti...” ecc.
Obiettivo principale delle indagini era, ovviamente, il boss Pierino Di Napoli
perché attraverso di lui – sempre che le circostanze riferite da Cancemi fossero
risultate veritiere – si sarebbe potuto documentare il passaggio di denaro a favore
di Riina. Su Di Napoli, a piede libero perché formalmente incensurato, venne
organizzato un servizio di osservazione costante, affidato al capitano Ultimo e
alla sua squadra.
Benché libero, il boss di Malaspina si muoveva con estrema circospezione, e
per comunicare usava cabine telefoniche nonostante possedesse un apparecchio
cellulare. Non si accorse mai, comunque, di essere controllato ed eravamo
fiduciosi negli sviluppi dell’operazione, avendo rapidamente individuato e
messo sotto controllo i luoghi che frequentava e le persone con cui si
accompagnava. Insomma, la rete era stata gettata, ma la quantità di pesci che
saremmo riusciti a catturare dipendeva dall’efficienza degli uomini che lo
seguivano come ombre, e – perché no – anche da un po’ di fortuna.
Per questo rimasi sconcertata e annichilita quando, solo pochi giorni dopo,
l’effetto sorpresa su cui molto contavamo venne spazzato via da un articolo
comparso su “Repubblica” a firma di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo.
Rimasi sgomenta non solo per il vantaggio che i mafiosi avrebbero acquisito su
di noi, ma soprattutto perché – data la delicatezza dei temi trattati – quelle dodici
pagine di verbale d’interrogatorio di Cancemi non erano state fotocopiate né
consegnate a nessuno, nemmeno alle forze dell’ordine con cui operavo. Gli
stessi colleghi di Caltanissetta non ne avevano voluto una copia e l’originale era
chiuso nella cassaforte del mio ufficio. Avevo avuto cura di non riportare brani
delle dichiarazioni del collaboratore nemmeno nella delega alla polizia
giudiziaria per attivare l’azione investigativa. Per farla breve, oltre che nella mia
cassaforte, copia di quel verbale era stata trasmessa soltanto alle due procure,
Palermo e Firenze, che indagavano sulle stragi.
Dalla lettura dell’articolo di “Repubblica” appariva chiaro – soprattutto se si
conoscevano le dichiarazioni verbalizzate e il contenuto della delega alla polizia
giudiziaria – che i giornalisti erano in possesso di entrambi i documenti, o
quanto meno li avevano letti. Ma come era stato possibile? Chi aveva aperto una
falla nell’assoluta riservatezza di quella delicatissima investigazione?
A Peppe D’Avanzo, uno dei due firmatari dell’articolo, mi ha legato un
rapporto di grande amicizia. Pur nei limiti dei rispettivi ruoli, data la sua
preparazione, intelligenza e conoscenza dei temi politico-giudiziari, i nostri
confronti e le nostre conversazioni erano momenti di reciproco interesse. Oltre a
ciò, anche le nostre famiglie si frequentavano. Insomma, Peppe è stata una
persona importante nella mia vita e la sua scomparsa improvvisa mi ha
profondamente segnata. La sua sapienza mi manca almeno quanto le nostre
vulcaniche, vicendevoli incazzature. Capitava spesso, nei nostri incontri, che il
dialogo planasse sul periodo stragista, sui tanti interrogativi rimasti irrisolti, sulla
figura di Giovanni. Altrettanto spesso, anche dopo anni, ho sollecitato Peppe
perché mi indicasse la fonte che aveva ispirato e reso possibile la stesura di quel
maledetto articolo con il quale aveva vanificato – facendo il suo mestiere, lo so
bene – una pista che avrebbe potuto portarci molto lontano. Ma, nonostante la
stima e l’amicizia che ci legavano, Peppe ha sempre lasciato cadere il discorso
su quell’oscura vicenda, non mi ha mai voluto rivelare alcun dettaglio né indizio.
Finché una sera, proprio pochi giorni prima della sua morte improvvisa
(avvenuta il 30 luglio 2011), alla mia ennesima sollecitazione, finalmente mi
raccontò cos’era avvenuto diciassette anni prima. Perché si fosse deciso a farlo,
sinceramente non lo so, forse oggi lo saprei se la morte non se lo fosse portato
via. Ma quella fu l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a casa mia, seduti sui
divani uno di fronte all’altra. Sul tavolo le mie sigarette, i suoi sigari e il suo
bicchiere di whisky con il ghiaccio. Il suo racconto – che riferirò omettendo i
nomi – mi lasciò di sasso. Eccolo.
In una tiepida notte romana del marzo 1994, era squillato il telefono di casa
D’Avanzo. Peppe aveva risposto e, con suo grande stupore, aveva sentito
dall’altra parte una voce che ben conosceva ma che aveva qualcosa di inusuale.
Il tono era basso, grave e anche l’ora della telefonata era insolita. Ma ancora più
stupefacente era stata la richiesta ricevuta: “Peppe, vieni subito da me. Devo
parlarti di una cosa importante”. Impossibile dire di no. D’Avanzo era uscito in
fretta da casa, era salito su un taxi e dieci minuti dopo suonava all’appartamento.
L’uomo – ricordò Peppe – era scosso, turbato, “aveva gli occhi lucidi, che
testimoniavano una sorta di disperazione mista a paura che mi ha colto di
sorpresa”. D’Avanzo proprio non si aspettava né sapeva spiegarsi una tale
agitazione in una persona nota a tutti per l’aplomb, la razionalità, l’estrema
freddezza anche nei frangenti più delicati e pericolosi, con una sperimentata
capacità di controllare le emozioni: “Eppure era lì, proprio davanti a me, con le
lacrime agli occhi e delle carte in mano. Ne ho letto velocemente il contenuto e
mi sono appuntato qualche frase. Non mi ha lasciato nulla in mano e me ne sono
andato subito dopo, senza parole”.
Anch’io, a quel racconto, ero rimasta senza parole, con la testa piena di
domande e nessuna risposta. Non c’è dubbio che la persona che si era rivolta a
Peppe era consapevole del danno che sarebbe derivato alle indagini dalla
pubblicazione del verbale di Cancemi, né ho mai dubitato della genuinità del
racconto di D’Avanzo, uomo e professionista non incline all’esagerazione o
addirittura all’invenzione.
Niente nomi, perché Peppe non c’è più e perché il suo interlocutore mi
conosce bene. Forse sarebbe importante per tutti se volesse confrontarsi sui
motivi che lo hanno spinto ad agire in quel modo.
Risultato dell’articolo, comunque, era stato che Pierino Di Napoli era
diventato immediatamente uccel di bosco. Con il che era sfumata ogni possibilità
di intercettare il misterioso “emissario del Nord” e documentare in tempo reale
le consegne di denaro a Ganci o a chi per lui. Quel filone si inaridì in poco
tempo, proprio negli stessi primi giorni del 1994 in cui lo scenario politico e
giudiziario del Paese veniva attraversato da eventi di grande importanza, che
meritano di essere elencati in ordine cronologico.
Il 23 gennaio (la data esatta l’avremmo saputa solo nel 2008 dalle rivelazioni
di Gaspare Spatuzza) era fallito un altro attentato. Il progetto prevedeva di far
esplodere ordigni potenziati con chiodi e bulloni per colpire in pieno giorno
tifosi e forze dell’ordine nei pressi dello stadio Olimpico, al termine della partita
Roma-Udinese. Benché programmato già dal novembre precedente, l’ordine di
agire proprio il 23 fu impartito da Giuseppe Graviano a Spatuzza solo qualche
giorno prima, in un incontro avvenuto al bar Doney di Roma. Se l’atto non fosse
fallito per un guasto al telecomando, avrebbe provocato centinaia di vittime tra
tifosi e forze dell’ordine, come del resto anticipato da alcune lettere anonime
recapitate ai maggiori quotidiani nazionali intorno al luglio ’93, in concomitanza
con le tre esplosioni (notturne) a Milano e Roma. A imbucare le missive – che
sarebbero poi risultate identiche nel contenuto – era stato mesi prima lo stesso
Spatuzza, su disposizione dei Graviano. L’annuncio era agghiacciante: “Tutto
quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe,
informiamo la Nazione che le prossime a venire andranno collocate soltanto di
giorno e in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite
umane. PS: Garantiamo che saranno a centinaia”.
Ma proseguiamo con la nostra cronologia.
Il 26 gennaio Silvio Berlusconi annunciava la sua “discesa in campo” come
leader di Forza Italia; il 18 febbraio verbalizzavo le dichiarazioni di Cancemi; il
7 marzo gli inquirenti fissavano in un provvedimento giudiziario
l’organigramma completo del vertice di Cosa nostra al momento dell’attentato di
Capaci. Due settimane dopo, il 21 marzo 1994, usciva su “Repubblica” l’articolo
di Bolzoni e D’Avanzo sui finanziamenti “nordisti” a Cosa nostra. Infine, il 27 e
28 marzo si erano tenute le elezioni politiche, vinte dalla compagine di centro-‐
destra, con un trionfo personale di Berlusconi e Forza Italia, che faceva il pieno
nel capoluogo siciliano, sbancava a Caltanissetta e a Siracusa, vinceva a Catania,
stravinceva a Messina. Un travaso di voti da tutti i partiti tradizionali, ormai
agonizzanti dopo la ramazzata di Tangentopoli, a favore della neonata
formazione creata dall’imprenditore lombardo. Oltre ogni previsione, oltre ogni
pronostico.
Il governo Berlusconi rimase in carica dal 10 maggio 1994 al 17 gennaio
1995: tra i suoi ministri, alla Difesa c’era Cesare Previti, l’avvocato romano
della Fininvest, vicinissimo allo stesso Berlusconi. All’epoca Previti era per me
un emerito sconosciuto, che avrei purtroppo imparato a conoscere al mio rientro
a Milano. E con la vittoria del centro-destra era addirittura in lizza per diventare
ministro della Giustizia.
Dunque, il 7 marzo 1994 erano state notificate le ordinanze cautelari nei
confronti dei mafiosi membri della Commissione provinciale di Palermo che alla
data del 23 maggio 1992 era composta da: Salvatore Riina e Bernardo
Provenzano per il mandamento di Corleone; Matteo Motisi per il mandamento di
Pagliarelli; Pietro Aglieri per il mandamento della Guadagna; Salvatore
Biondino (in sostituzione di Giacomo Gambino) per il mandamento di San
Lorenzo; Filippo e Giuseppe Graviano per il mandamento di Brancaccio;
Giuseppe Montalto (in sostituzione di Salvatore Montalto) per il mandamento di
Villabate; Michelangelo La Barbera (in sostituzione di Salvatore Buscemi) per il
mandamento di Boccadifalco; Francesco Di Trapani (in sostituzione di
Francesco Madonia) per il mandamento di Resuttana; Salvatore Cancemi (al
posto di Giuseppe Calò) per il mandamento di Porta nuova; Raffaele Ganci per il
mandamento di Noce; Giovanni Brusca (in sostituzione del padre Bernardo) per
il mandamento di San Giuseppe Jato; Antonino Geraci per il mandamento di
Partinico; Benedetto Spera per il mandamento di Belmonte Mezzagno; Giuseppe
Farinella per il mandamento di Ganci; Antonino Giuffrè per il mandamento di
Caccamo-Termini Imerese.
Avrei risparmiato al lettore un elenco tanto dettagliato e puntiglioso se questo
gruppo di criminali non avesse un interesse che definirei storico. Perché sono
queste le persone che hanno dato il via libera all’omicidio di Giovanni Falcone,
un’azione talmente clamorosa da richiedere l’approvazione di ciascun membro
della Commissione.
Nel periodo successivo alle elezioni di fine marzo, ebbi anche modo di notare
il mutato atteggiamento del procuratore Tinebra nei miei confronti. Pur
trattandomi, come di consueto, con affetto e simpatia, capivo chiaramente che la
scadenza ormai prossima della mia applicazione siciliana, nell’ottobre ’94, era
vissuta come una sorta di liberazione.
Nelle settimane successive, inoltre, Tinebra mi fece capire nei suoi soliti modi
“soft” che era meglio non mi intromettessi sul fronte “magistrati collusi” (le
rivelazioni di diversi collaboratori avevano dato origine a più fascicoli), così
come nei procedimenti relativi ai rapporti tra massoneria e Cosa nostra. Il
procuratore avrebbe preferito che non continuassi a occuparmi della ricerca di
eventuali mandanti occulti delle stragi, ma su questo ero stata irremovibile e
glielo chiarii senza giri di parole: avrei indagato anche in quella direzione fino
all’ultimo giorno della mia applicazione.
Con queste premesse, si può intuire facilmente come gli ultimi mesi nisseni
siano stati molto difficili. Mi sentivo osservata, per non dire controllata, dai
colleghi, e percepivo un clima di ostilità che diventava ogni giorno più tangibile,
fino a raggiungere il culmine con la scelta di collaborare fatta da Vincenzo
Scarantino.
13.
La prima audizione sul caso Scarantino

Nell’ottobre 1994, pochi giorni prima di lasciare definitivamente la Sicilia,


inviai la richiesta di rinvio a giudizio per i membri della Commissione
interprovinciale in carica nel maggio ’92: Mariano Agate (per la provincia di
Trapani), Antonio Ferro (rappresentante delle famiglie di Agrigento), Giuseppe
Madonia (rappresentante delle famiglie di Caltanissetta), Benedetto Santapaola
(per la provincia di Catania). Il 30 aprile avevo intanto inoltrato la richiesta di
rinvio a giudizio nei confronti della Cupola e degli esecutori materiali della
strage di Capaci.
L’amarezza per il deterioramento del clima interno all’ufficio non intaccò
comunque la soddisfazione per essere riuscita, a nemmeno due anni dalla strage,
a portare a giudizio le persone che avevano le mani lorde del sangue di Capaci.
Un lavoro così riportato nel capo di imputazione:
In ordine al delitto p. e p. dagli artt. 61 nr. 10, 81 cpv, 110, 112 nr. 1, 422 C.P. e 7 D.L. 13.05.91 nr. 152
convertito in L. 12.07.1991 nr. 203, per aver, in concorso e riunione tra loro e con altri soggetti non
ancora identificati, in numero superiore a cinque, al fine di uccidere, compiuto atti tali da porre in
pericolo la pubblica incolumità.
In particolare: Riina Salvatore e Provenzano Bernardo (rispettivamente capo mandamento e sostituto del
mandamento di Corleone); Motisi Matteo (capo mandamento di Pagliarelli); Aglieri Pietro e Greco Carlo
(rispettivamente capo mandamento e sostituto del mandamento della Guadagna); Gambino Giacomo
Giuseppe e Biondino Salvatore (rispettivamente capo mandamento e sostituto del mandamento di San
Lorenzo); Graviano Filippo e Giuseppe (capi mandamento di Brancaccio); Montalto Salvatore e
Montalto Giuseppe (rispettivamente capo mandamento e sostituto del mandamento di Villabate);
Buscemi Salvatore e La Barbera Michelangelo (rispettivamente capo mandamento e sostituto del
mandamento di Boccadifalco); Madonia Francesco (capo mandamento di Resuttana); Calò Giuseppe e
Cancemi Salvatore (rispettivamente capo mandamento e sostituto del mandamento di Porta nuova);
Ganci Raffaele (capo mandamento della Noce); Brusca Bernardo e Brusca Giovanni (rispettivamente
capo mandamento e sostituto del mandamento di San Giuseppe Jato); Geraci Antonino (capo
mandamento di Partinico); Spera Benedetto (capo mandamento di Belmonte Mezzagno); Farinella
Giuseppe (capo mandamento di Ganci); Giuffrè Antonino (capo mandamento di Caccamo) in qualità di
mandanti, in ragione della loro appartenenza all’organo di governo (Commissione) del sodalizio
criminale denominato Cosa nostra, per aver deliberato e dato il proprio assenso, su proposta di Riina
Salvatore e Provenzano Bernardo, all’eliminazione fisica del dottor Giovanni Falcone per essere stato
quest’ultimo il magistrato che aveva con la sua lunga attività giudiziaria presso il tribunale di Palermo e
successivamente come direttore generale dell’Ufficio affari penali del ministero di Grazia e Giustizia
posto in concreto pericolo la stessa sopravvivenza dell’organizzazione.
Progetto di eliminazione che prendeva concretezza nel maggio ’92 con l’attività preparativa ed esecutiva
affidata a:
Agrigento Giuseppe (uomo d’onore della famiglia di San Cipirello); Bagarella Leoluca (uomo d’onore
della famiglia di Corleone); Battaglia Giovanni; Biondino Salvatore (sostituto del mandamento di San
Lorenzo e membro della Commissione); Biondo Salvatore (uomo d’onore della famiglia di San
Lorenzo); Brusca Giovanni (sostituto del mandamento di San Giuseppe Jato e membro della
Commissione); Cancemi Salvatore (sostituto del mandamento di Porta nuova e membro della
Commissione); Di Matteo Mario Santo (uomo d’onore della famiglia di Altofonte); Ferrante Giovan
Battista (uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo); Ganci Calogero (uomo d’onore della famiglia
della Noce); Ganci Domenico (uomo d’onore della famiglia della Noce); Ganci Raffaele (capo
mandamento della Noce e membro della Commissione); La Barbera Gioacchino (uomo d’onore della
famiglia di Altofonte); Rampulla Pietro (uomo d’onore, già vicerappresentante della famiglia di
Mistretta, legato a Benedetto Santapaola); Riina Salvatore (capo mandamento di Corleone e membro
della Commissione); Sbeglia Salvatore; Sciarabba Giusto (uomo d’onore della famiglia della Noce);
Troia Antonino (uomo d’onore della famiglia di Capaci) in qualità di esecutori materiali. Segnatamente,
dopo aver sottoposto ad attenta osservazione la vittima predestinata in Roma e in territorio di Palermo,
partecipando a numerose riunioni operative per la elaborazione dei particolari del piano criminoso,
scegliendo mediante ripetute ricognizioni il posto più adatto all’agguato, effettuate le prove del caso,
trasportando quanto necessario, confezionando e poscia collocando in un cunicolo sottostante la corsia
lato monte del tratto autostradale Punta Raisi-Palermo, località Capaci, una ingente carica di materiale
esplosivo che veniva fatta brillare, mediante un dispositivo telecomandato, al passaggio del corteo delle
autovetture blindate di servizio in uso al dottor Giovanni Falcone e alla sua scorta, da cui conseguiva
direttamente la morte del predetto dottor Falcone, direttore generale degli Affari penali presso il
ministero di Grazia e Giustizia, della di lui consorte dottoressa Francesca Morvillo, magistrato in servizio
presso ufficio giudiziario compreso nel distretto della Corte d’appello di Palermo, e degli agenti di scorta
Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, nonché lesioni personali di varia entità in danno di
altre persone, con le aggravanti di aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali a causa
dell’adempimento delle funzioni e del servizio rispettivo di ciascuno di essi e di aver agito al fine di
agevolare l’attività dell’associazione mafiosa denominata “Cosa nostra” di cui essi coimputati facevano
parte.
In Palermo, località Capaci-Isola delle femmine fino al 23.05.92.

Come sancito dalla sentenza definitiva del maxiprocesso, Cosa nostra è


l’“organizzazione criminosa connotata da una struttura di tipo verticistico e
dall’aggregazione di diversi nuclei operativi collegati dal comune intento di
perseguire profili illeciti affermando il predominio con metodologia di
sopraffazione e di intimidazione, addirittura secondo regole di comportamento
codificate e affidate a una rigorosa osservanza da parte dei consociati”.
Un sodalizio criminoso dotato di precisi schemi organizzativi, con a capo una
direzione centralizzata. Gli uomini d’onore si raggruppano in famiglie, ognuna
ha un suo capo, un vicecapo, uno o più consiglieri e capi decina. Ai
rappresentanti o capi delle famiglie si aggiungono i capi mandamento, i quali
partecipano all’organo centrale di raccordo che è la Commissione, o Cupola, a
livello provinciale. A questo organo si affianca – tranne che per le questioni che
interessano direttamente il territorio palermitano – una Commissione
interprovinciale e regionale con compiti di coordinamento e per la trattazione di
“affari” che coinvolgono un ambito territoriale più allargato.
Nessun delitto di rilievo, tanto meno un omicidio, può essere commesso nel
territorio senza il consenso della famiglia che lo domina. Gli omicidi più
eclatanti contro uomini delle istituzioni, politici, giornalisti, avvocati ecc.
vengono invece decisi da tutta la Commissione regionale, proprio perché
possono determinare reazioni dello Stato che colpiscono gli interessi generali
dell’organizzazione e non soltanto di singoli esponenti. Decidere, quindi,
l’eliminazione di Giovanni Falcone – peraltro con quelle modalità – non poteva
che avere alle spalle il consenso unanime di tutti i capi di Cosa nostra.
Predisporre i faldoni con la documentazione acquisita, dividere il materiale in
modo organico per consentirne un’agevole lettura e rivedere le singole posizioni
fu un impegno non di poco conto. Ai colleghi che si sarebbero occupati del
processo volevo lasciare un quadro d’insieme lineare ed esaustivo.
Ad aggravare il caos di quegli ultimi mesi fu, come ho detto, la decisione di
collaborare presa da Vincenzo Scarantino, un personaggio minore ma con
parentele di spessore all’interno della famiglia mafiosa della Guadagna (uno dei
quartieri di Palermo), detenuto a Pianosa con l’accusa di aver rubato e collocato
sotto l’abitazione della mamma di Paolo Borsellino la Fiat 126 imbottita di
esplosivo.
Non mi dilungherò su questa vicenda. Al momento in cui ne scrivo sono
ancora in corso procedimenti a carico di pubblici funzionari e magistrati che
negli anni si sono occupati dei processi sulla morte di Paolo Borsellino e della
gestione di questo collaboratore. Mi limito a ricordare che in una sentenza
dell’aprile 2017 la Corte d’assise di Caltanissetta ha dipinto il falso pentimento
di Scarantino come uno dei più gravi depistaggi mai architettati nella storia
giudiziaria italiana. Quando ho letto quelle parole, mi sono venute in mente altre
tragedie che hanno messo in pericolo la stabilità del Paese, peraltro non ancora
chiarite completamente: la strage di piazza Fontana, Ustica, il sequestro Moro, la
strage di Bologna.
Per Scarantino, se di depistaggio si vuole parlare, lo definirei un tentativo
rozzo e inconcludente che avrebbe potuto, e dovuto, essere fermato sul nascere;
invece le sue dichiarazioni hanno portato alla condanna all’ergastolo anche di
persone innocenti. Innocenti, almeno di quello specifico reato.
Il primo interrogatorio di Scarantino, del 24 giugno 1994, è avvenuto nel
carcere di Pianosa. Il procuratore Tinebra mi aveva comunicato la novità e che
era perciò necessario andare a sentirlo. Gli feci presente di essere molto
impegnata nella preparazione del rinvio a giudizio degli imputati di Capaci
chiedendogli di delegare a quell’atto istruttorio altri colleghi, in particolare Anna
Palma, Paolo Giordano e Carmelo Petralia, che meglio di me avrebbero potuto
condurre l’interrogatorio, dato che stavano già indagando sulla strage di via
D’Amelio. Aggiunsi inoltre che di lì a poco sarei rientrata a Milano, mentre i tre
colleghi sarebbero rimasti a Caltanissetta e perciò avrebbero potuto operare più
compiutamente. Ma Tinebra non volle sentire ragioni e così, insieme a Carmelo
Petralia, andai a Pianosa.
Partimmo da Roma in elicottero con un volo notturno di circa due ore. Sentivo
freddo, forse per la stanchezza e la tensione; il rumore assordante del rotore, che
in altre occasioni avevo vissuto come una piacevole sensazione di libertà, mi
trapanava il cervello e a nulla servivano le cuffie imbottite in dotazione.
Atterrati a Pianosa, fummo condotti nella stanza in cui ci attendeva Scarantino,
circondato da agenti penitenziari. L’uomo alternava stati di sovraeccitazione a
stati di ansia catatonica. Piano piano riuscimmo a calmarlo, almeno in parte, e a
verbalizzare le sue prime dichiarazioni, non senza un certo imbarazzo causato
dal dottor La Barbera che, pochi minuti dopo l’inizio dell’interrogatorio, si
accasciò su una poltrona e si addormentò di colpo, cominciando per di più a
russare rumorosamente. Ogni tanto si svegliava e riusciva – non so davvero
come – a dare l’impressione di non aver perso una parola di quanto si diceva in
quella stanza.
Ebbe inizio così l’avventura di Scarantino nella versione “collaboratore di
giustizia”. Anche se sarebbe più appropriato parlare non tanto di “avventura”
quanto di una dolorosa “disavventura”.
Se penso all’atteggiamento del procuratore, alla sua totale sordità verso i miei
tanti campanelli d’allarme sulla genuinità e attendibilità delle dichiarazioni di
Scarantino, ancora oggi non mi so spiegare perché Tinebra insistette a mandare
anche me a gestire i primissimi, delicati passaggi di quell’ambigua
collaborazione.
Nutrii fin da subito dubbi sulla figura e sui resoconti di quell’uomo, ma
attribuii quelle mie sensazioni alle sue difficoltà nel muovere i primi passi nella
direzione intrapresa, difficoltà riscontrate anche in numerosi altri casi; andava
inoltre messo in conto il timore che la sua decisione avrebbe potuto mettere a
repentaglio la vita dei famigliari. Non era certo il primo pentito di
un’organizzazione mafiosa che alternava periodi di incertezza e di dubbio a
momenti di maggior determinazione.
Delle mie perplessità feci ovviamente partecipi i tre colleghi e lo stesso
procuratore. Ma solo Roberto Saieva, come me applicato a Caltanissetta,
condivideva gli stessi dubbi, che espresse anche pubblicamente. Tutti gli altri
mostravano di prendere per oro colato le parole del mafioso che accusava e si
autoaccusava.
Situazione troppo delicata e troppo oscura per essere lasciata cadere. Così,
seguendo quello che suggerivano istinto ed esperienza, decisi di darmi tempo e
(per l’ennesima volta) di sacrificare le ferie estive per valutare in modo più
approfondito la vicenda. Ne riparlai ovviamente con Tinebra, ma trovai in lui un
muro, la già sperimentata barriera di sorrisi, gentilezze e pacche sulle spalle, che
si tradusse nelle solite, paternalistiche parole: “Cocca mia, sei stanca, hai diritto
a un lungo riposo...”.
Partii per Napoli, destinazione Ischia, dove trascorsi le ferie con i miei figli. Al
rientro in ufficio, sia io sia Roberto avemmo la certezza dell’inattendibilità di
Scarantino che, negli interrogatori resi ai colleghi in nostra assenza, aveva messo
in fila una serie di dichiarazioni incongrue, contraddittorie, quando non
addirittura – come ebbi a dire – “al di là del bene e del male”.
A questo proposito, Saieva e io avemmo con i colleghi accese discussioni, ma
non fummo ascoltati. Dopo esserci consultati, consapevoli che stavamo per
compiere un passo molto delicato, in vista della riunione convocata per il 13
ottobre decidemmo di mettere nero su bianco le nostre perplessità, analizzando
punto per punto le dichiarazioni rese da Scarantino, che a nostro giudizio
costruivano un quadro di circostanze del tutto inattendibili.
Non eravamo mossi da presunzione da primi della classe, ma dalla
preoccupazione di vedere vanificato il lavoro fin lì svolto. Nella relazione che
venne consegnata brevi manu dal brigadiere Fenu a tutti i colleghi – Tinebra,
Palma, Petralia, Giordano, Di Matteo – che avrebbero partecipato alla riunione
con me e Roberto consigliavamo prudenza, equilibrio nonché lo scrupolosissimo
controllo sui fatti raccontati, visto che in alcuni verbali dello stesso Scarantino
venivano coinvolti altri collaboratori di giustizia (Salvatore Cancemi, Santino Di
Matteo, Gioacchino La Barbera), le cui dichiarazioni, tutte riscontrate, erano
state fondamentali per la ricostruzione dei fatti e l’individuazione dei
responsabili della strage di Capaci. Dunque collaboratori ritenuti attendibili dalle
tre procure che indagavano: Palermo, Firenze e Caltanissetta.
APPUNTI DI LAVORO PER LA RIUNIONE DELLA DDA DEL 13.10.94

Allo scopo di impostare l’ulteriore attività investigativa da compiere nel proc. pen, nr. 2430/A/93 si
sottopone all’attenzione dei colleghi il seguente promemoria corredato di specifiche proposte operative.
1. Dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in data 06.09.94.
Lo Scarantino ha dichiarato che:
– alla riunione svoltasi nei primi giorni del luglio ’92 in casa Calascibetta parteciparono anche Cancemi
Salvatore, La Barbera Gioacchino, Di Matteo Santo e Ganci Raffaele;
– Di Matteo Santo aveva partecipato anche alla predisposizione dell’autobomba il giorno 18.07.92 presso
il garage di Orofino;
– Cancemi Salvatore era da lui ben conosciuto per averlo incontrato in più occasioni (all’interno della
pizzeria Fontanella di Salvino Ingrassia; dentro il bar Olimpia della Guadagna, circostanza nella quale gli
era stato indicato con le generalità complete da suo cognato Profeta Salvatore; più volte all’interno della
bottega di Salvatore Profeta; in occasione di un incontro del Cancemi suddetto con Profeta Salvatore e
Pipitone Antonino in zona Villagrazia);
– Cancemi Salvatore il giorno della riunione in casa Calascibetta portava i baffi;
– Di Matteo era pure da lui ben conosciuto fin dagli anni ’87-88 per averlo incontrato una prima volta
alla Guadagna mentre era in compagnia di Pietro Aglieri e Francesco Marino Mannoia; per averlo
successivamente rivisto sempre alla Guadagna in compagnia di Pietro Aglieri che glielo aveva presentato
come “Santineddu”; per averlo più volte notato nella bottega di Profeta Salvatore e visto circolare alla
guida di una Panda azzurra e di un ciclomotore Peugeot; per averlo alla fine del 1991 accompagnato a
una riunione di uomini d’onore in casa di Profeta Salvatore;
– Di Matteo il giorno della riunione in casa Calascibetta aveva la barba;
– La Barbera era pure da lui ben conosciuto per averlo visto la prima volta alla Guadagna in compagnia
di Pietro Aglieri prima che questo si desse alla latitanza e, successivamente, più volte in vari ritrovi
pubblici dello stesso quartiere; per averlo infine incontrato circa un anno prima dell’arresto di esso
Scarantino al bar Giallo di Villagrazia in compagnia di Pietro Aglieri;
– del La Barbera aveva più volte sentito parlare da Carlo Greco e Pietro Aglieri che nei loro discorsi lo
indicavano ora con il nome ora con il cognome;
– Di Matteo era stato da lui ben osservato in occasione della riunione in casa Calascibetta, dato che del
Di Matteo avevano parlato, durante l’attesa, Pinuzzu La Mattina e Natale Gambino, peraltro indicandolo
come un esperto in bombe, e in quanto alla fine della riunione aveva salutato lui con una pacca sulla
spalla e aveva abbracciato il La Mattina e il Gambino;
– non aveva precedentemente indicato Cancemi, Di Matteo e La Barbera tra i presenti alla riunione, pur
essendo certo della loro identità, perché, trattandosi di collaboratori di giustizia ormai accreditati i quali
avevano taciuto la loro responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio, aveva temuto che le autorità
potessero non prestare fede alle sue dichiarazioni.
Nell’interrogatorio in esame lo Scarantino:
– riconosceva Cancemi nella fotografia diffusa più volte dagli organi di stampa, che ritrae il Cancemi
con i baffi (trattasi della foto ritraente Cancemi al momento della sua costituzione avvenuta nel luglio
’93);
– attribuiva reiteratamente a Di Matteo Santo l’identità di La Barbera Gioacchino, individuando, inoltre,
elementi di somiglianza tra il Di Matteo e Ferrante Giovan Battista, invero inesistenti;
– identificava in Di Matteo Santo, Rampulla Pietro.

***
2. Dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in data 12.09.94.
Lo Scarantino ha dichiarato che:
– durante la riunione in casa Calascibetta aveva sentito il La Mattina e gli altri giovani che attendevano
fuori dal salone fare espresso riferimento a La Barbera Gioacchino;
– ad Andriotta Francesco aveva confidato tutte le circostanze a lui note concernenti la strage di via
D’Amelio, in esse comprese quelle relative alla responsabilità del Cancemi, del La Barbera e del Di
Matteo, indicando quest’ultimo come uno “con le corna dure”, esperto in esplosivi e aduso a parlare un
dialetto meno marcato del suo.
***
3. Dichiarazioni rese da Andriotta Francesco in data 16.09.94.
Andriotta ha dichiarato che:
– Scarantino Vincenzo gli aveva parlato di un Matteo o Mattia, persona che non parlava in dialetto
palermitano e che era esperta in esplosivi;
– lo stesso Scarantino gli aveva riferito di essere stato presente a una riunione alla quale avevano
partecipato personaggi di spicco di Cosa nostra durante la quale era stata decisa l’eliminazione del
giudice Borsellino, lasciando intendere di essere in grado di ricordare particolari concernenti lo
svolgimento di detta riunione.

***
4. In data 29 e 30 settembre 1994, La Barbera Gioacchino prima e, quindi, Salvatore Cancemi
respingevano le accuse di Scarantino Vincenzo, confutando tutte le dichiarazioni con le quali questi
aveva circostanziato la chiamata in correità (con la eccezione della conferma da parte del La Barbera di
un fatto criminoso effettivamente non noto ma che poteva essere stato indirettamente conosciuto dallo
Scarantino).
La Barbera Gioacchino, tra l’altro, affermava con assoluta sicurezza che Di Matteo Santo non aveva mai
portato barba o baffi.
Sempre in data 30.09.94 veniva interrogato Di Matteo Santo che si rifiutava, però, di rispondere alle
domande dell’ufficio.

***
5. Dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in data 05.10.94.
Nuovamente interrogato, Scarantino Vincenzo dichiarava:
– di avere effettivamente conosciuto Cancemi, La Barbera e Di Matteo nelle occasioni riferite nei
precedenti interrogatori, ma di non aver mai avuto modo di osservarli attentamente, per innata timidezza;
– di aver potuto osservare solo per brevissimi attimi ed esclusivamente di profilo le persone partecipanti
alla riunione;
– di avere creduto di riconoscere in uno dei presenti Salvatore Cancemi;
– di avere udito il La Mattina e Gambino Natale accennare alla presenza tra i convenuti di tali
“Santineddu” e “Iachinu”, persone delle quali non erano stati, però, pronunciati i cognomi;
– di avere avuto, soltanto dopo l’inizio della sua collaborazione, l’occasione di esaminare le fotografie
dei tre collaboratori e di avere creduto di riconoscere in essi tre delle cinque persone partecipanti alla
riunione che non era riuscito inizialmente a identificare;
– di essere pronto ad ammettere che l’identificazione dei tre collaboratori poteva essere stata il frutto di
una errata impressione;
– di poter confermare, invece, il riconoscimento di Raffaele Ganci, persona che aveva senz’altro
partecipato alla riunione in casa Calascibetta e che da lui non era stata in un primo momento indicata
all’autorità procedente per il timore di rappresaglie nei confronti della sua famiglia che lo stesso Riina
non avrebbe avuto la possibilità di ordinare (non avendo fin qui assunto analoghe iniziative nei confronti
dei famigliari del collaboratore Marchese Giuseppe);
– di aver fatto ad Andriotta Francesco i nomi dei tre collaboratori ma non in relazione alla consumazione
di specifici fatti criminosi.

***
6. In data 06.10.94 veniva interrogato Di Matteo Mario Santo che, respingendo le accuse dello
Scarantino, confutava tutte le sue dichiarazioni dirette a circostanziare le occasioni di loro pregressi
rapporti (affermando, tra l’altro, di non aver mai circolato alla guida di una Fiat Panda o di ciclomotori) e
osservava, quanto alla presunta riunione in casa Calascibetta, che già sulla base di argomenti logici
poteva essere revocato in dubbio che la riunione si fosse svolta e che in ogni caso mai egli avrebbe
potuto sedere allo stesso tavolo con Riina Salvatore per partecipare alla deliberazione di un fatto di
sangue così grave come la strage di via D’Amelio.

***
Tutti e tre i collaboratori hanno negato di aver mai conosciuto Scarantino Vincenzo e hanno chiesto di
essere messi a confronto con lo stesso.
Sulla base degli atti fin qui assunti è ragionevole affermare che le dichiarazioni di Scarantino Vincenzo
nella parte relativa alla partecipazione alla riunione deliberativa della strage del Cancemi, del La
Barbera, del Di Matteo e del Ganci Raffaele non sono attendibili, ove si consideri che:
a) dopo esitazioni e ondeggiamenti (che sono ulteriore prova di una condotta processuale non ispirata a
linearità) lo Scarantino ha affermato, negli interrogatori del 6 e 12 settembre, di avere riconosciuto con
certezza tra i partecipanti alla riunione del luglio ’92 i tre collaboratori di giustizia, trattandosi di persone
che gli erano ben note per avere egli avuto con le stesse ripetute occasioni di contatto nel corso di molti
anni;
b) ha, in particolare, riferito di essere stato cordialmente salutato dal Di Matteo subito dopo la riunione;
c) non ha tuttavia riconosciuto fotograficamente Di Matteo Santo, confondendolo con il La Barbera
prima, identificandolo poi in Rampulla Pietro e giudicandolo, infine, somigliante a Ferrante Giovan
Battista che al Di Matteo, come a Rampulla Pietro, non somiglia affatto;
d) ha indicato il Di Matteo come persona nota negli ambienti di Cosa nostra per essere esperta di
esplosivi, in particolare affermando (interrogatorio del 06.09.94) che proprio il giorno della riunione,
mentre si trovava in attesa con Murana, La Mattina e altri, da questi ultimi aveva appreso che Di Matteo
era un esperto in “botti”, laddove l’incompetenza del suddetto Di Matteo in tale materia è da ritenere
conclamata;
e) ha attribuito a Cancemi e a Di Matteo, con riferimento al momento in cui si sarebbe svolta la riunione
in casa Calascibetta, connotati fisici non rispondenti alla realtà;
f) ha, quindi, pur riaffermando di avere ben conosciuto i tre collaboratori di giustizia, incredibilmente
asserito di non aver mai potuto fissare nella memoria le loro fisionomie, aggiungendo, altrettanto
incredibilmente, di avere soffermato lo sguardo sui partecipanti alla riunione soltanto per pochi istanti;
g) ha dichiarato di aver avuto occasione di esaminare fotografie dei tre collaboratori soltanto dopo
l’inizio della sua collaborazione con l’autorità, mentre aveva prima affermato di avere visto una
fotografia di La Barbera Gioacchino durante la sua detenzione;
h) ha fornito una giustificazione risibile sul silenzio precedentemente mantenuto in ordine alla
partecipazione alla riunione di Ganci Raffaele, apparendo del tutto inverosimile, sulla base delle
conoscenze a oggi acquisite sulle regole interne di Cosa nostra, che il Ganci avesse potuto assumere
autonomamente la decisione di eliminare dei parenti del collaboratore di giustizia senza chiedere il
preventivo assenso di Riina e Provenzano, ipotesi ammissibile solo a prezzo di una radicale
reinterpretazione del ruolo fin qui attribuito al gruppo egemone corleonese. (Sul punto va peraltro
osservato che intanto può essere ritenuta per vera la chiamata di correità dello Scarantino nei confronti di
Ganci Raffaele, in quanto si sia disposti a revocare in dubbio l’attendibilità di tutte le dichiarazioni fin
qui rese da Cancemi Salvatore de relato, perché fondate su confidenze ricevute dal Ganci. Se invero il
Ganci avesse mentito al Cancemi in ordine al ruolo avuto nella strage di via D’Amelio, dovrebbe essere
riconsiderato l’assunto di Cancemi Salvatore secondo cui vanno ritenute assolutamente attendibili quelle
sue accuse che hanno come fonte originaria Ganci Raffaele, per essere egli certo del fatto che il Ganci gli
ha sempre detto il vero sui fatti di Cosa nostra);
i) ha dichiarato di aver parlato ad Andriotta Francesco di Cancemi, La Barbera e Di Matteo come di
persone rappresentative di Cosa nostra, senza aver fatto specifico riferimento alla loro partecipazione a
fatti delittuosi, dopo avere riferito che all’Andriotta aveva invece confidato del ruolo avuto dai tre nella
preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio.

***
L’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage
di via D’Amelio – prima affermata come certa e poi come possibile – di Cancemi, La Barbera e Di
Matteo (ma anche di Ganci Raffaele) suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di
tale collaboratore, anche perché lo stesso ha nel corso della sua recente collaborazione modificato la
propria posizione in ordine a una circostanza che, avuto riguardo ai limiti circoscritti del contributo
causale da lui fornito per l’esecuzione della strage, assume estremo rilievo.
Sin dal primo momento lo Scarantino aveva infatti dichiarato che, allorquando gli era stato commesso
l’incarico di reperire un’autovettura di piccola cilindrata da impiegare per la strage, egli era già in
possesso di una Fiat 126 rubata fornitagli da Candura Salvatore; nelle dichiarazioni rese in data 12.09.94
ha invece affermato di avere commissionato al Candura il furto dell’autovettura dopo aver ricevuto
l’incarico sopra indicato.
Tutto ciò premesso, si deve ritenere assolutamente indispensabile ai fini dell’accertamento della verità
(sull’intera dinamica della strage di via D’Amelio: vanno attentamente considerati infatti gli interrogativi
posti da Di Matteo Santo sulla possibilità concreta dello svolgimento di una riunione come quella che,
secondo il primo assunto dello Scarantino, si sarebbe tenuta in casa di Calascibetta Giuseppe) procedere
quanto prima a nuovo interrogatorio di Scarantino Vincenzo allo scopo di contestare analiticamente al
medesimo, sulla scorta degli atti del procedimento, le contraddizioni intrinseche delle sue precedenti
dichiarazioni e di contestargli altresì le dichiarazioni rese il 29 e 30 settembre e il 6 ottobre
rispettivamente da La Barbera Gioacchino, Cancemi Salvatore e Di Matteo Santo (le quali ultime
avrebbero potuto più opportunamente essere assunte prima e non dopo l’interrogatorio di Scarantino
Vincenzo del 5 ottobre), procedendo in ultimo – e soltanto in ultimo – a eventuale nuovo interrogatorio
di Andriotta Francesco.
Rinviare il compimento dei necessari atti di investigazione potrebbe avere come effetto, invero, quello di
lasciare allo Scarantino – al momento attestato sulla vaga ed equivoca posizione di un possibile (triplice)
errore di persona – una via aperta verso nuove piroettanti rivisitazioni dei fatti e di rendere possibile,
attesa l’imminenza del primo dibattimento concernente la strage di via D’Amelio, la verifica delle sue
dichiarazioni in una sede indubbiamente sfavorevole sotto il profilo delle dinamiche processuali alla
pubblica accusa, con gravi conseguenze e negli stessi procedimenti relativi alla strage di via D’Amelio e
in tutti quelli fondati sulle dichiarazioni di Cancemi Salvatore, La Barbera Gioacchino e Di Matteo
Santo.

Caltanissetta, lì 12.10.1994
I sostituti – Ilda Boccassini e Roberto Saieva
Roberto e io eravamo comunque fiduciosi che, confrontandoci con i colleghi e
il procuratore, saremmo arrivati a una visione comune. Purtroppo le cose
andarono diversamente. A cominciare dalla riunione del 13, che fu annullata
all’ultimo momento e quindi nuovamente convocata per il 14 ottobre, cioè
proprio il giorno del mio rientro a Milano, al termine dell’applicazione. Si sarà
certamente trattato di una sfortunata coincidenza, che comunque impedì il
confronto tra i colleghi. Un vero peccato...
A ogni modo, l’impossibilità di riunirci come previsto mi indusse a scrivere
una seconda relazione, stavolta per indicare senza reticenze i punti di contrasto
con l’ufficio e sottolineare con la consueta franchezza la necessità, almeno a
partire da quel momento, di procedere agli interrogatori esclusivamente con le
forme imposte dal Codice. Ero stata testimone, infatti, di episodi che a mio
avviso non rispettavano i vincoli deontologici e le norme procedurali. Per
esempio, era capitato che Scarantino avesse momenti di chiusura, fosse
recalcitrante o addirittura mostrasse la volontà di ritrattare. Al che Tinebra si
appartava con lui e dopo un po’ il collaboratore, di nuovo pronto per essere
interrogato, filava via dritto senza più incertezze.
Non so quali fossero gli argomenti utilizzati da Tinebra per convincerlo.
Quello che so è che questo particolare approccio tra inquirente e indagato non
era ai miei occhi per nulla trasparente. E non ho esitato a dichiararlo, pronta a
nuovi strali e nuove critiche di protagonismo. Ma era il minimo che potessi fare.
Lo pensavo allora, lo penso ancora adesso.
[...] La mia applicazione a questa procura scadrà, come è ben noto, tra pochi giorni, [...] ciò mi impedirà,
com’è ovvio, di dare un significativo contributo all’impostazione delle attività che l’ufficio dovrebbe
programmare con riguardo alle indagini e ai dibattimenti dei procedimenti penali; quelli relativi, debbo
presumere, alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. [...]
Consapevole della temporaneità della mia applicazione e della mia prevedibile, futura surrogazione da
parte di altri colleghi, ho inoltre avuto sempre – nel procedimento relativo alla strage di Capaci – la cura
di formulare richieste e di assumere provvedimenti debitamente articolati e ampiamente motivati, in
modo da consentire a chiunque – ai pubblici ministeri come ai giudici, al personale addetto
all’informatizzazione degli atti, come ai difensori delle parti – un esame unitario e sistematico delle
svariate migliaia di pagine delle quali l’incartamento processuale si compone.
Ho posto particolare attenzione anche nella fascicolazione degli atti, onde permetterne un’agevole
consultazione (i positivi effetti di questo impegno sono stati già rilevati – credo – da quanti sono stati
impegnati nella trattazione dell’udienza preliminare). [...]
Né si è fatto ricorso a me per l’individuazione delle linee da seguire nel corso dell’udienza preliminare,
se è vero, come è vero, che soltanto dagli organi di stampa ho appreso che il pubblico ministero aveva in
detta udienza prestato il proprio consenso alla richiesta di rito abbreviato avanzata dai collaboratori di
giustizia, in aperta contraddizione con l’indirizzo – mesi addietro da me suggerito e tra tutti i magistrati
dell’ufficio concordato – di sottoporre al dibattimento le posizioni di tutti gli imputati (collaboratori
compresi) .
Che si possa oggi utilizzare il mio contributo per la definizione delle strategie dibattimentali nel processo
per la strage di Capaci (così come in quello per la strage di via D’Amelio), al di là della mia disponibilità
a collaborare all’attività dell’ufficio fino all’ultimo giorno di applicazione – che è e rimarrà piena –, è
cosa che giudico improbabile.
È infatti di appena qualche giorno il periodo che ci separa dalla scadenza del mio incarico: un lasso di
tempo troppo breve per l’impostazione di strategie dibattimentali in procedimenti complessi come quelli
per le stragi.
Che in relazione alla mia imminente partenza da Caltanissetta l’ufficio si stia determinando a non contare
più sul mio contributo è, del resto, considerazione che sono indotta a formulare per il fatto che, con
riguardo alle indagini svolte in queste ultime settimane sulla strage di via D’Amelio, non sono stata più
interpellata sugli indirizzi investigativi da seguire in conseguenza delle sorprendenti dichiarazioni
recentemente rese da Scarantino Vincenzo – ufficialmente assunte a verbale nei primi giorni dello scorso
settembre – né sono stata avvisata del compimento di atti istruttori di decisiva importanza.
Che soltanto alla prossima scadenza della mia applicazione sia da ricondurre il mio mancato
coinvolgimento da parte dell’ufficio nelle scelte investigative e nelle indagini sono certa, non potendo
d’altro canto supporre che esso sia conseguente alla dissonanza delle opinioni da me espresse in una
riunione tenuta nei primi giorni di settembre, da quelle degli altri colleghi, in ordine:
– all’assunzione delle dichiarazioni con le quali – mi si diceva – Scarantino Vincenzo aveva chiamato in
correità nella strage di via D’Amelio i collaboratori di giustizia Cancemi, La Barbera e Di Matteo
(traduzione in verbale che io giudicavo assolutamente indilazionabile);
– alla valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni suddette (che io giudicavo sulla base di argomenti
logici scarsamente credibili);
– alla necessità di tempestivi interrogatori – da assumere esclusivamente con le forme imposte dal codice
di rito – dei collaboratori chiamati in correità ed eventualmente ai successivi confronti con Scarantino
Vincenzo (atti tutti che io ritenevo urgenti);
– all’opportunità di dare tempestivo avviso delle nuove emergenze investigative alla Dda di Palermo
(atteso l’enorme rilievo che esse, revocando in dubbio la verificata attendibilità del Cancemi, del La
Barbera e del Di Matteo, avrebbero potuto assumere nei procedimenti in corso presso quell’ufficio);
– alla necessità (da me rappresentata) di adoperarsi per ottenere un rinvio del dibattimento relativo ai
primi quattro imputati della strage di via D’Amelio, sia per consentire una preventiva verifica della
posizione soggettiva di Scarantino Vincenzo, sia per rendere possibile, ove del caso, la riunione del
primo procedimento a quello pendente in fase di indagini preliminari nei confronti di altri indagati per i
medesimi reati (previa definizione in tempi brevissimi di dette indagini) e la conseguente trattazione
unitaria da parte dei giudici del dibattimento di tutte le condotte che avevano determinato l’evento
criminoso.
Fatte queste doverose premesse ti comunico che alle ore 16.00 del giorno 14 ore p.v. non potrò
presenziare alla riunione in quanto, usufruendo per i miei spostamenti dalla Sicilia a Milano di voli
speciali della Cai organizzati dal ministero degli Interni, alle ore 16.00 di venerdì prossimo, quinto e
ultimo giorno, per la settimana in corso, della mia applicazione sarò già in viaggio alla volta di Milano.
Resto comunque a disposizione dell’ufficio per ogni eventuale determinazione e per ogni più utile
chiarimento che potrò comunque fornire nella riunione della Dda convocata per le ore 17.00 del giorno
p.v.

Il sost. proc. della Repubblica


dottoressa Ilda Boccassini

Potrà sembrare assurdo, ma le due relazioni hanno contribuito ad alimentare


l’insofferenza dei colleghi nei miei confronti. Una distanza che non si è ridotta
nemmeno quando, nel 2008, Gaspare Spatuzza fece la scelta di collaborare e la
fondatezza dei nostri dubbi divenne un dato di fatto.
Spatuzza è una figura importante. Era rinchiuso in carcere dal 1995 ed era
coinvolto in tutte le stragi del 1992-1994, nonché in numerosi omicidi tra i più
efferati, come quello di padre Pino Puglisi (1993) e del piccolo Giuseppe Di
Matteo, rapito a tredici anni nel 1994, ucciso e poi sciolto nell’acido dopo due
anni.
Sin dal primo interrogatorio si era accusato per la strage di via D’Amelio,
spiegando il ruolo che aveva avuto e sconfessando le dichiarazioni rese da
Scarantino, in base alle quali, nel frattempo, le sentenze erano diventate
definitive.
L’esistenza delle due relazioni di quattordici anni prima, firmate da me e
Saieva, era nota, tanto è vero che, dopo le dichiarazioni di Spatuzza, mi telefonò
il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, chiedendomi se ne avessi conservato
copia, perché non riuscivano a trovarle. “Certo che le ho,” risposi, suggerendogli
comunque di farle cercare anche alla procura di Palermo perché ricordavo che
all’epoca erano state inviate anche là, per doverosa conoscenza. Infatti, poco
tempo dopo, lo stesso Lari mi comunicò che i documenti erano stati ritrovati
proprio a Palermo.
Il 22 aprile 2009 fu convocato a Roma un vertice presso la Direzione
nazionale antimafia tra le procure impegnate nelle indagini sulle stragi. Oggetto
della riunione era la concessione del programma di protezione a Spatuzza e alla
sua famiglia. Questo chiedeva il mafioso per continuare la collaborazione
avviata qualche mese prima. Come spesso accade in Italia, il nodo venne sciolto
solo a metà, per non urtare sensibilità e non sminuire le opinioni dei colleghi in
disaccordo. Quali colleghi?
In rappresentanza della Dda di Caltanissetta, il procuratore Sergio Lari ci
informò di aver già svolto diverse attività di indagine per cercare riscontri alle
dichiarazioni di Spatuzza, riferendo dettagli interessanti specialmente sulla Fiat
126 impiegata come autobomba. Erano state compiute ricognizioni nel luogo del
furto della vettura, mentre un altro collaboratore, Salvatore Candura, aveva
ritrattato le dichiarazioni rese in passato, confermando – senza conoscerle –
quelle di Spatuzza. Lari fu giustamente cauto, chiarendo che “residuano ancora
dubbi e perplessità sulla ricostruzione della fase iniziale dell’esecuzione della
strage” e annunciando altri accertamenti e consulenze mirate.
I meno convinti dell’autenticità delle dichiarazioni di Spatuzza furono i
colleghi di Palermo. Secondo Nino Di Matteo, “Spatuzza non solo non riferisce
fatti nuovi ma si limita, per alcuni altri episodi delittuosi, ad aggiungere qualche
particolare di secondario rilievo, mentre per altri episodi già completamente
ricostruiti dalla Dda non aggiunge nulla di nuovo”. E poi, “la sua collaborazione
non è di particolare rilevanza atteso che essa non consente di arrestare nessuno,
né di sequestrare alcun bene né di processare qualcuno”. I colleghi di Firenze
erano molto più propensi a valorizzare alcuni dettagli inconfutabili rivelati per la
prima volta dal nuovo dichiarante, come per esempio – nelle parole del collega
Giuseppe Nicolosi – la possibilità di fissare con certezza la data dell’attentato
all’Olimpico, il 23 gennaio 1994, aggiungendo una notazione di puro buon
senso: “Non possiamo negare che lo stato di semplice dichiarante in cui ora
Spatuzza si trova lo rende prudente nel senso che, fino a quando non verrà
sottoposto a protezione, egli probabilmente non approfondirà la sua
collaborazione, che potrà interrompersi o continuare a seconda delle
determinazioni che verranno adottate nei suoi confronti”.
Il livello di quella riunione mi pareva francamente surreale. Perciò intervenni
ricordando innanzitutto che per i due anni di applicazione a Caltanissetta avevo
svolto le indagini sulle stragi siciliane, ricostruendo “i fatti per come erano
emersi fino al 1994 e chiarendo che già allora si appalesava una convergenza di
‘interessi esterni’” e che “dalla rilettura degli atti d’indagine alla luce delle
dichiarazioni rese da tutti i collaboratori di giustizia, comprese quelle di
Spatuzza” emergeva da parte di quest’ultimo “una circostanza di grande
rilevanza, suscettibile di significativi sviluppi investigativi, ossia di aver ricevuto
l’incarico di rubare la Fiat 126 direttamente da Giuseppe Graviano”.
Niente da fare. Antonio Ingroia aveva appena escluso che ci fossero “le
condizioni perché la Dda di Palermo possa chiedere un programma speciale di
protezione”, e cominciava a delinearsi una mediazione tra “misure di sicurezza
speciali” e un “piano provvisorio di protezione”. Al che Di Matteo rese più
esplicito il suo pensiero: “Sono contrario,” scandì l’enfant prodige della procura
di Palermo, “alla richiesta di un piano provvisorio di protezione sia perché essa
attribuirebbe alle dichiarazioni di Spatuzza una connotazione di credibilità che
ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora
completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e
le responsabilità delle stragi, ormai consacrate in sentenze irrevocabili, sia
perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle
dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la
ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze
irrevocabili, siano state affidate a falsi pentiti protetti dallo Stato e potrebbe, per
tale ultima ragione, gettare discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di
protezione dei collaboratori della giustizia e sugli stessi collaboratori della
giustizia”.
A quel punto presi di nuovo la parola per ricordare ai colleghi qualcosa che per
me è sempre stato ovvio: “È dovere dei magistrati ricercare la verità senza
preoccuparsi del discredito che ne può derivare e a prescindere da ciò che pensa
l’opinione pubblica, soprattutto quando, come in questo caso, emergono
elementi che consentono una ricostruzione dei fatti diversa da quella risultante
dalle precedenti sentenze, e che fanno sorgere il sospetto che la prima
ricostruzione possa essere stata indotta da pressioni, da chiunque esercitate”. Mi
sembrano parole inequivocabili, niente di particolarmente originale che non
fosse già contenuto in leggi e Codici. Ma, al solito, non furono quelle le parole
che prevalsero.
Come si sbagliavano, i colleghi Ingroia e Di Matteo, a negare fiducia a
Spatuzza! Le sue dichiarazioni erano giunte a demolire punto per punto le
fandonie disseminate da Scarantino proprio negli anni in cui a gestire il suo
rapporto con lo Stato era lo stesso Di Matteo, insieme ad Anna Palma, Paolo
Giordano e Carmelo Petralia. Come se non bastasse, proprio Di Matteo,
affiancato dalla collega Palma, aveva sostenuto la pubblica accusa nel
dibattimento presso la Corte d’assise di Caltanissetta per la strage di via
D’Amelio.
Comunque, al di là delle diverse valutazioni emerse in quel 2009, le
dichiarazioni di Spatuzza imposero la riapertura delle indagini sulle stragi, in
modo particolare quella di via D’Amelio. Tanto che, dopo anni, furono portati a
giudizio lo stesso collaboratore e i responsabili da lui indicati fino a chiedere la
revisione del processo per gli imputati condannati sulla base delle false accuse di
Scarantino.
Per questo, a oltre vent’anni dai fatti e a quasi altrettanti dalle relazioni scritte
al termine dell’applicazione a Caltanissetta, il 21 gennaio 2014 venni convocata
come teste dell’accusa nel dibattimento innanzi alla Corte d’assise. Non mi
vergogno a dirlo: l’idea di essere convocata e di tornare a Caltanissetta dopo
tanti anni mi ha provocato angoscia e tristezza. Sapevo già che salire
nuovamente le scalinate del palazzo di giustizia sarebbe stato tremendo, ma non
potevo evitarlo, con l’unica consolazione della presenza in quelle stanze di
Roberto Saieva, che doveva essere sentito lo stesso giorno.
Partii per la Sicilia, destinazione aeroporto di Catania, il 20 gennaio. Era una
giornata fredda, ventosa e piovosa, del tutto consona al mio umore. Piansi per
l’intero tragitto dall’aeroporto all’hotel San Michele, dove avevo vissuto da
reclusa per due anni e che mi apparve squallido nella sua totale decadenza. Ma
quanti ricordi!
Roberto mi aspettava proprio lì, ci abbracciammo a lungo, in un momento di
commozione per entrambi. Cenammo in albergo, chiacchierammo
piacevolmente, dopodiché, stanchi ma finalmente rilassati, ci ritirammo nelle
nostre stanze. Solo allora diedi sfogo al dolore che avevo dentro, il mio pensiero
andò a Giovanni, alla grande fatica anche esistenziale degli anni trascorsi in
Sicilia, all’obiettiva precarietà della mia vita. Eppure il peggio doveva ancora
arrivare.
La mia audizione era prevista per le 10, dopo quella di Roberto. Arrivammo
insieme al palazzo di giustizia: Roberto aveva intuito il mio turbamento, anche
perché ero particolarmente silenziosa. Quando l’auto si fermò davanti al palazzo
mi strinse il braccio come per dire “sono con te”. Quel gesto mi diede coraggio.
Attendemmo l’inizio dell’udienza nel corridoio adiacente all’aula, attirando la
curiosità di quanti passavano. Una situazione imbarazzante, che i colleghi
avrebbero potuto risparmiarci e che per me risultava anche dolorosa: mi sarei
aspettata che, con un gesto di cortesia, o almeno di rispetto, ci invitassero in una
delle loro stanze fino all’inizio della nostra testimonianza. In fondo, oltre che
colleghi, eravamo anche testi convocati dall’accusa. Invece ci lasciarono in quel
corridoio anonimo e freddo, in piedi, alla mercé di giornalisti e cameraman che
ci pressavano per cogliere una frase, carpire uno scatto.
Finalmente arrivò il mio turno. Quando entrai nell’aula avvertii lo sguardo di
tutti i presenti, sentendomi l’oggetto di curiosità e diffidenza. Qualcuno mi
indicò dove prendere posto. Ricordo una sedia scomoda, per di più sistemata in
un modo che non mi consentiva la visuale dell’aula, soprattutto del settore
destinato alla difesa. Così, per tutto il tempo dell’audizione – ben due ore – fui
costretta a girarmi in continuazione per guardare chi mi poneva domande e
rispondere rivolta verso il presidente e la giuria. A parte questi fastidiosi dettagli,
l’esame fu faticoso, pieno di insidie, scandito da domande capziose da parte
degli avvocati, e qualcuna anche da parte dei pubblici ministeri.
Il più aggressivo fu comunque l’avvocato Fabio Repici, difensore di parte
civile per Salvatore Borsellino: si scagliò più volte contro di me, quasi fossi io
l’imputato, spingendosi fino a insinuare che alcune mie relazioni nascondessero
chissà cos’altro. Ero attonita: il fratello di Paolo Borsellino, per bocca del suo
legale, cercava di screditarmi, di attribuire anche a me – anzi, solo a me – la
cattiva gestione delle prime ore di Vincenzo Scarantino.
Alle domande più aggressive mi aspettavo obiezioni da parte di uno dei
pubblici ministeri in aula, ma tutti e tre rimasero in silenzio: forse era la loro
strategia, anche se ne sono francamente dubbiosa. Sta di fatto che dovetti
difendermi da sola in questo clima ostile, assumendo di volta in volta il ruolo di
teste, di pubblico ministero che obiettava a certi assalti, di presidente del collegio
che sollecitava maggior aderenza ai temi dell’udienza.
Era evidente che l’avvocato di Borsellino provocava per farmi saltare i nervi.
Con quale finalità non saprei dire, ma sentivo che ci stava riuscendo. Per questo,
per mantenere il controllo, mi sforzavo di richiamare alla mente le immagini
della devastazione di via D’Amelio e dei corpi straziati, ben decisa a uscire da
quell’aula a testa alta.
Fu, comunque, una giornata bruttissima. Alla fine, amareggiata e piena di
rabbia mi avviai all’aeroporto, dove attesi il volo che mi avrebbe riportato a
casa, felice di “tornare alla civiltà”. Lo ammetto: fu esattamente questo il
pensiero che formulai dopo quell’allucinante esperienza.
Le due giornate nissene mi avevano provato, ma seduta lì, al gate di
Fontanarossa, come sempre mi succedeva nei momenti di malinconia, pensai a
Giovanni, al suo modo di essere giudice, alle cattiverie che aveva subito. Sentii
la fierezza di condividere un tratto di quel percorso di sofferenza in nome della
mia coerenza e autonomia di pensiero.
Dopo tutti questi anni, ero convinta di essermi lasciata alle spalle la vicenda
Scarantino. Invece no. Gli infiniti processi siciliani sulle stragi mi hanno regalato
ben altre due convocazioni. La prima, il 5 novembre 2019, da parte della procura
di Messina. Ma almeno in quel caso è stato il procuratore, Maurizio De Lucia, a
salire a Milano per raccogliere la mia deposizione. La convocazione successiva
sarebbe avvenuta dopo che ero già andata in pensione. Ho chiesto ai colleghi
siciliani le ragioni delle nuove chiamate per deporre di persona, visto che le mie
dichiarazioni e le relazioni scritte sono state acquisite agli atti. Ho anche detto
loro che questo farmi ripetere le stesse cose in sedi e circostanze analoghe era
per me un inutile accanimento e una violenza. Ne ho ottenuto risposte vaghe,
poco convincenti, che si riferivano all’intenzione di alcuni avvocati, soprattutto
dei legali della famiglia Borsellino, di non rinunciare alla mia testimonianza
diretta.
Senza voler polemizzare, mi sarei aspettata più rispetto da parte dei famigliari
di Borsellino. Mi chiedo come si possa dubitare della mia buona fede e
dell’onestà intellettuale più volte dimostrata. Tutti possiamo sbagliare, ma fatico
ad accettare che mi si attribuiscano colpe palesemente non mie. E neppure mi
ritengo responsabile – giacché non ero più in Sicilia – della discutibile gestione
dei lunghissimi dibattimenti sulla strage di via D’Amelio, in cui numerosi
pubblici ministeri, avvocati di parte civile e la stessa Corte non sono stati in
grado di arginare le dichiarazioni contraddittorie di Scarantino, che alternava i
suoi racconti con la volontà di ritrattarli.
Ho accettato di andare per due volte in Sicilia per onorare i morti. Essere
attaccata dai famigliari delle vittime mi ferisce, quando una semplice carezza da
parte di quei giovani segnati dalla tragedia mi avrebbe riempito il cuore. Ma così
non è stato.
14.
A Palermo

Tornata a Milano nell’ottobre 1994, come ho detto, sentivo l’urgenza di andare


di nuovo in Sicilia al più presto: ero determinata, avevo fatto una scelta
totalizzante, che escludeva ogni altra priorità, compresi i figli e la mia vita
privata. Avevo scelto ciò in cui credevo profondamente, trovando dentro di me il
coraggio – se di coraggio si trattava – di abbandonare tutto il resto. Ma altro non
potevo né volevo essere.
Avevo trascorso un Natale sereno con i miei figli; Alberto aveva già una
nuova famiglia e un altro figlio, nato nel novembre 1993. Dopo dieci anni di
convivenza, il nostro rapporto si era dissolto molto in fretta, probabilmente
anche a causa della mia partenza, che aveva provocato una valanga sulla mia
vita, sulle mie certezze. La garanzia di un legame consolidato, anche con i suoi
momenti di turbolenza, lasciava spazio all’angoscia della solitudine, ai dubbi
senza risposta, alla rabbia per dover pagare un prezzo alto in rinunce e
abbandoni solo per essere ciò che volevo essere. E comunque, dopo tanti anni, io
e Alberto oggi siamo fieri di essere nonni e seguiamo insieme, passo passo, la
vita dei nostri nipoti.
Tra le rinunce che avevo scelto, anche quella all’amore. Perché la vita non si
può misurare tutta con un solo metro. Gli stessi anni sono stati densi e ricchi se
guardo a come il lavoro li ha riempiti – volente o nolente – con la trattazione di
inchieste e processi di tale complessità da non ammettere distrazioni; se, però,
guardo alla mia vita privata, quegli stessi anni sono trascorsi in un lampo, troppo
veloci per trovare lo spazio da dedicare alla costruzione di un rapporto duraturo,
per incontrare un uomo con cui condividere la quotidianità.
Devo aggiungere, a questo proposito, che il mio atteggiamento respingente è
anche la conseguenza di decenni vissuti sotto scorta, con accanto in ogni
momento donne e uomini che per lavoro devono controllare ogni mio respiro,
ogni passo, ogni mia frequentazione. L’immagine di donna-virago,
irraggiungibile anche fisicamente – come mi fece notare un amico giornalista –,
non ha certo favorito la nascita di nuovi legami. Una situazione ulteriormente
complicata dalla curiosità suscitata da “Ilda la rossa”, specie negli anni delle
inchieste e dei dibattimenti su Silvio Berlusconi. Tutto ciò ha contribuito a
impedire un’esistenza normale, perché dovevo sempre mettere in conto ciò che
ogni mia azione o gesto avrebbe potuto determinare. Il mio mondo si
concentrava sui figli e gli amici preziosi, che mi hanno protetto dall’alternativa
curiosità o tiro al bersaglio.
Le rinunce effettive non significano, tuttavia, cancellare i desideri dalla mente
e dal cuore. In quegli anni così faticosi avrei voluto innamorarmi, riprovare
l’emozione del cuore che batte a mille per il primo bacio, riassaporare la gioia di
stringere un corpo amato, far l’amore senza vincoli né condizionamenti, ma così
non è stato e ora, a settant’anni, questi momenti mancati mi pesano. Anche se la
mia è stata comunque una vita vissuta senza risparmio e l’incontro con Giovanni
mi ha riempito anche di una grandissima felicità.
Oggi il mio cuore batte più forte quando i miei nipoti mi sorridono, mi
cercano, mi chiamano nonna. Ricevo emozioni dall’abbraccio delle mie amiche
di sempre, dall’amore dei miei figli. Ho finalmente imparato ad apprezzare
l’importanza dei piccoli gesti, a cogliere momenti di intensa gioia nella
quotidianità dei rapporti. Probabilmente più ci si avvicina alla fine e più si è
capaci di godere della bellezza dell’attimo.
Durante le vacanze di Natale del 1994 cominciai a preparare la partenza per
Palermo. Dopo i problemi affrontati pochi mesi prima a Caltanissetta, stavolta
dovetti anche superare le ragioni contrarie di Arnaldo La Barbera, nel frattempo
nominato questore del capoluogo siciliano, che per ragioni di sicurezza pose il
veto a farmi alloggiare in una stanza d’albergo. Così, al mio arrivo, fui sistemata
in uno squallido appartamento a un piano alto delle Tre Torri, un complesso
formato per l’appunto da tre edifici a pianta circolare in via del Carabiniere, a
due passi dal parco della Favorita. Un alloggio di servizio fin troppo grande per
le mie esigenze, arredato alla bell’e meglio con mobili da ufficio: stanze
inutilizzate e chiuse che di notte mi angosciavano. Come se non bastasse, sempre
per ragioni di sicurezza mi era vietato alzare le tapparelle e quindi, quando non
ero in ufficio, ero costretta a vivere con la luce accesa. Sempre per non espormi
a rischi, non potevo cenare al ristorante (peraltro sola, circondata dagli agenti:
non sarebbe stato il massimo), perciò per tutto il periodo palermitano ho
consumato cibi di rosticceria comprati tornando dal palazzo di giustizia, prima di
rinchiudermi fino al mattino in quella specie di prigione. E che un po’ lo era.
Non avevo il diritto di recriminare, né lo feci. Ero stata avvertita che quella
sarebbe stata la mia vita a Palermo. Una vita molto sacrificata, ma volevo
continuare a indagare sulla morte di Giovanni. Cosa che, nella realtà, non mi è
stata consentita.
In quei mesi ero rimasta in contatto costante con Gian Carlo Caselli e con le
persone da cui dipendeva la mia nuova applicazione. La decisione di farmi
tornare in Sicilia, dopo i risultati ottenuti a Caltanissetta, era fortemente
sostenuta da Caselli e, soprattutto, gradita all’allora presidente della Repubblica
Oscar Luigi Scalfaro. Ma non aveva raccolto troppi consensi tra i colleghi della
procura palermitana.
Anzi, quelli che tra loro contavano di più erano contrari che fossi io a
riprendere in mano le carte delle stragi e perciò ostili nei miei riguardi; la
maggior parte degli altri sostituti taceva limitandosi a far finta che non ci fossi.
L’atteggiamento che più mi ferì fu quello di Ignazio De Francisci, un collega che
conosceva bene, per averla vissuta in prima persona, la storia della procura di
Palermo e, per aver lavorato con lui, l’isolamento subìto da Giovanni all’interno
del palazzo.
Fino al momento della mia applicazione, Ignazio e io eravamo legati da un
profondo rispetto. Ho anche ritrovato fra le mie carte un suo biglietto di auguri
per le feste di fine ’92: “Cara Ilda, non so quando leggerai questo biglietto, spero
presto! Ti dico Buon Natale! E ti dico anche che ti voglio bene e che faccio il
tifo per te. Supera le amarezze di questi giorni, purtroppo nel nostro ambiente
chi dice la verità non ha vita facile, dà fastidio. Il ’93 non potrà che essere meno
tragico di questo ’92, è fin troppo ovvio, io ti auguro di contribuire a rendere il
’93 veramente diverso. Un affettuoso abbraccio. Ignazio”.
Sarò stata ingenua, ma a poco più di un anno da quelle parole così calde ero
convinta di trovare in De Francisci un alleato. Così non è stato, al punto che, nel
corso di una riunione in cui Caselli annunciava, tra l’altro, il mio prossimo
arrivo, Ignazio, incaricato della gestione delle auto blindate, se ne uscì con
espressioni aspre, che mi sono state riferite tempo dopo da alcuni partecipanti.
De Francisci disse, in sostanza, che per me non vi erano macchine disponibili e
che, se volevo scendere a Palermo, per quanto lo riguardava potevo viaggiare “a
dorso di un ciuccio”.
Nei mesi successivi, mentre ero già in Sicilia, ho tentato di avere da lui
spiegazioni per il mutato atteggiamento nei miei confronti, ma se ci
incontravamo in corridoio a stento mi salutava. Forse avrei dovuto insistere, ma
ferita nell’orgoglio non l’ho fatto, mi sono chiusa anch’io e da allora non l’ho
più visto.
Fortunatamente, nello stesso periodo aveva accettato l’applicazione a Palermo
anche Roberto Saieva, all’epoca a Roma come sostituto della Direzione
nazionale antimafia. Con lui mi sentivo un po’ meno sola, ma entrambi
provavamo le stesse amarezze, anche se Roberto le viveva con maggior distacco
e ne era emotivamente meno coinvolto. Da siciliano, era consapevole che i
colleghi si sentivano “figli degli dèi” e che ogni “intrusione” nel loro territorio
veniva presa come un atto ostile. Di fronte alle piccole angherie, come a quelle
più plateali, lui non faceva una piega. Io invece mi incazzavo perché, dèi o non
dèi, ero lì per lavorare e non per rubare la scena ai nativi.
Ho fatto ricorso alla mia caparbietà, ho lottato dentro di me per non
scoraggiarmi (sprecando così energie che avrei voluto dedicare alle indagini) e
sono andata avanti nella speranza che il mio impegno avrebbe spazzato via il
sospetto che fossi a Palermo per ambizione o per protagonismo. Ma è stato tutto
inutile. In quei mesi non sono riuscita ad avere la gestione dei diversi filoni di
indagini sulle stragi: anche se in teoria i fascicoli erano coassegnati, ero
semplicemente tenuta ai margini. Me ne lamentai più volte con Caselli,
parlandogli con amicizia e spirito costruttivo, di chi cerca soluzioni e non
intende soltanto sfogarsi. Lui provava a rassicurarmi, mi pregava di avere
pazienza, ma nei fatti non cambiava nulla, forse non aveva trovato l’energia o il
modo giusto per imporsi. Di pazienza ne ho avuta per sei mesi, dopodiché ho
deciso di fare i bagagli, salutare la torre-prigione e ritornare a Milano. A parte la
frustrazione per non aver potuto lavorare alle stragi, mi sentivo in imbarazzo,
quasi fossi una disoccupata – anche se non per colpa mia – che ritira uno
stipendio non guadagnato.
Oltretutto, in questa kafkiana situazione professionale avvertivo ancora più
forte la lontananza dai miei cari: la mia medicina – il lavoro – mi era stata tolta e
quindi non mi stordiva più, non riusciva a placare i sensi di colpa. Macinavo
carte, sì, ma più leggevo e più m’imbestialivo: quante cose avrei potuto fare! E
quante cose che mi passavano sotto gli occhi non mi convincevano!
Non tutti i colleghi palermitani mi sembravano in grado di gestire quelle
indagini. Qualsiasi momento di verifica e confronto con loro mi lasciava delusa
perché senza risultato, anche se avrei voluto mettere un mattone dopo l’altro,
pazientemente, per costruire un muro con una geometria e un disegno sensati.
Ma quel muro, a Palermo, non sono riuscita a costruirlo, sebbene la qualità del
materiale che ho avuto tra le mani fosse ottima, al punto di permettermi di
costruire quel muro altrove. E, soprattutto, di capire con assoluta certezza che
quanti si vantavano – a Palermo ce n’erano, eccome! – di essere raffinati ed
esperti ingegneri, nella realtà hanno dimostrato di non esserlo affatto. Tanto che
diverse case costruite in quegli anni da questi scrigni di altissima professionalità
sono crollate alla prima o, al più, alla seconda verifica (non statica, ma
processuale).
Sono stati mesi di solitudine. Mi sentivo sopportata dai più, tenuta a debita
distanza. Mai un invito a cena, un cenno di approvazione, una pacca sulla spalla.
Tutti comportamenti che dicevano: non ti volevamo, sei venuta lo stesso, ora
arrangiati.
Caselli fu fin dall’inizio affettuoso, sinceramente dispiaciuto di non riuscire a
imporre la sua volontà (e dunque la mia presenza). Certo, Gian Carlo e io siamo
due persone diverse, ognuna con la propria testa, le proprie idee, la propria
visione del mondo e delle funzioni da svolgere. Lui allora fu molto attento a non
turbare l’equilibrio interno della procura di cui era a capo.
In questo clima poco costruttivo, l’apice venne raggiunto nel settembre del
1995, quando gli comunicai che avrei dato forfait, che non c’erano le condizioni
per prolungare l’applicazione di altri sei mesi, come programmato. Gian Carlo
mi guardò esterrefatto, come se non avessimo vissuto insieme, sia pure con ruoli
ed emozioni diverse, gli stessi problemi dei mesi precedenti. Fu talmente
sorpreso che il suo tono solitamente pacato si fece brutale nel dirmi che no, non
potevo lasciare Palermo proprio in quel momento perché c’era in ballo il
processo Andreotti e la mia partenza improvvisa avrebbe alimentato chiacchiere
dannose per il lavoro della procura! Non mancò, nemmeno in quell’occasione, di
ripetermi che senz’altro avevo ragione a lamentarmi di come erano andate le
cose fin lì, ma che con il tempo avrebbe provveduto perché potessi partecipare
più fattivamente alle indagini.
Ricordo che lo fissai a mia volta incredula, non dissi nulla, mentre mi sentivo
spuntare sul viso un sorriso a labbra serrate, tra l’ironico e il rassegnato. Sempre
sorridendo, mi girai e uscii dalla sua stanza.
La mia decisione venne subito comunicata ai colleghi. Con mia sorpresa
Roberto Scarpinato, titolare insieme ad altri del procedimento nei confronti del
senatore Andreotti e con cui nei mesi precedenti non avevo avuto alcun rapporto,
per la prima volta venne nel mio ufficio a chiedermi di non lasciare Palermo,
anche lui temendo ripercussioni negative. Ribadii la mia posizione con pacatezza
ma fermamente.
Avevo in ogni caso deciso di tenere per me i veri motivi del rientro in via
Freguglia, per quel senso delle istituzioni che non mi ha abbandonato nemmeno
nei periodi più bui e dolorosi. Ero consapevole che in quel momento storico la
procura di Palermo era al centro dell’attenzione e non mi sarei prestata con la
mia verità a farla diventare bersaglio di critiche che ne avrebbero intaccato forza
e prestigio agli occhi del Paese.
Restava comunque il problema di gestire il mio ritorno anticipato a Milano
senza che i media ci ricamassero sopra. Fu così che decisi di rilasciare a Peppe
D’Avanzo un’intervista in cui, tra l’altro, dicevo: “A volte i desideri devono fare
i conti con la realtà: il desiderio di lavorare a Palermo confligge con gli obblighi
che ho verso i miei figli. Bisogna allora avere il coraggio di ritornare sui propri
passi”.
A Palermo non ero riuscita a vincere la diffidenza dei colleghi. Lungi da me il
pensiero di paragonare la mia breve parentesi palermitana alla storia vissuta lì da
Giovanni, ma del resto come poteva, quello stesso ufficio che aveva osteggiato
lui, il magistrato più famoso al mondo, costringendolo a trasferirsi a Roma,
accogliere a braccia aperte me, una del continente e pure “falconiana” di ferro?
Finché ce l’ho fatta, sono andata avanti fiduciosa che prima o poi sarei stata
accettata, tollerando provocazioni più o meno aperte. Roberto, invece, era
convinto che non sarebbe stato possibile collaborare, ma io non mi davo per
vinta e per questo lui mi sfotteva ripetendomi l’appellativo che aveva coniato per
me nel periodo nisseno: “Maria Goretti in Fantozzi”. Ed era davvero così, quella
strampalata definizione – mix di coerenza da martirio e di frustrazioni al limite
della comicità – mi calzava a pennello.
Non potendo uscire di casa la sera, se non in rarissimi casi, e avendo
abbastanza tempo libero, anche a Palermo trovai qualcosa da fare: il ricamo.
Quando lo decisi non sapevo nulla di cucito, neppure attaccare un bottone, ma
ebbi la fortuna di conoscere la signora Maddalena, una giovane donna titolare di
un delizioso negozietto vicino a casa. Un giorno, timidamente, le chiesi se era
difficile fare quei cuscini ricamati a mezzo punto che vedevo nella sua vetrina.
Mi rispose che era abbastanza semplice anche se io, consapevole dei miei limiti,
vedevo come assai remota la possibilità di imparare. Eppure, con il passare del
tempo, l’idea di dedicarmi a qualcosa di completamente diverso da creare con le
mie mani mi intrigò tanto che comprai l’occorrente e, sotto la guida amorevole
della signora Maddalena, appresi l’arte del mezzo punto.
Le tristi serate palermitane, le attese all’aeroporto, il tempo dei voli
diventarono momenti mitigati dai cuscini che andavo ricamando. La mia nuova
attività aveva creato un certo sconcerto tra quanti mi conoscevano come
intrepida amazzone, una virago con cappa e spada. Fra i tanti, il più incredulo fu
il dottor La Barbera, che non mi credette: per convincerlo fui costretta a ricamare
in sua presenza!
Naturalmente conservo i cuscini dei mesi “neri” palermitani. Se nel periodo
femminista ostentavamo i ferri da maglia per fare e disfare golf durante le
interminabili riunioni per affermare i nostri diritti, a distanza di anni,
abbandonati i ferri, ero passata a un’arma decisamente diversa, il ricamo, che
imponeva pazienza, riflessione, concentrazione. Ed è così che ho resistito al
vuoto palermitano. Le donne, quando vogliono, hanno mille risorse, riescono a
risollevarsi, a ricominciare, se necessario, anche da zero.
La mia generazione ha vissuto il ’68 e il femminismo: io, già madre,
partecipavo come potevo alle manifestazioni organizzate dai collettivi. Antonio
era sempre con me. Non avendo a chi lasciarlo, lo trascinavo alle riunioni e lui
se ne stava lì, in mezzo a noi, con i suoi giocattoli.
Ero l’unica ad avere un figlio e così, a turno, le compagne mi aiutavano a
gestirlo per consentirmi di partecipare. Fu un periodo bellissimo, pieno di
speranza e voglia di cambiamento, con i nostri vestiti a fiori e gli zoccoli ai
piedi. Anni dopo avrei ritrovato la stessa solidarietà femminile tra le mamme dei
compagni di classe di Alice, che furono tra le poche ad appoggiare (o a non
biasimare) la mia scelta di andare in Sicilia, in tante la condividevano e la loro
presenza nella vita di Alice ci ha aiutate entrambe, anche se non poteva colmare
per la mia bambina il vuoto di una mamma che non era con lei tutti i giorni.
Come dimenticare la telefonata che Alice mi fece per comunicarmi le sue
prime mestruazioni? Era un martedì, mi trovavo in ufficio a Palermo dopo aver
trascorso il fine settimana a Milano. Verso l’ora di pranzo squillò il telefono.
Alice era appena uscita da scuola e mi chiese quando sarei tornata a casa. Le
risposi che ero appena partita, ma intuii che c’era qualcosa di particolare,
qualcosa che mia figlia faticava a dirmi. Con qualche giro di parole, intervallato
da silenzi e mezze frasi, mi fece capire che aveva trovato del sangue sulle
mutandine. Ovviamente sapeva che prima o poi sarebbe accaduto, ma era
ugualmente spaventata, in ansia per quell’evento così importante. Dire che mi
sono sentita spiazzata da quella notizia appresa al telefono a più di mille
chilometri di distanza non rende l’idea. È più giusto dire che mi sono sentita un
verme. Cercai di tranquillizzarla e decisi di ripartire immediatamente per
Milano, con il primo volo disponibile, arrabbiata con me stessa per non essere
stata vicina a mia figlia in un momento tanto delicato.
Fu una delle occasioni in cui mi sembrò che la vita mi stesse sfuggendo di
mano. Non sopportavo più il peso delle responsabilità, quell’eterno trovarmi a
un bivio, il dover decidere quale direzione prendere: se quella del lavoro, del
ruolo pubblico, o quella della sfera privata. Una scelta quotidiana, sofferta,
lacerante.
15.
Indagare su un altro magistrato:
il caso Squillante

A Peppe D’Avanzo, che su “Repubblica” mi chiedeva come mi sentissi al


ritorno a Milano dopo gli anni siciliani, risposi: “Come una reduce del Vietnam”.
Una sopravvissuta alla guerra, ma ormai incapace di dimenticare lo scempio
delle bombe, i corpi straziati, i sacchetti di sabbia a protezione delle nostre vite,
l’odore intenso dei gigli bianchi che portavo sulla tomba di Giovanni ogni volta
che andavo a salutarlo, obbligando il questore La Barbera a convincere il
custode a lasciarmi entrare nel cimitero anche fuori orario.
Tornata a casa, e nella stanza numero 30, mi ci volle un po’ di tempo per
riacquistare i ritmi della quotidianità. All’inizio riscoprii la gioia di
accompagnare mia figlia a scuola, di incontrare gli amici, di fare shopping.
Insomma, di riprendere una vita normale. Ma sarebbe durato poco. Un nuovo,
insidioso capitolo della mia vita era già acquattato dietro l’angolo, e aveva il
volto di una donna che contribuì a spingermi quasi subito, ancora una volta, al
centro dell’arena.
Quando accettai, sia pure con qualche reticenza, la proposta di entrare nel pool
di Mani pulite, i colleghi erano sotto pressione da ormai tre anni – tanti ne erano
passati dalla scoperta del “mariuolo” Mario Chiesa (come lo definì Craxi) – ed
erano finiti i tempi delle fiaccolate, delle scritte che inneggiavano a Di Pietro, il
quale, intanto, si era dimesso dalla magistratura (una scelta, la sua, mai chiarita).
Tra di loro c’era stanchezza e, forse, anche un po’ di nostalgia per gli osanna del
passato. Cosa mi spinse ad accettare francamente non lo so: forse ebbe un peso
proprio lo stato d’animo della reduce, il bisogno fisico dell’impegno, una
necessità indissolubilmente legata al ruolo che mi ero scelta e che in certi
momenti somigliava ai miei stessi occhi a una dipendenza. Ma che stessi
imboccando un nuovo percorso a ostacoli (e che ostacoli!) lo intuii quando lessi i
verbali resi ai colleghi milanesi da Stefania Ariosto, compagna di Vittorio Dotti,
avvocato del gruppo Fininvest, eletto in Parlamento nel 1994, all’epoca
vicepresidente della Camera e capogruppo di Forza Italia.
Incontrai per la prima volta l’Ariosto a fine ottobre del 1995. La convocai nel
mio ufficio perché confermasse le dichiarazioni verbalizzate, secondo me, in
modo troppo generico e invece meritevoli di approfondimenti. Sembrava una
bambina: un volto molto bello che sprigionava ansia e inquietudine, mentre
percepivo l’alternarsi dentro di lei di agitazione e grande angoscia. Così come
coglievo il suo desiderio di raccontare ciò che sapeva e aveva visto, per
confidarsi, per togliersi un peso. Pensava di potersi sedere davanti a me, parlare,
rispondere e andarsene. Non aveva chiaro che ripetendo le accuse e dettagliando
i ricordi assumeva la responsabilità del testimone, dunque obbligata a dire la
verità, senza nascondere nulla e senza tentennamenti. Comprendevo il suo stato
d’animo. In fondo stava affidando la vita a una persona che non conosceva,
perciò scelsi di favorire il flusso dei suoi ricordi evitando di frapporre troppe
interruzioni procedurali. Cominciammo così a riempire le prime pagine di quello
che sarebbe stato un lungo dialogo tra lei e me.
Alla seconda convocazione, Stefania Ariosto non si presentò. Così, senza dire
nulla, senza produrre un documento o qualcosa che dimostrasse un effettivo
impedimento. Ipotizzando una sua probabile ingenuità, avrei potuto soprassedere
e farle comunicare una nuova data dalla guardia di finanza, incaricata di tenere i
contatti con lei. Invece presi un’altra strada e firmai un provvedimento di
accompagnamento coattivo, per farle comprendere che il rapporto con la
giustizia non è un gioco, che aveva tutto il diritto di cambiare idea e da quel
momento tacere, ma che – in caso contrario – ero solo io a dettare le regole. Da
persona intelligente, Stefania Ariosto capì immediatamente la lezione e
cominciammo a fare sul serio.
Non fu una testimone facile. Divagava in continuazione, si perdeva dietro
particolari insignificanti ed era faticoso rimettere il suo racconto sui binari utili
all’inchiesta, anche perché all’inizio non si capacitava di dover rispondere alle
domande e che ogni sua risposta venisse subito verbalizzata. Mi armai di
pazienza (cosa che non mi viene proprio spontanea) e con il tempo nacque tra
noi un rapporto di fiducia e rispetto. Stefania aveva la mania di conservare tutto
– biglietti, lettere, appunti, oggetti – e fu così che inondò l’ufficio di fotografie e
scritti, che avallavano la genuinità della sua narrazione.
Il personaggio chiave dei suoi racconti, su cui decisi di concentrare le indagini,
risultò ben presto Attilio Pacifico, avvocato del Foro romano, amico di Cesare
Previti e di tanti magistrati della Capitale. Dai racconti dell’Ariosto emergeva la
figura di un abile e spregiudicato collettore di tangenti, soprattutto molto vicino
a Renato Squillante, all’epoca capo dell’Ufficio delle indagini preliminari del
tribunale di Roma, a cui – secondo la teste – erano state consegnate, in più
occasioni, somme di denaro in contanti.
Le indagini erano state delegate allo Sco, il Servizio centrale operativo della
polizia di Stato. Sin dall’inizio furono chiare la delicatezza del caso e la
necessità dell’assoluta segretezza: era in gioco la credibilità delle istituzioni,
poiché potevano essere implicati alti magistrati ed ex ministri della Repubblica,
per non parlare dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, leader
indiscusso di Forza Italia oltre che uno dei più importanti imprenditori italiani
del mattone, titolare di numerose televisioni commerciali e del colosso editoriale
Mondadori.
Ma ormai mi ero infilata in questo ginepraio e non potevo tornare indietro né
tanto meno permettermi di sbagliare una mossa. Per pianificare le strategie e
confrontarmi da vicino con gli investigatori, mi recavo spessissimo a Roma.
All’epoca la sede dello Sco era all’Eur, in via Oceano Pacifico. Lì si sono
formati i migliori funzionari della polizia, tanto che ben tre di loro ne sarebbero
diventati il capo: Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa.
Tutti e tre hanno iniziato la carriera lavorando con Giovanni Falcone, e sono
orgogliosa di essermi potuta affidare alla loro altissima professionalità.
Renato Squillante era molto stimato, vantava amicizie tra registi, attori,
intellettuali e nel suo ambiente era considerato un grande giurista, tanto che
Francesco Cossiga lo aveva nominato consigliere giuridico del Quirinale.
Insomma, stavamo indagando su un uomo potente, sempre disponibile ad aiutare
gli amici in difficoltà anche prestando loro del denaro, come era avvenuto con il
collega Francesco Misiani (uno dei padri storici della corrente di Magistratura
democratica), e a raccomandare senza risparmiarsi mogli e parenti di altri
magistrati. I suoi due figli lavoravano nel campo del giornalismo: Mariano come
corrispondente del Tg1 da Londra e Fabio come corrispondente Ansa da
Bruxelles.
Le relazioni degli investigatori descrivevano la vita di un normale magistrato,
almeno fino al 13 gennaio 1996, quando, da una telefonata intercettata, venimmo
a sapere che Squillante era in partenza per Milano. Fu subito predisposto un
servizio di pedinamento ma solo una volta in treno gli agenti si resero conto che
la meta finale del viaggio era in realtà Zurigo.
Alla frontiera elvetica, i nostri poliziotti – ovviamente armati – furono bloccati
e, nonostante gli sforzi per convincere i rigidi colleghi svizzeri a lasciarli
proseguire, il treno ripartì senza di loro. Solo dopo gli arresti, avvenuti nel mese
di marzo, dalla documentazione sui conti esteri individuati venimmo a
conoscenza del motivo di quel viaggio: l’ingente patrimonio di Squillante, quasi
13 miliardi di vecchie lire, custodito (meglio, nascosto) in un conto cifrato,
proprio quel giorno era stato trasferito da Zurigo in Liechtenstein.
Venne poi la scoperta della microspia nel bar Tombini di Roma, il 21 gennaio
’96. A quel punto il senso di frustrazione per la battuta d’arresto di
un’operazione così delicata aveva contagiato un po’ tutti, ma quella sconfitta si
sarebbe ben presto rivelata una sorta di atout per l’indagine. A seguito della
scoperta della microspia, infatti, il comportamento del giudice Squillante
cambiò: in preda al panico, cominciò ad agire in modo da cucirsi addosso da
solo il vestito – per noi inconfondibile – di chi ha qualcosa da nascondere.
Il personale dello Sco che teneva Squillante sotto controllo annotava
comportamenti anomali, molto somiglianti a tattiche di controsorveglianza. Il
magistrato telefonava quasi esclusivamente da apparecchi pubblici, non usava
mai le stesse cabine, con l’avvocato Pacifico si incontrava e chiacchierava per
strada, cercando di scoprire se qualcuno lo pedinasse e, in un tardivo tentativo di
prudenza, aveva cominciato ad adottare precauzioni anche se un po’
approssimative.
Il 31 gennaio 1996 venne visto uscire dall’abitazione di Pacifico e gli agenti
che lo pedinavano così descrissero la scena: “S. si è incamminato a piedi, ha
quasi rasentato la nostra auto oltrepassandola, ha poi tergiversato per qualche
istante ed è tornato sui suoi passi fino a raggiungere la sua auto con la quale si è
allontanato verso piazza Ungheria. Percorsi un centinaio di metri ha effettuato
una manovra a sorpresa accostandosi al margine destro per due minuti, al
semaforo di piazza Ungheria, e dopo aver attraversato la piazza in direzione di
casa sua ha svoltato a destra dove si è fermato a spina di pesce, mantenendo il
motore e i fari accesi, senza scendere dall’auto ed è ripartito dopo due, tre
minuti...”.
Il 4 febbraio “il magistrato lascia la sua abitazione. Non appena oltrepassato il
cancello elettrico che lo immette nel viale condominiale, si è fermato ed è sceso
dall’auto. Prima si è mosso con molta circospezione e subito dopo ha ispezionato
l’interno di tutte le auto parcheggiate nel condominio, toccando il motore di
ognuna, presumibilmente per verificare se fossero parcheggiate da poco o da
molto tempo, dopodiché è risalito in auto e ha ripreso la marcia in direzione di
piazzale delle Belle Arti. Prima di raggiungere la piazza, il magistrato si è
fermato nuovamente, senza un’apparente ragione, per lasciare scorrere il flusso
delle auto e, arrivato in via Pinturicchio, dopo quindici metri ha effettuato una
improvvisa manovra di parcheggio. Immediatamente dopo, è ripartito con
repentina manovra. Ha percorso in retromarcia via Pinturicchio...”.
Il 5 febbraio Squillante accompagna a Fiumicino il figlio Fabio, in partenza
per l’estero. Così viene descritto il suo ritorno dall’aeroporto: “Durante il
percorso da Fiumicino, Squillante ha deviato su via Aurelia antica e si è recato
all’interno dello Holiday Inn. Dopo essere entrato nella hall vi è rimasto solo
pochi minuti, e prima di entrare nell’hotel ha imboccato una stradina buia
rimanendo fermo con i fari spenti per pochi minuti. Sicuramente durante la sosta
in albergo non ha incontrato nessuno”.
Queste descrizioni fanno ben comprendere lo stato d’animo che tutti noi
vivevamo, tra soddisfazione per gli elementi che stavamo acquisendo e
sconcerto e tristezza perché potevamo osservare in diretta un alto magistrato che
si comportava come un delinquente.
Dalle stesse indagini emergeva con chiarezza il contesto in cui Squillante si
muoveva, la sua fitta rete di relazioni che lo collegava ai gangli vitali delle
istituzioni, a cominciare dalla magistratura. Per questo il tempo giocava a nostro
sfavore: più andavamo avanti, più aumentava il rischio che una fuga di notizie
attribuisse l’indagine alla procura di Milano, un elemento vitale e fino a quel
momento non noto agli indagati.
Gherardo Colombo e io partimmo per Roma il pomeriggio del 12 marzo.
Avremmo coordinato l’operazione dalla sede della polizia e quindi presenziato
alle perquisizioni negli uffici di Squillante e dell’avvocato Pacifico. Prima di
procedere, chiedemmo un incontro con i vertici del tribunale di Roma per
comunicare loro l’imminente arresto di Squillante. Fummo accolti con freddezza
e diffidenza. In particolare, i colleghi dell’ufficio retto da Squillante si
mostrarono decisamente ostili. Potevamo ben comprendere quegli atteggiamenti,
dato quello che sarebbe accaduto di lì a poco, e che, oltretutto, sarebbe ben
presto diventato di dominio pubblico.
Quella notte non chiusi occhio, immaginando il putiferio che sarebbe
scoppiato il giorno seguente.
I primi flash di agenzia arrivarono verso le 9 del mattino, ma Gherardo e io
eravamo talmente indaffarati che l’uragano mediatico ci lasciò indifferenti, come
avviene in quell’area di quiete che si crea proprio nell’occhio di un ciclone. Ore
e ore di perquisizioni, l’esame e la cernita del materiale da porre sotto sequestro,
tutti gli atti necessari a concludere senza errori quella delicatissima missione,
sempre assistiti dal personale dello Sco.
Trascorsa così un’intera giornata di fatica e anche di intima sofferenza, a notte
fonda cenammo in un ristorante vicino all’hotel e subito dopo, esausti, andammo
a dormire. Il mattino seguente partimmo di buon’ora per Milano. Dal mio primo
contatto con la signora Ariosto al giorno degli arresti erano trascorsi solo cinque
mesi, durante i quali avevamo lavorato sodo, come sempre in silenzio, in
contatto soltanto con i colleghi del pool. Ma proprio quella riservatezza
“rafforzata” che aveva protetto le indagini e che non era stata scalfita nemmeno
dalla scoperta della microspia al bar Tombini aveva finito per attrarre
misteriosamente l’attenzione dei media.
Fu così che dall’operazione di quel 13 marzo si scatenò la ricerca: la caccia a
notizie, dettagli, conferme più o meno indirette da parte di chi indagava.
Giornali, radio e tv avevano sguinzagliato i migliori cronisti e i loro inviati
specializzati, tanto che nei corridoi della procura sembrava di essere tornati alle
giornate incandescenti di Mani pulite, quando era esasperata l’attesa della mezza
parola di un pm, la “non smentita” di chiunque percorresse il corridoio del
quarto piano con una carta in mano, la ricerca di uno scatto fotografico che
potesse fare titolo per i tg della sera.
Ero consapevole dei rischi derivanti da una pressione simile, della possibilità
che filtrasse qualche dettaglio, o che qualcuno si lasciasse tentare dai riflettori,
perciò chiesi a tutti il massimo riserbo, il silenzio assoluto. La mia stanza, già
poco frequentata, divenne inavvicinabile, protetta dagli uomini della scorta, cui
avevo ribadito le disposizioni di sempre ma da applicare con ancora maggior
rigore.
Anche per questi motivi gli atti istruttori non si svolgevano in via Freguglia,
ma più spesso a Roma, dove mi capitava di fermarmi anche parecchi giorni. È
così che, per quanto umanamente possibile, siamo riusciti a contenere le
(legittime, per carità) pretese dei media fino al deposito degli atti, quando
cominciarono a circolare i nomi delle persone coinvolte – compresi quelli di
magistrati – come pure i contenuti delle dichiarazioni rese da Stefania Ariosto e
le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali.
Come se non bastasse, intanto si era acuito il contrasto con la magistratura
romana, specie con i colleghi di Magistratura democratica, corrente cui
appartenevano diversi colleghi coinvolti nell’indagine. Il procuratore Coiro
rilasciò dichiarazioni di fuoco con le quali, in pratica, accusava Borrelli di non
averlo avvertito delle indagini su Squillante. Non solo: i miei colleghi del pool
iscritti o vicini a Md furono bersagliati di telefonate dagli uffici romani. Una
vera assurdità, che tuttavia dice molto dell’aria che si respirava nella categoria.
Devo dire che, almeno in questo caso, mi fece scudo la cattiva fama perché
nessuno tentò (potrei dire, osò) comporre il mio numero per perorare non so
quali cause o propinarmi chissà quali consigli alla prudenza.
Anche in questa occasione il nostro capo, il solito Borrelli, fece da parafulmine
dell’ufficio, assumendo su di sé tutti gli attacchi. Che furono tanti, ripetuti, quasi
sempre sopra le righe. Un fuoco incrociato spossante e difficile da schivare.
In uno degli scambi polemici tra procure, così Saverio rispose, attraverso i
giornali, al suo omologo romano: “Noi ci ribelliamo a vedere trasformato ogni
nostro atto in atto politico o a sentir leggere quanto facciamo in chiave di
contrapposizione tra un ufficio e l’altro, come una guerra all’interno della
corporazione dei magistrati. Si sta frastornando l’opinione pubblica. E mi duole
che il rapporto personale con Michele Coiro si sia in questi giorni guastato per
fraintendimenti”. Ma dato che le critiche dalla Capitale non accennavano a
scemare, a un giornalista che gli chiedeva se avesse intenzione di replicare a
Coiro, in un’altra occasione Borrelli rispose: “No, a caldo no. Meglio lasciar
raffreddare la temperatura e poi parlare. Credo che bisogna tenere i nervi saldi,
anche quando vengono indagati colleghi ai quali siamo legati per amicizia o che
stimiamo. Bisogna reprimere i moti del cuore. Come noi abbiamo fatto, come ci
siamo sforzati di fare a proposito delle indagini di Brescia nei nostri confronti:
noi non ci siamo ribellati alle loro iniziative intrusive”.
A distanza di qualche giorno dagli arresti romani e dopo il susseguirsi
incalzante di indiscrezioni, sulla stampa comparve la notizia che tra gli indagati
c’era Silvio Berlusconi, nel ruolo di “concorrente necessario” nel reato di
corruzione contestato a Squillante, Previti e Pacifico. Venne anche pubblicata la
nostra richiesta di misura cautelare depositata al tribunale del riesame, nella
quale precisavamo che si procedeva nei confronti di Berlusconi per il delitto di
falso in bilancio aggravato, perché a nostro avviso i fondi neri che andavano a
foraggiare i sodali romani venivano dalle sue società con sede a Milano, grazie a
falsità contabili, strumentali al reato di corruzione: per noi, quindi, era evidente
che la formazione di una provvista extracontabile e l’illecita erogazione di
mazzette facevano parte di un unico disegno.
Per smantellare questa tesi scesero in campo gli avvocati più famosi del Foro
di Milano e Roma, professionisti pronti a contrastare ogni iniziativa nel processo
(e pure fuori dal processo) ricorrendo a tutti gli strumenti a loro disposizione.
Nel complesso – basta rileggere i giornali d’area dell’epoca – posso dire che,
mentre noi rappresentanti dell’accusa ci attenevamo rigorosamente ai soli atti
processuali, eravamo sottoposti a un potente fuoco di sbarramento, non distante
dal linciaggio mediatico.
In questo clima di forte tensione e con l’enorme quantità di lavoro che ne era
scaturita, finii in un vortice che progressivamente accelerava e non dava tempo
di riprendere fiato tra convocazioni di testimoni, interrogatori, stesura di
rogatorie da inviare all’estero. Basti pensare che in quegli anni, solo nei processi
Sme, Imi-Sir, Lodo Mondadori, ne furono inviate in tutto il mondo più di
trecento.
Una parentesi, a suo modo divertente, di quel periodo giunse con un biglietto
di auguri pasquali, speditomi da un ergastolano recluso a Volterra, il signor
Luciano Vella detto “due pistole”, soprannome dal significato intuitivo. La pena
che stava scontando era l’esito di un processo per un duplice omicidio sul quale
proprio io avevo indagato e poi sostenuto l’accusa in Corte d’assise, ottenendo la
sua condanna. Perciò tutto mi potevo aspettare fuorché di ricevere quel biglietto,
il primo che Vella mi avesse mai scritto: “Perché un pensiero di sincera stima sia
benevolmente gradito. Forza, dottoressa Boccassini: dove c’è fumo c’è arrosto”.
Al di là del pensiero augurale, presi quel biglietto come un segnale positivo,
considerato che quelle parole semplici di stima e d’incoraggiamento
provenivano da un uomo che stava espiando un “fine pena mai”.
Intanto, per fortuna, qualcuno ci dava una mano. La rapidità con cui in
Svizzera venivano “lavorate” le nostre rogatorie e con cui veniva inoltrata a
Milano la documentazione sui conti bancari elvetici fu favorita dal grande
impegno di Carla Del Ponte, che giusto in quegli anni ricopriva un ruolo apicale
nella magistratura svizzera, come procuratore generale della Confederazione.
A Carla mi legava – e mi lega tuttora – un rapporto di sincera amicizia. È una
donna dotata di grande energia e capacità non comuni, come peraltro testimonia
la sua brillante carriera. Dopo aver ricoperto per cinque anni la carica di
procuratore generale, nel 1999 sarebbe diventata procuratore del tribunale
internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e per il genocidio in
Ruanda. Infine, nel 2008, Berna l’avrebbe nominata ambasciatrice in Argentina,
una carica prestigiosa e in genere riservata a funzionari cresciuti nell’ambiente
diplomatico, mantenuta fino al 2011.
Con Carla ho diviso l’affetto e la stima per Giovanni, che con lei iniziò a
lavorare e a riscuotere successi all’estero. Carla era a Palermo anche il giorno del
fallito attentato all’Addaura e tra le ipotesi non venne escluso che potesse essere
lei tra i destinatari del borsone di dinamite ritrovato sugli scogli. Quel giorno
Carla era attesa da lui per una colazione che venne annullata solo all’ultimo
momento.
Giovanni me ne parlava elogiandone le grandi qualità, e in tutti gli anni in cui
abbiamo collaborato ci siamo anche divertite, perché è una donna spiritosa,
solare, sotto certi aspetti più “meridionale” che “svizzera”, come dimostra – lo
dico attingendo con affetto da un trito luogo comune – il fatto che la puntualità
non sia il suo forte. A lei mi legano tanti ricordi belli, tanta solidarietà tra donne
che da ruoli diversi, per di più normalmente destinati ai maschi, perseguivano gli
stessi obiettivi.
Una svolta importante nelle indagini fu l’individuazione di una piccola banca
di Bellinzona nella quale Pacifico, già marcato stretto dai nostri agenti, era stato
visto entrare. Titolare della banca era il cittadino elvetico Dionigi Resinelli,
proprietario – tra l’altro – di una bella villa in Sardegna. La sua testimonianza
sarebbe stata di vitale importanza per suffragare le accuse, ma Resinelli non
avrebbe mai accettato di venire in Italia per rispondere alle nostre domande.
Anzi, dopo che l’indagine era diventata pubblica, il banchiere si era blindato in
Svizzera guardandosi bene dal fare anche un solo passo oltreconfine. Ma si
avvicinava la bella stagione e lui – forse peccando d’ingenuità, forse
sottovalutando la nostra determinazione e certamente ignorando la qualità del
nostro personale investigativo – si era convinto che non fossimo a conoscenza
della sua proprietà in Sardegna. Così, per non rinunciare allo splendido mare
sardo, al sole e alla buona cucina, commise l’errore di lasciare Bellinzona per
sdraiarsi sulla sabbia bianca dell’isola. Per quanto si fosse mosso con grande
discrezione, il 7 luglio la polizia riuscì a notificargli la convocazione del
tribunale di Milano.
Naturalmente mister Resinelli pensava di potersi trincerare dietro il segreto
bancario, ma quello sbarramento è insuperabile solo per la legge svizzera,
mentre in Italia non offre alcuno scudo alle attività della magistratura. Così,
passato ben presto nel ruolo di teste che non collabora, ne chiedemmo l’arresto
per favoreggiamento. La sua detenzione durò solo pochi giorni, perché il
banchiere di Bellinzona chiese di essere nuovamente sentito e cominciò a
spiegare per filo e per segno a Gherardo le attività e il ruolo di Pacifico e
Squillante, indicando con precisione svizzera dietro quali sigle, numeri e nomi di
comodo si celassero i loro conti esteri. Probabilmente, ben consigliato dai suoi
legali, Resinelli si era reso conto che non valeva la pena proteggere persone già
arrestate per reati gravi come la corruzione, rischiando oltretutto di inimicarsi le
autorità svizzere.
Solo per fare un esempio: nel corso delle perquisizioni nello studio
dell’avvocato Pacifico era stata rinvenuta la cedola di un versamento di oltre 241
milioni di lire, bonificati a Pacifico sulla Banca commerciale di Lugano dalla
signora Battistella Primarosa, vedova Rovelli. Fu proprio questo il punto in cui si
innestò e prese casualmente avvio un’altra avventura, quella della vicenda Imi-
Sir.
Meno male che durante le perquisizioni avevo notato quella cedola, che si
sarebbe potuta perdere nel marasma dei documenti sequestrati. Per fortuna, o
magari per esperienza, la sequestrai e la feci mettere in evidenza. Però mai avrei
potuto immaginare che ci avrebbe portati dentro la complicata vicenda cresciuta
attorno all’ingegner Nino Rovelli, deceduto pochi anni prima a Zurigo, ben noto
in Italia come il creatore dell’impero chimico della Sir. Oltre che un abile e
spregiudicato finanziere-imprenditore, Rovelli era ambito bersaglio dei
rotocalchi perché uomo prestante, che negli anni della guerra per la chimica i
media avevano battezzato il “Clark Gable della Brianza”. Insieme al nome di
Rovelli scoprimmo una tangente pari a 66.789.541.000 (66 miliardi, 789 milioni,
541 mila) lire, esattamente – come avremmo stabilito poi – il 10% dei 678,3
miliardi di lire riconosciuti ai Rovelli al termine della vertenza a suo tempo
intentata contro l’Imi, l’Istituto mobiliare italiano. Si era trattato di un conflitto
giudiziario estenuante, avviato nel 1979, quando la Sir era franata sotto il peso di
3.500 miliardi di debiti. Il governo e l’Imi (la banca pubblica che era esposta per
1.300 miliardi verso il gruppo) avevano fatto il possibile per salvarlo, ma senza
riuscirvi. Così, nel 1982 Rovelli si era rivolto al tribunale per ottenere dall’Imi
un risarcimento di 500 miliardi di lire per i danni subiti – a suo dire – con la
liquidazione “a prezzi stracciati” dell’impero industriale di cui era a capo. Una
causa in cui riuscì a prevalere, ma solo dopo aver corrotto magistrati in servizio
al tribunale di Roma, grazie alla mediazione degli avvocati Attilio Pacifico,
Cesare Previti e Giovanni Acampora.
L’invio della rogatoria in Svizzera per l’individuazione del conto presso la
Banca commerciale di Lugano spinse la signora Battistella a cercare, tramite i
suoi legali, un contatto con il procuratore federale. Cioè con Carla Del Ponte, la
quale telefonò immediatamente per informarmi che la vedova Rovelli e il figlio
maggiore, Felice, chiedevano di essere ascoltati dai pubblici ministeri italiani,
ma ponevano alcune condizioni: l’incontro sarebbe dovuto avvenire in Svizzera
e alla presenza della stessa Del Ponte, oltre che dei legali della famiglia.
Naturalmente accettammo e la storia che ascoltai in quell’occasione, ricca di
nuovo materiale probatorio, era una di quelle che possono lasciare a bocca aperta
anche chi, negli anni, di storie incredibili ne ha sentite tante. Eccola.
La vedova Rovelli raccontò che, poco prima di affrontare un delicatissimo
intervento al cuore, suo marito aveva rivolto ai suoi cari una raccomandazione:
se dovessi morire, aveva detto, dovete onorare i crediti vantati da Attilio
Pacifico. Non aveva aggiunto altro. L’ingegnere era stato lungimirante, perché
morì poco tempo dopo per alcune complicazioni seguite all’operazione.
Trascorso poco più di un mese, Attilio Pacifico aveva bussato a casa della
vedova e – come annunciato – aveva chiesto conto del suo credito. Ma non si era
limitato a questo: in quella stessa occasione, senza dare spiegazioni, Pacifico
aveva aggiunto che anche due suoi colleghi, Cesare Previti e Giovanni
Acampora, vantavano a loro volta dei crediti dal defunto e dunque, ora, dalla sua
famiglia. Di lì a poco, infatti, anche questi ultimi avevano contattato
separatamente Felice Rovelli e la signora Battistella, consegnando loro degli
anonimi pezzi di carta con su scritti il nome delle banche e i numeri dei conti
cifrati sui quali avrebbero dovuto versare le somme richieste. I pagamenti erano
stati eseguiti, ovviamente estero su estero, per eludere il fisco italiano. La
tangente – perché di questo si trattava – era stata versata in franchi svizzeri e
così suddivisa: a Pacifico erano andati 28,850 milioni di franchi (in lire, poco più
di 33 miliardi), ad Acampora 10 milioni (quasi 13 miliardi), a Previti 18 milioni
(poco più di 21 miliardi).
A questo punto sono necessarie alcune annotazioni sui personaggi con cui ha
avuto a che fare la procura di Milano.
Quando, nel giugno del 1994, Cesare Previti fu nominato ministro della Difesa
e giurò fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica, era già un evasore, un
corruttore di magistrati, un personaggio pronto a tutto per raggiungere i propri
scopi. E non era diventato ministro della Giustizia, come avrebbe voluto
Berlusconi, solo per la decisa opposizione dell’allora presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Giovanni Acampora, invece, negli anni settanta era un ufficiale della guardia
di finanza che aveva dimostrato acume, intuito e fantasia nell’individuare i
funambolismi fiscali dei grandi e grandissimi evasori, all’epoca già assai diffusi
e, per quei tempi, a loro modo sofisticati. Con indosso la divisa di capitano,
Acampora eseguiva verifiche fiscali in uffici di importanti società, di grandi
imprenditori e di professionisti di primo piano. Fu lui, per esempio, che passò al
setaccio le posizioni del gioielliere Paolo Bulgari, di Antonio Lefebvre d’Ovidio
(coinvolto nello scandalo Lockheed) e di altri colossi finanziari. Dei quali
diventò avvocato quando si dimise dalle Fiamme gialle. Tra i clienti del suo
studio legale c’era anche il gruppo Fininvest.
Nella nuova veste di avvocato, e benché da militare non ricoprisse un grado
altissimo, Acampora aveva allacciato rapporti privilegiati con i vertici delle
Fiamme gialle dell’epoca, come il comandante generale Raffaele Giudice e il
generale Donato Lo Prete. Ed era lui a maneggiare gli ingentissimi fondi bancari
collocati presso società di comodo che – si sarebbe scoperto – facevano capo ai
due alti ufficiali della guardia di finanza.
Quando venne arrestato, nel 1983, Acampora era già un libero professionista
che navigava con scaltrezza nelle acque torbide del malaffare romano. E quando
il magistrato torinese Mario Vaudano aprì l’inchiesta sullo scandalo dei petroli
(da cui spuntarono anche i nomi di Lo Prete e Giudice), il fascicolo venne ben
presto scippato dal tribunale di Roma, grazie all’iniziativa di Renato Squillante.
In che modo? Il giudice contestò ad Acampora un reato inesistente, ma più grave
delle ipotesi prospettate dalla procura torinese, così da radicare nella Capitale la
competenza sull’intero fascicolo. Naturalmente, nell’arco di qualche mese
Acampora era stato prosciolto, anche in questo caso ricorrendo a una
motivazione a dir poco sorprendente: non potendo negare che era proprio lui a
movimentare i conti esteri, venne inventata la fantasiosa circostanza secondo cui
le operazioni venivano effettuate solo quando l’uomo – all’epoca ancora militare
– era in ferie e quindi agiva da privato cittadino.
Così, anni prima delle nostre indagini, la magistratura romana aveva già
salvato Acampora. Non si tratta di dettagli di contorno né gratuiti, poiché
servono a spiegare che il personaggio in cui mi ero imbattuta non era
semplicemente un pubblico ufficiale che si era abbassato a commettere reati, ma
il tassello di un sistema che comprendeva anche gli illeciti dei suoi superiori e i
loro favolosi introiti frutto di corruzione. Quindi Acampora era una persona che
cinicamente aveva messo al servizio dell’illegalità tutta quella competenza in
campo finanziario e fiscale che aveva acquisito per servire il Paese, indossando
la divisa.
Eravamo nel periodo oscuro di Roma “porto delle nebbie”. E a fronte delle
vicende giudiziarie di quel periodo e degli anni precedenti, non ho fatto fatica a
capire cosa si intendesse con quell’espressione, poi entrata nel gergo dei palazzi
e nel linguaggio comune. Sia pure con tutti i necessari distinguo.
Man mano che andavamo avanti nell’inchiesta, emergevano i nomi di altri
magistrati romani. Diversi tra loro optarono per il pensionamento anticipato, altri
giustificarono la disponibilità di conti all’estero con spiegazioni bizzarre,
strampalate e obiettivamente fuori dalla realtà. Uno scenario desolante. Se solo
avesse voluto, a metà degli anni novanta la magistratura associata avrebbe avuto
una formidabile occasione per lanciare una campagna moralizzatrice al suo
interno, come peraltro chiedeva il Paese. Perché era sotto gli occhi di tutti che, al
fianco di magistrati coraggiosi e indipendenti, vi fosse una parte non residuale
della corporazione che non faceva il proprio dovere. E non mi pare, in tutta
franchezza, che oggi la situazione sia molto diversa. Sono ancora troppi i
comportamenti opachi, forse non penalmente rilevabili, ma senza dubbio
deontologicamente censurabili. Se il Consiglio superiore della magistratura
avesse fatto la sua parte, tante toghe avrebbero dovuto subire sanzioni. Così
come la stessa Associazione magistrati avrebbe dovuto da tempo abbandonare
ogni difesa corporativa della categoria per assumere pubblicamente la
responsabilità degli errori commessi dagli iscritti, delle carenze emerse, dei
cambiamenti necessari e promessi, ma mai avvenuti.
Se Cosa nostra in Sicilia ha potuto vivere e prosperare per decenni, lo si deve
anche – non solo, ovviamente, ma anche – all’inerzia di una magistratura pigra,
pavida, in alcuni casi collusa. E se la corruzione ha potuto minare
pericolosamente le fondamenta dello Stato, lo si deve anche a pezzi di
magistratura che hanno volutamente distolto lo sguardo, oppure non hanno
capito o si sono lasciati corrompere. E non solo con il denaro.
Ho sempre ritenuto gravissimo che ci siano magistrati che, venuti a
conoscenza o anche solo intuendo l’esistenza di interessi illeciti coltivati da
colleghi, abbiano taciuto preferendo chiudere occhi e orecchie invece di
denunciare.
A questo proposito, sarebbe istruttivo ripercorrere i conflitti che hanno
attraversato e tuttora dividono i giudici, perché risulterebbe chiaro come la posta
in gioco di molte guerre intestine non sia il potere individuale di questo o di
quello, ma il groviglio di interessi illeciti che questa o quella consorteria togata
proteggeva e protegge.
Come ho denunciato in diverse occasioni, la magistratura associata non ha mai
avuto il coraggio o la volontà di avviare un processo di moralizzazione,
nonostante i fatti gravissimi emersi negli anni: alcuni rimasti sepolti all’interno
della categoria, altri sotto gli occhi della società intera. Negli anni in cui
accadevano i fatti che sto ricostruendo in queste pagine, buona parte della
magistratura romana si compattò, concentrandosi negli attacchi alla procura di
Milano anziché mettere in mora e isolare quanti avevano violato le regole,
commesso reati, minato l’immagine e l’autorevolezza del corpo giudiziario.
In quel clima incandescente, noi navigavamo a vista, consapevoli che la
situazione generale sarebbe peggiorata man mano che fossimo andati avanti con
gli accertamenti e con l’analisi dei conti esteri.
Nel maggio 1996 venne eseguito, su nostra richiesta, l’ordine di cattura per
Giovanni Acampora. Sempre con Gherardo andai a Roma e presenziammo alla
perquisizione dello studio dell’avvocato. Impossibile non descrivere quello
studio in via Pompeo Magno, perché l’operazione di ricerca dei documenti
richiese ben due giorni! Lo studio si trovava in un’elegante palazzina di tre piani
(più un seminterrato), le pareti foderate in radica di noce, pavimenti di marmo
lucido; divani in pelle sparsi un po’ ovunque, quadri del Settecento alle pareti.
Nei corridoi, librerie di legno pregiato stracolme di testi di diritto tributario,
fiscale, internazionale. Al primo piano si trovava lo studio di rappresentanza; al
secondo erano distribuiti i dodici avvocati associati e tredici giovani e
giovanissimi collaboratrici e collaboratori. Nel vasto ambiente sotterraneo, gli
archivisti gestivano uno schedario monumentale e impeccabile, organizzato in
scaffali a pareti semoventi, una struttura che per modernità ed efficienza avrebbe
fatto impallidire qualunque centro di documentazione e archiviazione dati.
Infine, nell’empireo della palazzina, al terzo piano, si aprivano la stanza di
Acampora, quella della sua segretaria personale e gli uffici riservati ai due figli.
Per farla breve, ci trovavamo in un’area enorme da controllare. E anche se
eravamo mentalmente preparati ad affrontare una situazione complessa, tutti
quei metri quadrati ci provocarono un certo sgomento. Il che non impedì che si
verificassero episodi persino esilaranti. Come quando, appena entrati nello
studio ed espletate le primissime formalità, stavamo per iniziare la perquisizione
e Gherardo – con la massima calma e l’imperturbabilità di un gentleman
inglese – si rivolse al personale dello Sco chiedendo di procurargli una cucitrice:
dopodiché, alla presenza degli stessi agenti e di uno stupefatto stuolo di avvocati,
si mise tranquillamente a “spillare” l’orlo del pantalone che si era scucito.
Alessandro Pansa, anche lui presente per coordinare il lavoro degli agenti, gli
sussurrò all’orecchio: “Dottore, lei è un mito”.
Al secondo giorno di perquisizione eravamo esausti, sia per la vastità
dell’ambiente, sia perché i collaboratori di Acampora ci seguivano passo passo,
attentissimi a ogni nostra mossa o richiesta e – ovviamente – pronti a metterci,
non appena possibile, i bastoni tra le ruote. Contestavano qualsiasi iniziativa e
per ciascun documento sequestrato chiedevano di stilare un controverbale con le
loro obiezioni. Come il giorno precedente, indossavo pantaloni e scarpe
supercomode, perché si andava continuamente su e giù, avanti e indietro per i
quattro livelli dello studio e capitava spesso di doversi chinare per aprire cassetti
o raccoglitori posti rasoterra. Proprio in uno di quei frangenti, nel chinarmi per
l’ennesima volta sentii l’inconfondibile rumore della stoffa che si strappa. Mi
alzai lentamente e feci qualche passo ben attenta a rasentare il muro con le
spalle. La strana postura e la mia faccia terrorizzata non passarono inosservate a
Gherardo, che mi chiese sottovoce se mi sentissi bene. Ero così agitata che gli
risposi: “Si è sguarrato il pantalone”. Colombo sgranò gli occhi, perché da buon
brianzolo non aveva capito. Così gli dovetti tradurre che “mi si erano strappati i
pantaloni” ma lui, anziché consolarmi o venirmi in aiuto, si limitò a un
flemmatico “Che disastro!” e tornò a occuparsi della perquisizione. Non avevo
certo il tempo di andare e tornare dall’hotel, così mi feci coraggio e continuai ‐
anch’io come se niente fosse. E pazienza se qualcuno tra i presenti avrebbe visto
il colore della mia biancheria.
Nei mesi precedenti al marzo ’96, a indagini ancora coperte dal segreto
istruttorio, accettai l’invito di una scuola milanese a parlare di legalità e scelsi di
partire da un episodio di cronaca recente: l’elezione a rappresentante di classe di
Concetta Riina, figlia del boss Salvatore, nella scuola che la ragazza frequentava
a Corleone. Iniziai focalizzando l’attenzione sulla figura terribile e sul ruolo di
primo piano avuto da Riina nell’organizzazione mafiosa; elencai gli atroci delitti
che aveva commesso oppure ordinato, per i quali stava scontando numerosi
ergastoli. Concetta Riina aveva sedici anni quando venne eletta rappresentante
dai compagni di classe. Fatta questa premessa, chiesi agli studenti come, a loro
avviso, la figlia di Riina avrebbe potuto rappresentare la sua classe senza prima
aver preso coscienza di cosa fosse Cosa nostra, senza essersi mai pubblicamente
dissociata dalla cultura mafiosa nella quale era stata cresciuta, senza mai essersi
espressa sulla necessità della lotta al crimine, e senza che tutto questo
comportasse, in buona sostanza, l’abiura del padre.
Insomma, quale apporto culturale avrebbe potuto dare Concetta Riina alla sua
scuola, quale impulso per costruire una società più giusta, da cui fossero bandite
sopraffazione, violenza, intimidazioni? Mi pareva giusto offrire questi spunti di
riflessione perché, a mio avviso, anche nella piccola vicenda della giovane Riina
da Corleone erano in gioco valori altissimi: quando è a rischio la democrazia nel
nostro Paese, nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità. I principi
trasmessi dalla società civile, dalla scuola innanzitutto, diventano la linea di
demarcazione tra il bene e il male, a Palermo come a Milano.
L’intervento in quella scuola venne pubblicato sul “Corriere della Sera” e
suscitò un forte dibattito, anche se a mostrare indignazione furono soprattutto
coloro che da sempre esprimevano un giudizio pregiudizialmente negativo su di
me, sulle mie parole, sul mio lavoro. Tra questi critici “a prescindere”, per
impeto e foga polemica si è sempre distinto Giuliano Ferrara, il sanguigno e
influente opinion maker, prima della sinistra comunista e poi dell’area liberista-
berlusconiana. Ferrara non ha mai perso occasione per vergare commenti
graffianti fino all’offesa, guidando vere e proprie campagne denigratorie,
rinnovando per anni attacchi e sfottò. Come dimenticare la sua striscia televisiva
del 2013 nella quale mi faceva il verso indossando una parrucca rossa e
dedicandomi canzoncine irridenti? Un vero spasso per il suo pubblico e anche
per me qualche momento di ilarità, perché le sue invettive pungenti non sono
mai arrivate a modificare il mio modo di essere. Qualche volta ne sono rimasta
amareggiata, ma più che altro mi faceva soffrire osservare che un uomo ascoltato
e potente si permetteva – senza accenni di reazione a mio favore da parte di
nessuno – di usare ogni mezzo per colpire una donna non dico inerme, ma che
comunque non poteva (né avrebbe voluto) ingaggiare un battibecco con lui.
Ma se da Ferrara mi potevo aspettare questi attacchi, da Luciano Violante un
po’ meno. Uomo di grande esperienza, ex magistrato, voce autorevole della
sinistra nelle sue varie declinazioni, Violante è un conoscitore del fenomeno
mafioso, è stato presidente della Commissione antimafia, per tacere di tutte le
cariche ricoperte nella sua lunga carriera politica. Per tutte queste ragioni le sue
parole di dura critica al mio intervento mi hanno ferito, ma allo stesso tempo mi
hanno fatto comprendere quanto la mia figura fosse mal sopportata a sinistra,
almeno quanto lo è sempre stata a destra. Magari per ragioni differenti, ma il
risultato non cambiava.
Le soddisfazioni per me, come quasi sempre è avvenuto, sono arrivate dai
cittadini comuni. Per questo voglio riportare il testo di una lettera molto
particolare, firmata da uno sconosciuto medico calabrese, evidentemente lettore
attento dei giornali nazionali.
Rifacendosi a un fatto di cronaca (l’autocandidatura e l’elezione di Concetta Riina al consiglio di classe)
il magistrato Ilda Boccassini ha svolto una splendida relazione a un seminario di insegnanti. Certo, i
concetti da lei espressi non sono oggigiorno usuali e, in fondo, per la loro chiarezza, possono anche
disturbare certi tranquilli benpensanti. Si proclama, infatti, “l’obbligo morale verso il nostro Paese e
verso noi stessi di combattere il cancro della mafia”; significa “che la società civile e soprattutto la scuola
devono essere gli artefici della demarcazione tra il bene e il male”; si afferma che “chi ha sbagliato deve
pagare, sia esso criminale oppure magistrato, un pubblico ufficiale o un politico colluso” e che, con loro,
noi dobbiamo “isolare chi, per codardia o ignavia, non compie fino in fondo il proprio dovere”; perché la
lotta alla mafia non può essere solo il tema di un corteo o di un’assemblea scolastica, ma “deve essere
presente ogni giorno, ogni momento; il senso dello Stato deve prevalere anche nelle piccole cose,
soprattutto quando ciò comporta sacrificio”. E il magistrato chiede agli studenti come si comporterebbero
se un loro amico spacciasse; forse per non apparire “infami” sceglierebbero il silenzio, pur sapendo che
con i proventi della droga la mafia si procura armi ed esplosivi per stragi, massacri, intimidazioni e
vendette? E a Concetta Riina domanda se si è resa conto che i delitti per cui suo padre è stato giudicato e
condannato sono nefandezze, se intende dissociarsi dai crimini e dalla cultura mafiosa. Altrimenti “quale
apporto culturale essa potrà dare alla sua scuola, alla società?”. Questo discorso appassionato, lucido e
duro, il richiamo ai principi morali, all’autocoscienza dei cittadini, ai nostri doveri verso lo Stato e verso
noi stessi, ha risollevato in me la speranza che, alla fine, il cancro mafia può essere asportato. Sbaglia o
mente chi racconta che Boccassini abbia chiesto a Concetta Riina di rinnegare il padre. No, ha
giustamente chiesto se la neoeletta rappresentante di istituto senta il dovere di rinnegare la cultura
mafiosa. Giuliano Ferrara (“Corriere della Sera”) si è scagliato con tutto il suo peso contro il magistrato.
Con l’abituale stile apocalittico-cultural-semplicistico, sottolineando e travisando alcune frasi
accortamente isolate dal contesto, egli deplora che il magistrato pretenda che la sedicenne Concetta “si
faccia orfana di un pover’uomo che già sconta tre ergastoli [sic!], a regime duro, in un carcere della
Repubblica [sic!]”. E asserisce che “gli incubi di Kafka sono niente in confronto al concetto giustizialista
della dottoressa Boccassini” e si dice “stupefatto e avvilito all’udire che la repressione del crimine
mafioso venga condotta in nome di una ideologia che è un impasto della peggiore cultura
dell’inquisizione e di una visione totalitaria del diritto, regina del processo staliniano”. Insomma per lui
“le cose dette dal magistrato sono allarmanti anche se grottesche. Pretende l’impossibile abiura del padre,
agisce contro la coscienza e contro la libertà morale, in nome del popolo italiano”. No, dottor Ferrara, è
vero il contrario, il discorso di Boccassini è tutto un appello alla libertà di coscienza e morale, alla
dignità umana che deve ribellarsi alla prepotenza e alla sanguinaria violenza mafiosa.

Pover’uomo Riina? Dottor Ferrara, se ancora non l’ha fatto (ma non mi pare),
chieda scusa a tutte le vittime ammazzate per ordine del boss corleonese. E
finalmente le sto scrivendo ora quello che avrei voluto dirle tanti anni fa, quando
però non potevo farlo, per rispetto della funzione che avevo il dovere di tutelare.
16.
Toghe infangate

Dalle indagini emersero i nominativi di altri magistrati romani in odore di


corruzione. Tra questi Antonio Pelaggi, all’epoca presidente dell’VIII sezione
penale del tribunale, che, su nostra richiesta, fu arrestato nel luglio 1996.
Durante la perquisizione nella sua abitazione furono trovate, nascoste tra le
pagine di libri, banconote di vario taglio. Mi era già capitato di imbattermi in
veri e propri tesoretti in banconote occultati con le stesse modalità, ma si era
sempre trattato di perquisizioni in case di trafficanti di droga o di riciclatori di
denaro. Non potevo immaginare che un magistrato potesse nascondere denaro di
provenienza probabilmente illecita con le stesse modalità dei delinquenti.
Anche stavolta Gherardo e io chiedemmo un appuntamento con il presidente
del tribunale per anticipargli la pessima notizia. E, dopo le polemiche con
Borrelli, ci sembrava doveroso fare una visita di cortesia al procuratore Coiro. Il
caso volle che proprio in quel momento, nel suo ufficio, ci fosse anche il
sostituto Antonino Vinci, pubblico ministero all’epoca piuttosto noto per aver
gestito importanti inchieste. Alla nostra vista, il collega divenne bianco come un
lenzuolo e dopo un rapido saluto si allontanò dalla stanza del procuratore. Dai
nostri accertamenti Vinci risultava in ottimi rapporti sia con l’avvocato Pacifico
sia con Cesare Previti, tanto che partecipava alle partite di calcetto organizzate
da quest’ultimo al Circolo canottieri di cui era presidente. Scoprimmo anche un
conto estero in Svizzera, gestito dal solito Attilio Pacifico, in cui era custodita
una somma di denaro importante. Ma questo filone di indagini si interruppe
pochi mesi dopo, perché Vinci morì nel luglio 1998.
Il procuratore ci accolse piuttosto freddamente, anche se apprezzò la nostra
cortesia. Quando gli parlammo di Pelaggi, Coiro non si scompose, precisando
che quel collega era da tempo al centro di voci. Analoghe considerazioni
potemmo ascoltare sui nomi di altri magistrati, primo fra tutti il giudice Filippo
Verde, il quale verrà coinvolto nel processo Sme. Ma perché, se tutti sapevano,
nessuno aveva mai denunciato?
La nostra azione nella Capitale poneva il problema della competenza
territoriale: tranne che sui magistrati inseriti nel filone delle indagini milanesi, su
tutti gli altri avrebbe dovuto indagare la procura di Perugia, competente per i
fatti che coinvolgevano i colleghi del distretto di Roma. C’era tanto da scavare,
da scoprire, da provare e confesso che mi sarebbe piaciuto procedere
direttamente da Milano, ma sarebbe stata una forzatura. Così inviammo a
Perugia tutto il materiale raccolto fino a quel momento.
Mio padre, uomo superstizioso, ha sempre avuto in casa una pianta di agave,
che – stando alle dicerie popolari – tiene lontano il malocchio. Sono cresciuta
con la convinzione che potesse essere vero: nelle case in cui ho abitato l’agave
non è mai mancata. Con gli anni ne ho apprezzato anche le doti benefiche e ho
acquistato creme che ne contenevano il succo. Rimasi perciò esterrefatta quando
lessi sullo “Specchio”, il magazine settimanale della “Stampa”, l’articolo di uno
psicologo della politica, Panayotis Kantzas, che tracciava il profilo di sei donne,
tra cui il mio, a suo dire protagoniste dirette o indirette della campagna elettorale
in corso (l’articolo fu pubblicato il 13 aprile 1996). Kantzas aveva accostato a
ognuna delle sei donne un fiore e l’abbinamento scelto per me dall’autore era
proprio il fiore rosso dell’agave! Lo psicologo scriveva che, a suo avviso, io ero
“il pm anti-Antigone: la figlia di Edipo lo accompagna disperato e cieco, Ilda lo
fa precipitare dalla rupe. La Boccassini vorrebbe radere al suolo l’eredità di un
uomo. La sua testa anguicrinita, quella capigliatura infuocata e scomposta da
valchiria evidenzia e denuncia l’assenza dell’uomo. La Boccassini, sfatando il
luogo comune della prima donna sempre pronta ad apparire per apparire, non si
concede quasi mai alla stampa, lo lascia fare ai suoi vanitosi colleghi maschi:
incarna la purezza assoluta, la giustizia-donna, capace di attaccare e distruggere
gli uomini. Una donna che dice: l’uomo sono io. E l’uomo non esiste. Ilda è
come l’agave dal fiore rosso che s’aggrappa anche alla roccia con le sue
tenacissime radici e sopporta anche meno di zero gradi centigradi. Frena la
caduta di un masso e spesso si protende oltre esso, al punto da sembrare sospesa
nel vuoto. Sembra di plastica, ma profuma intensamente”. “Mamma mia, che
immagine!” pensai. Però il paragone con l’agave mi piacque, lo trovai veritiero,
pensai che davvero mi somigliasse. E da quel momento non ho più associato la
pianta al malocchio.
All’inizio, come spesso accade, i fili dell’inchiesta apparivano intrecciati in
modo confuso, come sul retro di un ricamo. Ogni filo sembrava condurre in una
direzione diversa, senza che si intravedesse alcun disegno o trama. Ogni
magistrato in odore di corruzione sembrava operare per proprio conto e in nome
del profitto personale. Ogni industriale che pagava si dava da fare senza sosta
per ridimensionare e attutire i possibili colpi giudiziari; ogni mediatore di affari
(come Acampora) sembrava mettersi a disposizione per indicare vie e modalità
più adatte a far viaggiare, nascondere e far sparire i fondi neri.
Ma date le evidenze delle indagini milanesi che avevano al centro anche
magistrati romani, confrontate con le tranche delle inchieste condotte da altri
uffici – come quella di La Spezia dopo l’arresto del banchiere italo-svizzero
Pierfrancesco Pacini Battaglia, o quella incardinata a Perugia –, lo scenario che
si andava delineando era quello di una vera e propria associazione di magistrati
finalizzata alla corruzione.
Altro che Roma porto delle nebbie! Nel palazzo di giustizia della Capitale
operava una consorteria togata disponibile alla corruzione, in grado di truccare le
carte e di garantire esiti giudiziari e impunità o, alla peggio, di trascinare i
processi per tempi lunghissimi fino ad assicurare la prescrizione. Figure di
professionisti come Previti e tributaristi alla Pacifico erano addetti a gestire le
provviste in nero realizzate dagli imprenditori per alimentare la corruzione.
Purtroppo, pur avendo ricevuto una montagna di documenti importanti – e
chissà, magari decisivi –, la procura di Perugia partorì un topolino, nel senso che
moltissime vicende rimasero senza autori.
A distanza di anni, nonostante la gestione di Giuseppe Pignatone, capo
dell’ufficio dal 2012 al maggio 2019, abbia contribuito a diradarne la nebbia,
quella di Roma rimane una procura al cui interno si annidano specie velenose,
come credo porterà a dimostrare l’indagine sul sostituto Luca Palamara e le sue
relazioni pericolose con colleghi, sodali di corrente, uomini politici. Già,
Palamara... Radiato dalla magistratura e in attesa del processo a Perugia,
Palamara è stato abile nel tentativo di ribaltare a proprio vantaggio la sua caduta.
Sostenuto da una stampa a lui favorevole, la stessa stampa sempre pronta a
denigrare magistrati come me, con il suo libro-intervista e con le apparizioni
quotidiane in ogni trasmissione tv, ossessivamente dedicate al tema “giustizia”,
l’ex collega si offre al pubblico come vittima sacrificale, come colui che avrebbe
avuto il coraggio di svelare i mali della magistratura. Peccato che si devono
proprio a personaggi come lui la deriva amorale e lo svilimento del concetto
stesso di autonomia e indipendenza. Non mi sono stupita, quindi, quando ho
letto della sua candidatura al Parlamento. Senza vergogna, nel suo simbolo ha
messo l’immagine della giustizia.
Quanto alla recente vicenda che, a partire proprio dal cellulare rovente di
Palamara, ha terremotato il Consiglio superiore della magistratura, il dato
sconfortante che emerge, oggi ancora più che in passato, è la ricerca spasmodica
di fette di potere da parte di troppi magistrati, la svendita della propria funzione
per pochi spiccioli, un regalo, un favore, una poltrona per sé, una spintarella per
un parente. Purtroppo – constatazione per me doppiamente dolorosa – siamo
costretti a rilevare che da simili mercimoni non sono esenti le donne. Addirittura
alcune di loro, iscritte al corso di preparazione al concorso in magistratura del
consigliere di Stato Francesco Bellomo, si sono piegate all’imposizione di
comportamenti e condizioni assurdi, come calzare scarpe con tacchi a spillo e
minigonne, o ad assecondare le richieste sessuali del “maestro”.
Anche se sono convinta che questa tipologia di colleghi sia una minoranza,
devo riconoscere che le loro gesta fanno la differenza, perché le loro azioni
vanno a segno, riescono ad assicurare loro posti di responsabilità e di comando,
fino a sedere in Consiglio superiore, dove si gioca il destino di ogni singolo
magistrato, dal più anziano presidente all’ultimo uditore. I contatti e i dialoghi
captati tra Palamara e colleghi, politici, faccendieri, uomini delle istituzioni
hanno evidenziato quello che, tuttavia, si sapeva da tempo: l’esistenza di
qualcosa che somiglia molto a un mercato delle vacche, che travolge ogni valido
e sensato criterio per la scelta dei capi degli uffici. Uffici importanti o sedi
minori, non importa, perché ciascuno di questi potrebbe essere chiamato a
gestire inchieste delicatissime come, solo per fare un esempio, quelle su realtà
industriali strategiche come l’Ilva di Taranto, l’Eternit di Casale Monferrato o i
siti petrolchimici siciliani.
Lo stesso Palamara ha ricoperto ruoli di rilievo all’interno della magistratura:
per anni sostituto alla procura di Roma, leader di spicco della corrente Unità per
la Costituzione, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, infine
membro del Consiglio superiore della magistratura. Un curriculum che dimostra
– ancora una volta – come per fare carriera sia più conveniente dedicarsi
all’associazionismo piuttosto che macinare fascicoli o sgobbare nei collegi
giudicanti.
Non dimentichiamo che, mentre Palamara sedeva in Consiglio superiore, sono
stati nominati diversi capi di procure importanti – Milano compresa – dopo la
riforma che ha abbassato la soglia del pensionamento a settant’anni. La
spartizione delle cariche direttive e semidirettive – per dirla meglio, la
lottizzazione –, frutto dell’appartenenza a una o all’altra corrente con l’appoggio
dato a questo o all’altro candidato, ha di fatto tolto importanza alle reali capacità
e al merito, finendo per favorire in un gioco a incastro i magistrati più attivi
nell’associazione, i meno impermeabili al richiamo del potere, i più governabili,
quelli maggiormente predisposti a partecipare ai maneggi della politica.
E anche se ci sono casi in cui la scelta ha finito per coincidere con la
preparazione e la competenza del candidato, nulla è accaduto in questi anni per
cancellare il peccato originale della ricerca del consenso delle correnti, tanto che
la stragrande maggioranza dei concorrenti continua, a ogni tornata di nomine, a
cercare l’appoggio, la raccomandazione, il contatto, la sponda di uomini dei
partiti o delle istituzioni, disponibili a dare una mano.
Chi siede al Csm – in non pochi casi colleghi dal profilo personale e
professionale limitato sui quali, però, le correnti hanno deciso di concentrare i
voti – sembra sentirsi investito di un potere pressoché divino, forse perché deve
quel posto all’assenso di personaggi potenti, mentre viene punito chi non si
prostra, chi non accetta di sponsorizzare se stesso come si fa con una batteria di
pentole. In un degradante ma ormai generalizzato rovesciamento di senso, il
fatto di non inseguire una raccomandazione viene percepito come disinteresse
verso la propria candidatura: “Ma tu non ti sei fatto avanti, pensavo che in fondo
quel posto non ti interessasse”. La lezione è dunque sempre la stessa: per vincere
devi piegarti, metterti in mostra, promettere, assicurarti appoggi nella tua
categoria, come nei gironi della politica e della burocrazia.
Il “sistema” delle correnti ha mietuto una vittima illustre, Giovanni Falcone,
che ha inanellato una delle più umilianti catene di bocciature: a capo dell’Ufficio
istruzione di Palermo al posto di Antonino Caponnetto, come candidato al
Consiglio superiore della magistratura e sarebbe andata nello stesso modo anche
per la Direzione nazionale antimafia, da lui ideata, se nel frattempo non fosse
stato ucciso. Del resto, se Falcone non fosse stato così autenticamente
indipendente da ogni altro potere, non sarebbe stato necessario assassinarlo. Mai
Giovanni ha potuto sentire intorno a sé empatia, solidarietà, rispetto per il suo
lavoro e la sua persona. Non gli è toccato altro se non l’assedio della gelosia, la
morsa del rancore, le false vicinanze interessate, l’avversione della politica. La
magistratura nel suo complesso lo ha accerchiato come fosse un avversario
pericoloso. Un’incomprensione dolorosa, quanto lo erano l’evidente livore di
alcuni nei suoi confronti e l’accanimento di altri nel giudicarlo senza vergogna
“dipendente dal potere politico”.
Nessun onesto servitore dello Stato – e Giovanni è stato senza dubbio uno dei
migliori – meriterebbe un simile trattamento e un analogo destino. Eppure, a
parte le sterili commemorazioni e le parole di circostanza, ancora oggi la
magistratura vive Falcone come un personaggio ingombrante. Sarebbe l’ora di
ammettere finalmente gli sbagli, di definire come tali le maldicenze ingiustificate
nei suoi confronti, quanto meno da parte di chi ormai non è più in servizio:
sarebbe un segnale importante verso le generazioni di magistrati che non hanno
vissuto quel periodo.
Difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è una battaglia
persa. Lo sforzo collettivo e risolutivo per il futuro della giustizia è quello di
cancellare al nostro interno ogni forma di gestione del potere alla maniera di
Palamara. Sarebbe questo il solo modo per uscire dalle tenebre in cui la
magistratura è sprofondata.
Anche se non lasciano ben sperare le recentissime vicende che hanno
coinvolto il Consiglio superiore, a seguito delle quali si sono dimessi cinque
membri, rendendo necessarie elezioni suppletive: anche in quel frangente sono
riaffiorati i soliti giochi tra le correnti. La protervia e l’arroganza che albergano a
palazzo dei Marescialli non sembrano aver risentito né prima né dopo delle
indagini penali che hanno disvelato le trame intorno alla scelta di alcuni capi
degli uffici giudiziari più importanti del Paese.
Non mi risulta che un Palamara o qualche altro personaggio coinvolto nello
scandalo sia stato oggetto di ostracismo, di lapidazioni morali, né bersaglio di
violente interpellanze parlamentari come ha dovuto sopportare Falcone. E anche
io, nel mio piccolo: oltretutto per il solo motivo di aver svolto con scrupolo il
proprio lavoro. I media, in primo luogo quelli controllati da Berlusconi, mi
hanno tenuto per anni costantemente sotto osservazione e si sono esercitati a
lungo in una campagna denigratoria, pronti ad assalirmi per un semplice
sbadiglio. Fino all’accusa, infamante per chi opera in nome dello Stato, di aver
falsificato prove a carico degli inquisiti, di averle in alcuni casi manipolate,
addirittura di aver fatto sparire elementi probatori che avrebbero potuto
scagionare gli indagati. Il tutto accompagnato da sollecitazioni perché il
ministero ordinasse ispezioni sull’ufficio, l’avvio di azioni disciplinari, la
richiesta reiterata di sospensione dalle funzioni.
17.
La battaglia era cominciata

In questo teatro incandescente recitò una parte anche Tiziana Parenti, una pm
entrata in rotta di collisione con i colleghi di Mani pulite, con il coordinatore
Gerardo D’Ambrosio e pure con Borrelli. La collega, che seguiva il filone del
finanziamento illecito al Partito comunista, accusava i componenti del pool di
non voler indagare a fondo sui partiti della sinistra e lamentava che le era
impedito di procedere come avrebbe voluto.
Con la nascita di Forza Italia, Parenti si era schierata ben presto con Silvio
Berlusconi e subito candidata ed eletta nel 1994, con replica nel 1996. Pur
restando fuori dal governo, le fu comunque affidato un ruolo di rilievo e di
valenza strategica, dati i personaggi al potere in quegli anni: la presidenza della
Commissione antimafia. Da quella posizione, molto seguita dai media, Tiziana
Parenti non perdeva occasione per attaccare i colleghi milanesi, cosicché anch’io
entrai nella rosa dei suoi bersagli preferiti, specie dopo che erano diventate di
dominio pubblico le indagini sui magistrati, le collusioni tra Previti e Berlusconi,
le gravissime accuse di corruzione in atti giudiziari.
Per meglio comprendere le ragioni del fuoco ad alzo zero di cui fui vittima in
quel contesto, è necessario raccontare di Michele Riccio, un ufficiale dei
carabinieri, e della sua squadra.
Prima di ottenere il trasferimento al tribunale di Milano, Tiziana Parenti era
pubblico ministero a Savona. Nella città ligure, un reparto di élite dell’Arma dei
carabinieri era stato trasformato in una centrale che investigava usando strumenti
e metodi – diciamo – borderline quando non illeciti, cioè distribuendo cocaina,
con la collaborazione di confidenti che istigavano a commettere reati e per
questo erano protetti nei loro traffici.
Le indagini sulle attività svolte dalla squadra di Riccio appurarono che i suoi
componenti falsificavano le relazioni di servizio, incastravano i sospettati (per
esempio fingendo ritrovamenti di droga nelle loro auto dopo avercela nascosta),
avevano fatto evadere narcotrafficanti, manipolavano le fonti di prove esibite a
pubblici ministeri inconsapevoli, tra cui Tiziana Parenti. In poche parole, una
caserma dei carabinieri era stata trasformata in una centrale di spaccio di droga
ad alto livello e con una copertura di grande efficacia.
Alcuni carabinieri (non Riccio) si stavano arricchendo a milioni, ad altri
interessava guadagnare prestigio, notorietà, gradi e riuscivano a farlo giocando
sporco. Come poi accertato in giudizio, tutti truccavano sistematicamente i corpi
di reato per coprire le irregolarità, anche amministrative, del reparto.
L’indagine su Riccio e la sua squadra era nata per caso. Due narcotrafficanti
appena arrestati avevano vuotato il sacco e accusato un terzo; quest’ultimo aveva
ammesso che la droga gli veniva fornita da un maresciallo dei carabinieri, che a
sua volta la sottraeva dai carichi di cocaina sequestrati dall’Arma. Questa
combinazione di eventi era stata alla base di un’inchiesta che aveva
dell’inquietante e, allo stesso tempo, aveva segnato la fine del colonnello Riccio
e della sua squadra, più volte e da più parti definita “mitica” per i risultati che
millantava. L’ufficiale dei carabinieri, intanto, aveva percepito che per lui l’aria
si stava facendo pesante e che prima o poi la tempesta lo avrebbe investito. Così,
nella certezza di essere controllato e che le sue conversazioni fossero
intercettate, aveva messo in atto la sua strategia, esercitando pressioni su
testimoni e indottrinando tutti quelli che supportavano le tesi dei pubblici
ministeri. Soprattutto aveva “imbavagliato” il testimone-principe, Angelo
Veronese, che era stato – tra l’altro – indotto a verbalizzare un fatto del tutto
fantasioso che, però, riguardava proprio me: Veronese dichiarò falsamente di
avermi incontrata un certo giorno in un corridoio del settimo piano del tribunale
di Milano e che, in quell’occasione, gli avrei offerto la somma di 500 milioni di
lire per incastrare in qualche modo Tiziana Parenti. Nel corso di successivi
interrogatori, il personaggio non si risparmiò e aggiunse dettagli a dettagli,
compreso il colore del tailleur che avrei indossato in occasione di quel presunto
incontro: un abito grigio con il collo di pelliccia.
Quando le dichiarazioni e quindi le circostanze riferite da Veronese divennero
note, l’ex collega Parenti, ormai senatrice di Forza Italia, si lanciò in una
scomposta campagna contro di me, chiedendo senza mezzi termini alla procura
di Brescia che venissi sospesa dall’esercizio del pubblico ufficio per impedire la
reiterazione del reato e l’inquinamento delle prove! Parenti non perdeva
occasione per rilasciare nei miei confronti dichiarazioni di fuoco. Da questo suo
accanimento ebbe poi inizio un’ennesima ondata di disinformazione, un vero e
proprio accerchiamento che aveva lo scopo di isolarmi e di sporcare la mia
immagine di persona e di magistrato.
Di fatto, la battaglia era cominciata. La si respirava nell’aria, se ne udivano i
clangori, i movimenti delle truppe che rumoreggiavano dislocandosi sul campo.
Naturalmente per chi avesse orecchie per sentire. E io li sentivo con estrema
chiarezza.
Tra le forze impegnate, anche i parlamentari di Forza Italia, che sferrarono
l’attacco con due interpellanze. Una prima, presentata da Enrico La Loggia il 2
luglio 1997 e firmata da quaranta deputati; la seconda, depositata il 3 luglio da
Filippo Mancuso, sottoscritta da quaranta senatori. Mancuso, magistrato, due
anni prima era stato nominato ministro della Giustizia nel governo Dini e ne
aveva approfittato per ordinare ripetute ispezioni alla procura di Milano con
particolare accanimento per il pool che indagava su Tangentopoli.
In entrambe le interpellanze si leggevano le stesse rimostranze: “Esponenti di
rilievo di Forza Italia sono oggetto di particolari attenzioni da parte del pool di
Mani pulite e non è più tollerabile la totale immunità di cui pare godere la
dottoressa Boccassini, la quale sembra legittimata a operare senza alcun rispetto
delle regole processuali e delle leggi della Repubblica”. Con queste premesse
che non lasciavano spazio a dubbi su chi fosse il bersaglio da abbattere, si
chiedeva “di sapere quali iniziative il ministro in indirizzo intenda intraprendere
ai fatti citati; se una tale ‘manovra’ (la somma di mezzo miliardo di lire destinata
a Veronese) non debba portare all’immediata azione disciplinare nei confronti
della stessa e alla sospensione dal servizio”.
Le accuse di Veronese rasentavano il ridicolo, anche perché prive di una vera
logica: mezzo miliardo per “incastrare” la Parenti! E perché mai? Quale pericolo
poteva rappresentare per le mie indagini una collega che era passata nelle file di
Silvio Berlusconi, con la quale non avevo mai lavorato negli anni dei contrasti
con il pool di Mani pulite quando, peraltro, io ero in trincea in Sicilia? Insomma,
la falsità della testimonianza era palese, ma a qualcuno il piatto appariva ricco.
La conseguenza di questo marasma fu che finii sotto processo per le
dichiarazioni di Veronese e stavolta i colleghi chiesero l’archiviazione
rapidamente ma, per preparare la mia difesa e per rispondere con argomentazioni
documentate alle richieste del ministro (che a sua volta avrebbe dovuto riferire in
Parlamento sui contenuti delle due interpellanze), spesi tempo prezioso
sottraendolo alle indagini e alla mia vita privata.
Se anche in questa vicenda vogliamo considerare i risvolti più paradossali e
persino comici, dobbiamo riferirci al famoso tailleur grigio con il collo di
pelliccia che – stando a Veronese – indossavo nel famoso incontro del settimo
piano. Il settimanale “Panorama” dedicò ben due pagine a fotografie dei miei
capi di abbigliamento, collazionando immagini prese qua e là in luoghi e tempi
diversi. A mio parere, un modo ridicolo di fare informazione, anche se per
qualche istante mi fece sorridere. Naturalmente, non possedevo né avevo mai
posseduto un tailleur di quel colore e un collo di pelliccia. L’unico capo che
poteva vagamente somigliare a quella descrizione era di tweed con risvolti di
velluto marrone che compariva in diverse fotografie. Chissà: forse imbeccato
sommariamente o con informazioni errate, Veronese poteva riferirsi proprio a
quello.
Nonostante i bastoni gettati tra le ruote dell’inchiesta, in quei mesi le indagini
continuavano a progredire, soprattutto grazie all’analisi dei conti esteri, e così fu
possibile portare alla luce due società svizzere facenti capo a Cesare Previti.
L’individuazione di altre fonti di probabili fondi neri indusse l’allora avvocato
romano (dal 2011 è stato radiato dall’Ordine) nonché strettissimo sodale di
Silvio Berlusconi a prendere carta e penna e a scrivere a Borrelli, chiedendo
ufficialmente la mia testa.
La lettera di Previti era datata 14 luglio, lo stesso giorno in cui un’ennesima
iniziativa venne sottoscritta da quaranta parlamentari di Forza Italia, stavolta
capeggiati da Giuseppe Pisanu. Il tono dell’esposto era formalmente cortese, ma
durissima la sostanza. “Ilda Boccassini,” vi si poteva leggere, “mi perseguita per
motivi di grave inimicizia.” L’episodio che il deputato sottoponeva
all’attenzione di Borrelli chiamava in causa anche il procuratore federale
svizzero Carla Del Ponte, che aveva interrogato l’amministratore delle due
società elvetiche nella disponibilità di Previti. All’esposto era allegata anche
un’altra lettera, firmata dal professionista elvetico e sollecitata dall’avvocatessa
Grazia Volo, in quel periodo difensore del parlamentare. L’amministratore
lamentava di aver subito pressioni, sottolineando quanto il mio atteggiamento di
grave pregiudizio nei confronti di Previti e il modo “imperioso” in cui le
domande gli venivano rivolte lo avessero gettato in confusione al punto da
indurlo a trasmettere all’autorità giudiziaria italiana i documenti sulle due
società.
La replica del procuratore generale Del Ponte fu immediata e né il teste né
l’avvocatessa Volo rimediarono una gran figura. “Se spontaneamente, come in
questo caso, vengono consegnati degli atti,” scrisse il procuratore, “non è
richiesta né necessaria la presenza di avvocati difensori. Ho già presentato in
proposito una memoria al tribunale confederale.”
Anche questo polverone si dissolse senza apparenti conseguenze, ma la verità
è che intanto era stato aperto un nuovo fronte, e anche particolarmente delicato,
perché coinvolgeva Carla Del Ponte, l’autorità di un Paese straniero dalla quale
dipendeva l’inoltro a Milano della documentazione sui conti correnti cifrati
svizzeri.
Negli ultimi mesi del 1997, i rapporti tra la politica e la magistratura milanese
divennero a dir poco incandescenti, dopo l’invio al Parlamento della richiesta di
autorizzazione a procedere all’arresto del deputato Previti, gravemente indiziato
di corruzione in atti giudiziari, ovvero di aver pagato giudici e truccato sentenze.
Previti non perdeva occasione per rilasciare dichiarazioni o comparire in
televisione indossando la maschera del perseguitato politico. Alle accuse di aver
alimentato a suon di centinaia di milioni i conti esteri clandestini del giudice
Squillante, Previti ripeteva ossessivamente: “Posso smentire con assoluta
fermezza che quei versamenti siano esistenti”.
Peccato che pochi anni prima (il 6 marzo 1991) sul conto “Rowena” della Sbt
di Bellinzona, intestato al magistrato romano, fossero stati accreditati 434.404
dollari dal conto “Mercier” nella disponibilità dello stesso Previti. Affermazioni
altrettanto sfacciate e risultate contraddittorie riguardarono i suoi rapporti con
Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere italo-svizzero della Karfinco che,
però, aveva intanto confermato (e documentato) l’invio a Previti di 400 milioni.
Sul momento, quest’ultimo smentì l’esistenza di qualsiasi rapporto con
chiunque. Poi, a fronte delle prove da noi acquisite, si fece più prudente e
cambiò tattica, affermando che “con Pacini parlavo solo di problemi di salute” e
che effettivamente con il giudice Squillante si vedeva qualche volta, ma solo
perché “con lui giocavo a calcetto”.
Secondo il nostro Codice, ogni imputato ha il diritto di tacere o di mentire per
difendersi dalle accuse. Ma, a mio modo di vedere, quando l’imputato è un
parlamentare che non si avvalga del diritto di tacere non può abbassarsi a
mentire. L’immunità che protegge gli eletti in Parlamento dovrebbe essere
compensata da una trasparente lealtà nei confronti dei cittadini e delle istituzioni.
Un membro del Parlamento sul quale gravi una mole di prove pesante come un
macigno (alle richieste di arresto di Previti erano allegati oltre mille documenti)
dovrebbe sentirsi in dovere di fornire spiegazioni sul giro di miliardi di cui è al
centro, e non cavarsela con un disinvolto: “Sapete, sono ricco di mio”, prima di
scagliarsi contro l’ufficio giudiziario che lo sta indagando, per di più arringando
sui media e persino davanti alle commissioni parlamentari. La concione cui si
era abbandonato Previti dinanzi a deputati silenziosi (o impotenti, o
imbavagliati) era quanto meno offensiva per il Parlamento dato che, peraltro, il
senatore era già reo confesso di evasione fiscale, per aver incassato oltre 21
miliardi di lire dagli eredi Rovelli, sul conto 136183 della Sbs di Ginevra.
Ovviamente, pur mordendoci la lingua, tutti noi della procura ci attenemmo a
un rigido silenzio, mentre la maggioranza dei parlamentari straparlava di un
ennesimo attacco alla politica da parte dei pm milanesi. Questa scelta – doverosa
– comportava però l’impossibilità di ribattere alle accuse ingiustificate che
venivano vomitate addosso all’ufficio, e a me in particolare, perché era toccato a
me raccogliere le dichiarazioni dell’Ariosto e sviluppare poi le indagini.
Bene faceva il Parlamento a proteggere un suo membro, in attesa di valutare le
prove di inquinamento delle indagini che avevamo fornito e che a nostro avviso
ne giustificavano la carcerazione. Ma non considero altrettanto legittimo che,
approfittando della sua immunità e delle dirette tv, Previti gettasse discredito su
chi lo accusava, abbandonandosi, nelle aule di Montecitorio, a insulti contro i
testimoni, senza che nessuno degli altri onorevoli gridasse allo scandalo.
Non era rispettoso verso il Parlamento che l’avvocato avesse coinvolto
quaranta deputati del suo movimento per chiedere la mia testa, con
un’interrogazione al governo. Ed erano quanto meno inopportune le
dichiarazioni di alcuni parlamentari, tra cui Marco Boato, che prima di leggere
un solo foglio della richiesta di arresto si era precipitato a parlare di “ipotesi
preoccupante di giustizia a orologeria”. Era dignitosa quell’istituzione che si era
lasciata umiliare dall’arroganza di Previti?
A me, come a tutti gli altri, trattenersi dal reagire richiedeva un grosso
sacrificio. La pressione mediatica era fortissima ed era come navigare nel mare
in tempesta senza alcuna possibilità di chiedere aiuto. Man mano che le acque
diventavano più cupe e minacciose, aumentava il senso di smarrimento, anche se
ci era chiaro il compito, che era anche l’unica via di salvezza per non perdere
tutto il lavoro svolto: evitare che la barca si rovesciasse prima di giungere in
porto. Per fortuna c’era Saverio a fare da scudo, a proteggermi dagli attacchi
ogni giorno più violenti e personalizzati.
Una boccata di ossigeno arrivò dalla Corte di cassazione, quando respinse tutti
i ricorsi presentati dagli imputati, riconoscendo la piena competenza della
procura di Milano (la difesa voleva spostare altrove il processo), oltre alla
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e di straordinarie esigenze cautelari.
Le reazioni degli avvocati a questa decisione furono scomposte. Una per tutte,
quella di Gaetano Pecorella, all’epoca difensore di Renato Squillante: “È una
decisione politica,” arrivò a dichiarare, “la Cassazione ha dovuto tutelare
l’immagine del pool per proporre quella di una magistratura che non sbaglia
mai”. Pecorella, oggi ultraottantenne, era professore universitario, membro di
spicco del collegio difensivo di parte civile nei processi sulla strage di piazza
Fontana, un avvocato molto stimato negli ambienti milanesi, che parve fulminato
sulla via di Damasco, invertendo di 180 gradi la sua comprovata rotta culturale e
ideologica (negli anni settanta aveva difeso vari militanti del movimento
studentesco), diventando, tra i difensori dei processi contro i magistrati e Silvio
Berlusconi, uno dei più accaniti accusatori di noi pubblici ministeri. Tanto che,
seguendo un copione già visto, dopo aver difeso Renato Squillante e Silvio
Berlusconi, anche il professor Pecorella verrà candidato con Forza Italia e
siederà in Parlamento in compagnia degli altri avvocati del presidente del
Consiglio, Niccolò Ghedini e Piero Longo.
Non intendo mettere in discussione il diritto, tutelato dalla Costituzione, di
assumere la difesa di un cittadino, chiunque esso sia e qualunque sia il reato
contestato. Anzi, trovo persino naturale che il difensore arrivi a essere fazioso,
nell’intento di favorire il proprio assistito.
In quei processi gli avvocati di Previti, di Berlusconi e dei magistrati sono
spesso ricorsi all’aggressione verbale e incutevano timore per la virulenza degli
attacchi che a volte toccavano apici di autentica sguaiatezza, nella forma e nel
linguaggio.
Non deve sfuggire che il doppio ruolo di avvocati e parlamentari ha permesso
loro di elaborare e poi votare leggi ad personam, dove la “persona” era
immancabilmente il presidente del Consiglio, giocando d’anticipo sulle questioni
procedurali che sarebbero state di lì a poco affrontate nei dibattimenti. Quel
periodo, disastroso per uno Stato di diritto, non dovrà essere dimenticato – anzi
andrà studiato a fondo – proprio per la quantità di modifiche legislative apportate
in corso di causa, con l’obiettivo di torcere le regole del processo e così tentare
di vincere (a volte riuscendoci). Una poderosa macchina da guerra che, lo
confesso, ogni tanto riusciva a togliermi il respiro e la speranza di farcela.
Accanto a questo gioco di rimbalzo tra aule parlamentari e aule di giustizia,
non mancarono i tentativi di delegittimazione. Una di queste manovre depistanti
merita di essere raccontata più in dettaglio.
Ancora una volta, l’obiettivo era Stefania Ariosto (una teste che molto
impensieriva gli imputati) e, di riflesso, noi pubblici ministeri incaricati delle
verifiche sulle sue dichiarazioni. La teste veniva subissata di critiche quotidiane
da parte di opinionisti, parlamentari, media. Attacchi impietosi, di inaudita
crudeltà.
Domenico Contestabile, un passato di socialista, avvocato e parlamentare di
Forza Italia, si abbassò ad affermare che Stefania Ariosto si era inventata di aver
perso due figli a causa di una terribile malattia genetica. Ma se lo era inventata?
Purtroppo no. Era proprio la verità: fu lei stessa a mostrarmi le foto dei figli
perduti, bellissimi. A vederli mi si strinse il cuore.
Ma il più articolato tentativo di delegittimazione della teste si sviluppò in tre
tappe, nel 1996. La presentazione spontanea di tal Vittore Pascucci, ex agente
dei servizi segreti coinvolto nelle stragi degli anni ottanta, tra cui l’esplosione
alla stazione di Bologna; l’improvviso palesarsi di una “supertestimone” da lui
indicata e la pubblicazione sul quotidiano “Avanti!” di un falso dossier,
anticipato da dichiarazioni di Cesare Previti.
Andiamo per ordine. L’avvocato Vittore Pascucci, noto alle cronache
giudiziarie per i suoi rapporti con il mondo del crimine organizzato, era in
contatto con alcuni protagonisti della storia opaca del nostro Paese, tra cui Flavio
Carboni e Francesco Pazienza, entrambi iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli e
implicati nelle stragi che hanno destabilizzato il Paese. Pascucci, indagato a
Perugia nell’ambito delle inchieste che coinvolgevano i giudici romani, accusò
Stefania Ariosto di ogni genere di nefandezza indicandola addirittura come
un’agente dell’intelligence. Pascucci segnalò anche tale Yurika Rotschild come
persona che avrebbe potuto confermare le sue dichiarazioni.
Già, Yurika Rotschild... Non fu un’impresa da poco mettersi in contatto con la
“superteste” dal nome esotico, che risultava residente in un paesino vicino a
Roma, ma la cui vita appariva avvolta dal mistero. Venne comunque rintracciata
e convocata alla procura di Perugia, dove avevamo deciso di sentirla in un atto
istruttorio congiunto tra i due uffici. Nel giorno fissato, eravamo presenti io,
Gherardo Colombo, i colleghi di Perugia Fausto Cardella e Michele Renzo,
nonché Alessandro Pansa.
Yurika Rotschild si presentò accompagnata da due marcantoni, a suo dire le
sue guardie del corpo. Stivaletti di pelle bianchi con tacco 12 a stiletto, pantaloni
bianchi che definire attillati non sarebbe sufficiente a rendere l’effetto aderenza,
giacca anch’essa bianca con spalle e maniche ornate da lunghe frange alla
Buffalo Bill, occhialoni neri, chioma ossigenata. E anche se nessuno tra i
presenti si sarebbe lasciato pregiudizialmente influenzare dalla stravaganza di un
abito, a tutti noi parve un tantino stonato scegliere di acconciarsi in quel modo
per incontrare dei magistrati in un tribunale.
Si iniziò dalle formalità di rito: nome, cognome, indirizzo, titolo di studio ecc.
La signora dichiarò serenamente di chiamarsi Yurika Rotschild, nata ad
Avellino, il che suonava un po’ strano. Le venne chiesto di mostrare un
documento, che procurò la prima di diverse sorprese: sulla carta d’identità
compariva il nome più campano di Immacolata Gargiulo, di cui chiedemmo
conto. Perché aveva detto di chiamarsi Yurika, fornendo di fatto generalità false?
Come teste, ritenemmo opportuno chiarirle, era tenuta a dire sempre la verità.
Anche sui suoi dati anagrafici. Candidamente, Immacolata ribatté che Yurika
Rotschild era il suo nome d’arte, aggiungendo che – seconda ondata di sorpresa
generale – lavorando come consulente per la procura di Roma aveva sempre
firmato i documenti come Yurika Rotschild.
A quel punto tutti drizzammo le antenne, per capire davanti a quale fenomeno
ci trovassimo. Superato l’iniziale sbigottimento, chiedemmo ulteriori
spiegazioni. La signora Gargiulo da Avellino prese a raccontare di essere vissuta
con la famiglia in Giappone dove, buon per lei, aveva imparato le arti marziali e
soprattutto le tecniche necessarie a capire la “mentalità” delle persone. Grazie a
questa sua particolare abilità, lavorava come interprete con un gruppo di
carabinieri, in virtù dell’incarico conferitole da un pubblico ministero romano
nelle indagini su alcuni stranieri sospettati di traffico di droga. A suo dire, la
polizia giudiziaria le faceva ascoltare le telefonate tra gli indagati e lei intuiva la
“mentalità” dei personaggi sotto controllo. E no, non conosceva lingue straniere,
inglese o giapponese che fosse, ma ciononostante era capace di scandagliare la
“psiche” dei soggetti intercettati. Infine, precisò, il pm con cui collaborava aveva
sempre regolarmente liquidato le sue consulenze, tutte firmate Yurika Rotschild.
In effetti, fu la conclusione di questo mirabolante excursus, nessuno le aveva mai
chiesto di esibire un documento d’identità, perciò riteneva che tutto fosse
regolare.
A turno ci dovemmo allontanare dalla stanza in cui avveniva la deposizione
per timore di non riuscire a trattenere le risa, anche se lo scenario che avevamo
davanti, oltre che esilarante, era decisamente drammatico. Ancora una volta
veniva coinvolta la procura di Roma, che avremmo perciò dovuto interpellare
per verificare le dichiarazioni della teste e acquisire la documentazione
necessaria.
Per quanto di nostro interesse, nelle sue farneticazioni Immacolata Gargiulo
disse anche di conoscere Stefania Ariosto e di sapere che lavorava per i servizi
segreti. Quando la testimone avellinese dal nome d’arte esotico fu congedata,
rimanemmo per un po’ senza parole, ci guardammo attoniti e scoppiammo a
ridere.
Svelata la vera identità della “superteste”, non fu difficile ricostruire la sua vita
professionale. Ex ballerina, ex attrice, ex pornostar e via cantando, Immacolata
Gargiulo si era prestata alla sceneggiata, senza dubbio a caccia di notorietà.
Infatti la sua faccia comparve su vari giornaletti scandalistici e addirittura, nel
maggio 1996, fu ospite del talk show di Michele Santoro Tempo reale, che le
dedicò quasi un’intera puntata, alternando sullo schermo immagini della
Gargiulo e di Stefania Ariosto. Ignoro quale fosse lo scopo del conduttore:
screditare la “supertestimone”? Minare la credibilità dell’Ariosto? Forse, più
banalmente, una questione di audience? Di certo, quella fu una brutta pagina di
televisione.
Terza fase dell’azione manipolatoria: la pubblicazione sul quotidiano
“Avanti!” di un dossier attribuito alla Criminalpol (all’epoca organo
investigativo della polizia) nel quale, di nuovo, Stefania Ariosto veniva indicata
come agente dei servizi. L’uscita del documento coincise con la scadenza del
pronunciamento della Giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere e
permise a Previti di gridare di nuovo al complotto. Fortunatamente, stavolta la
procura romana si mosse, perquisì la sede dell’“Avanti!”, accertando che il testo
pubblicato era diverso dal rapporto della Criminalpol datato 30 aprile 1988.
L’unica verità uscita dalla bocca della “superteste” in total look bianco e
guardie del corpo, purtroppo, fu il rapporto effettivamente esistito con un pm
romano, che l’aveva davvero utilizzata per una consulenza, l’aveva pagata e,
incredibilmente, aveva lasciato che firmasse Yurika Rotschild senza alcuna
verifica. In sostanza, fu carpita la buona fede dell’ingenuo collega, che si era
fidato della persona propostagli da un ufficiale dei carabinieri. Lo stesso ufficiale
che, nel prosieguo delle indagini sul depistaggio, fu indagato per
favoreggiamento e risultò in contatto con Cesare Previti.
Le azioni giudiziarie ed extragiudiziarie nei nostri confronti si moltiplicavano
in concomitanza dell’inizio dell’udienza preliminare che, tra i “legittimi
impedimenti” frapposti dall’accusato e le lungaggini dovute a questioni
procedurali artatamente gonfiate o addirittura inesistenti, durò quasi due anni.
Per una seconda volta Previti tentò la carta della mia esclusione dalle indagini
“toghe sporche”, riproponendo la motivazione della “palese e manifesta
inimicizia” nei suoi confronti. Analoga richiesta venne formulata dagli avvocati
di Renato Squillante e di Silvio Berlusconi, che arrivarono a pretendere
l’estromissione di tutti i componenti del pool (Borrelli, Davigo, Colombo),
eccezion fatta per D’Ambrosio, senza tuttavia spiegare le ragioni per cui Gerardo
era stato risparmiato.
Lo schema del ricorso di Berlusconi non era molto diverso dalla denuncia a
suo tempo presentata alla procura di Brescia contro di noi per “attentato agli
organi costituzionali e attentato contro i diritti politici del cittadino”. Un delitto
gravissimo contro la personalità dello Stato, dunque di competenza della Corte
d’assise.
Ma contro quali diritti politici e di quali cittadini avevamo tramato? Del
cittadino Squillante, un giudice che aveva accumulato ricchezze incompatibili
con il suo reddito, aprendo tra l’altro un conto all’estero, violando la legge e
aggirando il fisco? Di Cesare Previti, che quando era stato nominato ministro
della Difesa, nel giugno 1994, aveva intascato un pacco di miliardi tre giorni
prima di giurare fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione? Un evasore fiscale
per sua stessa ammissione, a voler tacer d’altro? O forse di Silvio Berlusconi
che, tramite le attività dello stesso Previti, aveva comprato giudici per aggiustare
a suo favore controversie giudiziarie?
Denunce risibili che, però, portarono la procura di Brescia a indagare su di me
e gli altri colleghi per ben due anni, finendo poi per chiedere – com’era ovvio –
l’archiviazione. Lo scopo degli imputati era evidente: confondere l’opinione
pubblica con false accuse e quotidiane intemerate contro di noi, utilizzando i
media. Un bombardamento assordante per convincere lettori, ascoltatori,
telespettatori dell’innocenza di questo drappello di “perseguitati” da un
gruppuscolo di pubblici ministeri politicamente orientati, ossessionati dai loro
obiettivi.
Tra gli effetti di questo attacco permanente – narrato da media e partiti come
conflittualità tra politica e magistratura – ci fu anche quello di destabilizzare le
dinamiche all’interno della magistratura stessa. Diversi colleghi vivevano quei
processi come un ostacolo alle loro carriere o a eventuali richieste di
adeguamenti economici. Una lettura corporativa, che rese palpabile l’ostilità nei
nostri confronti e che avvertii ancora di più con l’avvio dei dibattimenti
aggravato dalla defezione di Piercamillo Davigo e Francesco Greco, gli altri
componenti del pool che lasciarono me e Gherardo soli in trincea, a fronteggiare
avversari che ci trattavano come nemici, palesemente disposti a utilizzare
qualsiasi arma pur di annientarci. Non sto usando termini a caso: il clima e la
posta in gioco erano esattamente questi.
In quegli anni mi dividevo tra lavoro, famiglia e una cerchia ristretta di amici
cari. I momenti di svago che mi concedevo erano costituiti per lo più dal
ritrovarmi a casa di qualcuno di loro, per evitare gli agguati dei media.
Ricordo la foto che mi ritraeva con Giuseppe D’Avanzo al tavolo di un
ristorante milanese, qualche giorno prima della data stabilita per la mia
requisitoria al processo Sme-“toghe sporche”, nel maggio 2003. Quella foto fu
ovviamente sparata in prima pagina sul quotidiano “il Giornale” che, a caratteri
cubitali, ventilava l’ipotesi di chissà quali rivelazioni di segreti relativi al
processo. Non ho mai saputo con certezza come al quotidiano fosse arrivata
quella foto, forse mi aveva semplicemente riconosciuta un avventore dello stesso
ristorante. Forse, ma non è da trascurare una nota stonata che vale la pena di
raccontare.
D’Avanzo mi aveva telefonato quella stessa mattina per annunciarmi il suo
arrivo da Roma. E mi aveva chiesto di prenotare un tavolo in quel ristorante
perché da un collega aveva saputo che lì si mangiava bene. Così avevo fatto. Ci
eravamo incontrati sotto casa intorno alle 20 ed eravamo andati a cena.
In quel periodo Peppe stava lavorando a un’inchiesta, pubblicata in tre puntate
da “Repubblica”, sulla presunta corruzione che aveva accompagnato la
complicata vicenda dell’acquisto di Telekom Serbia da parte di Telecom Italia.
Nel giugno 1997 la Stet, controllata dallo Stato attraverso Telecom Italia, aveva
acquistato il 29% della compagnia pubblica serba di Tlc, per circa 870 miliardi.
L’inchiesta di D’Avanzo denunciava il presunto pagamento di una trentina di
miliardi di “mediazione” – in realtà tangenti – perché il contratto andasse a buon
fine. Grazie al suo lavoro, fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta
per chiarire i termini di quell’affaire. La commissione, presieduta da Enzo
Trantino, non formulò alcuna accusa diretta e non presentò al Parlamento la
relazione finale. Nel 2005 l’indagine della procura di Torino aperta nel 2001 sui
vertici di Telecom del 1997 venne archiviata.
Nel 2006 si scoprì che in Telecom Italia era attivo un “servizio di sicurezza”
che aveva abusivamente compilato migliaia di dossier in sinergia tra una squadra
di esperti informatici di Telecom e l’intelligence militare (Sismi), finalizzata
anche a tenere sotto controllo personaggi pubblici, banche, società, uomini di
governo e dell’opposizione. Tra questi, veniva spiato anche Peppe D’Avanzo,
che risultò pedinato dal Sismi, le sue telefonate poste sotto controllo, il suo
lavoro passato al setaccio ancora prima che andasse in pagina, grazie anche ad
alcuni giornalisti infedeli della stessa “Repubblica”.
Ragionando con lui, più volte ci siamo chiesti se la foto rubata al ristorante
fosse il frutto del caso oppure di un pedinamento illegale, dato che né l’arrivo di
Peppe a Milano né la scelta del ristorante erano stati programmati.
Nell’uno e nell’altro caso, io vivevo una situazione snervante. Ero tranquilla
solo tra quattro mura, protetta dagli sguardi indiscreti o malevoli.
18.
Sotto attacco

Speravo che, con la fine dei dibattimenti monstre (Imi-Sir, Lodo Mondadori)
su cui quotidianamente si leggevano commenti e interviste incendiarie, si
sarebbe placata l’altrettanto quotidiana ricerca di un pretesto per delegittimarmi.
Speranza mal riposta: il clima si sarebbe fatto ancora più torbido e rovente nel
periodo del processo per le cosiddette “cene eleganti” o “processo Ruby” (2010-
2013 il primo grado), di cui dirò più avanti.
Per fare un esempio, nel dicembre del 2012 venni fotografata mentre lasciavo
cadere a terra il mozzicone della sigaretta per spegnerlo. Un gesto automatico,
certo sconveniente, che venne sfruttato per pubblicare un intero servizio sul
settimanale scandalistico “Chi” (di proprietà della famiglia Berlusconi). In quelle
pagine venne dato risalto anche alle immagini riprese sulla porta di Hermès, in
via Monte Napoleone, dove avevo acquistato un regalo. Un’altra volta ricevetti
critiche per un mio calzino (fuori moda, secondo l’articolista) indossato mentre
passeggiavo con un’amica. Tutti questi stupidi dettagli, adeguatamente montati,
miravano a ridicolizzarmi: “Ilda la rossa, dal calzino fuori moda, che getta la
sigaretta per terra e si permette di fare shopping in un negozio extralusso nelle
vie del centro”.
Non ho dubbi che l’accanimento nei miei confronti sia stato acuito dal mio
essere donna. Solo così si spiegano gli attacchi alla mia femminilità, le critiche
all’abbigliamento, alle collane e agli orecchini che indossavo, l’insistenza sul
colore dei capelli. Un’operazione martellante, condotta per anni, giorno dopo
giorno, esasperata nei toni e nei contenuti, che ogni tanto si dimostrava efficace
nell’eccitare l’avversione nei miei confronti. Da qui le tante lettere anonime in
cui venivo definita “troia” o “zoccola”, oppure l’invio di ritagli di giornali
pornografici, nei quali avevano sostituito il mio volto a quello della pornostar, o
di fazzoletti di carta inequivocabilmente imbrattati di sperma.
Gherardo e gli altri colleghi maschi non sono mai stati bersagliati con niente
del genere, tutt’al più venivano indicati come “toghe rosse”, un appellativo
dedicato ovviamente anche a me, magari condito con qualche più offensivo
“sporca comunista”.
Negli anni del processo Ruby, l’onorevole Daniela Santanchè, all’epoca
sottosegretario del governo Berlusconi, una donna potente e facile all’insulto,
arrivò a definirmi “un cancro della democrazia, una metastasi”. E non
chiacchierando in un salotto privato, ma davanti a una selva di microfoni.
Secondo il radicale Marco Taradash, già deputato di Forza Italia, ero invece “una
squatter in procura”, definizione coniata nel periodo in cui gruppi di giovani
ribelli, anarchici, sbandati – gli squatter, appunto – occupavano edifici
abbandonati e cadenti, vivendoci finché non venivano cacciati dalla polizia.
All’offensiva partecipavano figure di rilievo, anche istituzionale, come la
futura presidente del Senato, l’avvocatessa Maria Elisabetta Alberti Casellati,
berlusconiana di ferro, con un excursus politico-istituzionale di alto livello
interamente dovuto al fondatore di Forza Italia. Senatrice per sei legislature,
sottosegretaria alla Salute e alla Giustizia in due governi guidati da Berlusconi,
quindi consigliera del Csm fino a essere scelta, nel 2018, per presiedere
l’assemblea di palazzo Madama. Negli innumerevoli dibattiti cui ha partecipato
a nome della sua forza politica e nelle interviste non ha mai perso occasione di
attaccare frontalmente il lavoro della procura di Milano, ribadendo la sua
convinzione che decine di magistrati agissero d’intesa per imbastire inchieste
senza fondamento ed emettere sentenze sballate all’unico scopo di colpire Silvio
Berlusconi.
Logico quindi che ci fosse anche lei, l’11 marzo 2013, insieme a un altro
centinaio di parlamentari del Popolo della libertà, a manifestare nei corridoi e di
fronte al palazzo di giustizia durante un’udienza del processo sulle performance
delle Olgettine nella villa di Arcore.
Ma le campagne denigratorie non si limitavano ai processi che vedevano
coinvolto Berlusconi. Per molti anni mi sono sentita osservata, sapendo che
qualunque iniziativa professionale avessi preso e ogni risvolto della mia vita
privata sarebbero stati malignamente commentati e sottoposti a critiche più o
meno pretestuose.
Un caso per tutti, tra quelli che mi hanno più rattristata, è dell’11 maggio
1998, quando una donna somala venne fermata all’aeroporto di Linate. Quel
giorno ero di turno esterno. Il funzionario di polizia responsabile dello scalo
milanese mi comunicò che la donna, Sharifa, era stata arrestata perché aveva
esibito documenti falsi. Inoltre viaggiava in compagnia di due bambini, un
maschietto e una femminuccia, che asseriva essere suoi figli. Ricevuti gli atti,
chiesi al giudice per le indagini preliminari la conferma dell’arresto. Richiesta
accolta: la donna fu portata in carcere, i bambini affidati a una comunità.
La signora Sharifa, che proveniva da una remota regione interna della
Somalia, parlava soltanto uno sconosciuto dialetto locale, che rese molto difficile
la ricerca di un interprete. Per verificare se fosse davvero la madre dei due
bambini, ordinai l’esame del Dna, in attesa del quale la interrogai nuovamente e,
avuta conferma che i suoi documenti erano falsificati, chiesi il rito immediato
per ottenere il processo in tempi brevi. Allo stesso tempo, espressi parere
favorevole alla scarcerazione, che però venne negata dal tribunale. L’esame
genetico confermò che uno dei due bambini, il maschietto, era effettivamente
suo figlio, ma restava da appurare se anche la bimba lo fosse. La donna venne
scarcerata dopo sei mesi, ma i bambini furono trattenuti in comunità perché –
con un atteggiamento incongruo, alla luce dei nostri parametri – lei andò a
trovarli soltanto due mesi dopo aver lasciato il carcere.
A fronte di questi fatti, venni dipinta come un mostro, una persona crudele che
aveva strappato i figli a una madre. Fioccarono le solite interpellanze, per lo più
presentate dai deputati di Forza Italia, ma anche la Lega Nord si diede un gran
daffare.
Mi colpì, in particolare, l’interpellanza promossa nel marzo 1999
dall’onorevole Mario Borghezio e controfirmata da altri parlamentari. Un
unicum nella storia padana, secessionista, xenofoba di quel partito, di cui vale la
pena riportare il testo:
I sottoscritti chiedono di interpellare il ministro di Grazia e Giustizia per sapere – premesso che il caso
vergognoso della signora Sharifa, la giovane donna somala scambiata dal magistrato del pubblico
ministero di Milano per una pericolosa trafficante internazionale di minori, pone pesantemente il tema
della “irresponsabilità” di fatto di questi magistrati, che nell’attuale ordinamento non rispondono
direttamente e personalmente degli errori, anche molto gravi, che commettono – quali intendimenti
intenda adottare sia in ordine alla necessità, anche attraverso un’ispezione ministeriale, di fare piena luce
sul caso sopra indicato, sia in ordine alla necessità di assicurare a tutti i cittadini il rispetto del diritto alla
difesa, pietra miliare della nostra civiltà giuridica.

Ero senza parole. Pur di delegittimarmi, avevano fatto scendere in campo


Borghezio e i suoi sodali, noti propugnatori di tesi pesantemente antimeridionali
e antimmigrati, che per la prima (forse la sola) volta fingevano di prendere le
parti di una donna di colore, extracomunitaria, entrata clandestinamente in Italia
con documenti falsi. Né furono da meno i parlamentari di Forza Italia, che
sull’immigrazione clandestina hanno saputo congegnare leggi di tenore tutt’altro
che compassionevole e inclusivo.
Essere indicata come razzista in un caso come quello della signora Sharifa mi
ferì profondamente. In una lunga relazione, richiesta dal ministro della Giustizia,
ribattei punto per punto alle accuse e ai rilievi che mi erano stati mossi.
Dopodiché, con il passare dei mesi, i riflettori puntati su quella triste vicenda si
spensero anche perché, ormai, i denigratori avevano spolpato l’osso.
Nonostante avessi agito nel pieno rispetto delle norme, delle procedure, della
donna e dei bambini, in me rimase una grande tristezza non solo per gli attacchi
subiti, ma anche per aver, ancora una volta, constatato la farraginosità del nostro
sistema giudiziario. Mi spiego: il meccanismo che si era innescato al momento
della richiesta di giudizio immediato e del mio parere favorevole alla libertà
provvisoria in attesa degli accertamenti tecnici, anziché sveltire, aveva finito per
dilatare oltremisura i tempi processuali, anche a causa di scelte sbagliate
compiute dal difensore d’ufficio. Sharifa era solo una povera donna catapultata
dalle profondità geografiche e culturali africane in un Paese occidentale e qui
intercettata da un apparato giustamente attento a fenomeni come il traffico di
bambini per adozioni irregolari, pedofilia, traffico di organi, ma inadatto a tenere
nel dovuto conto i diritti di una persona senza mezzi culturali né economici.
Quel caso, al di là di tutto il contorno che riguardava me, fu una dimostrazione
ulteriore che il nostro sistema giudiziario, pur basato sul sacrosanto principio
della parità tra le parti processuali, è sbilanciato negativamente verso chi non si
può permettere un buon avvocato.
Uno dei quotidiani che più si affannò a manipolare il caso Sharifa fu “il
Giornale”, che tanto scrisse, titolò, insinuò e offese, che finii per portarlo in
giudizio. Nel 2001 il tribunale di Brescia avrebbe riconosciuto le mie ragioni e
condannato il quotidiano. Con mia doppia soddisfazione, venne accertato il torto
subìto e ordinato il risarcimento a mio favore.
Nonostante l’amarezza per la vicenda Sharifa e l’impegno davanti al giudice
dell’udienza preliminare, non chiesi l’esonero dal servizio del turno esterno. Mi
capitò così, nel luglio 1999, di ricevere la notizia dell’uccisione del gioielliere
Ezio Bartocci, freddato da due colpi di pistola durante una rapina nel suo
negozio di via Padova, alla presenza della moglie, Maria Rosa Barzaghi.
Dall’inizio dell’anno, i media locali e nazionali davano ampio risalto a fatti di
cronaca nera concentrati in quella porzione di periferia milanese che da piazzale
Loreto si estende in direzione nord-est: risse frequenti, prostituzione, fatti di
sangue, rapine, anche l’assalto a un furgone portavalori. Una situazione che
aveva provocato la reazione e le proteste degli abitanti, mentre le fotografie dei
cadaveri facevano il giro del mondo e – come accade in questi casi – i media
internazionali non ci avevano messo molto a paragonare via Padova ai quartieri
più malfamati e pericolosi delle grandi metropoli, dal Bronx americano alle
favelas brasiliane e alle banlieues parigine.
Qualche giornale italiano arrivò a invocare l’esercito per controllare quella
parte della città, che la maggioranza dei milanesi percepiva come abbandonata a
se stessa. La pubblica opinione era impressionata soprattutto dalla frequenza dei
fatti criminosi. Dal mese di gennaio, in soli nove giorni c’erano stati altrettanti
omicidi a seguito di regolamenti di conti tra cittadini extracomunitari, oltre a
contrasti nel mondo della prostituzione e rapine spietate, come quelle in cui
erano stati uccisi per pochi spiccioli l’edicolante Salvatore Corigliano e il
tabaccaio Ottavio Capalbo, freddato nel suo negozio di via Derna, a pochi metri
dalla gioielleria Bartocci.
Il susseguirsi di questi episodi aveva messo a dura prova la fiducia nelle
istituzioni mentre i media raccoglievano sempre più frequenti invocazioni di
giustizia sommaria. Così, quando il 20 luglio di quell’anno disgraziato avvenne
l’omicidio Bartocci, era ben chiara l’importanza di dare una risposta forte ai
cittadini, risolvendo il caso il più rapidamente possibile. E così fu.
Nel giro di pochi mesi erano stati individuati e arrestati i responsabili
dell’assassinio del gioielliere, grazie al lavoro certosino degli investigatori. Si
arrivò anche a scoprire che il tabaccaio e il gioielliere erano stati vittime della
stessa banda che tra il dicembre 1997 e il luglio 1999 aveva rapinato
supermercati, negozi di giocattoli, persino una clinica. Ma la specialità della
gang erano tabaccherie e ricevitorie. E in due casi, purtroppo, gli assalti erano
finiti nel sangue: al tabaccaio avevano sparato mentre tentava di difendere i 40
milioni di incasso; Bartocci era stato freddato mentre assieme alla moglie stava
chiudendo il negozio. L’assassino, tal David Moneypenny, olandese, fuggito con
il bottino di 10 milioni di lire, era stato rintracciato e arrestato su mia richiesta
nella città di Leida, nei pressi dell’Aia, dove viveva con la famiglia. Nel 2000
erano iniziati i processi, parte con il rito abbreviato, parte davanti alla Corte
d’assise. Tutti e quattro gli imputati erano stati condannati al massimo della
pena.
Nonostante fossero iniziati anche i dibattimenti nei confronti dei magistrati
corrotti, di Previti, Berlusconi, Pacifico e Acampora, non avevo chiesto di essere
sostituita nelle udienze in Corte d’assise per gli omicidi di via Padova. Ci furono
settimane in cui, con la toga svolazzante, correvo da un corridoio e da un piano
all’altro del palazzo, arrivavo in aula con il fiatone e mi trovavo a saltare dalle
rapine alla corruzione, dagli assassinii ai conti esteri cifrati, dalle prove
balistiche ai tabulati bancari. Era faticoso, ma la presenza in Corte era un dovere
verso i parenti delle vittime e il loro dolore. E, per me, la dimostrazione che lo
Stato esiste.
La vedova Bartocci è una donna straordinaria, come lo sono i suoi figli. Il loro
dolore composto, la fiducia che hanno sempre nutrito nei confronti dello Stato e
il rifiuto di ogni vendetta o giustizia fai-da-te sono stati una grande lezione di
vita anche per me, specie in quella fase così difficile in cui, a leggere i giornali,
sembrava di giocare contro la criminalità una partita persa. Con la signora non ci
siamo più viste, ma di lei conservo un ricordo dolcissimo e vorrei sapesse quanto
è stato importante averla accanto in quel periodo.
19.
Toga rossa

Nel 2000 iniziò la stagione dei dibattimenti Sme, Imi-Sir, Lodo Mondadori. La
cosiddetta “guerra di Segrate” è una complicata storia di affari e corruzione
iniziata negli anni ottanta, quando la casa editrice Mondadori era di proprietà di
tre soci: la Fininvest di Silvio Berlusconi, la Cir di Carlo De Benedetti e la
famiglia Formenton, erede del fondatore Arnoldo Mondadori. Sul finire del
decennio, De Benedetti convinse i Formenton a cedergli la loro quota, il che gli
avrebbe dato il controllo del gruppo di Segrate. In particolare, De Benedetti
firmò con gli eredi del fondatore un precontratto, secondo il quale le loro azioni
sarebbero passate al gruppo Cir entro il gennaio 1991. Ma nel 1989 i Formenton
cambiarono improvvisamente idea, vendettero le proprie azioni a Fininvest e
così, il 25 gennaio 1990, Silvio Berlusconi divenne presidente del gruppo
Mondadori.
Il voltafaccia contrattuale provocò la reazione di De Benedetti e diede inizio a
una lunga controversia giudiziaria. L’ingegnere decise di ricorrere all’arbitrato di
tre giudici – uno scelto dalla Cir, uno dai Formenton, il terzo dalla Corte di
cassazione – che emisero il loro verdetto il 20 giugno 1990: l’accordo tra De
Benedetti e i Formenton era valido a tutti gli effetti e le azioni cedute a Fininvest
dovevano tornare alla Cir.
Il lodo arbitrale venne impugnato dai Formenton e da Berlusconi (che aveva
intanto dovuto lasciare la presidenza) davanti alla Corte d’appello di Roma, che
assegnò la causa alla sezione civile presieduta da Arnaldo Valente, con i giudici
Giovanni Paolini e Vittorio Metta. La sentenza, depositata il 24 gennaio 1991
dopo una camera di consiglio durata dieci giorni, stabiliva che una parte
dell’accordo tra la Cir e i Formenton era in contrasto con la disciplina delle
società per azioni. Di conseguenza, erano da considerarsi nulli il patto del 1989 e
anche il lodo dell’anno successivo. Le azioni tornarono nuovamente nelle mani
di Berlusconi.
La Cir decise di tentare la strada dell’accordo, avviando una trattativa con gli
avversari. Uno degli azionisti, Carlo Caracciolo – sospettando, come anche altri
soci, che qualche anomalia fosse intervenuta per ribaltare l’esito del lodo –,
suggerì di ricorrere alla mediazione dell’editore Giuseppe Ciarrapico,
notoriamente vicino a Giulio Andreotti, che nei mesi precedenti aveva ostacolato
la cessione del gruppo di Segrate alla Cir. In effetti venne raggiunto un accordo,
secondo il quale “la Repubblica”, “L’Espresso” e altri quotidiani e periodici
locali sarebbero tornati alla Cir, mentre tutti i restanti cespiti della Mondadori
sarebbero rimasti alla Fininvest, che ricevette inoltre 365 miliardi di lire come
conguaglio per la cessione delle testate all’azienda di Carlo De Benedetti.
L’iscrizione di Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Vittorio Metta nel registro
degli indagati per la vicenda del Lodo Mondadori risale al 2 ottobre 1997, grazie
alla scoperta tra le carte, già in mano alla procura, di due bonifici provenienti
dalla società offshore di Berlusconi, la All Iberian, sui conti esteri di Cesare
Previti e di Giovanni Acampora, uno degli avvocati della Fininvest. Cifre
consistenti, anzi stratosferiche per i comuni mortali: 2.732.868 dollari americani
(circa 3 miliardi in lire) sul primo e un miliardo e mezzo di lire sul secondo. Dai
conti di Acampora, 425 milioni di lire erano passati a Previti, che li aveva
stornati in due operazioni sul conto di Attilio Pacifico. Questi li aveva
trasformati in denaro contante e, secondo l’accusa, li aveva consegnati a Vittorio
Metta, il giudice del collegio d’appello che aveva smontato il Lodo Mondadori.
Nei mesi successivi al passaggio di denaro, Metta aveva dimostrato di disporre
di notevole liquidità: aveva acquistato e ristrutturato un appartamento, comprato
un’auto nuova pagando tutto in contanti, sulla cui provenienza non sarebbe mai
riuscito a fornire spiegazioni plausibili. Di sicuro, le banconote che spendeva
copiosamente non erano state prelevate dai suoi conti correnti.
Per dimostrare la falsità delle dichiarazioni di Metta, furono rintracciati i
titolari dell’impresa che aveva eseguito i lavori nell’appartamento, i fornitori di
materiali, l’elettricista, il fabbro: tutti dichiararono di essere stati pagati in
contanti e in nero. Risultati soddisfacenti, anche se indagare a dieci anni di
distanza da avvenimenti tanto complessi, su percorsi abilmente occultati da
persone esperte, non fu un’impresa facile. Con un lavoro serrato e metodico
riuscimmo a rintracciare i componenti del collegio, i cancellieri che lo
coadiuvavano in quel periodo, dopodiché, indirizzando la ricerca sui tempi di
lavorazione delle cause assegnate a Vittorio Metta, acquisimmo un dato di
grande interesse. Emerse, infatti, che normalmente il giudice non rispettava i
tempi indicati per il deposito delle sentenze, salvo la clamorosa eccezione della
decisione sul Lodo Mondadori, che vide la luce il giorno dopo la fine della
camera di consiglio: 167 pagine scritte in una sola notte! Non molto credibile...
Nel 1990, Metta era giudice relatore, pressoché in contemporanea, di due tra le
più importanti controversie civili nella storia della Corte d’appello della
Capitale: il caso Imi-Sir, che gli era stato assegnato nell’autunno 1989, e il Lodo
Mondadori, nell’estate 1990. Proprio a partire da quell’anno, il giudice romano
era improvvisamente diventato molto ricco, con una straordinaria disponibilità di
contante che iniziò a versare su conti correnti a lui riconducibili. Somme sempre
più consistenti, tutte rigorosamente in banconote da 50.000 o 100.000 lire.
Ancora oggi provoca un certo capogiro rileggere in quelle carte processuali i
vorticosi movimenti di miliardi sui conti esteri degli indagati (magistrati inclusi),
perfettamente a loro agio tra società di comodo, fondazioni in Paesi “sicuri”,
conti e depositi cifrati. I nomi emersi dall’inchiesta avevano frodato il fisco,
nascosto ingenti capitali nei paradisi fiscali, utilizzato quel denaro per
corrompere politici e magistrati, ma non erano stati mai perseguiti perché, dato il
tempo trascorso, i reati erano stati falcidiati dalla prescrizione.
A fronte delle accuse di corruzione suffragate da prove inoppugnabili, il
management del gruppo Fininvest aveva scelto il male minore, ammettendo
l’esistenza di fondi neri all’estero. Ma lo fece con una spudoratezza e
un’arroganza che avrebbero meritato la reazione di una collettività schiacciata
dalle tasse e da un enorme debito pubblico. Invece non accadde proprio nulla,
nessuna indignazione per quella rete di evasori seriali che, oltretutto, usavano il
maltolto per truccare le cause. Anzi, più le indagini facevano emergere tesori e
tesoretti sparsi per il mondo, più veniva alimentata nell’opinione pubblica
l’avversione per il nostro lavoro.
Mi sarei aspettata, per esempio, qualche reazione alla ricostruzione del
“Mandato 500”, la serie di operazioni effettuate nella seconda metà del 1991 per
trasferire 91 miliardi di lire di Berlusconi, fino a quel momento imboscati a San
Marino. Migliaia e migliaia di banconote confezionate in pacchi da 3 fino a 7
miliardi ciascuno venivano trasportate dal Titano all’hinterland milanese e
“scaricate” a Segrate, dove il fedelissimo ragionier Scabini, tesoriere centrale del
Biscione, le consegnava a spalloni che portavano in Svizzera 500 milioni alla
volta. Le somme venivano quindi depositate su conti correnti cifrati, indicati di
volta in volta su un foglietto di carta, tutti nella disponibilità di Berlusconi anche
se l’intestatario risultava lo stesso Scabini. Un flusso di denaro imponente, per
gestire il quale gli spalloni attraversavano anche tre volte al giorno la frontiera
con la Svizzera.
Il giudice designato all’udienza preliminare del filone “toghe sporche” e Imi-
Sir, Alessandro Rossato, lo stesso che aveva seguito le indagini e firmato gli
ordini di arresto, si è dimostrato in più occasioni un magistrato competente e
rigoroso. Pur consapevole di avere di fronte persone potenti, abili e smaliziate,
non si è lasciato intimidire dalle pressioni, dalla virulenza degli attacchi e dalle
polemiche che incendiavano il clima di quel periodo. Però, dal mio punto di
vista, ha impresso alle udienze un andamento che non ha giovato alla speditezza
del processo, concedendo troppo spazio alle richieste spesso pretestuose e
immotivate delle difese, che cavillavano su ogni minima questione. A dilatare in
misura esasperante la durata dell’udienza preliminare sono stati in larga parte i
ripetuti rinvii per l’impedimento di Previti a presentarsi in aula, a causa dei
“pressanti impegni” parlamentari che l’imputato aveva improvvisamente scelto
di moltiplicare.
Null’altro che pretesti, lo ribadisco. E per capirlo basta riassumere la sua
attività istituzionale in quegli anni. Caduto il primo governo Berlusconi, nel
quale era ministro della Difesa, Previti era entrato a far parte della Commissione
giustizia del Senato e nel 1996, alla vigilia delle elezioni, aveva addirittura
pubblicato un libello intitolato Un programma per la giustizia.
Eletto alla Camera, si era fatto assegnare alla Commissione difesa, dove era
rimasto fino all’agosto 1999 per poi entrare in quella degli Affari esteri. In tre
anni, dal giugno 1996 al luglio 1999, l’allora deputato aveva preso parte a 5.126
votazioni elettroniche su 21.495, aveva cofirmato in tutto otto proposte di legge
e, fino al maggio 1999, aveva preso la parola in aula soltanto due volte: il 20
gennaio 1998, per chiedere ai colleghi di non autorizzare il suo arresto, e il 23
ottobre dello stesso anno, per dire “no” al governo D’Alema. Insomma, uno dei
tanti onorevoli-fantasma che popolano il nostro Parlamento.
Ma a un certo punto, dopo quegli anni di smaccato assenteismo, era avvenuta
la svolta e in Previti si era miracolosamente incarnato lo spirito del deputato
modello. Con l’inizio dell’udienza preliminare, la sua frequentazione di
Montecitorio era diventata assidua e non si limitava a una presenza passiva.
Prendeva la parola, cimentandosi anche su argomenti di nicchia, dal trattato di
estradizione con il Paraguay alla tutela della minoranza linguistica slovena, e ai
miei occhi era quanto mai sospetta la scelta di Previti di entrare a far parte della
Commissione esteri (presieduta da Achille Occhetto), anche perché, dati i temi
di competenza di quell’organismo, erano frequenti incarichi e missioni che
prevedevano l’assenza dall’Italia. Dal settembre del 1998 l’imputato prese a
partecipare alle riunioni dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico con sede a Parigi, e dalla stessa data entrò a far parte della
delegazione italiana presso la conferenza parlamentare dell’Ince, l’Iniziativa
centro-europea, che proprio in quel periodo teneva a Praga la sua assemblea
annuale. Ma non bastava: gli interventi di Previti, dopo anni di silenziosa
indifferenza, erano programmati esclusivamente per il lunedì o il venerdì, cioè i
giorni in cui la Camera non prevedeva sessioni di voto. Una scelta mirata che,
sommandosi alle presenze per le votazioni, consentiva all’imputato di
autosegregarsi a Montecitorio per l’intero arco della settimana. Ne derivavano
così raffiche di impedimenti a presenziare al processo e le conseguenti richieste
di rinvio delle udienze.
Un metodo spregiudicato, che però il giudice non dava segno di voler troncare.
Credo che mai, nella storia della giustizia repubblicana, l’impegno politico e la
funzione legislativa siano stati così cinicamente ridotti a strumento di autodifesa
personale. Mai era accaduto prima che il mandato parlamentare venisse usato
come sabbia da gettare negli ingranaggi della giustizia perché si inceppasse, con
una volontaria interferenza manifestata in forma sistematica e capillare.
Questa tattica dilatoria – un caso di scuola in negativo per gli avvocati –
portava ad accesi e ripetuti scontri in aula: da una parte gli imputati e i loro
difensori, dall’altra il pubblico ministero. Dopo urti che facevano scintille,
richieste di sostituire i pubblici ministeri e un ricorso alla procura generale, l’11
ottobre 1999 accadde un episodio inedito e gravissimo. Durante l’udienza, le
difese ottennero dal giudice una sospensione e, a quel punto, una decina di
avvocati uscirono dall’aula, attraversarono in gruppo, platealmente, i corridoi del
palazzo di giustizia e andarono a bussare alla porta del procuratore capo,
Gerardo D’Ambrosio, con il quale ebbero un incontro di poco meno di mezz’ora.
Nel gruppetto dei penalisti che protestarono sfilando nei corridoi del palazzo
c’erano anche Piero Longo e Niccolò Ghedini, difensori di Silvio Berlusconi e
poi parlamentari di Forza Italia, Michele Saponara, difensore di Cesare Previti, e
il professor Gaetano Pecorella, assunto da Renato Squillante.
Nel colloquio con il mio capo, ma anche nelle chiacchiere di corridoio, questo
manipolo di illustri professionisti fece trapelare la verità che gli stava a cuore: il
problema del processo ero io. Così ancora una volta, pubblicamente, veniva
puntato contro di me un dito perché – questa la loro versione – mi proponevo
con modi irricevibili e il clima in aula era più disteso quando a sostenere
l’accusa c’era solo Gherardo Colombo. Un atto di pesante condizionamento,
aggravato dal tentativo malevolo di mettere me e Gherardo l’una contro l’altro.
Eravamo così arrivati a ridosso di una data importante: il 2 gennaio 2000. Quel
giorno sarebbe entrata in vigore la legge 479/99 che prevedeva, tra l’altro,
l’incompatibilità tra gip e gup, ovvero lo stesso giudice non poteva valutare le
indagini svolte e condurre l’udienza preliminare. Una nuova regola che valeva
per tutti i processi, compresi quelli in corso, fatti salvi gli atti e le attività del
giudice precedente.
Da mettersi le mani nei capelli. Soprattutto per gli effetti della retroattività e
anche perché la 479/99 era stata approvata nel corso della XIII legislatura dalla
maggioranza di centro-sinistra, quando il capo del governo era Massimo
D’Alema dei Democratici di sinistra e il ministro della Giustizia Oliviero
Diliberto di Rifondazione comunista. L’applicazione della norma avrebbe avuto
un effetto devastante sull’udienza preliminare iniziata più di un anno e mezzo
prima, perché le migliaia di pagine contenute nei faldoni avrebbero dovuto
essere studiate ex novo da un altro giudice, che avrebbe ovviamente avuto
bisogno di tempo. Di conseguenza si allontanava l’inizio del dibattimento,
qualora gli imputati fossero stati rinviati a giudizio, per non parlare dello
scorrere della prescrizione.
Era evidente, ai miei occhi, che le manovre dilatorie degli avvocati e l’inedita
veste di impegnatissimo parlamentare scelta da Previti avevano il solo obiettivo
di procrastinare la decisione del giudice almeno fino alla promulgazione della
nuova legge. Una tattica spregiudicata, alla quale ho tentato in tutti i modi di
sottrarre il processo, chiedendo in più di un’occasione al giudice di fissare
udienza la domenica, ma la risposta è sempre stata negativa. A impedirlo erano
l’organizzazione interna del tribunale e l’indisponibilità del personale
amministrativo nei giorni festivi.
Ero avvilita, ma non disposta ad accettare comportamenti simili e continuavo a
contestarli, perché la legge è uguale per tutti. Finalmente, nel novembre 1999, la
fase preliminare terminò e gli imputati vennero rinviati a giudizio. La prima
udienza del dibattimento Sme-“toghe sporche” venne calendarizzata per il 9
marzo 2000 davanti alla I sezione del tribunale, mentre la vicenda Imi-Sir fu
assegnata alla IV sezione e l’inizio fissato per l’11 maggio.
Passai il Natale a Milano, in totale relax, anche se sapevo le fatiche che mi
aspettavano di lì a poco, con due dibattimenti e un’udienza preliminare pronti a
decollare. Intanto, però, non avevo rinunciato a coltivare il desiderio di tornare a
occuparmi di mafia, lasciando ai colleghi del pool il compito di rappresentare
l’accusa davanti ai due collegi penali e al gup per il Lodo Mondadori. Ci
riunimmo diverse volte tra noi per parlarne, ma non riuscimmo a raggiungere un
accordo, perché Piercamillo Davigo e Paolo Ielo restarono fermi sulle loro
posizioni, con motivazioni che per la verità non mi sono mai sembrate ostative.
Anche Borrelli, che era già diventato procuratore generale, intervenne per
sostenere con vigore le mie ragioni, ma le posizioni dei colleghi non cambiarono
e così il cerino rimase in mano a me e a Gherardo. Ma ci trovavamo ormai in
mezzo al guado e indietro non si poteva tornare, benché il traguardo fosse
lontano e il percorso pieno di insidie. Ancora una volta, mi calzava a pennello la
definizione forgiata qualche anno prima in Sicilia dal mio amico Saieva: “Maria
Goretti in Fantozzi”.
Descrivere il mio stato d’animo in quegli anni non è facile. Di sicuro non stavo
bene, ero spesso sopraffatta da brutte sensazioni e pensieri negativi che sarebbe
troppo doloroso riesumare oggi. C’era l’indifferenza di molti colleghi a fronte
delle mie fatiche e delle mie richieste, l’avversione di alcuni di loro, la mancanza
di qualcuno da abbracciare e di una spalla sulla quale abbandonarmi nei
momenti di sconforto.
Mi mancava tanto Giovanni e a tratti sentivo stringersi come un cappio
soffocante quel filo sottile di odio, invidia, cattiveria che anche lui aveva dovuto
sopportare e che in qualche modo continuava ad accomunarci. Ma nonostante mi
mancasse, la realtà che vivevo giorno dopo giorno mi spingeva alla ribellione
contro di lui, ad accusarlo dentro di me di avermi rovinato la vita, anche perché
sentivo di non avere la sua forza e che non ce l’avrei fatta a reggere il modello di
servitore dello Stato che Giovanni aveva imposto, semplicemente facendo il
magistrato e morendo per questo. Forse mi stavo solo ribellando a una parte di
me che aveva radici ancora più lontane: sono sempre stata un soldatino ostinato
e incapace di calcolare per tempo i costi delle mie scelte. Sarebbe forse stato un
bene se trent’anni fa fossi riuscita a far sparire dalla mia vita quella sua figura
pacata e sorridente ma inflessibile, che – senza avermi chiesto nulla – mi portava
a reggere il mondo sulle spalle, non mi lasciava andare per la mia strada. Ma non
l’ho fatto, non ho voluto farlo o non sono riuscita a farlo.
Quei momenti di frustrazione, più probabilmente di paura, durante i quali mi
sembrava troppo faticoso andare avanti, non duravano a lungo e finivano ogni
volta per lasciare spazio alla disciplina e al realismo che mi riportavano alla
routine di sempre: lavoro, ufficio, figli, famiglia, amiche e amici veri (rassegnati
a sopportare i miei sbalzi d’umore).
Mi sono spesso chiesta se e quanto l’inconscio pesi nella vita di ciascuno di
noi. Non ho ancora trovato una risposta, troppe le situazioni ambivalenti che
hanno fatto vacillare ogni certezza. Ma se è vero che i sogni riflettono uno stato
d’animo, quello che ho sognato la prima notte di questo millennio ha per me un
significato preciso.
Ho festeggiato l’arrivo del nuovo secolo a Napoli, a casa di mio fratello,
insieme alla famiglia. Quella notte i fuochi d’artificio furono spettacolari, il cielo
del golfo era di mille colori dalla Costiera amalfitana fino al Vesuvio, da San
Martino alla collina di Posillipo, in una gazzarra gioiosa di razzi luminosi,
bombe carta, tric trac, bengala durata più di un’ora. A mezzanotte il mondo si
era fermato e tutti salutammo gli anni duemila con allegria.
Sono astemia, non mi piacciono le bollicine, ma per l’occasione non rifiutai un
po’ di champagne, perché quella notte era impossibile non brindare al futuro.
Tornando a casa, attraversai una città con le strade ingombre di resti
bruciacchiati dei fuochi d’artificio, vetri rotti, cocci e ogni tipo di spazzatura, ma
in quella notte anche il disordine e la sporcizia andavano vissuti con leggerezza e
benevolenza.
Una volta a casa mi addormentai quasi subito e sognai Giovanni: eravamo in
un posto di mare, lui era radioso, felice di vedermi, mi corse incontro e mi
abbracciò. Mi svegliai con un senso di benessere indicibile e la certezza che lui
sarebbe rimasto nella mia vita per sempre.
Ho interpretato quel sogno come un modo per rafforzare le emozioni profonde
che avevo vissuto con lui e che volevo assolutamente conservare, rivivere dentro
di me. Sta di fatto che, da buona napoletana, un sogno così intenso, arrivato
proprio nelle prime ore del nuovo secolo, mi regalò la certezza che non mi sarei
liberata di lui così facilmente e che questo avrebbe comportato l’addossarsi la
fatica delle imminenti scadenze processuali senza tanti piagnistei.
Il nuovo anno si presentò fin da subito denso di avvenimenti. Oltre all’udienza
preliminare per il Lodo Mondadori – iniziata il 3 febbraio davanti al nuovo gup,
Rosario Lupo, per effetto della legge sull’incompatibilità – e alla preparazione
della lista testi per i processi “toghe sporche” e Imi-Sir, già nel mese di marzo,
durante il turno esterno, mi capitò di incappare nell’ennesimo caso complicato.
Non credo di portarmi sfortuna da sola: direi che è statisticamente nella norma
imbattersi in un certo numero di fatti gravi in oltre quarant’anni di servizio.
Il 29 febbraio 2000 era stato sequestrato sotto la sua abitazione di Basiglio, nei
pressi di Milano, l’imprenditore Fabio Tacchinardi, titolare insieme alla famiglia
di una ditta di autotrasporti. Il primo ordine impartito alle forze di polizia era
stato quello di non divulgare la notizia. Non sapevamo con chi avevamo a che
fare, se professionisti o delinquenti improvvisati, ma in entrambi i casi la vita del
sequestrato poteva essere a rischio.
Qualche giorno dopo, i rapitori avevano fatto pervenire la richiesta di riscatto:
800 milioni. L’ammontare della somma e la tempistica di quella prima telefonata
e delle successive, insieme ad altri particolari, ci fecero ben presto capire che
Tacchinardi si trovava nelle mani di un gruppo di malviventi inesperti:
circostanza che non ci tranquillizzò affatto e che, anzi, imponeva una
conclusione dell’indagine in tempi brevissimi.
L’impatto mediatico del sequestro era stato dirompente. Oltre a danneggiare le
indagini rivelando dettagli riservati, l’incalzare delle notizie aumentava i rischi
per la vita dell’ostaggio, anche perché l’inesperienza poteva far saltare i nervi
alla banda. A questo clima di urgenza si sommavano le tensioni con la famiglia
Tacchinardi, soprattutto con i genitori, perché si trattava di persone – diciamo
così – concrete, pragmatiche, abituate a fidarsi solo di se stesse e incapaci,
persino in una simile circostanza, di affidarsi agli apparati dello Stato. E quindi
pronte fin da subito a pagare i rapitori.
Mi ero fatta questa idea cogliendo alcune frasi delle loro conversazioni, dalle
quali emergeva la filosofia di vita di quell’imprenditoria tipicamente lombarda,
quella del “ghe pensi mi”: siamo gente che lavora sodo, le fregature sono in
agguato ovunque, anche da parte dello Stato. Norme di vita consolidate, praticate
da generazioni, che includevano l’autoassoluzione per l’evasione fiscale: infatti,
nonostante il blocco dei beni, i Tacchinardi erano riusciti a mettere insieme la
somma richiesta e, avvalendosi di un intermediario (oltre che della compiacenza
di alcuni ufficiali dell’Arma), si preparavano a pagare il riscatto. Fortunatamente
scoprimmo i loro propositi, li chiamai nel mio ufficio e con tutta la fermezza di
cui ero capace spiegai che non era quella la strada per riportare a casa il loro
famigliare.
I fatti mi avrebbero dato ragione. Dopo alcune notti insonni trascorse in una
caserma dei carabinieri da cui dirigevo le operazioni, i banditi avevano ceduto e
– stretti nella morsa del dispositivo di ricerca – avevano liberato l’ostaggio,
senza riscuotere una lira. Ancora qualche giorno ed erano stati individuati i
responsabili, uno dei quali aveva lavorato per un anno e mezzo nell’impresa dei
Tacchinardi e studiato le abitudini della vittima.
Dell’esperienza del sequestro Tacchinardi mi è rimasto a lungo in bocca un
retrogusto amaro. Pur comprendendone l’angoscia, non eravamo mai entrati in
sintonia con i famigliari: nonostante avessero potuto misurare l’impegno e la
professionalità profusi in quei giorni, erano rimasti diffidenti, sospettosi, per
nulla collaborativi. La loro distanza dallo Stato si era manifestata, almeno
all’inizio, come sfiducia anche nei miei confronti, il che rendeva tutto più
difficile. È vero, alla fine si erano ricreduti e mi avevano anche mostrato
riconoscenza, ma ancora in quel modo che rispecchiava la loro visione della vita:
mi fecero recapitare da un carabiniere un Rolex Daytona del valore di diversi
milioni con un biglietto di ringraziamento. Rispedii indietro l’orologio, a mia
volta con un biglietto nel quale ricordavo loro che avevo fatto soltanto il mio
dovere. Non li ho più incontrati né sentiti.
Una parentesi e un’indagine fulminee, un successo che ricordo volentieri
almeno quanto le notti vissute tra fumo di sigarette e caramelle, ma che avevano
ben presto lasciato il posto ai processi in corso: un gorgo che mi aveva
riafferrato tra studio delle carte, tensioni in aula e colpi da parare fuori dall’aula.
Si avvicinava il 9 marzo, data di inizio del dibattimento “toghe sporche”, ed
era venuto il momento di presentare le liste dei testimoni. Quella stilata dalla
difesa di Berlusconi conteneva 1.654 nomi di magistrati, ossia un elenco
completo di quanti avevano prestato servizio nel distretto giudiziario di Roma tra
il 1986 e il 1989 e che avrebbero dovuto rispondere in aula a una domanda:
erano a conoscenza di episodi in cui Squillante si era prodigato a favore della
Fininvest o di altri imprenditori? A integrare l’elenco, numerosi personaggi di
spicco, tra cui gli alleati politici della Casa delle libertà, come Gianfranco Fini e
Pier Ferdinando Casini. La sterminata lista testi era pressoché identica a quelle
degli altri imputati, da Previti a Squillante, da Pacifico ad Acampora.
Un disegno evidentemente unitario, una compatta strategia dilatoria
confermata dai nuovi assetti dei collegi difensivi. Per esempio Gaetano
Pecorella, all’epoca deputato di Forza Italia nonché legale di Squillante, entrò a
far parte anche del team di Berlusconi. Una prima avvisaglia che nelle aule di
giustizia lo scontro sarebbe stato durissimo. Addirittura, tra i testimoni citati da
Previti comparivano anche i nomi dei pubblici ministeri del processo: Davigo,
Colombo, Greco e Boccassini.
Di ben altra qualità erano le nostre munizioni. Nella mia lista c’erano gli
agenti del Servizio centrale della polizia, che avevano lavorato sulle due
principali direttrici dell’inchiesta: l’analisi dei movimenti bancari e i
pedinamenti, i controlli, i contenuti delle intercettazioni.
Arrivò il 9 marzo. Prima di affrontare la questione delle testimonianze, i
giudici dovevano rispondere alla nostra richiesta perché fossero unificati in un
solo processo i tre filoni “toghe sporche”, Sme e Imi-Sir, quest’ultimo già fissato
per due mesi dopo, davanti a un’altra sezione del tribunale. L’istanza venne
respinta e cominciò così il calvario dei dibattimenti davanti a due collegi i quali,
a causa degli impegni veri o presunti degli imputati parlamentari, avrebbero
potuto tenere udienza – a turno, si badi bene – solo il venerdì e il lunedì,
raramente il sabato.
Nel frattempo proseguiva l’udienza preliminare per il Lodo Mondadori, che si
era conclusa il 19 giugno con una mazzata per l’accusa. Dopo tre ore e mezzo di
camera di consiglio, il giudice Lupo aveva deciso di prosciogliere tutti gli
imputati perché “il fatto non sussiste”. Il processo non s’ha da fare.
Non ero presente alla lettura del dispositivo. Data la mole di prove raccolte,
ero sicura che Lupo avrebbe deciso per il rinvio a giudizio, tanto che mi ero
regalata qualche giorno di vacanza a Ischia. Ero in spiaggia, leggevo una rivista
di moda mollemente adagiata sul lettino sotto il sole ormai estivo, quando era
squillato il cellulare. Dall’altra parte, la voce funerea di Gherardo aveva
farfugliato qualcosa che avevo inteso solo in parte. Gli avevo chiesto di ripetere
e lui, senza preamboli, aveva detto: “Abbiamo perso, tutti assolti con formula
piena”.
Come prima reazione mi arrabbiai con lui: “Se è uno scherzo è di cattivo
gusto!”. Ma Gherardo, con voce sempre flebile, disse che no, non era affatto uno
scherzo. Ancora incredula, telefonai al “mio” maresciallo, Daniele Spello, il
sottufficiale della guardia di finanza nel quale riponevo totale fiducia. Ma anche
a lui non restò che confermare, sconsolato: “Tutti assolti”. Davvero non riuscivo
a crederci: come aveva potuto il giudice non tenere conto delle prove che gli
avevamo consegnato? Della documentazione bancaria che già da sola avrebbe
meritato la verifica del dibattimento? Tornai di corsa a Milano.
In procura l’atmosfera era cupa. Nessuno di noi rilasciò dichiarazioni, anzi
restammo d’accordo di rimanere in silenzio fino al deposito delle motivazioni e
solo a quel punto avremmo deciso se presentare ricorso. Le motivazioni non
tardarono e, dopo averle lette, la procura depositò quaranta pagine assai critiche
sulle scelte del giudice. La Corte d’appello accolse i nostri rilievi, ribaltò la
sentenza di Lupo e rinviò a giudizio tutti gli imputati, a esclusione di Berlusconi.
La motivazione di questa eccezione aveva dell’incredibile: a Berlusconi erano
state concesse le attenuanti generiche (così che il reato era caduto in
prescrizione) perché al momento del processo era presidente del Consiglio.
Si determinò così la bizzarra circostanza per cui Berlusconi era diventato il
convitato di pietra nel processo, a fronte di un quadro accusatorio che lo vedeva
protagonista della guerra di Segrate, l’unico soggetto che aveva interesse a
ottenere con ogni mezzo il controllo della Mondadori, il creatore dei fondi neri
all’estero usati per comprare sentenze.
L’ultimo atto del 2000 – che rinfocolò le polemiche e gli attacchi nei miei
confronti – fu la riformulazione del capo d’imputazione nel processo “toghe
sporche”. Mossa peraltro anticipata alle difese nel corso delle udienze di giugno,
come sempre accompagnata da una copiosa documentazione, per l’esame della
quale gli avvocati chiesero un congruo periodo di tempo.
Il 17 novembre, dunque, venne ufficialmente contestato a Previti e Berlusconi
il versamento di mezzo miliardo a Renato Squillante, con una transazione tra
conti svizzeri, datata 1991. Come avevamo accertato per tabulas, il 5 aprile di
quell’anno, dal conto “Ferido” del Credit Suisse di Chiasso, nella disponibilità di
Berlusconi e alimentato con risorse extracontabili della Fininvest, era partito un
bonifico di 434.404 dollari a favore del conto “Mercier” presso la Darier
Hentsch di Ginevra, intestato a Cesare Previti. Lo stesso giorno, e dallo stesso
conto, un identico importo era stato girato sul conto “Rowena” di Renato
Squillante, presso la Sbt di Bellinzona.
Con la contestazione suppletiva, il reato per cui procedevamo diventava la
corruzione in atti giudiziari, dato che il periodo dei presunti illeciti veniva
spostato dal 1989 al 1991, portando la prescrizione a quindici anni. Non era una
nostra trovata per rilanciare il processo, né tanto meno – come gridavano certa
stampa e certa politica – un accanimento nei confronti dell’allora Cavaliere.
Semplicemente, quell’accusa non era stata già contestata perché i fatti accertati
arrivavano solo fino al 1989, cioè prima del debutto del nuovo reato. Con la
contestazione del bonifico dal conto “Ferido”, datato 1991, non avevamo fatto
altro che applicare il Codice riformato e, di conseguenza, chiedere la modifica
del capo di imputazione.
Berlusconi in persona non si lasciò sfuggire l’occasione di scagliarsi contro
l’ufficio. Paragonò la nostra scelta processuale all’arrivo della “cavalleria” delle
“toghe rosse”, utilizzata per eliminare dalla scena gli avversari politici. Si spinse
fino a invocare l’intervento del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, perché stigmatizzasse la persecuzione mirante “ad azzopparlo nella
corsa elettorale” proprio quando la sua vittoria era “già scritta nei sondaggi”.
Questo il mantra che ripeteva in ogni occasione, amplificato dall’eco dei suoi
aficionados e dal martellamento dei suoi media.
A parte la pressione che schiacciava la procura, la vicenda della contestazione
suppletiva segnò anche un’altra svolta nella mia vita personale: una grave
incomprensione con Gianni De Gennaro, che da pochi mesi il governo Amato
aveva scelto come capo della polizia.
Tutti gli amici di Gianni, me compresa, avevano accolto la notizia con grande
gioia. Una sera, a Roma, brindai a lui e a Giovanni durante una cena per pochi
intimi a casa di Liliana Ferraro, che fino alla fine aveva lavorato fianco a fianco
con Falcone al ministero. Una bella serata di chiacchiere, musica, persino
qualche ballo.
Finora non ho mai raccontato il duro contrasto che ebbi con Gianni, proprio
qualche giorno prima dell’udienza del 17 novembre, e ancora oggi faccio fatica a
parlarne. Il mio rapporto con De Gennaro è stato intenso, il suo ruolo nelle mie
scelte di vita dopo la morte di Giovanni è stato importante, gli volevo bene, lo
stimavo, anche perché sapevo quale affetto Giovanni nutrisse per lui. Per questo
in certi momenti molto delicati mi feci guidare dai suoi consigli e dalle sue
esortazioni.
Non era da meno il legame con Liliana Ferraro, cui mi accomunava l’affetto
per Falcone. Dal 1992 al 2009, Liliana e io siamo state inseparabili, pur vivendo
lei a Roma e io a Milano. Ogni volta che andavo nella Capitale, mi accoglieva
con amicizia nella sua casa, si prendeva cura di me e io l’aggiornavo sulle
difficoltà che dovevo affrontare. Accettavo i suoi consigli disinteressati,
compresi quelli che mi aiutavano a capire le dinamiche del sottobosco romano,
un intrico illeggibile per chi non abita e non lavora lì. In tutti quegli anni di
frequentazione, capitava spesso che con Liliana parlassimo di noi, della morte di
Giovanni, anche coinvolgendo i commensali che si alternavano a casa sua in via
di Sant’Eufemia e poi in via Cavour.
Fu proprio lei a telefonarmi quel venerdì 10 novembre 2000 per dirmi che De
Gennaro aveva urgente bisogno di parlarmi e che, per favore, andassi subito a
Roma. Allarmata, le chiesi se fosse successo qualcosa: mi rispose di non
preoccuparmi, ma dal suo tono di voce capii che quel viaggio a Roma era
improrogabile. Partii il prima possibile e, non appena ci vedemmo a casa sua, le
chiesi di nuovo cosa fosse accaduto. “Te lo dirà direttamente Gianni, sta per
arrivare,” mi rispose. Mi tranquillizzai e, nell’attesa, cominciammo a
chiacchierare del più e del meno come facevamo di solito. Quando Gianni
arrivò, erano ormai le 10 di sera.
Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa
stessi “combinando a Milano”, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato
a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che aveva in ogni occasione parlato loro bene
di me, garantendo sul fatto che fossi una persona corretta. Insomma, si era speso
per “evitarmi il peggio”. Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così
diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla
contestazione suppletiva che avrei depositato pochi giorni dopo al processo
Sme-“toghe sporche”.
Invece era proprio quella scadenza imminente – anzi, il tentativo di
neutralizzarla – che rendeva De Gennaro tanto aggressivo. A rincarare la dose,
aggiunse che gli era stato riferito che i miei colleghi del pool, compreso il capo
dell’ufficio Gerardo D’Ambrosio, erano favorevoli all’idea di non procedere alla
contestazione e che, infine, se io avessi rinunciato, anche Gherardo si sarebbe
adeguato. Stando così le cose, l’unico ostacolo ero io e per il bene di tutti dovevo
ripensarci, perché erano in gioco delicatissimi equilibri istituzionali.
Durante quell’intemerata, Liliana era rimasta in silenzio, ma dal suo imbarazzo
ricavai la netta sensazione che fosse già al corrente di quella manovra.
Non ho mai ricevuto un pugno nello stomaco, ma credo che l’effetto sia lo
stesso che provai incassando le parole di Gianni. Dopo il primo momento di
smarrimento, iniziò a montare dentro di me una rabbia feroce, mi sentivo tradita.
Non gli risposi, o meglio non argomentai una risposta alla sua perorazione in
favore di quanti mi aggredivano da anni. Gli vomitai addosso parolacce e insulti
mentre, infuriata, cercavo le mie cose e mi avviavo alla porta. Uscii, sbattendola
con tutta la forza che avevo.
Non sapevo dove andare, ormai era notte fonda, ero allo stesso tempo
furibonda e frastornata, non avevo con me denaro né telefono, perché
nell’agitazione avevo lasciato tutto a casa di Liliana. Ma non pensavo a questi
dettagli, mi bruciava troppo il voltafaccia di quel compagno di strada:
camminavo e piangevo per il dolore e la delusione della pugnalata ricevuta da
una mano più che amica. Di lì a pochissimo fui raggiunta da Liliana, che cercò
di calmarmi e mi riportò a casa. De Gennaro era già andato via e lei, pur
convenendo che Gianni aveva sbagliato a usare quei toni, cercò di convincermi
che il suo scopo era quello di proteggermi, di trovare una soluzione di
compromesso accettabile. Un tentativo inutile, nemmeno a mente più fredda mi
pareva ammissibile quella richiesta, quell’intervento su un processo.
La mattina dopo tornai a Milano con addosso tanta tristezza, la rabbia non del
tutto sbollita e molto su cui riflettere. Innanzitutto il pool: davvero, come aveva
insinuato Gianni, il nostro gruppo non era più compatto, c’era disapprovazione
nei miei confronti, così che mi trovavo a fare da parafulmine, isolata e
sovraesposta? Inoltre, De Gennaro era convinto dei cedimenti cui mi aveva
rudemente invitato o si era prestato al volere di altri, coinvolto perché persona
che poteva permettersi di parlarmi in quel modo, data la nostra amicizia e la
fiducia che ci legava?
Non potevo rispondere a nessuno dei quesiti che mi tormentavano e
comunque, come da programma, il 17 novembre depositammo la contestazione
suppletiva. E lo feci più convinta che mai, anche se percepivo che il muro di
protezione intorno a me cominciava a vacillare. Dopo la brutta esperienza
romana non potevo che andare avanti: meglio se in gruppo, ma anche da sola se
fosse stato necessario.
Nel 2001 Berlusconi vinse di nuovo le elezioni e, tornato a palazzo Chigi, fece
subito approvare dalla sua maggioranza la prima legge ad personam, che
dichiarava non utilizzabili le prove giunte dall’estero in risposta a una rogatoria
italiana, se non rispettando certi vincoli formali e burocratici.
Da mesi le difese facevano di tutto – anche sfiorando il ridicolo – per
convincere il tribunale a dichiarare nulle le carte che documentavano i
movimenti bancari svizzeri: perché mancava un numero di pagina, perché erano
fotocopie senza timbro di conformità, perché i documenti erano passati
direttamente dai giudici elvetici a quelli italiani senza transitare per il ministero
della Giustizia.
Istanze sempre respinte, ma una volta riconquistato palazzo Chigi, con il
pretesto di ratificare la convenzione italo-svizzera del 1998 sulla reciproca
assistenza giudiziaria (un passaggio dimenticato per tre anni dal precedente
governo di centro-sinistra), nell’ottobre 2001 la nuova maggioranza varò la
legge che stabiliva l’inutilizzabilità processuale degli atti inviati dalla
magistratura di un altro Paese se non autenticati con apposito timbro, se giunti
via telefax o allegati a una email, se consegnati brevi manu, in fotocopia o con
qualche vizio formale. E se anche l’imputato non avesse eccepito sul contenuto o
sull’autenticità, i documenti andavano comunque cestinati. Questa normativa, la
367/2001, violava ogni convenzione internazionale fino a quel momento
ratificata dall’Italia, nonché le prassi seguite da decenni in tutta Europa.
E sarebbe stata solo la prima delle leggi che miravano direttamente al cuore
dei procedimenti in corso, per vanificarli o allungarne a dismisura i tempi. Il
primo atto di quella vergognosa sequela di atti legislativi che sarebbe poi stata
giustamente definita come “difendersi dai processi” anziché difendersi nei
processi.
Penso che la spudoratezza con cui si cercava di neutralizzare il “problema”
delle rogatorie avesse colpito quella parte di opinione pubblica “affezionata” allo
Stato di diritto. Anche il cittadino più sprovveduto e ignaro delle tortuosità della
legge poteva intuire che quella normativa si sarebbe abbattuta come un maglio
sui processi in corso, affossandoli.
A parte queste difficoltà, ero anche intimamente delusa. Continuavo a
chiedermi, per esempio, come avesse potuto un uomo di diritto come Gaetano
Pecorella – conoscitore di convenzioni e trattati internazionali oltre che, in quel
periodo, presidente della Commissione giustizia della Camera – sostenere “per
ordine di scuderia” la necessità della nuova legge e addirittura salutarla come un
“atto di civiltà”.
Mentre ancora cercavo una ragione plausibile per un simile comportamento,
giunse l’articolata presa di posizione di Rudolf Wyn, vicedirettore dell’Ufficio
federale svizzero. Con un linguaggio stringato e tecnico, Wyn mise diversi
puntini sulle “i”, ribadendo l’originalità di tutta la documentazione fino a quel
momento inviata in Italia: innanzitutto gli imputati titolari dei conti avrebbero
potuto impugnare gli ordini di trasmissione; inoltre, come indicato dalla legge
elvetica, prima di consegnare i documenti all’autorità competente, le banche
avevano avvertito i clienti interessati e messo a loro disposizione ogni carta da
inviare a Milano. Il vicedirettore dell’Ufficio federale svizzero non mancò poi di
attestare ufficialmente che il materiale in questione era lo stesso acquisito presso
le banche, senza omettere né aggiungere un solo foglio.
Le due sezioni di tribunale emisero ordinanze ineccepibili, sancendo la
genuinità dei documenti acquisiti. Apriti cielo! Entrambi i collegi diventarono
bersaglio di critiche feroci, tanto quanto la procura, rea di aver richiesto
“illegittimamente” il parere della procura federale svizzera.
Mentre le polemiche divampavano, arrivò anche l’11 settembre con l’attacco
alle Torri gemelle e al Pentagono. Le immagini terribili degli aerei che
sfondavano i grattacieli di Manhattan, il crollo delle Torri, la fuga degli
scampati, le migliaia di vite mietute in pochi attimi turbarono le coscienze e
ancora oggi sono ferite non rimarginate.
Ma persino in quei frangenti di shock universale, il governo Berlusconi restò
concentrato sull’obiettivo, utilizzando addirittura i risvolti dell’immane tragedia
d’oltreoceano. Con il pretesto di recuperare uomini per fronteggiare il terrorismo
dell’Islam fanatico, d’accordo con tutti i ministri e con il beneplacito delle
opposizioni vennero ridimensionati, ridotti o cancellati diversi apparati di
sicurezza personale (vale la pena di ricordare che titolare dell’Interno era quel
Claudio Scajola che era riuscito a definire “un rompicoglioni” il professor Marco
Biagi che chiedeva disperatamente protezione e fu assassinato dalle Brigate
rosse nel marzo 2002).
Tra gli apparati aboliti o depotenziati, anche quelli assegnati ai magistrati. A
tutti i magistrati? Naturalmente no. Di sicuro la scorta venne tolta a me e venne
trasformata in una tutela ridotta, cioè un solo agente che mi avrebbe
accompagnata e che avrebbe dovuto vegliare sulla mia sicurezza.
In Italia le scorte sono sovrabbondanti, assegnate a politici, magistrati e
giornalisti che non sempre corrono reali pericoli. Da cittadina, quindi, ne ho
sempre auspicato un’assegnazione oculata e ragionata, ma i governi di ogni
colore che si sono succeduti hanno sempre agito con grande timidezza, senza
obiettività, più attenti a non scontentare gli interessati che ai problemi di
organico e di costi.
Anche per questo la decisione che mi riguardava riaccese la mia amarezza per
il sapore di vendetta che emanava e anche perché mi sentii abbandonata da
Gianni De Gennaro, che in cuor mio continuavo a considerare un amico,
nonostante lo scontro di qualche mese prima. Pensai che non aveva alzato un
dito per proteggermi e mi deluse il fatto che non si sentì in dovere di informarmi
personalmente. Forse non ne ebbe voglia o forse gli mancò il coraggio di
chiamarmi, anche solo per dirmi: “Ilda, ci ho provato, ma non c’è stato niente da
fare”. Mi sarebbe bastato. Ma, stati d’animo a parte, presi la decisione di
rinunciare anche alla tutela ridotta, pur consapevole dei rischi che correvo.
A prendere le difese mie e di Gherardo (anche a lui era stata revocata la tutela
minima di cui era dotato) fu ancora una volta Saverio Borrelli che, pur non
essendo più il capo dell’ufficio, convocò una conferenza stampa, nella sua stanza
di procuratore generale, e in quell’occasione pronunciò parole pesanti come
macigni:
Protesto ad altissima voce contro una decisione alla quale attribuiamo una motivazione e una valenza di
carattere squisitamente politico. Così facendo si è inteso sottolineare pubblicamente l’isolamento di un
piccolo gruppo di magistrati, evidentemente sgraditi al potere in carica rispetto alle altre istituzioni.
Sembra indiscutibile che certe decisioni assunte debbano collocarsi nel quadro di un’ostilità contro
magistrati che tengono alta la bandiera della legalità, senza timori e senza guardare in faccia nessuno.

A casa, faticai non poco a rasserenare i miei figli, assicurando loro che non
avrei commesso imprudenze e avrei limitato le uscite, in ogni caso sempre
accompagnata da amici. Effettivamente, mi adattai a vivere i momenti di svago
in casa, ridussi ulteriormente le occasioni di distrazione e leggerezza. Non che
fosse un grande sacrificio, perché da anni vivevo una vita privata a scartamento
ridotto e mi faceva bene essere circondata dall’affetto dei miei cari e dalla
solidarietà che potevo percepire.
Non avevo alcuna intenzione di accettare passivamente questa ennesima
angheria, stigmatizzata da Borrelli. Lo capì persino Giuliano Ferrara, sempre
assai ruvido nei miei confronti, che però in quel caso contestò duramente la
decisione di privarmi della scorta, dati i rischi che correvo, soprattutto per essere
stata a lungo indicata come accanita persecutrice e acerrima nemica
dell’amatissimo leader del centro-destra.
Così cominciò dalle pagine del “Foglio” una campagna di segno opposto alle
solite, per sollecitare il governo a tornare sui suoi passi. Da persona intelligente
quale è, Ferrara comprendeva l’azzardo cui si era esposto Berlusconi: quali
reazioni ci sarebbero state se mi fosse accaduto qualche episodio spiacevole (o
peggio)? Bastava un ceffone ricevuto per strada da un fanatico, proprio come
qualche anno dopo sarebbe accaduto al Cavaliere, quando gli era stata lanciata in
faccia una miniatura del Duomo. Alla luce del trattamento che “Il Foglio” mi
aveva riservato a lungo, penso tuttavia che il direttore temesse soprattutto la
crescita della mia popolarità, che avrebbe vanificato anni di martellamento per
convincere gli italiani che fossimo “toghe rosse” con la missione di abbattere
Berlusconi per via giudiziaria.
20.
Tra un rinvio e l’altro

Il 2001 fu l’anno della prima sentenza che confermava l’impianto accusatorio


nella vicenda Imi-Sir. Il 21 luglio Giovanni Acampora, che aveva chiesto il rito
abbreviato, venne condannato per corruzione in atti giudiziari a sei anni di
reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e dalla professione di
avvocato, al risarcimento di 1.000 miliardi di lire a favore dell’Imi nonché di 5
miliardi a vantaggio del ministero della Giustizia e della presidenza del
Consiglio, carica ricoperta da poco più di un mese da Silvio Berlusconi.
Con il Cavaliere, Acampora era coimputato nel processo per il Lodo
Mondadori e per conto della Fininvest aveva curato numerosi e importanti
dossier, come per esempio l’arbitrato con i francesi della Matra Hachette dopo il
fallimento della rete La Cinq. Aveva inoltre avuto rapporti con Rete Italia per
l’acquisizione di programmi televisivi, era stato consigliere d’amministrazione
della Netoc, la finanziaria lussemburghese che aveva rastrellato i pacchetti di
minoranza di Telepiù, e aveva infine curato gli interessi del Biscione nella
spagnola Telecinco.
In un tale groviglio di ruoli (per esempio Berlusconi era imputato ma anche
parte lesa in quanto premier), la condanna di Acampora in primo grado sanciva
che al tribunale di Roma la giustizia era in vendita come le verdure al mercato.
Dopo la sentenza, ai giornalisti che mi chiedevano un commento dichiarai che
ero sempre stata certa della fondatezza e attendibilità delle accuse perché
“sostenute da riscontri documentali” e che, se è vero che la sentenza premia il
lavoro della procura, “in questo caso incassiamo il premio con molta amarezza
per magistrati che si sono lasciati corrompere, colleghi che hanno sporcato la
toga di una giustizia in vendita. Tutto questo non umilia soltanto la magistratura,
ma scuote le basi di una democrazia”.
Quel po’ di soddisfazione (che comunque c’era) per l’esito del processo fu ben
presto sovrastato dalla notizia della morte di Carlo Giuliani, un ragazzo di
ventitré anni ucciso da un carabiniere nei violenti scontri scoppiati a Genova
durante il vertice del G8. Le immagini di quell’episodio mi lasciarono senza
fiato, anche se il peggio sarebbe arrivato il giorno dopo, con il brutale blitz della
polizia nella scuola Diaz, dove dormivano decine di giovani inermi su cui si
accanirono alcuni agenti dei reparti antisommossa. Quei pestaggi immotivati, lo
spettacolo indecoroso dei processi che ne erano seguiti tra silenzi omertosi, false
prove e depistaggi, restano una pagina vergognosa per il nostro Paese. Penso
anch’io, insieme a molti altri, che in quelle giornate di vent’anni fa la nostra
democrazia abbia paurosamente vacillato e che quell’esperienza traumatica
abbia contribuito a indebolire la fiducia nelle istituzioni almeno in una parte di
quella generazione.
Lo shock per i fatti di Genova ebbe anche un risvolto privato, perché fu molto
difficile contenere lo sgomento e la rabbia di mio figlio, allora poco meno che
trentenne, che ben conosceva i miei rapporti professionali con Francesco
Gratteri, Arnaldo La Barbera (entrambi nella catena di comando che ordinò di
perquisire la Diaz) e con il capo della polizia, Gianni De Gennaro. Non avevo
argomenti da spendere in quel momento né mi parve onesto fingere di non avere
i suoi stessi dubbi. Perciò mi limitai ad ascoltare in silenzio le parole di fuoco di
Antonio contro le forze dell’ordine.
Qualche mese dopo, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, il
procuratore D’Ambrosio decise di rafforzare il pool che indagava sul terrorismo,
ritenendolo giustamente un fronte caldissimo. Vennero avviati all’interno
dell’ufficio riflessioni e confronti su come organizzarci e, a seguito di incontri
con lo stesso D’Ambrosio e il coordinatore del dipartimento Enrico Pomarici,
accettai la proposta di far parte anche dell’Antiterrorismo, mantenendo
l’impegno nell’Antimafia.
Nel prendere quella decisione, tenni in conto il fatto che mi fosse stata appena
revocata la scorta, ma reputai in questo modo di dare una risposta forte – e per
una volta insieme all’ufficio intero – alle iniziative delegittimanti messe in atto
nei nostri confronti.
Nemmeno un simile susseguirsi di fatti da Genova a New York ebbe alcun
effetto sul fronte dei processi, dove intanto la conflittualità tra avvocati, imputati
e pubblici ministeri si faceva ogni giorno più acuta.
Provo a raccontare una giornata di udienza innanzi alla I sezione del tribunale
(Sme-“toghe sporche”) e alla IV (Imi-Sir e Lodo Mondadori). Entrambi i collegi
dovevano pronunciarsi sull’annullamento da parte della Cassazione di tre
ordinanze con le quali il giudice Rossato aveva ritenuto non legittimo
l’impedimento a presenziare addotto da alcuni imputati in fase preliminare.
Ovviamente i legali insistevano perché i giudici azzerassero tutto e riportassero i
processi alla fase precedente.
L’udienza del dibattimento “toghe sporche” era fissata per il primo ottobre e in
quell’occasione il collegio della I sezione avrebbe dovuto sciogliere la riserva.
Tutto era pronto, la presidente Luisa Ponti aveva già in mano il foglio, ma non
riuscì a leggerlo perché subito prima la difesa di Previti aveva presentato un
certificato medico che attestava l’impossibilità del parlamentare a essere
presente. Nuovo rinvio? Macché, troppo semplice...
L’ex ministro, “consapevole delle esigenze processuali”, aveva acconsentito
alla lettura dell’ordinanza che lo riguardava, ma al contempo si opponeva alla
prosecuzione dell’udienza. Feci opposizione a una richiesta tanto singolare. Il
collegio si ritirò nuovamente in camera di consiglio e respinse la richiesta: non è
prevista, nemmeno per l’onorevole Previti, una disponibilità part-time. A quel
punto chiesi la visita fiscale per accertare, come si fa normalmente, l’effettivo
impedimento dell’imputato. Altra camera di consiglio – che dispose la visita di
controllo – ma nulla da fare: non si trovava un medico disponibile a eseguire la
visita e la presidente fu perciò costretta a rinviare il processo all’8 ottobre. Chiesi
una data più vicina. Terza camera di consiglio: il collegio propose il 3 ottobre,
ma a quel punto insorsero gli avvocati, adducendo l’impossibilità a rinviare
“impegni fissati da tempo”.
La pazienza dei giudici era al limite. Quando mi alzai per presentare una
nuova istanza, venni bruscamente bloccata dalla presidente, che pronunciò la
frase di rito – “L’udienza è tolta” – uscendo subito dopo dall’aula.
Tra le tante udienze occupate dalle schermaglie procedurali senza che nel
merito si facesse un passo avanti, ricordo le lunghe attese nei corridoi, ad
aspettare le decisioni delle camere di consiglio che inevitabilmente si
susseguivano. Giornate snervanti, inconcludenti: altro che weekend fuori città o
passeggiate con le amiche! Era impossibile fare programmi, dato che le udienze
erano sempre di venerdì e a volte di sabato.
Nel mese di novembre, la sezione del processo Imi-Sir e Lodo Mondadori
stupì tutti. L’udienza era corsa tutta la mattina lungo il filo della massima
tensione. Finché, dopo l’ennesima richiesta di rinvio per motivi di salute
avanzata dalla difesa Previti, dopo un’ora di camera di consiglio i giudici
avevano emesso un’ordinanza che sospendeva i termini di prescrizione, sulla
base di una legge che per prassi veniva applicata con imputati di mafia detenuti.
L’interruzione della prescrizione era motivata dai numerosi rinvii che avevano di
fatto impedito al processo di decollare.
Questa decisione fruttò al presidente Paolo Carfì la quinta richiesta di
ricusazione da parte di Previti, basata come le altre sulla lamentata mancanza di
imparzialità e come tutte le altre respinta dalla Corte d’appello.
Ma il colpo di teatro principale, nel crescendo che ha segnato quei
dibattimenti, arrivò l’11 novembre. Quel giorno, in frontale polemica con i
giudici, Previti revocò la nomina dei suoi difensori, rinunciando in apparenza
allo scudo di quei fedeli professionisti che per un anno e mezzo erano riusciti a
rinviare, annacquare, dilatare i tempi. La scelta dell’imputato era illustrata in un
documento consegnato al presidente, poco meno di due pagine dal contenuto e
dai toni durissimi: “Il processo in corso costituisce lo strumento di
un’esecuzione di piazza studiata e programmata da anni e non ha nulla a che
vedere con un processo legale e legittimo. Poiché non mi sento di accomunare in
questo massacro della legalità i miei difensori, costringendoli a sopportare
ingiuste umiliazioni e torti che, credo, nessun avvocato abbia mai dovuto subire
nella sua vita professionale, e poiché non credo affatto che in questo processo
dal destino segnato conti qualcosa l’esercizio del diritto di difesa, che è stato
semplicemente soppresso, ho deciso di revocare il mandato”.
L’udienza fu sospesa per consentire la nomina di un difensore d’ufficio,
chiamando l’apposito call center dell’ordine degli avvocati, che garantisce in
automatico la tutela a chi non se la può permettere. I legali che si iscrivono alle
liste per le nomine d’ufficio sono per lo più professionisti alle prime armi. Non
faceva eccezione l’avvocatessa che per sua malasorte era di turno quel giorno.
Quando, dopo un lasso di tempo non breve, si presentò in aula, sembrava un
pulcino smarrito catapultato dal destino in quel marasma, e non poté fare altro
che chiedere un lungo rinvio per esaminare gli atti.
Fino a quel momento, il processo su una delle vicende più gravi della storia di
quegli anni, la corruzione di giudici, anziché marciare spedito verso la sentenza,
era incagliato tra richieste di rinvio, istanze di ricusazione dei giudici e di
astensione del pubblico ministero, eccezioni, ora anche la revoca degli avvocati,
per tacere delle liste testimoniali infinite e palesemente pretestuose. La difesa
Previti ne aveva presentata una monstre, di 4.776 persone, tra cui 361 soci della
Canottieri Lazio, 2.346 tra cancellieri e personale del palazzo di giustizia della
Capitale, 1.777 magistrati romani. La procura, al contrario, si era limitata a un
elenco di 136 testi. Risultato: al novembre 2001, dopo 18 mesi di dibattimento,
erano state celebrate 35 udienze e oltre 20 erano saltate.
L’anno era quasi al termine, ma non le sorprese. Come quella, clamorosa, che
arrivò intorno a metà dicembre. Lino Jannuzzi, socialista di antica militanza
nonché navigato columnist di “Panorama” (fidato settimanale berlusconiano),
aveva lanciato la sua bomba mediatica: “La settimana scorsa, in un albergo di
Lugano, sono stati visti in conciliabolo Elena Paciotti, parlamentare europeo
eletta come indipendente nelle liste dei Democratici di sinistra, Ilda Boccassini,
Carla Del Ponte e Carlos Castresana, procuratore anticorruzione di Madrid”. È
scontato, scriveva ancora Jannuzzi, “che i quattro di Lugano stanno collaborando
per trovare il modo di arrestare Berlusconi”. La notizia fu rilanciata con grande
risalto dal “Giornale”.
Fosse stata vera, oltre che allarmante quella notizia sarebbe stata a cinque
stelle. Due procuratori, uno italiano, l’altro spagnolo, sorpresi a cospirare
insieme a un parlamentare europeo, già presidente dell’Associazione magistrati,
e al procuratore del tribunale penale internazionale per azzoppare un capo di
governo legittimamente eletto: una rappresentazione plastica della congiura
giudiziaria contro Berlusconi.
Inutile dire che la notizia era completamente falsa. Per quanto mi riguarda, non
conoscevo Castresana, non vedevo Elena Paciotti da anni, non andavo a Lugano
da tempo e, per finire, il giorno della fantomatica riunione, Carla Del Ponte si
trovava in un’altra parte del mondo.
Resta da chiedersi come Jannuzzi, all’epoca senatore di Forza Italia,
giornalista militante, sicuramente non uno sprovveduto, si fosse lasciato mettere
nel sacco in questo modo, magari seguendo l’imbeccata di un mestatore. La
spiegazione, purtroppo, era semplice e sempre la stessa: l’articolo di “Panorama”
ripreso dal “Giornale” era solo l’ultimo atto di una strategia di condizionamento
di cui il presidente del Consiglio portava per intero la responsabilità politica.
Il 2001 si chiuse con l’acuirsi dei conflitti tra politica e magistratura. Il 17
novembre, il sottosegretario all’Interno Carlo Taormina chiese addirittura
l’arresto dei giudici di Milano, rei – a suo dire – di non aver cancellato le fonti di
prova documentali raccolte in Svizzera contro Berlusconi e Previti. Ancora, il 4
dicembre il ministro della Giustizia, il leghista Roberto Castelli, rivelò in Senato
l’esistenza di magistrati “che vogliono ribaltare per via giudiziaria il verdetto
politico” emesso dal Paese con il voto. Nello stesso giorno, la maggioranza di
centro-destra approvò al Senato una risoluzione che 143 giuristi italiani
avrebbero successivamente giudicato “un grave atto di intimidazione, perché
contiene un giudizio di merito su provvedimenti giurisdizionali”. Neanche a
dirlo, quei provvedimenti riguardavano i processi contro Berlusconi e Previti.
Insomma, i vari Taormina, Castelli, i senatori della Casa delle libertà,
“Panorama”, “il Giornale” lavoravano sodo per avvelenare l’opinione pubblica
seguendo le indicazioni apertamente impartite e ripetute in ogni momento da
Berlusconi, secondo il quale era in corso “una guerra civile scatenata da una
piccola parte della magistratura”.
La politica e l’informazione, degradate a ripetitori del pensiero elaborato
nell’interesse personale del presidente del Consiglio, tendevano a dimostrare
l’esistenza di fattori esterni che alteravano i processi, da cui la necessità di
spostarli altrove, gettando così le basi per quella che in termine tecnico si chiama
“remissione”, con due finalità piuttosto evidenti. Quella immediata: l’ambiente
politico-sociale di Milano è avvelenato e quindi gli imputati non vengono
giudicati con la necessaria serenità; quella a più lungo termine: arrivare a
correggere la Costituzione per ricondurre l’ordinamento giudiziario al controllo
di chi governa, quindi una struttura subalterna al circuito del potere esecutivo.
Quell’anno rimasi a Milano per le vacanze di Natale, peraltro ridotte all’osso.
Il calendario della I sezione penale prevedeva un’udienza il 30 dicembre, come
sempre concordata con le difese ma che, ovviamente, non si celebrò. Ero stanca,
preoccupata e anche impaurita dall’aria greve che si respirava. Per quanto
impegno e sforzi di fantasia ci mettessimo, non era facile prevedere l’andamento
di quei processi e troppo spesso, in aula, venivamo presi alla sprovvista,
eravamo costretti a improvvisare, senza riuscire a elaborare una strategia. Tutto
questo mi provocava ansia.
Nascondevo il mio stato d’animo con collane e orecchini talvolta vistosi: era il
mio modo per esorcizzare la fatica, lo stress, la paura di sbagliare e di un futuro
confuso oltre che buio. Per me gli accessori sono un piacevole vezzo: con la
bigiotteria e la chincaglieria colorata che ho raccolto nella mia vita potrei aprire
una rivendita. Non esco senza mettere un paio di orecchini, un gesto ormai
automatico, come indossare la biancheria. Collane, spille, bracciali, orecchini
sono divisi per colore dentro contenitori trasparenti così da avere la mercanzia in
bella mostra e sempre a portata di mano in camera da letto. Anche in quegli anni
così tormentati, non poche persone apprezzavano i miei accessori, tanto che in
diverse occasioni ho ricevuto opinioni gratificanti da qualcuno che mi fermava
non per esprimere solidarietà, ma per ammirare da vicino la collana che si
intravedeva dall’apertura della toga.
La scelta di agghindarsi, se così posso dire, con questi accessori che
spezzavano la tristezza della mia accidentata vita professionale era un modo
tutto mio di lanciare un messaggio: “Se pensate di piegarmi, di spegnermi, vi
sbagliate”.
Le vicende degli ultimi mesi, a cominciare dalla revoca della scorta,
provocarono l’indignazione di tanti cittadini, che volevano farmi sentire il loro
calore e la loro vicinanza. Per questo, credo, in quei mesi arrivarono, per lettera,
email e fax tanti attestati come questi:
2 gennaio 2002
Cara straordinaria dottoressa Boccassini, siamo con lei nella sua immensa solitudine e nella profonda
amarezza della nostra impotenza. Il suo coraggio è l’unico sostegno nello squasso di questi giorni. Che la
forza d’animo non le venga mai meno.

10 gennaio 2002
Ho sentito il bisogno, incoercibile, di manifestare la simpatia, la stima, il rispetto che le sue azioni
professionali e il suo stile hanno generato in me. Quello che mi ha fatto vincere la pigrizia a esprimermi
sono state una serie di inquadrature televisive che la riprendono sola, avvolta nella sua toga nera, mentre
tormentava la penna davanti allo spettacolo dei numerosi avvocati della difesa (diversamente da lei
sempre sorridenti) che parlavano di tutto tranne che dei fatti contestati. In quei momenti ho provato la
voglia di manifestarle la mia solidarietà. Mi sono messo nei suoi panni di fronte alle azioni, alle calunnie,
agli attacchi verbali violenti, continui, pretestuosi, gratuiti di una parte del mondo politico e istituzionale:
allora ho pensato ai sentimenti di amarezza, di solitudine, di rabbia, che mi avrebbero attanagliato. Io non
ce l’avrei fatta ad andare avanti. Ma io, fortunatamente per tutti, non sono lei.

Roma, 10 gennaio 2002


Leggiamo le cronache politiche che la vedono contrapporsi con determinazione e fatica all’arroganza del
potere e del denaro. Siamo donne più o meno della sua età e abbiamo condiviso idee ed esperienze di
politica femminista. Sentiamo una grande affinità con questo suo lavoro preciso, serrato, competente e
tenace. Riconosciamo in questa sua battaglia per la legalità molte delle modalità con cui anche noi
svolgiamo i nostri lavori anche se diversi dal suo. Vogliamo dirle che le siamo vicine e che apprezziamo
davvero molto quello che sta facendo.
Grazie!
Ricordiamo sempre che siamo metà del cielo e che potremmo cambiare in meglio i destini del mondo!

11 gennaio 2002
Desidero aggiungere il mio personale sostegno a tutti coloro che le hanno scritto per manifestarle
solidarietà e incoraggiamento nella vicenda processuale Sme. Capisco quanto debba essere duro resistere
al terribile ostruzionismo in corso. Tenga duro, lei rappresenta un faro per tutti coloro che in questo buio
continuano a sperare, in Italia e all’estero, che nel nostro Paese possa ancora esserci giustizia. Pensi ai
giovani nel difficile sforzo per compiere il suo dovere. Noi “vecchi” non possiamo deluderli.

11 gennaio 2002
La memoria di quanto ha fatto lei nella nostra città di Palermo ci riempie di gratitudine, quello che lei sta
facendo adesso di ammirazione e gratitudine infinita. Grazie, grazie, grazie.

14 gennaio 2002
[...] La ringrazio per il coraggio che da tempo la sorregge per poter rimanere in prima linea. La ringrazio
per quella sua sicurezza professionale che l’aiuta a non desistere davanti a ostacoli davvero
insormontabili. La ringrazio per quella sua sconfinata fiducia nella giustizia che aiuta anche noi a credere
nei valori, soprattutto la voglio ringraziare per quell’essere Donna che non si lascia piegare e sa porsi da
esempio innanzitutto ai giovani che saranno la società di domani e a noi onesti cittadini.
21.
La legge Cirami

Non mancarono tuttavia messaggi meno rassicuranti. Il più raccapricciante,


che ricordo con particolare disgusto, mi minacciava così: “Penso che le faremo
quest’anno il servizietto già riservato alla Franca Rame. PS. Attenzione ai
Ducato posteggiati”. Il riferimento era al fatto avvenuto nel 1973 all’attrice
Franca Rame, che era stata vittima di una violenza carnale da parte di esponenti
dell’estrema destra, una spaventosa ritorsione per il suo impegno civile e le
battaglie femministe condotte dal palcoscenico e nella vita quotidiana, accanto al
marito Dario Fo. Franca Rame fu sequestrata per strada, trascinata dentro un
furgone, per l’appunto un Fiat modello Ducato, stuprata e torturata da cinque
uomini e quindi rilasciata.
Ne rimasi sgomenta. Ero una donna, ero senza scorta, sovraesposta in un Paese
spaccato: da una parte il “popolo dei fax” che mi apprezzava, ma dall’altra,
penso più numerose, persone che mi detestavano, convinte che il mio impegno
fosse dettato dalla volontà di nuocere a un nemico personale, usando il Codice
penale. In questo contesto, l’aggressione a Franca Rame mi angosciava: in fondo
quale strumento viene da sempre usato contro le donne, se non quello della
violenza in ogni sua forma? La mia paura era più che fondata, e anche se non
l’ho mai confidata a nessuno, tanto meno ai miei figli, raramente uscivo da sola e
mai la sera.
Vivere così era un non vivere. Ma cosa potevo fare? Rinunciare ai processi,
arrendermi? Darla vinta a chi da anni mi aggrediva pubblicamente, senza il
minimo scrupolo? Questo pensiero mi faceva vacillare, ma poi arrivavo sempre
alla stessa conclusione: non potevo e non volevo tirarmi indietro.
Il 19 marzo le Nuove Brigate rosse assassinarono a Bologna il professor
Marco Biagi, giuslavorista, consulente dell’allora ministro del Welfare Roberto
Maroni nonché di Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione
europea. Da tempo Biagi si sentiva in pericolo, aveva paura per il modo in cui si
parlava della sua attività (stava studiando nuove norme di flessibilità del lavoro)
e insisteva per avere protezione, dopo aver ricevuto minacce dall’estremismo
armato di sinistra. Ma restò inascoltato e per gli assassini non fu difficile colpirlo
mentre tornava a casa in bicicletta.
Le reazioni dell’opinione pubblica furono di unanime condanna, amplificate
dalle gaffe del ministro dell’Interno Claudio Scajola, e così il governo decise di
ripristinare alcune scorte, tra cui la mia. Accolsi la notizia con sollievo, ma c’era
voluta la morte di un uomo perbene, che lo Stato avrebbe potuto salvare, per
costringere il ministro a tornare sui suoi passi, probabilmente solo per tacitare le
critiche piovute abbondanti sul governo.
Intanto Previti continuava a difendersi dal processo. In una puntata di Porta a
porta dal titolo “Cesare Previti, il processo Sme” interamente dedicata a lui,
l’imputato aveva annunciato la sua prossima mossa – la richiesta di remissione
del processo – in un contesto del tutto privo di contraddittorio, che gli consentì la
solita sequela di invettive contro i giudici di Milano. Tutto era dunque pronto e,
tv o non tv, l’istanza per far spostare il processo in un altro distretto venne
effettivamente presentata nell’udienza del 28 febbraio. Gli argomenti addotti da
Previti e Berlusconi, a cui si accodarono tutte le altre difese, erano risibili, a tratti
offensivi: spaziavano dal discorso di Borrelli, con il suo ormai famoso “resistere,
resistere, resistere”, al caso Trincale, un cantastorie da strada che strimpellava
stornelli antiberlusconiani, ai girotondi promossi da Nanni Moretti, cioè
manifestazioni spontanee di cittadini (peraltro avvenute per alcuni mesi in
diverse città) e amenità simili.
A maggio, la Corte di cassazione decideva di non decidere sulla remissione.
Chiamati a far da arbitro nel momento più alto dello scontro, i giudici delle
sezioni unite si cavarono d’impaccio uscendo alle otto di sera dalla camera di
consiglio per comunicare di aver accolto la richiesta dei legali del Cavaliere e
cioè che la patata bollente sulla sede dei processi Sme, Lodo Mondadori e Imi-
Sir passasse al vaglio della Consulta per stabilire se la remissione fosse
un’opzione alla portata delle difese o se fosse incostituzionale.
Su un punto di grande importanza per gli imputati, tuttavia, la Cassazione
aveva detto “no”: i processi sarebbero andati avanti fino alla decisione della
Consulta, con l’unico limite che non venisse pronunciata la sentenza.
Dopo nemmeno due mesi, a luglio venne presentato il disegno di legge Cirami,
dal nome del primo firmatario, Melchiorre Cirami. Già magistrato, eletto nel
2001 con la Casa delle libertà dopo un andirivieni tra gruppi politici, il suo
disegno di legge modificava i casi previsti per ottenere la remissione di un
processo.
In sintesi, veniva ripristinato il legittimo sospetto, in vigore fino al 1996 ma
poi dichiarato incostituzionale. Non solo: la nuova legge valeva per i
procedimenti in corso e – immancabilmente – nel momento in cui l’istanza di
remissione fosse stata presentata i dibattimenti dovevano essere sospesi. La
legge ad personam venne velocemente approvata dal Senato, anche se era piena
estate. Alla ripresa delle udienze, a settembre, in attesa dell’approvazione alla
Camera, cominciò un’affannosa corsa contro il tempo sia dei pubblici ministeri
sia degli imputati, con finalità ovviamente opposte. Noi cercavamo di accelerare,
gli altri di frenare ancora di più l’andamento del processo. Una partita che
potremmo riassumere così: avrebbe vinto chi si fosse alzato per primo dallo
scranno, il pm – io, in questo caso – per tenere la requisitoria al processo Imi-Sir
e Lodo Mondadori oppure l’imputato, avvocato onorevole Cesare Previti, per
chiedere la sospensione del processo.
Infatti, l’articolo 1 della legge prevedeva anche la sospensione obbligatoria se
il processo era arrivato alla fase delle conclusioni, come – guarda caso – l’Imi-
Sir e Lodo Mondadori.
Bisognava quindi preparare rapidamente la requisitoria, con le usuali
incombenze connesse – collazione dei documenti più importanti, stesura di
memorie corredate dalla documentazione per ricostruire le provviste di denaro e
rilettura delle testimonianze rese in dibattimento – per non farsi trovare
impreparati nel caso avessimo avuto l’opportunità di alzarci noi per primi.
Anche in quell’occasione ho avuto la fortuna di essere affiancata da una
persona fuori dal comune, con cui ho diviso le fatiche di quei lunghi anni. Sto
parlando del maresciallo Daniele Spello, che se n’è purtroppo andato a febbraio
2020, per un infarto, all’età di cinquantacinque anni. È stato un grande dolore,
Spello resterà per sempre nel mio cuore e – ne sono certa – anche nel ricordo di
quanti hanno avuto modo di apprezzare (o di temere) la sua genialità.
“Spellone”, come lo chiamavo facendolo sorridere, è stato l’esempio concreto di
come un servitore dello Stato, con umiltà e profondo senso del dovere, possa
onorare la divisa che indossa, così come aveva fatto il maresciallo Silvio
Novembre – anche lui della guardia di finanza –, il fidato collaboratore di
Giorgio Ambrosoli. Nessuno dei due sottufficiali ha ricevuto la considerazione
che avrebbe meritato da parte del corpo di appartenenza. Il mio Spellone non si è
mai abbassato ad adulare nessuno e per questo, pur essendo una mente geniale, è
sempre stato lasciato ai margini. Ma la sua potente memoria da archivista di alto
livello e la capacità di lucida sintesi dimostrata nel corso delle testimonianze rese
nei dibattimenti – un’intelligenza che ha più volte lasciato senza fiato giudici,
avvocati e imputati – resteranno nella storia giudiziaria del Paese.
Nel dibattimento Imi-Sir e Lodo Mondadori, gli imputati avevano a lungo
rinunciato a farsi interrogare. Ma alla ripresa delle udienze dopo la pausa estiva,
nella speranzosa attesa del varo definitivo della Cirami, la strategia cambiò e
l’esigenza di rendere la loro versione divenne di colpo irrinunciabile. In teoria, i
giudici avrebbero potuto negargliela, perché si erano decisi troppo tardi. Ma ne
sarebbero sorte nuove polemiche, cui avevamo già assistito anche con gesti
plateali delle difese come abbandonare l’aula e persino sfilare in corteo nei
corridoi. Perciò il collegio decise di procedere con l’esame degli imputati da
parte del pm e il controesame delle difese, aggiungendo così al carico di lavoro
già improbo l’ulteriore impegno di preparare gli interrogatori.
Non sarebbe stato facile, sia per la complessità degli argomenti da trattare, sia
per il profilo dei personaggi, Previti in particolare, che non avrebbe perso
l’occasione per trasformare l’aula di giustizia in una rabbiosa arena politica.
Dopo essermi confrontata con Gherardo, scegliemmo di preparare domande
mirate, circostanziate, che non lasciassero spazio ad argomenti non strettamente
processuali.
In aula Previti si mostrò per quello che era: un uomo abituato all’illegalismo
ad ampio spettro, talmente avvezzo all’opacità da non avvertire nemmeno più la
distanza dei suoi comportamenti dalla legalità e dalla trasparenza.
L’udienza dedicata al suo interrogatorio fu surriscaldata, per non dire rissosa,
punteggiata di ripetuti inviti alla calma da parte del presidente. Nel corso
dell’esame, io andavo avanti e indietro dalla mia postazione alla sedia di Previti
con i documenti da sottoporgli, per sollecitarne la memoria. Cosa che lo faceva
innervosire, a tratti infuriare, e io lo sapevo perfettamente. Eppure in
quell’occasione Previti fu sincero, quanto meno nella ringhiosa determinazione
con cui negava a chiunque in quell’aula il diritto di fargli domande, di insistere
per una risposta, di chiedergli addirittura di esibire un documento a sostegno
delle sue parole. Più volte disse, guardando i giudici con occhi di sfida: “A
questo non voglio rispondere... Questo non glielo dico... Sono affari miei... È
indegno che mi faccia questa domanda...”.
Altrettanto spavaldo fu il suo racconto dei metodi e dei mezzi illegali cui era
ricorso nella sua vita professionale, per evitare il fisco. Trovai autentico pure il
suo disprezzo per le regole, la magistratura, l’informazione, per qualsiasi forma
di controllo e per tutti coloro che vedeva come “aggressori” e “traditori”. Un
odio che non si curò di dissimulare, che anzi esibì con una palpabile ostilità nei
miei confronti, cioè per chi l’aveva costretto a sedere in quell’aula, gli aveva
imposto di interloquire, osando addirittura chiedergli spiegazioni su questo o
quel bonifico. Mantenermi calma non fu facile, ma ci riuscii, a parte in alcuni
momenti di tensione con gli avvocati.
Ad alzarsi per primo dallo scranno fu il pubblico ministero. Tra le mille
incertezze determinate dall’iter parlamentare della legge Cirami – lo scontro tra
la maggioranza e l’opposizione era al calor bianco – giunse infatti il giorno della
requisitoria. In quei mesi mi ero preparata a fondo, ma non solo: contrariamente
alla prassi avevo deciso di aprire la requisitoria con la richiesta delle pene
spiegando solo dopo le ragioni che le motivavano.
Il 19 ottobre 2002, alle 11.37, presi la parola e lessi subito le richieste di
condanna: 13 anni di reclusione per Cesare Previti e Attilio Pacifico, 13 anni e 6
mesi per il giudice Vittorio Metta, 10 anni per Silvio Berlusconi e Filippo Verde,
7 anni per Giovanni Acampora e Felice Rovelli, 4 anni per Primarosa Battistella,
vedova Rovelli. Seguirono le richieste di interdizione dai pubblici uffici e, per i
tre avvocati, anche dall’esercizio della professione per 5 anni, nonché il
sequestro di circa 42 miliardi di lire depositati in Liechtenstein e i conti di Previti
alle Bahamas.
Il fatto di aver iniziato con le richieste suscitò la protesta delle difese, che mi
accusarono di cercare un effetto mediatico. Le cose non stavano così e la ragione
della scelta era semplice: se, a causa di qualche nuovo ostacolo, non avessi
potuto svolgere per intero la requisitoria, avrei compendiato per iscritto, con le
memorie già pronte, le ragioni dell’accusa.
Quella mattina non ero affatto certa di poter iniziare a parlare, come non lo ero
di poter concludere. Perciò non avevo portato in aula le carte necessarie. Anzi,
per dirla tutta, ero così rassegnata al fatto che il processo sarebbe stato fermato
da qualche nuovo pretesto che avevo preventivato di non dover stare in piedi a
lungo; perciò avevo indossato un paio di stivaletti che mi andavano un po’ stretti
e che dopo poco avevano cominciato a farmi male. Così, alla fatidica frase del
presidente – “La parola al pubblico ministero” – dovetti chiedere una breve
sospensione per recuperare il materiale nel mio ufficio al quarto piano. Ma non
avrei certo potuto correre a casa per cambiare le scarpe!
Parlai per otto ore (ovviamente in piedi) tra fitte che si possono immaginare: la
sera avevo le gambe gonfie e a fatica riuscii a sfilare gli stivaletti. Come se non
bastasse, mi saltò anche l’appuntamento fisso dal parrucchiere: il 19 era pure un
sabato.
Le reazioni di Previti alla mia requisitoria furono scomposte e, come suo
solito, terminata l’udienza, appena fuori dall’aula non mancò di rilasciare
dichiarazioni di fuoco.
Il 5 novembre la Camera approvò in via definitiva il disegno di legge Cirami e
la legge venne firmata due giorni dopo dal presidente della Repubblica, Carlo
Azeglio Ciampi. Come previsto, i processi furono sospesi fino alla pronuncia
della Corte costituzionale, che avrebbe dovuto esprimersi sulla legittima
suspicione il successivo 29 gennaio.
22.
La malattia di Alice

Non meno difficoltoso fu l’andamento del dibattimento Sme-“toghe sporche”.


In quei mesi entrò in vigore – e quindi si abbatté sul processo – un’altra legge ad
personam sulla depenalizzazione dei reati fiscali. Perché, oltre che di corruzione
in atti giudiziari, Berlusconi era accusato anche di falso in bilancio. Anch’essa
varata in tempi record, la norma era operativa dal gennaio 2002, grazie al
decreto del guardasigilli, il leghista Roberto Castelli.
Nell’udienza del 26 ottobre 2002 il collegio decise di chiedere alla Corte di
giustizia europea se quella nuova legge fosse in linea con le direttive comunitarie
e, in attesa della decisione, sospese il processo, stralciando la posizione di Silvio
Berlusconi. Una decisione che costò al collegio la seconda richiesta di
ricusazione, perché le difese ritenevano l’iniziativa del tribunale
un’anticipazione di giudizio sfavorevole all’imputato. Argomenti risibili, ma
utili a rimescolare le carte, a confondere l’opinione pubblica, a turbare la serenità
dei giudici.
In meno di due anni, Berlusconi aveva così imposto tre leggi funzionali
soltanto a risolvere i suoi problemi giudiziari: quella sulle rogatorie
internazionali, quella sulla legittima suspicione e ora questa. Una deprecabile
torsione dei Codici e delle procedure che rischiava di mettere in ginocchio
l’insieme del sistema giudiziario italiano.
Il tentativo di piegare il diritto alle convenienze, di liquidare la legittimità di
chi applica la legge, di trasformare la giustizia in organo dipendente da un altro
potere, era stato arginato, quanto meno per il processo Imi-Sir e Lodo
Mondadori, perché ero riuscita a concludere la requisitoria e a chiedere le
condanne. Nonostante fossi preoccupata per il clima di tensione che ci
circondava, mi affacciai al nuovo anno con fiducia e ottimismo. Non potevo
immaginare che il 2003 sarebbe stato uno degli anni peggiori per me e per la mia
famiglia.
Dal punto di vista processuale, l’anno era cominciato bene, con la decisione
delle sezioni unite della Cassazione che non aveva ritenuto fondato il legittimo
sospetto. La Milano violenta, livida di rancore e rabbia descritta da Berlusconi e
Previti nelle loro istanze di remissione non esisteva nella realtà, era solo una
forzatura per spostare altrove il processo e ricominciare da capo. Quel ritratto di
città era stato giustamente considerato dai giudici una contraffazione della realtà
e così, nonostante la legge approvata ad hoc, le richieste erano state respinte.
Intanto Alice si era iscritta alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università
statale. Era contenta e aveva cominciato a studiare con impegno, ma notai in lei
dei cambiamenti che mi preoccuparono. Alice è sempre stata minuta, con un
fisico asciutto, esile, flessuoso, ben proporzionato. Nei primi mesi di quell’anno
cominciò a dimagrire visibilmente. Presi a controllarla da distante, senza dirle
nulla, temendo che potesse avere problemi con l’alimentazione anche se, almeno
all’apparenza, si nutriva normalmente.
A causa del dimagrimento, divenne più visibile un rigonfiamento alla base del
collo, una specie di pallina che si avvertiva bene alla palpazione, ma che
purtroppo – assorbita com’ero dal lavoro – all’inizio sottovalutai. Per scrupolo,
qualche tempo dopo fissai un appuntamento per sottoporla a un’ecografia e
mentre il medico stava ancora eseguendo l’esame cominciai a pensare che
qualcosa non andava. Infatti, prima di congedarci ci disse di fare subito un ago
aspirato per stabilire la natura di quel nodulo. Bastò quell’indicazione perché il
mondo ci crollasse addosso.
Ci precipitammo all’ospedale San Gerardo di Monza, dove Alice dovette
ripetere l’aspirazione, poiché la prima volta non era riuscita. Piangeva per il
dolore, consolata a fatica da me e dal padre perché anche noi riuscivamo a stento
a contenere l’angoscia. L’attesa del responso fu com’è ovvio estenuante e in quei
giorni sospesi convinsi Alberto a tenere per noi l’esito, nel caso fosse stato il
peggiore immaginabile.
La risposta fu quella che temevamo: Alice aveva un tumore alla tiroide. Per
una settimana sentimmo il parere di diversi specialisti, la maggior parte dei quali
ci consigliò l’intervento chirurgico per togliere la tiroide e la rete di linfonodi
vicini. Ci sembrava di impazzire, ma in quei momenti era necessario mantenere
il sangue freddo e soprattutto decidere con la propria testa senza farsi
condizionare dalle opinioni e i consigli delle persone care. Ognuna di loro, per
affetto, avrebbe interpellato altri medici, rintracciato persone colpite dallo stesso
male, dando vita a una confusa girandola di esperienze private e pareri che non
sarebbe stata di alcun aiuto, anzi.
Non avevo la forza di pensare al da farsi e allo stesso tempo le energie per
consolare mia madre o l’amica del cuore, per cui il silenzio diventò la mia arma
di difesa. Finché non decidemmo di affidarci alla sapienza di una sola persona:
Umberto Veronesi.
Borrelli lo conosceva personalmente e ci procurò un appuntamento in tempi
brevissimi. Ricordo l’incontro fra noi tre e Veronesi come un momento
rassicurante, grazie alla sua dolcezza, alla sua palese competenza, al suo modo di
prospettarci la situazione. Il professore si rivolse ad Alice con affetto,
spiegandole che era necessario rimuovere una parte della tiroide. Solo, su
richiesta di noi genitori e nonostante fosse contrario, non disse ad Alice che si
trattava di un tumore maligno.
L’intervento fu fissato per il 14 aprile. Anche se avrei tanto voluto, nemmeno
in quei mesi avevo potuto sottrarmi alle udienze e alle solite bagarre d’aula.
Perciò presi a nascondere il mio stato d’animo dietro una maschera di scostante
indifferenza, per evitare ogni domanda o conversazione indesiderata, e a celare
gli occhi arrossati dietro grandi occhiali scuri che non toglievo nemmeno in
udienza. Tutto questo contribuì ad alimentare il profilo di una Ilda scontrosa,
umorale, una donna di ghiaccio che non sorrideva mai, una persona dura, per
non dire spietata. Ma cosa potevo fare? Gridare “Sono triste, ho paura per la
salute di mia figlia, siate comprensivi”? Ovviamente no. L’unica possibilità che
sentivo di avere in quel momento era chiudermi e andare avanti stringendo i
denti.
Le armi usate nel processo, da Previti in particolare, divennero sempre più
insidiose, al punto da coinvolgere il ministro della Giustizia. Il 31 marzo,
l’imputato presentò un esposto al ministro Castelli, nel quale sosteneva che tra
gli atti in possesso della procura, ma non riversati nel processo Imi-Sir e Lodo
Mondadori, ce n’erano alcuni che lo avrebbero scagionato. In parole povere,
insinuò che i pubblici ministeri tenessero nascoste prove della sua innocenza.
Un’accusa gravissima. Il guardasigilli, dando prova di grande fedeltà al capo,
incaricò immediatamente gli ispettori di chiedere spiegazioni alla procura di
Milano.
In quel periodo, andato in pensione Gerardo D’Ambrosio, l’ufficio era retto
dal procuratore aggiunto più anziano, Ferdinando Vitiello. Un collega di
spessore ben diverso da quello dei predecessori e che infatti non si dimostrò in
grado di affrontare l’ennesima imboscata ordita nei palazzi romani. In quel
periodo, per me e Gherardo si fece più acuta la percezione di essere soli.
Arrivò il giorno dell’intervento. All’Istituto europeo oncologico (Ieo), mi recai
in accettazione mentre Alberto accompagnò Alice al reparto dov’era attesa dal
chirurgo e dalla sua équipe. Presi il numero e mi sedetti, aspettando il mio turno.
Intorno a me c’era tanta gente, in apprensione silenziosa quanto lo ero io. Pensai
che molti tra loro soffrivano di malattie serie o gravi e li sentivo vicini, li
abbracciai tutti con lo sguardo: quel giorno eravamo accomunati dal medesimo
destino.
Sbrigate le pratiche, salii al primo piano per raggiungere Alice e Alberto.
Avevano già cominciato a fare i prelievi di routine e lei, probabilmente a causa
dell’ansia, si era sentita mancare. La trovai aggrappata al padre, il faccino
bianco, smarrita, indifesa. Avevamo optato per una stanza singola, l’aiutai a
cambiarsi, si stese sul letto e dopo un po’ arrivò Veronesi che, con il suo sorriso
e la sua pacatezza, rese il clima più sereno.
Il primo problema da affrontare era il fatto che Alice non prendeva
l’ascensore, era uno spazio ristretto che non sopportava, ma le sale operatorie
erano a un piano diverso. Cominciò a piangere e per fortuna ci venne in soccorso
lo spirito pratico di Veronesi: la ragazza sarebbe andata con le proprie gambe al
piano delle sale operatorie e, dopo l’intervento e le ore di osservazione, sarebbe
tornata in reparto sulla sedia a rotelle, sostenuta a braccia dal personale dello Ieo
per superare la rampa di scala mobile, con l’aiuto di Sante e Michele, i miei
angeli custodi, rimasti con me in ospedale insieme a Sabrina, l’agente di scorta
per anni al mio fianco.
Impossibile descrivere il mio stato d’animo quando salutai Alice che
scompariva dietro la porta dell’area operatoria. Non riesco ancora oggi a
raccontare quegli attimi di angoscia senza riviverli. L’attesa per rivederla durò
quasi cinque ore, tra preparazione, intervento vero e proprio, fase del risveglio.
Con Alberto e Sabrina, che aveva visto crescere Alice e che ora si teneva in
disparte con gli occhi lucidi, rimanemmo tutto il tempo nel corridoio,
passeggiando avanti e indietro, senza allontanarci neanche per andare in bagno o
fumare una sigaretta. Avevo anche spento il cellulare, non volevo essere distratta
né perdere tempo a rispondere a famigliari e amici, che sapevo in ansia come
noi, né tanto meno a beghe di lavoro. Lo accendevo solo per aggiornare Antonio.
Finalmente ci raggiunse Veronesi: l’operazione era andata bene. Come previsto,
erano stati asportati solo parte della tiroide e alcuni linfonodi già compromessi.
Dopo altre due ore riabbracciammo la nostra bambina.
Nel pomeriggio, riacceso il cellulare, trovai diverse chiamate di Gherardo e
quando Alice, di nuovo in camera, si assopì, mi allontanai per richiamarlo.
Ovviamente per prima cosa mi chiese notizie dell’intervento, ma poi, quasi
vergognandosi di parlarne in un momento per me così delicato, aggiunse che la
relazione, che aveva predisposto in mia assenza, per il ministro Castelli era stata
giudicata insufficiente e l’ispettorato ne chiedeva un supplemento. Insomma,
Gherardo avrebbe voluto che lo aiutassi a redigere la nuova risposta: richiesta
più che comprensibile, dato che avevo seguito nel dettaglio l’andamento dei
processi. Ma non volevo nemmeno staccarmi da Alice, perciò gli chiesi di farmi
avere allo Ieo il materiale necessario e quella notte, mentre vegliavo su mia
figlia, lavorai alla bozza del documento.
La nuova richiesta del ministro, immotivata e pretestuosa quanto la prima,
tutto sommato mi aiutò a distogliere il pensiero dalla malattia di Alice, anche se
quella notte non riuscii comunque a chiudere occhio.
Non è stato facile, anche negli anni successivi, allontanare l’immagine di mia
figlia in quel letto d’ospedale. Ripensando a quella notte, non potevo fare a
meno di sentire la stessa angoscia e ricordare le parole feroci del Cavaliere
quando, per insultare me e i miei colleghi, non esitava a evocare la malattia
definendoci “metastasi” e “cancro della democrazia”, oltretutto ispirando le
maledizioni anonime che ricevevo di continuo.
Ma di quei giorni conservo anche il ricordo dell’abbraccio caldo di Francesca,
l’amica di sempre, volata a Milano da Bruxelles per starmi vicina. E la presenza
di Peppe D’Avanzo, comparso nell’atrio dell’ospedale con un gran mazzo di
fiori per Alice, proprio il giorno dell’intervento.
Così, tra la convalescenza di mia figlia e le udienze sempre incandescenti,
arrivò il 29 aprile, giorno della sentenza Imi-Sir e Lodo Mondadori.
23.
Condannati

Nella tarda serata del 29 aprile, il presidente Paolo Carfì, con accanto i giudici
della IV sezione, Maria Luisa Balzarotti ed Enrico Consolandi, lesse il
dispositivo della sentenza. Guardando la fotografia pubblicata da tutti i
quotidiani, in cui i tre giudici erano ritratti in piedi, Carfì con i fogli in mano e,
sopra le loro teste, la scritta “La legge è uguale per tutti”, mi veniva da sorridere.
Non per la condanna, ma per il fatto che avevamo portato a termine un processo
tormentato, difficilissimo ed eravamo approdati a una sentenza nel rispetto di
quella frase.
Fino alla fine era rimasta in dubbio la possibilità di celebrare il processo e il
fatto stesso che dopo quasi tre anni il collegio potesse leggere la sentenza
costituiva per me la vera vittoria al di là del merito della decisione. In tutto quel
lunghissimo periodo ci eravamo battuti per dimostrare la colpevolezza degli
imputati – certo – ma anche per difendere la legittimità del nostro lavoro, il
diritto della magistratura a raccogliere le prove, a celebrare un processo
affrontando il contraddittorio tra le parti. A dirlo oggi sembra tutto scontato, ma
in quegli anni bui, in cui il diritto veniva preso a schiaffi – e noi con esso –, la
certezza del traguardo era stata conquistata solo negli ultimi metri, dopo una
gara segnata dalle scorrettezze.
Mentre il presidente leggeva la sentenza, non riuscivo a concentrarmi sulle
condanne che stava elencando, faticavo a distinguere le parole, come stordita da
un solo pensiero: chi aveva voluto aggredire e delegittimare la funzione
giudiziaria dello Stato non aveva vinto; chi si era illuso che una donna non
sarebbe stata in grado di superare gli ostacoli e le difficoltà disseminati sul
percorso non aveva vinto. “Ilda la rossa” ce l’aveva fatta, con le sue fragilità, la
sua ostinazione, il suo coraggio da incosciente. Aveva resistito come l’agave.
Nel 2006 e poi nel 2007 la Suprema corte avrebbe dichiarato definitiva la
sentenza per le vicende Imi-Sir e Lodo Mondadori, confermando le condanne
inflitte a Previti, Pacifico, Acampora e Metta e assolvendo, in relazione alle
vicende Imi-Sir, Squillante, la vedova Rovelli e il figlio Felice.
Anche il dibattimento innanzi alla I sezione era ormai alle battute finali. Il 18
aprile il presidente del Consiglio aveva fatto una fuggevole comparsa in aula,
rimanendovi solo pochi minuti. Nei mesi precedenti erano state più volte
annunciate le sue dichiarazioni spontanee e l’attesa creata ad arte era notevole.
Chissà cosa avrebbe detto di tanto eclatante da convincere il collegio delle sue
ragioni... Dopo circa un mese, il 5 maggio, Berlusconi si ripresentò in aula e
stavolta parlò, a braccio, per circa un’ora.
Non mi è piaciuto, quel 5 maggio. È stata, a mio avviso, una giornata segnata
da una caduta di stile della magistratura milanese. Per l’audizione di Berlusconi,
il collegio aveva deciso di tenere udienza in aula magna. Per la prima volta nella
storia del palazzo di giustizia di Milano, veniva concessa a un imputato la
sacralità dello spazio dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario o alla
commemorazione dei colleghi uccisi dal terrorismo e dalla mafia. La scelta era
stata fatta dai vertici del palazzo senza interpellare la procura e, non appena ne
venimmo a conoscenza, Gherardo e io ci trovammo d’accordo nel criticare quel
gesto di debolezza verso un potente che veniva lì per essere processato.
Quel giorno la confusione era quasi ingovernabile: pubblico numerosissimo,
cittadini curiosi, fan del presidente, avvocati al gran completo, tanti giornalisti.
Date le dimensioni dell’aula magna, tra il banco dei giudici, gli scranni del pm e
quelli degli avvocati c’era una distanza esagerata, in una scenografia surreale
nella quale bisognava parlare a voce altissima per potersi sentire superando il
brusio di centinaia di persone. Un di più di difficoltà e di disagio che mi irritò
non poco.
Anche per stemperare la tensione, avevo scelto con cura dalla mia collezione
la collana da indossare: una vistosa due fili di corallo rosa, molto bella, e un paio
di orecchini di corallo di Sciacca. Per tutto il tempo dello show di Berlusconi
pensai a come spezzare quella situazione di vantaggio, non tanto per i risibili
argomenti portati a sua difesa, ma per quel suo avere campo libero, senza che si
potesse sentire anche la voce dello Stato in un frangente mediaticamente tanto
amplificato. Berlusconi non si era fatto interrogare e le dichiarazioni spontanee
di un imputato non consentono il contraddittorio, ma non potevo permettere che
quel giorno avesse lui l’ultima parola. Così, quando ebbe terminato di parlare,
mi alzai improvvisamente ed esclamai: “Presidente!”. Non avevo iniziato per
caso con quell’appellativo: in quell’aula, di presidenti ce n’erano due e
approfittando della perplessità della presidente Ponti – che, ritenendo mi stessi
rivolgendo a lei, si dispose ad ascoltarmi – continuai tutto d’un fiato fissando
Berlusconi: “Presidente, vuole cogliere l’occasione per aggiungere, a sua difesa,
qualche spiegazione sulle dichiarazioni dei suoi collaboratori a proposito dei
fondi neri accumulati all’estero dalle sue aziende?”.
Nessuno si aspettava quella domanda irrituale, cortese nel tono, ma per
Berlusconi urticante nella sostanza. E ne rimase spiazzato. Ero certa che sarebbe
caduto nella provocazione, difatti fece per rispondermi, piccato dalla mia
sfrontatezza, ma fu immediatamente bloccato dai suoi difensori, Ghedini e
Pecorella: rivolti ai giudici dissero che purtroppo il presidente doveva andare,
richiamato dai suoi impegni istituzionali. Scuro in volto, per una volta
Berlusconi obbedì ai suoi legali e uscì in fretta seguito dal solito codazzo di
assistenti, guardie del corpo e giornalisti. Ma per me andava bene così, perché la
mia domanda, la reazione stizzita dell’imputato e l’affannarsi degli avvocati per
contenerla avevano riportato l’udienza su un piano di parità, quanto meno
mediatico.
Ero certa di aver fatto la cosa giusta e ne ebbi conferma da alcune lettere ed
email ricevute subito dopo. Una mi arrivò il giorno stesso dell’udienza: “Cara
Ilda, ci tenevo a dirti che la tua domanda di oggi al processo è stata grande! Ne è
valsa la pena. Lui era in netta difficoltà e stava per dire una cazzata. Sono
intervenuti prontamente per fermarlo. Ancora grazie per tutto questo. Baci”. Era
firmata da una sconosciuta.
Per gli impegni “improcrastinabili legati al suo ruolo istituzionale” Berlusconi
non si presentò più in udienza e, comunque, pochi giorni dopo il tribunale separò
la sua posizione da quella degli altri imputati, proprio mentre iniziava l’iter
parlamentare dell’ennesima legge blocca-processi, ovviamente ad personam. La
nuova normativa prevedeva che le cinque più alte cariche dello Stato –
presidente della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio, della Corte
costituzionale – non avrebbero potuto subire processi nel corso del loro mandato.
Iniziai la requisitoria del processo Sme-“toghe sporche” il 23 maggio 2003,
proprio il giorno dell’undicesimo anniversario della morte di Giovanni, e la
conclusi il 30 maggio, chiedendo la condanna degli imputati. Con l’usuale
tempismo, lo stesso giorno arrivarono in procura gli ispettori del ministero,
inviati dal ministro Castelli. Ero stanca, avevo appena terminato di parlare e
perciò decisi di trascorrere un weekend a Sarzana, ospite di Lilia Fredella, una
cara amica in servizio nella cittadina ligure come dirigente del commissariato.
Riuscii, almeno per un po’, a scrollarmi di dosso la tensione chiacchierando,
leggendo, prendendo il sole e mangiando dell’ottimo pesce.
Tornata a Milano, insieme a Gherardo mettemmo mano alla relazione da
consegnare agli ispettori Ciro Monsurrò e Arcibaldo Miller, due colleghi che non
guadagnarono la mia stima, tanto forte era la sensazione che operassero al
servizio del potere.
Come se non bastasse, era stato fissato per il 4 giugno l’incontro per niente
gradito con gli inviati da via Arenula, tanto che con Gherardo decidemmo di
liquidarli senza perdere troppo tempo: “Consegniamo la nota di risposta
richiesta, corredata da allegati, a nostro avviso tempestiva ed esauriente in
relazione al contenuto dell’inchiesta. Riteniamo che questa memoria scritta sia
completamente esaustiva”. Mantenere un atteggiamento distaccato verso quei
due colleghi mi costò parecchio, perché avvertivo il forte desiderio di dire loro in
faccia ciò che pensavo. Ma non volevo mostrarmi agitata o impaurita per
l’iniziativa del ministro. Speravo che percepissero la disistima che nutrivo per
loro e per quel prestarsi ad azioni del genere senza un soprassalto di orgoglio
professionale. In fondo erano magistrati, anche se temporaneamente prestati alla
burocrazia.
Il 18 giugno, la norma blocca-processi venne votata anche dalla Camera e
diventò legge, “congelando” la posizione processuale di Berlusconi fino a
quando non avesse lasciato palazzo Chigi. Ritenendo questa limitazione di
dubbia costituzionalità, una settimana dopo chiedemmo in udienza che su
quell’obbrobrio si pronunciasse la Consulta. Il tribunale giudicò fondata la
richiesta e di conseguenza sospese il processo in attesa del responso definitivo. Il
“Lodo Schifani” – così ribattezzato dai media, dal nome del suo promotore,
Renato Schifani, fedelissimo senatore di Forza Italia – sarebbe stato giudicato
incostituzionale e quindi bocciato nel gennaio 2004.
In una ennesima puntata di questa telenovela giudiziaria, nell’aprile dello
stesso anno iniziò il processo-stralcio nei confronti di Berlusconi, davanti a un
nuovo collegio presieduto da Francesco Castellano. Alla prima udienza, il 16
aprile, accusa e parti civili chiesero l’astensione del presidente che, in
concomitanza con l’inizio del processo, aveva lasciato trasparire in alcune
interviste la sua propensione verso la parte politica dell’imputato.
Il collegio respinse la richiesta e, nel dicembre 2004, Berlusconi fu assolto con
formula piena per entrambi i capi di imputazione. L’imprenditore che aveva
scalato due imperi economici (Sme e Mondadori) grazie all’attività criminale dei
Previti, dei Pacifico, degli Acampora e alla corruzione dei magistrati Squillante e
Metta era riuscito a sfuggire alla giustizia sfruttando il potere connaturato alla
carica istituzionale ricoperta per guidare il Paese. Mi auguro che su questa verità
storica riflettano a fondo le generazioni future.
Dopo la mia requisitoria, al processo Sme-stralcio parlarono le parti civili e
vennero infine le arringhe dei difensori. Ma poco prima della pausa estiva –
ormai era luglio –, arrivò un altro siluro. Stavolta lanciato da Brescia: la
procura, retta da Giancarlo Tarquini, aveva avviato un’indagine penale contro
me e Gherardo per abuso d’ufficio.
Un tentativo grottesco. Ma devo darne conto per rendere l’idea della spossante
sequenza di mosse che aveva un solo protagonista, Cesare Previti, molti
comprimari e l’obiettivo esplicito di fermare in tutti i modi il processo Sme,
ormai prossimo a sentenza.
Il 4 luglio, un avvocato di Perugia, tal Giacomo Borrione, presidente di un
“Comitato nazionale per la giustizia”, aveva sporto denuncia contro me e
Gherardo per la gestione del fascicolo da cui erano nati i vari processi. Nel suo
esposto, Borrione sosteneva che “la sua iniziativa era tecnico-giuridica e non
certo politica”, anche se aveva dimenticato di specificare la sua carica di
dirigente regionale di Forza Italia e, precisamente, di responsabile dei problemi
della giustizia per il partito in Umbria.
L’avvocato aveva raccolto in modo grossolano le accuse più volte ripetute da
Previti, rilanciate dai suoi amici parlamentari e amplificate dai giornali di
quell’area, concludendo in una striminzita paginetta che “la condotta dei
pubblici ministeri titolari dell’indagine integrava estremi di reato”. Dall’analisi
della tempistica di questo episodio, sembra che la procura di Brescia non
aspettasse altro: il 9 luglio, cinque giorni dopo l’iniziativa del pasdaran di Forza
Italia, era stato protocollato l’esposto e il 10 luglio eravamo già iscritti nel
registro degli indagati. I colleghi bresciani non ci avevano messo tanto a valutare
il livello minimo di attendibilità della denuncia e nemmeno – com’è d’uso,
logico e pure d’obbligo – a verificare l’identità del firmatario. Tarquini chiese
tutti gli atti dei nostri processi e delegò ben tre colleghi per esaminare i fascicoli
e indagare sul nostro operato. Evidentemente il carico di lavoro del suo ufficio
non era esorbitante oppure, se lo era, venne accantonato per occuparsi di ombre
e complotti. Fatto sta che i colleghi bresciani ebbero il tempo di disporre anche
l’audizione di una marea di testimoni per arrivare a novembre a chiedere
l’archiviazione.
Circondati su tre fronti – indagati a Brescia, sotto ispezione del ministro
Castelli e oggetto dell’azione disciplinare da parte della procura generale della
Cassazione –, Gherardo e io continuavamo a partecipare anche al balletto delle
udienze, in attesa della sentenza. Dimenticavo, ero anche indagata dalla procura
di Perugia, a seguito di un esposto presentato da due signori non proprio
sconosciuti: Renato Squillante e Cesare Previti.
Dato l’attivismo frenetico degli inquirenti bresciani, temevamo anche azioni
invasive, come una perquisizione domiciliare. Una possibilità per niente remota
che mi metteva in agitazione, soprattutto perché Alice non stava ancora bene,
doveva sottoporsi a frequenti controlli dopo l’intervento per il quale era ancora
sotto shock e aveva bisogno di essere rassicurata sul suo futuro. Come avrebbe
reagito se la polizia avesse bussato a casa nostra per una perquisizione? Il suo
equilibrio ancora fragile ne avrebbe risentito, per non parlare della prevedibile
reazione di sconcerto di Antonio.
Fantasie? Non proprio, visto che la procura di Perugia aveva già inviato la
guardia di finanza a perquisire il mio ufficio e fatto sequestrare come possibile
corpo di reato una radio con lettore di musicassette che tenevo in bella vista sulla
scrivania. L’ipotesi perugina era che avessi usato quella radio per manipolare le
intercettazioni ambientali captate tra Renato Squillante e il collega Francesco
Misiani! Invece era lo stesso apparecchio che mi teneva compagnia a
Caltanissetta, dove ascoltavo fino alla noia la canzone di Dalla, con la sua
ragazza dagli “occhi verdi come il mare”.
La situazione diventò addirittura parossistica quando al povero maresciallo
Spello cadde malauguratamente in terra, e si spezzò in due, il cd con la
registrazione delle conversazioni tra Squillante e Misiani, ritenuto dai difensori il
supporto originale. Apriti cielo! Previti, Berlusconi e gli avvocati gridarono allo
scandalo, additarono la presunta opacità della nostra azione, parlarono di
manipolazione delle prove e fummo accusati di ogni nefandezza. Il maresciallo
Spello, disperato, ne fece una malattia. La violenza delle calunnie era tale che
decidemmo di tutelarci instaurando una vertenza civile per danni davanti al
tribunale di Brescia. Una causa che anni dopo avremmo vinto.
24.
Il caimano

Si avvicinava l’estate del 2003. Alice, ancora debole, non se la sentiva di


andare in viaggio con gli amici e preferì venire a Ischia con me. Partimmo a
inizio agosto, mia madre, che viveva a Napoli, ci aspettava sull’isola ansiosa di
riabbracciare la nipote. Il primo weekend in cui mi fu possibile, andai a Capri da
Silvana, mia cara amica fin dai tempi delle elementari. Avevo voglia di vederla e
di trascorrere qualche giorno con lei.
Feci in tempo a stare lì una sola notte, perché la mattina successiva mi telefonò
mio fratello Momo: nostra madre aveva avuto un ictus ed era ricoverata
all’ospedale Rizzoli di Lacco Ameno. Presi il primo aliscafo per tornare a Ischia,
corsi all’ospedale. I medici dissero subito che la situazione era molto grave, che
mamma non era trasportabile e che le prospettive non erano confortanti,
nonostante avesse solo settantasette anni: siccome l’ictus aveva colpito la parte
destra del cervello, non parlava e non si muoveva. Noi fratelli eravamo disperati,
improvvisamente veniva a mancare la persona che era sempre stata un punto di
riferimento, l’appiglio cui aggrapparsi nei momenti difficili. La sua bellezza
mediterranea, mutata con gli anni ma rimasta inalterata, si era come pietrificata
in una smorfia inespressiva.
Per tutto agosto, mamma rimase in ospedale. Poi, in ambulanza, fu trasferita
prima all’istituto Besta di Milano, dove venne curata per quanto possibile, e
dopo alla clinica Maugeri di Pavia, per la riabilitazione, ma fu inutile, perché
mamma non riacquistò più la parola né l’uso delle gambe.
La sua definitiva invalidità fu una realtà difficile da accettare. Non solo era
costretta a letto o sulla sedia a rotelle senza poter parlare, ma continuava a
mostrare una lucidità sufficiente per capire cosa le era successo e a subire,
impotente, lo stato in cui si trovava. Alla sua sofferenza si sommava quella di
noi figli, sotto shock per mesi. Mamma, bisognosa di continue cure mediche e
non più autosufficiente, non poteva certo tornare a vivere a Napoli. Ricoverarla
in una casa di cura fu una scelta inevitabile anche se, nella tragedia, arrivò un
primo segnale di speranza, con l’individuazione di una struttura adatta, proprio a
metà strada tra il palazzo di giustizia e la mia abitazione. Mia madre restò
ricoverata lì finché nell’ottobre 2006 si spense tra le lacrime mie e dei miei figli,
riuniti accanto al suo letto, mano nella mano.
Per tre anni sono andata da lei tre volte al giorno, la imboccavo, le facevo
compagnia e, per quanto possibile, partecipavo alla vita sociale della casa di
cura, comprese le festicciole organizzate dagli animatori. In quel periodo,
assieme alla professionalità e alla dedizione del personale medico e paramedico,
ho scoperto l’importanza di quanti si dedicano al volontariato. Da loro ho
appreso il significato degli sguardi con cui mamma chiedeva aiuto e anche ad
accettare la sua paura, che a volte era anche la mia. Credo che quei lunghi anni
mi abbiano cambiato, abbiano costituito un salto di qualità nella mia esistenza,
grazie a una lezione che non è possibile apprendere altrimenti.
Convivo da allora con il senso di colpa per aver ricoverato mamma in una
struttura anziché tenerla in casa e prendermene cura personalmente. Ma non me
la sono sentita di organizzare un miniospedale domestico, e magari dover
chiamare l’ambulanza per un ricovero urgente. Non sono stata in grado di
reggere psicologicamente una gestione casalinga, non mi sentivo abbastanza
forte per stare accanto alla sofferenza e alla morte che si avvicinava. Se penso a
lei rivedo solo il suo sorriso solare. E se penso alla sua morte, non posso fare a
meno di immaginare la mia: vorrei poter morire nel mio letto, senza patire mesi
o anni, vorrei addormentarmi senza svegliarmi più. E non solo per me, ma anche
per evitare ai miei cari il peso di starmi accanto durante una lunga agonia.
Intanto, nel novembre del 2003, i giudici della I sezione del tribunale avevano
emesso la sentenza. Tranne che per l’ipotesi di corruzione nella vicenda Sme, gli
imputati erano stati condannati, Renato Squillante era stato riconosciuto
“stabilmente retribuito” da Silvio Berlusconi e da Cesare Previti per favorire gli
interessi di Fininvest e delle sue società controllate, partecipate e collegate. Quel
magistrato aveva messo a disposizione degli interessi dei suoi corruttori la sua
funzione pubblica, in cambio di denaro.
I dibattimenti ormai terminati e il processo-stralcio ancora aperto sulla
posizione di Berlusconi (e si sapeva che sarebbe finito bene per lui) non avevano
però fermato le iniziative dei nostri avversari. Nel febbraio 2004, il ministro
Castelli aveva chiesto formalmente al procuratore generale della Cassazione di
aprire un’azione disciplinare nei confronti miei e di Gherardo. E il solerte
procuratore generale Francesco Favara aveva prontamente avviato le indagini:
altra relazione da preparare, altro materiale da raccogliere, altre umiliazioni,
come quella di andare fino a Roma per essere interrogati.
Dovevamo anche scegliere un difensore che ci rappresentasse nel
procedimento disciplinare. Poco importava che fosse un collega esperto in quella
particolare tipologia di difesa, la scelta doveva tener conto di molti altri aspetti,
essere più “politica” e per questo, d’accordo con Gherardo, ritenemmo che la
persona giusta fosse Edmondo Bruti Liberati, all’epoca presidente
dell’Associazione nazionale magistrati.
All’inizio Edmondo nicchiava, chiese tempo per riflettere ma finì con
l’accettare e ci assistette, prima innanzi alla procura generale della Cassazione e
poi, nel passaggio successivo, davanti al Consiglio superiore della magistratura.
Il capo di incolpazione era pesante, insinuava che avessimo “violato il dovere
di correttezza e leale collaborazione nei confronti di un organo istituzionale” e
concludeva che fossimo perciò “immeritevoli della fiducia e della
considerazione di cui deve godere un magistrato”. Parole come macigni, che
facevo oltretutto fatica a comprendere. Ma come: eravamo noi a non meritare la
fiducia dei cittadini? Eravamo noi ad aver violato i doveri di imparzialità e
probità? Non Squillante, Metta e gli altri magistrati coinvolti nelle inchieste?
Penso che tutta questa reattività nei palazzi romani, queste mosse intimidatorie
fossero anche un avvertimento alla magistratura nel suo insieme: attenzione a
toccare il potere, se non volete passare gli stessi guai dei vostri due colleghi.
Non credo fosse un caso che l’intera riforma Castelli prefigurasse un controllo
immunizzante del lavoro del pubblico ministero, disegnando tre confini destinati
a restringersi se necessario: la gerarchia, con il procuratore che poteva avocare a
sé le indagini in qualsiasi momento; i concorsi, concepiti per incentivare il
formalismo e il conformismo culturale, eliminando a monte ogni possibilità di
carriera per le “teste storte”; infine la minaccia delle azioni disciplinari con il
rafforzamento, fino all’invasività, del potere di iniziativa del ministro e
l’impoverimento delle prerogative del Csm. La riforma fu approvata nel 2005
ma, fortunatamente, in buona parte sospesa nel 2007.
L’8 ottobre 2005 comparimmo innanzi alla sezione disciplinare del Csm.
Anche per quell’occasione scelsi con cura cosa indossare: un abbigliamento
elegante, ma allo stesso tempo aggressivo, personalizzato da una collana
importante e un paio di orecchini vistosi. Tutto secondo il mio stile, insomma,
che insieme a ciò che lasciavo trasparire dallo sguardo – disprezzo per chi si
prestava a quell’assurda montatura – serviva a trasmettere l’immagine di una
donna convinta di essere nel giusto e orgogliosa di aver contribuito
all’accertamento della verità. Doveva essere ben chiaro che qualsiasi decisione
fosse stata adottata nei miei riguardi non avrebbe nemmeno rallentato il mio
lavoro.
Il titolare dell’accusa nei nostri confronti, il sostituto procuratore generale
della Cassazione Luigi Ciampoli, pronunciò una requisitoria dai toni durissimi
che si concluse con la richiesta di un provvedimento di censura, più grave del
semplice ammonimento. Benché in quel contesto non mi aspettassi rispetto né
considerazione, pensai che Ciampoli non poteva non rendersi conto della
strumentalità delle accuse costruite nei nostri confronti. E quando, qualche anno
dopo, venne nominato procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma,
incarico apicale per la carriera di un magistrato, considerai la possibilità che
avesse preso tanto a cuore la richiesta del ministro per non crearsi da solo
ostacoli alla carriera.
La camera di consiglio della sezione disciplinare fu insolitamente lunga. A
discutere il caso, i cinque componenti: il vicepresidente Virginio Rognoni, il
membro laico Nicola Buccico (di Alleanza nazionale) e tre giudici. Non so se i
cinque trovarono un’intesa o se la decisione venne presa a maggioranza, quel
che è certo è il verdetto: assolti con formula ampia, escluso ogni addebito
contestato dal ministro.
Negli anni successivi, continuai a occuparmi di criminalità organizzata e di
terrorismo. Fu così che ebbi l’occasione di imbattermi nelle gesta degli ultimi
epigoni del terrorismo politico di sinistra, personaggi fuori dalla storia, ma non
per questo meno pericolosi.
Tutto cominciò nel 2004 quando, nella cantina di un palazzo popolare di
Milano, furono rinvenuti casualmente materiale di propaganda eversiva e oggetti
decisamente sospetti: passamontagna, attrezzature per fiamma ossidrica, timer,
strumentazione elettronica. Fu messa sotto osservazione la persona che aveva la
disponibilità della cantina e ben presto capimmo che costui si muoveva come un
latitante: non utilizzava telefoni cellulari né utenze fisse, trascorreva molto
tempo fuori casa vagando per la città e, a orari fissi, si sedeva su una panchina
come ad aspettare qualcuno. Comportamenti che, secondo la Digos, ricordavano
quelli delle Brigate rosse degli anni di piombo.
La Digos milanese è un’eccellenza storica nel panorama investigativo
nazionale e in quel periodo, lavorando fianco a fianco, ne ho avuto la prova
diretta perché quell’indagine richiedeva tempestività e grande professionalità.
Vennero installate microspie e disposte intercettazioni, i servizi di pedinamento
furono eseguiti alla perfezione, senza mai insospettire il soggetto, evidentemente
addestrato al contropedinamento e alla clandestinità, e in breve vennero
identificate le persone con cui si incontrava. Tra le altre, Bruno Ghirardi, già
membro di una formazione terroristica minore (i Colp: Comunisti organizzati per
la liberazione proletaria), in libertà dopo aver scontato vent’anni di carcere;
Alfredo Davanzo, uno dei leader di Seconda posizione, un’ala delle vecchie Br,
già condannato nel 1982 a dieci anni di carcere per rapina a mano armata;
Vincenzo Sisi, operaio, iscritto alla Cgil. Ricostruito il quadro completo,
capimmo di aver messo le mani su tre cellule clandestine delle Nuove Brigate
rosse operanti a Milano, a Torino e nel Padovano. Perciò le indagini coinvolsero
anche le Digos di queste altre due città.
Mi era già capitato di coordinare più forze di polizia, ma l’esperienza di questa
inchiesta fu particolare sia per gli ambienti su cui si indagava sia, soprattutto, per
la qualità del personale specializzato con cui avevo una consuetudine relativa. Fu
una piacevole scoperta: da Bruno Megale e Giuseppina Suma della Digos di
Milano a Lucio Piffer e Giuseppe Petronzi, oggi questore di Milano, all’epoca in
servizio rispettivamente a Padova e Torino, erano tutti poliziotti di prim’ordine
che hanno affrontato con la loro solida professionalità una vicenda che riportava
il Paese indietro di trent’anni. Ci tenevamo in contatto costante, in uno scambio
di informazioni senza cenni di rivalità tra gli uffici delle varie città.
La dottoressa Suma, l’interlocutrice più assidua, si dimostrò preparatissima in
materia di eversione politica e particolarmente versata nell’analisi delle ore di
conversazioni captate, per cogliere nei dialoghi ogni piccola sfumatura utile. Con
lei abbiamo condiviso tanti momenti di tensione e di esaltazione, come quando
riuscimmo a scoprire i nascondigli delle armi e gli obiettivi che questi
tardoterroristi intendevano colpire. Le loro finalità erano le stesse dei brigatisti
storici: abbattere persone inermi, solo per la professione che esercitavano, come
il mite giuslavorista Pietro Ichino, che intendevano colpire e che perciò fu subito
posto sotto sorveglianza. Sono rimasta in contatto con questi funzionari e so che
lavorare insieme è stata anche per loro un’esperienza importante.
Arrivò il momento di tirare la rete. Il giorno stabilito, il 12 febbraio 2007,
seguii tutte le fasi degli interventi dalla questura di Milano, a partire dalla notte
precedente. Gli arresti suscitarono un forte clamore in tutto il Paese e, tra le
tante, ricevetti anche le telefonate di congratulazioni dei ministri dell’Interno,
Giuliano Amato, e della Giustizia, Clemente Mastella. Trovai divertenti i
commenti entusiastici di quanti mi avevano attaccata per anni. Come Ignazio La
Russa, esponente di spicco di Alleanza nazionale, secondo cui era stata condotta
“un’operazione ben fatta, tanto di cappello” per me, repentinamente promossa da
“metastasi” a “grande investigatore”. Addirittura, secondo il professor avvocato
Gaetano Pecorella “la Boccassini è una persona che non si è mai risparmiata e
questo è sicuramente un merito. Spesso si è anche distinta per non essere
allineata con le tesi del pool di Milano”. Insomma, anche il centro-destra fu
costretto a parlare bene di “Ilda la rossa”, la “bolscevica”, la “comunista
accecata dal pregiudizio ideologico”.
Inutile precisare che, in quello stesso momento, per gli ambienti dell’estrema
sinistra ero diventata una toga asservita al potere e all’infame Stato capitalista
delle multinazionali. Sui muri di Milano comparvero scritte inneggianti alle
Brigate rosse, a Padova venne incendiata la porta d’ingresso dell’abitazione del
dottor Piffer, ai maggiori quotidiani nazionali giunsero email di solidarietà agli
arrestati, i quali non tardarono a dichiararsi prigionieri politici.
Intanto, nel 2006, era uscito Il caimano, il film di Nanni Moretti che molto
avrebbe fatto discutere e diviso l’opinione pubblica. Avevo letto in anticipo la
sceneggiatura perché anni prima avevo avuto il privilegio di conoscere il regista.
Ero rimasta in particolare colpita dalle immagini finali dell’incendio, una scena
potente e fortemente evocativa degli anni incandescenti e pericolosi appena
vissuti.
Ho conosciuto Nanni nel 2001, quando era presidente della giuria del festival
di Venezia. A presentarmelo era stata Ottavia Piccolo, amica tra le più care oltre
che attrice straordinaria e coraggiosa. A Venezia ero sua ospite. La sera
dell’apertura del festival, il marito Claudio non si sentiva troppo bene e così ne
presi il posto alla cerimonia di inaugurazione. All’epoca riuscivo ancora a
portare i tacchi, non stratosferici, però impegnativi. Indossai un vestito lungo di
chiffon di seta blu, al collo una bellissima collana e orecchini pendant antichi,
regalo di mia madre. Mi piaceva molto quel contrasto tra il rosso vermiglio dei
miei riccioli e il blu intenso del vestito. Entrammo nella sala della cerimonia,
intorno a noi riconoscevo il gotha del cinema italiano e internazionale.
Moretti vagava per la sala accogliendo gli ospiti, Ottavia si diresse verso di lui,
trascinandosi appresso un’inedita Ilda, recalcitrante e sopraffatta dalla timidezza.
Lei e Moretti si salutarono calorosamente, Ottavia mi presentò, il mio mito si
avvicinò, prese la mano che gli avevo teso, disse che per lui era un onore
stringerla e, del tutto inaspettatamente, mi baciò sulla guancia. Credo di non
essere svenuta per miracolo! Dopo la proiezione Ottavia e io non potemmo
evitare i fotografi: uscimmo velocemente, tenendoci per mano. Frastornata dai
flash e dai paparazzi che urlavano “Ilda! Ottavia! Guardate di qua!”, in quel
contesto così diverso dal mio mi sono sentita un po’ una star.
La cena di gala si tenne all’Hotel Des Bains. Nanni, insieme agli altri membri
della giuria, era seduto a un tavolo vicino al nostro. A un certo punto si alzò,
venne verso di noi e chiese se l’indomani avremmo potuto cenare con lui. Quasi
mi andò di traverso il boccone. Ma così fu. Ottavia prenotò alla Favorita, lo
storico ristorante del Lido, e in quella serata molto piacevole rimasi colpita dalla
simpatia di Moretti, dalla sua ironia, dalla dolcezza con cui si rivolgeva a me. Ne
trassi un’immagine completamente diversa da quella cui i media e lo stesso
Nanni ci avevano abituati. Tra l’altro, durante la cena mi confidò che stava
pensando a un documentario sull’era Berlusconi.
La parentesi mondana finì molto presto e a Milano mi rituffai nel solito girone
del lavoro, delle indagini, della burocrazia. Mai mi sarei immaginata di ricevere
una telefonata proprio da Moretti già il giorno dopo la chiusura del festival. Mi
trovavo, per l’appunto, in ufficio quando squillò il cellulare. Riconobbi subito la
sua voce e per la sorpresa e l’emozione mi cadde il telefono che fortunatamente
planò sulla scrivania. Nanni mi chiese un appuntamento. E infatti il giorno dopo
mi comparve sulle labbra il solito herpes, testimone indiscutibile delle emozioni
più forti... Venne a cena a casa, volle visitarla tutta ed ebbe il tempo di inorridire
alla vista della poltrona tappezzata di tessuto animalier, volle sapere dei miei
figli, sottoponendomi a un interrogatorio degno di Bianca. Una bella serata
spensierata, che lasciò fuori dalla porta ogni riferimento alla quotidianità delle
mie giornate, con i processi ancora in corso.
Nel marzo 2006, dunque, ci fu l’anteprima a Roma del Caimano. Benché
invitata, non andai alla serata, per evitare polemiche sulla mia presenza in sala.
Ma andai a Milano, al cinema Anteo. Il film è denso di simboli, metafore,
inquietanti premonizioni, finché si arriva alla scena in cui tra il pubblico
ministero – cioè io, interpretata da Anna Bonaiuto – e il Caimano-Berlusconi (lo
stesso Moretti) corre un lungo sguardo appena dopo la lettura della sentenza di
condanna. Gli occhi dell’imputato sono pieni di odio verso chi l’ha fatto
condannare e nella sala buia avvertii un balzo al cuore, sorpresa della mia stessa
angoscia, come se quell’occhiata ci fosse stata davvero. Come se – potenza
dell’evocazione artistica – mi fossi confrontata per un breve, lunghissimo
momento con il rancore e l’inimicizia che mi erano riservati da così tanto tempo.
Quei pochi secondi ebbero l’effetto di farmi rivivere giorni che volevo
dimenticare, con quella bolla d’odio dentro cui mi ero trovata a vivere e che mi
teneva prigioniera da anni.
Sì, più che di processi si era trattato di una contesa impari nella quale avevo
dovuto affrontare – non di rado isolata – il potere di un leader di partito che si
avvaleva a piacimento di un governo, un Parlamento, televisioni e giornali,
sostenuto da cittadini che mi inviavano lettere minacciose, mi chiamavano
“puttana”, mi auguravano di morire di cancro.
Il film mi piacque molto e sono grata a Nanni che, grazie alla sua sensibilità,
ha compreso e magnificamente rappresentato le mie scelte e le ragioni per cui le
avevo compiute. Tuttavia, la mia presenza in sala all’Anteo non passò
inosservata e immancabili fioccarono le critiche, come se un magistrato non
potesse andare a vedere un film che peraltro lo riguardava direttamente. Cosa
avrei dovuto fare? Sbirciare lo schermo da dietro una tenda o nascosta nella
cabina di proiezione? Alcuni quotidiani trasformarono anche quella circostanza
all’Anteo in un caso politico, ovviamente ignorando il fatto che i dibattimenti
erano conclusi.
Il 28 maggio 2009, il plenum del Csm mi nominava all’unanimità procuratore
aggiunto, atto quasi dovuto, considerando che gli incarichi semidirettivi sono di
fatto legati all’anzianità di servizio. Avevo sessant’anni, ma ancora tanta voglia
di sperimentarmi in un ruolo che avrebbe messo alla prova le mie capacità di
gestione di un gruppo di colleghi. Speravo che mi venisse affidata la Direzione
antimafia ritenendo, senza falsa modestia, di essere più che adatta per quella
posizione. Inoltre, nel corso degli anni mi ero conquistata la stima delle forze di
polizia e sapevo che avrei potuto contare sulla loro piena collaborazione. Per
quello che vale, va sottolineato che anche il mondo della criminalità organizzata
ben mi conosceva e temeva i miei metodi di indagine, che non si limitavano al
contrasto del braccio militare, ma miravano a stanare gli insospettabili signori
della cosiddetta “zona grigia”.
Dico questo perché durante gli otto anni in cui avrei diretto la Dda sono stati
captati, in carcere e fuori, non pochi dialoghi tra mafiosi che si riferivano alla
mia “pericolosità” e inavvicinabilità con parole preoccupate, furibonde e anche
con appellativi irripetibili che, oltretutto, non lasciavano presagire nulla di buono
sulla mia sicurezza.
In quel periodo ero coassegnataria, insieme ai colleghi Alessandra Dolci
(titolare delle indagini) e Paolo Storari, dell’inchiesta poi diventata nota con la
denominazione di “Crimine-Infinito”. In un anno e mezzo era stato raccolto un
materiale imponente, grazie all’uso di intercettazioni ambientali, telefoniche e
servizi di osservazione. Erano state così scoperte ben sedici “locali” –
diramazioni lombarde della ’ndrangheta calabrese e a questa sottoposte per via
gerarchica – insediate a Milano, in città medio-grandi come Legnano o Pavia
oltre che in paesoni dell’hinterland come Cormano, Bollate, Corsico, Mariano
Comense. Ogni “locale” rispondeva a un’omologa formazione in Calabria e tutte
erano coordinate da un organismo di controllo denominato “la Lombardia”.
L’inchiesta veniva a confermare, per la prima volta, quella che era stata fino
ad allora solo un’ipotesi, l’intuizione di alcuni inquirenti (peraltro accolta con
fastidio dai colleghi che, specie in Calabria, si erano concentrati sul narcotraffico
e sui crimini delle singole famiglie). Con i nostri accertamenti veniva finalmente
provata l’unitarietà della ’ndrangheta, pur nella sostanziale autonomia delle
articolazioni territoriali, in un modernissimo e complesso equilibrio tra il
centralismo di regole e rituali e il decentramento delle ordinarie attività illecite.
Un episodio di grande importanza per la ricostruzione di questo scenario era
avvenuto nell’ottobre del 2008, a San Vittore Olona. In questo piccolo centro di
nemmeno 10 mila anime, a nord-ovest di Milano, venne assassinato nel cortile
interno del bar Reduci e combattenti tal Carmelo Novella, il quale, avremmo
scoperto, era ideatore e artefice di un progetto “secessionista” che avrebbe
portato le ’ndrine trapiantate in Lombardia alla completa autonomia, e quindi
fuori dal controllo della casa madre. L’eliminazione di Novella era stata
deliberata dai capi di tutte le famiglie calabresi. Dopo il suo assassinio, era stato
scelto un nuovo referente della “Lombardia” e la sua nomina era avvenuta in un
circolo ricreativo di Paderno Dugnano intitolato a Falcone e Borsellino, alla
presenza dei responsabili delle ’ndrine attive nella regione. Grazie ai carabinieri
del Nucleo investigativo di Monza, quella riunione e la nomina del nuovo
“mastro generale” furono registrate dalle telecamere installate nella sala.
Credo che resterà nella storia quel video che riprende i partecipanti al summit,
seduti al tavolo a ferro di cavallo e in piedi, con il bicchiere in mano, che
brindano all’elezione del nuovo boss. Alle loro spalle, l’arcinota fotografia di
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone che si guardano sorridenti.
Capii molto presto, una volta presa in mano l’indagine, che sarebbe stato utile
coinvolgere la procura di Reggio Calabria, allora guidata da Giuseppe Pignatone,
per impostare una strategia comune. Da una parte avremmo potuto meglio
cogliere la pericolosa estensione e la capillarità del fenomeno; dall’altra,
dimostrare che la risposta più efficace nel contrasto alla mafia calabrese era
quella dell’intervento coordinato, dello scambio di informazioni, della
condivisione degli obiettivi. Per dirla in breve, del lavoro di squadra. L’indagine
avrebbe inoltre lanciato un messaggio preciso: solo se operiamo uniti lo Stato
potrà prevalere. Basta protagonismi, individualismi, competizioni tra uffici,
misere gelosie personalistiche.
Pignatone, magistrato di prim’ordine, profondo conoscitore della mafia
siciliana e non solo, per averla combattuta negli anni di servizio alla procura di
Palermo, la pensava come me. A Giuseppe mi legano una lunga amicizia, affetto
e stima reciproca, nati già ai tempi in cui Giovanni lo aveva indicato per
affiancarmi nell’inchiesta “Duomo connection”, una ventina d’anni prima. Da
allora si era consolidato un ottimo rapporto, anche se siamo due persone molto
diverse sia nell’approccio alla vita sia nel modo di affrontare il lavoro. Ma
queste diversità non hanno mai ostacolato il nostro legame. Alessandra e Paolo,
persone intelligenti, capaci e senza ansie di primeggiare, accolsero senza
esitazioni l’idea di coinvolgere la procura reggina. Da quel momento le riunioni
si susseguirono con cadenza regolare, ci dividevamo i compiti, gli obiettivi, i
soggetti su cui indagare e cominciammo a scambiarci carte, contenuti delle
intercettazioni, con la piena collaborazione delle diverse forze di polizia.
25.
Tra Milano e Reggio Calabria

Fu un bel periodo, di lavoro duro ma appagante. Gli incontri con i colleghi


erano anche momenti di spensieratezza, operavamo in totale sintonia e non
arretravamo dinanzi agli ostacoli che, pure, non mancarono. Il gruppo che
lavorava alla maxinchiesta era affiatato: Paolo Storari a fianco di Giovanni
Musarò, Alessandra Dolci a fianco di Michele Prestipino, il vice di Pignatone, io
e Giuseppe a sovrintendere il lavoro. Creava un po’ di imbarazzo una sola nota
stonata: l’atteggiamento dell’altro aggiunto reggino di Pignatone, Nicola
Gratteri, che creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del
fenomeno ’ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne
bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei
nostri confronti. Un comportamento che non ci ha mai permesso di legare, dato
che a stento ci salutava, ma soprattutto perché ogni giorno di più si rivelava
culturalmente e professionalmente molto diverso dalla squadra. A detta di chi lo
conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha
alcun significato.
Nel febbraio 2010 fui nominata capo dell’Antimafia milanese, una scelta che il
procuratore Minale volle comunicarmi con una lettera ufficiale:
Cara Ilda, desidero farti avere direttamente il provvedimento con il quale ti ho delegata all’attività della
Direzione distrettuale antimafia. Considero il traguardo che oggi raggiungi il giusto riconoscimento della
tenacia alle indagini che ti ha sempre caratterizzato, della dedizione all’ufficio, del tuo alto senso delle
istituzioni e forse quale parziale compenso di qualche amarezza patita a cagione del tuo impegno per la
giustizia. Accompagno gli auguri di buon lavoro con un forte sentimento di sincero affetto.
Un abbraccio.
Manlio

Ero contenta di quel riconoscimento e ben consapevole che le difficoltà non


sarebbero mancate. Non solo per la delicatezza della materia, ma anche perché
sapevo che non tutti i colleghi del dipartimento apprezzavano la mia nomina.
Una dinamica diffusa in ogni ambiente di lavoro, dove spesso si è preceduti dalle
voci e dai sentito dire, finché la quotidianità vissuta fianco a fianco non spazza
via i pregiudizi. Di me si diceva che fossi dura, severa, fin troppo diretta, per
niente malleabile, e a tutto ciò si aggiungeva il peso della mia immagine
pubblica.
A pochi mesi dal mio insediamento, Bruti Liberati prese il posto di Minale a
capo della procura. Anche questo mi fece piacere, sia per la qualità del collega
sia perché ci conoscevamo da più di trent’anni e perché, infine, speravo che
quella nomina così impegnativa lo avrebbe aiutato a superare il dolore che
provava da molti mesi per una grave vicenda famigliare. Anche Edmondo e io
siamo persone e professionisti molto diversi, ma questo non ci ha mai portato a
una vera rottura, nonostante gli inevitabili momenti di tensione. Lui non è mai
stato un pubblico ministero “da trincea”, ha scelto di dedicare gran parte della
sua carriera al governo della magistratura, fino al Csm e alla presidenza
dell’Associazione, proprio negli anni degli attacchi frontali da parte di una
politica apertamente ostile. Il fatto che fosse a capo di uno degli uffici più
importanti d’Italia era per molti una garanzia. Anch’io contavo molto su di lui
ma, come avrò modo di raccontare, il mio entusiasmo non sarebbe durato a
lungo.
Quando, nel giugno 2010, Edmondo si insediò, gli illustrai l’inchiesta che
stavamo conducendo e che sarebbe diventata pubblica di lì a poco con
l’esecuzione dell’ordinanza del gip. Lavorando giorno e notte, avevamo già
predisposto la richiesta di misura cautelare nei confronti di duecento presunti
’ndranghetisti: 3.500 pagine di analisi e solidità probatoria, che sarebbero state
riconosciute come una pietra miliare della storia giudiziaria per la loro efficacia
repressiva della ’ndrangheta nelle sue ramificazioni al Nord. In tutti quei mesi i
contatti con Reggio erano pressoché quotidiani e avevo concordato con
Pignatone di procedere contemporaneamente agli arresti.
La preparazione del blitz presentava numerosi aspetti di complessità, anche
perché, se le nostre previsioni erano corrette, la maxiretata sarebbe stata solo una
prima tappa e, una volta eseguita, avremmo dovuto gestire un numero altissimo
di detenuti. Ragion per cui ci sembrò opportuno interpellare il dipartimento
dell’Amministrazione penitenziaria per verificare la disponibilità di posti nelle
sezioni di massima sicurezza negli istituti carcerari.
L’operazione “Crimine-Infinito” scattò il 13 luglio 2010, con un imponente
dispiegamento di forze e, ancora una volta, in sinergia con Reggio Calabria,
riuscimmo a coordinare il lavoro di carabinieri, polizia e Direzione investigativa
antimafia. Impresa non da poco, un’ulteriore conferma che il contrasto al
crimine organizzato si vince solo quando lo Stato è in grado di unire le forze e
quando la protagonista è solo la squadra. È stato così che l’unitarietà
organizzativa della ’ndrangheta è stata smascherata e comprovata dagli elementi
raccolti all’unisono ai due estremi del Paese.
Ricordo molto bene il giorno della conferenza stampa seguita ai trecento
arresti. Con i pubblici ministeri milanesi e reggini, i capi dei due uffici, i
responsabili di polizia, carabinieri e della Dia tutti seduti fianco a fianco al lungo
banco dell’aula magna del palazzo di giustizia. Per l’occasione, volle essere
presente anche Manlio Minale, già nominato procuratore generale (e da sempre
restio alle conferenze stampa), ma che – da galantuomo e da convinto esponente
delle istituzioni – aveva ben compreso l’importanza storica di quel momento.
L’aula magna era gremita di giornalisti e cameraman ma, a differenza di qualche
anno prima, in questa occasione la grande affluenza di persone, la vastità e la
stessa architettura della sala cancellarono in me la sgradevole sensazione provata
dopo la scelta sconsiderata di celebrare in quello stesso luogo l’udienza di uno
dei processi a Berlusconi.
Unico dato negativo di quelle ore fu il caldo atroce che non dava tregua: la
temperatura sfiorava i 35 gradi e un po’ per la stanchezza e la tensione
accumulate, un po’ per la calura opprimente, in certi momenti mi sentivo
svenire. Fortunatamente avevo appena trascorso qualche giorno al sole di Ischia,
così che l’abbronzatura mascherava a sufficienza le occhiaie scavate e anzi, dato
che non avevo rinunciato a una vistosa collana bianca, il colorito della pelle
esaltava il contrasto dei colori.
Con Paolo e Alessandra avevamo deciso di rinunciare a parte delle ferie per
far fronte alla valanga di ricorsi degli arrestati, così che uno di noi sarebbe stato
presente durante tutta l’estate. Non pensai nemmeno di delegare tutte queste
incombenze ai colleghi. Nonostante il mio incarico non prevedesse un ruolo
operativo, il mio posto non poteva che essere a fianco dei sostituti.
Anche perché, mentre preparavamo l’operazione, mi ero prefissata un’altra
meta: rinviare a giudizio gli arrestati entro sei mesi. Come? Per accelerare i
processi, una legge del 2008 aveva introdotto il “giudizio immediato custodiale”,
applicabile agli imputati detenuti, purché l’atto di accusa fosse definito tra l’esito
dei ricorsi al tribunale del riesame e non oltre 180 giorni dal momento
dell’arresto. Di conseguenza, il tempo a disposizione per le attività istruttorie
diventò veramente prezioso e tutti e tre spingemmo sull’acceleratore per portare
subito a giudizio 154 imputati detenuti. E così fu: a seguito della richiesta di
giudizio immediato, 110 imputati optarono per il rito abbreviato, mentre 39
scelsero il più lungo iter del normale dibattimento. Grazie a questa velocità
iniziale, la sentenza definitiva arrivò in meno di quattro anni.
Per la prima volta nella storia giudiziaria del Paese, la Corte di cassazione
riconobbe la ’ndrangheta come organizzazione mafiosa unitaria, strutturata su
più livelli e guidata da un vertice collegiale – chiamato Provincia o Crimine –
formato dai rappresentanti calabresi che esercitavano il loro potere sulle “locali”
(i nuclei di ’ndrangheta fuori regione) ovunque venissero create. L’inchiesta
“Crimine-Infinito” viene studiata anche all’estero come un passaggio
fondamentale nella conoscenza e nel contrasto al fenomeno.
Una volta sperimentato il ruolo di procuratore aggiunto, peraltro al vertice di
un dipartimento cardine di un grande ufficio, mi dissi: perché non puntare a
quello di capo? E infatti, qualche anno dopo, avrei concorso al posto di
procuratore di Milano. Ma, come si vedrà, questa possibilità mi sarebbe stata
preclusa, la mia domanda sarebbe stata ignorata, proprio come se non esistessi.
O, peggio, come fossi il fantasma scomodo, ingovernabile dal quale temere una
conduzione dell’ufficio che avrebbe potuto disturbare i piani del potere. Non
credo si tratti di una mia illazione: basti pensare che, nonostante la mia
esperienza, preparazione e conoscenza del fenomeno mafioso siano state
riconosciute da ogni parte politica, negli ultimi trent’anni nessun Parlamento mi
ha richiesto come consulente della Commissione antimafia. Un ruolo di supporto
tecnico nel quale si sono succeduti decine di miei colleghi. Alcuni realmente
esperti della materia, ma molti altri senza alcuna competenza, però magari
caldamente sponsorizzati da questo o quel partito. Certo, mi sarebbe piaciuto
mettere la mia esperienza al servizio del Paese anche in questo contesto
istituzionale, ma, come sempre, la mia rivincita è stata il lavoro.
Le indagini condotte dall’Antimafia milanese hanno sempre dato tanto lavoro
alla Commissione parlamentare, al punto che i colleghi via via nominati
consulenti, compresi quelli provenienti dal settore civilistico, avrebbero potuto
utilizzare le nostre carte per apprendere come si articola e quanto sia pericoloso
il potere mafioso. Ma non tutti hanno sentito il bisogno di dare un senso al loro
incarico (peraltro ben remunerato). Salvo poi indicare con dovizia di dettagli
l’esperienza romana come titolo di merito da inserire in ogni autorelazione o in
occasione di concorsi per un posto direttivo.
Nel ruolo di aggiunto ho messo alla prova le mie capacità di gestione operativa
di un consistente gruppo di colleghi. Da sempre convinta che, per costruire
insieme qualcosa di importante, sia necessario conoscersi a fondo, dal momento
in cui ho assunto quel ruolo ho cercato di farmi un’idea dei loro pregi e dei limiti
per comprendere come avrebbero potuto dare il massimo nell’impegno che ci
aspettava.
Mi sentivo come un generale che doveva preparare i soldati alla battaglia,
trasmettendo un’idea cardine: combattere sempre al meglio delle proprie
capacità, senza cedere alla pigrizia o allo sconforto e senza scendere a
inaccettabili compromessi. Sapevo che non tutti sarebbero stati in grado di
comprendere e di seguirmi, e infatti, qualche mese dopo, due colleghi decisero di
cambiare dipartimento o di trasferirsi in un’altra città, ma la loro scelta non
spezzò l’armonia del gruppo. Anzi, la loro decisione di liberare due caselle fu
per altri colleghi l’occasione di unirsi all’“armata”. Ero stata fin da subito molto
chiara: avrei preteso il massimo da ogni membro della Dda, avremmo lavorato
sotto traccia con umiltà e totale condivisione, non avrei tollerato protagonismi né
scelte individualistiche.
Com’è ovvio, non tutti i sostituti che mi erano stati assegnati erano allo stesso
livello: c’era chi correva veloce come una Ferrari, chi andava piano come una
Cinquecento, ma in un gruppo vanno bene bolidi e utilitarie, purché tutti corrano
al massimo delle possibilità. Sotto questo aspetto, un bolide si sarebbe ben presto
confermato Paolo Storari, milanese, un collega allora poco più che quarantenne,
dotato di una preparazione eccellente, di grande capacità lavorativa e spinto da
un desiderio instancabile di apprendere, oltre che dalla massima disponibilità
verso i colleghi. Per me Paolo era ed è “il professore”. Quando ha cominciato a
occuparsi di mafia non era un esperto, poiché fino a quel momento si era
dedicato ad altro. Eppure in poco tempo è stato in grado di entrare nella “testa di
un mafioso”, studiando a fondo gli atti e leggendo libri, recuperando vecchie
relazioni della Commissione antimafia, sentenze di processi. Un secchione
simpatico, pronto alla battuta e allo scherzo. E anche dopo il mio ritiro non ci
siamo persi di vista: di tanto in tanto ci incontriamo e attraverso i suoi racconti
respiro un po’ di aria del palazzo anche se, per la verità, quell’aria non mi manca
affatto. Voglio bene a Paolo come a un figlio, perciò posso immaginare il suo
disagio e la sua sofferenza per la vicenda della Loggia Ungheria in cui si è
trovato protagonista.
In quella mia nuova veste, com’è naturale, anch’io ho commesso errori. So di
essere stata a volte un capo inflessibile e che per alcune colleghe e colleghi non è
stato sempre facile lavorare con me. Qualcuno ricorderà certamente i proverbiali
“cazziatoni” che mi è capitato di infliggere. Severa, sì. Ma anche pronta a tirare
fuori gli artigli quando è accaduto che la Dda o qualche suo membro venissero
ingiustamente attaccati.
Sono stati anni in cui l’Antimafia milanese ha lavorato bene e ha raggiunto
buoni risultati. Abbiamo trascorso insieme anni intensi, coinvolgenti, che porto
nel cuore e per i quali sento gratitudine verso molte delle persone con cui ho
collaborato. Ad Alessandra Dolci, che oggi regge il dipartimento e con la quale
ci siamo perse di vista, auguro e raccomando di continuare la strada che per otto
anni ci ha viste fianco a fianco. Ferrari o Cinquecento, resta il fatto che quasi
tutti hanno scelto la Dda per passione, con l’unico obiettivo di contrastare il
crimine organizzato. C’è stato chi ha tentato in ogni modo, anche ricorrendo a
raccomandazioni, messaggi indiretti o suppliche, di entrare nel mio gruppo,
ritenendo che farne parte sarebbe stato un buon trampolino per la carriera. È
probabile che a qualcuno abbia giovato, anzi so che qualcuno di loro già ricopre
cariche nella corrente di appartenenza o persino nell’autogoverno.
Sono rimasta molto legata a Cecilia Vassena, con la quale si è consolidato un
rapporto speciale. Avevo intuito molto presto le sue potenzialità che, almeno
inizialmente, lei stessa faceva fatica a riconoscere. Negli anni in cui abbiamo
collaborato, mi è capitato di essere con lei dolce o severa, toccando
evidentemente i tasti giusti. Sono certa che non me ne vorrà se riporto alcuni
brani della lettera che mi ha scritto dopo che sono andata in pensione:
Tu hai cambiato per sempre il mio modo di lavorare, ma anche il modo di vedere me stessa e (lo dico
senza enfasi) la mia stessa vita. Non è stato semplice lavorare con te, specie in certi momenti, ma è
talmente tanto quello che tu mi hai dato che conserverò gelosamente nel mio cuore anche il ricordo di
ogni singolo “cazziatone”. Mi accorgo di tutto ciò ogni giorno, quando nel fare questo lavoro (che
continuo ad amare) seguo quel filo sottile dei tuoi preziosi insegnamenti. Tu hai creduto veramente in
me, mi hai fatto crescere anche come donna e lo hai fatto con una fierezza e una generosità che non
dimenticherò mai. Grazie.

Vedo ancora anche la collega Bruna Albertini, le voglio bene, ne riconosco le


qualità professionali e la dedizione al lavoro.
In quegli otto anni di attività antimafia, siamo stati in grado di monitorare il
territorio di nostra competenza, raccogliendo e classificando gli episodi di
danneggiamento, gli incendi di autovetture o di esercizi commerciali, i colpi di
pistola sparati. Siamo riusciti a collegare tra loro fatti criminosi all’apparenza
slegati, perché sapevo che quest’opera certosina ci avrebbe permesso di
comporre il quadro di ciò che si stava muovendo sotto traccia. Analizzate in un
quadro d’insieme, vicende che lette singolarmente non spiegavano nulla si sono
rivelate atti d’intimidazione perpetrati dalla ’ndrangheta per imporre il controllo
su un territorio o sulle attività di imprenditori e commercianti.
In comuni dell’hinterland milanese come Buccinasco, Corsico, Rozzano, San
Vittore Olona, per citarne solo alcuni, da decenni si sono insediate importanti
famiglie di ’ndrangheta come i Barbaro, i Papalia, i Sergi, i Trimboli, il cui solo
cognome è sufficiente per incutere terrore e indurre omertà. Le nostre indagini
hanno individuato i loro traffici e i loro tentativi di inquinare una delle economie
più importanti d’Europa. Li abbiamo stanati, molti di loro sono in carcere con
sentenze definitive e – grazie alle misure di prevenzione – sono stati duramente
colpiti anche sul versante patrimoniale, con il sequestro di immobili, rami
d’azienda, conti correnti, azioni, titoli di Stato, che possedevano in quantità
ingentissime.
Il lavoro di intelligence capillare e intrusivo ci ha consentito di individuare
anche persone “insospettabili” che hanno messo le loro competenze a
disposizione delle organizzazioni criminali. Cioè quelle figure che popolano la
cosiddetta “zona grigia” e che costituiscono il “capitale sociale” della mafia.
Con questa espressione si definiscono le reti di relazioni di cui normalmente
dispone chi opera in un settore professionale o imprenditoriale. I mafiosi, che
sanno di non potersi affacciare a certi contesti, per sfruttare ai loro fini il tessuto
economico esistente hanno assoluto bisogno di parassitare queste reti e il loro
punto di aggancio è costituito proprio dai rapporti con chi si muove nel mondo
imprenditoriale, politico, della pubblica amministrazione. La criminalità mafiosa
ha sviluppato una grande capacità di fare sistema con gli esponenti delle classi
dirigenti locali, costruendo connessioni di reciproca convenienza. Ormai il dato è
accertato: si tratta di legami strumentali, poco stabili, ma che creano
obbligazioni reciproche estremamente vincolanti. Un esempio tipico di questa
caratteristica della ’ndrangheta è la sua pervicacia nel connettersi con ambienti
massonici. Il perché è intuitivo: l’ingresso nelle logge costituisce un
fondamentale momento di collegamento con ceti sociali importanti, in grado di
fornire sbocchi per investimenti, coperture a vari livelli, garantendo così una
solida integrazione della ’ndrangheta nella società civile, con la conseguente
possibilità di mimetizzarsi abbandonando quell’atteggiamento di
contrapposizione che la rende identificabile e perseguibile dalla repressione.
26.
’Ndrangheta & Co.

Tutte le indagini hanno riscontrato la presenza di figure riconducibili al


paradigma della “borghesia mafiosa” e dimostrato che nessuna categoria
professionale è risparmiata da tali presenze, che di volta in volta assumono il
volto di imprenditori, notai, commercialisti, medici, appartenenti alle forze di
polizia, magistrati, avvocati, funzionari pubblici di alto grado, uomini politici.
L’analisi delle loro relazioni con gli ambienti criminali ha inoltre consentito di
rilevare che la cosiddetta “zona grigia” non è un’entità unitaria: il mafioso si
rapporta in modo diverso con l’imprenditore, il politico o il professionista,
individuandone i punti deboli e sfruttandoli. Ma c’è di peggio. Le indagini hanno
sfatato il luogo comune secondo cui è il mafioso che si infiltra nella società
civile, magari mimetizzandosi. In diversi casi sono gli esponenti della società
civile a cercare il rapporto con il mafioso, ritenendo (quanto a torto!) di poterne
utilizzare le potenzialità finanziarie e di esercizio della violenza.
La ’ndrangheta è una realtà complessa, poliedrica: organizzazione criminale
violenta, impresa economica, apparato simbolico, struttura di potere che
interloquisce con il mondo istituzionale e con la società civile. Altro che
universo frammentato di famiglie storicamente dedite a delinquere e legate tra
loro da vincoli parentali. Questa lettura, trasformata in teoria e mai messa in
discussione dalle indagini locali fino al 2010, ha fornito troppo a lungo
l’immagine depistante di un fenomeno criminale poco più che regionale.
E invece nel 2014 abbiamo registrato e filmato un’incredibile cerimonia di
conferimento di incarico (le “doti” nel gergo ’ndranghetista) a Calolziocorte, un
paesino del Lecchese che conta meno di 13 mila anime, inclusa una vasta
comunità di calabresi tutti originari di Giffone, un borgo collinare del Reggino.
Grazie alle telecamere piazzate dagli investigatori, abbiamo potuto ascoltare, nel
cuore della ricca Lombardia, le formule di iniziazione che fino a quel momento
il pensiero comune “nordista” aveva attribuito al frutto della denigrazione o della
fantasia di scrittori e studiosi del fenomeno.
Buon vespero e santa sera ai santisti. Giustappunto questa santa sera nel silenzio della notte e sotto la
luce delle stelle e lo splendore della luna formo la santa catena. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La
Marmora con parole d’umiltà formo la santa società. Giuro di rinnegare tutto fino alla settima
generazione da me fino a oggi riconoscente per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli. In nome di
Garibaldi, Mazzini e La Marmora passo la mia prima, seconda votazione sul conto di [...]. Se prima lo
conoscevo come un saggio fratello fatto e non fidelizzato, da questo momento lo conosco per un mio
saggio fratello. Sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna sformo la santa catena. Nel nome di
Garibaldi, Mazzini e La Marmora con parole di umiltà è sformata la santa società.

Il richiamo a personaggi come Garibaldi, Mazzini o La Marmora non è una


bizzarria di quei malviventi, ma un preciso riferimento a tre storici esponenti
delle logge massoniche italiane.
Mi limito qui a sottolineare che la trasmissione di concetti e regole ancestrali a
partire dall’ambito famigliare, unita al rispetto rigoroso di tali regole, è un
fondamento della stessa mafia, i cui affiliati credono ciecamente nei vincoli di
onore e fratellanza, in nome dei quali sono pronti a morire, come i loro padri e i
loro nonni. È un codice d’onore impresso nel loro Dna e per quanto tale cultura
venga piegata al male, alla violenza, alla sopraffazione, è necessario riconoscere
che questo codice è anche alla base della forza che le cosche sono in grado di
esprimere. A molti potrà sembrare paradossale, persino blasfemo, ma a
conoscere da vicino la subcultura che alimenta i comportamenti mafiosi una
questione risulta chiara: principi come l’onore, il rispetto, la solidarietà,
l’attaccamento alla famiglia sono capisaldi della vita di quelle comunità
criminali e costituiscono la linfa vitale della loro sopravvivenza.
Ed è palese che, cambiando territorio, queste “leggi” non perdono la loro
presa. L’unicità della ’ndrangheta sta tutta nel costante collegamento tra le
“locali” lombarde e quelle calabresi, un ancoraggio alla terra d’origine che può
spiegare come minuscole realtà sperdute dell’Aspromonte – San Luca, Platì o lo
stesso Giffone – abbiano potuto di fatto colonizzare pasciuti comuni
dell’hinterland milanese, rovesciando ogni dinamica storica. Perché la regola
presuppone una sorta di superiorità economica e culturale del colonizzatore sul
colonizzato, mentre la pervasiva presenza delle ’ndrine sul territorio lombardo
dimostra che una sottocultura criminosa può avere la meglio su comunità di
un’area ricca, altamente industrializzata e dotata di buoni servizi.
Ma guai ad addossare la responsabilità di quanto è accaduto al Nord
all’aggressività o all’astuzia dei criminali. A parte gli atti processuali, che
parlano da soli, mi è capitato più volte di sfatare pubblicamente uno dei luoghi
comuni più diffusi sulla presenza della criminalità calabrese in Lombardia. Il
termine normalmente usato per descrivere il fenomeno è “infiltrazione”, secondo
una narrazione per cui i boss insidierebbero l’economia legale. Lo voglio
ripetere: “infiltrazione” è un termine fuorviante, che allude a una sorta di
verginità del tessuto sociale aggredito, e che suona quindi come una
autoassoluzione per le comunità locali, vittime di una sorta di generalizzata
estorsione. La realtà è un’altra: in più di un caso, l’imprenditoria lombarda non
ha subito la ’ndrangheta, ma si è spinta a fare affari con essa, fino a prendere
l’iniziativa e ricavarne dei vantaggi. Per esempio nel recupero crediti o nello
smaltimento illecito e a buon mercato dei rifiuti industriali.
Anche nelle indagini sul fenomeno mafioso mi sono imbattuta in magistrati
indegni della toga, che hanno rinnovato l’amarezza e la frustrazione già provate
anni prima con la scoperta del malaffare nel mondo giudiziario romano.
Vincenzo Giglio, cinquantun anni, era conosciuto come una giovane promessa
della magistratura reggina. Presidente della sezione Misure di prevenzione del
tribunale, esponente di spicco di Magistratura democratica, docente alla scuola
di specializzazione dell’Università mediterranea di Reggio Calabria, era molto
stimato anche per il suo impegno sul fronte antimafia. Suscitò quindi grande
clamore il suo arresto, ottenuto dalla procura di Milano verso la fine del 2011,
per corruzione aggravata e per il favoreggiamento dei Valle-Lampada, un clan
mafioso da tempo operante in Lombardia ma che, come ho già spiegato, non
aveva mai mollato la presa sulla terra d’origine. Insieme a Giglio arrestammo
anche un politico, Giuseppe Morelli, consigliere della Regione Calabria, con
l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I due erano risultati legati
da un sotterraneo scambio di favori: Morelli era interessato a conoscere
eventuali inchieste a suo carico, a Giglio serviva l’interessamento del politico
per agevolare la nomina della moglie a commissario straordinario dell’Asl di
Vibo Valentia. Pochi mesi dopo, nella rete finì anche un altro giudice calabrese,
Giancarlo Giusti, in servizio al tribunale di Palmi, accusato di corruzione in atti
giudiziari. Secondo la nostra ricostruzione, Giusti aveva più volte usufruito di
soggiorni presso lussuosi alberghi milanesi – comprensivi di giovani prostitute –
per una spesa complessiva di 27.000 euro. Pagati dalla ’ndrangheta. Dopo
qualche anno, nel marzo 2015, Giusti si sarebbe suicidato nella sua casa
calabrese, dove stava scontando la pena ai domiciliari a causa delle precarie
condizioni di salute. Qualche giorno prima, la Cassazione aveva reso definitiva
la sua condanna a tre anni e dieci mesi per concorso esterno in associazione
mafiosa.
La notizia del suicidio mi colpì profondamente anche se, in tutta sincerità, non
ne rimasi stupita. Scavando nella sua vita professionale e privata, già nel corso
delle indagini avevo avuto la percezione di trovarmi davanti a un uomo
depresso, borderline, abbandonato anni prima dalla moglie e incapace di
mantenere un rapporto con il figlio. Insomma, una persona non solo
problematica, ma incapace di darsi un freno morale, tanto che mi chiesi come
avesse potuto per anni continuare a svolgere la funzione di magistrato, giacché
questo suo profilo era ben noto a colleghi, avvocati, cancellieri. Al contrario,
Vincenzo Giglio godeva di una tale considerazione nel distretto reggino che,
dopo l’arresto, la sua fama di giudice preparato e imparziale aveva reso molto
difficile il rapporto tra noi e la corporazione, i colleghi calabresi in particolare,
quasi che procedendo secondo la legge avessimo violato chissà quale codice
interno della categoria. Prevedendo tali reazioni, avevo formulato un capo di
imputazione in cui spiegavo in dettaglio i rapporti di Giglio con il clan mafioso e
il mondo politico, riportando i dialoghi, le telefonate, gli incontri e le manovre
con cui intendeva ottenere la raccomandazione per la moglie o i fatti che
dimostravano il suo interessamento nei confronti di Giulio Lampada, a sua volta,
come il consigliere regionale, in cerca di conferme su eventuali inchieste che lo
riguardassero.
La scelta di essere minuziosa si rivelò giusta. Ai primi lanci di agenzia
(peraltro limitati alla notizia dell’arresto), la magistratura reggina si era mossa
compatta indicendo un’assemblea, e la corrente cui Giglio apparteneva aveva
diramato un duro comunicato in cui si stigmatizzava l’accaduto. Ma qualche ora
dopo, quando i capi d’imputazione diventarono noti, l’ondata di indignazione
corporativa (ovviamente, non contro l’arrestato) si placò, anche se poi rimase a
lungo la spaccatura tra innocentisti tout court e colpevolisti.
Impossibile non trovare qualche analogia tra i casi di cui mi ero occupata nel
corso degli anni. Squillante si era venduto accumulando ricchezze ingenti, Giglio
per ottenere il posto cui aspirava la moglie, Giusti in cambio di una vita tra
alberghi esclusivi e incontri sessuali a pagamento. Persone e personalità molto
diverse, non c’è dubbio, ma con un tratto comune: in un modo o in un altro, tutti
avevano agito sentendosi intoccabili. Squillante confidava sulla sua rete di alto
livello con la politica e i poteri forti, oltre che sulla protezione o l’indifferenza di
chissà quanti colleghi romani. In fondo conveniva a molti, nella Capitale, tenere
il potente capo dei gip al riparo da grane giudiziarie, senza immaginare che la
batosta sarebbe arrivata da un’altra città. Anche Giglio si era mosso in modo
spregiudicato, spingendosi a dileggiare l’apparente impegno antimafia (“Fa
fico,” rideva al telefono con i suoi sodali), perché quei comportamenti erano
talmente diffusi da essere ritenuti normali negli ambienti in cui operava,
comprese le sue ricerche di appoggi e le sue ambigue frequentazioni nell’ambito
della borghesia mafiosa locale. Perciò Giglio si permetteva di pontificare
pubblicamente sulla pericolosità delle cosche, particolarmente oppressive a
Reggio, senza che nessuno gli rinfacciasse l’amicizia con Giulio Lampada.
Giusti, infine, viveva la sua vita al limite perché era innanzitutto disadattato, ma
anche furbo e privo di morale: prima delle nostre indagini, aveva collezionato
procedimenti disciplinari e penali, sempre finiti in un nulla di fatto. Va aggiunto
che, evento rarissimo all’interno della magistratura, il Consiglio giudiziario di
Reggio Calabria aveva espresso all’unanimità parere negativo all’avanzamento
in carriera di Giusti. Ma, fino all’arresto, il giudice non aveva dovuto dismettere
la toga.
Il tutto costituiva una desolante conferma dell’incapacità dell’autogoverno di
mantenere alti gli standard della categoria. A distanza di quasi vent’anni dalle
vicende romane non era cambiato nulla e per questo, proprio in quell’occasione,
decisi che non aveva più senso far parte dell’Associazione nazionale magistrati.
Nel dicembre 2010 comunicai all’Anm le mie dimissioni irrevocabili. Erano
anni che ci pensavo, avvertendo tutta l’inadeguatezza dell’organismo a
rappresentare istanze che non fossero quelle corporative, ma avevo sempre
rinviato il gesto per non creare ulteriori fratture e suscitare nuove polemiche in
un periodo di conflitti tra politica e magistratura, acutizzati dai processi al
presidente del Consiglio.
Non sono la prima ad affermare, sulla base dell’esperienza, che nel contrasto
alla mafia non basta la sola azione repressiva dello Stato e che – se davvero
vogliamo sconfiggerla – non dobbiamo immaginarla come un cancro, un corpo
estraneo che intossica una comunità di persone perbene, proprio come si
raccontavano i cittadini lombardi. È invece necessario riconoscere che la mafia
ci somiglia, come peraltro dimostra proprio l’esistenza della “zona grigia”.
Se la mafia si riducesse soltanto a una questione criminale non pensa che in quasi un secolo sarebbe stata
eliminata dai poteri repressivi dello Stato? Il guaio è che occorre tenere conto non soltanto della politica,
ma anche del tessuto sociale sostanzialmente ambiguo dei siciliani. Cosa nostra non è un bubbone, è la
degenerazione a livello criminale di uno stato d’animo diffuso tra tutti i ceti e tutte le classi sociali. Sa
cos’è la zona grigia? La descriveva Primo Levi nel suo libro I sommersi e i salvati: è l’ibrido dai contorni
mai definiti, che separa, lega e congiunge i due campi dei padroni e dei servi.

Così, nel 1979, Giovanni Falcone rispondeva a Corrado Stajano, che lo


intervistava per il “Corriere della Sera”.
Dal 1992 in poi, in tema di contrasto militare alle associazioni mafiose, lo
Stato ha saputo rispondere con leggi adeguate e interventi mirati. Centinaia di
mafiosi, siciliani, calabresi, campani, sono stati catturati e condannati
all’ergastolo o a pene pesantissime. L’incisività delle procure ha permesso di
scavare anche nella zona grigia, arrestando ogni genere di insospettabili,
purtroppo anche magistrati. Resta da chiedersi se oggi l’aria che si respira in
Calabria o in Sicilia sia migliorata, se dopo tutti questi anni di impegno e di
sacrifici la società civile abbia tolto un po’ di spazio alla borghesia mafiosa.
Risposta difficile.
Penso che l’ambiente sia migliorato rispetto a venti o trent’anni fa, ma che sia
ancora troppo inquinato e tossico per una serena convivenza civile. Non mi ha
stupito, quindi, ricevere nel gennaio 2012 da un calabrese, che ha preferito non
firmarsi, una lettera che mi ha commosso:
Catanzaro. Questa è la storia di una città che rappresenta uno spazio vuoto. Qui non è come altrove, qui
sono tutti la stessa cosa. Allora può accadere che un noto avvocato, amico di un colonnello dei
carabinieri, ascolti le intercettazioni. Può accadere che di queste se ne faccia uso per ricatti o per affari.
Affari sporchi? Non si sa, in questa città l’illegalità è un’istituzione. Qui può accadere che non si arresti
nessuno che conti da mezzo secolo. Ogni tanto, per fare apparire che qualcosa si muove, mettono dentro
un po’ di zingari, colpevoli, ma è il male minore. Il risultato è che non si capisce cosa sia la mafia,
semplicemente perché la mafia è tutto. La città in cui un notaio trucca esami all’università, presta soldi a
usura, traffica opere d’arte false e poi a lui stesso viene chiesto di autenticarle. Il tutto usando personaggi
a lui vicini e facendo gravitare nel suo studio “i cutresi”. E poi magari gli vengono riservati consensi per
mecenatismo artistico. Un notaio sa quante società aprire e chiudere con intestazioni famigliari e satelliti.
Basterebbe osservare tutte le società a lui satellite. Un uomo politico si accompagna con galeotti e loro
fanno la campagna elettorale, la impongono più che altro. Il grave è che non esiste il resto. I salotti di
questo avvocato, di quel notaio o dell’uomo politico sono riempiti dalla città “bene”, imprenditori e
giudici compresi. Coloro i quali non sono invitati aspirerebbero a esserlo. In un angolo qualche cittadino
terrorizzato e povero, taciturno e con addosso il male incurabile di vivere. Grazie procuratore, grazie di
tutto. Ma questa è una città priva di spiragli di legalità. Qui i bagliori di luce non arrivano, e lei,
comprendo, non può fare tutto. Buon lavoro.

Catastrofismo? Forse. Difficile stabilirlo a mille chilometri di distanza ma, da


quello che si legge, direi che non molto è cambiato, se solo pensiamo alla
politica, rimasta inefficiente e litigiosa, o alla sanità, commissariata per
infiltrazioni mafiose in quasi tutte le province. E la magistratura? Solo pochi
mesi fa, nel dicembre 2019, a Catanzaro è stato indagato e rimosso dall’incarico
per accuse di corruzione il collega Vincenzo Luberto, uno dei vice e braccio
destro del procuratore Nicola Gratteri, addirittura incaricato di coordinare le
inchieste antimafia. La vicenda giudiziaria farà il suo corso, ma è certo che,
ancora una volta, l’Associazione magistrati, almeno in sede locale, non ha
ritenuto di prendere una posizione precisa né ha colto l’occasione per avviare
una seria e pubblica riflessione sulla categoria, particolarmente necessaria in un
territorio così martoriato. Peraltro, il caso Luberto non è stato il solo campanello
d’allarme dello sfilacciamento etico dell’ordine di cui ho fatto parte per oltre
quarant’anni, perché tra Puglia e Sicilia altre toghe sono finite in manette
accusate di reati infamanti.
Ho imparato da tempo a essere realista: e quello che vedo, leggo e sento
continua a non piacermi.
27.
Ruby

La nomina di Bruti Liberati a capo della procura fu generalmente apprezzata


dai colleghi dell’ufficio perché, dai più giovani ai più anziani, ne avevano
sempre sentito parlare come di un magistrato corretto, che avrebbe garantito
autonomia e indipendenza all’ufficio.
Conobbi Edmondo a Trieste nel 1975, quando ancora non ero entrata in
magistratura, a un convegno sul sistema penitenziario. Di lì a breve lo rividi a
Napoli, al primo congresso di Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati era
già un leader. Diventammo amici e il nostro rapporto si consolidò quando, fresca
di nomina, presi servizio alla procura di Milano, dove Edmondo viveva e
lavorava e dove iniziai a partecipare alla vita di Md. Erano anni molto difficili, le
stesse lacerazioni provocate dal terrorismo nel Paese erano presenti anche nella
magistratura. Tra noi c’era chi considerava i brigatisti “compagni che sbagliano”
(in qualche modo legittimandoli, pur condannandone l’operato) e chi invece – io
tra questi – aveva una posizione più netta, ripudiava il ricorso alla violenza, ma
allo stesso tempo si batteva perché lo Stato non scivolasse in una deriva
autoritaria, con una legislazione speciale di stampo totalmente repressivo, dalla
quale sarebbe poi stato difficile tornare indietro.
Di quel periodo ricordo con tenerezza anche le riunioni del collettivo donne
del palazzo di giustizia. Nemmeno allora ero collocabile politicamente, ero un
cosiddetto “cane sciolto”, e mi sentivo libera di criticare alcune posizioni
sciorinate in quelle fluviali riunioni avvolte dal fumo di sigaretta; diffidavo delle
teorie più oltranziste come degli atteggiamenti smaccatamente leaderistici,
troppo simili a quelli maschili. Ma li ricordo comunque come momenti belli,
formativi, nutro affetto e considerazione per le colleghe allora più impegnate e
più esposte: senza dubbio queste donne magistrato hanno contribuito in tempi
non facili a scrivere la storia del palazzo di giustizia di Milano. Ed è anche
grazie a loro che mi ero sentita meno sola al mio arrivo da Napoli.
Nel 2010 il lavoro come coordinatrice della Dda mi impegnava molto, ne ero
soddisfatta e non immaginavo che di lì a poco avrei dovuto rivivere l’incubo di
fronteggiare Silvio Berlusconi.
Nella notte tra il 27 e il 28 maggio fu arrestata la minorenne marocchina
Karima El Mahroug, accusata di furto. In quelle ore il presidente del Consiglio
era a Parigi per un impegno istituzionale ma, avvertito che Karima si trovava in
questura a Milano, aveva telefonato al capo di Gabinetto del questore, dicendogli
che la ragazza gli era stata indicata come la nipote del presidente egiziano Hosni
Mubarak e che bisognava chiudere in fretta quella vicenda per non rischiare
conseguenze sul piano diplomatico. Per questo motivo Berlusconi stava
mandando in via Fatebenefratelli la consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti,
persona di sua fiducia, per prendere in custodia la giovane marocchina senza
seguire le normali procedure. Cosa che infatti avvenne.
La pratica di Karima si era arricchita qualche mese dopo di nuovi particolari
inquietanti. Nel mese di luglio, la minorenne era stata ricoverata presso la clinica
pediatrica De Marchi, per le conseguenze di una lite turbolenta con una sua
amica. Come da prassi, era stata avvicinata da un’assistente sociale, alla quale
aveva cominciato a raccontare la sua vita, prima in Marocco e poi a Milano,
dove era arrivata piena di speranze. Come tante ragazze della sua età, anche
“Ruby”, di bell’aspetto e di indubbio fascino, voleva farsi strada nel mondo dello
spettacolo. Così – continuava il suo racconto – grazie ai buoni uffici di Lele
Mora e di Emilio Fede, era sbarcata sul “Pianeta Arcore”, diventando una
frequentatrice abituale della residenza di Berlusconi. L’assistente sociale aveva
riversato quelle confidenze in una relazione e, data la particolarità del racconto,
l’aveva inviata a Piero Forno, il procuratore aggiunto che coordinava il
dipartimento “fasce deboli”, cioè indagava sui reati di violenza sulle donne,
pedopornografia, abusi sui minori. Karima era stata interrogata due volte da
Forno nello stesso mese di luglio e, successivamente, dal sostituto Antonio
Sangermano. A quest’ultimo la giovane aveva raccontato in dettaglio le
cosiddette “cene eleganti” di Arcore e gli ormai famosi rituali ludico-erotici del
bunga bunga.
Dopo l’estate, Edmondo mi chiamò nel suo ufficio e mi mise al corrente
dell’indagine, ancora coperta dal segreto assoluto. Dire che ne rimasi sorpresa
non rende l’idea: l’intero racconto mi sembrava assurdo e frutto della mente di
una ragazzina dalla fantasia molto accesa. Mi limitai perciò a raccomandare a
Edmondo estrema prudenza, invitandolo a vigilare perché i colleghi verificassero
con rigore le circostanze fino a quel momento emerse solo dalle parole di Ruby.
Intanto, però, mi chiedevo anche perché Bruti Liberati me ne avesse parlato,
dato che mi occupavo di tutt’altro. Ma l’avrei capito molto presto. Quando,
qualche giorno dopo, Edmondo mi chiamò di nuovo, le sue intenzioni erano più
esplicite: mi chiese la “cortesia” di leggere i verbali di interrogatorio di Karima e
di esaminare la documentazione fin lì raccolta. Gli risposi subito di no, proprio
non avevo tempo perché impegnatissima con le indagini antimafia. Per di più,
dopo tutto quello che avevo passato, non volevo trovarmi ad avere di nuovo a
che fare con Berlusconi e il suo entourage.
Ma Bruti Liberati aveva già in mente il suo obiettivo, si fece insistente, mi
disse che era molto preoccupato per i possibili sviluppi giudiziari e il loro
riflesso politico e internazionale. Insomma, era chiaro che aveva già fiutato uno
scenario più ampio e complesso. Così, per l’affetto che ho per lui, per sollevarlo
dalla sua preoccupazione e per il solito senso del dovere, accettai di leggere
quelle carte. Edmondo aveva ragione: quegli interrogatori mi fecero l’effetto di
un colpo in testa.
Lo scenario delineato dalla ragazza faceva accapponare la pelle. Restavo
comunque diffidente, per quei racconti in cui ricorrevano situazioni scabrose che
coinvolgevano anche donne che rivestivano ruoli istituzionali e altre famose nel
mondo dello spettacolo. Ero sconcertata, per tutt’altri motivi, anche dalla
relazione dei poliziotti sulla notte trascorsa in questura da Karima e
sull’intervento del presidente del Consiglio per affidarla alla consigliera di sua
fiducia. In quella relazione riconoscevo un comportamento spregiudicato che
avevo già sperimentato.
Lette le carte, quindi, ero più che mai determinata a tenermi lontana dalla
vicenda. Non avevo dubbi su cosa fosse meglio per me, ma a quel punto –
unendosi alle insistenze di Edmondo – erano scesi in campo anche i colleghi
Forno e Sangermano chiedendomi in amicizia di dare loro una mano in
quell’indagine abbastanza anomala per il dipartimento “fasce deboli”. Come se
non bastasse, proprio in quel periodo si era verificata un’altra circostanza: il
collega Sangermano aveva appena ottenuto un posto nel mio dipartimento, per il
quale si era proposto tempo addietro. Secondo la regola dell’ufficio, un pm che
cambia settore non può “lasciar cadere la penna”, cioè abbandonare i fascicoli
che gli sono stati assegnati. È invece tenuto a portare a termine le indagini
avviate nel ruolo precedente. Così, in ogni caso, Sangermano doveva continuare
a seguire quell’inchiesta, oltretutto sotto la responsabilità di un altro aggiunto.
Pur mettendo in fila tutti i contro (di pro non ne vedevo), finii per accettare
anche questa sfida, ben consapevole, stavolta, di ciò che mi aspettava se avessi
trovato i riscontri alle dichiarazioni di Ruby: insinuazioni, attacchi feroci, false
accuse. Non avevo messo in conto, però, che mi sarei ammalata.
Da qualche anno faceva parte della squadra dei miei collaboratori un’ispettrice
di polizia, Elena Rosso, donna competente, dotata di grandi capacità e anche una
persona tranquilla, con il sorriso sulle labbra, sempre pronta a sostenermi anche
quando i ritmi di lavoro aumentavano ed era necessario sacrificare sabati e
domeniche. Se non l’avessi avuta accanto in quel periodo, non so come avrei
potuto gestire contemporaneamente le indagini di mafia e quelle sulle cene di
Arcore. Elena passava ore al computer, senza mollare mai. Leggeva tutto con
attenzione, dando così un fondamentale contributo per predisporre in tempi brevi
l’invito a comparire a Berlusconi.
Restammo inchiodate per giorni davanti allo schermo, sedute l’una accanto
all’altra. Una fatica aggravata dal fatto che la povera Elena, non fumatrice,
doveva sopportare stoicamente il mio vizio, accentuato dalla tensione di quelle
giornate. Inoltre, sempre a causa dello stress, è capitato diverse volte che andassi
sopra le righe e finissi per scaricare su di lei i momenti di nervosismo. Con
educazione, ma con fermezza, Elena sopportava i miei assalti nevrotici,
dopodiché mi bacchettava e io finivo per scusarmi. Ho sempre potuto contare su
di lei, sulla sua totale riservatezza e non ho mai avuto remore ad affidarle i
materiali di indagine più delicati. A Elena voglio bene, ha contribuito in modo
significativo al funzionamento dell’ufficio, la polizia di Stato le deve molto e io
pure. Dopo il mio pensionamento non ci siamo perse di vista, anzi, ha scelto di
dedicare il tempo libero a cimentarsi nel difficilissimo compito di trascrivere i
miei pensieri poi riversati in questo libro, interpretando la mia orrenda grafia che
ha imparato a decifrare in tanti anni di lavoro insieme.
Berlusconi è stato il primo leader occidentale a finire nei guai per una
relazione sessuale con una minorenne. Mentre il termine bunga bunga faceva il
giro del mondo, oggetto di satira e sinonimo di scarsa credibilità politica, il 14
gennaio 2011 a Roma venivano notificate agli avvocati del premier le 389
pagine dell’invito a comparire e, contemporaneamente, scattavano le
perquisizioni negli appartamenti che il Cavaliere aveva messo a disposizione
delle ospiti più gettonate alle cene eleganti, con il sequestro di denaro,
fotografie, gioielli. Nella casa genovese di Ruby venne ritrovato un foglietto con
su scritto, tra l’altro, “da Berlusconi 4,5 milioni di euro”.
Non era stato invece possibile perquisire l’ufficio del ragionier Giuseppe
Spinelli a Milano 2, perché coperto da immunità, giacché una minuscola targa di
cartone accanto alla porta recava la dicitura “sede parlamentare”. Il punto su cui
cercavamo ulteriori conferme – anche se la documentazione bancaria parlava da
sola – erano i movimenti di denaro che con provata regolarità avvenivano in
quella dépendance parlamentare. Su disposizione di Berlusconi, il fidatissimo
ragionier Spinelli ritirava ogni lunedì da un conto personale del presidente una
cospicua quantità di contante, parte del quale serviva a pagare le frequentatrici di
Arcore. Dall’analisi di quel conto corrente risultò per il solo 2010 il
prelevamento di 12 milioni di euro cash, in parte utilizzati per regali, acquisto di
appartamenti e simili, in favore delle animatrici delle serate del padrone di casa e
dei suoi amici.
Non potendo perquisire l’ufficio di Milano 2 senza l’assenso della Camera,
inviammo a Montecitorio la richiesta di autorizzazione a procedere completa di
allegati. Non erano trascorse ventiquattro ore dall’arrivo del fascicolo nella
Capitale che ne venne divulgato il contenuto. La sostanza del quadro che ne
emergeva era che Nicole Minetti, un’igienista dentale venticinquenne
trasformata in consigliera regionale, procurava e gestiva ragazze di bell’aspetto
disponibili a scendere nella tavernetta di Arcore. Giovani donne a volte
spalleggiate da avidi genitori che le spingevano nel letto di Berlusconi o magari
fidanzate con uomini ambiziosi e compiacenti che le consigliavano su come
emergere dalla sgomitante folla di contendenti in fiore.
Come ammetteva anche una parte dei suoi fedelissimi, l’io ipertrofico di
Berlusconi non accettava critiche o consigli e così il capo stava spingendo il
Paese lungo una china molto pericolosa. Il suo stile di vita rendeva vulnerabile la
funzione pubblica che svolgeva, la sua vita privata lo esponeva a pressioni di
fatto incontrollabili. Qualsiasi ragazzina ammessa alla sua dimora per le cene
eleganti avrebbe potuto ordire ricatti (come si sarebbe puntualmente verificato),
mettendo a rischio l’uomo e l’istituzione.
L’avversione nei miei confronti da parte di alcuni ambienti politici e
dell’opinione pubblica, sopita ma non spenta dopo gli anni parossistici dei
processi a carico del Cavaliere, con quest’ultima indagine si manifestò
nuovamente e con la solita virulenza. Stavolta, la mia colpa era indagare sulla
vita di un uomo pubblico, mettendone a nudo distorsioni e perversioni.
Per molto tempo mi sono chiesta quali ragioni mi avessero spinta a occuparmi
nuovamente di Berlusconi. Esclusa ogni ragione di carriera (che, anzi, ne veniva
solo penalizzata), non posso escludere – con il senno di poi – che abbia pesato
anche quel lato oscuro che spinge le persone a farsi del male da sole.
Proprio in quello stesso mese di gennaio avevo cominciato a sentirmi molto
stanca, facevo fatica ad alzarmi dal letto la mattina, anche se poi lentamente mi
riprendevo e stavo bene per il resto della giornata. Dato che le analisi non
segnalavano anomalie, attribuivo quei cali di energia mattutini allo stress
accumulato. I mesi passavano, la debolezza era continuata anche con l’arrivo
della primavera e così mi consigliarono di ripetere gli esami di laboratorio. A
differenza di qualche mese prima, era emerso un calo del valore
dell’emoglobina. Di nuovo, non diedi peso al numerino sballato e fissai una
visita da uno specialista solo verso fine giugno, ottenendone il consiglio (per
nulla allarmato) di interpellare un ematologo. Cosa che feci. Nuove analisi e,
stavolta, al calo dell’emoglobina si era aggiunto quello dei globuli rossi. Il
dottore volle approfondire e fu così che risultai positiva al test di Coombs: avevo
una rara malattia del sangue. Nemmeno quel responso fu sufficiente a farmi
affrontare seriamente la malattia. Ormai sentivo l’estate, avevo voglia di mare, di
sole, di riposo, grazie al clima caldo mi sentivo molto meglio, così accantonai
l’idea di iniziare subito le cure e partii per le vacanze.
A ottobre la debolezza era aumentata, alzarmi dal letto diventava ogni mattina
più faticoso. Non riuscivo nemmeno a respirare normalmente, ma andavo avanti
tirando le giornate con i denti. Credo che il motivo della mia ostinazione fosse al
fondo uno solo: trovavo inaccettabile che il mio corpo non rispondesse con
l’energia di sempre.
Così, dopo un faticoso weekend a Barcellona con Francesca e Rita, finalmente
decisi di rivolgermi a Fabio Magrini, il mio cardiologo di fiducia nonché amico
di vecchia data. Magrini mi accompagnò dal primario del reparto di
Oncoematologia del Policlinico, il professor Agostino Cortelezzi, l’uomo che mi
avrebbe salvato la vita. Pacatamente ma senza nascondere nulla, Cortelezzi mi
spiegò cosa fosse l’anemia emolitica autoimmune da crioagglutinine, quali
fossero i rischi cui andavo incontro, a quali cure sarei stata sottoposta.
Nutro un autentico terrore per gli ospedali, per la malattia in generale e ho un
pessimo rapporto con il dolore fisico. In poche parole, sono una fifona e, pur di
evitare di soffrire, ho sempre preteso l’anestesia o la sedazione totale anche per
interventi non particolarmente invasivi. Quando mi fanno qualcosa – è il
pensiero di cui sono schiava – non devo essere cosciente, così se muoio non me
ne accorgo, se invece posso vedere e sentire quello che mi stanno facendo,
rischio l’infarto. So bene che è un approccio infantile, ma ho sempre dovuto fare
i conti con questa paura senza rimedio. Molti anni fa, quando ero in Sicilia,
venni sottoposta a un ago aspirato. Non appena vidi avvicinarsi il medico con
un’enorme (o così la giudicai) siringa in mano caddi a terra, svenuta, battendo la
testa. Al risveglio, uno dei medici accorsi, riconoscendomi, mi prese
bonariamente in giro: “Ma come, dottoressa, rischia la vita per combattere la
mafia e mi sviene per una siringa?”. Gli risposi ridendo un po’ imbarazzata che
avevo più paura della sua siringa che dei kalashnikov.
L’emoglobinuria parossistica da freddo è una forma rara di anemia che causa
la distruzione dei globuli rossi, manifestandosi in forma più acuta e più di
frequente nei mesi invernali, per via delle basse temperature. Io ero esattamente
in quella fase nel novembre 2011. Non mi reggevo in piedi, ero di un pallore
spettrale, ma decisi di non dire ancora nulla ai miei fratelli e ai miei figli, perché
volevo prima avere il quadro completo degli esami clinici. Cominciò così un
percorso ospedaliero di controlli pressoché giornalieri, compresi quelli
cardiologici, perché l’anemia può compromettere la funzione del cuore. Unica
consolazione, sentivo intorno a me il calore del personale medico e degli
infermieri. Ho trascorso mesi in compagnia di queste persone, ho potuto
appoggiarmi a loro. Ho anche imparato a sopportare il dolore, a volte la
disperazione, degli altri pazienti più sfortunati di me, che potevo osservare
durante i trattamenti.
A causa delle massicce dosi di cortisone che assumevo, il mio volto si era ben
presto gonfiato, così da alterare i normali lineamenti, tanto che mi guardavo
sempre meno allo specchio e, le rare volte che uscivo, portavo una sciarpa
leggera per coprirmi almeno parte del volto. Nemmeno in ufficio dissi nulla se
non al capo e, d’accordo con lui, cominciai a lavorare spesso da casa. Rocco e
Antonio, gli autisti che da anni si alternavano alla guida dell’auto che mi era
assegnata, portavano avanti e indietro i documenti che mi servivano.
Nel 2012 la situazione non migliorava. Dopo sei mesi di trattamenti con il
cortisone, i valori continuavano a scendere, i medici erano preoccupati e
preferirono ricoverarmi per sottopormi eventualmente a trasfusioni di sangue,
anche se per la mia patologia quella prassi era ritenuta rischiosa. Mi assegnarono
una stanza nel reparto adibito al trapianto di midollo: completamente isolata, con
medici e infermieri diversi da quelli che mi avevano assistito fino a quel
momento, ero spaventata a morte, anche perché ormai riuscivo a stento ad
alzarmi dal letto e per le infermiere era sempre più difficile riuscire a bucarmi le
vene, dopo settimane di prelievi e fleboclisi. Ad aumentare la mia ansia, i
lamenti e le grida di dolore che di tanto in tanto arrivavano dalla stanza accanto.
Durante il ricovero, durato quindici giorni, non potevo ricevere visite per non
sfidare il mio sistema immunitario. L’unico legame con il mondo era il telefono
cellulare e comunque non avevo voglia di parlare con nessuno se non con i miei
figli.
A febbraio, ultimata la fase del cortisone, cominciò la cura vera e propria: una
volta alla settimana mi ricoveravo in day hospital, mi veniva prelevato il sangue
per le analisi, dopodiché restavo per sei ore attaccata alla fleboclisi. Sei ore in
cui il tempo sembrava non passare mai, il liquido scendeva molto lentamente
dalla sacca nelle mie vene e non riuscivo nemmeno a leggere per il torpore che
mi causava. In quelle ore pensavo molto ai miei figli, non volevo morire, volevo
godermeli ancora a lungo ed ero contenta della loro vicinanza affettuosa.
Il bombardamento in vena sortì l’effetto sperato. Piano piano i valori
risalivano, grazie alle dosi sempre minori di cortisone diminuiva il gonfiore del
viso e poi eravamo quasi in primavera. Cominciai a sentirmi più in forze e
pronta a riappropriarmi della mia vita.
Mentre scrivevo questo libro chiusa in casa per la pandemia, che in Lombardia
e a Milano ha mietuto la maggior parte delle vittime, guardavo fuori: la piazza,
di solito affollata, trafficata, frenetica, era deserta, i rari tram passavano vuoti o
con due o tre passeggeri a bordo. Anche se viviamo nel raggio di duecento metri,
non ho visto a lungo i miei figli e i miei due nipotini: in quel momento duecento
metri erano un oceano. Era giusto così per loro e per me. Scrivere mi stava
aiutando ad allontanare l’angoscia.
Vorrei abbracciare tutti i medici e gli operatori sanitari che stanno
combattendo questa malattia sconosciuta e malvagia. Non sono eroi, come non
lo era Giovanni. Sono donne e uomini che per uno stipendio spesso inadeguato
onorano l’impegno assunto, persone perbene che hanno a cuore la nostra salute e
non mollano mai, anche pagando costi altissimi, compresa la vita. Sono gli
uomini e le donne della sanità pubblica che in Lombardia è sempre stata
un’eccellenza, ma anche preda di speculatori che l’hanno spolpata per anni,
dirottando risorse e professionisti al servizio dei privati.
Negli ultimi anni ho avuto bisogno di cure e ho trovato negli ospedali pubblici
competenza, disponibilità, spirito di sacrificio, a fronte anche di strutture
vecchie, mobili sgangherati, macchinari non sempre all’avanguardia. È per
questo che mi sono rimasti in mente i volti sorridenti e comprensivi dei medici e
degli infermieri.
Purtroppo mi sono ammalata di nuovo. Dopo sette anni l’anemia è tornata ma,
nonostante le mie paure, ora so di poter contare sulla competenza e l’affetto di
chi mi cura.
28.
La sentenza e Peppe

Nel gennaio 2011 la malattia era già dentro di me anche se io l’avrei saputo
mesi dopo. Probabilmente per esplodere aspettava solo una spintarella che
aumentasse il livello di stress fisico e psicologico cui ero sottoposta da anni. Il
27 gennaio di quell’anno, il quotidiano “il Giornale” pubblicò in prima pagina
un articolo intitolato “Verità nascoste. Amori privati della Boccassini”. La
giornalista che lo firmava, Anna Maria Greco, ripescava una vicenda di cui ero
stata vittima quasi trent’anni prima, un fatto dall’inconfondibile olezzo di
misoginia che in un sol colpo aveva leso la mia vita privata e la mia immagine
pubblica.
Nel 1981 ero finita sotto procedimento disciplinare dopo che l’allora
procuratore Mauro Gresti (delle cui opacità ho già scritto) aveva chiesto il mio
trasferimento ad altra sede per incompatibilità ambientale. Tutto era nato dalla
relazione di servizio di un carabiniere di scorta a un collega molto vicino al
procuratore stesso. In questa relazione, scritta ad arte per danneggiarmi, il
carabiniere riferiva di avermi vista per strada in atteggiamenti sconvenienti con
un giornalista di sinistra. E qual era l’atteggiamento così scandaloso da meritare
di essere segnalato in un rapporto? Stavo camminando lungo una via vicina al
palazzo di giustizia, in pieno giorno, a braccetto con un amico. Un
comportamento di per sé disdicevole – secondo il procuratore – ma con alcune
“aggravanti”: io ero un pubblico ministero, simpatizzante per la corrente di
Magistratura democratica, divorziata (nelle carte inviate al Csm le parole
“Magistratura democratica” e “divorziata” erano sottolineate in rosso) e il mio
amico era “persona nota” in quanto cronista giudiziario, accreditato presso la
sala stampa del palazzo per il quotidiano “Lotta continua”. Insomma, nella testa
del procuratore eravamo due pericolosi sovversivi che, sommati, avrebbero
potuto danneggiare l’immagine dell’ufficio, io rivelando e lui scrivendo chissà
quali segreti istruttori. In realtà, in quei miei primi anni da magistrato mi
occupavo esclusivamente di reati bagatellari, ma poco importava: il vero
pericolo che rappresentavo per una certa mentalità allora imperante era costituito
dalla mia simpatia per Md. Benché fossero tanti i colleghi della procura che
militavano attivamente nello stesso gruppo, Gresti scelse freddamente di colpire
me, una giovane collega donna.
Tutte quelle assurde accuse caddero e nel 1983 venni prosciolta. A difendermi
era stato Armando Spataro, all’epoca uno dei sostituti di punta e in prima linea
nella lotta al terrorismo politico: il solo fatto che avesse accettato di
rappresentarmi davanti alla sezione disciplinare diceva abbastanza
sull’inconsistenza delle calunnie e sulla “pericolosità” del mio rapporto di
amicizia con un giovanotto di sinistra. Anche se sono passati tanti anni, ricordo
perfettamente che per l’audizione innanzi al Csm scelsi un vestito decisamente
serioso, con tanto di bavero bianco che mi copriva il collo: mi sentivo una Maria
Stuarda che stava affrontando il patibolo con la fierezza di una regina offesa
nell’onore. Regina a parte, l’indignazione mi bruciava eccome.
L’articolo del “Giornale” del 2011 riportava dettagliatamente le notizie e i
documenti riservati risalenti a trent’anni prima, conservati nella mia pratica
personale al Consiglio superiore. Come aveva fatto la giornalista a entrarne in
possesso? Semplice. Un membro laico del Consiglio, Matteo Brigandì, avvocato
messinese nonché ex deputato ed ex senatore della Lega Nord, era andato a
frugare nell’archivio, aveva sottratto il contenuto del mio fascicolo e l’aveva
passato al quotidiano berlusconiano. Un vero e proprio killeraggio organizzato ai
miei danni, cui si erano prestati un indegno rappresentante delle istituzioni
fattosi ladro, un direttore di giornale e una giornalista.
L’obiettivo era, al solito, quello di disinformare e così disorientare l’opinione
pubblica, mettendo sullo stesso piano lo spessore morale di Berlusconi e quello
della donna che rappresentava la pubblica accusa nello scandaloso “caso Ruby”,
colei che aveva “spiato” le feste di Arcore, ascoltato le conversazioni pruriginose
delle ragazze di via Olgettina, che aveva preteso di “sbirciare nella camera da
letto” del presidente del Consiglio. Così ogni giorno ripetevano sui giornali e in
tv gli accoliti del capo del centro-destra.
Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, il 2 febbraio, dando seguito
alla segnalazione della presidenza del Csm, la procura di Roma inviò la polizia
giudiziaria a perquisire la redazione romana del quotidiano e l’abitazione di
Anna Maria Greco. Nella sua reazione furibonda, il direttore Alessandro Sallusti
spese parole pesanti: “Per l’ennesima volta la corte dei magistrati mostra il suo
volto violento e illiberale. La perquisizione nell’abitazione privata della collega
Greco non è solo un atto intimidatorio, ma una vera e propria aggressione alla
persona e alla libertà di stampa”. Non mi pare che la libertà di stampa contempli
il diritto di distruggere la privacy di una cittadina e di infangarne l’immagine
professionale.
In quelle stesse ore, infatti, una lettera di minacce indirizzata a me fu
recapitata alla redazione bolognese del “Resto del Carlino”. Non era firmata, ma
riportava l’intestazione “Fuan” (compagine universitaria di destra, appendice del
Movimento sociale italiano) scritta in stampatello e le frasi contenute erano del
tipo “La Boccassini deve morire” e “Farai una brutta fine”. Dal timbro sulla
busta fu possibile verificare che la lettera minatoria era stata smistata dalle Poste
il 29 gennaio, meno di quarantotto ore dopo la pubblicazione dell’articolo del
“Giornale”. Nello stesso periodo mi fu recapitata in ufficio una busta con due
proiettili inesplosi.
Brigandì, dichiarato decaduto dal Csm dopo un paio di mesi dalla scoperta
della malefatta, ha successivamente subito un processo che si è concluso con la
condanna definitiva e con la liquidazione di un risarcimento a mio vantaggio di
60.000 euro. Ma approfittando delle lungaggini del processo, durato anni, l’ex
avvocato di Umberto Bossi – inseguito anche dal fisco e pure dalla Lega che
vantava crediti nei suoi confronti – ebbe il tempo di azzerare i suoi conti correnti
e di spostare la residenza in Tunisia, riuscendo così a risultare nullatenente in
Italia. Anche se, come ex deputato, percepiva dalla Camera un assegno vitalizio
pari a 5.471,10 euro mensili. Dopo la sentenza definitiva, nel 2019, il tribunale
di Roma ha accolto la mia richiesta di pignoramento. Ovviamente ne percepisco
solo spiccioli, perché Brigandì è debitore dell’erario per 1.391.059 euro e
l’Agenzia delle entrate gli trattiene ogni mese il 95,3%. Ma non importa, per me
conta la soddisfazione di aver ottenuto il riconoscimento per quell’ignominia e il
pignoramento di un vitalizio decisamente immeritato.
Nel periodo dell’ennesimo assalto mediatico non arrivarono, per fortuna, solo
insulti e minacce, ma anche attestati di solidarietà, soprattutto da parte di donne
di ogni età, ceto sociale, professione. Un fiume di affetto che mi fece bene anche
perché – pensavo – le donne che volevano testimoniare la loro vicinanza erano
lontane anni luce dalle frequentatrici di Arcore, altre giovani donne pronte a
tutto per assicurarsi un po’ di benessere e un po’ di effimera notorietà televisiva.
Il giorno stesso dell’uscita dell’articolo sul “Giornale”, ricevetti una email da
Marianna Aprile, che non conosco. Ma l’ho conservata ed è saltata fuori solo
quando ho lasciato la mia stanza numero 30 in procura:
Gentile dottoressa Boccassini, sono una giornalista del settimanale “Oggi” e le scrivo per testimoniare
tutta la mia solidarietà per l’indecente attacco di cui è stata fatta oggetto questa mattina da alcuni miei
colleghi. So che probabilmente l’aveva messo nel conto e che ha la corazza più forte dei petardi che certa
gente può indirizzarle. Ma a nome della categoria, le chiedo comunque scusa. A nome di tutte le giovani
donne italiane (vabbe’... giovani... io ho trentaquattro anni) la ringrazio invece per quello che sta
facendo. Spero davvero che quanto sta emergendo grazie al coraggioso lavoro suo e dei suoi colleghi
possa costituire un punto di svolta verso la ricostruzione della dignità delle donne in questo Paese.

Anche diversi collettivi di donne decisero di esprimere pubblicamente la loro


solidarietà, come per esempio il Centro donna di Lucca:
Cara Ilda Boccassini, vogliamo esprimerti la nostra solidarietà, la nostra vicinanza umana, il nostro
caloroso apprezzamento per il lavoro coraggioso, costante, determinato che svolgi, sfidando ogni giorno
gli attacchi dell’establishment, teso a demolire il tuo operato con le armi della denigrazione e della
diffamazione. Per chi ti ha seguito negli anni il tuo curriculum parla chiaro. Dalle indagini sulle
infiltrazioni mafiose al Nord, già all’inizio degli anni novanta, all’impegno siciliano per colpire i
responsabili della morte di Falcone e Borsellino, fino al ruolo di spicco nel pool di Mani pulite e nei più
recenti processi in cui è emersa la colpevolezza di Cesare Previti e Silvio Berlusconi, la tua presenza di
magistrata energica e appassionata ci ha gratificate e rassicurate, fornendo nuovi stimoli al nostro lavoro
di promozione della consapevolezza del protagonismo delle donne. Oggi che, senza cercare i clamori
della cronaca, attraverso il tuo lavoro di pubblico inquirente, ci sveli a quale livello di perversione può
giungere il potere di un uomo, il delirio maschilista di possedere le donne, ridotte a ossequio e ornamento
a una virilità stanca e morbosa, rendi un servizio a tutte noi, facendoci capire come ancora lungo sia il
cammino verso una soggettività femminile libera e autonoma. In fondo è questo che vorremmo da tutte
le donne che operano ogni giorno nelle professioni a vari livelli: non lasciarsi intimidire dalla
presunzione maschile e testimoniare con forza la nostra alterità. Auguri, Ilda.

Il pericoloso sovversivo che tanti anni fa si era permesso di stringermi il


braccio e sorridermi affettuosamente per strada si chiama Lionello Mancini, era
ed è un carissimo amico che mi è rimasto vicino in tutti questi anni e con il quale
ho condiviso momenti di gioia e di sofferenza. È stato – e continua a essere – il
mio grillo parlante, il confessore, il “consigliori”, il medico dell’anima, il
compagno di risate, il critico a volte spietato delle mie scelte di vita. Un uomo
razionale ma non distaccato, curioso di cose e persone, che ha svolto per una
vita, con onestà intellettuale, il mestiere di giornalista. È stato per tanti anni
caporedattore del “Sole 24 Ore”, poi vicedirettore di Radio24 e infine inviato del
quotidiano di Confindustria in materia giudiziaria. Nel corso della sua vita
professionale, Lionello si è conquistato la fiducia e la stima di tanti magistrati
perbene, che ne hanno apprezzato la serietà e l’equilibrio. Non a caso era uno dei
pochi giornalisti a godere della stima e dell’affetto di Falcone. Senza di lui non
so se avrei accettato di mettere nero su bianco la mia vita. Anche in questa
avventura Lionello è stato al mio fianco, il primo a leggere quello che scrivevo
mese dopo mese.
Con Lionello, oltre al dolore per la morte di Giovanni, ho condiviso la perdita
di un altro amico insostituibile, Giuseppe D’Avanzo, che ci è stato strappato da
un infarto senza segni premonitori quando aveva meno di cinquantotto anni,
mentre pedalava in una stradina di campagna con un gruppo di amici. Era il 30
luglio 2011, Peppe si stava allenando in vista di un tour di biciclettari che si
sarebbe tenuto in Sicilia di lì a poco. La notizia della sua morte mi arrivò in
tempo reale, mentre ero ancora a Milano in procinto di partire per Napoli. A mia
volta fui io a dare la notizia a Lionello, in ferie su un’isoletta greca. La sua
lontananza in quel frangente fu un peso aggiuntivo: completamente stordita, non
riuscivo a ragionare. Pietrificata e ancora incredula che non avrei mai più rivisto
Peppe, riuscivo a pensare solo al dolore della sua compagna Marina e della figlia
Giulia.
Non potevo far nulla per loro, ero come in trance, incapace di prendere
qualsiasi decisione: raggiungere di corsa Marina a Calcata, il paesino sperduto
del Viterbese in cui avevano composto la salma di Peppe? O andare a Roma per
il funerale laico che gli stavano organizzando? Non decisi un bel niente. Non
andai nemmeno a Napoli. Rimasi a Milano, chiusa in casa, capivo solo che non
ce l’avrei fatta ad aggiungere al mio il dolore di Marina, quello degli amici, ad
assistere alla commemorazione. E mi mancava Lionello, la sua spalla su cui
piangere l’amico di una vita. Da qualche parte dentro di me ero anche arrabbiata
con Peppe perché se n’era andato così, all’improvviso, in sella a una bicicletta, la
sua passione più recente dopo che aveva deciso di mettersi in forma rinunciando
anche ai suoi sigari e al suo Laphroaig. Odiavo l’hobby che lo aveva stroncato in
quella caldissima giornata di luglio, lasciandomi sola, senza i suoi baffoni, il suo
sguardo ironico, la sua generosità, il suo genio. Sola senza nemmeno i suoi
cazziatoni, le sue filippiche e le sue critiche, a volte gridate e feroci.
Quante volte i nostri confronti e le nostre discussioni erano finiti con una
rottura, tra insulti napoletani o silenzi carichi di tensione, che ci avevano
allontanati anche per lunghi periodi, nonostante i tentativi di mediazione
cautamente intrecciati da Lionello. Certo, prima o poi i tentativi riuscivano, e
riprendevamo a vederci, magari fissando arzigogolate condizioni che nemmeno
all’Onu... Ma che dolore per tutto il tempo sprecato a non parlarci e che non
avremmo più potuto recuperare. Sono passati dieci anni dalla sua morte, ma
ancora oggi l’odore di un sigaro mi fa pensare a lui e mi commuove, proprio
come vedere nel mio carrello dei liquori (sono astemia) le bottiglie che non
dovevano mai mancare e il necessario per un Negroni o un Campari shakerato
che lui e Lionello dovevano bere per celebrare ogni occasione di ritrovo a “casa
Ilda”. Quante serate trascorse a ragionare, a discutere e confrontarci fino a tarda
ora, avvolti nel fumo dei suoi enormi sigari (di cui faceva scorta in Galleria
quando veniva a Milano) e delle mie troppe sigarette. In quelle serate, arrivava
sempre il momento in cui parlavamo della nostra Napoli, accomunati dal
medesimo rapporto di odio-amore per la città, entrambi indissolubilmente legati
a quella terra in cui tornavamo a ritemprarci, io nel mare di Ischia, Peppe in
quello di Capri.
Con la sua scomparsa prematura, Peppe ha lasciato una voragine nel
giornalismo italiano. La sua potenza di reporter e di scrittore risiedeva nella
ricerca meticolosa di dati e di documenti, una rete di fonti riservate con pochi
paragoni e una capacità narrativa che riusciva a spiegare al lettore vicende
complesse, ricostruite minuziosamente e raccontate nello stile che era solo suo.
Avendolo visto all’opera, nei momenti di esaltazione, di sconforto o di rabbia,
ho capito che un’inchiesta giornalistica vera, uno scoop, non equivale a
procurarsi verbali o intercettazioni e poi sbatterli in pagina prima degli altri, ma
comporta un lungo lavoro silenzioso di analisi, di controlli incrociati con le fonti,
di collegamenti da ipotizzare e poi verificare con i fatti. Solo così si possono
illustrare ai lettori i meccanismi più profondi che governano gli eventi, solo così
i lettori conservano la loro fiducia nei media indipendenti.
Peppe sapeva fare tutto questo con passione, rigore e un’enorme competenza:
“Un’inchiesta giornalistica,” ha scritto, “è la paziente fatica di portare alla luce
fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon
giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa
custode nell’interesse dell’opinione pubblica”.
Ho visto Peppe per l’ultima volta pochi giorni prima della sua morte: era a
Milano per lavoro, venne a cena da me e trascorremmo quella serata senza
immaginare che non ce ne sarebbero state altre. Per fortuna quella volta non
litigammo, mi parlò dei temi sui quali aveva cominciato a lavorare, dopo un
periodo di difficoltà con i colleghi di “Repubblica”, in particolare con il direttore
Ezio Mauro, con il quale dava periodicamente vita a scontri memorabili, che
lasciavano cicatrici a entrambi.
Tra le tante inchieste svolte, Peppe ha seguito anche la ventennale vicenda
berlusconiana descrivendone o scoprendone ogni aspetto di dilettantismo
politico, di arbitrio privato, di corruzione pubblica, di torsione democratica.
Quando scoppiò il “caso Noemi” (dal nome della giovanetta di Casoria, alla cui
festa del diciottesimo compleanno si era presentato a sorpresa anche “Papi”,
ovvero l’allora presidente del Consiglio), cui seguì la clamorosa denuncia
pubblica di Veronica Lario, che accusava il marito di fare sesso con minorenni, e
si arrivò, infine, al caso Ruby, Peppe capì per primo la portata rivelatrice della
storia. Comprese che in gioco non c’era un eccesso di gossip né una questione di
privacy, ma che quella storia svelava il potere con la sua dismisura, i suoi deliri
di onnipotenza, l’ossessione di sé: e decise di non girare la testa, si impose di
entrare nella stessa ossessione che viveva parte degli italiani e iniziò un’opera di
demistificazione, di disvelamento delle menzogne e delle ricostruzioni di
comodo, con una campagna di verità che imponeva un rendiconto al Paese.
Nacquero così le “dieci domande” – un martellamento giornalistico che fece
scuola – per poi passare alla disamina puntuale delle “dieci bugie” propalate
dalla comunicazione di palazzo Grazioli.
Di fatto, con ruoli diversi, sia io sia Peppe D’Avanzo ci imbattemmo e
indagammo su Silvio Berlusconi.
Come ho già detto, dopo l’invito a comparire notificato il 14 gennaio al
presidente del Consiglio, il 17 gennaio inviammo l’incartamento all’allora
presidente della Camera Gianfranco Fini, per essere autorizzati a perquisire
l’ufficio del ragionier Giuseppe Spinelli a Segrate. In meno di un mese
chiedemmo al gup la celebrazione del rito immediato, convinti che l’impianto
accusatorio fosse solido, tanto da scavalcare l’udienza preliminare e andare
direttamente a giudizio in tribunale. Così fu: a metà febbraio il giudice diede
ragione alla procura e fissò per il 6 aprile l’inizio del processo davanti alla IV
sezione penale.
Intanto l’attività antimafia procedeva con ritmi incalzanti e il coordinamento
dei colleghi mi assorbiva molto tempo: tra indagini in fase conclusiva, richieste
cautelari da redigere, dibattimenti già iniziati da seguire, furono giorni di grande
impegno al quale – come nel film già visto negli anni novanta – si aggiungevano
le trovate della compagine politica guidata dal presidente del Consiglio.
Numerosi esponenti del centro-destra sembravano passarsi il testimone delle
dichiarazioni di fuoco. Le più malvagie provenivano da donne, che non si
facevano scrupolo di fare quadrato attorno a un predatore di altre donne, anche
giovanissime.
Quanti corifei del leader, ben riparati dallo scudo dell’immunità parlamentare,
si sono prestati a scandire raffiche di insulti e ogni genere di calunnia. Tra questi
si distingueva l’allora fedelissima sottosegretaria Daniela Santanchè, che attaccò
pubblicamente la moglie del capo (“Ha un compagno”) per offrire una
spiegazione all’intervento su “Repubblica” di Veronica Lario. Com’era già
accaduto anni prima, anche stavolta la campagna contro di me serviva a
scomporre e ricomporre i fatti in un caleidoscopio mediatico che confondesse i
cittadini con immagini false, mettendo l’arma della menzogna in pugno ai soliti
armigeri: giornalisti stipendiati dal capo del governo trasformati in agenti
provocatori.
A parte la vicenda degli “amori privati della Boccassini”, gli articoli e
soprattutto i titoli che comparivano sui quotidiani e i periodici vicini al Cavaliere
erano violentissimi. Riporto quelli usciti in un solo giorno, il 20 gennaio: “È un
golpe. Fermiamoli”; “La verità dei testimoni”; “Smentito in tv il teorema del
pm”; “Dai pm gravi violazioni per sovvertire il voto”; “Dobbiamo reagire a
queste procedure violente” e via delirando. All’inaugurazione dell’anno
giudiziario 2011, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, altro fedelissimo di
Arcore, nella sua relazione al Parlamento sullo stato della giustizia si spinse a
sostenere che “una ragione della lentezza che continua a imperare nel settore
penale è da ricercare nel fatto che una parte rilevante delle energie non è
dedicata a sventare la delinquenza che dilaga nelle città mettendo in pericolo
soprattutto le persone anziane e meno difese, cioè i deboli, ma viene impiegata
per occuparsi delle vicende private di Berlusconi, con l’effetto di interferire con
la politica”.
Ancora: “La Boccassini spia gli ospiti di Arcore e riapre il caso Ruby” (15
gennaio); “Quanti errori nella procura che va a caccia di lucciole” (18 gennaio);
“L’orgia della procura. Porno-spioni di Stato. Ecco le carte dell’inchiesta: i
giudici hanno schedato e intercettato per un anno tutti gli ospiti di Berlusconi,
violando leggi e libertà fondamentali. Ma il reato non c’è” (19 gennaio). Il 27
gennaio, il settimanale “Panorama” mette in copertina una mia foto e titola:
“Dopo vent’anni di assalti ecco come Ilda Boccassini e la procura di Milano
tentano di dare la spallata finale a Berlusconi”. In fondo alla pagina la dicitura
“Il vizietto”.
In quelle settimane, le fotografie che mi dedicavano i media si sprecavano e
non solo sui giornali che mi attaccavano, ma anche su tutti gli altri, compresi “la
Repubblica”, il “Corriere della Sera”, “L’Espresso”. Di conseguenza, ricominciò
per me un nuovo periodo buio, con le uscite ridotte al minimo, sempre
accompagnata dalla scorta. La notizia dell’inchiesta Ruby aveva ovviamente
fatto il giro del mondo perciò l’ufficio era subissato da richieste di colloqui e di
interviste. Come ai tempi di Mani pulite, chiesi con forza ai colleghi con cui
lavoravo al processo, Piero Forno e Antonio Sangermano, di tacere, di non avere
contatti con la stampa, di non commentare in nessun caso la gragnola di critiche
che ci piovevano addosso.
Sfogliando i giornali che ho conservato per più di nove anni, vedo bene che il
mio viso è cambiato, ora è più pieno e più rugoso, ma lo sguardo è rimasto lo
stesso. Lavorare al caso Ruby non è stato piacevole. In molti momenti ho
provato rabbia per quel mondo popolato da giovani donne pronte a soddisfare i
desideri del “re” per ambizione, denaro e un po’ di visibilità. Si trattava di donne
anche diplomate e laureate, senza nessuna scusante economica o sociale. Credo
che queste ragazze siano l’angosciante prodotto di trent’anni di cultura
dozzinale, in cui l’ambizione massima è un’ospitata in mediocri trasmissioni tv.
Quella del corpo delle donne è una questione molto delicata ed è difficile, alla
mia età, capire cosa possa spingere ragazze giovani e belle a barattarlo per un
po’ di successo in tv o per comprare una borsa griffata. Non credo che una donna
possa amare le proprie rughe, nemmeno io vorrei averne, ma sono lì a ricordarmi
che sono a un punto dell’esistenza in cui ho più passato che futuro e che non
devo sprecare neanche un attimo della vita che resta. Sono sempre stata
considerata una bella donna (e sono assolutamente d’accordo!), per certe
caratteristiche quando ero giovane e per altre quand’ero più adulta. Varcare la
soglia dei settant’anni e accettare lo status di donna anziana, con le mani rugose
e qualche chilo di troppo, non è stato facile. Altro che discorsi sulle mirabolanti
chance offerte dalla terza età, sui traguardi che si raggiungono in saggezza e
maturità! Non mi piace niente del decadimento fisico che osservo giorno dopo
giorno, mi spaventa la fragilità di un corpo che potrebbe rompersi da un
momento all’altro. A vent’anni o a quaranta, non si fanno pensieri simili né tanto
meno si pensa alla morte. Alla mia età sì, perché, a non voler recitare la farsa
degli eterni giovani, questo è il momento dei bilanci, l’ora di tirare le fila di una
vita magari piena, ma che ti sembra sia corsa via troppo velocemente.
Guardando indietro, vedo una giovane mamma con il sogno di diventare
magistrato. L’ho realizzato e intanto ho amato, ho gioito, ho sofferto, ho messo
al mondo due figli meravigliosi, ho incontrato donne e uomini che hanno
riempito la mia vita.
Quando ho inciampato e sono caduta, ho trovato l’energia per rialzarmi
perché, nonostante certi lati di fragilità, purtroppo non possiedo il dono di saper
ogni tanto arretrare per riprendere fiato. Sono fatta così: sono faticosa per me e a
volte anche per gli altri, ma è così che ho potuto affrontare le valanghe che di
tanto in tanto la vita mi ha rovesciato addosso. Alcune le ho provocate io stessa,
magari perché mi pareva il solo modo di compiere il mio dovere, a volte non ho
calcolato le possibili conseguenze dei miei “fuoripista”, ma posso dire che tante
altre volte mi sono trovata mio malgrado al centro di storie più grandi di me.
Essere donna mi ha portato spesso a fare più del necessario, per reggere il
confronto con colleghi uomini cui invece nessuno chiedeva di dimostrare nulla.
E questo è un dato di fatto. Mi sono così caricata, a volte in solitudine, di pesi
che non ero certa di poter reggere. Mi sono assegnata compiti difficili. E
sicuramente uno dei prezzi che ho pagato è stato essere una madre imperfetta,
troppo giovane per la prima maternità e con momenti di presenza troppo risicati
nella vita di Antonio e di Alice. A volte mi è sembrato impossibile recuperare il
tempo che avevo sottratto ai miei figli. E anche se loro sono orgogliosi di me,
questo lo so, continuo a pensare con qualche apprensione che nessuno dei due
abbia compreso fino in fondo e perdonato le scelte di una madre così
ingombrante. Anche per questo, per il rimorso di aver fatto loro del male senza
volerlo, mi sono decisa a scrivere la mia storia.
Prima dell’inizio del processo Ruby, mi concessi un lungo weekend a
Bruxelles, in compagnia di Francesca. Adoro quella città, mi piace girovagare
per viali e stradine, facendo shopping. Quando con lei ci dedichiamo alla ricerca
di collane, orecchini, oggetti per la casa o piccoli regali per gli amici tra le
bancarelle del Sablon o del mercatino delle pulci di place du Jeu de Balle, mi
diverto, mi riesce facile allontanare per qualche ora ogni brutto pensiero.
Francesca vive nel quartiere di Ixelles, non lontano dal centro, in un
appartamento grande e bellissimo che considero la mia seconda casa, perché lì
mi sento amata, protetta, coccolata. Infatti in quegli anni, appena possibile,
prendevo un aereo e mi rifugiavo da lei.
L’aula in cui si sarebbe svolto il processo sui rapporti tra il capo del governo e
una minorenne non era molto capiente, il pubblico dei curiosi sarebbe stato
senz’altro numeroso, per non parlare delle decine di giornalisti giunti da ogni
parte del mondo pur di non mancare all’appuntamento con l’ormai tristemente
famoso bunga bunga. Così si era reso necessario spostare il dibattimento nello
spazio molto più grande dell’aula in cui, durante gli anni di piombo, venivano
processati i terroristi. Per questo era dotata di ampie gabbie da cui assistevano
alle udienze i detenuti, brigatisti prima e mafiosi poi.
Di nuovo un tuffo nel passato: era stato proprio in quell’aula che il 25 maggio
1992 avevo assistito dallo scranno dell’accusa alla lettura della sentenza della
“Duomo connection”, il mio primo processo contro la mafia. Giovanni era morto
a Capaci due giorni prima.
Il 23 maggio è per me un giorno di tristezza, di dolore. Nel 2017, proprio il 23,
doveva nascere il mio primo nipotino, il figlio di Alice. Non volevo che venisse
alla luce in un giorno che per me significava desolazione: Martino mi accontentò
e nacque il 24 maggio, in piena notte.
Le gabbie nell’aula mi erano del tutto indifferenti, ma turbavano i sonni del
presidente del tribunale dell’epoca, Livia Pomodoro, i cui incontri con il capo
della procura si infittivano all’avvicinarsi del 6 aprile, per sciogliere il nodo
estetico delle sbarre, evocative di criminali, malfattori e severe punizioni. Ogni
giorno che passava aumentavano la pressione e l’agitazione di Edmondo, quasi
fosse alle prese con l’organizzazione di un evento mondano. Proprio per questa
ragione in quel periodo ci capitò di discutere piuttosto di frequente e cominciai
ad avere qualche dubbio sulla sua tenuta come dirigente. Secondo me c’erano
problemi molto più seri di cui occuparsi, mentre il procuratore sembrava
totalmente assorbito dalla mediazione su temi marginali. Forse Edmondo
avrebbe dovuto dedicarsi ai malumori che già allora serpeggiavano in procura e
che sarebbero esplosi qualche anno dopo.
Il massimo del ridicolo sull’estetica dell’aula fu comunque raggiunto con la
decisione di nascondere le gabbie con ampi tendaggi bianchi. Cercai in tutti i
modi di fermare quel delirio, minacciai persino di non presentarmi in aula, ma
non ci fu niente da fare: i capi pensavano che mostrare le gabbie avrebbe fatto
sfigurare il Paese agli occhi del mondo. Molto più, evidentemente, del fatto che
si sarebbe processato il capo del governo accusato di essersi divertito con una
minorenne e di aver sfruttato la sua carica per indurre funzionari dello Stato a
violare le regole. Per me era una scala di valutazione incomprensibile ma ingoiai
pure i tendoni (chissà che fine avranno fatto) e, puntuale, il 6 aprile, mi presentai
nell’aula al primo piano.
Non c’era modo di evitare fotografi e telecamere e così venni bombardata dai
flash, mentre a garantire l’ordine erano schierati i carabinieri del contingente in
servizio al palazzo di giustizia. Quando entrai, i banchi erano già occupati dai
giornalisti, tra i quali intravidi subito Peppe in compagnia di Natalia Aspesi.
Erano già in aula anche gli avvocati di Berlusconi, Ghedini e Longo, circondati
dai loro assistenti. Mi sedetti e mentre ero intenta a leggere un documento, in
attesa che entrasse il collegio, mi sentii afferrare un braccio. Mi voltai di
soprassalto: ad arpionarmi era stata una signora che si presentò come la suocera
del collega Antonio Sangermano, venuta appositamente da Napoli per assistere
al processo e fare il tifo per noi. Riuscii a essere gentile con lei, anche se mi ero
arrabbiata: non capivo come potesse essersi avvicinata senza che nessuno
l’avesse notata, visto che l’aula era ancora chiusa al pubblico e già immaginavo i
commenti di certa stampa per questa inopportuna incursione parentale. Ne chiesi
conto a Sangermano, che si giustificò dicendo di non essere riuscito a frenare
l’entusiasmo della suocera.
Nonostante i flash, il nervosismo, i tendoni, le suocere e la calca, tutti
sapevamo che in realtà quel giorno il processo non sarebbe cominciato perché si
trattava di un’udienza di “smistamento”, cioè il collegio avrebbe solamente
comunicato il calendario di udienza dei mesi successivi. Per l’occasione
comunque avevo indossato un paio di orecchini pendenti di corallo rosa. Li
avevo scelti perché erano molto belli ma anche perché, secondo la tradizione, il
corallo è di buon auspicio, porta bene a chi lo indossa. Era il minimo che potessi
fare prima di affrontare l’ennesima maratona dibattimentale che – non avevo
dubbi – si sarebbe rivelata una prova durissima.
Mentre, udienza dopo udienza, il processo proseguiva, finalmente il primo
weekend di giugno mi regalai una vacanza grazie alla mia amica Maddalena, che
organizzò una minicrociera tra Liguria e Sardegna a bordo del suo Titan. Ho
conosciuto Maddalena e suo marito Claudio quasi vent’anni fa. Da allora siamo
legati da un’amicizia solida e da un grandissimo affetto, ognuno di noi sa di
poter contare sull’altro, e anche i nostri figli si conoscono e si vogliono bene.
Qualche anno fa Claudio si è ammalato gravemente e, quando è mancato, c’ero
anch’io al suo capezzale con Maddalena, Cecilia ed Emanuele.
Quel weekend di inizio giugno partimmo dal porto di Genova per arrivare in
Sardegna la mattina successiva. Quando sono in barca divento senza fatica
mattiniera perché amo lo spettacolo della costa che si vede in lontananza con le
prime luci dell’alba e il luccichio del mare. Ma in quel fine settimana non avevo
le energie per alzarmi come sempre, mi sentivo debole, anche se non ci feci
molto caso, attribuendo l’astenia allo stress accumulato. Non sapevo ancora che
il mio sangue si stava ammalando. Passammo, al solito, giornate magnifiche e
tornai a Milano pronta ad affrontare l’udienza del giorno successivo.
Invece, nel giugno di due anni dopo, quando si concluse il processo Ruby, non
ero in aula per la lettura del dispositivo, avevo preferito partire per le isole Eolie,
con Maddalena – detta “l’armatrice” –, Francesca e Adriana, di nuovo a bordo
del Titan. Non ero mai stata in quel paradiso, perciò mi commossi quando a
Stromboli sentii per la prima volta il gorgoglio incessante di “Iddu”, come pure
la sera, in rada, quando sotto un cielo pieno di stelle vidi correre lungo il fianco
del vulcano la scia di fuoco, che faceva ribollire l’acqua quando raggiungeva il
mare. Eravamo così vicine che la lava incandescente sembrava potesse arrivare
fino a noi. Piansi di gioia davanti a quello spettacolo, ancora più emozionante
perché condiviso con gli affetti più cari. Come sempre mi accade quando
qualcosa mi tocca il cuore, pensai a Giovanni, al fatto che mi trovavo nella sua
terra, e anche Palermo mi sembrava così vicina... Erano ormai vent’anni che se
n’era andato e fantasticavo su dove si trovasse in quel momento: non sottoterra,
chiuso in una bara di legno, ma tra le onde di quel mare che amava tanto e
magari proprio nel punto su cui dondolava il Titan. Follia, la mia? Forse, ma in
alcuni momenti la follia aiuta a rimanere vivi.
Il 24 giugno, giorno della sentenza del processo Ruby, ci trovavamo in rada
proprio all’isola di Stromboli. La televisione era sintonizzata su un canale che, in
collegamento con l’aula di Milano, trasmetteva uno speciale in attesa del
collegio, ancora riunito in camera di consiglio. Maddalena, Francesca e Adriana
erano in ansia quanto me per l’esito del processo ma, senza bisogno che
chiedessi nulla, uscirono sul ponte e mi lasciarono sola davanti alla tv. Le
immagini scorrevano, l’aula era gremita, soprattutto di giornalisti. A un certo
punto vidi anche Bruti Liberati e Sangermano che camminavano nervosamente
avanti e indietro, al che scrissi un messaggino a Edmondo per invitarli a non
lasciar trasparire la tensione. Fu divertente vedere in diretta le loro facce quando
lessero il messaggio. Sapendo che ero in vacanza, si scambiarono un’occhiata
come a dire “Ci controlla anche da là”. E sorrisero divertiti.
I minuti non passavano mai. Solo dopo qualche sigaretta di troppo, si sentì
squillare il campanello che annunciava l’ingresso del collegio. Mi mancava
l’aria per la tensione e, come fossi anch’io in quell’aula, mi alzai in piedi quando
i giudici presero posto. La presidente cominciò a leggere il dispositivo e dai
primi articoli citati capii che non sarebbe stata un’assoluzione, anzi... Berlusconi
fu condannato a sette anni di reclusione, un anno in più rispetto alla pena che
avevo richiesto. Mi accasciai sul divano esausta.
Maddalena, Francesca e Adriana mi raggiunsero e ci abbracciammo a lungo.
Non per i sette anni di condanna, ma perché loro sapevano bene quanto mi fosse
costato quel processo. Telefonai subito ai miei figli, dopodiché spensi il
cellulare. Non volevo essere disturbata da nessuno, nemmeno per le
congratulazioni: volevo solo vivere quelle ore con le mie amiche, immersa in
uno scenario paradisiaco. Solo i miei figli sapevano dove fossi e questo mi
rasserenava.
Il giorno seguente avevamo in programma una gita sulla terraferma, a caccia
di negozietti. Non volevo essere riconosciuta, perciò indossai un cappello che mi
copriva metà del viso, occhiali scuri e una sciarpa di lino che, all’occorrenza,
potevo alzare sulla bocca. La mia “bardatura” funzionò, nessuno mi riconobbe,
se non la signora di un negozio di artigianato locale dove ero entrata per
acquistare un quadretto delizioso, molto colorato, che raffigurava proprio il
vulcano con la sua scia di fuoco. Al momento di pagare, la signora mi bisbigliò
all’orecchio: “Grazie per quello che fa”. La fissai stupita e le chiesi come mi
avesse riconosciuta. “Dalla voce,” mi rispose. La ringraziai con una stretta di
mano e un sorriso complice: aveva capito che non desideravo essere
riconosciuta.
Due giorni dopo la condanna di Berlusconi, mentre passeggiavamo per le
viuzze di Salina, ricevetti la telefonata dell’amico, nonché capo della polizia,
Alessandro Pansa. Mi chiese dove fossi, mi rimproverò bonariamente per non
aver comunicato i miei spostamenti all’apparato di sicurezza, mi raccomandò di
stare attenta e mi informò che proprio quella mattina era arrivata nel mio ufficio
un’altra busta con due proiettili, dopo quella recapitata a gennaio. La telefonata
mi agitò non poco perché, se la notizia fosse trapelata, i miei figli si sarebbero
potuti arrabbiare con me per averlo saputo dalla televisione. Perciò preferii
chiamarli subito e informarli io.
Tornai a Milano rigenerata e con una bella abbronzatura, pronta ad affrontare
gli attacchi – iniziati già pochi minuti dopo la lettura del dispositivo – di quanti
gridavano che Berlusconi era stato di nuovo vittima di una persecuzione
giudiziaria. Tutto più che prevedibile.
La sentenza fu ribaltata in secondo grado e il presidente del collegio Enrico
Tranfa si dimise in aperta polemica con quella decisione. La Cassazione
confermò l’assoluzione.
29.
I fedelissimi di Berlusconi

L’11 marzo 2013, durante il processo, era accaduto qualcosa di inedito,


qualcosa che andrebbe ricordato come esempio negativo nei manuali di
educazione civica. Intorno a metà mattina, un certo numero di parlamentari
aveva cominciato a confluire, alla spicciolata, verso il palazzo di giustizia. Erano
tutti del Popolo della libertà.
I primi ad arrivare alla grande scalinata di corso di Porta Vittoria erano stati gli
ex ministri Gianfranco Rotondi, Mariastella Gelmini, Nitto Palma (quest’ultimo
anche ex magistrato) e le parlamentari Nunzia De Girolamo e Laura Ravetto.
Poi, man mano, si erano aggiunti molti altri, fino a formare un nutrito drappello,
un centinaio di persone, raccolto nel grande androne dell’entrata principale. In
quel momento io e Antonio Sangermano, del tutto ignari, stavamo passeggiando
nel corridoio adiacente all’aula del processo, in attesa che terminasse la camera
di consiglio sulla nostra richiesta di disporre una visita fiscale a Berlusconi, dopo
l’ennesima istanza di rinvio per motivi di salute.
A un certo punto squillò il cellulare. Era Edmondo, che ci comunicava l’arrivo
dei parlamentari, intenzionati a entrare in aula per manifestare proprio da lì
solidarietà al leader: dato che erano al corrente che Berlusconi non c’era, la
sceneggiata era stata concepita per scatenare i media. Anche se non immaginavo
che il corridoio si sarebbe ben presto riempito di decine di onorevoli e senatori,
avevo chiesto all’ufficiale dei carabinieri di convocare altri uomini, perché
quando i giudici non sono presenti è compito del pm mantenere l’ordine
pubblico. E comunque la legge non consente a nessuno di manifestare in un’aula
di tribunale, nemmeno ai parlamentari.
Rimasi allibita nel vedere quel gruppo così numeroso e chiaramente ostile, che
procedeva capeggiato dall’avvocato Niccolò Ghedini nella sua doppia veste di
difensore e di onorevole. Ghedini si era avvicinato a me e a Sangermano e aveva
chiesto di fare in modo che i carabinieri lasciassero entrare in aula i fan
dell’imputato. Il tono dell’avvocato era formalmente gentile, ma lasciava
trasparire la sicumera di chi si ritiene in diritto di ottenere qualunque cosa.
Secondo il legale, al gruppo di fedelissimi doveva essere consentito ciò che era
vietato a chiunque altro, perché erano lì nella loro veste istituzionale di
parlamentari per difendere i diritti di un uomo calpestati dalla legge. Con
altrettanta educazione e fermezza mi limitai a rispondere che le porte dell’aula
sarebbero rimaste chiuse: certamente fino al rientro del collegio e, per come la
vedevo io, anche dopo, per la semplice ragione che sarebbe ripresa l’udienza.
I parlamentari più vicini, che avevano assistito al breve scambio, avevano
cominciato a rumoreggiare, tra questi era facile riconoscere i volti più televisivi
di Alessandra Mussolini con tanto di fascia tricolore (chissà perché? Non mi
risultava fosse una sindaca) e Daniela Santanchè. Ma anche se ai brontolii
cominciava a sovrapporsi qualche grido e il loro nervosismo cresceva, rimasi
irremovibile. Non avrei permesso che la sacralità dell’aula (dove, infatti, i
processi si “celebrano”) venisse violata da quella folla di adoratori del capo che,
peraltro, non intimidiva proprio nessuno. Anzi, dopo i primi momenti di
sbandamento, mi scappava anche un po’ da ridere al pensiero di tutte quelle
signore imbellettate che al posto dei forconi impugnavano borse griffate e
caracollavano sui loro tacchi 12, decisamente non adatti a quella protesta
vociante, a tratti scomposta.
E dire che, solo qualche mese prima, proprio l’onorevole Santanchè
commentava al telefono con l’amico Flavio Briatore l’inchiesta in corso e le
cene di Arcore, non facendo mistero della sua preoccupazione per la salute del
premier e per la rovina in cui stava rischiando di far precipitare il Paese. In
quella conversazione, la pasionaria delle libertà dava ragione a Veronica Lario,
che con la sua lettera a “Repubblica” aveva denunciato le ossessioni erotico-
giovanilistiche dell’anziano marito e implorato gli amici di aiutarlo perché
malato e non più lucido.
In quel corridoio del tribunale, comunque, non mi era dispiaciuto interpretare
il ruolo di una domatrice che teneva a bada le fiere, le quali, peraltro, preso atto
del muro contro muro, avevano girato i tacchi, allontanandosi. Ma la pantomima
non era ancora finita. La sera, al telegiornale, avrei visto le immagini del gruppo,
schierato sulla scalinata esterna del tribunale mentre cantava l’inno d’Italia,
capitanato da un altro ex ministro della Giustizia e moderno Masaniello,
Angelino Alfano, dando così mediatico sfogo alle doglianze per la persecuzione
del loro caro leader. Unico dettaglio doloroso, per me, fu che la sceneggiata
aveva come sfondo la gigantografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,
appesa sulla facciata del palazzo.
La foto di gruppo dei parlamentari impegnati a cantare sotto lo sguardo
attonito di Giovanni e Paolo mi aveva ricordato in qualche modo il finale del
Caimano, con la differenza che il Berlusconi del film di Moretti aizzava i
sostenitori a incendiare il palazzo, mentre nella realtà questi eletti dal popolo si
scagliavano contro lo stesso Stato che avrebbero dovuto rappresentare e tutelare.
Le immagini di quella intollerabile sfida dai connotati sovversivi fecero il giro
del mondo e per l’Italia fu un’aggiunta di pessima pubblicità.
Indagando sugli affari dell’imprenditore di Arcore, ho incrociato Giuseppino
Scabini e Giuseppe Spinelli, personaggi chiave per la gestione del suo impero
finanziario. Due figure inconsuete nel rutilante mondo del Cavaliere, che fin dal
primo momento mi avevano colpito per l’assoluta fedeltà e la totale abnegazione
verso il loro datore di lavoro. Scabini era risultato intestatario di conti correnti
esteri della galassia Fininvest, nei quali confluivano i ricavi sottratti al fisco e
utilizzati anche per corrompere magistrati e personaggi pubblici. Spinelli, oltre a
ricoprire diverse cariche nel gruppo, era delegato a operare sui conti personali
del Cavaliere in Italia. Due persone sempre attentissime ad agire nell’ombra,
esecutori perfetti anche per la loro allergia ai riflettori, fino a quando non erano
stati travolti dalle inchieste sul loro capo.
Scabini era divenuto un personaggio pubblico dopo la scoperta, in Svizzera, di
alcuni conti cifrati della Fininvest: era stato arrestato e aveva sopportato in
silenzio la detenzione. Dopo questa spiacevole parentesi, Scabini aveva ripreso il
suo posto. Era lui a manovrare le montagne di banconote trasportate nottetempo
da San Marino a Segrate, com’era lui a consegnarle agli spalloni perché le
facessero sparire nei forzieri svizzeri. Insomma, era Scabini a violare, per ordine
del capo, le leggi italiane, a quanto era emerso nei processi degli anni novanta,
ma la sua figura di fiduciario si era poi nuovamente inabissata nei recessi più
reconditi del Biscione.
Ho invece avuto occasione di conoscere meglio il ragionier Spinelli, sia perché
coinvolto, suo malgrado, nelle indagini sulle “cene eleganti” ad Arcore, sia per
un fatto di cronaca di cui fu protagonista. Per conto di Berlusconi, Spinelli
cambiava assegni su assegni per garantire al Cavaliere il contante – 7,7 milioni
nel 2009, oltre 12 milioni nel 2010 – per le sue spese private.
Dal breve periodo di controllo telefonico delle frequentatrici di Arcore,
Spinelli risultava subissato da continue richieste di denaro, di pagamento di
conti, di rate e, quando era pressato dalla petulante avidità delle ragazze, si
sottraeva con la magica formula di rito: “Ne parlerò con il presidente”. È anche
capitato che alcune di queste ragazze si siano spinte fino agli uffici di Segrate,
per ritirare personalmente le buste piene di contante. Grande dev’essere stato, in
certi momenti, l’imbarazzo del mite ragioniere, strattonato da quelle giovani
donne appariscenti, vestite in modo provocante, pronte a salire di tono per
rivendicare ciò che era stato loro promesso. Ma la sua fedeltà al Cavaliere – che
lui chiama rispettosamente il “dottore” – si è sempre dimostrata assoluta, tanto
quanto la sua affidabilità nel gestire gli “affari” di Arcore.
Nell’ottobre 2012, Spinelli e la moglie furono vittime di un’aggressione e di
un sequestro durato una notte, a opera di una banda di criminali italiani e
albanesi di modesta caratura. Una vicenda poco nota, che merita qualche
dettaglio in più.
L’agguato era scattato verso le 20 del 15 ottobre. Il ragionier Spinelli era
appena rientrato dall’ufficio di Arcore nella sua abitazione di Bresso quando sul
pianerottolo erano sbucati due uomini incappucciati che tra minacce e strattoni
lo avevano spinto dentro l’appartamento, dove la moglie Anna lo aspettava per
cena (“Gli avevo preparato il lesso, che a lui piace tanto,” avrebbe messo a
verbale la signora). Dopo una notte in balia dei banditi, tra minacce e
maltrattamenti, verso le 8 del mattino Spinelli era stato costretto a telefonare a
Berlusconi per trasmettergli le richieste dei sequestratori. Ecco il suo resoconto
di qualche giorno dopo: “Mentre parlavo con Berlusconi mi trovavo in camera
da letto senza mia moglie. Uno dei tre aggressori era al mio fianco, un altro era
alle mie spalle per ascoltare il contenuto del colloquio. Ho detto a Berlusconi che
la sera precedente, tardi, avevo avuto un appuntamento in un luogo non meglio
precisato, dove io in quel momento mi trovavo. Lì mi era stato mostrato un
filmato, a mio avviso autentico, e le persone che ne erano in possesso erano
disposte a cederlo in cambio di una grossa somma di denaro, l’equivalente del
6% di 560 milioni, cioè l’importo che la Fininvest era stata condannata a pagare
[alla Cir per la vicenda del Lodo Mondadori]. Io mi spesi molto con il Cavaliere
dicendo che si doveva fidare di me e che conveniva pagare per questo filmato”.
Insospettito proprio dall’inusuale insistenza del suo contabile, Berlusconi
aveva chiuso la conversazione dicendogli: “Ti faccio richiamare da Ghedini”. A
quel punto i ricattatori se n’erano andati, certi del loro risultato, ma poco dopo la
scorta di Berlusconi si era precipitata a Bresso, aveva prelevato gli
spaventatissimi signori Spinelli e li aveva portati al sicuro in una località segreta,
dove sarebbero poi rimasti per circa un mese, fino a che non identificammo tutta
la banda, chiudendo il caso.
Potrebbe sembrare, da questo prologo, che la prima preoccupazione di Arcore
fosse la sicurezza di Spinelli e la cattura dei malviventi, ma le cose non stavano
esattamente così, perché la cronologia dei fatti lascia pensare che la priorità fosse
piuttosto quella di verificare quanto di vero ci fosse nelle loro parole, se davvero
fossero in possesso di documenti e file “interessanti” (utili? compromettenti?
ancora inediti?) relativi alla discussa scalata del gruppo Mondadori di qualche
anno prima. Infatti, l’intera giornata del 16 e parte del 17 erano trascorse senza
che nessuno sapesse del sequestro e del tentativo di ricatto. La denuncia fu
anticipata telefonicamente nel pomeriggio del 17 dagli avvocati di Berlusconi
direttamente a Bruti Liberati e formalizzata il giorno dopo con il deposito in
procura. Solo a quel punto potemmo avviare le indagini e toccò a me, perché il
sequestro di persona a scopo di estorsione è un reato di competenza della
Direzione antimafia.
Seppure con grande ritardo – non dovuto alla nostra negligenza – avevo
disposto l’interrogatorio delle vittime e la perquisizione dell’abitazione di
Bresso. Ogni mobile, suppellettile, parete, angolo della casa era stato
accuratamente esaminato dalla polizia scientifica e il filmato dell’intervento mi
mostrò lo stile di vita degli Spinelli. Il loro era un appartamento per nulla
sfarzoso, potrei definirlo modesto anche se del tutto dignitoso, nessun ninnolo
prezioso sui mobili, nessun quadro di valore né tappeto esotico. Insomma, una
delle tante case di medio-borghesi nella tranquillità dell’hinterland milanese.
Fatto sta che, recuperando lo svantaggio iniziale e grazie alla Squadra mobile
di Milano, riuscii a individuare i componenti della banda e ad arrestarli nel giro
di qualche settimana. I filmati delle telecamere della zona rivelarono i dettagli
decisivi dell’abbigliamento di quello che sembrava il capo (milanista sfegatato,
indossava inconfondibili sneaker rosse con laccetti neri).
A parte le peculiarità del caso e della sua tempistica non del tutto chiara, resta
l’importanza della figura di Spinelli nell’impero del Cavaliere. Custode
silenzioso di trent’anni di segreti privati e finanziari, Berlusconi non ha avuto
bisogno di comprarne il silenzio con il denaro né di blandirlo, perché la garanzia
della sua assoluta fedeltà sta in quel legame di affetto mai venuto meno. Un
legame importante per l’uomo di Arcore, cui va riconosciuta la capacità di
suscitare e coltivare sentimenti di amicizia, perché sa essere generoso e
riconoscente con chi gli è affezionato. Anche se ama circondarsi di corti
numerose di donne e uomini cooptati e allontanati con uguale disinvoltura, solo
pochissime persone hanno avuto accesso al patrimonio e alla vita vera di
Berlusconi: i figli più grandi, pochi amici che non lo hanno mai tradito e i fedeli
dioscuri Scabini e Spinelli.
I sequestratori di Spinelli non erano ovviamente in possesso di documenti, file
o altro. Erano solo ben informati e avevano tentato di estorcere del denaro a
Berlusconi contando sul suo coinvolgimento nella causa civile da record,
intentata da Carlo De Benedetti dopo che la Cassazione aveva sancito che per
conquistare la Mondadori erano stati corrotti dei giudici. Il 7 settembre di quello
stesso anno, la Corte suprema aveva poi respinto il ricorso contro la richiesta Cir
e quantificato in 494 milioni il danno subito da De Benedetti. Nella sentenza si
legge che Silvio Berlusconi è stato “indiscusso beneficiario delle trame illecite
materialmente attivate da altri sodali”.
30.
Le mie rughe

Tra il 2013 e la fine del 2015 la mia vita è trascorsa tutto sommato serena.
Come sempre il lavoro occupava la maggior parte del tempo, ma questo non mi
impediva di passare ore piacevoli con le amiche, di andare al cinema e a teatro,
di godermi weekend rilassanti.
In linea di massima essere single non mi pesava, anche se non nego che
quando – per esempio durante i viaggi – la sera chiudevo la porta della camera
d’albergo, non mi sarebbe dispiaciuto avere qualcuno accanto. Così come penso
di tanto in tanto che non sarebbe stato male invecchiare con un uomo a fianco:
ma ora che ho superato la linea dei settant’anni, mi pare improbabile la comparsa
sulla scena di un principe azzurro.
In fondo, però, questo è uno dei frutti delle mie scelte, delle enormi energie
spese nel lavoro e, soprattutto, il risultato del mio frapporre il fantasma di
Giovanni a ogni possibilità di incontro, di fatto negandomelo. A volte sento più
il peso che non i vantaggi della mia totale libertà e mi capita di mettere in
guardia le amiche quando, sospirando, sembrano dire “Beata te”, per il mio
status di donna senza vincoli, non tenuta a convivere per anni con lo stesso
uomo, anche quando l’affetto e il rispetto sono tutto ciò che resta dell’amore.
Sempre più spesso la malinconia mi spinge a guardare indietro, alla ricerca di
occasioni che ho scelto di non cogliere, quelle in cui ho esitato troppo a lungo,
gli attimi che non ho saputo afferrare. È anche possibile che risultasse
respingente l’immagine di donna indurita, urticante nei modi, professionalmente
spietata, insomma quell’immagine che lo psicologo Panayotis Kantzas aveva
paragonato a un’agave. E i cosiddetti colpi di fulmine? Sì, qualcuno. Ma sono
sempre fuggita. Non volevo che il dolore di una delusione turbasse l’equilibrio
di una vita già abbastanza complicata. E comunque mi hanno sempre fatto
sorridere le storie di amori nati su una tratta aerea o durante un viaggio di
gruppo.
Insomma, un disastro. Non volevo innamorarmi? Avevo paura di non essere
più capace di vivere in coppia? Sono stata sfortunata e la vita non mi ha più fatto
incrociare l’uomo capace di farmi accelerare i battiti del cuore? Non so darmi
una risposta, comunque ho vissuto la vita che volevo e proprio come volevo
viverla.
Non sono mancati, negli anni, pettegolezzi sui miei amori, mossi
essenzialmente da una domanda, rimasta senza risposta: Ilda è davvero single o
nasconde qualche relazione, mantiene nell’ombra il nome di un uomo? Specie
nel periodo siciliano, il gossip mi ha attribuito questo o quell’amante, sempre
pescato nel mondo della politica, dell’economia, dell’informazione, dello
spettacolo. Era sufficiente che venissi vista più di una volta con la stessa
persona, perché questa mi venisse affibbiata come amante. Dicerie che mi hanno
sempre fatto sorridere, che non ho mai fatto nulla per smentire o bloccare anche
perché, in fondo, il mistero che avvolgeva la mia vita privata mi era congeniale.
Solo in un’occasione il chiacchiericcio nato intorno a una presunta simpatia tra
me e Roberto Scarpinato mi fece arrabbiare e ci tenevo a negarla ogni volta che
potevo. In primo luogo perché Scarpinato era stato uno dei magistrati che
avevano ostacolato Giovanni quand’era in procura, in secondo luogo perché
dissentivo dalle sue interpretazioni del fenomeno mafioso. Infine, non ho mai
apprezzato il suo stile da narciso siciliano (una specie endemica del tutto
particolare) perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D’Artagnan.
Intendiamoci: qualche ammiratore negli anni l’ho racimolato, pure tra
pensionati e coltivatori diretti. Tra questi, uno spasimante poco meno che
ottantenne mi ha scritto più volte e mi ha persino inviato una sua foto in
pantaloncini corti, canottiera e un bel paio di sandali indossati sui calzini. Tra le
lettere di sconosciuti ammiratori alcune mi hanno fatto persino ridere.
24 novembre 1995
Dottoressa! Ti ho vista in televisione! Questa volta tutta intera, finalmente! Sei bella robusta e senza
pancia! Poi hai i capelli rossi: basta, che dire d’altro! Sei la donna dei miei sogni. Dottoressa Ilda, io
posso lasciare il servizio dal 1.1.96 e vorrei ricoverarmi nelle braccia di una donna bona e bella come te!
Tesoro, io sono innamorato veramente... Dottoressa, io voglio darti tutto l’amore che sono capace di
dare.

13 marzo 1996
Cara Ilda, ieri sera ti ho rivisto in tv, quei capelli rossi e selvaggi che mi fanno impazzire... sicché sono
rossi veramente? Come te la passi alla procura di Milano? I tuoi colleghi ti adorano come una Madonna?
Io sì, e se non è così vengo lì e faccio un macello e a te ti bacio e ti porto fiori profumati... Vorrei baciarti
le mani e i piedi.

Un’altra avance postale è senza data, ma è collocabile negli anni dei processi
più seguiti dai media. Nella busta c’è anche una mia foto senza più ricci e con la
toga, ritagliata da un giornale:
Prima era bellissima, ora con la nuova pettinatura lei è splendida! Io la guardo, la riguardo, la desidero,
mi sento tutto bello caldo e le dico, le urlo che lei è una donna fino al midollo! Lei piace, rinfocola,
rinnova, esalta, scalda, saturna, spinge, calamita, seduce, brilla. Se uno è dritto lo mette carponi, se uno è
avventizio lo trasforma in imprenditore, se è scialbo ribolle, se è piatto come un foglio sul tavolo, diventa
una brocca d’argento fragrante di elixir! IO L’AMO.

Che fossi in grado di “saturnare” qualcuno è una novità per me e, credo, anche
per i dizionari d’italiano.
31.
“Sei brava, ma sei Ilda”

La conduzione dell’ufficio targata Bruti Liberati (giugno 2010-novembre


2015) aveva cominciato ben presto a mostrare dei limiti e, dopo nemmeno un
paio d’anni, serpeggiava tra i colleghi della procura un malessere crescente,
dovuto a diverse ragioni. Alcune giustificate o comunque comprensibili – come
l’esonero dai servizi concesso a troppi sostituti, che scaricava sugli altri il peso
delle udienze e dei turni esterni –, altre di più difficile lettura, come quelle che
contrapponevano a Edmondo colleghi prestigiosi quali Spataro e Pomarici, per
vecchie ruggini o divergenze sulle scelte gestionali. In mezzo a queste tensioni,
molti sostituti erano smarriti, si sentivano presi tra due fuochi proprio in un
momento in cui la procura era particolarmente esposta per gli strascichi dei
processi al Cavaliere e per le inchieste sulla vicenda di Expo 2015. Dopo i ritardi
dovuti a quattro anni di risse politiche, i lavori per la kermesse mondiale erano
stati eseguiti in tutta fretta nella manciata di mesi rimasti e la conseguente
concessione di appalti, avvenuta in modo sbrigativo, aveva determinato
l’apertura di alcuni fascicoli per valutarne la regolarità.
Io cercavo di mantenermi fuori da queste beghe, mi limitavo a lavorare e
anche i sostituti del dipartimento Antimafia sembravano vivere in un mondo a
parte. Soprattutto, continuavamo a mietere successi.
Furono proprio le inchieste su Expo a innescare il violento contrasto tra il capo
dell’ufficio e Alfredo Robledo, l’aggiunto che indagava sui reati contro la
pubblica amministrazione. Le accuse reciproche erano gravi: Robledo
rimproverava a Edmondo di tenere ferme le indagini per evitare che la
preparazione di Expo subisse ulteriori rallentamenti; il capo ribatteva che
Robledo tendeva ad aprire inchieste “esplorative” senza avere sufficienti
elementi per farlo. Il duello si consumò dapprima nei corridoi milanesi, poi
divenne pubblico, trasferendosi ufficialmente a palazzo dei Marescialli, sede del
Consiglio superiore della magistratura. Nei suoi esposti, Robledo indicò le scelte
a suo avviso “anomale” del procuratore nelle assegnazioni dei processi,
compreso il processo Ruby. Rispetto a questo, l’ex collega sosteneva che,
essendo il reato di induzione alla corruzione contestato ai funzionari della
questura di competenza del suo dipartimento, coassegnare l’inchiesta a me
anziché a lui era stata una scelta arbitraria.
Contrasti così aperti e forti sono destabilizzanti. Ed era inevitabile che la
procura finisse per dividersi in tifoserie, in una guerra interna fatta di mancati
saluti, conciliaboli nella stanza di questo o quel supporter, prese di posizione
pubbliche e, nonostante il Csm avesse preso in mano la questione, il clima
nell’ufficio rimaneva pesante. Le ragioni dell’uno e dell’altro non erano del tutto
convincenti, ma io riconoscevo a Edmondo onestà intellettuale e buona fede,
anche se quella triste vicenda aveva messo in luce alcune lacune nella sua
gestione dell’ufficio. D’altra parte Robledo, ormai preso dal braccio di ferro con
il capo, non vedeva più i fatti con sufficiente lucidità. Dopo l’apertura delle
relative pratiche, il Csm aveva deciso: Robledo perse la partita e fu trasferito a
Torino.
Tutti ne uscimmo con le ossa rotte e quell’inutile guerra intestina contribuì a
convincere Edmondo a non prorogare il suo mandato per un altro anno. Decise
di lasciare l’incarico il 16 novembre, sostituito pro tempore da Piero Forno,
l’aggiunto più anziano. Poco dopo venne messo a concorso il posto di Edmondo
e anch’io presentai domanda.
Nel febbraio 2014, il governo guidato da Matteo Renzi aveva varato la riforma
della pubblica amministrazione con la quale, tra l’altro, si abbassava a
settant’anni la soglia del pensionamento per alcune categorie come i magistrati, i
professori universitari, i medici. Con il che un’intera generazione di funzionari e
professionisti veniva rottamata senza alcuna gradualità né la possibilità, per chi
lo desiderava, di rimanere in servizio. Una legge che per gli ospedali è stata una
catastrofe, perché ha determinato paurosi vuoti di organico e lasciato interi
reparti privi della guida di dirigenti con anni di esperienza, non sempre sostituiti
con colleghi di uguale livello.
Come per la sanità pubblica o la scuola, anche per la giustizia si aprì una
stagione confusa, con centinaia di cambi al vertice e gli annessi rischi di scelte
fondate sull’appartenenza partitica o correntizia anziché sul merito.
Le domande per concorrere al posto di procuratore non erano state poche,
anche se me ne aspettavo molte di più. Da oltre trent’anni su quella poltrona si
erano seduti magistrati già in servizio a Milano, da Mauro Gresti a Saverio
Borrelli, da Gerardo D’Ambrosio a Manlio Minale per finire con Edmondo Bruti
Liberati, quindi era ovvio che l’ufficio tifasse per uno dei candidati “interni”:
Francesco Greco, Alberto Nobili e me. Per quanto noi tre ci conoscessimo più
che bene, l’essere rivali creò un po’ d’imbarazzo, almeno all’inizio. Per me la
questione era ancora più complicata, dato che Alberto è il padre di mia figlia e
sono legata a Francesco da un’amicizia di vecchia data. Per anni siamo andati
ogni estate in vacanza con le famiglie alla Maddalena e ogni sera ci ritrovavamo
al bar del porto, a tirare tardi chiacchierando. Una vita semplice di famiglie
giovani, con i bambini piccoli e un futuro tutto da scoprire. Alberto e io su un
gommone, Francesco su una piccola barca a vela, ci spostavamo tra le isole
dell’arcipelago: era possibile arrivare a Spargi, a Budelli e alla bellezza
selvaggia di Caprera, angoli paradisiaci accessibili solo via mare.
Le giornate sarde iniziavano piuttosto comiche: il gommone veniva caricato
all’inverosimile con ombrellone, asciugamani, salvagente, borsa termica, i
giocattoli di Alice, la sacca da subacqueo di Alberto e non so cos’altro. Il
ritorno, verso l’imbrunire, poteva invece regalarci un supplemento di avventura,
specie se avevamo contro le onde e il vento provenienti dalle Bocche di
Bonifacio. Mi piaceva, navigando, tendere il braccio fuori bordo e far scorrere
l’acqua tra le dita, guardando il sole che tramontava e i delfini che ci nuotavano
accanto. D’inverno, lo stesso gruppo di amici affittava una casa in Engadina,
dove andavamo appena possibile. Tutti sciavano tranne me. Ho già ammesso di
essere pigra, non amo lo sforzo fisico, senza contare la paura di farmi male.
Ciononostante, anche gli inverni tra boschi, cieli azzurri e aria sottile vivono
ancora nella parte più dolce della mia memoria. Questa vita serena venne
spazzata via nel pomeriggio del 23 maggio 1992, quando l’onda d’urto di Capaci
inghiottì il mare cristallino della Sardegna e gli abeti svettanti dell’Engadina. Da
quel momento nulla è più stato come prima.
Data l’amicizia con Francesco, la conoscenza dei pregi e dei limiti ognuno
dell’altro, mi ero illusa che tra noi non si sarebbero innescate le dinamiche
tipiche di queste competizioni. Purtroppo così non è stato e già nei primi mesi
del 2016, ai blocchi di partenza, le nostre velocità erano molto diverse. Io sapevo
di essere in svantaggio, avevo il vento contro per essere invisa a una gran parte
della politica e sapevo anche di non piacere a una buona fetta della magistratura.
Francesco, invece, nonostante fosse conosciuto essenzialmente per essere stato
uno dei pm di una stagione comunque controversa come quella di Mani pulite,
non era oggetto di particolari critiche né di aperti dissensi, a differenza di altri
colleghi del pool, per esempio Gherardo, che aveva visto frustrata la sua
aspirazione a diventare magistrato di collegamento internazionale con sede in
Inghilterra o in Francia. Rispetto a me, inoltre, Francesco godeva del favore di
Magistratura democratica, la cui sezione milanese gli aveva garantito
pubblicamente il suo appoggio.
Il ragionamento dei leader di Md, Edmondo in testa, era il seguente: sostenere
Ilda è una battaglia persa in partenza, perché il partito di Berlusconi e i suoi
alleati presenti nel Consiglio superiore non acconsentirebbero a eleggerla e lo
stesso vale per una parte del Foro e degli imprenditori lombardi. A questo fronte,
già nutrito, si sarebbe aggiunta Magistratura indipendente, il raggruppamento di
destra della categoria. Quindi – era la conclusione – meglio puntare su un altro
candidato. In parole povere, la mia storia professionale diventava un segno meno
e, alla prova dei fatti, un handicap non essermi sottratta alle indagini su reati
commessi dal potere. Né aveva alcun valore l’applicazione in Sicilia o l’aver
coordinato per otto anni il dipartimento Antimafia di Milano. Ingenuamente ero
convinta che le mie credenziali facessero di me una candidata valida e, forse con
presunzione, ero certa dell’appoggio delle donne, magistrate e non, che
avrebbero raccolto la sfida di vedere per la prima volta una di loro a capo di una
grande procura. Sostenermi avrebbe segnato una cesura significativa nella storia
tutta al maschile delle carriere direttive, ma non solo: avrebbe interrotto anche il
pessimo costume di favorire un nome per la sua appartenenza a questa o quella
corrente. Il mio percorso professionale era sotto gli occhi di tutti, dunque, se
anche fosse stata una battaglia persa in partenza o dalla vittoria improbabile, a
mio avviso andava comunque combattuta, perché la sfida in sé avrebbe
rappresentato un precedente importante.
Ma così non è stato e il silenzio e l’indifferenza al femminile mi hanno fatto
male. Soprattutto la freddezza o la contrarietà non dichiarata di colleghe in
servizio a Milano, che pure conoscevano molto bene la mia storia. Non riesco
ancora a comprendere come magistrate influenti di Md potessero accettare che la
mia esclusione fosse determinata dal gradimento o meno del partito di
Berlusconi e dal pregiudizio di quanti, tra i colleghi, mi hanno considerata brava
ma ingovernabile, manichea nei giudizi, dal carattere impossibile. Francamente
non capisco come ci si possa allo stesso tempo dichiarare paladini dei diritti e
accettare senza fare un plissé le regole dello squalificante sistema di
lottizzazione delle poltrone. L’influenza della politica sulle nomine e lo scambio
di “figurine” tra correnti sono venuti alla luce in tutta la loro gravità con
l’inchiesta sulla vicenda Palamara.
Stando alle chat e alle conversazioni pubblicate nei mesi scorsi, lo
schieramento che avrebbe dovuto valutare la mia idoneità alla nuova carica era
formato da colleghi molto ben inseriti nel sistema correntizio. Per questo io lo
vivevo più come un plotone di esecuzione. Lo stesso Palamara scriverà nel suo
libro: “La prima candidatura a saltare è quella di Ilda Boccassini, che non
avendo nessun aggancio né con le correnti né con la politica esce subito dai
giochi. Per lei non c’è alcuna possibilità”.
Nel mese di marzo i candidati erano stati convocati davanti alla V
commissione del Csm, per esporre il progetto organizzativo che, in caso di
nomina, avrebbero applicato all’ufficio. La decisione di procedere alle audizioni
era stata presa dopo settimane in cui sulla stampa imperversava il toto-nomine.
Quello dei nomi pubblicati in anticipo è un vecchio sistema cui i giornalisti si
prestano per compiacere le loro fonti, i direttori e questo o quello schieramento,
ma che serve solo a bruciare una candidatura o a spingerne un’altra. Idem per le
interviste e i ritratti agiografici, che – fateci caso – durante le competizioni si
sprecano. Com’è ovvio, io non rilasciai interviste, ragion per cui non trovai
posto negli affreschi sui purosangue in lizza per Milano. Manco fossi un
ronzino...
Comunque sia, arrivai a Roma la sera prima dell’audizione e passai la notte
ospite dell’attrice Anna Bonaiuto, con la quale trascorsi una serata piacevole e
rilassante. Il mattino seguente mi presentai con un certo anticipo a palazzo dei
Marescialli, dove mi incontrai con Francesco e Alberto. Il clima tra noi era
strano, si percepiva una tensione silenziosa mai vissuta fino a quel momento,
tanto che scambiammo solo pochissime battute finché, intorno alle 9.30, venne
chiamato il primo candidato.
Non sapevo quanto a lungo sarebbe durata quella giornata, così avevo scelto
un abbigliamento comodo, elegante e casual allo stesso tempo: jeans blu con un
top dello stesso colore e uno spolverino di velluto di seta bordeaux. Come
accessori, un bel paio di stivaletti dall’aria grintosa e una magnifica collana a più
fili di perle grigie racchiusi in una susta importante tappezzata di pietre grigie e
bordeaux. Infine una sciarpa in seta, acquistata durante un viaggio in India.
Anche se l’occasione non era il massimo, mi sentivo benissimo nei miei panni.
Quando fu il mio turno, ben conscia che i giochi erano già fatti e le audizioni
erano una semplice formalità (per non dire una farsa), anziché attenermi alla
rituale esposizione dei criteri organizzativi, scelsi un altro campo di gioco e
decisi di riassumere per i consiglieri la mia vita professionale, comprese le
avversità incontrate nel fare il mio dovere e le ragioni per cui ritenevo di essere
adatta a guidare un ufficio. Terminai la mia esposizione rivolgendomi
direttamente al presidente Antonello Ardituro. Gli chiesi se, a suo parere, l’aver
sostenuto un certo tipo di processi, l’aver perseguito magistrati e portato alla
luce i legami tra poteri forti e mafia mi avrebbe giovato o penalizzato nella
valutazione. Gli chiesi, ancora, se fosse in grado di garantirmi un giudizio
obiettivo, basato sul merito, al di fuori di ogni genere di condizionamento e di
pregiudizi, compreso il fatto che non fossi iscritta a nessuna corrente.
Avevo avanzato questa mia richiesta, ovviamente provocatoria, con tono
appassionato. Ardituro, colto di sorpresa, disse qualcosa a proposito della
capacità di valutazione dei commissari, che si sarebbero basati esclusivamente
sul merito perché non c’era possibilità alcuna di condizionarli. Risposta scontata,
data a occhi bassi, a una domanda troppo diretta per gli assetti inamovibili
dell’autogoverno. A quel punto mi ero alzata, avevo salutato ed ero uscita dalla
stanza, avviandomi subito alla stazione. Ormai consideravo chiusa la questione e
avevo solo una gran voglia di tornare a casa, di lasciarmi alle spalle quel mondo
di ipocrisie e di compromessi troppo simile a quello che tanto critichiamo in
ogni altro palazzo del potere. Mi sentivo più leggera: in fondo avevo già scelto
di vivere un’altra vita che mai come in quel momento mi parve meravigliosa.
Poche settimane dopo, il plenum a larga maggioranza scelse Francesco come
procuratore di Milano. Proprio la mattina del voto, un altro candidato molto
forte, Giovanni Melillo, già capo di Gabinetto del guardasigilli, aveva ritirato la
sua domanda per Milano, presumibilmente per un accordo tra le correnti che
dovevano sistemare altri due tasselli: il posto di procuratore di Napoli, cui lo
stesso Melillo aveva concorso, e quello di procuratore nazionale antimafia,
carica cui aspirava Federico Cafiero De Raho. Magicamente, fluidamente, senza
alcun intoppo, il premio arrivò per entrambi: Melillo è ora procuratore di Napoli,
Cafiero De Raho occupa la poltrona al vertice in via Giulia.
I colleghi della procura di Milano accolsero con soddisfazione la nomina di
Francesco, sia perché tutti lo conoscevano da tempo, sia perché era stata
scongiurata la possibilità che a governare l’ufficio arrivasse un capo che non
aveva mai lavorato lì. Alberto, al quale in molti avevano promesso sostegno e
fatto credere nella nomina, era rimasto deluso, la sconfitta gli bruciava, ma da
uomo delle istituzioni si mise subito a disposizione della nuova dirigenza. Se
quasi tutti erano contenti, le colleghe e i colleghi più vicini a Francesco erano
addirittura entusiasti. E ne avevano ben donde, dato che un anno dopo quattro di
loro, grazie alla fattiva sponsorizzazione di Greco, sarebbero stati nominati suoi
vice. Non solo: Francesco riuscì a ottenere per l’ufficio la copertura di tutti e sei
i posti di aggiunto rimasti vacanti. Come? Lo diceva lui stesso: trascorrendo ore
e ore al telefono e diverse giornate a Roma per assicurarsi gli appoggi necessari
al Consiglio.
Non partecipai alla cerimonia di insediamento di Francesco, ma prima gli
spiegai in privato le mie ragioni: non ce l’avevo con lui, ma trovavo inaccettabile
il criterio di selezione che non garantiva un confronto trasparente tra i candidati.
Francesco sembrò capire i miei motivi e comunque ribadii che avrebbe potuto
contare su di me, così come io avrei voluto contare su di lui. Dopo qualche mese
sarebbe scaduto per me il termine di otto anni a capo del dipartimento Antimafia
e lui avrebbe dovuto provvedere alla mia collocazione per i due anni che
mancavano al pensionamento. Cosa che è avvenuta, ma dai modi, dai tempi, dai
toni ho capito perfettamente che ormai non ero più considerata una risorsa per
l’ufficio, solo una grana da gestire senza spendere troppe energie, nell’attesa del
fatidico traguardo dei settant’anni.
Mi sarebbe piaciuto diventare procuratrice, affrontare quell’ultima sfida della
mia storia professionale. In quei mesi di attesa della decisione mi ero illusa che
sarebbe stato difficile ignorarmi, come invece sarebbe poi accaduto. Sì, mi ero
illusa ed ero andata avanti nonostante mi fossero giunti da più parti, chiari e
univoci, segnali di scetticismo. Giuseppe Pignatone, ancor prima che preparassi i
documenti necessari, mi aveva avvertita, con gentilezza ma senza giri di parole,
che negli ambienti romani si coglievano sulla mia candidatura atteggiamenti e
giudizi scoraggianti fino all’ostilità, al punto che riteneva abbastanza inutile
anche il solo iscrivermi alla gara. Altri amici si chiedevano e mi chiedevano
perché non presentassi altre domande (erano vacanti i vertici di Genova e
Bologna), dato che al “no” per una sede corrispondeva quasi certamente
l’assegnazione di una delle alternative indicate. Ma a me non interessava dirigere
un ufficio qualunque, il mio obiettivo era solo uno: dirigere la procura in cui
avevo lavorato per una vita. Era quella la sfida.
Un caro amico, buon conoscitore delle dinamiche della politica, sempre nel
tentativo di non farmi scendere nell’arena, mi propose un’analisi più
complessiva: “Tu, cara Ilda, sei brava, lo sai che ti stimo. Ma nel bene e nel male
rappresenti un passato che si vuole dimenticare. Volente o nolente, sei l’icona
della contrapposizione fra il potere giudiziario e il potere politico, che per quasi
vent’anni ha avvelenato il Paese. Lo so che non è colpa tua, però la tua nomina
sarebbe percepita come la prosecuzione di quel periodo e non come la svolta
verso quel clima pacificato che in tanti desiderano”. Queste parole mi colpirono
e mi lasciarono interdetta, mi sembravano esagerate, una semplificazione
eccessiva di un periodo lungo e complicato della mia vita, intrecciata alla vita
del Paese. Ma con il passare del tempo ne colgo sempre più la verità: dall’inizio
alla fine sono stata una figura ingombrante per la mia categoria, per la politica e
per quei cittadini che mi vedevano come un demonio o come un angelo
vendicatore. Ovviamente non sono mai stata né l’uno né l’altro, ma questo è il
destino di “Ilda la rossa” ed è arrivato il momento di accettarlo con serenità, di
elaborarlo come si fa con i traumi e le ferite che guariscono, ma lasciano in
ricordo una cicatrice permanente.
32.
Gli ultimi anni

Gli ultimi due anni in procura non sono stati esaltanti. In verità, i primi mesi
del 2018 sono stati dolorosi poi, pian piano, sono riuscita a farmene una ragione.
A febbraio, alla scadenza degli otto anni da procuratore aggiunto, è cessata
anche la delega alla Direzione distrettuale antimafia. Mi sarebbe piaciuto
concludere la carriera indagando sulla criminalità organizzata, anche nelle sue
propaggini al Nord. Sapevo bene che rimanere in Dda sarebbe stato
burocraticamente complicato, ma confidavo nel fatto che, appena nominato,
Francesco mi aveva garantito che avrebbe trovato una soluzione per farmi
restare all’Antimafia. Non mi sembrava di chiedere troppo, ma in pratica lui si
limitò a consultare altri colleghi, senza prendere iniziative e, peggio, senza mai
interpellarmi. Mi sarebbe bastato essere rassicurata, quanto meno facendomi
partecipe delle iniziative prese o che intendeva prendere per soddisfare questa
mia unica richiesta. Perciò non mi meravigliai quando cominciò a intervenire a
convegni e seminari sulla criminalità organizzata, nella sua veste di capo
dell’ufficio. Invitato grazie al lavoro svolto dalla Dda negli ultimi anni,
Francesco accettava di parlare ovunque e – sempre senza interagire con me –
intratteneva le platee su tematiche di cui non era esperto perché i suoi interessi
erano centrati su argomenti di natura diversa, in particolare le malefatte di
finanzieri in doppiopetto o di evasori fiscali di alto bordo.
A differenza di Bruti Liberati, che mi ha sempre coinvolta e ha chiesto il mio
appoggio quando da capo dell’ufficio aveva dovuto confrontarsi con casi di
mafia, Greco non ha mai ritenuto di approfondire la materia.
Cessata la funzione di delegato distrettuale, si sono velocemente defilate tutte
quelle persone che per otto anni mi avevano cercata, anche con insistenza, per
avermi ai loro convegni, seminari, manifestazioni come relatrice o esperta:
professori universitari, scrittori, giornalisti, avvocati, molti dei quali hanno
utilizzato gli atti delle inchieste milanesi per le loro pubblicazioni, sono spariti
nel nulla dall’oggi al domani. Tra questi, mi spiace dirlo, Nando Dalla Chiesa,
con il quale ho intrattenuto per anni ottimi rapporti e di cui ho sempre apprezzato
l’impegno sul fronte antimafia.
In attesa di conoscere il mio destino, trascorrevo in ufficio gran parte della
giornata e del primo pomeriggio finché, non avendo granché da fare, andavo a
casa di Alice a godermi Martino, il mio nipotino. Non ero abituata a ritmi di
lavoro così blandi, ma rimanere in ufficio a far nulla mi rattristava. Perciò,
volendo trovare il lato positivo, posso dire di essermi goduta i primi anni di
crescita di Martino molto più di quanto non fosse accaduto con quelli dei miei
figli. La gravidanza di Alice ha fatto sì che entrasse nella nostra vita una persona
straordinaria, Maria Pia, la mamma di Nico, il compagno di mia figlia. Ci siamo
piaciute subito, le voglio bene e con lei condivido la gioia dei nipoti. È una
donna positiva, intelligente, rassicurante, che ha regalato a mia figlia la sua
dedizione mai invadente. Alice si è affidata a lei per la crescita dei figli e io non
mi sono mai sentita esclusa, perché sono consapevole che qualche anno in meno
e la dimestichezza con i neonati sono doti preziose che Pia condivide con
generosità.
La situazione in cui mi trovavo si faceva ogni giorno più incresciosa, ma non
volevo lamentarmene con i colleghi. Ne parlavo soltanto con Paolo Storari, pur
sapendo che molti altri magistrati della procura erano indignati per il prolungarsi
delle non-scelte di Greco. A quanti mi confidavano la loro perplessità per la
nuova gestione, raccomandavo di pazientare perché era ancora troppo presto per
tirare conclusioni. Sebbene anch’io la pensassi allo stesso modo, restava
prioritario contribuire alla coesione interna dell’ufficio.
I mesi trascorrevano lenti, senza novità di rilievo, mentre cominciava a
prendere forma il progetto organizzativo del nuovo procuratore, tanto
favorevolmente accolto dai membri della commissione che ne aveva deciso la
nomina, a cominciare da Paola Balducci, membro laico espresso dalla sinistra,
convinta sostenitrice di Greco, oltre che indiscussa rappresentante della logica
spartitoria, come sarebbe di lì a poco emerso dalle conversazioni e dalle chat di
Luca Palamara.
A togliere il procuratore dall’impasse di trovarmi una collocazione, per così
dire, “adeguata”, è purtroppo intervenuta nel 2018 la malattia della collega
Giulia Perrotti, responsabile del dipartimento che indaga sui reati contro la
pubblica amministrazione. Giulia, cui ero legata da un rapporto di affetto e
stima, prima di ammalarsi passava da me quasi ogni mattina per fare due
chiacchiere e fumare una sigaretta, gesto che probabilmente ha contribuito a
ucciderla. Benvoluta da tutti per la sua simpatia, dolcezza e affabilità, una volta
nominata procuratore aggiunto aveva preso il posto di Alfredo Robledo,
trasferito a Torino.
Il cancro ai polmoni le era stato diagnosticato dopo qualche mese in cui
lamentava una tosse stizzosa che non guariva nonostante le cure. La scoperta
della malattia non le aveva fatto perdere il buonumore e con determinazione
aveva iniziato le terapie. All’inizio si faceva forza, tra un ciclo di chemio e
l’altro veniva in ufficio: nonostante il dimagrimento continuava a essere una
donna molto bella, solare. Lavorava da casa e in un modo o nell’altro guidava il
suo dipartimento.
Giulia si occupava di corruzione che, come la malattia che l’ha colpita, si
propaga silenziosamente dentro un corpo, scoppia all’improvviso, corrode
l’organismo inviando segnali ambigui, di difficile lettura, e quando esplode è
quasi sempre troppo tardi. Ecco perché, in entrambi i casi, è importantissima la
prevenzione. La corruzione si muove sotto traccia, raramente viene denunciata
ma, se non si agisce per tempo, si diffonde sempre di più. In tutte le indagini sul
fenomeno mafioso ci siamo imbattuti in sacche di neghittosità, menefreghismo a
tutti i livelli, facili da trasformare in complicità nei comportamenti illegali. Dopo
le crisi economiche e il venir meno di una politica nuova in seguito all’uragano
di Mani pulite; dopo il crollo, negli ultimi trent’anni, di un’etica condivisa,
abbiamo potuto constatare che la corruzione non attecchisce più soltanto ai piani
alti della società e delle istituzioni (ormai sono rare le maxitangenti), ma si è
diffusa e radicata un po’ ovunque, grazie alla disponibilità di tanti a svendere la
propria funzione per illudersi di esercitare un potere, che in realtà ne ha
intrappolato la mente e le azioni.
Nel corso delle riunioni degli aggiunti, anche durante la gestione di Bruti
Liberati, capitava spesso di affrontare il tema della corruzione. Negli ultimi anni,
va detto, la procura di Milano non ha brillato per iniziative di contrasto a questo
fenomeno: le indagini scarseggiavano e una parte dei colleghi che facevano
riferimento a Greco – compreso lui stesso, che prima della nomina dirigeva il
dipartimento Reati fiscali e societari – non si rendeva conto che dopo
Tangentopoli i tempi erano cambiati e la corruzione era ormai in fase di
metastasi, con una diffusione talmente capillare da rendere abbastanza inutile
puntare solo sul bersaglio grosso.
Forse mi sbaglio, ma ritengo che la sottovalutazione di non pochi colleghi in
materia di corruzione sia derivata da un approccio snobistico alle indagini, che li
ha portati a trascurare le piste minimali, periferiche, del paesino o della Asl
sconosciuta, per puntare su quelle più gratificanti per il loro impatto mediatico.
In quarant’anni di indagini, ho imparato ad annusare l’aria e a intuire con una
certa efficacia quali siano le strategie migliori per contrastare le varie forme di
illegalità e mi sembrava già allora poco produttiva la strada dell’accorpamento in
un unico dipartimento dei reati fiscali, societari e contro la pubblica
amministrazione.
Le mie perplessità si sono rivelate fondate quando, per poco meno di un anno,
ho sostituito Giulia: tra i colleghi scarseggiava o mancava la specializzazione
necessaria per gestire l’insieme della materia fiscale e societaria, senza contare la
complessità delle indagini che riguardano la pubblica amministrazione, in cui
bisogna districarsi nel labirinto di leggi, leggine e regolamenti che
contraddistingue il nostro sistema burocratico. Alcuni avevano esperienza nel
settore finanziario ma non in quello della pubblica amministrazione, altri
avevano trattato processi solo su questo secondo versante. I più giovani erano
completamente digiuni delle materie del dipartimento e, per quanto avessero
voglia di rimboccarsi le maniche, avrebbero ben presto dovuto scoprire che nel
nostro lavoro l’encomiabile buona volontà è necessaria ma non sufficiente.
Intanto, nei primi mesi del 2019 avevo cominciato a liberare il mio ufficio
dalle carte che si erano accumulate nei decenni di servizio. È solo in frangenti
come questi che ci si rende conto di quante cose – non tutte utili – si conservano
nel corso degli anni e quanto può essere triste ma anche liberatorio procedere
alla distruzione di pezzi della propria vita. Dato il tempo libero che avevo
improvvisamente a disposizione, mi sono potuta dedicare alla rilettura del
passato. Quelle carte ingiallite, a volte sbiadite dal tempo, contenevano la
conferma che avevo vissuto la vita che volevo, che avevo avuto una parte nella
storia del Paese, che avevo il privilegio di poter contare su tanti ricordi per
affrontare i periodi malinconici che mi avrebbero ben presto raggiunto. Per mesi
ho dedicato la mattina e il primo pomeriggio alla lettura del passato e alla cernita
dei ricordi da conservare, dopodiché correvo verso il futuro: mio nipote.
I momenti più dolorosi sono stati quelli in cui ho ripreso in mano i faldoni del
periodo siciliano. Ho fatto fatica a rileggere i documenti che parlavano di
Giovanni e della sua morte: ho rivisto una donna distrutta dal dolore, che si
faceva forza per resistere in una terra ostile e lontana dai suoi affetti, con un
enorme senso di vuoto davanti alle foto di un corpo senza vita in un anonimo
obitorio. Ero combattuta tra il desiderio di conservare tutto e quello di cestinare
tutto. Alla fine, dopo giorni laceranti, è prevalsa la necessità di sopravvivere, la
consapevolezza che quei momenti erano comunque dentro di me e non serviva
mantenerne tracce scritte. Così, quando ho cominciato a strappare quelle carte
una a una, mi sono sentita molto meglio, anche se l’operazione è durata a lungo
perché sentivo di dover trattare quei ricordi con tutta la delicatezza di cui ero
capace. Avrei potuto buttare via tutto in pochi minuti, invece ho spezzettato ogni
foglio dolcemente, come se non volessi fargli del male.
Questa lenta operazione di trasferimento del ricordo dalla carta alla memoria e
alla mia anima si è protratta fino quasi all’estate. Dopodiché avrei dovuto
resistere (è il termine più adatto) in ufficio ancora pochi mesi, fino al 7
dicembre. Contrariamente agli anni precedenti, decisi di regalarmi un mese e
mezzo filato di vacanza. Ovviamente mi rifugiai a Ischia con i miei fratelli, che
potevo frequentare davvero solo in quel periodo dell’anno.
A fine agosto tornai al Lido per il Festival del cinema, con gli amici Adriana e
Luigi, alloggiando come sempre alle Tre Fontane, un albergo di grande fascino e
in una posizione strategica rispetto alla Sala grande e al Palalido dove veniva
proiettata la maggioranza dei film. Anche il programma del 2019 era molto
denso ma, grazie all’abilità di incastro di Adriana, nei pochi giorni di
permanenza riuscimmo a vedere molti dei film e documentari che ci
interessavano. Il desiderio di assistere a tante proiezioni imponeva ritmi
incalzanti: a volte cominciavamo con quella delle 9 e andavamo avanti fino a
sera, con i brevissimi intervalli indispensabili per rinfrescarci e per consumare
veloci colazioni nel bel giardino dell’hotel.
Adoro l’atmosfera di quei giorni veneziani in cui, nonostante il caldo
opprimente di alcune estati, si respira un’aria diversa. Mi si apre il cuore nel
vedere in quelle giornate folle di giovani che riempiono le strade del Lido perché
hanno scelto di dedicare il proprio tempo libero alla cultura e alla passione per il
cinema.
Tornai in ufficio a metà settembre. Nella “mia” stanza numero 30, i vecchi
mobili ormai sgombri da carte, cartelline e faldoni davano una sensazione di
vuoto che forse era anche dentro di me. Al muro erano sempre appesi i crest
ricevuti in dono dalle forze di polizia, c’era ancora qualche soprammobile e
davvero poco altro. Avevo già deciso di regalare tutto ai miei collaboratori
perché, in quarant’anni di attività, si sono succedute nell’ufficio tante persone
per lo più capaci e perbene. Tra queste, il maresciallo capo della guardia di
finanza Natale Rifici, rimasto al mio fianco per quasi vent’anni. A lui avevo
affidato la gestione del “follow the money”, cioè la maggior parte degli
accertamenti bancari nel processo Ruby, che Natale aveva svolto in modo
impeccabile. La credibilità acquisita negli ambienti finanziari e la sua capacità di
allacciare rapporti anche personali erano risultate preziose per velocizzare la
trasmissione della documentazione bancaria di volta in volta richiesta. Per anni,
quindi, l’accoppiata Boccassini-Rifici aveva provocato più di un mal di pancia
nel mondo degli affari.
Solo due cose ho deciso di portare con me: il poster incorniciato del film The
Untouchables, un regalo di molti anni prima, e una fotografia in cui sono ritratta
con il prefetto Vincenzo Parisi, all’epoca capo della polizia, durante la
conferenza stampa a Roma, nel novembre 1993, dopo la cattura degli esecutori
della strage di Capaci. Nella foto sono di profilo, il volto minuto incorniciato da
una massa di riccioli rossi. Ero così felice, quel giorno!
Ormai anche la mia scrivania era sgombra, a esclusione del posacenere, di un
portapenne e del Codice penale. Provavo una strana sensazione dopo che per
anni un disordinato ammasso di carte aveva occupato ogni angolo della mia
stanza numero 30. Volutamente avevo lasciato per ultimi i faldoni con parte
delle lettere, fax, email ricevuti dai cittadini.
Il 7 dicembre si avvicinava. Avevo deciso di prendere qualche altro giorno di
ferie e avevo comunicato solo ai miei collaboratori la data esatta della nostra
separazione. Gli addii non mi piacciono, ma la mia squadra sapeva che non ci
saremmo persi di vista, che li avrei seguiti anche da lontano, pronta a sostenerli
se ne avessero avuto bisogno.
Me ne andavo con un carico di emozioni che pochi miei colleghi avevano
vissuto e chissà se avrebbero mai avuto la fortuna di vivere. Da tempo sentivo di
non appartenere più a una magistratura ormai così lontana dai principi che mi
avevano spinta a studiare, studiare, studiare per vincere il concorso e, nei
quarant’anni successivi, a impegnare ogni mia energia nel servizio. Percepivo
con chiarezza la distanza da quei colleghi giovani di età, ma già invischiati nelle
beghe correntizie, sempre indaffarati per ottenere una poltrona nel Consiglio
giudiziario o al Consiglio superiore, pronti a scalpitare per entrare nel cerchio
magico del capo e arraffare qualche incarico di secondo piano per allungare il
curriculum.
Negli ultimi due mesi non ho più incrociato il procuratore. Non l’ho cercato e
lui non mi ha cercato, così ho lasciato la procura senza nemmeno salutarlo. Mi
faceva sorridere e non più arrabbiare la favoletta che Francesco faceva circolare,
secondo la quale il mio “caratteraccio” aveva impedito qualsiasi forma di
dialogo e la decisione di andarmene alla chetichella era solo la naturale deriva di
questo mio tratto personale.
Per quanti sforzi faccia, non riesco a ricordare l’ultimo giorno in ufficio, forse
perché troppo uguale a tanti altri, forse perché non ho provato emozioni
particolari. Lo considero un buon segno, significa che già da tempo avevo
elaborato il lutto per il distacco. Ero comunque più che mai decisa a non
rimettere piede in tribunale, nemmeno per andare in banca, il mio sportello di
sempre, al piano terra, e così ho imparato persino a gestire le operazioni online.
Ero consapevole che l’ubicazione del tribunale, in pieno centro a Milano, non
avrebbe facilitato il distacco, ma credo che l’immane tragedia della pandemia,
scoppiata poche settimane dopo il pensionamento, mi abbia anche un po’ aiutato,
obbligandomi a rimanere barricata in casa per mesi. C’è stata una sola occasione
in cui sono stata costretta a varcare nuovamente la soglia del palazzo.
33.
Ancora un’audizione

La vicenda Scarantino, con il depistaggio sulla strage di via D’Amelio che mi


aveva portata già due volte davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta, si
rimaterializzò nel dicembre 2019, proprio a ridosso del mio pensionamento. La
convocazione per l’ennesimo dibattimento in corso in Sicilia fu preceduta da una
telefonata del collega della procura nissena, che mi annunciava l’invito a
testimoniare poco prima di Natale. Proprio nel periodo in cui mi fu diagnosticato
un ritorno dell’anemia che mi provocava grande stanchezza.
Al collega siciliano avevo esternato ancora una volta la mia contrarietà a una
deposizione che tutti sapevamo inutile. Bastava riprendere in mano i verbali
d’udienza, tutti atti pubblici che potevano essere riversati nel processo in corso.
E poi c’erano le relazioni scritte nel 1994, in cui esponevo i miei dubbi su quel
collaboratore di giustizia: carte che ormai cominciavo a maledire! Il collega non
aveva preso bene le mie rimostranze, aveva accennato all’insistenza del
presidente della Corte e soprattutto degli avvocati. A un certo punto avevo
tagliato corto, facendo presente che ero malata e che non potevo affrontare
viaggi faticosi. Concordammo che ci saremmo risentiti l’anno successivo.
Quella telefonata mi provocò un profondo malumore. Non appena tentavo di
allontanarmi dalla Sicilia, un evento, una richiesta mi facevano tornare indietro
nel tempo fin sull’orlo di un baratro al quale tentavo di sfuggire da anni.
Puntuale come una cambiale, la nuova convocazione arrivò a inizio 2020. Non
avevo proprio voglia di rifare il viaggio, rivedere le stesse persone, ripetere le
stesse frasi, rispondere alle stesse domande – spesso aggressive – degli
avvocati... Perciò comunicai al collega di Caltanissetta che avrei spedito un
certificato medico per la mia malattia e perché il diffondersi del coronavirus, che
ormai dilagava in Cina, rendeva ancora più pericoloso spostarmi da Milano.
Finalmente (ma solo dopo aver ricevuto il certificato) i giudici disposero che la
mia audizione avvenisse in videoconferenza. Meglio che viaggiare, certo, ma il
20 febbraio 2020 dovetti tornare in tribunale, dove era stata attrezzata un’aula
per il collegamento. In cuor mio speravo di non incontrare colleghi che mi
avrebbero costretto a dire qualche banalità, a sorridere alle solite battute su
quanto si stesse bene senza andare in ufficio. Non ero proprio nello spirito
adatto.
Come previsto, anche quella terza audizione non fu solo inutile, ma pure
stressante e a tratti kafkiana per le domande, i toni, i riferimenti a dettagli
arcinoti trattati come novità, per giustificare l’intera situazione. L’udienza
cominciò con quasi un’ora di ritardo, senza che nessuno si degnasse di
avvertirmi. Niente di grave, ma nemmeno niente di nuovo: era lo stesso
atteggiamento tenuto da tutti coloro che avevano gestito la vicenda Scarantino.
Era sempre stato esplicito e facilmente percepibile il loro distacco – direi quasi
una sorta di livore – per l’esistenza delle due relazioni con le quali fin dall’inizio
avevo messo nero su bianco quei dubbi che si erano poi rivelati del tutto fondati.
E trovo sconcertante che, dopo quasi trent’anni, ci sia chi continua a prendersela
con me perché non si è ancora riusciti a risolvere il “mistero” sulla gestione del
falso collaboratore (le cui dichiarazioni, non dimentichiamolo, sono state
giudicate attendibili non solo dai pm ma anche dai tribunali).
Non vale la pena dilungarsi su quest’ultima testimonianza, perché è stata più o
meno la copia delle prime due, con i soliti tentativi da parte di alcuni legali di
farmi cadere in contraddizione e, quindi, i soliti battibecchi tra me e le difese.
L’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, ha replicato il suo show
condito di toni aspri, sopra le righe. Comunque anche quel giorno il tiro al
piccione durò diverse ore (con una breve pausa pranzo), e potei tornare a casa
solo verso metà pomeriggio.
Da quel 20 febbraio 2020 non ho più messo piede a palazzo di giustizia. E mi
sembrano così lontani i tempi in cui, passando di lì, scherzavo con Letizia
imitando la vocina dell’ET di Spielberg e sussurravo: “Telefono... casa...”
puntando il dito verso l’ingresso della mia seconda abitazione.
Avevo conosciuto Letizia in un villaggio della Maddalena, dove ero tornata
nel 1999. Anche lei veniva da Milano, anche lei era in vacanza e tra noi nacque
un rapporto di amicizia che ancora ci vede unite. È con lei che spesso vado nella
mia Ischia, tanto che oggi Letizia la ama quanto me. Per anni è stata la mia
compagna di viaggi. Single come me e maldestra forse più di me, abbiamo
sempre preferito i gruppi organizzati, per non avere problemi logistici.
Intanto, il 5 febbraio era nato Sebastiano, il fratellino di Martino, e, negli stessi
giorni, alla felicità per questo evento si era aggiunta quella per l’annuncio di
Antonio e Carla: anche loro aspettavano un bambino, che sarebbe nato verso
metà ottobre. Abbiamo fatto appena in tempo a festeggiare il primo mese di vita
di Sebastiano che l’acutizzarsi della pandemia ci ha impedito di frequentarci.
Così ho potuto seguire i primi mesi di Sebastiano e veder crescere la pancia di
mia nuora solo grazie ai video e alle fotografie. Per tre mesi non sono mai uscita,
avevo paura.
Chiusa in casa, ero angosciata dal silenzio che circondava ogni cosa, rotto
soltanto dalle sirene delle ambulanze che giorno e notte sfrecciavano per le vie
deserte. Lo spettacolo della piazza sotto le mie finestre, di solito trafficatissima e
fin troppo vivace, era diventato spettrale, faceva venire in mente un film
apocalittico. Mi sentivo al sicuro soltanto barricata in casa e, a poco a poco, mi
sono abituata all’isolamento, a guardare il mondo da una finestra. So bene che
questa mia esperienza di lockdown è stata vissuta da milioni di italiani, ma
l’esplosione della pandemia ha coinciso più o meno con il mio pensionamento.
I mesi di gennaio e febbraio 2020 sono stati riempiti dalla nascita di
Sebastiano e di Emma, la nipotina della cara Maddalena. Ho atteso l’arrivo di
Emma fuori dalla sala parto tenendo per mano Maddalena, così come lei aveva
atteso con me la nascita di Sebastiano. Ormai la clinica Mangiagalli non ha più
segreti per me! Conosco di vista tante persone che ci lavorano, le saluto quando
ci incontriamo e soprattutto non mi perdo più nei suoi interminabili corridoi.
Ma da quel febbraio, con il totale isolamento, ha prevalso l’incertezza del
futuro e non ho avuto più tempo di chiedermi “E ora cosa farò? Come riempirò
le ore che mi aspettano?” perché ero troppo presa da quanto stava accadendo e
dalla mia voglia di sopravvivere. Mi sono imposta ritmi severi, non mi sono mai
concessa di poltrire oltre le 7.30, ho organizzato la giornata intorno alla
mezz’ora di ginnastica (non di più: la mia pigrizia non sopporta un impegno
fisico più lungo) e, soprattutto, mi sono dedicata alla scrittura. Non sono stata
presa, come pare sia accaduto a molti, dall’ossessione della cucina: odio stare ai
fornelli e non mi è mai interessato preparare manicaretti. Anzi, le dissertazioni
culinarie mi danno il voltastomaco e se non avessi la mia Lorna, che da più di
vent’anni accudisce con amore e professionalità me e tutta la mia famiglia, sarei
andata avanti a panini per tutto il periodo della clausura.
Così ho passato ore a contemplare il cielo, a soffermarmi sui dettagli, a
immaginare le vite dei (pochi) passanti. Mi sono resa conto che avevo perso tanti
di quei momenti. Immersa come avevo deciso di essere in una vita frenetica, a
volte caotica, non trovavo mai il tempo di guardare il mondo da una finestra, di
fantasticare su quella signora ferma sotto casa, vestita in modo stravagante,
certamente in attesa di qualcuno. Forse me lo inventavo, ma che importa: quella
era la storia che avevo in testa ed era una storia romantica a lieto fine.
Forse sto anche imparando una vita diversa, lasciando piano piano emergere la
gioia per una nuova primavera. Mentre scrivo e ogni tanto alzo gli occhi dal mio
quadernone, le rondini mi fanno compagnia. È un buon segno.
Il passato non è scomparso improvvisamente e ne sento il richiamo. Specie
leggendo la pubblicazione quasi giornaliera delle intercettazioni e delle chat
estrapolate dal cellulare di Palamara, una cronaca che cala come una mannaia
sulla mia vita tranquilla. Il contenuto di quei messaggi – che rinviano
un’immagine tanto scadente della giustizia e di chi l’amministra – è la riprova
che da quel mondo sono uscita al momento giusto e con la soddisfazione di
essere stata tra i protagonisti di un film forse di nicchia, ma con un grande
successo di pubblico!
Il coinvolgimento – che non mi ha per nulla sorpresa – di alcuni colleghi con
la fama di grandi moralizzatori mi ha fatto anche sorridere. Che provino pure
loro, mi è capitato di pensare, come ci si sente a stare sulla graticola anche solo
per qualche giorno (non riesco ad augurare a nessuno di starci per anni, come è
accaduto a me), a sentire addosso gli sguardi di riprovazione della gente, il
disprezzo dei colleghi. Tanto lo so che a questi personaggi serve giusto il tempo
di far calmare le acque per poi tornare alla vita di sempre, alle partite di calcetto,
alle scorte inutili, ai convegni e ai seminari sulla legalità o addirittura a dare
lezioni di antimafia. I più abili – forse i più miserabili – hanno sfruttato il vento
alimentato dalle stragi e muovendo da Palermo, da Napoli, da Reggio Calabria,
da Caltanissetta, ma anche da Milano, pur restando saldamente mediocri sono
cresciuti nell’immaginario dell’opinione pubblica per aver imbastito inchieste
non di rado inconsistenti, dagli esiti incerti, a volte dannose, ma dai grandi
numeri e di sicuro effetto mediatico.
Come non ricordare ancora una volta le parole di Giovanni: “Professionalità
significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili.
Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a
sostegno della sua colpevolezza significa rendere un pessimo servizio. Il mafioso
verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e
quella dello Stato peggio ancora...”.
Parole inequivocabili, che inchiodano al loro nulla i cattivi maestri, capaci solo
di infiammare le coscienze dei giovani con messaggi falsi e fuorvianti, discorsi
piagnucolosi sulla fatica di vivere scortati. Persone che hanno beneficiato di una
stampa acritica che le ha indicate come “nuovi Falcone”, esaltandone i profili
senza alcuno spessore.
Il risultato di questa deriva è l’immagine di una magistratura in ginocchio,
un’istituzione indebolita dai maneggi venuti ormai alla luce, eppure ancora
impantanata in un’insensata autodifesa a oltranza. Benché costretta dai fatti ad
ammettere lo strapotere delle correnti, la categoria continua con arroganza a non
mollare i privilegi, scaricando tutte le colpe sul Palamara di turno o sulla
“politica”, come se fosse più grave il comportamento di chi avvicina un
magistrato per ottenere qualcosa rispetto a quello del magistrato che si lascia
compromettere.
Come succede dopo un cataclisma che sconvolge la vita di una comunità, alla
pubblicazione delle conversazioni più compromettenti è seguito il grido di
dolore unanime: “Basta! Ora riformiamo tutto”. Ma la confusione impera e le
polemiche che infuriano impediscono di affrontare i problemi in modo serio.
Anzi, le proposte che si affastellano – anche da parte di tanti magistrati – danno
la sensazione che, come al solito, nulla cambierà. Un cavallo di battaglia di molti
è diventato la riforma del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di
autogoverno voluto dalla Costituente per garantire al potere giudiziario
autonomia e indipendenza, ma ridotto, negli anni, a uno squallido mercato di
nomine e favori. Sorteggio anziché votazioni? Aumento del numero dei membri
laici? Nuove regole per eleggere i candidati? Prima ancora di valutare questo
confuso florilegio di banalità, occorre chiedersi: “Una, o anche tutte queste
riforme, basterebbero?”. Io credo di no, perché nessuna riforma potrà surrogare
la mancanza di etica che è dentro ciascuno. E se questo male non si estirpa,
continuerà a diffondersi e a intossicare anche le nuove leve di magistrati.
Resistere alle lusinghe del potere, respingerne gli attacchi, rinunciare al
carrierismo è una strada possibile. Sono convinta che le giovani donne
magistrato del futuro potrebbero fare la differenza se – come mi auguro –
sapranno smarcarsi dai falsi miti, dai cattivi maestri e dalle cattive maestre. E se
saranno capaci di frenare la deriva attuale facendo argine con la loro umiltà,
coerenza, solidarietà, passione per le istituzioni. Solo così potranno essere
protagoniste del riscatto del valore e dell’onore perduto per colpa di quanti si
sono fatti divorare da ambizione e narcisismo esasperati. Costi quel che costi.
Noi donne ce la possiamo fare. Certo, siamo tutte un po’ Fantozzi e un po’ Maria
Goretti, ma siamo anche capaci di volare alto, fino a conquistare il cielo.
34.
Epilogo
La collana di Ilda

Man mano che l’ora del pensionamento si avvicinava, pensavo sempre più
spesso a come sarebbe stata la mia nuova vita, a come avrei potuto superare
l’ansia e lo smarrimento che immaginavo mi avrebbero risucchiato come onde di
un mare in tempesta. Mi sentivo indifesa, per niente pronta ad affrontare un
cambiamento così radicale.
In questo momento mi accorgo che sto piano piano ricostruendo una vita
diversa. Sono cambiata. Il virus ha contribuito a farmi guardare in faccia i miei
settant’anni, la malattia mi ha imposto la consapevolezza che un animaletto
microscopico, raffigurato con sembianze persino graziose, può portarti alla
morte, come ai tempi della peste manzoniana.
L’isolamento, la profonda incertezza del domani, la paura di morire hanno
sprigionato in me una smisurata voglia di vivere, di gustare con voluttà i piccoli
gesti quotidiani perché, in attesa del peggio, anche le briciole più insignificanti
vanno raccolte e amorevolmente conservate. Sto bene così, non mi va più di
veder scorrere altrove la mia stessa vita mentre io sono distratta da incombenze
passeggere o effimere, come per certi versi è lo stesso lavoro. Ho bisogno di
assaporare persino l’aria che respiro in ogni istante della giornata. Voglio vedere
le rondini in cielo e osservare senza fretta il volto innocente dei miei nipoti
mentre dormono. Voglio riversare la mia energia nella nuova vita che è nata:
Giona, il figlio di Antonio e Carla, il mio terzo nipotino. Voglio dimagrire (anzi,
devo dimagrire). Voglio riprendere le lezioni di pilates – anche se mi pesa e non
mi diverte – perché il mio corpo ne ha bisogno. Voglio passare più tempo con le
mie amiche, parlare di frivolezze, fare progetti piacevoli, guardare al futuro con
serenità. Voglio sconfiggere la malinconia, o almeno imparare a mantenerla
sotto una soglia sopportabile. Voglio poter abbracciare i miei figli ogni volta che
vorrò (e che lo vorranno) per tutte le occasioni in cui non l’ho fatto, pur
amandoli senza riserve, come solo una madre sa.
Rimarrò una combattente? Credo di sì. E queste righe vogliono dire che ho
raccolto la mia ennesima sfida, perché so che il racconto della mia vita non
piacerà a tanti, soprattutto a molti miei colleghi.
La passione per le istituzioni e l’amore verso la toga hanno contribuito a farmi
raccontare anche il mondo in cui ho vissuto per quarant’anni, un mondo
inquinato, ma che potrebbe tornare quello che io ho sempre avuto in mente, a
patto che quanti lo abiteranno siano capaci di riconoscerne e ammetterne errori e
colpe.
In questo libro ho descritto più volte il mio abbigliamento e le collane che ho
indossato in occasione di momenti importanti della vita, perché sono elementi
che hanno sempre rappresentato un simbolo della mia libertà. Non a caso questa
prospettiva è stata perfettamente colta, quasi vent’anni fa, proprio da una donna,
la quale, dopo l’udienza tenuta in aula magna, alla presenza di Berlusconi,
scrisse una lettera all’“Unità”. Il titolo era “La collana di Ilda. Il coraggio delle
donne”.
Una donna seduta con la testa inclinata, appoggiata a un braccio. Una toga. Uno sguardo amaro. Una
grande collana rossa a doppio giro che spiccava in questa immagine. La sofferenza di Ilda. La solitudine
di Ilda. La speranza di Ilda. Cara, coraggiosa donna che hai visto morire il tuo collega, inghiottito dalla
vorace ferocia di tutti i burattinai di questo Paese. Hai visto morire la speranza, la voglia di riscatto
giorno per giorno. Ma sei rimasta lì al tuo posto, incrollabile, sicura, sola. Cara Ilda, la tua collana è la
mia. Si intreccia con le catene della sofferenza di tutte le donne che hanno patito nei secoli
discriminazioni, dileggi, offese, perché hanno osato entrare nel mondo degli uomini a rivendicare il loro
diritto di esistere, di pensare, di credere. È di tutte le donne coraggiose che hanno trasmesso alle altre, più
deboli, la forza di resistere. E tu che hai visto morire Giovanni Falcone, tu che hai dovuto privarti del suo
consiglio, del suo conforto, della sua saggezza, portavi una collana rossa. Portavi addosso la passione
indomita per la giustizia, per l’amore, per il riscatto. Credono “essi” di riuscire a piegarti?
Ringraziamenti

Non è stato facile decidere di raccontarmi, ripercorrendo quarant’anni di


battaglie, di delusioni e sofferenze, ma anche di conferme e soddisfazioni. Mi ci
sono voluti molti mesi, durante i quali mi sono tornati alla mente i volti di tante
persone care, che mi hanno aiutato a diventare la donna che sono oggi.
Innanzitutto i miei figli e la mia famiglia, le amiche e gli amici del cuore, che
ricorrono spesso in queste pagine perché sono pezzi della mia vita.
Un grazie particolare alle donne e agli uomini della polizia di Stato che da
trent’anni vegliano su di me, anche sfidando il pericolo. E grazie a tutti gli
esponenti delle forze dell’ordine che con rigore e competenza mi hanno
affiancato nel contrasto a ogni forma di illegalità: un pensiero particolare di
affetto e di stima va a figure istituzionali che non ci sono più, come Antonio
Manganelli e Vincenzo Parisi.
Grazie, anche per tutte le volte che non l’ho detto, ai miei collaboratori che,
rispondendo al grido: “Quello che vi chiedo dovete farlo per ieri!”, hanno
contribuito a fare di me “Ilda la rossa”.
Il libro non esisterebbe senza il ruolo determinante di Lionello, senza la dolce
insistenza di Carlo Feltrinelli, che ha saputo trovare la chiave per entrarmi
nell’anima, e senza le persone della casa editrice che si sono spese per portarlo a
termine.
Infine, voglio dedicare questo lavoro alle donne afghane e alla loro lotta per la
libertà.

Potrebbero piacerti anche