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Boccassini
La stanza
numero 30
Cronache di una vita
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione digitale 2021
da prima edizione in “Serie Bianca” ottobre 2021
Non buttare via i ricordi. Era quello che stavo facendo da qualche settimana,
rileggendo pezzi della mia vita attraverso le carte che ritrovavo in quella miniera
esistenziale che era la stanza numero 30 al quarto piano del palazzo di giustizia
di Milano, la stessa stanza in cui lavoravo dal 1979. Selezionando, riordinando o
cestinando pezzi di carta, ripercorrevo al contrario nel tempo gioie e dolori,
sprazzi di felicità e momenti di abisso.
Quanto agli auguri per il 1992, nessuno avrebbe potuto immaginare che
proprio quell’anno avrebbe cambiato radicalmente la mia vita privata e
professionale. Un anno che vale la pena di ripercorrere, senza trascurare il prima
e il dopo, lasciando i ricordi nell’ordine in cui riaffiorano. Sono sicura che la
selezione fatta dall’anima produca sempre una sequenza autentica.
2.
Da Napoli a Milano
Ho voluto riportare queste parole, che conservo ancora dopo venticinque anni,
per far meglio comprendere l’importanza che nella mia esperienza ha avuto
confrontarmi con quei casi. Tutto merito della gestione della procura da parte di
Saverio Borrelli. Come spesso accade nei rapporti autentici, il nostro legame ha
oscillato tra momenti di intensa collaborazione, momenti di incomprensione,
momenti di rottura seguiti da nuovi riavvicinamenti. Il più traumatico per me –
ma anche per lui, ne sono certa – fu il mio allontanamento dal “pool criminalità
organizzata” a causa di una dura controversia, uno scontro frontale, con
Armando Spataro, sull’opportunità di catturare immediatamente il boss mafioso
Gaetano Fidanzati, intercettato e localizzato in Argentina, oppure dilazionare
l’operazione per seguirne le mosse e individuarne i contatti. Una diversità di
vedute (conducevamo due indagini parallele) sostenuta da un lato dai carabinieri
con cui lavorava Spataro (a loro avviso era meglio ammanettare il boss senza
indugio), mentre la polizia di Stato avrebbe preferito monitorare ogni
movimento del siciliano per risalire ad altri narcotrafficanti. Le indagini su
Fidanzati erano condotte in comune con Giovanni Falcone. Il latitante era stato
individuato, si muoveva tranquillo in Argentina ed era in contatto sia con
trafficanti di droga di altissimo livello sia con esponenti di Cosa nostra, non
ancora sfiorati o non sufficientemente presenti nelle indagini tanto da
consentirne la cattura. L’indagine, coordinata da me, aveva acceso un faro su un
personaggio di grande interesse per i suoi spericolati legami con i servizi segreti,
con la massoneria e con il mondo criminale dei colletti bianchi, insomma uno
che faceva il doppio-triplo gioco come fonte dei servizi mentre era sotto
osservazione da parte della polizia.
Non occorre spendere tante parole per raccontare chi sia Armando Spataro. È
un magistrato molto noto, un collega competente e preparato che nel suo
curriculum può citare il contrasto al terrorismo, alla criminalità organizzata, fino
a un complicato braccio di ferro con la Cia per il sequestro di Abu Omar. Il mio
rapporto con Spataro era stato inizialmente di amicizia, abbiamo anche fatto
insieme una lunga vacanza all’estero, come insieme siamo andati a dei concerti
rock. Ma poi l’amicizia si è guastata, e il rapporto è degenerato senza che – negli
anni e ancora oggi – riuscissimo a cogliere l’occasione per chiarirci. Ma penso
che ormai vada bene così.
All’epoca del mio allontanamento dal “pool criminalità organizzata” deciso da
Borrelli ero – come mi definì Falcone – una “selvaggia”, ovvero una giovane
donna con il vizio di fare di testa sua e di dire a chiunque quello che pensava.
Non mi smentii nemmeno quando venni convocata dal capo, che voleva sentire
la mia versione sul contrasto con Spataro il quale, male informato dai
carabinieri, sosteneva di non sapere nulla della mia indagine su Fidanzati.
Nell’ufficio di Borrelli, più che spiegarmi diedi sfogo al mio nervosismo e
aggredii verbalmente il collega (che non fu da meno) senza riuscire ad
argomentare né a convincere. Insomma, nessuno di noi due cedette di un
millimetro, volarono parole incandescenti, finché non si ottenne la mia testa.
Ammetto che i toni da me usati in quell’occasione furono eccessivi, ma ero
convinta, e lo sono ancora, di essere stata vittima di un’ingiustizia. Avevo
un’unica consolazione, ma mi bastava: Falcone era d’accordo con me. Anzi, dato
che proprio negli stessi giorni era in corso il dibattimento della “Duomo
connection”, Giovanni era certo che il provvedimento di Borrelli mi
delegittimasse agli occhi dei mafiosi imputati e nei giorni successivi
all’espulsione dal pool mi convinse – meglio, mi costrinse – a leggere in aula
una dichiarazione sull’accaduto. Ovviamente la scrissi per evitare i rischi del
parlare a braccio, gliela sottoposi e lui la corresse, facendomi aggiungere frasi
ancora più incisive.
Il mio allontanamento dal pool trovò parecchio spazio sui media, a cui seguì in
ufficio uno dei tanti momenti di ostracismo da parte dei colleghi, perché anche
chi pensava che io non avessi torto e stava dalla mia parte non lo dava a vedere
temendo, più che la reazione di Borrelli, di incappare in quella di Spataro.
So per certo che negli anni Saverio si è ricreduto sulla durezza adottata nei
miei confronti, soprattutto per le parole eccessive scritte nel suo provvedimento,
che sarebbero state utilizzate per denigrarmi anche all’interno della magistratura
e, all’occorrenza, per stoppare una qualche mia iniziativa ricorrendo alla frase:
“Ilda ha un brutto carattere!”.
Ricordo altri due momenti di frizione con Borrelli. Il primo risale alla
commemorazione di Falcone nell’aula magna, appena dopo la strage di Capaci,
quando la durezza delle mie parole verso i colleghi non lasciò spazio a
distinzioni. Il secondo, di cui porto la responsabilità, si colloca nell’ottobre 1994,
quando tornai a Milano dopo il biennio di applicazione a Caltanissetta dedicato
alle indagini sull’attentato a Falcone. In quel momento, pur avendolo già deciso,
non dissi a Saverio (né tanto meno ai colleghi milanesi) che sarei tornata in
Sicilia, a Palermo, per altri due anni. Questo almeno era il progetto, anche se poi
tornai a Milano prima del previsto con l’intesa che avrei continuato a occuparmi
delle stragi e di altri procedimenti più o meno collegati alla strategia della
tensione mafiosa che stava insanguinando il Paese dalla Lombardia alla Sicilia.
Ritornai dunque a Palermo (nel marzo ’95) e Saverio non ne fu affatto
contento. Era molto preoccupato per me, per la mia incolumità, per la mia vita
privata andata in pezzi. Quando mi elencò tutti questi suoi timori, gli risposi che
non potevo agire diversamente, che non volevo né potevo dimenticare Palermo.
Capì e mi lasciò andare.
Quando tornai a Milano, fui accolta dai colleghi del pool di Mani pulite, Paolo
Ielo, Francesco Greco, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, con uno
splendido mazzo di rose rosse. Ne restai commossa e qualche giorno dopo capii
almeno uno dei motivi di quel gesto bello e gradito. Senza preamboli, Borrelli
mi pregò di dare una mano ai colleghi, stanchi e delusi per la scelta di Antonio
Di Pietro, che aveva lasciato la magistratura. Mi accennò vagamente a una certa
signora Ariosto che intendeva collaborare con gli inquirenti.
Cosa potevo rispondere, se non che ero onorata di quella proposta, ma anche
molto provata dagli anni trascorsi in Sicilia? Al che mi dissero tutti: “Abbiamo
bisogno di te” e io, guardando negli occhi Saverio, decisi di accettare.
La figura di Borrelli in quel periodo fu per me determinante. Non ce l’avrei
fatta senza la sua ala protettiva, la sua sapienza e saggezza nel gestire, tra i mille
problemi, anche quel gruppetto di ribollenti sostituti. Sapevo di poter contare su
di lui e che la sua porta era sempre aperta per tutti noi, neofiti inclusi.
Durante le indagini sui colleghi e gli avvocati romani di cui riferiva Stefania
Ariosto, era sotto particolare osservazione l’avvocato Attilio Pacifico, che
avevamo intuito essere l’anello di congiunzione tra magistratura, potere politico
e mondo della finanza. Pacifico era solito incontrarsi la domenica mattina con i
suoi accoliti presso il bar Tombini, a Roma. Rispondendo a una nostra richiesta,
il giudice per le indagini preliminari aveva autorizzato l’uso di una microspia
ambientale “aperta”, nel senso che si utilizzava esclusivamente la domenica,
qualora ci fosse stato un incontro, circostanza che avremmo potuto conoscere in
anticipo grazie all’ascolto dei telefoni intercettati.
Le indagini erano delegate allo Sco, il Servizio centrale operativo della polizia,
nella persona di Alessandro Pansa, all’epoca direttore della Divisione criminalità
economica, alle cui dipendenze agivano diversi funzionari, tra cui Alessandro
Giuliano, che divenne il mio referente e coordinatore delle attività dinamiche sul
territorio. Per comunicare in sicurezza, Giuliano e io usavamo un telefono
criptato. Ero molto in ansia per quell’intreccio di complicate circostanze, tanto
che lo chiamavo anche trenta volte o più al giorno. Anni dopo, Alessandro mi ha
confessato che non sempre rispondeva, perché con tutte quelle chiamate “lo
sfinivo”. Sulla sua bravura non dirò mai abbastanza, e in ogni caso quel periodo
di indagini condivise con lui è stato faticoso e difficile, ma anche esaltante e ci
ha lasciato ricordi che ci hanno legato profondamente. Almeno così è per me.
Ma torniamo al bar Tombini. Una domenica di gennaio del 1996, ero a casa
tranquilla dopo un bel bagno, quando squillò il telefono. Era Alessandro Pansa,
che esordì dicendo: “Cosa può capitare di più grave in un’indagine?”. Non
riuscivo a capire, ero frastornata da quelle parole, anche se l’incertezza durò
poco, perché la risposta la diede lui stesso e fu un vero pugno nello stomaco:
“Hanno scoperto la microspia al bar Tombini”. Aggiunse che era scoppiato
l’inferno, anche perché oltre a Renato Squillante nello stesso bar erano presenti
altri magistrati, tra cui Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, e diversi
avvocati. Avvertita del ritrovamento, la polizia scientifica aveva sequestrato la
microspia collocata sul fondo di un posacenere e l’aveva portata in laboratorio
per ulteriori approfondimenti.
Naturalmente la notizia arrivò subito ai media. Il danno alle indagini ci
apparve lì per lì irreparabile, ma in realtà non fu così, perché studiammo altre
strategie, puntando sulla paura che certamente avrebbe attanagliato gli indagati,
innanzitutto lo stesso Squillante.
Mi feci raccontare dagli investigatori in servizio nel bar cosa fosse accaduto.
In modo del tutto casuale, un bambino aveva adocchiato un pacchetto di patatine
posto su un contenitore proprio a ridosso del tavolino sul quale era stato
collocato il posacenere con la cimice. Nel prendere il pacchetto, il bimbo aveva
fatto cadere l’intero contenitore, che aveva centrato e spaccato il posacenere,
lasciando in bella mostra il piccolo microfono trasmittente. Nessuno dei presenti
al tavolo di Squillante si era accorto di nulla, tanto che un poliziotto, seduto al
tavolo vicino, aveva cercato di allontanare con il piede la microspia dalla loro
visuale ma – colpo di sfortuna – il personale del bar l’aveva notata, raccolta e
mostrata proprio ai magistrati oggetto dell’indagine. In uno stupido accesso
d’ira, sentii di odiare quel povero bambino sconosciuto che per le sue patatine
aveva mandato all’aria i nostri piani.
Dopo l’esame del piccolo apparecchio, era cominciato il toto-indagine su
“quale procura, quali pm” avessero orchestrato lo spionaggio dei colleghi
romani. Se lo chiedevano innanzitutto le persone presenti al bar, ma fecero loro
eco i giornali e le televisioni. Il procuratore della Repubblica di Roma era a quel
tempo Michele Coiro, uno dei fondatori di Magistratura democratica, il quale
scrisse a Borrelli per sapere se fosse Milano a indagare e chi fosse l’obiettivo
dell’indagine. Un intervento diretto che superava ogni cortesia istituzionale e che
ci stupì non poco. Ma Borrelli non si lasciò confondere né intimidire: rispose per
iscritto a Coiro che Milano non c’entrava e che nulla sapeva dei fatti riportati dai
media. Insomma, per salvaguardare le nostre indagini, il capo aveva
meritoriamente scelto di mentire. Quando, dopo l’esecuzione dell’ordinanza di
cattura, gli atti furono messi a disposizione degli indagati, emerse che le indagini
erano milanesi. Al che Coiro si arrabbiò accusando Borrelli di averlo preso in
giro, e questi gli rispose: “È stato il tuo ufficio, con quell’assurda richiesta
pubblica, a violare i principi che regolano le indagini”.
Ecco chi era Saverio Borrelli, il nostro capo fino al 1999. Anni difficili, come
si sa. La procura era sotto assedio, ma lui ha saputo parare i tanti colpi bassi, la
sua autorevolezza era benefica e capace di risvegliare la voglia di combattere
senza risparmiarsi.
Anche tra noi del pool ci furono contrasti. Il peso delle indagini gravava su me
e Gherardo Colombo, mentre Piercamillo Davigo, Paolo Ielo e Francesco Greco
si occupavano di altro. Io ero molto stanca e a un certo punto dissi che dopo i
rinvii a giudizio sarei voluta tornare all’Antimafia, che i dibattimenti avrebbero
ben potuto condurli gli altri colleghi del gruppo. Sì, ero esausta: basti pensare
che solo l’udienza preliminare per la vicenda “toghe sporche” durò più di due
anni. Un vero incubo.
Davigo era contrario, disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe
intentato causa civile per astenersi. Con Francesco Greco e Paolo Ielo neanche
se ne poteva parlare. Fallito un ennesimo tentativo, Borrelli ci guardò sfiduciato
perché nemmeno lui riusciva a trovare una quadra. Ancora una volta si rivolse a
me e ancora una volta chinai la testa e dissi “va bene”. Ottenni, però, in cambio
che anche Francesco Greco firmasse la richiesta di rinvio a giudizio della
vicenda Lodo Mondadori, nonostante fosse recalcitrante. Per questo Saverio
mandò un autista a Courmayeur, dove Greco si trovava in vacanza, con il
provvedimento da sottoscrivere, ritenendo importante che su vicende così
delicate ci fosse la firma del pool al completo (per il Lodo Mondadori furono
condannati tutti gli imputati con sentenza passata in giudicato).
Quando finì la gestione di Saverio, in attesa della nomina del nuovo
procuratore, facente funzione era l’aggiunto più anziano, Ferdinando Vitiello.
Gli scontri con i difensori di Silvio Berlusconi, gli attacchi nei confronti miei e
di Gherardo si facevano ogni giorno più agguerriti e non ci sentivamo
adeguatamente tutelati. Insomma, furono anni pazzeschi. Oltre ai processi da
gestire verso imputati decisi a tutto e con grandi mezzi, legali e mediatici,
sentivamo intorno a noi anche l’ostilità di una parte della magistratura, nel suo
insieme sotto attacco proprio per i procedimenti in corso. Borrelli, diventato
procuratore generale, poteva fare poco per tutelarci, anche se un po’ ci consolava
il solo fatto che fosse ancora nel palazzo. Quando proprio non ne potevo più, lo
chiamavo per sfogarmi e per chiedergli consigli. Parlare con lui era una
medicina che allentava la tensione e mi faceva stare meglio. Fu proprio su suo
suggerimento che cominciai a mettere per iscritto gli episodi che mi
allarmavano, quelli da cui mi pareva di percepire velate minacce di ritorsioni e
altro. “A futura memoria,” dicevamo tra noi.
Nel 1996 fui proposta da Cesare Garboli per il premio Viareggio, con una
motivazione che mi fece molto piacere: “Non può esistere cultura senza il
rispetto della legalità”. La giuria accolse la mia candidatura ed era prevista la
mia partecipazione alla serata della consegna del premio. Borrelli propose di
accompagnarmi, ne fui onorata e porto dentro di me quella serata bellissima
insieme a una persona eccezionale come Garboli e agli altri vincitori, Ermanno
Rea, Alda Merini e Vittorio Foa. A intrattenerci fu invitato Roberto Benigni,
cosa che un po’ mi preoccupava, perché temevo qualche battuta nei miei
confronti; una situazione pubblica cui non mi sono mai abituata, ed ero quindi
tesissima. Incontrando Benigni dietro le quinte, lo pregai di risparmiarmi. Al che
lui, tra il serio e il faceto, rispose: “Non ci penso proprio a prenderla in giro,
dottoressa. Lei mi mette in soggezione!”. Fu una bella serata.
E come non ricordare il viaggio con Saverio, Corrado Stajano e sua moglie
Giovanna? Andammo a Mosca, invitati per una conferenza dal Centro culturale
italiano: giornate intense e gioiose a parte un caldo pazzesco cui nessuno di noi
aveva pensato.
Arriviamo così alla fine della carriera di Borrelli. Le regole in vigore nei primi
anni del 2000 prevedevano il pensionamento dei magistrati al compimento dei
settantadue anni, ma con la possibilità di rimanere in servizio fino al limite dei
settantacinque. Saverio, come altri dirigenti togati, ne avrebbe sicuramente
approfittato, ma proprio per impedirglielo, con una disposizione contra
personam, la politica ripristinò l’età pensionabile inderogabilmente a settantadue
anni e così, nell’aprile del 2002, Borrelli lasciò la magistratura. Fu festeggiato
per giorni. A salutarlo e a rendergli l’onore che meritava si ritrovarono non solo i
magistrati della procura della Repubblica e di quella generale, ma tantissimi
giudici anche di altre sedi, avvocati, personale amministrativo, esponenti delle
forze dell’ordine. Insomma, il mondo giudiziario milanese accompagnò con
rispetto e gratitudine quell’uomo grande e saggio verso la nuova fase della sua
vita.
Proprio nel gennaio 2002 Saverio aveva tenuto, come procuratore generale,
l’ultimo discorso per l’apertura dell’anno giudiziario. L’aula magna era gremita,
l’enorme androne del palazzo di giustizia stracolmo, anche di cittadini comuni,
che non erano riusciti a trovare posto all’interno. Quella mattina, lo attesi sulla
porta e lo abbracciai commossa quando, nella sua toga rossa, con ermellino e
tocco, passò in rassegna il picchetto d’onore ed entrò nell’aula magna.
Fu il giorno del suo memorabile “Resistere, resistere, resistere”, rimasto
ancora oggi una speranza delle persone oneste. Non mi vergogno a dire che
piansi. A parte lo storico invito a resistere, ogni parola di quel discorso fu un
pugno nello stomaco per chi ci attaccava a testa bassa e allo stesso tempo
governava il Paese. Eccone alcuni brani:
La qualità del servizio giustizia reso ai cittadini dipende certo dal livello intellettuale, professionale,
morale degli appartenenti all’ordine giudiziario, tuttavia dipende in pari misura dalla capacità e volontà
negli altri poteri di fornire alla magistratura gli strumenti necessari per garantirne l’indipendenza e
l’efficacia di azione, e dal clima di fiducia e di rispetto che il contesto crea attorno a essa nella comunità
nazionale, oggi anche in quella internazionale. Non sembra che gli scenari attuali giustifichino, in linea
generale, valutazioni ottimistiche, non foss’altro per il continuo parlare e scrivere di riforme della
giustizia, quando in realtà il nostro mondo, dopo aver attraversato una stagione di incisivi cambiamenti
ordinamentali e processuali, avrebbe bisogno semmai di una fase di assestamento ermeneutico e non del
preannunzio di ulteriori scosse telluriche, con il senso di precarietà, di disimpegno, di protratta incertezza
che ne può derivare.
Ma c’è dell’altro. Le riforme annunciate, meglio minacciate a ogni piè sospinto con trasparenti intenti
punitivi verso una magistratura certamente non al massimo dell’efficienza ma altrettanto certamente
indipendente, ben poco hanno a che fare con l’efficienza. Si parla di separazione delle carriere – più
blandamente, ma ingannevolmente, delle funzioni – tra requirenti e giudicanti, proprio mentre con le
scuole postuniversitarie di specializzazione si punta su una formazione culturale comune tra varie
categorie di operatori del diritto e con l’ampliamento della giurisdizione onoraria si aprono occasioni di
osmosi tra il mondo forense e quello giudiziario. Una scelta, la separazione, che, se motivata dalla temuta
arrendevolezza dei giudici ai pubblici ministeri (ma non si citano, a disdoro di questi ultimi, proprio le
alte percentuali delle assoluzioni?), dovrebbe almeno essere supportata da studi sul campo e da
monitoraggi; ma che, per ferrea analogia, dovrebbe portare a maggior ragione verso la separazione delle
carriere tra giudici di primo grado, giudici del riesame, giudici di appello, giudici di legittimità. Se
motivata invece dall’intenzione di vincolare il pubblico ministero all’esecutivo, come con ingenua
imprudenza si è fatto capire in Parlamento, vulnererebbe indirettamente la stessa indipendenza del
giudice penale e la signoria della legge, tanto più quando si realizzassero anche la ventilata distinzione
organizzativa e funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e la formulazione di direttive
di priorità nell’esercizio dell’azione penale che non potrebbero non essere politicamente connotate.
Si afferma, ancora, la necessità di combattere il crimine transnazionale senza l’impaccio delle frontiere,
ma di fatto allo spazio giuridico europeo si è tentato, per fortuna con mezzi tecnicamente inidonei, di
frapporre ostacoli, con la legge sulle rogatorie e con le riserve unilaterali all’estradizione semplificata –
alias mandato di arresto europeo – e l’orchestrazione di campagne di rabbiosa disinformazione. Si parla
di riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, spacciando la soppressione
delle liste concorrenti come benefico strumento per emarginare le formazioni interne all’Associazione
nazionale magistrati, e si ignorano i ricchi fermenti di riflessione che tutte queste hanno immesso nella
vita della magistratura, soprattutto si apre la strada a pratiche occulte di intesa per il coagulo di voti su
candidature di fatto.
Di altri fenomeni di questa sconcertata fase della nostra civiltà giuridica deve pur farsi menzione. Le
accuse generiche di parzialità preconcette, formulate contro i giudici, con l’insistenza martellante degli
imbonimenti televisivi, da rappresentanti anche elevati della classe politica; l’analfabetismo storiografico
che ha indotto qualcuno a lanciare come anatema contro i magistrati la parola “giustizialismo”, che nel
secolo XX ha indicato una certa ideologia di destra basata sull’interclassismo e su un populismo
demagogico dominato dal ruolo carismatico del capo; la manipolazione della pubblica opinione italiana e
straniera, cui uffici giudiziari vengono indicati con il pronto e prono ausilio di media come centrali
rivoluzionarie promotrici di complotti internazionali o come falsificatori di documenti (qualcuno ha
rievocato recentemente il calunniato “pretore rosso” di fascistica memoria, del quale parlava il mio
maestro Piero Calamandrei nell’Elogio dei giudici; ma già Adam Smith, centocinquant’anni prima,
osservava che chi contrasta gli affaristi legati al potere politico si espone ad accuse infamanti, ingiurie,
minacce); la reinvenzione della storia giudiziaria, quando pacchi interi di sentenze di condanna, spesso
patteggiate a seguito di confessione, vengono attribuiti a una guerra civile condotta da magistrati contro
élite politiche della Prima repubblica affossatesi in realtà da sole, tra l’esecrazione anche di molti odierni
convertiti, nelle sabbie mobili della corruzione più sfacciata (ma forse la sentenza della Corte di
Strasburgo sul caso Craxi è già stata dimenticata); la minaccia di provvedimenti disciplinari contro
magistrati che esprimono su problemi generali e tecnici il proprio libero pensiero di cittadini e di esperti;
la volgarizzazione di questioni giuridico-costituzionali e procedurali per slogan gridati, con voluta
ignoranza dei reali contenuti di testi normativi, sentenze, ordinanze, anche da parte di firme autorevoli
del giornalismo, per poter demonizzare questo o quel magistrato o collegio giudicante, magari poi
attaccandolo con esposti o denunzie; la riduzione infine delle protezioni a magistrati esposti a rischi di
incolumità personale per vendette mafiose e/o per rancori politici sapientemente attizzati, conseguente,
come è accaduto a Milano, a irremovibili determinazioni discendenti per i rami dell’obbediente
burocrazia. Bene, tutto ciò procede in direzione esattamente opposta alla valorizzazione del ruolo del
magistrato come scudo della legalità, alla cultura della fiducia nei meccanismi talora laboriosi e
complicati per la ricerca della verità, al mantenimento di un clima di serenità che permetta al giudice di
operare, senza timori e senza aspettative personali, alla solidale unità delle istituzioni cui tanto spesso
esortava il mio illustre predecessore Adolfo Beria di Argentine. Nessuna istituzione, nessun principio,
nessuna regola sfugge ai condizionamenti storici e dunque all’obsolescenza, nessun cambiamento deve
suscitare scandalo, purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del
pensiero e dell’azione, non subisca sopraffazione dagli interessi. Ai guasti di un pericoloso
sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del
diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività “resistere, resistere,
resistere” come su una irrinunciabile linea del Piave.
Quando, in quell’indimenticabile discorso, Saverio affrontò il tema delle
scorte (“la riduzione delle protezioni”), attaccò pubblicamente Claudio Scajola,
all’epoca ministro dell’Interno, ribadendo quanto aveva più volte detto al
prefetto di Milano, Bruno Ferrante: togliermi la scorta era stata nient’altro che
una ritorsione per le vicende processuali che coinvolgevano il presidente del
Consiglio. Per solidarietà nei miei confronti, Saverio volle rinunciare alla sua
tutela, costituita da un poliziotto che lo accompagnava negli spostamenti. Per le
sue parole di fuoco venne persino querelato da Scajola, che comunque preferì
ritirare la querela qualche tempo dopo.
Ad aprile un saluto per Saverio venne organizzato dall’Associazione nazionale
magistrati, nell’aula magna del palazzo di giustizia. I dirigenti locali dell’Anm
mi chiesero di pronunciare il discorso di commiato: inizialmente rifiutai perché
ero certa che sarei stata sopraffatta dall’emozione, ma i colleghi insistettero
(cosa che mi fece molto piacere). Per cercare di controllare meglio le emozioni,
preferii leggere il mio breve intervento.
Caro Saverio, eccoci qui a convincerci fino in fondo che te ne vai davvero. Peccato che tu compia gli
anni in aprile, perché è già pronta una legge e tutti quelli della tua età (non necessariamente delle tue
doti) rimarranno “sacerdoti di Dike” per almeno un altro triennio. Era un così grande sforzo, per te e la
tua mamma, trattenersi un pochino e tu nascere alla fine di maggio? Avremmo rinviato la “festa” al
2005.
Così, invece, ci lasci da dopodomani un po’ orfani. Certo, per noi del quarto piano c’era già stato un
distacco. Ma non si trattava ancora di una separazione, in fondo scendevi di un piano, ma eri sempre lì e
non sarebbe stato difficile parlarti, vederti, domandarti consigli, opinioni, chiederti aiuto nei tanti
momenti di bisogno o di sconforto. E poi, noi della procura... chiamiamola “semplice”, ci avevi lasciato
nelle mani premurose e nel cuore saggio di Gerardo, che continuava il tuo impegno ed era il trattino di
unione, il collegamento con il tuo nuovo incarico, le tue nuove funzioni. Quante volte ci siamo ancora
ritrovati insieme, nei momenti di maggiore necessità!
E ancora: quello era un distacco voluto, che avevi scelto, era una prosecuzione nella medesima veste,
anche se in un posto diverso. Ora, invece, oltre al dolore per non averti costantemente qui, tutti noi
soffriamo per l’imposizione che ci sembra tanto più ingiusta quanto più ci guardiamo intorno. Non
riusciamo a comprendere perché tu non possa continuare a comunicarci la tua saggezza, a difendere la
nostra indipendenza, a trasmetterci la tua cultura nel Paese di Ciampi e Wojtyła – al cui confronto sei un
giovanotto – e nella città del cardinal Martini, che potrebbe esserti fratello maggiore.
È quasi naturale, in questa occasione, il rischio della retorica. Non perché non ci sia nulla di vero da dire.
Al contrario, perché il coinvolgimento è assoluto. E allora devi difenderti dai sentimenti, dalle emozioni,
dalla fine. Devi porre un diaframma ricorrendo, appunto, alla retorica oppure a una umoristica arguzia. E
siccome un recente sondaggio tra le più alte cariche istituzionali ha decretato che queste ultime non sono
doti che mi appartengono, l’unica via per salvarmi sarebbe lastricata di enfasi, iperboli, ridondanze e
gonfiezze.
Saverio, non sono capace nemmeno di quello. E allora ecco a nudo i miei sentimenti, che sono poi quelli
di tutti. Sia chiaro: questo grande periodo che ci ha visto con te non è stato del tutto privo di spine;
abbiamo anche avuto, come succede, i nostri screzi e i nostri scazzi. Abbiamo avuto momenti di tensione
e anche incomprensioni. Ma, come succede nei rapporti veri, come succede quando si vive per uno scopo
condiviso, anche questi hanno alla fine contribuito ad aumentare stima e considerazione. Ti vogliamo
bene, Saverio, e so che continueremo a vederci al di fuori delle nostre funzioni. Ma come capo, nella
quotidiana vita d’ufficio, ci manchi e ci mancherai fino a quando anche noi non saremo costretti ad
appendere le scarpe al chiodo. Perché sei insostituibile.
Conobbi Giovanni Falcone a metà degli anni ottanta, quando venne a Milano
alla sede della Criminalpol, in piazzetta San Sepolcro. All’epoca, insieme ad altri
colleghi ci occupavamo delle indagini sul traffico di stupefacenti e costituivamo
una specie di pool antidroga. Erano gli anni in cui Milano era inondata
dall’eroina, ragazze e ragazzi morivano di overdose per strada, in luoghi
squallidi, e molti, paradossalmente, si salvavano finendo in carcere. Il “turno
arrestati” di quel periodo forniva un quadro desolante, con giovani ridotti a
zombie. Un quadro che faceva male al cuore. Riuscimmo a ripulire alcune zone
di Milano, quelle in cui il fenomeno era più visibile, ma sapevamo che era come
togliere con un secchiello l’acqua dall’oceano.
Le indagini portarono anche a individuare le reti organizzative, a capo delle
quali i trafficanti turchi la facevano da padroni. Falcone si era imbattuto prima di
noi in quella rete criminale, e oltre a ciò le indagini milanesi portavano
inevitabilmente verso la Sicilia, poiché in quegli anni esponenti di spicco di
Cosa nostra avevano scelto Milano come quartier generale per il traffico di
droga. Sarà così che il mio destino, non solo professionale, si incrocerà con
quello di Giovanni.
Molti di noi lo conoscevano solo di nome e anch’io conoscevo, come tutti, la
storia di quel giudice già leggendario. Quindi decisi di partecipare all’incontro di
piazza San Sepolcro più per curiosità che altro. Ciò che vidi in quell’occasione
non mi piacque per nulla. Ero giovane e animata da un fuoco sacro originato per
lo più dall’inesperienza. E Falcone, da subito gentile e disponibile con tutti noi,
mi fece venire in mente il papa che elargiva benedizioni ai fedeli. Mi colpirono
solo i suoi occhi profondi e quella patina di malinconia che accompagnava il suo
sguardo. “Comunque è un figo,” pensai.
Arrivò il nostro turno. Presentazioni veloci, una stretta di mano e l’intesa che
ci saremmo scambiati atti e che per qualsiasi esigenza sarebbe stato a nostra
disposizione.
Mi sono spesso interrogata su quel nostro primo incontro. Non nascondo che
all’epoca ero piuttosto invidiosa di quella sua cortese autorevolezza pensando
che non sarei mai stata in grado di avvicinarmi a quel modo di fare. Non so
perché, ma sentii stupidamente anche il peso di essere donna.
Ancora non sapevo che sarei diventata adulta con la sua morte.
In quello stesso periodo fu trasferito a Milano dalla Sicilia un giovane tenente
dell’Arma dei carabinieri: Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo. Vestito
come un punk, i capelli raccolti in un codino e il viso da quindicenne, quando
venne a presentarsi dissi al suo comandante: “Che dobbiamo farci con questo
ragazzino?”.
Dovetti accorgermi ben presto che quella mia prima impressione era stata
precipitosa e sbagliata. Cominciammo a collaborare e ne nacquero indagini
importanti come la “Duomo connection”, che per la prima volta avrebbe
dimostrato i collegamenti tra Palermo e le attività economiche (legali e illegali)
di Cosa nostra in Lombardia. Ultimo affibbiò a tutti gli uomini della sua squadra,
e anche a me, un nome in codice: il mio era Nikita. Fu un periodo esaltante, di
riunioni che duravano fino a notte inoltrata per confrontarci, elaborare strategie,
condividere analisi della situazione man mano che le indagini evolvevano,
individuare obiettivi sensibili.
Ultimo era un’anomalia all’interno dell’Arma quanto lo ero io rispetto alla
magistratura, ma non ho mai conosciuto nella mia lunga carriera una persona che
sentisse così profondamente l’essere carabiniere. Ed era anche bravissimo, acuto
conoscitore del fenomeno mafioso, brillante e tenebroso allo stesso tempo. Era,
per giunta, un fan sfegatato di Falcone, tanto da ottenere di essere nuovamente
trasferito in Sicilia quando Giovanni fu ucciso. Non vedo Sergio De Caprio da
molto, preferisco ricordarlo com’era ai tempi della nostra collaborazione. Da
anni non condivido le sue prese di posizione, i contenuti delle sue interviste, per
non parlare – anche se si è dimesso dall’Arma – della sua decisione di entrare
nella Giunta regionale calabrese.
Le indagini della “Duomo connection” progredivano e cominciarono le mie
trasferte a Palermo, spesso accompagnata da Ultimo. Ricordo la prima volta che
varcai la soglia della stanza-bunker del palazzo di giustizia in cui lavorava
Giovanni. Ne rimasi impressionata e mi chiesi come potesse quell’uomo vivere
così. Fumava molto, persino più di me. Mentre parlavamo, quando affrontava i
temi delle indagini lo guardavo come un’ebete: ero ipnotizzata dai suoi occhi,
affascinata dall’uso calibrato delle parole, dai suoi tanti silenzi, da quella
cadenza palermitana, che trovavo adorabile. Lo avrei ascoltato per ore, anche
perché – me ne rendevo conto – stavo approfittando di quegli incontri per
imparare più che in mesi di lavoro.
Me ne innamorai.
È molto complicato, per me, ancora oggi, parlarne. Sicuramente non si trattò
dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita.
No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di
vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero
innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo
essere più importante di tutto il resto. Sapevo di non poter condividere con lui un
cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera
privata né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse
travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso.
Ricordo che durante una trasferta ci fu una riunione amichevole a casa di
Giuseppe Ayala, suo collega e amico, che aveva invitato anche altri componenti
del pool palermitano. A un certo punto Giovanni e io uscimmo sul terrazzo per
ammirare il panorama. Era una serata bellissima. Non ci dicemmo granché,
stavamo soltanto lì, a respirare l’aria di Palermo, ma quasi subito lo fecero
rientrare, perché era pericoloso, qualcuno avrebbe potuto colpirlo. Ne fui
angosciata, sentii un desiderio profondo di proteggerlo, ma capii che quella vita
di merda era la sola che lui potesse permettersi.
Quando scendevo a Palermo, costringevo Ultimo a portarmi di notte in giro
per i quartieri e nelle campagne intorno: volevo conoscere a fondo i luoghi per
meglio comprendere le dinamiche che da lì prendevano vita. Una volta
attraversammo una zona di campagna – non ricordo il posto preciso – poco
prima che vi venisse commesso un omicidio di mafia. Venuto a saperlo,
Giovanni si arrabbiò moltissimo, perché non avevamo ascoltato i suoi ripetuti
inviti alla prudenza e fu da allora che cominciò a definirmi “la mia selvaggia”. In
effetti litigavamo spesso, gli scaricavo addosso tutta la mia rabbia. Non capivo
allora – acerba e ancora poco conoscitrice delle miserie umane – i giochi di
potere né la sua capacità di mediazione, quel suo accettare senza reagire stilettate
e attacchi pesantissimi più o meno mascherati. Ci sono volute la sua morte e la
vita, che mi ha fatto conoscere il potere nelle sue forme più oscure, per
comprendere fino in fondo quanto avesse ragione, mentre la sua sofferenza
diventava la mia sofferenza.
Qualche volta cenavamo a Mondello, in un ristorante dove lui ordinava sempre
spaghetti ai ricci di mare. Una vera bontà. A volte passeggiavamo sulla spiaggia
e mi riempivo i polmoni della brezza marina. In quei momenti il male di
Palermo mi sembrava così lontano e il mio cuore era pieno di Giovanni. Per anni
non sono riuscita a tornare a Mondello, ad affrontare l’intensità dolorosa di quei
ricordi.
La sua decisione di candidarsi al Consiglio superiore della magistratura mi
fece imbestialire, anche se avrebbe rappresentato uno schieramento nuovo, il
Movimento per la giustizia, nato da pochi mesi in polemica “con le deviazioni
delle prassi correntizie” dell’Associazione nazionale magistrati: come poteva
pensare a Roma, quando si doveva combattere contro l’arroganza del potere,
dare giustizia al sangue versato da vittime innocenti? Anche sua moglie
Francesca era dubbiosa e contraria a che Giovanni intraprendesse quella strada,
cedendo alle insistenze di colleghi convinti che il suo nome sarebbe servito a
convogliare voti verso quel nuovo Movimento in grado – sempre secondo loro –
di cambiare il modo di intendere la professione.
Almeno all’inizio, anche Giovanni ci credeva e così accettò per essere – anche
sotto questo aspetto – ligio al suo dovere di rappresentanza. Era convinto di
farcela ma, mi disse, “subito dopo rinuncerò alla poltrona di consigliere”. Sì, era
certo di essere eletto, perché confidava nella strategia esposta dai colleghi ma
anche – soprattutto, direi – nella sua professionalità di magistrato, nella sua
integrità nota e riconosciuta da tutti.
E invece fu bocciato, ricevendo pochi voti, pochissimi nella sua Palermo. I
suoi colleghi ed estimatori a parole sconfissero così il giudice in quel momento
più famoso al mondo. Per dirla tutta, un po’ me lo aspettavo. O almeno, mi
aspettavo che tanti gli avrebbero voltato le spalle, ma non così numerosi. Fu un
duro colpo per lui, ancora una volta tradito dal suo stesso ordine, da quei
colleghi che in qualche caso riteneva persino amici. E che invece gli remavano
contro.
Non dimentico la sua amarezza di quei giorni, la rabbia, anche se in pubblico
non lasciò trasparire nemmeno un grammo della sua profonda sofferenza. Aveva
ricevuto uno schiaffo tremendo dalla sua stessa categoria e in quel momento
aveva potuto percepire tutto il livore che lo circondava. Di fronte a un magistrato
così bravo, la risposta – spietata – era stata quella di non votare l’uomo, e
dunque fu punito l’uomo, non il magistrato.
L’anno prima, il 21 giugno 1989, c’era stato l’attentato alla scogliera
dell’Addaura, dove Giovanni e Francesca avevano preso in affitto una casa.
Sulla dinamica di quel fatto non mi soffermo perché se n’è scritto in lungo e in
largo, dicendo di tutto e spesso a sproposito. Mi piace soltanto ricordare la volta
in cui andai in quella casa meravigliosa. Ero a Palermo, per attività istruttorie,
una settimana prima del fallito attentato e andai a colazione da loro. Era una
bella giornata, anche se i raggi del sole non erano ancora quelli dardeggianti
della calura estiva. Con l’entusiasmo di un bambino, Giovanni mi fece visitare la
casa. Si capiva benissimo che era felice di stare lì, di poter andare a nuotare
quando voleva, di godersi i tramonti le poche volte che il lavoro glielo
permetteva. Aveva imparato proprio dagli uomini d’onore, costretti a vivere in
uno stato di perenne allerta con il rischio costante della morte, ad apprezzare la
bellezza dell’attimo, a godere di quello che la vita offriva come fosse stato
l’ultimo dono.
Certo, l’Addaura è un posto incantevole, ma avvertii immediatamente dentro
di me un’ansia, un sentimento di paura e gli dissi che stare lì era pericoloso, che
era un bersaglio troppo facile, nonostante la stretta vigilanza, che anche quel
mare così amato poteva diventare un suo nemico. Giovanni mi ascoltò e sorrise
senza rispondere nulla: lo sapeva anche lui.
Al telefono, prima che andassi, mi aveva raccomandato di portare un costume
da bagno, cosa che feci, anche se mi pareva che persino in Sicilia fosse troppo
presto per tuffarsi. Eppure mi propose – anzi mi impose – di fare un bagno.
Francesca si rifiutò, mentre io, come un soldato, obbedii. Mi cambiai e scesi i
gradini di pietra che portavano sugli scogli dove qualche giorno dopo sarebbe
stato collocato il borsone da sub imbottito di esplosivo.
Come pensavo, il mare era freddo. Giovanni si tuffò e iniziò a nuotare verso il
largo, poi si girò e mi disse: “Vieni! L’acqua è bellissima!”. Caspita se era
fredda, quell’acqua, e poi pensavo alla messa in piega appena fatta. Insomma,
pensieri da donna che però non mi fermarono e lo raggiunsi. Giovanni prima mi
prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto...
Nel pomeriggio Francesca andò via e rimanemmo soli. L’atmosfera magica di
quella mattina si era dissolta, Giovanni era di nuovo preoccupato, angosciato.
Non parlò quasi più, voleva solo che gli stessi accanto. Sapeva – sentiva – che lo
avrei sostenuto senza fare domande.
Quando conobbi Giovanni ero giovane, flessuosa, scattante, un viso
mediterraneo, che parlava da solo con una risata oppure rabbuiandosi, una massa
di riccioli rossi. Già, i famosi capelli di “Ilda la rossa”. In realtà il colore dei miei
capelli è un normale castano senza infamia e senza lode, ma fin dagli anni della
giovinezza mi piaceva tingermi con l’henné, un segno di libertà molto in voga
tra le ragazze che negli anni settanta tenevano alla loro emancipazione e
volevano farlo vedere. Nel corso del tempo ho cambiato tante sfumature, a volte
più leggere, a volte così intense da sfiorare l’arancione. Penso dipendesse
dall’umore, o meglio dal grado di arrabbiatura del momento in cui andavo dal
parrucchiere.
Potrà sembrare frivolo, ma il colore dei capelli di “Ilda la rossa” ha inciso sulla
mia vita. E anche sul mio rapporto con Giovanni. A lui piacevano molto i miei
riccioli. Quante volte mi ha detto che i miei occhi “erano bellissimi”, che –
specie con l’effetto della luce del sole – tendevano al verde e non potevano che
abbinarsi al rosso dei capelli, un colore cangiante che rispecchiava appieno il
mio carattere a volte impulsivo, a volte ribelle, a volte sottomesso, soprattutto
nei suoi confronti. In realtà ci confrontavamo e anzi litigavamo spesso, perché –
per esempio – non capivo ancora certe sue scelte di mediazione, così lontane
dalla mia visione dei rapporti con il mondo.
Come non ricordare la collera quando il 10 agosto 1989 vidi in televisione le
immagini della “riappacificazione” tra Giovanni e l’alto commissario antimafia,
Domenico Sica? Sapevo perfettamente che questo personaggio non gli aveva
risparmiato attacchi, insinuazioni e critiche, all’interno di un’impari lotta di
potere condotta da ambienti istituzionali contro un uomo solo. Fino al punto di
alimentare la velenosa insinuazione secondo cui il fallito attentato dell’Addaura
di poche settimane prima fosse stata una trovata autopromozionale di Giovanni
stesso: come a dire che il borsone con l’esplosivo sulla scogliera se l’era messo
da solo.
Ero a casa quando il telegiornale stava trasmettendo le immagini di
quell’assurda stretta di mano e dei sorrisi tirati dei due. Presi il telefono e
chiamai Giovanni per gridargli tutta la mia indignazione e disapprovazione:
“Come hai potuto stringere la mano a Sica? Con tutto quello che fa contro di te?!
Sai benissimo che c’è anche lui dietro la campagna denigratoria che dura ormai
da mesi!”. Lui mi lasciò sfogare, poi con molta calma e altrettanta fermezza si
sforzò di farmi capire le sue ragioni, i motivi per cui – a fronte di quanto stava
accadendo e ben consapevole che gli ostacoli sotterranei e le trappole sarebbero
continuati –, nonostante tutto ciò, lui si sentiva fermamente un uomo delle
istituzioni. E aveva quindi il dovere, con quel gesto di riappacificazione anche
solo apparente, di salvaguardare il bene e l’immagine dello Stato, come entità in
cui tutti combattevano nella stessa trincea contro la mafia. Capivo il prezzo che
stava pagando, orgoglioso com’era, eppure non mi convinse, restai arrabbiata
con lui e non ci sentimmo né ci vedemmo per un periodo che parve a entrambi
troppo lungo.
La lontananza si concluse quando cedetti alle sue insistenze e al mio desiderio
di vederlo e tornai a Palermo. Riprendemmo il discorso e nemmeno quella volta
mi convinse, ma ricordo le parole che mi disse. Eravamo ancora in auto e a metà
strada fra l’aeroporto e la città, tenendomi vicino a sé, puntò il dito verso l’Isola
delle femmine. Con il suo sorriso sornione disse: “Sai perché si chiama Isola
delle femmine? Perché lì venivano confinate le donne un po’ troppo ribelli.
Ecco, anche tu meriteresti lo stesso trattamento”. Restai per un momento
interdetta perché mi parve un rimprovero, ma quello che aggiunse subito dopo
mi sciolse il cuore: “Sei una ribelle, ma comunque verrei ogni giorno a nuoto pur
di vederti”. In quel momento dimenticai strette di mano, commissari antimafia e
tutto il resto.
Solo con il tempo, dopo la sua morte, riuscii a cogliere la valenza di quella
scelta di Giovanni, quando nel mio piccolo mi trovai a vivere situazioni
analoghe – fingere cortesia con persone che non mi piacevano affatto o che
disprezzavo – e a reprimere il mio istinto per senso delle istituzioni, accettando
di ingoiare amarissimi rospi e sorridendo perché nulla trapelasse di quello che si
agitava nel mio animo.
La mattina dell’attentato di Capaci ero andata dal parrucchiere per correggere
il colore dei capelli, che mi sembrava troppo acceso, un rosso sgargiante che mi
avrebbe messo in imbarazzo per il lunedì successivo, quando era prevista la
lettura della sentenza del processo “Duomo connection”. Invece, ironia della
sorte, quella correzione del colore servì per affrontare le ore della morte di
Giovanni, una tonalità meno vistosa e più consona alla tragedia che avrei
vissuto.
Ogni dettaglio, anche il più banale, mi riporta al ricordo doloroso di Giovanni,
a tutto quello che gli hanno fatto subire, alla sua morte. Ma arrivata a questa età,
dopo quasi trent’anni, vorrei riuscire a liberarmi dei demoni e dei rimpianti con
cui ho convissuto finora e che hanno offuscato i ricordi meravigliosi che mi
legano a lui. Anche per questo, forse, sto scrivendo: perché vorrei tentare di
lasciarmi alle spalle il passato e godere di quello che la vita ha ancora da offrirmi
in questi ultimi anni.
Tra i ricordi più belli che conservo c’è il viaggio in Argentina che ho avuto la
fortuna di fare con Giovanni, per l’interrogatorio di Gaetano Fidanzati,
nell’ambito delle indagini condotte insieme tra Milano e Palermo. Era il giugno
1991, scrissi con molta cura la richiesta di rogatoria. Giovanni la lesse con
attenzione e commentò: “Perfetta, la firmerò anch’io senza cambiare nulla”. Che
soddisfazione!
Partimmo da Roma, Giovanni era accompagnato dall’allora capitano dei
carabinieri Giuseppe De Donno, io dal funzionario di polizia Massimo Mazza,
mentre a Buenos Aires ci aspettava un ufficiale della guardia di finanza che
collaborava con Falcone. Io viaggiavo in business, Giovanni in top class perché
era consigliere di Corte di cassazione. Quella fu la prima e unica volta (e tale
resterà) in cui ho provato l’ebbrezza e la comodità della superclasse. Infatti De
Donno prese il mio posto e io feci tutto il viaggio seduta accanto a Giovanni.
Avevo portato con me Insciallah di Oriana Fallaci e venni presa in giro per
quanto era voluminoso e poco adatto a un bagaglio da aereo. Avevo anche un
walkman con una cassetta di Gianna Nannini, che ho imposto a Giovanni per
tutta la durata del viaggio. Alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia
e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui.
In top class non c’erano altri passeggeri, eravamo soli in quel lusso rilassante,
la nostra intimità disturbata solo dall’arrivo delle hostess. Rimanemmo
abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando Gianna Nannini e
dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell’interrogatorio e ai possibili
sviluppi dell’indagine. Che notte...
A un certo punto, molto tardi, ci addormentammo. Anzi, Giovanni si
addormentò, mentre io rimasi sveglia più a lungo, non mi stancavo di guardarlo,
sembrava un bambino.
La mattina seguente, nelle ultime ore di volo, dopo esserci rinfrescati ci venne
servita la colazione, ma già aspettando i vassoi Giovanni aveva inforcato i suoi
famosi occhialetti da lettura immergendosi in un’informativa, mentre io aprivo il
volume della Fallaci. A un certo punto, scostando la tendina, comparve il
comandante dell’aereo che, evidentemente emozionato, disse che era onorato di
avere a bordo Falcone. Al che Giovanni sorrise, lo ringraziò a sua volta con una
certa timidezza e da quel momento fu un susseguirsi ininterrotto di visite,
omaggi e ringraziamenti al suo lavoro, una testimonianza che mi riempì di
orgoglio come italiana e come magistrato. Un vero, piccolo, bagno di folla
spontaneo, sincero, che diceva molto di quanto quell’uomo fosse amato dalla
gente comune. Sono anche certa che quella solidarietà, quel grande rispetto, e
anche quell’affetto per la statura morale di Giovanni e per il suo impegno hanno
avuto un peso determinante nel suscitare l’odio dei mafiosi e l’invidia, la
maldicenza, il contrasto – anche all’interno della nostra categoria – che hanno
funestato la sua vita fino alla fine.
Per me era diverso. Quando eravamo insieme diventavo una specie di spugna
che assorbiva quanto possibile della sua sapienza, in una smisurata ammirazione,
mai sconfinata nel fanatismo e che non dipendeva dai sentimenti che provavo
per lui, ma dalla lucida considerazione verso un magistrato decisamente al di
sopra di ogni altro. Così, al contrario di molti colleghi, non mi sono mai sentita
sminuita né condizionata, inibita nell’esprimere dissenso o pareri opposti ai suoi.
Il suo successo e la sua notorietà mi inorgoglivano, forse anche perché sapevo di
avere un posto particolare nella sua considerazione e nel suo affetto. Ma nella
nostra casta la figura di Giovanni provocava per lo più violenti mal di pancia.
A Buenos Aires fummo accolti dai vertici della gendarmeria e da tanti
poliziotti arrivati lì per tutelarlo. Io ero “la dottora”. Anche l’albergo era
presidiato da uno spiegamento imponente di forze dell’ordine. Venimmo invitati
a cena in un ristorante ovviamente specializzato in piatti di carne, che di solito
non mangio (ma su quella argentina dovetti ricredermi). Dopo cena tornammo in
albergo con l’intesa di andare, l’indomani, dai colleghi argentini per lavorare
insieme a loro. Salutammo tutti e andammo nelle nostre camere.
Le due giornate successive furono caotiche, piene di impegni, riunioni,
interrogatori, scambi di carte con i colleghi locali. In ragione di ciò, per sfruttare
appieno quelle ore all’altro capo del mondo proposi di restare un giorno in più.
Siccome una parte della documentazione che volevamo portare in Italia non era
ancora pronta, potevamo restare a nostre spese e, nell’attesa, andare a visitare le
famose cascate di Iguazú. Giovanni, però, voleva a tutti i costi rientrare in Italia
e discutemmo animatamente: non voleva che la sua permanenza fosse etichettata
come “turismo giudiziario”, una pratica tra le più gettonate nel nostro ambiente.
Confesso che, pur comprendendo le sue ragioni, rimasi male quando lui se ne
andò. Restai io sola ad aspettare i documenti e da sola andai a Iguazú. Fu
un’esperienza incredibile, che mi emozionò fino alle lacrime: la vista di quella
meraviglia, il fragore assordante dell’acqua che precipita, la sensazione di
immensità che ti afferra alla gola. La gendarmeria aveva organizzato tutto alla
perfezione, compreso il sorvolo delle cascate in elicottero. L’idea mi
entusiasmava, ma non ero mai stata su un elicottero e passai minuti di angoscia:
“E se mentre sono lassù mi sento male? Che figura faccio se mi viene da
vomitare?”. Mi feci coraggio e salii sul velivolo, anche perché non si dicesse che
ero la solita donnetta in preda alla paura. E feci bene, perché nonostante un po’
di nausea fu un’esperienza indimenticabile.
Quell’esperienza così forte mi fu utile come battesimo dell’aria e quando poi,
due anni dopo, sarei stata a Caltanissetta per indagare sulla morte dei colleghi,
mi fu più facile volare in elicottero, come imponevano le misure di sicurezza.
Che cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così
precocemente? Non lo so dire, anche se in tutti questi anni mi sono tormentata
con questo interrogativo. Ho invece potuto rispondere a un’altra domanda: ho
onorato abbastanza la sua memoria con il mio lavoro? La mia risposta è “sì”, e
poco mi interessa se altri non la pensano allo stesso modo.
Potrei raccontare anche di tante e dolorose confidenze ricevute da Giovanni,
delle persone e dei colleghi di cui aveva letteralmente paura; dei momenti di
estrema debolezza e di caduta che pure ha vissuto. Potrei raccontare di segreti
che mi ha confidato, ma non lo farò, non voglio farlo e tutto resterà chiuso nella
mia memoria e nel mio cuore. Ma quanto ho disprezzato, in questi anni, gli
omuncoli che hanno mentito raccontando o riferendosi a fatti mai accaduti e
circostanze di assoluta fantasia, certi di non essere smentiti da un morto.
Per questo penso che i giovani e le prossime generazioni dovrebbero ricordare
Giovanni Falcone per quello che ha fatto, non per quello che altri hanno detto di
lui; dovrebbero cogliere la sua grandezza da ciò che ha scritto di suo pugno e
dalle parole che ha pronunciato, diffidando di quelle riferite e a lui attribuite,
perché questa attenzione alla verità dell’uomo li renderà persone e cittadini
migliori.
Nel 1999 ricevetti una lettera da una donna che non conosco. Tra le altre cose,
la signora mi raccontava che quando morì Falcone aveva solo quindici anni e
nulla sapeva di quel magistrato, perciò, a me che lo avevo conosciuto e che
pubblicamente dichiaravo di ispirarmi al suo lavoro, chiedeva se potessi
scriverle qualcosa di lui. Ecco, cara signora, non so dove sia lei ora e se mi
leggerà, ma lo sto facendo, sto scrivendo di Giovanni.
“Un uomo abbraccia una ragazza dopo che aveva pianto... guardò quegli occhi
verdi come il mare e gli sembrò più dolce anche la morte.” Proprio così ci siamo
guardati io e Giovanni quel pomeriggio del 13 maggio 1992, prima che si
imbarcasse per Roma. Fu il nostro ultimo sguardo. Dopo la sua morte, quella
canzone mi ha ossessionato: la ascoltavo per ore, soprattutto nel periodo
siciliano. Parole di amore e di morte, come è stata la sua vita.
5.
Maggio 1992
13 maggio
Era una giornata bellissima. Sole e temperatura ideale. Giovanni era atteso in
mattinata a Pavia per un dibattito organizzato dal giurista Vittorio Grevi al
Collegio Ghislieri. Eravamo d’accordo che lo avrei raggiunto per l’inizio della
sua relazione. Ero felice, non ci vedevamo da un po’ di tempo anche se i nostri
contatti telefonici erano pressoché quotidiani. Avevo scelto con cura l’abito da
indossare: un tailleur blu scuro.
Arrivai a Pavia prima che Giovanni cominciasse a parlare e presi posto tra il
pubblico. L’aula del Ghislieri era per lo più gremita di studenti della facoltà di
Legge, nella quale insegnava Grevi, ma non mancavano colleghi, avvocati,
semplici curiosi. Insieme a loro lo ascoltai mentre illustrava le sue riforme: la
Dia, formata dalle varie forze di polizia, le Direzioni distrettuali antimafia nelle
procure, la Direzione nazionale antimafia. In sala, tra i magistrati, c’era anche
l’allora procuratore capo di Pavia, che prese la parola intenzionato a demolire
punto per punto le tesi illustrate da Giovanni. E quello fu solo il primo di una
serie di interventi dello stesso tenore, tutti svolti da colleghi, tesi a smontare gli
argomenti di Falcone e, naturalmente, il suo ruolo di direttore degli Affari penali
che pochi mesi prima aveva accettato dal ministro Claudio Martelli. Una scelta
intollerabile, secondo molti magistrati, che coglievano ogni occasione per
prenderne platealmente le distanze.
Quello che mi colpì fino a togliermi il respiro, ed era purtroppo accaduto altre
volte, non erano tanto le critiche in sé, ma il clima di astio che si percepiva nei
suoi confronti. Toni sferzanti, respingenti, argomentazioni aspre, piene di livore,
che mostravano una verità non dissimulabile: Giovanni avrebbe potuto trattare
qualsiasi altro argomento e non sarebbe cambiato nulla, perché gli attacchi erano
mirati all’uomo, non alle sue idee o alle sue proposte. Anche in quella giornata
pavese potei toccare con mano quanto Giovanni fosse inviso all’interno
dell’ordine giudiziario, nonostante fosse una persona buona, solare, unica.
Quindi una figura imperdonabile agli occhi dei più, perché impossibile da
eguagliare e quindi frustrante nel paragone. Mi chiesi che cosa pensassero i
giovani presenti in aula, se anche loro avessero percepito quell’alone di sulfurea
ostilità che rendeva l’aria irrespirabile, almeno per me.
Quel giorno, come tante altre volte, Giovanni si trattenne, non diede a vedere
la sua amarezza e nascose la frustrazione dietro il sorriso e le parole misurate di
cui era capace.
Terminato il convegno, ci fermammo a colazione con il professor Grevi,
dispiaciuto e imbarazzato per l’accoglienza riservata al suo ospite. A tavola si
parlò ancora delle riforme, dell’imminente decisione del Consiglio superiore
della magistratura sulla nomina del direttore nazionale antimafia, si accennò alle
previsioni, tutte sfavorevoli a Giovanni, dato che aveva contro magistrati,
politici e media, nonostante a parole tutti riconoscessero – né poteva essere
altrimenti – il suo profilo eccezionale per professionalità, competenza, dirittura
morale. Nel migliore dei casi, le critiche muovevano dalla preoccupazione per
un’eccessiva concentrazione di poteri in capo al procuratore nazionale antimafia;
nella versione dei peggiori detrattori – purtroppo in netta prevalenza – Giovanni
era considerato scomodo perché ingovernabile, troppo indipendente, un utopista
che non si limitava a sognare, ma che agiva con determinazione e intelligenza
per realizzare il cambiamento.
Tornammo a Milano seduti sul sedile posteriore dell’auto di servizio. Giovanni
aveva detto all’autista di guidare con calma, poi mi aveva preso la mano
stringendola forte e, dopo un po’ di tempo trascorso in silenzio, aveva
cominciato a lasciarsi andare, esternando la rabbia, la mortificazione, la
stanchezza per gli attacchi che subiva e per la cattiveria che lo circondava. Io lo
ascoltavo e, comprendendo pienamente il suo stato d’animo, non avevo nulla da
replicare. Eravamo entrambi consapevoli che non sarebbe stato nominato
procuratore nazionale antimafia. Mi sentivo impotente, non ero in grado di
attenuare il suo dolore, se non mostrandogli una volta di più il mio affetto, la mia
sincera amicizia, la stima profonda che nutrivo per lui. Durante il tragitto aveva
anche chiamato la moglie e dopo aver scambiato con lei qualche frase mi aveva
passato il telefono. Francesca e io ci eravamo salutate brevemente, ripetendoci
che ci saremmo molto presto viste a Palermo. Ma a Palermo la rividi su un
tavolo di obitorio.
Mentre l’automobile si avvicinava all’aeroporto, avevo scorto tra i capelli di
Giovanni una specie di minuscolo verme bianco. Avrei voluto toglierlo, ma la
mano si era bloccata: percepivo una strana sensazione di morte che mi turbava
profondamente. Non avevo detto nulla ma avevo continuato a fissargli i capelli,
tanto che Giovanni mi aveva chiesto cosa avessi. “Nulla,” avevo risposto,
stringendogli più forte la mano. Questione di attimi, ma ho vissuto quella
suggestione come un inequivoco presagio di morte. Solo molti mesi dopo sarei
venuta a sapere dai verbali del mafioso Gioacchino La Barbera – uno degli
esecutori della strage – che proprio quel 13 maggio erano terminate le operazioni
per imbottire di tritolo il condotto sotto l’autostrada all’altezza di Capaci. Quel
giorno, quindi, stringevo angosciata la mano di un uomo già condannato a morte.
Quando arrivammo a Linate, l’aereo dei servizi di sicurezza sul quale
Giovanni era tenuto a viaggiare era già pronto al decollo. Nel salutarlo, una volta
scesi dall’auto, lo avevo stretto nuovamente a me, pregandolo di non mollare, di
continuare a combattere come aveva sempre fatto. Lui non aveva risposto nulla,
si era limitato a ricambiare l’abbraccio per poi avviarsi alla scaletta. Saliti pochi
gradini, si era girato per salutarmi con lo sguardo triste ed era scomparso dentro
il piccolo aereo. Non avrei voluto e non so perché lo feci, ma in quel momento
piansi.
In tutti questi anni non ho mai dimenticato quella giornata, quel tragitto in
auto, quel suo ultimo sguardo. Se non ci fossimo visti quel giorno, forse non
avrei ribaltato la mia vita, com’è invece accaduto. Ma quegli occhi pieni di
tristezza posati su di me non mi hanno lasciato alternative. Ed è così che sono
arrivata a decidere di indagare sulla sua morte, a inseguire per mesi i suoi
carnefici.
23 maggio
Quel 23 maggio mi trovavo in una stanza del San Raffaele al capezzale di mio
padre, ricoverato in gravi condizioni. Sarebbe morto il 23 luglio, a settantanove
anni. Terminato l’orario di visita, ero uscita dal padiglione e mi ero diretta verso
le auto di servizio che mi aspettavano. L’espressione cupa, immobile, sui volti
degli uomini della scorta non lasciava dubbi: era successo qualcosa di grave.
Nessuno di loro proferì parola e dentro di me cominciò a salire un’ansia
difficile da descrivere. Eppure non pensai ai miei figli, o a qualche altro
famigliare. Il mio pensiero era corso subito a Giovanni e riuscii a pronunciare
solo una frase, una frase che non avrei mai voluto sentirmi pronunciare: “È
successo qualcosa a Falcone?”. Dallo sguardo che si scambiarono i due poliziotti
capii di non essermi sbagliata: “Sì, dottoressa, c’è stato un attentato a Palermo. Il
dottor Falcone è vivo, ma è ferito gravemente”.
Ne seguì una corsa verso casa a sirene spiegate. Non ho mai autorizzato l’uso
della sirena a Milano, ma quel giorno fui io a richiederlo. In preda all’angoscia,
telefonai a Ultimo e non ci fu bisogno di troppe parole: giunta a destinazione, lo
trovai ad attendermi sotto casa con i suoi uomini. Proprio in quel momento
arrivò la notizia che Giovanni era morto. Mi accasciai sul marciapiede, il mondo
mi girava intorno, le lacrime sgorgavano senza freni. Ero disperata. Dissi a
Ultimo che volevo partire subito per Palermo. “È impossibile,” fu la risposta, “la
strada dall’aeroporto alla città è chiusa per la voragine causata dall’esplosione.”
Non volli sentire ragioni, solo partire a ogni costo, sarei arrivata a Palermo anche
a piedi. Ultimo mi assecondò.
Confesso di avere ricordi confusi di quelle ore: ero come in trance. Mi
portarono a Linate e attendemmo l’orario di partenza del volo in una saletta
riservata, dove incontrai Liliana Ferraro, all’epoca collaboratrice di Falcone al
ministero, in missione a Milano. Non le andai incontro come avrei fatto
normalmente, pur sapendo quanto Liliana fosse legata a Giovanni. Ero come
pietrificata, gli uomini di Ultimo mi dovevano sostenere e lo fecero fino a che
non presi posto sull’aereo. Atterrammo a Palermo a notte fonda. Grazie a un suo
collega, Ultimo era riuscito a procurarsi una jeep militare, a bordo della quale
raggiungemmo la città lungo un percorso alternativo all’autostrada,
attraversando paesini e sobbalzando su strade sterrate. Intorno a noi, il buio
pesto.
Pretesi che mi portassero subito all’obitorio. Entrai in quella stanza poco
illuminata, dove su un piano d’acciaio, lo stesso utilizzato per le autopsie, c’era
Giovanni. Sembrava che dormisse, il suo viso era disteso, l’esplosione gli aveva
risparmiato il volto, sul quale vedevo solo una leggera abrasione vicino
all’occhio sinistro. Il suo corpo era stato coperto con un lenzuolo. Mi avvicinai.
Purtroppo in quel momento c’erano anche tre colleghi palermitani. Uno di loro
venne verso di me, ma lo respinsi con un gesto rabbioso: sapevo che tutti e tre
quei colleghi avevano ostacolato Giovanni, vivevo la loro presenza in quella
stanza come un insulto alla sua memoria. Fortunatamente uscirono poco dopo il
mio arrivo, o forse proprio per questo, perché sentii uno di loro sussurrare: “Be’,
andiamo. L’aria comincia a farsi pesante”. Non li salutai né loro salutarono me.
Del resto, tutto il mio essere sprigionava disprezzo nei loro confronti.
Rimasta sola, gli toccai il viso e lo accarezzai. Nel mio stato di quel momento,
mi sembrò quasi che mi sorridesse. Sollevai lentamente il lenzuolo, volevo
vedere quanto il suo corpo avesse subìto l’impatto dell’esplosione. Lo coprii
nuovamente e gli rimboccai il telo bianco, con amore.
Fu in quel momento che giurai a lui e a me stessa che avrei fatto qualsiasi cosa
perché il suo lavoro non andasse perduto, che avrei protetto la sua memoria, che
avrei sempre agito in un modo che lo avrebbe reso orgoglioso di me.
Entrò Ultimo. Con dolcezza mi disse che era ora di ritirarci. “No!” esclamai
con la foga della disperazione. “Non lo lascio da solo, al buio, in questa stanza.”
Ultimo e i suoi cercarono di riportarmi alla ragione, di farmi comprendere che
non era possibile fermarsi lì, fino a che non mi presero delicatamente per le
braccia e, mentre urlavo e singhiozzavo senza ritegno, mi trascinarono
letteralmente via. Quando arrivammo in albergo – non saprei dire quale – ero in
uno stato simile all’incoscienza. Mi accompagnarono in camera dove, rimasta
sola, mi accovacciai vicino a uno specchio e rimasi così per il resto della notte
finché mi accasciai assopita per un paio d’ore. Fuori dalla porta, vegliavano gli
uomini di Ultimo.
La mattina del 24 maggio era previsto il trasporto delle salme di Giovanni e
Francesca dall’obitorio al palazzo di giustizia. Prima che chiudessero la bara,
volli tornare alla camera mortuaria per un ultimo saluto. Non appena entrata,
venni investita da fortissime esalazioni di formalina, un odore che da allora mi è
rimasto nelle narici. Purtroppo non ero sola, nella stanza c’era il procuratore di
Caltanissetta, ancora per qualche settimana titolare dell’inchiesta sulla strage,
perché poco dopo sarebbe andato in pensione. Mi avvicinai alla bara. L’odore di
formalina era davvero insopportabile. Guardai per l’ultima volta Giovanni. La
salma era vestita con un abito scuro e un’orribile cravatta, il suo viso era ancora
bello, se non fosse stato per il pallore della morte. Lo accarezzai per un’ultima
volta e subito dopo mi allontanai velocemente, come un animale in fuga.
Mi feci accompagnare all’aeroporto, non avevo alcuna intenzione di prendere
parte ai funerali e tanto meno alla veglia a palazzo di giustizia. Già immaginavo
gli sguardi compunti dei colleghi (palermitani e non) e il solo pensiero mi era
insopportabile perché, tolta qualche eccezione, sapevo che quei volti sarebbero
stati l’apoteosi dell’ipocrisia e del cattivo gusto. Un’esibizione di squallore che
mi volevo risparmiare.
In questi anni ho guardato e riguardato le immagini del funerale di Giovanni.
L’ho fatto per fissare sullo schermo i volti dei presenti, così da tener viva la mia
rabbia, proprio come è accaduto quando – solo per i primi anni – ho accettato di
partecipare alle celebrazioni dell’anniversario del 23 maggio. Non me ne
vergogno.
Va tuttavia detto che, nel profluvio di false lacrime sparse al funerale, sono
sempre stata capace di cogliere quelle sincere di chi gli voleva bene davvero: le
più autentiche, quelle di Paolo Borsellino.
25 maggio
L’ultima volta che parlai con Giovanni fu in una telefonata poche ore prima
che morisse. Nel primo pomeriggio di quel sabato 23 maggio, lo chiamai per
dirgli che il lunedì successivo sarebbe stata emessa la sentenza per la “Duomo
connection”. Me lo aveva comunicato la cancelleria, dopo che il collegio
giudicante era riunito in camera di consiglio già da alcuni giorni.
Ero tesa, com’è ovvio. Giovanni aveva cercato di tranquillizzarmi,
spiegandomi che a suo giudizio l’impianto dell’inchiesta era granitico, pur con
tutte le difficoltà incontrate nel lungo dibattimento, dato che quello era il primo
maxiprocesso celebrato con il rito accusatorio, la nuova formula entrata in vigore
con la riforma dei Codici varata solo tre anni prima. Tra le non poche difficoltà
da affrontare, come l’esame dei testi o la produzione della documentazione, il
collegio non aveva più a disposizione le carte raccolte con l’indagine e non
conosceva, quindi, il lavoro d’inchiesta svolto negli anni precedenti. Spettava al
pubblico ministero guidare i giudici nella comprensione dell’indagine stessa e
convincerli della solidità delle prove raccolte. Compito non facile, soprattutto
per gli aspetti di novità procedurali che accomunava giudici, avvocati, pubblici
ministeri, ciascuno dalla propria visuale. Ce l’avevo fatta? Lo avrei saputo dopo
due giorni, ma intanto sentivo su di me tutto il peso di un’indagine avviata con lo
stesso Falcone, quando lui era ancora procuratore aggiunto a Palermo.
In quell’ultima telefonata restammo intesi che mi avrebbe richiamata dopo
l’atterraggio a Punta Raisi. Ma il tritolo che avrebbe spazzato via la sua vita,
quella di Francesca e della loro scorta era già stipato nel cunicolo sotto la A29,
pronto a esplodere.
Il 25 mattina decisi di andare in aula con indosso lo stesso tailleur che avevo
scelto per incontrare Giovanni al Ghislieri pochi giorni prima. La lettura del
dispositivo era prevista intorno alle 11, orario tassativo perché l’Associazione
nazionale magistrati aveva indetto per le 12 in aula magna una commemorazione
dei colleghi uccisi a Capaci. L’aula della “Duomo connection” era – ironia della
sorte – proprio di fronte all’aula magna: a dividerle c’era solo il lungo e
maestoso androne del secondo piano. Pregai la cancelleria di chiamarmi
all’ultimo momento, quando il collegio stava per uscire dalla camera di
consiglio.
Un paio di occhiali scuri mi copriva parzialmente il viso, segnato dalle lacrime
dei due giorni precedenti. Ho sempre portato gli occhiali da sole, anche quando
nei primi anni a Milano la nebbia la faceva da padrona: sono sempre stati una
difesa, prima da un mondo che non conoscevo e poi da una malvagità che avevo
imparato a conoscere.
Mentre il presidente leggeva il dispositivo, non riuscivo a concentrarmi su ciò
che sentivo, la testa mi girava ma, soprattutto, in quel momento non mi
interessava l’esito del processo. Gli imputati erano stati tutti condannati, ma la
voce che elencava gli anni di reclusione era solo un sottofondo, perché intanto
tenevo lo sguardo fisso sulla gabbia in cui erano rinchiusi gli imputati
appartenenti a Cosa nostra. Sapevo che avevano esultato per la fine di Falcone e
con il mio sguardo colmo di disgusto volevo comunicare a quelle persone che ci
sarebbe comunque stato chi avrebbe continuato a combatterli senza dargli
tregua. Sicuramente ci sarei stata io, anche se nessuno – mi venne da pensare –
avrebbe mai più potuto farlo con la determinazione e l’efficacia di Giovanni.
A udienza terminata, mi diressi verso l’aula magna già gremita di colleghi,
compresi i big del momento, come Gerardo D’Ambrosio e il pool di Mani pulite
al completo. Chiesi di prendere la parola, mi avvicinai al banco posto di fronte al
pubblico, domandai ai cameraman rispetto per il mio dolore e iniziai il mio
j’accuse.
Il giorno successivo, 26 maggio, così riferiva il “Corriere della Sera”, a pagina
7, a firma di Goffredo Buccini.
“Voi avete fatto morire Giovanni Falcone. Con la vostra indifferenza. Con le vostre critiche... voi lo
avete infangato. Voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali...”
I Ray-Ban nerissimi coprono occhi che non hanno più lacrime. I capelli rossi piovono disordinati sulla
giacca scura. La voce è stridula, rotta a tratti. Ilda Boccassini, il pubblico ministero della “Duomo
connection”, sta in piedi davanti ai suoi colleghi, raccolti a centinaia nell’aula magna di palazzo di
giustizia. Tutti lì, a ricordare Falcone. Tutti lì ad ascoltare una requisitoria inattesa, clamorosa, talvolta
scomposta, ma sincera fin nell’anima. Un violento atto d’accusa di un giudice contro altri giudici, contro
un’intera corporazione e contro una parte della classe politica. Entra alle 13.15, la Boccassini. Supera
veloce file di sedie dove i magistrati di Milano, chiamati a raccolta dall’Anm, si sono sistemati, forse
convinti di assistere a una commemorazione di circostanza. [...] “A Giovanni è stato impedito nella sua
città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il ministero della Giustizia,
per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una
rivoluzione.” Quindi, ecco un attacco tutto diretto a Milano: “Io la rivoluzione di Giovanni l’ho difesa...
Ma sono stata spazzata via. Perché ero sua amica e perché credevo in lui. Ma i colleghi che oggi sono
andati a Palermo, ai suoi funerali, dicevano fino all’altro giorno di diffidare di lui”. Il tono si alza ancora,
la requisitoria si concentra sulle persone, sui pm dell’inchiesta Mani pulite: “Tu, Gherardo Colombo, che
diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l’amarezza di sapere che i
suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da quelli di Milano,
che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi
ha detto: ‘Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali’”. Ancora silenzio. Ilda Boccassini
guarda negli occhi Giulio Catelani, il procuratore generale che aveva equiparato la situazione di mafia a
Milano a quella di una qualsiasi città del Nord, e riprende: “Oggi è finita la ‘Duomo connection’, alla
quale Giovanni e io avevamo lavorato assieme. La mafia si può sconfiggere. Ma esiste, signor
procuratore. A Milano come a Palermo, non ci sono confini. E Nenè Geraci, capo del mandamento di
Partinico, componente della Cupola, era a Milano, alla ‘Duomo connection’, pochi giorni fa. Lui già
sapeva. Avevano deciso la morte di Falcone. Era qui per intimidire”. Quindi, quasi un rigurgito di rabbia:
“Ma chi pensa che Giovanni non fosse indipendente non può andare ai suoi funerali. [...] Giovanni è
morto con l’amarezza di essere solo. Mi rivolgo all’onorevole Martelli: non abbandoni i giudici che
hanno creduto nel progetto di Giovanni. Io credo che non è così che passeremo sotto l’Esecutivo, non è
su questo che si gioca la nostra autonomia: la si compromette solo facendo i servi del sistema. Se
qualcuno pensa che Falcone è un venduto, lo dica ora. Poi voltiamo pagina. Ciao, Giovanni”.
In aula magna il silenzio era assoluto. Capivo che tutti erano rimasti spiazzati
dal mio intervento. I giorni successivi furono tremendi. Al dolore che provavo
per la perdita di Giovanni si sommarono attacchi e critiche impietose provenienti
dai soliti avversari, ma anche dagli amici. Mi sentivo un pugile che prendeva
colpi in faccia senza riuscire a reagire fino ad accasciarsi, tramortito da quella
tempesta. Avevo bisogno di scuotermi e, per fortuna, uno stimolo forte venne da
una bella lettera inviatami da un uomo che simulava di scrivere sotto la dettatura
della figlioletta di appena due anni:
Il mio papà si è incaricato di scrivere per me due righe affinché lei conosca il mio pensiero nei suoi
riguardi. Noi possiamo sperare in bene per il futuro solo se persone come lei continuano la loro lotta con
lo spirito di abnegazione e di un grande amore per il prossimo, come ha fatto sino a ora. L’esempio di
Falcone le sarà senza dubbio di grande aiuto. Mi perdoni questa intrusione nella sua vita ma, dopo aver
letto la sua risposta a quei magistrati che non condividono le sue idee, mi sono sentita in obbligo di
manifestarle la mia solidarietà e il mio affetto. Quando sarò grande le scriverò personalmente.
Nella busta c’era la foto di una splendida bambina sorridente, cui ho sempre
augurato tutto il bene possibile.
Estate
Nei mesi seguiti al mio intervento in aula magna, i colleghi della procura e, in
generale, del palazzo di giustizia di Milano mi evitavano come fossi
un’appestata. Tesissimi anche i rapporti con Borrelli. Mi sentivo –
oggettivamente ero – sola con il mio dolore, anche se più che mai convinta di
aver detto esattamente quello che pensavo e che le mie parole fossero state
quelle giuste da dire. Non avevo sbagliato a puntare il dito verso chi riteneva
Falcone un venduto per aver accettato l’incarico al ministero; verso chi aveva
approfittato del suo funerale per tornaconto personale, solo per un po’ di
visibilità.
Non conoscevo i colleghi siciliani che avevano deciso di farsi applicare a
Caltanissetta per rinforzare le file dell’inchiesta sulle stragi – nel frattempo, il 19
luglio, c’era stata la carneficina di via D’Amelio – né tanto meno Giovanni
Tinebra, il capo della procura appena nominato. Perciò pensai a uno scherzo
quando, verso fine luglio, da Caltanissetta mi arrivò la telefonata per sapere se
ero disponibile a unirmi a loro chiedendo a mia volta l’applicazione.
Sinceramente spiazzata, lì per lì non seppi cosa rispondere, di fatto non ebbi
alcuna reazione e la cosa finì nel dimenticatoio. Ma a fine agosto mi arrivò
un’altra telefonata. Stavolta era Tinebra in persona che mi ripropose con forza la
stessa domanda: “Pensaci, Ilda. Qui c’è bisogno di te”.
Perché io? Ancora oggi non lo so con certezza. Benché abbia poi avuto modo
di conoscere a fondo i colleghi che insistevano perché lavorassimo insieme in
Sicilia, la loro scelta mi apparve allora ed è ancora oggi un enigma. Comunque
sia, quelle richieste ebbero l’effetto di gettare nella mia mente il seme del
dubbio, che ben presto cominciò a germinare. “Perché no?” Andare via da
Milano, dati anche i rapporti difficili all’interno dell’ufficio, non era da
considerare un’ipotesi così irrealistica. E trasferirmi per un periodo in Sicilia –
proprio per indagare sulla morte di Giovanni – lentamente diventava una
prospettiva sempre più coinvolgente. La decisione, però, era difficilissima: i miei
figli erano uno sbarramento oggettivo alla possibilità di lasciare Milano,
soprattutto Alice, che aveva solo otto anni.
In questa tempesta di pensieri e di dubbi, vissi un periodo lacerante, aggravato
dal senso di enorme solitudine. Mi mancavano il sostegno della famiglia e quello
degli amici. Anche perché mi era del tutto chiaro che, se anziché “una” pm fossi
stata “un” pm, la scelta di partire per dedicarmi altrove al lavoro sarebbe stata
normale, persino un’opportunità da non lasciarsi sfuggire, o, alla peggio, una
dolorosa ma doverosa necessità con un costo personale molto alto.
Ma io sono una donna, una madre e, nel pensiero comune, la medesima scelta
era come commettere un reato, qualcosa di innaturale, che meritava una
condanna senza appello. “Ma come,” mi sono sentita dire in faccia (o alle
spalle), “abbandoni i tuoi figli per il lavoro? Non pensi alle conseguenze? Sei
fuori di testa?” E via così. Amiche che pensavo solidali e pronte a sostenermi
hanno pronunciato giudizi durissimi, senza comprensione, senza attenuanti,
senza alcun conforto. Ero consapevole che, qualunque decisione avessi preso, la
mia vita sarebbe cambiata per sempre. L’unico incoraggiamento venne da
Gianni De Gennaro, appena nominato vicedirettore della Direzione investigativa
antimafia: a suo parere l’impegno in Sicilia era una chiamata alle armi cui non
avevo il diritto di sottrarmi. Ed escludeva che potessero essere di impedimento le
questioni personali o le difficoltà famigliari.
Ricordo, con tenerezza, che tra gli argomenti cui mi aggrappavo per escludere
la richiesta di applicazione ce n’era uno goffo, infantile: avrei dovuto cambiare
parrucchiere, la mia Lia di Professional’s, che si prende cura dei miei capelli da
più di trent’anni, una persona speciale, l’artefice di “Ilda la rossa”.
6.
L’arrivo a Caltanissetta
Non c’è dubbio che, a seguito delle stragi, grazie soprattutto all’entrata in
vigore delle Direzioni distrettuali antimafia, all’approvazione di leggi importanti
e a una presa di coscienza collettiva, il contrasto al crimine organizzato si fece
più incisivo; fondamentale fu il proliferare dei collaboratori, persone che, se
gestite bene, potevano portare “nelle casse dello Stato” ingenti patrimoni di
conoscenza. Mi chiedo se la magistratura fosse pronta a gestire quel patrimonio,
se avesse digerito la centralizzazione delle indagini e la creazione delle Dda,
visto che alla proposta di Giovanni, poi diventata legge, si oppose la quasi
totalità dei pubblici ministeri da Milano a Palermo, con un’unica voce di
dissenso, quella di Pier Luigi Vigna. Anche Paolo Borsellino firmò il documento
che prendeva le distanze dalle scelte e dalle teorie di Giovanni, che di questo
soffrì tantissimo: non solo perché si sentì pugnalato alle spalle, ma soprattutto
perché Borsellino sapeva perfettamente che concentrare le indagini era l’unico
modo per contrastare davvero la mafia.
In tutti questi anni non ho sentito i colleghi ricredersi, nemmeno quelli, la
stragrande maggioranza, che nei fatti si sono resi ben conto che Falcone aveva
visto giusto, che la sua visione rivoluzionaria e nello stesso tempo quasi banale
era l’unica strada da percorrere. All’epoca non ero stata neanche interpellata su
questi argomenti, già scontavo la mia vicinanza a Falcone e il fatto che, in
seguito agli attacchi alla sua integrità e alla sua professionalità, avevo stracciato
la tessera di Magistratura democratica.
Paradossalmente l’attentato di Capaci ha tolto dall’imbarazzo molti dei suoi
nemici e dei colleghi a lui ostili. Infatti Falcone non sarebbe diventato
procuratore nazionale antimafia perché le correnti, compresa Md, erano schierate
nella quasi totalità per Agostino Cordova, magistrato modesto, come pure i
membri laici in quota al centro-sinistra. A mostrarsi titubante era stato solo il
consigliere togato Elvio Fassone, che mi telefonò. Mi sembrò veramente
tormentato per la decisione da prendere, chiese la mia opinione e così decisi di
scrivergli questa lettera, di poco precedente alla strage:
Carissimo Elvio, se non ne avessimo parlato stamane al telefono, non avrei mai trovato il coraggio di
scrivere queste poche righe. Non credo, e per questo mi scuso fin da ora, di riuscire a tirar fuori dal mio
cuore tutto quello che penso circa la ormai nota “vicenda Falcone”. Probabilmente il mio pessimismo di
fondo deriva anche dalla mia situazione personale ma, forse, sono proprio gli accadimenti di questi
ultimi mesi che mi consentono di essere molto più vicina al collega e di essere nello stesso tempo – per
quanto può sembrare assurdo – più distaccata emotivamente sulle valutazioni che si possono trarre dagli
avvenimenti del caso.
Non ci conosciamo abbastanza e quindi non hai tutti quegli elementi necessari per valutare il mio modo
di essere e le mie scelte di vita. Io ritengo, invece, se vuoi con un pizzico di presunzione, di potermi
rivolgere a un uomo che ho sempre apprezzato come persona dotata di grande forza interiore e capace,
quindi, di capire questo mio sfogo e di giustificarlo. Sicuramente due cose ci accomunano: l’aver creduto
e credere nella funzione del nostro ruolo di salvaguardia, nel pieno rispetto dei principi costituzionali e
delle leggi, degli interessi dei cittadini, soprattutto di quelli che non vogliono soccombere all’arroganza
del potere e alla distruzione dello Stato democratico.
In tutti questi anni, insieme a tanti altri colleghi abbiamo combattuto contro le forme perverse del potere,
anche all’interno della nostra categoria, che volevano una magistratura asservita e arroccata su scelte
reazionarie del tutto avulse dalle istanze sociali provenienti dai soggetti più deboli. Sono convinta che chi
ti ha consentito con il proprio voto di sedere su quella poltrona non comoda e non facile al Csm lo abbia
fatto nella convinzione di vedersi rappresentare in quella sede da un uomo capace soltanto di far
prevalere la forza della ragione sulle ottuse regole di schieramento. Posso immaginare che cosa provi in
questo momento e quali difficoltà puoi avere all’interno del gruppo che rappresenti, ma sono convinta
che non pochi magistrati saprebbero apprezzare una tua scelta coraggiosa; io sono una di questi non
perché sono stata plagiata in questi anni dal “fascino del mito Falcone”, ma perché, lavorandoci assieme
giorno dopo giorno, ne ho potuto apprezzare non solo l’enorme professionalità ma, cosa più importante,
la sua integrità morale, il suo coraggio, la sua umiltà e, cosa che può apparire assurda ai più, la sua
mancanza di qualsiasi forma di protagonismo. Quello che mi amareggia e mi provoca un dolore
indicibile in questi giorni è che in molti ritengono Giovanni persona ormai condizionabile dal potere
politico.
È vero che tra me e Giovanni esiste, oltre il legame professionale, una meravigliosa amicizia e forse a
causa di questo legame posso apparire parziale e quindi poco affidabile. L’unico torto che mi sento di
dover riconoscere a Giovanni in questi anni è quello di aver dato poco di sé come uomo. Il suo carattere
schivo è stato scambiato per presunzione e arroganza da chi evidentemente non voleva capire, ed è per
questo che il “mito Falcone” voluto dalla stampa è prevalso sull’uomo; nessuno si è preoccupato,
neanche le persone a lui più vicine, di considerare Giovanni soprattutto un uomo, con le sue debolezze, le
sue paure, le sue cadute. Con me è stato diverso, forse perché sono una donna e non mi sono mai posta
nei suoi confronti in un rapporto di conflittualità e di gelosia, ero consapevole della sua enorme
esperienza, lo vedevo e lo vedo come un buon maestro da cui apprendere.
Giovanni in tutti questi anni ha rinunciato a vivere perché, quale servitore dello Stato, riteneva doveroso
esercitare al meglio le sue funzioni istituzionali, e non certo perché si ritenesse un giudice vendicatore o,
ancor peggio, unico detentore della verità.
Se oggi i giovani – nostra unica speranza di un mondo migliore – si ribellano e continuano a credere a
qualcosa nelle tormentate terre del Sud, se si discute di mafia, se oggi il potere politico – forse in maniera
strumentale – si dà da fare perché non vincano l’oscurantismo e la barbarie, lo dobbiamo a lui, a un
uomo semplice ma estremamente forte che è riuscito, per la prima volta, a insinuare nelle coscienze il
problema “mafia”. Non faccio torto a Giovanni se ti racconto quello che da lui apprendo in questi giorni
e, credimi, fa male sentire un uomo che soffre per la malvagità e l’ingratitudine dei suoi simili. Per la
prima volta in questi anni vedo Giovanni rassegnato e non certo per gli ostacoli che si sovrappongono
alla sua nomina, bensì per i tradimenti, per le meschinità, per la malvagità che mostrano intorno alla sua
figura.
L’altro giorno al telefono mi ha detto, con la serenità che lo contraddistingue sempre, che vuole
ricominciare a vivere; ma io ho percepito tutta l’amarezza di quelle frasi e gli ho chiesto allora se il
ministro Martelli avesse intenzione di esprimere il proprio assenso anche per Cordova; mi ha risposto
che non lo sapeva perché non parlava mai con il ministro dei fatti collegati alla nomina del procuratore
antimafia. Sono rimasta stupita, e me ne vergogno, per la sua risposta perché mi sembrava del tutto
naturale, e anche logico se vuoi, che Giovanni discutesse a lungo con Martelli di questa vicenda; conclusi
il discorso dicendo testualmente: “Giovanni, ma se i nostri colleghi sapessero che tu addirittura ti rifiuti
di parlare con il ministro”.
Lui non mi ha risposto, ha riso. Forse sbaglierò ma mi sento in dovere di riferirti queste cose. Non credo
di essere la sola ad augurarmi la vittoria di Falcone; sono convinta che tanti altri colleghi, che come me
in questi anni si sono occupati di criminalità organizzata, siano del mio stesso parere. E comunque, anche
se fossimo una sparuta minoranza, tu hai il dovere, se la pensi come noi, di tutelarci con il tuo voto.
Come tu sai, ho presentato domanda per concorrere ai venti posti di sostituto, anche se ritengo di avere
pochissime chance considerato il massacro nei miei confronti che si sta operando da tanti mesi grazie
soprattutto all’atteggiamento di una parte della magistratura. Pur ritenendo giusta e necessaria la
normativa che ha previsto una Direzione centrale antimafia, avrei preferito restare a Milano a fare il mio
dovere; per dieci anni ho cercato di costruirmi una professionalità in questo settore per contribuire come
magistrato, come donna, come cittadino alla possibilità di vivere in un mondo migliore; l’ho fatto perché
avessi ancora il coraggio di guardare in faccia i miei figli pur avendo loro sacrificato tanto; ma non me
ne pento, sono pronta ad assumere le mie responsabilità nei confronti di Antonio e Alice.
Oggi questa possibilità mi è stata negata ingiustamente ma credendo ancora fortemente nella possibilità
di non convivenza con il sopruso e la violenza e ho deciso di “candidarmi”; se Giovanni non ce la farà
revocherò immediatamente la domanda e non certo per solidarietà ma perché sono consapevole che una
struttura può avere delle speranze di funzionare – e soprattutto questa, in un contesto storico così critico
– soltanto se a dirigerla vi sarà una persona dotata di capacità organizzative, di conoscenza del fenomeno
mafioso, di enorme professionalità, di conoscenza delle realtà regionali ad alto rischio e di quelle
oltrefrontiera, nonché di conoscenza personale degli appartenenti alle tre forze di polizia e la conoscenza
personale della quasi totalità dei colleghi appartenenti alle procure distrettuali. E soltanto Giovanni, tra le
candidature presentate, per la sua attività lavorativa di questi anni rappresenta il coagulo di tutte le
situazioni minimali da cui si può partire per avviare un meccanismo così difficile e complesso. Si è
conquistato i suoi meriti sul campo, diamogli la possibilità di provare e, se vuoi, per assurdo, anche di
sbagliare.
Su un dato, probabilmente, potremmo trovarci in accordo se avessimo il coraggio di ammetterlo: se
Falcone non ce la farà non sarà certo per aver meno meriti di quelli di Cordova, ma perché prevarrebbero
sentimenti quali la gelosia, l’invidia e il rancore anche se, per tacitare le coscienze, tutto questo verrebbe
giustificato da ragioni di opportunità di natura ideologica.
Perdona queste mie parole che non intendono in alcun modo condizionare la tua scelta di uomo libero;
qualsiasi decisione tu prenderai non farà venir meno l’enorme stima che nutro nei tuoi confronti. Voglio
concludere con la stessa domanda che ti ho esplicitato al telefono: chiediti se Totò Riina preferisca
Cordova o Falcone alla Direzione nazionale antimafia.
Con affetto,
Ilda
A un anno dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, tra maggio e luglio 1993
altre esplosioni per mano di Cosa nostra colpirono luoghi di cultura e chiese a
Roma, Firenze e Milano, provocando la morte di dieci persone.
14 maggio: Roma. Alle 21.37 in via Ruggero Fauro un composto di sostanze
esplosive deflagra al passaggio dell’auto di Maurizio Costanzo, obiettivo
dell’attentato, che resta fortunosamente illeso.
27 maggio: Firenze. All’1.24, in via dei Georgofili, accanto alla Torre del
Pulci esplode un ordigno nascosto dentro una Fiat Fiorino. Muoiono cinque
persone, tra cui una neonata di cinquanta giorni. Gravissimi i danni anche alla
Galleria degli Uffizi.
27 luglio: Milano. Intorno alle 23, in via Palestro esplode un’autobomba
vicino al Padiglione d’arte contemporanea, provocandone il crollo del muro
esterno. Rimangono uccise cinque persone.
28 luglio: Roma. Due autobombe esplodono a distanza di pochi minuti (alle
00.03 e alle 00.08) rispettivamente davanti alla basilica di San Giovanni in
Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro: ingenti i danni al patrimonio
artistico, restano ferite ventidue persone.
Eppure Milano, città colpita dall’esplosione in via Palestro e dalle sue cinque
vittime, sembrava non accorgersi di quella guerra, viveva una stagione di
successi, con i cittadini che riempivano le piazze inneggiando alle inchieste di
Mani pulite. L’atmosfera, almeno per come io la percepivo quando riuscivo a
tornare a casa, era di euforia collettiva: cadevano teste, si azzeravano i partiti,
una voglia di rivoluzione pervadeva gli animi, la città era piena di “W Di
Pietro”, la televisione trasmetteva i bagni di folla dei colleghi, nei corridoi della
procura bivaccavano in pianta stabile cameraman e giornalisti.
Io vivevo come spaccata in due: stavo male sia in Sicilia sia a Milano. Sentivo
l’odore della guerra che si stava combattendo e, in mancanza di risultati concreti
nonostante il lavoro enorme, nei momenti di sconforto invidiavo bonariamente i
colleghi milanesi del pool di Mani pulite. Ricordo di aver detto una volta a uno
di loro qualcosa come: “Vieni a Caltanissetta e tocca le carte: porti bene”.
Lavoravo in silenzio, chiusa nel mio ufficio nisseno, dove sarei potuta andare
in pigiama visto che non incontravo nessuno, a esclusione del dottor La Barbera
e degli investigatori con cui collaboravo.
Ero consapevole dell’abbrutimento fisico in cui potevo finire e così, per la mia
sopravvivenza, mi vestivo con cura: non ho mai più utilizzato tante creme per il
corpo come in quel periodo, sempre impeccabile anche quando la stanchezza e la
solitudine mi spingevano verso la sciatteria.
Venire a Milano, soprattutto al palazzo di giustizia, era come affrontare rumori
assordanti dopo un periodo di buio e di silenzio. Non mi era congeniale
quell’atmosfera, mi rendevo conto che un momento magico può produrre
eccessi, che era fondamentale mantenere i piedi per terra: la guerra di mafia non
era un problema squisitamente siciliano, anzi, Milano era una piazza importante
per capire quello che stava succedendo. Basti pensare che i fratelli Graviano,
all’epoca latitanti e poi riconosciuti mandanti delle stragi, vennero arrestati nel
febbraio 1994 proprio a Milano.
Nel novembre 1993 furono notificate le prime misure cautelari nei confronti
del commando esecutivo della strage di Capaci. Raccogliere tutti gli elementi
necessari non fu semplice: testa china sulle carte, istruttoria, verifica e
annullamento di false piste, spostamenti a Roma e a Palermo, viaggi in
elicottero, sempre in allerta per timore di altri attentati. Riuscii a scrivere la
richiesta in una notte, avevo ben presente il rischio concreto che anticipazioni di
stampa potessero danneggiare le indagini e favorire gli indagati a piede libero.
La collaborazione di due personaggi importanti coinvolti nella strage (indicati
nella misura come “omega” e “zeta”, in realtà Salvatore Cancemi e Santino Di
Matteo), opportunamente riscontrata, mi rese possibile procedere con rapidità,
ma che fatica!
Nella richiesta scrissi testualmente:
Giova fin da ora premettere che la presente richiesta prenderà in esame, quasi esclusivamente, le
posizioni di coloro che sono stati individuati come facenti parte del commando operativo che ha
organizzato ed eseguito la strage e in tale veste incaricati di:
– individuare il luogo più idoneo per l’esecuzione dell’attentato;
– determinare le basi di supporto logistico, utilizzate per le riunioni operative e per l’occultamento dei
materiali necessari al compimento dell’azione delittuosa;
– reperire l’esplosivo (e congegno d’innesco) utilizzato per l’evento;
– mettere a disposizione gli automezzi necessari per gli spostamenti dei singoli soggetti e per il trasporto
di tutto il materiale necessario per la buona riuscita dell’operazione;
– procurare i telefoni cellulari utilizzati, da un lato, per comunicazioni di tematiche interne ai membri del
commando e, dall’altro, per segnalare gli spostamenti del giudice Falcone, sia durante la permanenza
dello stesso in Roma sia al momento del suo arrivo all’aeroporto di Punta Raisi il giorno 23.05.1992.
Pertanto, non costituirà oggetto di esame, in questa prima fase delle indagini preliminari:
– né l’individuazione delle motivazioni che indussero i massimi vertici di Cosa nostra a rendere
esecutivo, proprio nel maggio ’92, il disegno di soppressione del giudice Falcone;
– né le responsabilità dei mandanti facenti parte del governo di Cosa nostra (la c.d. “Commissione”);
– né l’ipotesi che tale decisione sia stata il frutto di una convergenza d’interessi tra parti deviate delle
istituzioni e la stessa Cosa nostra.
Su tali spunti investigativi le indagini, da tempo avviate, continueranno il loro corso indipendentemente
dalle prime risultanze processuali oggetto della presente richiesta, che viene oggi avanzata da questa
procura distrettuale in quanto, essendosi raccolti indizi concreti a carico degli indagati in epigrafe, vi è il
rischio, concreto e tangibile, che le risultanze dell’attività istruttoria esperita vengano vanificate da una
pubblicizzazione anticipata di notizie in ordine all’adozione di provvedimenti restrittivi per i fatti per cui
si procede, con la conseguente possibilità che soggetti non detenuti si rendano irreperibili.
Nelle indagini che avrebbero portato ai primi arresti per la strage di Capaci, si
era rivelata molto importante la collaborazione di Gioacchino La Barbera,
catturato nel marzo 1993 insieme ad Antonino Gioè in un appartamento di via
Ughetti, a Palermo. I due vivevano in sostanziale clandestinità, anche se non
ancora raggiunti da alcun provvedimento giudiziario. Entrambi avevano preso
parte all’esecuzione dell’attentato.
La Barbera decise di cominciare a collaborare il 25 novembre 1993, pochi
giorni dopo la notifica della misura cautelare a suo carico. Le sue dichiarazioni
furono determinanti, dato che aveva partecipato a tutte le fasi della strage. Il
primo interrogatorio, il 2 dicembre 1993, avvenne a Roma, in un luogo segreto.
In quell’occasione La Barbera raccontò, sia pur sommariamente, come si erano
svolti i fatti quel maledetto 23 maggio.
Ricevetti sul mio cellulare la telefonata che segnalava l’arrivo della macchina del giudice sull’autostrada
per Punta Raisi. L’autovettura, come da accordi, venne seguita fino al punto in cui si aveva la certezza
matematica che imboccava l’autostrada che portava all’aeroporto. Non so dire chi materialmente effettuò
la telefonata, perché la conversazione durò poco e non riuscii a riconoscere la voce.
Il contenuto della telefonata era convenzionale, così come stabilito, nel senso che fu fatto il nome di una
persona e io risposi che avevano sbagliato.
Io mi trovavo nel casolare insieme a Gioè, Brusca, Biondino, Troia, Battaglia, Ferrante e il Salvatore.
Rampulla non c’era perché proprio quel sabato aveva chiesto di allontanarsi e difatti era stato con noi il
giorno precedente fino alla sera.
Appena ricevuta la telefonata, ognuno di noi assunse il compito prestabilito e cioè: Ferrante e il Salvatore
si diressero all’aeroporto di Punta Raisi, per dare conferma che effettivamente l’autovettura del giudice
era arrivata o stava per arrivare all’aeroporto; Gioè, insieme a Troia, andò a collocare la ricevente nel
tombino mettendo in funzione anche l’interruttore, dopodiché, insieme a Brusca e a Battaglia, si portò
nel luogo, lato montagna, da dove sarebbe stato azionato il telecomando; io, a bordo di una Delta
integrale di colore verde, mi portai in una strada parallela all’autostrada e mi fermai in una zona cui si
accede dal bar Johnny Walker, per l’esattezza dove c’era uno spiazzo ove di solito vengono parcheggiate
roulotte. Lì mi fermai e aspettai di vedere passare il corteo di auto del giudice Falcone.
Da dove ero posizionato avevo una visione totale dell’autostrada, e potevo quindi avvistare le autovetture
a occhio nudo. Io sapevo che l’autovettura del giudice Falcone era una Croma di colore bianco.
Quando avvistai l’autovettura, io che ero già in auto misi immediatamente in moto e seguii il corteo,
sulla strada parallela che costeggia l’autostrada.
Immediatamente telefonai al cellulare che sapevo in mano a chi stava sulla montagna; mi rispose Gioè.
La conversazione durò molto, per tutta la strada che costeggia e che arriva fino al Johnny Walker. Si
parlava del più e del meno, senza minimamente accennare a quello che stavamo facendo, per paura che
la telefonata venisse intercettata.
Io marciavo a una velocità analoga a quella delle auto in corteo, e cioè ottanta chilometri orari circa, di
gran lunga inferiore a quella calcolata facendo le prove su strada. Questo particolare è stato sicuramente
captato dal Gioè, perché, conoscendo la mia posizione e sapendo che dovevo terminare l’avvistamento
all’altezza del bar Johnny Walker, la durata della telefonata è stata tale che gli ha sicuramente consentito
di calcolare in quanto tempo l’autovettura sarebbe arrivata all’altezza dell’esplosione.
Arrivato all’altezza del bar sopramenzionato, ho smesso la comunicazione con Gioè, ho imboccato
l’autostrada in direzione Partinico e mi sono allontanato. Non ho avuto modo di sentire neanche da
lontano il “botto”.
A Capaci, il commando era già pronto a riceverlo, pur non avendo la certezza
che quel sabato Giovanni sarebbe tornato a Palermo. Certezza che ebbero dal
prelievo dell’auto blindata da parte di Costanza quando l’autista imboccò
l’autostrada in direzione dell’aeroporto, così come venne comunicato da
Calogero Ganci di vedetta in via Notarbartolo.
Gli uomini della morte a quel punto diventarono operativi, ognuno con il
proprio ruolo già assegnato. Il piccolo corteo delle auto era stato intercettato e
seguito per tutto il percorso, come ha riferito La Barbera: fatti fissati per sempre
dall’analisi dei tabulati delle utenze utilizzate dal commando.
ore 17.02: La Barbera Gioacchino riceve una telefonata dal cellulare intestato a “Ruisi G.G.” di
Utromkriano Sas Palermo della durata di 8 secondi;
ore 17.05: La Barbera riceve una telefonata dal cellulare intestato a Ferrante Giovan Battista, della durata
di 11 secondi;
ore 17.48: La Barbera riceve ancora una telefonata dal cellulare intestato a Ferrante Giovan Battista della
durata di 10 secondi;
ore 17.49: La Barbera chiama il cellulare intestato a Di Matteo Mario Santo, per 325 secondi;
ore 18.39: La Barbera riceve una telefonata dal cellulare intestato a Di Matteo Mario Santo; durata 25
secondi.
Ragioni di sicurezza hanno imposto che per diversi anni sotto la mia
abitazione stazionasse giorno e notte una volante con a bordo due agenti di
polizia. Nel quartiere, tutti sapevano che in quel palazzo di viale Monte Nero, a
metà strada fra piazza Cinque Giornate e Porta Romana, vivevamo io e i miei
figli. La presenza delle forze dell’ordine era gradita alla maggior parte dei
negozianti e dei vicini, ma evidentemente non a tutti faceva lo stesso effetto.
Non saprei dire se per rabbia verso quello che si poteva considerare uno sfoggio
di potere o per un assurdo malanimo verso di me (o, meglio, verso l’immagine
che di me veniva data), sta di fatto che a quell’indirizzo arrivavano lettere
anonime di minaccia, di insulti, di malaugurio. Oggi quei miserabili sarebbero
definiti “leoni da tastiera”, ma ancora non avevano una rete digitale a
disposizione, e perciò componevano e spedivano scritti che mi auguravano i
destini peggiori, ogni genere di malattia incurabile, immaginando di potermi
infliggere le violenze più perverse.
Essere repellente. Ti credi una giustiziera, guardati allo specchio e sputati in faccia. [...] un utero umano
non poteva concepirti. Io, impotente, non posso fare altro che odiare te e i tuoi compagni di merenda.
Volete solo distruggere chi dà lavoro solo perché è un vostro avversario politico! Tutte le mattine vado in
chiesa, accendo un cero alla Madonna e prego che ti faccia crepare dannata. [...] Mi auguro che tu non
possa trovare pace nemmeno nella tomba e verrà quel giorno: anche se ti credi la padrona del mondo
dovrai crepare e non avrai pace nemmeno con la benedizione del papa. Mi piacerebbe vederti saltare in
aria come è stato con quel poveretto di Falcone, poi morire dopo di te con la gioia di averti vista andare a
pezzi. Sei puzzolente, MARCIA, PUTREFATTA. TROIA. Speriamo che qualcuno si svegli e ti faccia
abbassare le arie che ti dai. Schifosa.
TU SEI FANGO PUZZOLENTE, DIFFAMATRICE. Povera Boccassini, sei ammalata al cervello, credi
di essere una grande donna. Non sei nessuno. Nessuno ti minaccia perché non vali niente. Sei gonfia,
brutta, piena di rughe e le tue collane di corallo ti fanno il collo grosso e corto. Evita la televisione, sei
oscena, così pure la tua voce stridula da cornacchia. Ecco, sembri nel fisico e nella voce una vecchia
cornacchia. TU SEI MERDA. Noi cittadini vi odiamo. Siete una categoria di ladri farabutti. Ci rubate un
sacco di soldi con il vostro stipendione e le cause comuni le ignorate protraendole per decenni.
Vergogna! Pagate con i nostri soldi le scorte ai delinquenti, alle donnacce come la invidiosa Ariosto e il
cittadino paga un sacco di tasse per mantenervi. Spero tanto che un giorno non lontano sia punita per la
tua maligna cattiveria, insieme a Colombo, brutto mantenuto occhialuto. Che la maledizione ricada su
ognuno della vostra spregevole categoria.
Una italiana vera
Anche il 1994, il mio ultimo anno a Caltanissetta, fu intenso e faticoso sia per
la mole di lavoro da cui ero sommersa, sia per il clima politico di profonda
incertezza che attanagliava il Paese. Le indagini di Mani pulite avevano azzerato
i partiti storici come la Democrazia cristiana e il Partito socialista, e nuove
formazioni si affacciavano sulla scena, prima fra tutte Forza Italia di Silvio
Berlusconi. I morti provocati dagli attentati dell’anno precedente a Firenze e
Milano, oltre a quelli delle stragi siciliane, turbavano le coscienze degli italiani e
si avvertiva un diffuso desiderio di cambiamento.
Un clima generale di instabilità che angosciava anche me, già provata dalla
responsabilità di chiudere entro l’anno le indagini sui vertici di Cosa nostra –
cioè sui membri della Commissione provinciale di Palermo e di quella regionale
– come mandanti della strage di Capaci. Contemporaneamente, peraltro, erano
state aperte le inchieste sull’ipotesi dei “mandanti occulti”, nel tentativo di
verificare se la stagione stragista fosse stata solo il frutto del feroce azzardo
corleonese oppure se ci fosse stata una convergenza di interessi tra Cosa nostra,
esponenti del mondo politico, finanziario, imprenditoriale e settori deviati delle
istituzioni.
Il primo a parlare dell’esistenza di contatti tra Salvatore Riina e “persone
importanti” non affiliate a Cosa nostra era stato Salvatore Cancemi, reggente del
mandamento di Porta nuova che aveva già raccontato di un dialogo con un altro
boss, Raffaele Ganci, capo mandamento della Noce. Cancemi e Ganci avevano
partecipato a una riunione preparatoria dell’attentato di Capaci, alla presenza di
Riina in persona. Cancemi aveva già precisato in altri interrogatori che la
conversazione con Ganci su queste figure “esterne” era avvenuta mentre
tornavano in auto da Capaci a Palermo e che il suo interlocutore non aveva fatto
i nomi delle “persone importanti” cui si riferiva: si era limitato a precisare che
non erano da cercare nel gotha di Cosa nostra e nemmeno in una sua
ramificazione perché, per l’appunto, non appartenevano al tradizionale mondo
mafioso isolano.
Un ulteriore interrogatorio di Cancemi era fissato per il 18 febbraio. Ma all’ora
indicata, nella caserma dei carabinieri scelta per l’incontro, il procuratore
Tinebra non c’era. Cercai di informarmi sui motivi di quel ritardo, per capire se
aspettarlo o meno, ma non ebbi alcuna notizia. Così decisi di cominciare da sola.
La prima domanda che rivolsi al collaboratore riguardava proprio quel dialogo
con Ganci sui rapporti tra Riina e le “persone importanti” non affiliate a Cosa
nostra. Speravo che gli fossero tornati in mente nuovi particolari su quella
conversazione... No, Cancemi non era in grado di aggiungere altro su quel breve
scambio ma, agganciandosi alla mia domanda, dopo una lunga premessa di
carattere generale sugli obiettivi dei Corleonesi, aveva cominciato a parlare di
Silvio Berlusconi. Ecco come.
Domanda: Nei precedenti verbali lei ha riferito di aver saputo da Raffaele Ganci che Salvatore Riina
avrebbe avuto un incontro con persone importanti prima che venisse ucciso il giudice Falcone.
Personaggi che avrebbero garantito a Riina la revisione dei processi. Conferma queste circostanze?
Risposta: Dottoressa Boccassini, quello che vi ho riferito è la sacrosanta verità. [...] Non posso che
confermare che il Ganci, tornando da Capaci, ove avevamo partecipato a una riunione preparatoria
dell’attentato in danno del giudice Falcone, in auto mi confidò quanto sopra. Ribadisco che il Ganci non
mi fece il nome delle persone importanti con cui Riina si incontrò, ma una cosa dev’essere chiara: queste
“persone importanti” non erano certo uomini di Cosa nostra, perché più importanti di Riina e Provenzano
non ce ne sono all’interno dell’organizzazione e quindi i personaggi con cui Riina si è incontrato li
dovete cercare fuori dall’organizzazione. [...] Ribadisco di non aver saputo da Ganci né in
quell’occasione né successivamente i nominativi dei personaggi importanti con cui Riina era sceso a
patti, né posso dire con onestà se poi questi discorsi si sono concretizzati, anche se però sono convinto
che purtroppo ciò si è verificato. Non deve sembrare cosa di poco conto per Salvatore Riina e per i
Corleonesi ottenere la revisione del processo perché con ciò otterrebbero la delegittimazione dei
collaboratori di giustizia. Voi sapete perfettamente l’enorme peso che hanno avuto Buscetta, Contorno e
gli altri [...]. Annullare il contributo dei pentiti per il passato significava che il futuro non avrebbe potuto
più prendere in considerazione la collaborazione di tutti i successivi adepti che intendevano assumere
atteggiamento di collaborazione con l’autorità giudiziaria. Se Salvatore Riina arriverà a ottenere delle
modifiche radicali a livello legislativo, per tutti noi collaboratori e per gli altri che potrebbero venire non
ci sarà più spazio.
Ovviamente verbalizzai tutto in fretta, perché intuivo il peso politico che quel
racconto avrebbe potuto assumere. Avevo già visto altre volte le reazioni che
provocavano in alcuni colleghi particolarmente prudenti argomenti così spinosi e
forieri di possibili, ulteriori spine. Mi era, cioè, capitato di assistere a tentativi di
smussare, di limare un’espressione troppo forte, un verbo troppo esplicito, di
riversare nei verbali il minor potenziale dirompente possibile, pur senza tradire
la lettera delle dichiarazioni raccolte. E quel giorno avevo il timore delle
eccessive “cautele” che sarebbero potute intervenire.
Quando il procuratore finalmente arrivò, il verbale era già in uno stadio molto
avanzato, ma io volli insistere nonostante dalla sua espressione e dal tono irritato
con cui mi chiese conto dell’attività che avevo svolto in sua assenza avessi avuto
la sensazione che il collega (e capo dell’ufficio da cui dipendevo in quei mesi)
non avesse gradito la mia iniziativa.
Domanda: Lei ricorda se ha avuto modo di assistere a consegne di denaro anche dopo la morte del
giudice Giovanni Falcone?
Risposta: No, ma posso dirvi con certezza, per averlo appreso dallo stesso Ganci, che le consegne sono
andate avanti almeno fino al suo arresto. [...]
Domanda: Tornando all’episodio di Ganci che le riferisce dell’incontro di Riina con “persone
importanti”: secondo lei, con quelle poche parole, Ganci ha lasciato intendere che l’obiettivo Falcone era
stato concordato?
Risposta: Voglio precisare ancora una volta che il discorso di Ganci non mi fu riferito da quest’ultimo
nel corso di un occasionale incontro tra di noi, bensì dopo che c’eravamo recati a una riunione operativa
per la preparazione dell’attentato in danno del giudice Falcone. Questo significa che Ganci, pur secondo
il suo stile – e cioè con poche parole –, mi aveva lanciato un messaggio ben preciso: dietro la morte di
quel magistrato c’era dell’altro. [...] Tutti sanno, e noi ne eravamo perfettamente consapevoli, che quel
magistrato era stato l’artefice dei processi contro Cosa nostra. Il giudice Falcone era stato condannato da
anni da Cosa nostra e doveva morire. Ma queste considerazioni non sono sufficienti per capire perché il
progetto è andato in esecuzione proprio nel maggio 1992 e dico questo perché Ganci mi ha fatto quel
discorso. Potrei usare una frase che forse rende bene il mio pensiero: “Sono stati presi due piccioni con
una fava”. Da un lato Riina ha eliminato un suo nemico personale, dall’altro questo suo interesse è
coinciso con l’interesse di altri. Agli occhi dell’organizzazione sia per i carcerati sia per quelli fuori
appariva più che normale, anzi più che giustificata, l’eliminazione del giudice Falcone. Vi era stata la
sentenza del maxiprocesso e le condanne quindi erano diventate definitive. Non sottovalutate – ve lo
ripeto ancora una volta – quanto fosse fondamentale per Salvatore Riina ottenere la delegittimazione dei
pentiti, annullare quindi la normativa premiale, ecco perché sono da considerare importantissime quelle
parole di Ganci per capire tutti i moventi che hanno determinato la morte di quel magistrato. [...] Questa
non è una mia deduzione ma è la verità. Quante volte ho sentito Riina dire: “Pure i denti mi iuoco (pure i
denti mi gioco)”, intendendo riferirsi all’annullamento della legislazione premiale sui collaboratori di
giustizia. Per queste ragioni sono certo che le bombe di Firenze, di Milano e Roma (basilica di San
Giovanni e chiesa di San Giorgio in Velabro) siano da mettere in relazione a questo progetto e che quindi
gli obiettivi da colpire siano stati “suggeriti” a Riina e Provenzano. In questi casi non si voleva fare
danno e le morti che pure ci sono state sono da considerarsi del tutto casuali. Considerate che
l’espressione “mi gioco i denti” è molto forte, perché i denti sono una cosa preziosa, senza i quali non si
può mangiare e quindi vivere.
“Ecco perché io dico,” era stata la conclusione di Cancemi, “che gli interessi
di Riina sono coincisi con gli interessi di quelle persone importanti cui ha fatto
riferimento Raffaele Ganci.”
In buona sostanza, Cancemi aveva dichiarato, verbalizzato e sottoscritto che
fino al luglio 1993 un intermediario di Cosa nostra si era adoperato per far
transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro
provenienti da Silvio Berlusconi; ci aveva detto il nome del tramite palermitano
e la complicata procedura usata per la consegna; Cancemi inoltre aveva
personalmente assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire
in banconote usate raccolte in buste di plastica. Il collaboratore era certo che tali
consegne fossero ancora in corso e, infine, escludeva che quei passaggi di denaro
costituissero una “normale” estorsione pagata per far lavorare le “antenne”
berlusconiane dislocate in Sicilia. A suo giudizio, quelle elargizioni facevano
parte di un rapporto del tutto speciale che legava l’imprenditore milanese al capo
dei capi della mafia, Totò Riina.
Con i fatti riferiti e con le sue valutazioni, quindi, Cancemi offriva uno spunto
investigativo da coltivare, innanzitutto per verificare se aveva detto il vero a
proposito di scenari tanto delicati e potenzialmente esplosivi. Non solo era
necessario indagare a fondo, ma anche farlo subito, senza perdere un minuto.
Alla lettura delle dichiarazioni di Cancemi e alle mie argomentazioni il
procuratore Tinebra si era mostrato contrariato ma, messo di fronte a un verbale
firmato e controfirmato, aveva acconsentito a dare il via a quel filone di indagini
insistendo perché venissero condotte nella massima segretezza, dato che
coinvolgevano niente meno che il leader di Forza Italia, il partito appena nato e
presentato in tv pochi giorni prima con il famoso messaggio in cui Berlusconi
annunciava la sua “discesa in campo”: “L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le
mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti...” ecc.
Obiettivo principale delle indagini era, ovviamente, il boss Pierino Di Napoli
perché attraverso di lui – sempre che le circostanze riferite da Cancemi fossero
risultate veritiere – si sarebbe potuto documentare il passaggio di denaro a favore
di Riina. Su Di Napoli, a piede libero perché formalmente incensurato, venne
organizzato un servizio di osservazione costante, affidato al capitano Ultimo e
alla sua squadra.
Benché libero, il boss di Malaspina si muoveva con estrema circospezione, e
per comunicare usava cabine telefoniche nonostante possedesse un apparecchio
cellulare. Non si accorse mai, comunque, di essere controllato ed eravamo
fiduciosi negli sviluppi dell’operazione, avendo rapidamente individuato e
messo sotto controllo i luoghi che frequentava e le persone con cui si
accompagnava. Insomma, la rete era stata gettata, ma la quantità di pesci che
saremmo riusciti a catturare dipendeva dall’efficienza degli uomini che lo
seguivano come ombre, e – perché no – anche da un po’ di fortuna.
Per questo rimasi sconcertata e annichilita quando, solo pochi giorni dopo,
l’effetto sorpresa su cui molto contavamo venne spazzato via da un articolo
comparso su “Repubblica” a firma di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo.
Rimasi sgomenta non solo per il vantaggio che i mafiosi avrebbero acquisito su
di noi, ma soprattutto perché – data la delicatezza dei temi trattati – quelle dodici
pagine di verbale d’interrogatorio di Cancemi non erano state fotocopiate né
consegnate a nessuno, nemmeno alle forze dell’ordine con cui operavo. Gli
stessi colleghi di Caltanissetta non ne avevano voluto una copia e l’originale era
chiuso nella cassaforte del mio ufficio. Avevo avuto cura di non riportare brani
delle dichiarazioni del collaboratore nemmeno nella delega alla polizia
giudiziaria per attivare l’azione investigativa. Per farla breve, oltre che nella mia
cassaforte, copia di quel verbale era stata trasmessa soltanto alle due procure,
Palermo e Firenze, che indagavano sulle stragi.
Dalla lettura dell’articolo di “Repubblica” appariva chiaro – soprattutto se si
conoscevano le dichiarazioni verbalizzate e il contenuto della delega alla polizia
giudiziaria – che i giornalisti erano in possesso di entrambi i documenti, o
quanto meno li avevano letti. Ma come era stato possibile? Chi aveva aperto una
falla nell’assoluta riservatezza di quella delicatissima investigazione?
A Peppe D’Avanzo, uno dei due firmatari dell’articolo, mi ha legato un
rapporto di grande amicizia. Pur nei limiti dei rispettivi ruoli, data la sua
preparazione, intelligenza e conoscenza dei temi politico-giudiziari, i nostri
confronti e le nostre conversazioni erano momenti di reciproco interesse. Oltre a
ciò, anche le nostre famiglie si frequentavano. Insomma, Peppe è stata una
persona importante nella mia vita e la sua scomparsa improvvisa mi ha
profondamente segnata. La sua sapienza mi manca almeno quanto le nostre
vulcaniche, vicendevoli incazzature. Capitava spesso, nei nostri incontri, che il
dialogo planasse sul periodo stragista, sui tanti interrogativi rimasti irrisolti, sulla
figura di Giovanni. Altrettanto spesso, anche dopo anni, ho sollecitato Peppe
perché mi indicasse la fonte che aveva ispirato e reso possibile la stesura di quel
maledetto articolo con il quale aveva vanificato – facendo il suo mestiere, lo so
bene – una pista che avrebbe potuto portarci molto lontano. Ma, nonostante la
stima e l’amicizia che ci legavano, Peppe ha sempre lasciato cadere il discorso
su quell’oscura vicenda, non mi ha mai voluto rivelare alcun dettaglio né indizio.
Finché una sera, proprio pochi giorni prima della sua morte improvvisa
(avvenuta il 30 luglio 2011), alla mia ennesima sollecitazione, finalmente mi
raccontò cos’era avvenuto diciassette anni prima. Perché si fosse deciso a farlo,
sinceramente non lo so, forse oggi lo saprei se la morte non se lo fosse portato
via. Ma quella fu l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a casa mia, seduti sui
divani uno di fronte all’altra. Sul tavolo le mie sigarette, i suoi sigari e il suo
bicchiere di whisky con il ghiaccio. Il suo racconto – che riferirò omettendo i
nomi – mi lasciò di sasso. Eccolo.
In una tiepida notte romana del marzo 1994, era squillato il telefono di casa
D’Avanzo. Peppe aveva risposto e, con suo grande stupore, aveva sentito
dall’altra parte una voce che ben conosceva ma che aveva qualcosa di inusuale.
Il tono era basso, grave e anche l’ora della telefonata era insolita. Ma ancora più
stupefacente era stata la richiesta ricevuta: “Peppe, vieni subito da me. Devo
parlarti di una cosa importante”. Impossibile dire di no. D’Avanzo era uscito in
fretta da casa, era salito su un taxi e dieci minuti dopo suonava all’appartamento.
L’uomo – ricordò Peppe – era scosso, turbato, “aveva gli occhi lucidi, che
testimoniavano una sorta di disperazione mista a paura che mi ha colto di
sorpresa”. D’Avanzo proprio non si aspettava né sapeva spiegarsi una tale
agitazione in una persona nota a tutti per l’aplomb, la razionalità, l’estrema
freddezza anche nei frangenti più delicati e pericolosi, con una sperimentata
capacità di controllare le emozioni: “Eppure era lì, proprio davanti a me, con le
lacrime agli occhi e delle carte in mano. Ne ho letto velocemente il contenuto e
mi sono appuntato qualche frase. Non mi ha lasciato nulla in mano e me ne sono
andato subito dopo, senza parole”.
Anch’io, a quel racconto, ero rimasta senza parole, con la testa piena di
domande e nessuna risposta. Non c’è dubbio che la persona che si era rivolta a
Peppe era consapevole del danno che sarebbe derivato alle indagini dalla
pubblicazione del verbale di Cancemi, né ho mai dubitato della genuinità del
racconto di D’Avanzo, uomo e professionista non incline all’esagerazione o
addirittura all’invenzione.
Niente nomi, perché Peppe non c’è più e perché il suo interlocutore mi
conosce bene. Forse sarebbe importante per tutti se volesse confrontarsi sui
motivi che lo hanno spinto ad agire in quel modo.
Risultato dell’articolo, comunque, era stato che Pierino Di Napoli era
diventato immediatamente uccel di bosco. Con il che era sfumata ogni possibilità
di intercettare il misterioso “emissario del Nord” e documentare in tempo reale
le consegne di denaro a Ganci o a chi per lui. Quel filone si inaridì in poco
tempo, proprio negli stessi primi giorni del 1994 in cui lo scenario politico e
giudiziario del Paese veniva attraversato da eventi di grande importanza, che
meritano di essere elencati in ordine cronologico.
Il 23 gennaio (la data esatta l’avremmo saputa solo nel 2008 dalle rivelazioni
di Gaspare Spatuzza) era fallito un altro attentato. Il progetto prevedeva di far
esplodere ordigni potenziati con chiodi e bulloni per colpire in pieno giorno
tifosi e forze dell’ordine nei pressi dello stadio Olimpico, al termine della partita
Roma-Udinese. Benché programmato già dal novembre precedente, l’ordine di
agire proprio il 23 fu impartito da Giuseppe Graviano a Spatuzza solo qualche
giorno prima, in un incontro avvenuto al bar Doney di Roma. Se l’atto non fosse
fallito per un guasto al telecomando, avrebbe provocato centinaia di vittime tra
tifosi e forze dell’ordine, come del resto anticipato da alcune lettere anonime
recapitate ai maggiori quotidiani nazionali intorno al luglio ’93, in concomitanza
con le tre esplosioni (notturne) a Milano e Roma. A imbucare le missive – che
sarebbero poi risultate identiche nel contenuto – era stato mesi prima lo stesso
Spatuzza, su disposizione dei Graviano. L’annuncio era agghiacciante: “Tutto
quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe,
informiamo la Nazione che le prossime a venire andranno collocate soltanto di
giorno e in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite
umane. PS: Garantiamo che saranno a centinaia”.
Ma proseguiamo con la nostra cronologia.
Il 26 gennaio Silvio Berlusconi annunciava la sua “discesa in campo” come
leader di Forza Italia; il 18 febbraio verbalizzavo le dichiarazioni di Cancemi; il
7 marzo gli inquirenti fissavano in un provvedimento giudiziario
l’organigramma completo del vertice di Cosa nostra al momento dell’attentato di
Capaci. Due settimane dopo, il 21 marzo 1994, usciva su “Repubblica” l’articolo
di Bolzoni e D’Avanzo sui finanziamenti “nordisti” a Cosa nostra. Infine, il 27 e
28 marzo si erano tenute le elezioni politiche, vinte dalla compagine di centro-‐
destra, con un trionfo personale di Berlusconi e Forza Italia, che faceva il pieno
nel capoluogo siciliano, sbancava a Caltanissetta e a Siracusa, vinceva a Catania,
stravinceva a Messina. Un travaso di voti da tutti i partiti tradizionali, ormai
agonizzanti dopo la ramazzata di Tangentopoli, a favore della neonata
formazione creata dall’imprenditore lombardo. Oltre ogni previsione, oltre ogni
pronostico.
Il governo Berlusconi rimase in carica dal 10 maggio 1994 al 17 gennaio
1995: tra i suoi ministri, alla Difesa c’era Cesare Previti, l’avvocato romano
della Fininvest, vicinissimo allo stesso Berlusconi. All’epoca Previti era per me
un emerito sconosciuto, che avrei purtroppo imparato a conoscere al mio rientro
a Milano. E con la vittoria del centro-destra era addirittura in lizza per diventare
ministro della Giustizia.
Dunque, il 7 marzo 1994 erano state notificate le ordinanze cautelari nei
confronti dei mafiosi membri della Commissione provinciale di Palermo che alla
data del 23 maggio 1992 era composta da: Salvatore Riina e Bernardo
Provenzano per il mandamento di Corleone; Matteo Motisi per il mandamento di
Pagliarelli; Pietro Aglieri per il mandamento della Guadagna; Salvatore
Biondino (in sostituzione di Giacomo Gambino) per il mandamento di San
Lorenzo; Filippo e Giuseppe Graviano per il mandamento di Brancaccio;
Giuseppe Montalto (in sostituzione di Salvatore Montalto) per il mandamento di
Villabate; Michelangelo La Barbera (in sostituzione di Salvatore Buscemi) per il
mandamento di Boccadifalco; Francesco Di Trapani (in sostituzione di
Francesco Madonia) per il mandamento di Resuttana; Salvatore Cancemi (al
posto di Giuseppe Calò) per il mandamento di Porta nuova; Raffaele Ganci per il
mandamento di Noce; Giovanni Brusca (in sostituzione del padre Bernardo) per
il mandamento di San Giuseppe Jato; Antonino Geraci per il mandamento di
Partinico; Benedetto Spera per il mandamento di Belmonte Mezzagno; Giuseppe
Farinella per il mandamento di Ganci; Antonino Giuffrè per il mandamento di
Caccamo-Termini Imerese.
Avrei risparmiato al lettore un elenco tanto dettagliato e puntiglioso se questo
gruppo di criminali non avesse un interesse che definirei storico. Perché sono
queste le persone che hanno dato il via libera all’omicidio di Giovanni Falcone,
un’azione talmente clamorosa da richiedere l’approvazione di ciascun membro
della Commissione.
Nel periodo successivo alle elezioni di fine marzo, ebbi anche modo di notare
il mutato atteggiamento del procuratore Tinebra nei miei confronti. Pur
trattandomi, come di consueto, con affetto e simpatia, capivo chiaramente che la
scadenza ormai prossima della mia applicazione siciliana, nell’ottobre ’94, era
vissuta come una sorta di liberazione.
Nelle settimane successive, inoltre, Tinebra mi fece capire nei suoi soliti modi
“soft” che era meglio non mi intromettessi sul fronte “magistrati collusi” (le
rivelazioni di diversi collaboratori avevano dato origine a più fascicoli), così
come nei procedimenti relativi ai rapporti tra massoneria e Cosa nostra. Il
procuratore avrebbe preferito che non continuassi a occuparmi della ricerca di
eventuali mandanti occulti delle stragi, ma su questo ero stata irremovibile e
glielo chiarii senza giri di parole: avrei indagato anche in quella direzione fino
all’ultimo giorno della mia applicazione.
Con queste premesse, si può intuire facilmente come gli ultimi mesi nisseni
siano stati molto difficili. Mi sentivo osservata, per non dire controllata, dai
colleghi, e percepivo un clima di ostilità che diventava ogni giorno più tangibile,
fino a raggiungere il culmine con la scelta di collaborare fatta da Vincenzo
Scarantino.
13.
La prima audizione sul caso Scarantino
Allo scopo di impostare l’ulteriore attività investigativa da compiere nel proc. pen, nr. 2430/A/93 si
sottopone all’attenzione dei colleghi il seguente promemoria corredato di specifiche proposte operative.
1. Dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in data 06.09.94.
Lo Scarantino ha dichiarato che:
– alla riunione svoltasi nei primi giorni del luglio ’92 in casa Calascibetta parteciparono anche Cancemi
Salvatore, La Barbera Gioacchino, Di Matteo Santo e Ganci Raffaele;
– Di Matteo Santo aveva partecipato anche alla predisposizione dell’autobomba il giorno 18.07.92 presso
il garage di Orofino;
– Cancemi Salvatore era da lui ben conosciuto per averlo incontrato in più occasioni (all’interno della
pizzeria Fontanella di Salvino Ingrassia; dentro il bar Olimpia della Guadagna, circostanza nella quale gli
era stato indicato con le generalità complete da suo cognato Profeta Salvatore; più volte all’interno della
bottega di Salvatore Profeta; in occasione di un incontro del Cancemi suddetto con Profeta Salvatore e
Pipitone Antonino in zona Villagrazia);
– Cancemi Salvatore il giorno della riunione in casa Calascibetta portava i baffi;
– Di Matteo era pure da lui ben conosciuto fin dagli anni ’87-88 per averlo incontrato una prima volta
alla Guadagna mentre era in compagnia di Pietro Aglieri e Francesco Marino Mannoia; per averlo
successivamente rivisto sempre alla Guadagna in compagnia di Pietro Aglieri che glielo aveva presentato
come “Santineddu”; per averlo più volte notato nella bottega di Profeta Salvatore e visto circolare alla
guida di una Panda azzurra e di un ciclomotore Peugeot; per averlo alla fine del 1991 accompagnato a
una riunione di uomini d’onore in casa di Profeta Salvatore;
– Di Matteo il giorno della riunione in casa Calascibetta aveva la barba;
– La Barbera era pure da lui ben conosciuto per averlo visto la prima volta alla Guadagna in compagnia
di Pietro Aglieri prima che questo si desse alla latitanza e, successivamente, più volte in vari ritrovi
pubblici dello stesso quartiere; per averlo infine incontrato circa un anno prima dell’arresto di esso
Scarantino al bar Giallo di Villagrazia in compagnia di Pietro Aglieri;
– del La Barbera aveva più volte sentito parlare da Carlo Greco e Pietro Aglieri che nei loro discorsi lo
indicavano ora con il nome ora con il cognome;
– Di Matteo era stato da lui ben osservato in occasione della riunione in casa Calascibetta, dato che del
Di Matteo avevano parlato, durante l’attesa, Pinuzzu La Mattina e Natale Gambino, peraltro indicandolo
come un esperto in bombe, e in quanto alla fine della riunione aveva salutato lui con una pacca sulla
spalla e aveva abbracciato il La Mattina e il Gambino;
– non aveva precedentemente indicato Cancemi, Di Matteo e La Barbera tra i presenti alla riunione, pur
essendo certo della loro identità, perché, trattandosi di collaboratori di giustizia ormai accreditati i quali
avevano taciuto la loro responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio, aveva temuto che le autorità
potessero non prestare fede alle sue dichiarazioni.
Nell’interrogatorio in esame lo Scarantino:
– riconosceva Cancemi nella fotografia diffusa più volte dagli organi di stampa, che ritrae il Cancemi
con i baffi (trattasi della foto ritraente Cancemi al momento della sua costituzione avvenuta nel luglio
’93);
– attribuiva reiteratamente a Di Matteo Santo l’identità di La Barbera Gioacchino, individuando, inoltre,
elementi di somiglianza tra il Di Matteo e Ferrante Giovan Battista, invero inesistenti;
– identificava in Di Matteo Santo, Rampulla Pietro.
***
2. Dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in data 12.09.94.
Lo Scarantino ha dichiarato che:
– durante la riunione in casa Calascibetta aveva sentito il La Mattina e gli altri giovani che attendevano
fuori dal salone fare espresso riferimento a La Barbera Gioacchino;
– ad Andriotta Francesco aveva confidato tutte le circostanze a lui note concernenti la strage di via
D’Amelio, in esse comprese quelle relative alla responsabilità del Cancemi, del La Barbera e del Di
Matteo, indicando quest’ultimo come uno “con le corna dure”, esperto in esplosivi e aduso a parlare un
dialetto meno marcato del suo.
***
3. Dichiarazioni rese da Andriotta Francesco in data 16.09.94.
Andriotta ha dichiarato che:
– Scarantino Vincenzo gli aveva parlato di un Matteo o Mattia, persona che non parlava in dialetto
palermitano e che era esperta in esplosivi;
– lo stesso Scarantino gli aveva riferito di essere stato presente a una riunione alla quale avevano
partecipato personaggi di spicco di Cosa nostra durante la quale era stata decisa l’eliminazione del
giudice Borsellino, lasciando intendere di essere in grado di ricordare particolari concernenti lo
svolgimento di detta riunione.
***
4. In data 29 e 30 settembre 1994, La Barbera Gioacchino prima e, quindi, Salvatore Cancemi
respingevano le accuse di Scarantino Vincenzo, confutando tutte le dichiarazioni con le quali questi
aveva circostanziato la chiamata in correità (con la eccezione della conferma da parte del La Barbera di
un fatto criminoso effettivamente non noto ma che poteva essere stato indirettamente conosciuto dallo
Scarantino).
La Barbera Gioacchino, tra l’altro, affermava con assoluta sicurezza che Di Matteo Santo non aveva mai
portato barba o baffi.
Sempre in data 30.09.94 veniva interrogato Di Matteo Santo che si rifiutava, però, di rispondere alle
domande dell’ufficio.
***
5. Dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in data 05.10.94.
Nuovamente interrogato, Scarantino Vincenzo dichiarava:
– di avere effettivamente conosciuto Cancemi, La Barbera e Di Matteo nelle occasioni riferite nei
precedenti interrogatori, ma di non aver mai avuto modo di osservarli attentamente, per innata timidezza;
– di aver potuto osservare solo per brevissimi attimi ed esclusivamente di profilo le persone partecipanti
alla riunione;
– di avere creduto di riconoscere in uno dei presenti Salvatore Cancemi;
– di avere udito il La Mattina e Gambino Natale accennare alla presenza tra i convenuti di tali
“Santineddu” e “Iachinu”, persone delle quali non erano stati, però, pronunciati i cognomi;
– di avere avuto, soltanto dopo l’inizio della sua collaborazione, l’occasione di esaminare le fotografie
dei tre collaboratori e di avere creduto di riconoscere in essi tre delle cinque persone partecipanti alla
riunione che non era riuscito inizialmente a identificare;
– di essere pronto ad ammettere che l’identificazione dei tre collaboratori poteva essere stata il frutto di
una errata impressione;
– di poter confermare, invece, il riconoscimento di Raffaele Ganci, persona che aveva senz’altro
partecipato alla riunione in casa Calascibetta e che da lui non era stata in un primo momento indicata
all’autorità procedente per il timore di rappresaglie nei confronti della sua famiglia che lo stesso Riina
non avrebbe avuto la possibilità di ordinare (non avendo fin qui assunto analoghe iniziative nei confronti
dei famigliari del collaboratore Marchese Giuseppe);
– di aver fatto ad Andriotta Francesco i nomi dei tre collaboratori ma non in relazione alla consumazione
di specifici fatti criminosi.
***
6. In data 06.10.94 veniva interrogato Di Matteo Mario Santo che, respingendo le accuse dello
Scarantino, confutava tutte le sue dichiarazioni dirette a circostanziare le occasioni di loro pregressi
rapporti (affermando, tra l’altro, di non aver mai circolato alla guida di una Fiat Panda o di ciclomotori) e
osservava, quanto alla presunta riunione in casa Calascibetta, che già sulla base di argomenti logici
poteva essere revocato in dubbio che la riunione si fosse svolta e che in ogni caso mai egli avrebbe
potuto sedere allo stesso tavolo con Riina Salvatore per partecipare alla deliberazione di un fatto di
sangue così grave come la strage di via D’Amelio.
***
Tutti e tre i collaboratori hanno negato di aver mai conosciuto Scarantino Vincenzo e hanno chiesto di
essere messi a confronto con lo stesso.
Sulla base degli atti fin qui assunti è ragionevole affermare che le dichiarazioni di Scarantino Vincenzo
nella parte relativa alla partecipazione alla riunione deliberativa della strage del Cancemi, del La
Barbera, del Di Matteo e del Ganci Raffaele non sono attendibili, ove si consideri che:
a) dopo esitazioni e ondeggiamenti (che sono ulteriore prova di una condotta processuale non ispirata a
linearità) lo Scarantino ha affermato, negli interrogatori del 6 e 12 settembre, di avere riconosciuto con
certezza tra i partecipanti alla riunione del luglio ’92 i tre collaboratori di giustizia, trattandosi di persone
che gli erano ben note per avere egli avuto con le stesse ripetute occasioni di contatto nel corso di molti
anni;
b) ha, in particolare, riferito di essere stato cordialmente salutato dal Di Matteo subito dopo la riunione;
c) non ha tuttavia riconosciuto fotograficamente Di Matteo Santo, confondendolo con il La Barbera
prima, identificandolo poi in Rampulla Pietro e giudicandolo, infine, somigliante a Ferrante Giovan
Battista che al Di Matteo, come a Rampulla Pietro, non somiglia affatto;
d) ha indicato il Di Matteo come persona nota negli ambienti di Cosa nostra per essere esperta di
esplosivi, in particolare affermando (interrogatorio del 06.09.94) che proprio il giorno della riunione,
mentre si trovava in attesa con Murana, La Mattina e altri, da questi ultimi aveva appreso che Di Matteo
era un esperto in “botti”, laddove l’incompetenza del suddetto Di Matteo in tale materia è da ritenere
conclamata;
e) ha attribuito a Cancemi e a Di Matteo, con riferimento al momento in cui si sarebbe svolta la riunione
in casa Calascibetta, connotati fisici non rispondenti alla realtà;
f) ha, quindi, pur riaffermando di avere ben conosciuto i tre collaboratori di giustizia, incredibilmente
asserito di non aver mai potuto fissare nella memoria le loro fisionomie, aggiungendo, altrettanto
incredibilmente, di avere soffermato lo sguardo sui partecipanti alla riunione soltanto per pochi istanti;
g) ha dichiarato di aver avuto occasione di esaminare fotografie dei tre collaboratori soltanto dopo
l’inizio della sua collaborazione con l’autorità, mentre aveva prima affermato di avere visto una
fotografia di La Barbera Gioacchino durante la sua detenzione;
h) ha fornito una giustificazione risibile sul silenzio precedentemente mantenuto in ordine alla
partecipazione alla riunione di Ganci Raffaele, apparendo del tutto inverosimile, sulla base delle
conoscenze a oggi acquisite sulle regole interne di Cosa nostra, che il Ganci avesse potuto assumere
autonomamente la decisione di eliminare dei parenti del collaboratore di giustizia senza chiedere il
preventivo assenso di Riina e Provenzano, ipotesi ammissibile solo a prezzo di una radicale
reinterpretazione del ruolo fin qui attribuito al gruppo egemone corleonese. (Sul punto va peraltro
osservato che intanto può essere ritenuta per vera la chiamata di correità dello Scarantino nei confronti di
Ganci Raffaele, in quanto si sia disposti a revocare in dubbio l’attendibilità di tutte le dichiarazioni fin
qui rese da Cancemi Salvatore de relato, perché fondate su confidenze ricevute dal Ganci. Se invero il
Ganci avesse mentito al Cancemi in ordine al ruolo avuto nella strage di via D’Amelio, dovrebbe essere
riconsiderato l’assunto di Cancemi Salvatore secondo cui vanno ritenute assolutamente attendibili quelle
sue accuse che hanno come fonte originaria Ganci Raffaele, per essere egli certo del fatto che il Ganci gli
ha sempre detto il vero sui fatti di Cosa nostra);
i) ha dichiarato di aver parlato ad Andriotta Francesco di Cancemi, La Barbera e Di Matteo come di
persone rappresentative di Cosa nostra, senza aver fatto specifico riferimento alla loro partecipazione a
fatti delittuosi, dopo avere riferito che all’Andriotta aveva invece confidato del ruolo avuto dai tre nella
preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio.
***
L’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage
di via D’Amelio – prima affermata come certa e poi come possibile – di Cancemi, La Barbera e Di
Matteo (ma anche di Ganci Raffaele) suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di
tale collaboratore, anche perché lo stesso ha nel corso della sua recente collaborazione modificato la
propria posizione in ordine a una circostanza che, avuto riguardo ai limiti circoscritti del contributo
causale da lui fornito per l’esecuzione della strage, assume estremo rilievo.
Sin dal primo momento lo Scarantino aveva infatti dichiarato che, allorquando gli era stato commesso
l’incarico di reperire un’autovettura di piccola cilindrata da impiegare per la strage, egli era già in
possesso di una Fiat 126 rubata fornitagli da Candura Salvatore; nelle dichiarazioni rese in data 12.09.94
ha invece affermato di avere commissionato al Candura il furto dell’autovettura dopo aver ricevuto
l’incarico sopra indicato.
Tutto ciò premesso, si deve ritenere assolutamente indispensabile ai fini dell’accertamento della verità
(sull’intera dinamica della strage di via D’Amelio: vanno attentamente considerati infatti gli interrogativi
posti da Di Matteo Santo sulla possibilità concreta dello svolgimento di una riunione come quella che,
secondo il primo assunto dello Scarantino, si sarebbe tenuta in casa di Calascibetta Giuseppe) procedere
quanto prima a nuovo interrogatorio di Scarantino Vincenzo allo scopo di contestare analiticamente al
medesimo, sulla scorta degli atti del procedimento, le contraddizioni intrinseche delle sue precedenti
dichiarazioni e di contestargli altresì le dichiarazioni rese il 29 e 30 settembre e il 6 ottobre
rispettivamente da La Barbera Gioacchino, Cancemi Salvatore e Di Matteo Santo (le quali ultime
avrebbero potuto più opportunamente essere assunte prima e non dopo l’interrogatorio di Scarantino
Vincenzo del 5 ottobre), procedendo in ultimo – e soltanto in ultimo – a eventuale nuovo interrogatorio
di Andriotta Francesco.
Rinviare il compimento dei necessari atti di investigazione potrebbe avere come effetto, invero, quello di
lasciare allo Scarantino – al momento attestato sulla vaga ed equivoca posizione di un possibile (triplice)
errore di persona – una via aperta verso nuove piroettanti rivisitazioni dei fatti e di rendere possibile,
attesa l’imminenza del primo dibattimento concernente la strage di via D’Amelio, la verifica delle sue
dichiarazioni in una sede indubbiamente sfavorevole sotto il profilo delle dinamiche processuali alla
pubblica accusa, con gravi conseguenze e negli stessi procedimenti relativi alla strage di via D’Amelio e
in tutti quelli fondati sulle dichiarazioni di Cancemi Salvatore, La Barbera Gioacchino e Di Matteo
Santo.
Caltanissetta, lì 12.10.1994
I sostituti – Ilda Boccassini e Roberto Saieva
Roberto e io eravamo comunque fiduciosi che, confrontandoci con i colleghi e
il procuratore, saremmo arrivati a una visione comune. Purtroppo le cose
andarono diversamente. A cominciare dalla riunione del 13, che fu annullata
all’ultimo momento e quindi nuovamente convocata per il 14 ottobre, cioè
proprio il giorno del mio rientro a Milano, al termine dell’applicazione. Si sarà
certamente trattato di una sfortunata coincidenza, che comunque impedì il
confronto tra i colleghi. Un vero peccato...
A ogni modo, l’impossibilità di riunirci come previsto mi indusse a scrivere
una seconda relazione, stavolta per indicare senza reticenze i punti di contrasto
con l’ufficio e sottolineare con la consueta franchezza la necessità, almeno a
partire da quel momento, di procedere agli interrogatori esclusivamente con le
forme imposte dal Codice. Ero stata testimone, infatti, di episodi che a mio
avviso non rispettavano i vincoli deontologici e le norme procedurali. Per
esempio, era capitato che Scarantino avesse momenti di chiusura, fosse
recalcitrante o addirittura mostrasse la volontà di ritrattare. Al che Tinebra si
appartava con lui e dopo un po’ il collaboratore, di nuovo pronto per essere
interrogato, filava via dritto senza più incertezze.
Non so quali fossero gli argomenti utilizzati da Tinebra per convincerlo.
Quello che so è che questo particolare approccio tra inquirente e indagato non
era ai miei occhi per nulla trasparente. E non ho esitato a dichiararlo, pronta a
nuovi strali e nuove critiche di protagonismo. Ma era il minimo che potessi fare.
Lo pensavo allora, lo penso ancora adesso.
[...] La mia applicazione a questa procura scadrà, come è ben noto, tra pochi giorni, [...] ciò mi impedirà,
com’è ovvio, di dare un significativo contributo all’impostazione delle attività che l’ufficio dovrebbe
programmare con riguardo alle indagini e ai dibattimenti dei procedimenti penali; quelli relativi, debbo
presumere, alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. [...]
Consapevole della temporaneità della mia applicazione e della mia prevedibile, futura surrogazione da
parte di altri colleghi, ho inoltre avuto sempre – nel procedimento relativo alla strage di Capaci – la cura
di formulare richieste e di assumere provvedimenti debitamente articolati e ampiamente motivati, in
modo da consentire a chiunque – ai pubblici ministeri come ai giudici, al personale addetto
all’informatizzazione degli atti, come ai difensori delle parti – un esame unitario e sistematico delle
svariate migliaia di pagine delle quali l’incartamento processuale si compone.
Ho posto particolare attenzione anche nella fascicolazione degli atti, onde permetterne un’agevole
consultazione (i positivi effetti di questo impegno sono stati già rilevati – credo – da quanti sono stati
impegnati nella trattazione dell’udienza preliminare). [...]
Né si è fatto ricorso a me per l’individuazione delle linee da seguire nel corso dell’udienza preliminare,
se è vero, come è vero, che soltanto dagli organi di stampa ho appreso che il pubblico ministero aveva in
detta udienza prestato il proprio consenso alla richiesta di rito abbreviato avanzata dai collaboratori di
giustizia, in aperta contraddizione con l’indirizzo – mesi addietro da me suggerito e tra tutti i magistrati
dell’ufficio concordato – di sottoporre al dibattimento le posizioni di tutti gli imputati (collaboratori
compresi) .
Che si possa oggi utilizzare il mio contributo per la definizione delle strategie dibattimentali nel processo
per la strage di Capaci (così come in quello per la strage di via D’Amelio), al di là della mia disponibilità
a collaborare all’attività dell’ufficio fino all’ultimo giorno di applicazione – che è e rimarrà piena –, è
cosa che giudico improbabile.
È infatti di appena qualche giorno il periodo che ci separa dalla scadenza del mio incarico: un lasso di
tempo troppo breve per l’impostazione di strategie dibattimentali in procedimenti complessi come quelli
per le stragi.
Che in relazione alla mia imminente partenza da Caltanissetta l’ufficio si stia determinando a non contare
più sul mio contributo è, del resto, considerazione che sono indotta a formulare per il fatto che, con
riguardo alle indagini svolte in queste ultime settimane sulla strage di via D’Amelio, non sono stata più
interpellata sugli indirizzi investigativi da seguire in conseguenza delle sorprendenti dichiarazioni
recentemente rese da Scarantino Vincenzo – ufficialmente assunte a verbale nei primi giorni dello scorso
settembre – né sono stata avvisata del compimento di atti istruttori di decisiva importanza.
Che soltanto alla prossima scadenza della mia applicazione sia da ricondurre il mio mancato
coinvolgimento da parte dell’ufficio nelle scelte investigative e nelle indagini sono certa, non potendo
d’altro canto supporre che esso sia conseguente alla dissonanza delle opinioni da me espresse in una
riunione tenuta nei primi giorni di settembre, da quelle degli altri colleghi, in ordine:
– all’assunzione delle dichiarazioni con le quali – mi si diceva – Scarantino Vincenzo aveva chiamato in
correità nella strage di via D’Amelio i collaboratori di giustizia Cancemi, La Barbera e Di Matteo
(traduzione in verbale che io giudicavo assolutamente indilazionabile);
– alla valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni suddette (che io giudicavo sulla base di argomenti
logici scarsamente credibili);
– alla necessità di tempestivi interrogatori – da assumere esclusivamente con le forme imposte dal codice
di rito – dei collaboratori chiamati in correità ed eventualmente ai successivi confronti con Scarantino
Vincenzo (atti tutti che io ritenevo urgenti);
– all’opportunità di dare tempestivo avviso delle nuove emergenze investigative alla Dda di Palermo
(atteso l’enorme rilievo che esse, revocando in dubbio la verificata attendibilità del Cancemi, del La
Barbera e del Di Matteo, avrebbero potuto assumere nei procedimenti in corso presso quell’ufficio);
– alla necessità (da me rappresentata) di adoperarsi per ottenere un rinvio del dibattimento relativo ai
primi quattro imputati della strage di via D’Amelio, sia per consentire una preventiva verifica della
posizione soggettiva di Scarantino Vincenzo, sia per rendere possibile, ove del caso, la riunione del
primo procedimento a quello pendente in fase di indagini preliminari nei confronti di altri indagati per i
medesimi reati (previa definizione in tempi brevissimi di dette indagini) e la conseguente trattazione
unitaria da parte dei giudici del dibattimento di tutte le condotte che avevano determinato l’evento
criminoso.
Fatte queste doverose premesse ti comunico che alle ore 16.00 del giorno 14 ore p.v. non potrò
presenziare alla riunione in quanto, usufruendo per i miei spostamenti dalla Sicilia a Milano di voli
speciali della Cai organizzati dal ministero degli Interni, alle ore 16.00 di venerdì prossimo, quinto e
ultimo giorno, per la settimana in corso, della mia applicazione sarò già in viaggio alla volta di Milano.
Resto comunque a disposizione dell’ufficio per ogni eventuale determinazione e per ogni più utile
chiarimento che potrò comunque fornire nella riunione della Dda convocata per le ore 17.00 del giorno
p.v.
Pover’uomo Riina? Dottor Ferrara, se ancora non l’ha fatto (ma non mi pare),
chieda scusa a tutte le vittime ammazzate per ordine del boss corleonese. E
finalmente le sto scrivendo ora quello che avrei voluto dirle tanti anni fa, quando
però non potevo farlo, per rispetto della funzione che avevo il dovere di tutelare.
16.
Toghe infangate
In questo teatro incandescente recitò una parte anche Tiziana Parenti, una pm
entrata in rotta di collisione con i colleghi di Mani pulite, con il coordinatore
Gerardo D’Ambrosio e pure con Borrelli. La collega, che seguiva il filone del
finanziamento illecito al Partito comunista, accusava i componenti del pool di
non voler indagare a fondo sui partiti della sinistra e lamentava che le era
impedito di procedere come avrebbe voluto.
Con la nascita di Forza Italia, Parenti si era schierata ben presto con Silvio
Berlusconi e subito candidata ed eletta nel 1994, con replica nel 1996. Pur
restando fuori dal governo, le fu comunque affidato un ruolo di rilievo e di
valenza strategica, dati i personaggi al potere in quegli anni: la presidenza della
Commissione antimafia. Da quella posizione, molto seguita dai media, Tiziana
Parenti non perdeva occasione per attaccare i colleghi milanesi, cosicché anch’io
entrai nella rosa dei suoi bersagli preferiti, specie dopo che erano diventate di
dominio pubblico le indagini sui magistrati, le collusioni tra Previti e Berlusconi,
le gravissime accuse di corruzione in atti giudiziari.
Per meglio comprendere le ragioni del fuoco ad alzo zero di cui fui vittima in
quel contesto, è necessario raccontare di Michele Riccio, un ufficiale dei
carabinieri, e della sua squadra.
Prima di ottenere il trasferimento al tribunale di Milano, Tiziana Parenti era
pubblico ministero a Savona. Nella città ligure, un reparto di élite dell’Arma dei
carabinieri era stato trasformato in una centrale che investigava usando strumenti
e metodi – diciamo – borderline quando non illeciti, cioè distribuendo cocaina,
con la collaborazione di confidenti che istigavano a commettere reati e per
questo erano protetti nei loro traffici.
Le indagini sulle attività svolte dalla squadra di Riccio appurarono che i suoi
componenti falsificavano le relazioni di servizio, incastravano i sospettati (per
esempio fingendo ritrovamenti di droga nelle loro auto dopo avercela nascosta),
avevano fatto evadere narcotrafficanti, manipolavano le fonti di prove esibite a
pubblici ministeri inconsapevoli, tra cui Tiziana Parenti. In poche parole, una
caserma dei carabinieri era stata trasformata in una centrale di spaccio di droga
ad alto livello e con una copertura di grande efficacia.
Alcuni carabinieri (non Riccio) si stavano arricchendo a milioni, ad altri
interessava guadagnare prestigio, notorietà, gradi e riuscivano a farlo giocando
sporco. Come poi accertato in giudizio, tutti truccavano sistematicamente i corpi
di reato per coprire le irregolarità, anche amministrative, del reparto.
L’indagine su Riccio e la sua squadra era nata per caso. Due narcotrafficanti
appena arrestati avevano vuotato il sacco e accusato un terzo; quest’ultimo aveva
ammesso che la droga gli veniva fornita da un maresciallo dei carabinieri, che a
sua volta la sottraeva dai carichi di cocaina sequestrati dall’Arma. Questa
combinazione di eventi era stata alla base di un’inchiesta che aveva
dell’inquietante e, allo stesso tempo, aveva segnato la fine del colonnello Riccio
e della sua squadra, più volte e da più parti definita “mitica” per i risultati che
millantava. L’ufficiale dei carabinieri, intanto, aveva percepito che per lui l’aria
si stava facendo pesante e che prima o poi la tempesta lo avrebbe investito. Così,
nella certezza di essere controllato e che le sue conversazioni fossero
intercettate, aveva messo in atto la sua strategia, esercitando pressioni su
testimoni e indottrinando tutti quelli che supportavano le tesi dei pubblici
ministeri. Soprattutto aveva “imbavagliato” il testimone-principe, Angelo
Veronese, che era stato – tra l’altro – indotto a verbalizzare un fatto del tutto
fantasioso che, però, riguardava proprio me: Veronese dichiarò falsamente di
avermi incontrata un certo giorno in un corridoio del settimo piano del tribunale
di Milano e che, in quell’occasione, gli avrei offerto la somma di 500 milioni di
lire per incastrare in qualche modo Tiziana Parenti. Nel corso di successivi
interrogatori, il personaggio non si risparmiò e aggiunse dettagli a dettagli,
compreso il colore del tailleur che avrei indossato in occasione di quel presunto
incontro: un abito grigio con il collo di pelliccia.
Quando le dichiarazioni e quindi le circostanze riferite da Veronese divennero
note, l’ex collega Parenti, ormai senatrice di Forza Italia, si lanciò in una
scomposta campagna contro di me, chiedendo senza mezzi termini alla procura
di Brescia che venissi sospesa dall’esercizio del pubblico ufficio per impedire la
reiterazione del reato e l’inquinamento delle prove! Parenti non perdeva
occasione per rilasciare nei miei confronti dichiarazioni di fuoco. Da questo suo
accanimento ebbe poi inizio un’ennesima ondata di disinformazione, un vero e
proprio accerchiamento che aveva lo scopo di isolarmi e di sporcare la mia
immagine di persona e di magistrato.
Di fatto, la battaglia era cominciata. La si respirava nell’aria, se ne udivano i
clangori, i movimenti delle truppe che rumoreggiavano dislocandosi sul campo.
Naturalmente per chi avesse orecchie per sentire. E io li sentivo con estrema
chiarezza.
Tra le forze impegnate, anche i parlamentari di Forza Italia, che sferrarono
l’attacco con due interpellanze. Una prima, presentata da Enrico La Loggia il 2
luglio 1997 e firmata da quaranta deputati; la seconda, depositata il 3 luglio da
Filippo Mancuso, sottoscritta da quaranta senatori. Mancuso, magistrato, due
anni prima era stato nominato ministro della Giustizia nel governo Dini e ne
aveva approfittato per ordinare ripetute ispezioni alla procura di Milano con
particolare accanimento per il pool che indagava su Tangentopoli.
In entrambe le interpellanze si leggevano le stesse rimostranze: “Esponenti di
rilievo di Forza Italia sono oggetto di particolari attenzioni da parte del pool di
Mani pulite e non è più tollerabile la totale immunità di cui pare godere la
dottoressa Boccassini, la quale sembra legittimata a operare senza alcun rispetto
delle regole processuali e delle leggi della Repubblica”. Con queste premesse
che non lasciavano spazio a dubbi su chi fosse il bersaglio da abbattere, si
chiedeva “di sapere quali iniziative il ministro in indirizzo intenda intraprendere
ai fatti citati; se una tale ‘manovra’ (la somma di mezzo miliardo di lire destinata
a Veronese) non debba portare all’immediata azione disciplinare nei confronti
della stessa e alla sospensione dal servizio”.
Le accuse di Veronese rasentavano il ridicolo, anche perché prive di una vera
logica: mezzo miliardo per “incastrare” la Parenti! E perché mai? Quale pericolo
poteva rappresentare per le mie indagini una collega che era passata nelle file di
Silvio Berlusconi, con la quale non avevo mai lavorato negli anni dei contrasti
con il pool di Mani pulite quando, peraltro, io ero in trincea in Sicilia? Insomma,
la falsità della testimonianza era palese, ma a qualcuno il piatto appariva ricco.
La conseguenza di questo marasma fu che finii sotto processo per le
dichiarazioni di Veronese e stavolta i colleghi chiesero l’archiviazione
rapidamente ma, per preparare la mia difesa e per rispondere con argomentazioni
documentate alle richieste del ministro (che a sua volta avrebbe dovuto riferire in
Parlamento sui contenuti delle due interpellanze), spesi tempo prezioso
sottraendolo alle indagini e alla mia vita privata.
Se anche in questa vicenda vogliamo considerare i risvolti più paradossali e
persino comici, dobbiamo riferirci al famoso tailleur grigio con il collo di
pelliccia che – stando a Veronese – indossavo nel famoso incontro del settimo
piano. Il settimanale “Panorama” dedicò ben due pagine a fotografie dei miei
capi di abbigliamento, collazionando immagini prese qua e là in luoghi e tempi
diversi. A mio parere, un modo ridicolo di fare informazione, anche se per
qualche istante mi fece sorridere. Naturalmente, non possedevo né avevo mai
posseduto un tailleur di quel colore e un collo di pelliccia. L’unico capo che
poteva vagamente somigliare a quella descrizione era di tweed con risvolti di
velluto marrone che compariva in diverse fotografie. Chissà: forse imbeccato
sommariamente o con informazioni errate, Veronese poteva riferirsi proprio a
quello.
Nonostante i bastoni gettati tra le ruote dell’inchiesta, in quei mesi le indagini
continuavano a progredire, soprattutto grazie all’analisi dei conti esteri, e così fu
possibile portare alla luce due società svizzere facenti capo a Cesare Previti.
L’individuazione di altre fonti di probabili fondi neri indusse l’allora avvocato
romano (dal 2011 è stato radiato dall’Ordine) nonché strettissimo sodale di
Silvio Berlusconi a prendere carta e penna e a scrivere a Borrelli, chiedendo
ufficialmente la mia testa.
La lettera di Previti era datata 14 luglio, lo stesso giorno in cui un’ennesima
iniziativa venne sottoscritta da quaranta parlamentari di Forza Italia, stavolta
capeggiati da Giuseppe Pisanu. Il tono dell’esposto era formalmente cortese, ma
durissima la sostanza. “Ilda Boccassini,” vi si poteva leggere, “mi perseguita per
motivi di grave inimicizia.” L’episodio che il deputato sottoponeva
all’attenzione di Borrelli chiamava in causa anche il procuratore federale
svizzero Carla Del Ponte, che aveva interrogato l’amministratore delle due
società elvetiche nella disponibilità di Previti. All’esposto era allegata anche
un’altra lettera, firmata dal professionista elvetico e sollecitata dall’avvocatessa
Grazia Volo, in quel periodo difensore del parlamentare. L’amministratore
lamentava di aver subito pressioni, sottolineando quanto il mio atteggiamento di
grave pregiudizio nei confronti di Previti e il modo “imperioso” in cui le
domande gli venivano rivolte lo avessero gettato in confusione al punto da
indurlo a trasmettere all’autorità giudiziaria italiana i documenti sulle due
società.
La replica del procuratore generale Del Ponte fu immediata e né il teste né
l’avvocatessa Volo rimediarono una gran figura. “Se spontaneamente, come in
questo caso, vengono consegnati degli atti,” scrisse il procuratore, “non è
richiesta né necessaria la presenza di avvocati difensori. Ho già presentato in
proposito una memoria al tribunale confederale.”
Anche questo polverone si dissolse senza apparenti conseguenze, ma la verità
è che intanto era stato aperto un nuovo fronte, e anche particolarmente delicato,
perché coinvolgeva Carla Del Ponte, l’autorità di un Paese straniero dalla quale
dipendeva l’inoltro a Milano della documentazione sui conti correnti cifrati
svizzeri.
Negli ultimi mesi del 1997, i rapporti tra la politica e la magistratura milanese
divennero a dir poco incandescenti, dopo l’invio al Parlamento della richiesta di
autorizzazione a procedere all’arresto del deputato Previti, gravemente indiziato
di corruzione in atti giudiziari, ovvero di aver pagato giudici e truccato sentenze.
Previti non perdeva occasione per rilasciare dichiarazioni o comparire in
televisione indossando la maschera del perseguitato politico. Alle accuse di aver
alimentato a suon di centinaia di milioni i conti esteri clandestini del giudice
Squillante, Previti ripeteva ossessivamente: “Posso smentire con assoluta
fermezza che quei versamenti siano esistenti”.
Peccato che pochi anni prima (il 6 marzo 1991) sul conto “Rowena” della Sbt
di Bellinzona, intestato al magistrato romano, fossero stati accreditati 434.404
dollari dal conto “Mercier” nella disponibilità dello stesso Previti. Affermazioni
altrettanto sfacciate e risultate contraddittorie riguardarono i suoi rapporti con
Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere italo-svizzero della Karfinco che,
però, aveva intanto confermato (e documentato) l’invio a Previti di 400 milioni.
Sul momento, quest’ultimo smentì l’esistenza di qualsiasi rapporto con
chiunque. Poi, a fronte delle prove da noi acquisite, si fece più prudente e
cambiò tattica, affermando che “con Pacini parlavo solo di problemi di salute” e
che effettivamente con il giudice Squillante si vedeva qualche volta, ma solo
perché “con lui giocavo a calcetto”.
Secondo il nostro Codice, ogni imputato ha il diritto di tacere o di mentire per
difendersi dalle accuse. Ma, a mio modo di vedere, quando l’imputato è un
parlamentare che non si avvalga del diritto di tacere non può abbassarsi a
mentire. L’immunità che protegge gli eletti in Parlamento dovrebbe essere
compensata da una trasparente lealtà nei confronti dei cittadini e delle istituzioni.
Un membro del Parlamento sul quale gravi una mole di prove pesante come un
macigno (alle richieste di arresto di Previti erano allegati oltre mille documenti)
dovrebbe sentirsi in dovere di fornire spiegazioni sul giro di miliardi di cui è al
centro, e non cavarsela con un disinvolto: “Sapete, sono ricco di mio”, prima di
scagliarsi contro l’ufficio giudiziario che lo sta indagando, per di più arringando
sui media e persino davanti alle commissioni parlamentari. La concione cui si
era abbandonato Previti dinanzi a deputati silenziosi (o impotenti, o
imbavagliati) era quanto meno offensiva per il Parlamento dato che, peraltro, il
senatore era già reo confesso di evasione fiscale, per aver incassato oltre 21
miliardi di lire dagli eredi Rovelli, sul conto 136183 della Sbs di Ginevra.
Ovviamente, pur mordendoci la lingua, tutti noi della procura ci attenemmo a
un rigido silenzio, mentre la maggioranza dei parlamentari straparlava di un
ennesimo attacco alla politica da parte dei pm milanesi. Questa scelta – doverosa
– comportava però l’impossibilità di ribattere alle accuse ingiustificate che
venivano vomitate addosso all’ufficio, e a me in particolare, perché era toccato a
me raccogliere le dichiarazioni dell’Ariosto e sviluppare poi le indagini.
Bene faceva il Parlamento a proteggere un suo membro, in attesa di valutare le
prove di inquinamento delle indagini che avevamo fornito e che a nostro avviso
ne giustificavano la carcerazione. Ma non considero altrettanto legittimo che,
approfittando della sua immunità e delle dirette tv, Previti gettasse discredito su
chi lo accusava, abbandonandosi, nelle aule di Montecitorio, a insulti contro i
testimoni, senza che nessuno degli altri onorevoli gridasse allo scandalo.
Non era rispettoso verso il Parlamento che l’avvocato avesse coinvolto
quaranta deputati del suo movimento per chiedere la mia testa, con
un’interrogazione al governo. Ed erano quanto meno inopportune le
dichiarazioni di alcuni parlamentari, tra cui Marco Boato, che prima di leggere
un solo foglio della richiesta di arresto si era precipitato a parlare di “ipotesi
preoccupante di giustizia a orologeria”. Era dignitosa quell’istituzione che si era
lasciata umiliare dall’arroganza di Previti?
A me, come a tutti gli altri, trattenersi dal reagire richiedeva un grosso
sacrificio. La pressione mediatica era fortissima ed era come navigare nel mare
in tempesta senza alcuna possibilità di chiedere aiuto. Man mano che le acque
diventavano più cupe e minacciose, aumentava il senso di smarrimento, anche se
ci era chiaro il compito, che era anche l’unica via di salvezza per non perdere
tutto il lavoro svolto: evitare che la barca si rovesciasse prima di giungere in
porto. Per fortuna c’era Saverio a fare da scudo, a proteggermi dagli attacchi
ogni giorno più violenti e personalizzati.
Una boccata di ossigeno arrivò dalla Corte di cassazione, quando respinse tutti
i ricorsi presentati dagli imputati, riconoscendo la piena competenza della
procura di Milano (la difesa voleva spostare altrove il processo), oltre alla
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e di straordinarie esigenze cautelari.
Le reazioni degli avvocati a questa decisione furono scomposte. Una per tutte,
quella di Gaetano Pecorella, all’epoca difensore di Renato Squillante: “È una
decisione politica,” arrivò a dichiarare, “la Cassazione ha dovuto tutelare
l’immagine del pool per proporre quella di una magistratura che non sbaglia
mai”. Pecorella, oggi ultraottantenne, era professore universitario, membro di
spicco del collegio difensivo di parte civile nei processi sulla strage di piazza
Fontana, un avvocato molto stimato negli ambienti milanesi, che parve fulminato
sulla via di Damasco, invertendo di 180 gradi la sua comprovata rotta culturale e
ideologica (negli anni settanta aveva difeso vari militanti del movimento
studentesco), diventando, tra i difensori dei processi contro i magistrati e Silvio
Berlusconi, uno dei più accaniti accusatori di noi pubblici ministeri. Tanto che,
seguendo un copione già visto, dopo aver difeso Renato Squillante e Silvio
Berlusconi, anche il professor Pecorella verrà candidato con Forza Italia e
siederà in Parlamento in compagnia degli altri avvocati del presidente del
Consiglio, Niccolò Ghedini e Piero Longo.
Non intendo mettere in discussione il diritto, tutelato dalla Costituzione, di
assumere la difesa di un cittadino, chiunque esso sia e qualunque sia il reato
contestato. Anzi, trovo persino naturale che il difensore arrivi a essere fazioso,
nell’intento di favorire il proprio assistito.
In quei processi gli avvocati di Previti, di Berlusconi e dei magistrati sono
spesso ricorsi all’aggressione verbale e incutevano timore per la virulenza degli
attacchi che a volte toccavano apici di autentica sguaiatezza, nella forma e nel
linguaggio.
Non deve sfuggire che il doppio ruolo di avvocati e parlamentari ha permesso
loro di elaborare e poi votare leggi ad personam, dove la “persona” era
immancabilmente il presidente del Consiglio, giocando d’anticipo sulle questioni
procedurali che sarebbero state di lì a poco affrontate nei dibattimenti. Quel
periodo, disastroso per uno Stato di diritto, non dovrà essere dimenticato – anzi
andrà studiato a fondo – proprio per la quantità di modifiche legislative apportate
in corso di causa, con l’obiettivo di torcere le regole del processo e così tentare
di vincere (a volte riuscendoci). Una poderosa macchina da guerra che, lo
confesso, ogni tanto riusciva a togliermi il respiro e la speranza di farcela.
Accanto a questo gioco di rimbalzo tra aule parlamentari e aule di giustizia,
non mancarono i tentativi di delegittimazione. Una di queste manovre depistanti
merita di essere raccontata più in dettaglio.
Ancora una volta, l’obiettivo era Stefania Ariosto (una teste che molto
impensieriva gli imputati) e, di riflesso, noi pubblici ministeri incaricati delle
verifiche sulle sue dichiarazioni. La teste veniva subissata di critiche quotidiane
da parte di opinionisti, parlamentari, media. Attacchi impietosi, di inaudita
crudeltà.
Domenico Contestabile, un passato di socialista, avvocato e parlamentare di
Forza Italia, si abbassò ad affermare che Stefania Ariosto si era inventata di aver
perso due figli a causa di una terribile malattia genetica. Ma se lo era inventata?
Purtroppo no. Era proprio la verità: fu lei stessa a mostrarmi le foto dei figli
perduti, bellissimi. A vederli mi si strinse il cuore.
Ma il più articolato tentativo di delegittimazione della teste si sviluppò in tre
tappe, nel 1996. La presentazione spontanea di tal Vittore Pascucci, ex agente
dei servizi segreti coinvolto nelle stragi degli anni ottanta, tra cui l’esplosione
alla stazione di Bologna; l’improvviso palesarsi di una “supertestimone” da lui
indicata e la pubblicazione sul quotidiano “Avanti!” di un falso dossier,
anticipato da dichiarazioni di Cesare Previti.
Andiamo per ordine. L’avvocato Vittore Pascucci, noto alle cronache
giudiziarie per i suoi rapporti con il mondo del crimine organizzato, era in
contatto con alcuni protagonisti della storia opaca del nostro Paese, tra cui Flavio
Carboni e Francesco Pazienza, entrambi iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli e
implicati nelle stragi che hanno destabilizzato il Paese. Pascucci, indagato a
Perugia nell’ambito delle inchieste che coinvolgevano i giudici romani, accusò
Stefania Ariosto di ogni genere di nefandezza indicandola addirittura come
un’agente dell’intelligence. Pascucci segnalò anche tale Yurika Rotschild come
persona che avrebbe potuto confermare le sue dichiarazioni.
Già, Yurika Rotschild... Non fu un’impresa da poco mettersi in contatto con la
“superteste” dal nome esotico, che risultava residente in un paesino vicino a
Roma, ma la cui vita appariva avvolta dal mistero. Venne comunque rintracciata
e convocata alla procura di Perugia, dove avevamo deciso di sentirla in un atto
istruttorio congiunto tra i due uffici. Nel giorno fissato, eravamo presenti io,
Gherardo Colombo, i colleghi di Perugia Fausto Cardella e Michele Renzo,
nonché Alessandro Pansa.
Yurika Rotschild si presentò accompagnata da due marcantoni, a suo dire le
sue guardie del corpo. Stivaletti di pelle bianchi con tacco 12 a stiletto, pantaloni
bianchi che definire attillati non sarebbe sufficiente a rendere l’effetto aderenza,
giacca anch’essa bianca con spalle e maniche ornate da lunghe frange alla
Buffalo Bill, occhialoni neri, chioma ossigenata. E anche se nessuno tra i
presenti si sarebbe lasciato pregiudizialmente influenzare dalla stravaganza di un
abito, a tutti noi parve un tantino stonato scegliere di acconciarsi in quel modo
per incontrare dei magistrati in un tribunale.
Si iniziò dalle formalità di rito: nome, cognome, indirizzo, titolo di studio ecc.
La signora dichiarò serenamente di chiamarsi Yurika Rotschild, nata ad
Avellino, il che suonava un po’ strano. Le venne chiesto di mostrare un
documento, che procurò la prima di diverse sorprese: sulla carta d’identità
compariva il nome più campano di Immacolata Gargiulo, di cui chiedemmo
conto. Perché aveva detto di chiamarsi Yurika, fornendo di fatto generalità false?
Come teste, ritenemmo opportuno chiarirle, era tenuta a dire sempre la verità.
Anche sui suoi dati anagrafici. Candidamente, Immacolata ribatté che Yurika
Rotschild era il suo nome d’arte, aggiungendo che – seconda ondata di sorpresa
generale – lavorando come consulente per la procura di Roma aveva sempre
firmato i documenti come Yurika Rotschild.
A quel punto tutti drizzammo le antenne, per capire davanti a quale fenomeno
ci trovassimo. Superato l’iniziale sbigottimento, chiedemmo ulteriori
spiegazioni. La signora Gargiulo da Avellino prese a raccontare di essere vissuta
con la famiglia in Giappone dove, buon per lei, aveva imparato le arti marziali e
soprattutto le tecniche necessarie a capire la “mentalità” delle persone. Grazie a
questa sua particolare abilità, lavorava come interprete con un gruppo di
carabinieri, in virtù dell’incarico conferitole da un pubblico ministero romano
nelle indagini su alcuni stranieri sospettati di traffico di droga. A suo dire, la
polizia giudiziaria le faceva ascoltare le telefonate tra gli indagati e lei intuiva la
“mentalità” dei personaggi sotto controllo. E no, non conosceva lingue straniere,
inglese o giapponese che fosse, ma ciononostante era capace di scandagliare la
“psiche” dei soggetti intercettati. Infine, precisò, il pm con cui collaborava aveva
sempre regolarmente liquidato le sue consulenze, tutte firmate Yurika Rotschild.
In effetti, fu la conclusione di questo mirabolante excursus, nessuno le aveva mai
chiesto di esibire un documento d’identità, perciò riteneva che tutto fosse
regolare.
A turno ci dovemmo allontanare dalla stanza in cui avveniva la deposizione
per timore di non riuscire a trattenere le risa, anche se lo scenario che avevamo
davanti, oltre che esilarante, era decisamente drammatico. Ancora una volta
veniva coinvolta la procura di Roma, che avremmo perciò dovuto interpellare
per verificare le dichiarazioni della teste e acquisire la documentazione
necessaria.
Per quanto di nostro interesse, nelle sue farneticazioni Immacolata Gargiulo
disse anche di conoscere Stefania Ariosto e di sapere che lavorava per i servizi
segreti. Quando la testimone avellinese dal nome d’arte esotico fu congedata,
rimanemmo per un po’ senza parole, ci guardammo attoniti e scoppiammo a
ridere.
Svelata la vera identità della “superteste”, non fu difficile ricostruire la sua vita
professionale. Ex ballerina, ex attrice, ex pornostar e via cantando, Immacolata
Gargiulo si era prestata alla sceneggiata, senza dubbio a caccia di notorietà.
Infatti la sua faccia comparve su vari giornaletti scandalistici e addirittura, nel
maggio 1996, fu ospite del talk show di Michele Santoro Tempo reale, che le
dedicò quasi un’intera puntata, alternando sullo schermo immagini della
Gargiulo e di Stefania Ariosto. Ignoro quale fosse lo scopo del conduttore:
screditare la “supertestimone”? Minare la credibilità dell’Ariosto? Forse, più
banalmente, una questione di audience? Di certo, quella fu una brutta pagina di
televisione.
Terza fase dell’azione manipolatoria: la pubblicazione sul quotidiano
“Avanti!” di un dossier attribuito alla Criminalpol (all’epoca organo
investigativo della polizia) nel quale, di nuovo, Stefania Ariosto veniva indicata
come agente dei servizi. L’uscita del documento coincise con la scadenza del
pronunciamento della Giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere e
permise a Previti di gridare di nuovo al complotto. Fortunatamente, stavolta la
procura romana si mosse, perquisì la sede dell’“Avanti!”, accertando che il testo
pubblicato era diverso dal rapporto della Criminalpol datato 30 aprile 1988.
L’unica verità uscita dalla bocca della “superteste” in total look bianco e
guardie del corpo, purtroppo, fu il rapporto effettivamente esistito con un pm
romano, che l’aveva davvero utilizzata per una consulenza, l’aveva pagata e,
incredibilmente, aveva lasciato che firmasse Yurika Rotschild senza alcuna
verifica. In sostanza, fu carpita la buona fede dell’ingenuo collega, che si era
fidato della persona propostagli da un ufficiale dei carabinieri. Lo stesso ufficiale
che, nel prosieguo delle indagini sul depistaggio, fu indagato per
favoreggiamento e risultò in contatto con Cesare Previti.
Le azioni giudiziarie ed extragiudiziarie nei nostri confronti si moltiplicavano
in concomitanza dell’inizio dell’udienza preliminare che, tra i “legittimi
impedimenti” frapposti dall’accusato e le lungaggini dovute a questioni
procedurali artatamente gonfiate o addirittura inesistenti, durò quasi due anni.
Per una seconda volta Previti tentò la carta della mia esclusione dalle indagini
“toghe sporche”, riproponendo la motivazione della “palese e manifesta
inimicizia” nei suoi confronti. Analoga richiesta venne formulata dagli avvocati
di Renato Squillante e di Silvio Berlusconi, che arrivarono a pretendere
l’estromissione di tutti i componenti del pool (Borrelli, Davigo, Colombo),
eccezion fatta per D’Ambrosio, senza tuttavia spiegare le ragioni per cui Gerardo
era stato risparmiato.
Lo schema del ricorso di Berlusconi non era molto diverso dalla denuncia a
suo tempo presentata alla procura di Brescia contro di noi per “attentato agli
organi costituzionali e attentato contro i diritti politici del cittadino”. Un delitto
gravissimo contro la personalità dello Stato, dunque di competenza della Corte
d’assise.
Ma contro quali diritti politici e di quali cittadini avevamo tramato? Del
cittadino Squillante, un giudice che aveva accumulato ricchezze incompatibili
con il suo reddito, aprendo tra l’altro un conto all’estero, violando la legge e
aggirando il fisco? Di Cesare Previti, che quando era stato nominato ministro
della Difesa, nel giugno 1994, aveva intascato un pacco di miliardi tre giorni
prima di giurare fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione? Un evasore fiscale
per sua stessa ammissione, a voler tacer d’altro? O forse di Silvio Berlusconi
che, tramite le attività dello stesso Previti, aveva comprato giudici per aggiustare
a suo favore controversie giudiziarie?
Denunce risibili che, però, portarono la procura di Brescia a indagare su di me
e gli altri colleghi per ben due anni, finendo poi per chiedere – com’era ovvio –
l’archiviazione. Lo scopo degli imputati era evidente: confondere l’opinione
pubblica con false accuse e quotidiane intemerate contro di noi, utilizzando i
media. Un bombardamento assordante per convincere lettori, ascoltatori,
telespettatori dell’innocenza di questo drappello di “perseguitati” da un
gruppuscolo di pubblici ministeri politicamente orientati, ossessionati dai loro
obiettivi.
Tra gli effetti di questo attacco permanente – narrato da media e partiti come
conflittualità tra politica e magistratura – ci fu anche quello di destabilizzare le
dinamiche all’interno della magistratura stessa. Diversi colleghi vivevano quei
processi come un ostacolo alle loro carriere o a eventuali richieste di
adeguamenti economici. Una lettura corporativa, che rese palpabile l’ostilità nei
nostri confronti e che avvertii ancora di più con l’avvio dei dibattimenti
aggravato dalla defezione di Piercamillo Davigo e Francesco Greco, gli altri
componenti del pool che lasciarono me e Gherardo soli in trincea, a fronteggiare
avversari che ci trattavano come nemici, palesemente disposti a utilizzare
qualsiasi arma pur di annientarci. Non sto usando termini a caso: il clima e la
posta in gioco erano esattamente questi.
In quegli anni mi dividevo tra lavoro, famiglia e una cerchia ristretta di amici
cari. I momenti di svago che mi concedevo erano costituiti per lo più dal
ritrovarmi a casa di qualcuno di loro, per evitare gli agguati dei media.
Ricordo la foto che mi ritraeva con Giuseppe D’Avanzo al tavolo di un
ristorante milanese, qualche giorno prima della data stabilita per la mia
requisitoria al processo Sme-“toghe sporche”, nel maggio 2003. Quella foto fu
ovviamente sparata in prima pagina sul quotidiano “il Giornale” che, a caratteri
cubitali, ventilava l’ipotesi di chissà quali rivelazioni di segreti relativi al
processo. Non ho mai saputo con certezza come al quotidiano fosse arrivata
quella foto, forse mi aveva semplicemente riconosciuta un avventore dello stesso
ristorante. Forse, ma non è da trascurare una nota stonata che vale la pena di
raccontare.
D’Avanzo mi aveva telefonato quella stessa mattina per annunciarmi il suo
arrivo da Roma. E mi aveva chiesto di prenotare un tavolo in quel ristorante
perché da un collega aveva saputo che lì si mangiava bene. Così avevo fatto. Ci
eravamo incontrati sotto casa intorno alle 20 ed eravamo andati a cena.
In quel periodo Peppe stava lavorando a un’inchiesta, pubblicata in tre puntate
da “Repubblica”, sulla presunta corruzione che aveva accompagnato la
complicata vicenda dell’acquisto di Telekom Serbia da parte di Telecom Italia.
Nel giugno 1997 la Stet, controllata dallo Stato attraverso Telecom Italia, aveva
acquistato il 29% della compagnia pubblica serba di Tlc, per circa 870 miliardi.
L’inchiesta di D’Avanzo denunciava il presunto pagamento di una trentina di
miliardi di “mediazione” – in realtà tangenti – perché il contratto andasse a buon
fine. Grazie al suo lavoro, fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta
per chiarire i termini di quell’affaire. La commissione, presieduta da Enzo
Trantino, non formulò alcuna accusa diretta e non presentò al Parlamento la
relazione finale. Nel 2005 l’indagine della procura di Torino aperta nel 2001 sui
vertici di Telecom del 1997 venne archiviata.
Nel 2006 si scoprì che in Telecom Italia era attivo un “servizio di sicurezza”
che aveva abusivamente compilato migliaia di dossier in sinergia tra una squadra
di esperti informatici di Telecom e l’intelligence militare (Sismi), finalizzata
anche a tenere sotto controllo personaggi pubblici, banche, società, uomini di
governo e dell’opposizione. Tra questi, veniva spiato anche Peppe D’Avanzo,
che risultò pedinato dal Sismi, le sue telefonate poste sotto controllo, il suo
lavoro passato al setaccio ancora prima che andasse in pagina, grazie anche ad
alcuni giornalisti infedeli della stessa “Repubblica”.
Ragionando con lui, più volte ci siamo chiesti se la foto rubata al ristorante
fosse il frutto del caso oppure di un pedinamento illegale, dato che né l’arrivo di
Peppe a Milano né la scelta del ristorante erano stati programmati.
Nell’uno e nell’altro caso, io vivevo una situazione snervante. Ero tranquilla
solo tra quattro mura, protetta dagli sguardi indiscreti o malevoli.
18.
Sotto attacco
Speravo che, con la fine dei dibattimenti monstre (Imi-Sir, Lodo Mondadori)
su cui quotidianamente si leggevano commenti e interviste incendiarie, si
sarebbe placata l’altrettanto quotidiana ricerca di un pretesto per delegittimarmi.
Speranza mal riposta: il clima si sarebbe fatto ancora più torbido e rovente nel
periodo del processo per le cosiddette “cene eleganti” o “processo Ruby” (2010-
2013 il primo grado), di cui dirò più avanti.
Per fare un esempio, nel dicembre del 2012 venni fotografata mentre lasciavo
cadere a terra il mozzicone della sigaretta per spegnerlo. Un gesto automatico,
certo sconveniente, che venne sfruttato per pubblicare un intero servizio sul
settimanale scandalistico “Chi” (di proprietà della famiglia Berlusconi). In quelle
pagine venne dato risalto anche alle immagini riprese sulla porta di Hermès, in
via Monte Napoleone, dove avevo acquistato un regalo. Un’altra volta ricevetti
critiche per un mio calzino (fuori moda, secondo l’articolista) indossato mentre
passeggiavo con un’amica. Tutti questi stupidi dettagli, adeguatamente montati,
miravano a ridicolizzarmi: “Ilda la rossa, dal calzino fuori moda, che getta la
sigaretta per terra e si permette di fare shopping in un negozio extralusso nelle
vie del centro”.
Non ho dubbi che l’accanimento nei miei confronti sia stato acuito dal mio
essere donna. Solo così si spiegano gli attacchi alla mia femminilità, le critiche
all’abbigliamento, alle collane e agli orecchini che indossavo, l’insistenza sul
colore dei capelli. Un’operazione martellante, condotta per anni, giorno dopo
giorno, esasperata nei toni e nei contenuti, che ogni tanto si dimostrava efficace
nell’eccitare l’avversione nei miei confronti. Da qui le tante lettere anonime in
cui venivo definita “troia” o “zoccola”, oppure l’invio di ritagli di giornali
pornografici, nei quali avevano sostituito il mio volto a quello della pornostar, o
di fazzoletti di carta inequivocabilmente imbrattati di sperma.
Gherardo e gli altri colleghi maschi non sono mai stati bersagliati con niente
del genere, tutt’al più venivano indicati come “toghe rosse”, un appellativo
dedicato ovviamente anche a me, magari condito con qualche più offensivo
“sporca comunista”.
Negli anni del processo Ruby, l’onorevole Daniela Santanchè, all’epoca
sottosegretario del governo Berlusconi, una donna potente e facile all’insulto,
arrivò a definirmi “un cancro della democrazia, una metastasi”. E non
chiacchierando in un salotto privato, ma davanti a una selva di microfoni.
Secondo il radicale Marco Taradash, già deputato di Forza Italia, ero invece “una
squatter in procura”, definizione coniata nel periodo in cui gruppi di giovani
ribelli, anarchici, sbandati – gli squatter, appunto – occupavano edifici
abbandonati e cadenti, vivendoci finché non venivano cacciati dalla polizia.
All’offensiva partecipavano figure di rilievo, anche istituzionale, come la
futura presidente del Senato, l’avvocatessa Maria Elisabetta Alberti Casellati,
berlusconiana di ferro, con un excursus politico-istituzionale di alto livello
interamente dovuto al fondatore di Forza Italia. Senatrice per sei legislature,
sottosegretaria alla Salute e alla Giustizia in due governi guidati da Berlusconi,
quindi consigliera del Csm fino a essere scelta, nel 2018, per presiedere
l’assemblea di palazzo Madama. Negli innumerevoli dibattiti cui ha partecipato
a nome della sua forza politica e nelle interviste non ha mai perso occasione di
attaccare frontalmente il lavoro della procura di Milano, ribadendo la sua
convinzione che decine di magistrati agissero d’intesa per imbastire inchieste
senza fondamento ed emettere sentenze sballate all’unico scopo di colpire Silvio
Berlusconi.
Logico quindi che ci fosse anche lei, l’11 marzo 2013, insieme a un altro
centinaio di parlamentari del Popolo della libertà, a manifestare nei corridoi e di
fronte al palazzo di giustizia durante un’udienza del processo sulle performance
delle Olgettine nella villa di Arcore.
Ma le campagne denigratorie non si limitavano ai processi che vedevano
coinvolto Berlusconi. Per molti anni mi sono sentita osservata, sapendo che
qualunque iniziativa professionale avessi preso e ogni risvolto della mia vita
privata sarebbero stati malignamente commentati e sottoposti a critiche più o
meno pretestuose.
Un caso per tutti, tra quelli che mi hanno più rattristata, è dell’11 maggio
1998, quando una donna somala venne fermata all’aeroporto di Linate. Quel
giorno ero di turno esterno. Il funzionario di polizia responsabile dello scalo
milanese mi comunicò che la donna, Sharifa, era stata arrestata perché aveva
esibito documenti falsi. Inoltre viaggiava in compagnia di due bambini, un
maschietto e una femminuccia, che asseriva essere suoi figli. Ricevuti gli atti,
chiesi al giudice per le indagini preliminari la conferma dell’arresto. Richiesta
accolta: la donna fu portata in carcere, i bambini affidati a una comunità.
La signora Sharifa, che proveniva da una remota regione interna della
Somalia, parlava soltanto uno sconosciuto dialetto locale, che rese molto difficile
la ricerca di un interprete. Per verificare se fosse davvero la madre dei due
bambini, ordinai l’esame del Dna, in attesa del quale la interrogai nuovamente e,
avuta conferma che i suoi documenti erano falsificati, chiesi il rito immediato
per ottenere il processo in tempi brevi. Allo stesso tempo, espressi parere
favorevole alla scarcerazione, che però venne negata dal tribunale. L’esame
genetico confermò che uno dei due bambini, il maschietto, era effettivamente
suo figlio, ma restava da appurare se anche la bimba lo fosse. La donna venne
scarcerata dopo sei mesi, ma i bambini furono trattenuti in comunità perché –
con un atteggiamento incongruo, alla luce dei nostri parametri – lei andò a
trovarli soltanto due mesi dopo aver lasciato il carcere.
A fronte di questi fatti, venni dipinta come un mostro, una persona crudele che
aveva strappato i figli a una madre. Fioccarono le solite interpellanze, per lo più
presentate dai deputati di Forza Italia, ma anche la Lega Nord si diede un gran
daffare.
Mi colpì, in particolare, l’interpellanza promossa nel marzo 1999
dall’onorevole Mario Borghezio e controfirmata da altri parlamentari. Un
unicum nella storia padana, secessionista, xenofoba di quel partito, di cui vale la
pena riportare il testo:
I sottoscritti chiedono di interpellare il ministro di Grazia e Giustizia per sapere – premesso che il caso
vergognoso della signora Sharifa, la giovane donna somala scambiata dal magistrato del pubblico
ministero di Milano per una pericolosa trafficante internazionale di minori, pone pesantemente il tema
della “irresponsabilità” di fatto di questi magistrati, che nell’attuale ordinamento non rispondono
direttamente e personalmente degli errori, anche molto gravi, che commettono – quali intendimenti
intenda adottare sia in ordine alla necessità, anche attraverso un’ispezione ministeriale, di fare piena luce
sul caso sopra indicato, sia in ordine alla necessità di assicurare a tutti i cittadini il rispetto del diritto alla
difesa, pietra miliare della nostra civiltà giuridica.
Nel 2000 iniziò la stagione dei dibattimenti Sme, Imi-Sir, Lodo Mondadori. La
cosiddetta “guerra di Segrate” è una complicata storia di affari e corruzione
iniziata negli anni ottanta, quando la casa editrice Mondadori era di proprietà di
tre soci: la Fininvest di Silvio Berlusconi, la Cir di Carlo De Benedetti e la
famiglia Formenton, erede del fondatore Arnoldo Mondadori. Sul finire del
decennio, De Benedetti convinse i Formenton a cedergli la loro quota, il che gli
avrebbe dato il controllo del gruppo di Segrate. In particolare, De Benedetti
firmò con gli eredi del fondatore un precontratto, secondo il quale le loro azioni
sarebbero passate al gruppo Cir entro il gennaio 1991. Ma nel 1989 i Formenton
cambiarono improvvisamente idea, vendettero le proprie azioni a Fininvest e
così, il 25 gennaio 1990, Silvio Berlusconi divenne presidente del gruppo
Mondadori.
Il voltafaccia contrattuale provocò la reazione di De Benedetti e diede inizio a
una lunga controversia giudiziaria. L’ingegnere decise di ricorrere all’arbitrato di
tre giudici – uno scelto dalla Cir, uno dai Formenton, il terzo dalla Corte di
cassazione – che emisero il loro verdetto il 20 giugno 1990: l’accordo tra De
Benedetti e i Formenton era valido a tutti gli effetti e le azioni cedute a Fininvest
dovevano tornare alla Cir.
Il lodo arbitrale venne impugnato dai Formenton e da Berlusconi (che aveva
intanto dovuto lasciare la presidenza) davanti alla Corte d’appello di Roma, che
assegnò la causa alla sezione civile presieduta da Arnaldo Valente, con i giudici
Giovanni Paolini e Vittorio Metta. La sentenza, depositata il 24 gennaio 1991
dopo una camera di consiglio durata dieci giorni, stabiliva che una parte
dell’accordo tra la Cir e i Formenton era in contrasto con la disciplina delle
società per azioni. Di conseguenza, erano da considerarsi nulli il patto del 1989 e
anche il lodo dell’anno successivo. Le azioni tornarono nuovamente nelle mani
di Berlusconi.
La Cir decise di tentare la strada dell’accordo, avviando una trattativa con gli
avversari. Uno degli azionisti, Carlo Caracciolo – sospettando, come anche altri
soci, che qualche anomalia fosse intervenuta per ribaltare l’esito del lodo –,
suggerì di ricorrere alla mediazione dell’editore Giuseppe Ciarrapico,
notoriamente vicino a Giulio Andreotti, che nei mesi precedenti aveva ostacolato
la cessione del gruppo di Segrate alla Cir. In effetti venne raggiunto un accordo,
secondo il quale “la Repubblica”, “L’Espresso” e altri quotidiani e periodici
locali sarebbero tornati alla Cir, mentre tutti i restanti cespiti della Mondadori
sarebbero rimasti alla Fininvest, che ricevette inoltre 365 miliardi di lire come
conguaglio per la cessione delle testate all’azienda di Carlo De Benedetti.
L’iscrizione di Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Vittorio Metta nel registro
degli indagati per la vicenda del Lodo Mondadori risale al 2 ottobre 1997, grazie
alla scoperta tra le carte, già in mano alla procura, di due bonifici provenienti
dalla società offshore di Berlusconi, la All Iberian, sui conti esteri di Cesare
Previti e di Giovanni Acampora, uno degli avvocati della Fininvest. Cifre
consistenti, anzi stratosferiche per i comuni mortali: 2.732.868 dollari americani
(circa 3 miliardi in lire) sul primo e un miliardo e mezzo di lire sul secondo. Dai
conti di Acampora, 425 milioni di lire erano passati a Previti, che li aveva
stornati in due operazioni sul conto di Attilio Pacifico. Questi li aveva
trasformati in denaro contante e, secondo l’accusa, li aveva consegnati a Vittorio
Metta, il giudice del collegio d’appello che aveva smontato il Lodo Mondadori.
Nei mesi successivi al passaggio di denaro, Metta aveva dimostrato di disporre
di notevole liquidità: aveva acquistato e ristrutturato un appartamento, comprato
un’auto nuova pagando tutto in contanti, sulla cui provenienza non sarebbe mai
riuscito a fornire spiegazioni plausibili. Di sicuro, le banconote che spendeva
copiosamente non erano state prelevate dai suoi conti correnti.
Per dimostrare la falsità delle dichiarazioni di Metta, furono rintracciati i
titolari dell’impresa che aveva eseguito i lavori nell’appartamento, i fornitori di
materiali, l’elettricista, il fabbro: tutti dichiararono di essere stati pagati in
contanti e in nero. Risultati soddisfacenti, anche se indagare a dieci anni di
distanza da avvenimenti tanto complessi, su percorsi abilmente occultati da
persone esperte, non fu un’impresa facile. Con un lavoro serrato e metodico
riuscimmo a rintracciare i componenti del collegio, i cancellieri che lo
coadiuvavano in quel periodo, dopodiché, indirizzando la ricerca sui tempi di
lavorazione delle cause assegnate a Vittorio Metta, acquisimmo un dato di
grande interesse. Emerse, infatti, che normalmente il giudice non rispettava i
tempi indicati per il deposito delle sentenze, salvo la clamorosa eccezione della
decisione sul Lodo Mondadori, che vide la luce il giorno dopo la fine della
camera di consiglio: 167 pagine scritte in una sola notte! Non molto credibile...
Nel 1990, Metta era giudice relatore, pressoché in contemporanea, di due tra le
più importanti controversie civili nella storia della Corte d’appello della
Capitale: il caso Imi-Sir, che gli era stato assegnato nell’autunno 1989, e il Lodo
Mondadori, nell’estate 1990. Proprio a partire da quell’anno, il giudice romano
era improvvisamente diventato molto ricco, con una straordinaria disponibilità di
contante che iniziò a versare su conti correnti a lui riconducibili. Somme sempre
più consistenti, tutte rigorosamente in banconote da 50.000 o 100.000 lire.
Ancora oggi provoca un certo capogiro rileggere in quelle carte processuali i
vorticosi movimenti di miliardi sui conti esteri degli indagati (magistrati inclusi),
perfettamente a loro agio tra società di comodo, fondazioni in Paesi “sicuri”,
conti e depositi cifrati. I nomi emersi dall’inchiesta avevano frodato il fisco,
nascosto ingenti capitali nei paradisi fiscali, utilizzato quel denaro per
corrompere politici e magistrati, ma non erano stati mai perseguiti perché, dato il
tempo trascorso, i reati erano stati falcidiati dalla prescrizione.
A fronte delle accuse di corruzione suffragate da prove inoppugnabili, il
management del gruppo Fininvest aveva scelto il male minore, ammettendo
l’esistenza di fondi neri all’estero. Ma lo fece con una spudoratezza e
un’arroganza che avrebbero meritato la reazione di una collettività schiacciata
dalle tasse e da un enorme debito pubblico. Invece non accadde proprio nulla,
nessuna indignazione per quella rete di evasori seriali che, oltretutto, usavano il
maltolto per truccare le cause. Anzi, più le indagini facevano emergere tesori e
tesoretti sparsi per il mondo, più veniva alimentata nell’opinione pubblica
l’avversione per il nostro lavoro.
Mi sarei aspettata, per esempio, qualche reazione alla ricostruzione del
“Mandato 500”, la serie di operazioni effettuate nella seconda metà del 1991 per
trasferire 91 miliardi di lire di Berlusconi, fino a quel momento imboscati a San
Marino. Migliaia e migliaia di banconote confezionate in pacchi da 3 fino a 7
miliardi ciascuno venivano trasportate dal Titano all’hinterland milanese e
“scaricate” a Segrate, dove il fedelissimo ragionier Scabini, tesoriere centrale del
Biscione, le consegnava a spalloni che portavano in Svizzera 500 milioni alla
volta. Le somme venivano quindi depositate su conti correnti cifrati, indicati di
volta in volta su un foglietto di carta, tutti nella disponibilità di Berlusconi anche
se l’intestatario risultava lo stesso Scabini. Un flusso di denaro imponente, per
gestire il quale gli spalloni attraversavano anche tre volte al giorno la frontiera
con la Svizzera.
Il giudice designato all’udienza preliminare del filone “toghe sporche” e Imi-
Sir, Alessandro Rossato, lo stesso che aveva seguito le indagini e firmato gli
ordini di arresto, si è dimostrato in più occasioni un magistrato competente e
rigoroso. Pur consapevole di avere di fronte persone potenti, abili e smaliziate,
non si è lasciato intimidire dalle pressioni, dalla virulenza degli attacchi e dalle
polemiche che incendiavano il clima di quel periodo. Però, dal mio punto di
vista, ha impresso alle udienze un andamento che non ha giovato alla speditezza
del processo, concedendo troppo spazio alle richieste spesso pretestuose e
immotivate delle difese, che cavillavano su ogni minima questione. A dilatare in
misura esasperante la durata dell’udienza preliminare sono stati in larga parte i
ripetuti rinvii per l’impedimento di Previti a presentarsi in aula, a causa dei
“pressanti impegni” parlamentari che l’imputato aveva improvvisamente scelto
di moltiplicare.
Null’altro che pretesti, lo ribadisco. E per capirlo basta riassumere la sua
attività istituzionale in quegli anni. Caduto il primo governo Berlusconi, nel
quale era ministro della Difesa, Previti era entrato a far parte della Commissione
giustizia del Senato e nel 1996, alla vigilia delle elezioni, aveva addirittura
pubblicato un libello intitolato Un programma per la giustizia.
Eletto alla Camera, si era fatto assegnare alla Commissione difesa, dove era
rimasto fino all’agosto 1999 per poi entrare in quella degli Affari esteri. In tre
anni, dal giugno 1996 al luglio 1999, l’allora deputato aveva preso parte a 5.126
votazioni elettroniche su 21.495, aveva cofirmato in tutto otto proposte di legge
e, fino al maggio 1999, aveva preso la parola in aula soltanto due volte: il 20
gennaio 1998, per chiedere ai colleghi di non autorizzare il suo arresto, e il 23
ottobre dello stesso anno, per dire “no” al governo D’Alema. Insomma, uno dei
tanti onorevoli-fantasma che popolano il nostro Parlamento.
Ma a un certo punto, dopo quegli anni di smaccato assenteismo, era avvenuta
la svolta e in Previti si era miracolosamente incarnato lo spirito del deputato
modello. Con l’inizio dell’udienza preliminare, la sua frequentazione di
Montecitorio era diventata assidua e non si limitava a una presenza passiva.
Prendeva la parola, cimentandosi anche su argomenti di nicchia, dal trattato di
estradizione con il Paraguay alla tutela della minoranza linguistica slovena, e ai
miei occhi era quanto mai sospetta la scelta di Previti di entrare a far parte della
Commissione esteri (presieduta da Achille Occhetto), anche perché, dati i temi
di competenza di quell’organismo, erano frequenti incarichi e missioni che
prevedevano l’assenza dall’Italia. Dal settembre del 1998 l’imputato prese a
partecipare alle riunioni dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico con sede a Parigi, e dalla stessa data entrò a far parte della
delegazione italiana presso la conferenza parlamentare dell’Ince, l’Iniziativa
centro-europea, che proprio in quel periodo teneva a Praga la sua assemblea
annuale. Ma non bastava: gli interventi di Previti, dopo anni di silenziosa
indifferenza, erano programmati esclusivamente per il lunedì o il venerdì, cioè i
giorni in cui la Camera non prevedeva sessioni di voto. Una scelta mirata che,
sommandosi alle presenze per le votazioni, consentiva all’imputato di
autosegregarsi a Montecitorio per l’intero arco della settimana. Ne derivavano
così raffiche di impedimenti a presenziare al processo e le conseguenti richieste
di rinvio delle udienze.
Un metodo spregiudicato, che però il giudice non dava segno di voler troncare.
Credo che mai, nella storia della giustizia repubblicana, l’impegno politico e la
funzione legislativa siano stati così cinicamente ridotti a strumento di autodifesa
personale. Mai era accaduto prima che il mandato parlamentare venisse usato
come sabbia da gettare negli ingranaggi della giustizia perché si inceppasse, con
una volontaria interferenza manifestata in forma sistematica e capillare.
Questa tattica dilatoria – un caso di scuola in negativo per gli avvocati –
portava ad accesi e ripetuti scontri in aula: da una parte gli imputati e i loro
difensori, dall’altra il pubblico ministero. Dopo urti che facevano scintille,
richieste di sostituire i pubblici ministeri e un ricorso alla procura generale, l’11
ottobre 1999 accadde un episodio inedito e gravissimo. Durante l’udienza, le
difese ottennero dal giudice una sospensione e, a quel punto, una decina di
avvocati uscirono dall’aula, attraversarono in gruppo, platealmente, i corridoi del
palazzo di giustizia e andarono a bussare alla porta del procuratore capo,
Gerardo D’Ambrosio, con il quale ebbero un incontro di poco meno di mezz’ora.
Nel gruppetto dei penalisti che protestarono sfilando nei corridoi del palazzo
c’erano anche Piero Longo e Niccolò Ghedini, difensori di Silvio Berlusconi e
poi parlamentari di Forza Italia, Michele Saponara, difensore di Cesare Previti, e
il professor Gaetano Pecorella, assunto da Renato Squillante.
Nel colloquio con il mio capo, ma anche nelle chiacchiere di corridoio, questo
manipolo di illustri professionisti fece trapelare la verità che gli stava a cuore: il
problema del processo ero io. Così ancora una volta, pubblicamente, veniva
puntato contro di me un dito perché – questa la loro versione – mi proponevo
con modi irricevibili e il clima in aula era più disteso quando a sostenere
l’accusa c’era solo Gherardo Colombo. Un atto di pesante condizionamento,
aggravato dal tentativo malevolo di mettere me e Gherardo l’una contro l’altro.
Eravamo così arrivati a ridosso di una data importante: il 2 gennaio 2000. Quel
giorno sarebbe entrata in vigore la legge 479/99 che prevedeva, tra l’altro,
l’incompatibilità tra gip e gup, ovvero lo stesso giudice non poteva valutare le
indagini svolte e condurre l’udienza preliminare. Una nuova regola che valeva
per tutti i processi, compresi quelli in corso, fatti salvi gli atti e le attività del
giudice precedente.
Da mettersi le mani nei capelli. Soprattutto per gli effetti della retroattività e
anche perché la 479/99 era stata approvata nel corso della XIII legislatura dalla
maggioranza di centro-sinistra, quando il capo del governo era Massimo
D’Alema dei Democratici di sinistra e il ministro della Giustizia Oliviero
Diliberto di Rifondazione comunista. L’applicazione della norma avrebbe avuto
un effetto devastante sull’udienza preliminare iniziata più di un anno e mezzo
prima, perché le migliaia di pagine contenute nei faldoni avrebbero dovuto
essere studiate ex novo da un altro giudice, che avrebbe ovviamente avuto
bisogno di tempo. Di conseguenza si allontanava l’inizio del dibattimento,
qualora gli imputati fossero stati rinviati a giudizio, per non parlare dello
scorrere della prescrizione.
Era evidente, ai miei occhi, che le manovre dilatorie degli avvocati e l’inedita
veste di impegnatissimo parlamentare scelta da Previti avevano il solo obiettivo
di procrastinare la decisione del giudice almeno fino alla promulgazione della
nuova legge. Una tattica spregiudicata, alla quale ho tentato in tutti i modi di
sottrarre il processo, chiedendo in più di un’occasione al giudice di fissare
udienza la domenica, ma la risposta è sempre stata negativa. A impedirlo erano
l’organizzazione interna del tribunale e l’indisponibilità del personale
amministrativo nei giorni festivi.
Ero avvilita, ma non disposta ad accettare comportamenti simili e continuavo a
contestarli, perché la legge è uguale per tutti. Finalmente, nel novembre 1999, la
fase preliminare terminò e gli imputati vennero rinviati a giudizio. La prima
udienza del dibattimento Sme-“toghe sporche” venne calendarizzata per il 9
marzo 2000 davanti alla I sezione del tribunale, mentre la vicenda Imi-Sir fu
assegnata alla IV sezione e l’inizio fissato per l’11 maggio.
Passai il Natale a Milano, in totale relax, anche se sapevo le fatiche che mi
aspettavano di lì a poco, con due dibattimenti e un’udienza preliminare pronti a
decollare. Intanto, però, non avevo rinunciato a coltivare il desiderio di tornare a
occuparmi di mafia, lasciando ai colleghi del pool il compito di rappresentare
l’accusa davanti ai due collegi penali e al gup per il Lodo Mondadori. Ci
riunimmo diverse volte tra noi per parlarne, ma non riuscimmo a raggiungere un
accordo, perché Piercamillo Davigo e Paolo Ielo restarono fermi sulle loro
posizioni, con motivazioni che per la verità non mi sono mai sembrate ostative.
Anche Borrelli, che era già diventato procuratore generale, intervenne per
sostenere con vigore le mie ragioni, ma le posizioni dei colleghi non cambiarono
e così il cerino rimase in mano a me e a Gherardo. Ma ci trovavamo ormai in
mezzo al guado e indietro non si poteva tornare, benché il traguardo fosse
lontano e il percorso pieno di insidie. Ancora una volta, mi calzava a pennello la
definizione forgiata qualche anno prima in Sicilia dal mio amico Saieva: “Maria
Goretti in Fantozzi”.
Descrivere il mio stato d’animo in quegli anni non è facile. Di sicuro non stavo
bene, ero spesso sopraffatta da brutte sensazioni e pensieri negativi che sarebbe
troppo doloroso riesumare oggi. C’era l’indifferenza di molti colleghi a fronte
delle mie fatiche e delle mie richieste, l’avversione di alcuni di loro, la mancanza
di qualcuno da abbracciare e di una spalla sulla quale abbandonarmi nei
momenti di sconforto.
Mi mancava tanto Giovanni e a tratti sentivo stringersi come un cappio
soffocante quel filo sottile di odio, invidia, cattiveria che anche lui aveva dovuto
sopportare e che in qualche modo continuava ad accomunarci. Ma nonostante mi
mancasse, la realtà che vivevo giorno dopo giorno mi spingeva alla ribellione
contro di lui, ad accusarlo dentro di me di avermi rovinato la vita, anche perché
sentivo di non avere la sua forza e che non ce l’avrei fatta a reggere il modello di
servitore dello Stato che Giovanni aveva imposto, semplicemente facendo il
magistrato e morendo per questo. Forse mi stavo solo ribellando a una parte di
me che aveva radici ancora più lontane: sono sempre stata un soldatino ostinato
e incapace di calcolare per tempo i costi delle mie scelte. Sarebbe forse stato un
bene se trent’anni fa fossi riuscita a far sparire dalla mia vita quella sua figura
pacata e sorridente ma inflessibile, che – senza avermi chiesto nulla – mi portava
a reggere il mondo sulle spalle, non mi lasciava andare per la mia strada. Ma non
l’ho fatto, non ho voluto farlo o non sono riuscita a farlo.
Quei momenti di frustrazione, più probabilmente di paura, durante i quali mi
sembrava troppo faticoso andare avanti, non duravano a lungo e finivano ogni
volta per lasciare spazio alla disciplina e al realismo che mi riportavano alla
routine di sempre: lavoro, ufficio, figli, famiglia, amiche e amici veri (rassegnati
a sopportare i miei sbalzi d’umore).
Mi sono spesso chiesta se e quanto l’inconscio pesi nella vita di ciascuno di
noi. Non ho ancora trovato una risposta, troppe le situazioni ambivalenti che
hanno fatto vacillare ogni certezza. Ma se è vero che i sogni riflettono uno stato
d’animo, quello che ho sognato la prima notte di questo millennio ha per me un
significato preciso.
Ho festeggiato l’arrivo del nuovo secolo a Napoli, a casa di mio fratello,
insieme alla famiglia. Quella notte i fuochi d’artificio furono spettacolari, il cielo
del golfo era di mille colori dalla Costiera amalfitana fino al Vesuvio, da San
Martino alla collina di Posillipo, in una gazzarra gioiosa di razzi luminosi,
bombe carta, tric trac, bengala durata più di un’ora. A mezzanotte il mondo si
era fermato e tutti salutammo gli anni duemila con allegria.
Sono astemia, non mi piacciono le bollicine, ma per l’occasione non rifiutai un
po’ di champagne, perché quella notte era impossibile non brindare al futuro.
Tornando a casa, attraversai una città con le strade ingombre di resti
bruciacchiati dei fuochi d’artificio, vetri rotti, cocci e ogni tipo di spazzatura, ma
in quella notte anche il disordine e la sporcizia andavano vissuti con leggerezza e
benevolenza.
Una volta a casa mi addormentai quasi subito e sognai Giovanni: eravamo in
un posto di mare, lui era radioso, felice di vedermi, mi corse incontro e mi
abbracciò. Mi svegliai con un senso di benessere indicibile e la certezza che lui
sarebbe rimasto nella mia vita per sempre.
Ho interpretato quel sogno come un modo per rafforzare le emozioni profonde
che avevo vissuto con lui e che volevo assolutamente conservare, rivivere dentro
di me. Sta di fatto che, da buona napoletana, un sogno così intenso, arrivato
proprio nelle prime ore del nuovo secolo, mi regalò la certezza che non mi sarei
liberata di lui così facilmente e che questo avrebbe comportato l’addossarsi la
fatica delle imminenti scadenze processuali senza tanti piagnistei.
Il nuovo anno si presentò fin da subito denso di avvenimenti. Oltre all’udienza
preliminare per il Lodo Mondadori – iniziata il 3 febbraio davanti al nuovo gup,
Rosario Lupo, per effetto della legge sull’incompatibilità – e alla preparazione
della lista testi per i processi “toghe sporche” e Imi-Sir, già nel mese di marzo,
durante il turno esterno, mi capitò di incappare nell’ennesimo caso complicato.
Non credo di portarmi sfortuna da sola: direi che è statisticamente nella norma
imbattersi in un certo numero di fatti gravi in oltre quarant’anni di servizio.
Il 29 febbraio 2000 era stato sequestrato sotto la sua abitazione di Basiglio, nei
pressi di Milano, l’imprenditore Fabio Tacchinardi, titolare insieme alla famiglia
di una ditta di autotrasporti. Il primo ordine impartito alle forze di polizia era
stato quello di non divulgare la notizia. Non sapevamo con chi avevamo a che
fare, se professionisti o delinquenti improvvisati, ma in entrambi i casi la vita del
sequestrato poteva essere a rischio.
Qualche giorno dopo, i rapitori avevano fatto pervenire la richiesta di riscatto:
800 milioni. L’ammontare della somma e la tempistica di quella prima telefonata
e delle successive, insieme ad altri particolari, ci fecero ben presto capire che
Tacchinardi si trovava nelle mani di un gruppo di malviventi inesperti:
circostanza che non ci tranquillizzò affatto e che, anzi, imponeva una
conclusione dell’indagine in tempi brevissimi.
L’impatto mediatico del sequestro era stato dirompente. Oltre a danneggiare le
indagini rivelando dettagli riservati, l’incalzare delle notizie aumentava i rischi
per la vita dell’ostaggio, anche perché l’inesperienza poteva far saltare i nervi
alla banda. A questo clima di urgenza si sommavano le tensioni con la famiglia
Tacchinardi, soprattutto con i genitori, perché si trattava di persone – diciamo
così – concrete, pragmatiche, abituate a fidarsi solo di se stesse e incapaci,
persino in una simile circostanza, di affidarsi agli apparati dello Stato. E quindi
pronte fin da subito a pagare i rapitori.
Mi ero fatta questa idea cogliendo alcune frasi delle loro conversazioni, dalle
quali emergeva la filosofia di vita di quell’imprenditoria tipicamente lombarda,
quella del “ghe pensi mi”: siamo gente che lavora sodo, le fregature sono in
agguato ovunque, anche da parte dello Stato. Norme di vita consolidate, praticate
da generazioni, che includevano l’autoassoluzione per l’evasione fiscale: infatti,
nonostante il blocco dei beni, i Tacchinardi erano riusciti a mettere insieme la
somma richiesta e, avvalendosi di un intermediario (oltre che della compiacenza
di alcuni ufficiali dell’Arma), si preparavano a pagare il riscatto. Fortunatamente
scoprimmo i loro propositi, li chiamai nel mio ufficio e con tutta la fermezza di
cui ero capace spiegai che non era quella la strada per riportare a casa il loro
famigliare.
I fatti mi avrebbero dato ragione. Dopo alcune notti insonni trascorse in una
caserma dei carabinieri da cui dirigevo le operazioni, i banditi avevano ceduto e
– stretti nella morsa del dispositivo di ricerca – avevano liberato l’ostaggio,
senza riscuotere una lira. Ancora qualche giorno ed erano stati individuati i
responsabili, uno dei quali aveva lavorato per un anno e mezzo nell’impresa dei
Tacchinardi e studiato le abitudini della vittima.
Dell’esperienza del sequestro Tacchinardi mi è rimasto a lungo in bocca un
retrogusto amaro. Pur comprendendone l’angoscia, non eravamo mai entrati in
sintonia con i famigliari: nonostante avessero potuto misurare l’impegno e la
professionalità profusi in quei giorni, erano rimasti diffidenti, sospettosi, per
nulla collaborativi. La loro distanza dallo Stato si era manifestata, almeno
all’inizio, come sfiducia anche nei miei confronti, il che rendeva tutto più
difficile. È vero, alla fine si erano ricreduti e mi avevano anche mostrato
riconoscenza, ma ancora in quel modo che rispecchiava la loro visione della vita:
mi fecero recapitare da un carabiniere un Rolex Daytona del valore di diversi
milioni con un biglietto di ringraziamento. Rispedii indietro l’orologio, a mia
volta con un biglietto nel quale ricordavo loro che avevo fatto soltanto il mio
dovere. Non li ho più incontrati né sentiti.
Una parentesi e un’indagine fulminee, un successo che ricordo volentieri
almeno quanto le notti vissute tra fumo di sigarette e caramelle, ma che avevano
ben presto lasciato il posto ai processi in corso: un gorgo che mi aveva
riafferrato tra studio delle carte, tensioni in aula e colpi da parare fuori dall’aula.
Si avvicinava il 9 marzo, data di inizio del dibattimento “toghe sporche”, ed
era venuto il momento di presentare le liste dei testimoni. Quella stilata dalla
difesa di Berlusconi conteneva 1.654 nomi di magistrati, ossia un elenco
completo di quanti avevano prestato servizio nel distretto giudiziario di Roma tra
il 1986 e il 1989 e che avrebbero dovuto rispondere in aula a una domanda:
erano a conoscenza di episodi in cui Squillante si era prodigato a favore della
Fininvest o di altri imprenditori? A integrare l’elenco, numerosi personaggi di
spicco, tra cui gli alleati politici della Casa delle libertà, come Gianfranco Fini e
Pier Ferdinando Casini. La sterminata lista testi era pressoché identica a quelle
degli altri imputati, da Previti a Squillante, da Pacifico ad Acampora.
Un disegno evidentemente unitario, una compatta strategia dilatoria
confermata dai nuovi assetti dei collegi difensivi. Per esempio Gaetano
Pecorella, all’epoca deputato di Forza Italia nonché legale di Squillante, entrò a
far parte anche del team di Berlusconi. Una prima avvisaglia che nelle aule di
giustizia lo scontro sarebbe stato durissimo. Addirittura, tra i testimoni citati da
Previti comparivano anche i nomi dei pubblici ministeri del processo: Davigo,
Colombo, Greco e Boccassini.
Di ben altra qualità erano le nostre munizioni. Nella mia lista c’erano gli
agenti del Servizio centrale della polizia, che avevano lavorato sulle due
principali direttrici dell’inchiesta: l’analisi dei movimenti bancari e i
pedinamenti, i controlli, i contenuti delle intercettazioni.
Arrivò il 9 marzo. Prima di affrontare la questione delle testimonianze, i
giudici dovevano rispondere alla nostra richiesta perché fossero unificati in un
solo processo i tre filoni “toghe sporche”, Sme e Imi-Sir, quest’ultimo già fissato
per due mesi dopo, davanti a un’altra sezione del tribunale. L’istanza venne
respinta e cominciò così il calvario dei dibattimenti davanti a due collegi i quali,
a causa degli impegni veri o presunti degli imputati parlamentari, avrebbero
potuto tenere udienza – a turno, si badi bene – solo il venerdì e il lunedì,
raramente il sabato.
Nel frattempo proseguiva l’udienza preliminare per il Lodo Mondadori, che si
era conclusa il 19 giugno con una mazzata per l’accusa. Dopo tre ore e mezzo di
camera di consiglio, il giudice Lupo aveva deciso di prosciogliere tutti gli
imputati perché “il fatto non sussiste”. Il processo non s’ha da fare.
Non ero presente alla lettura del dispositivo. Data la mole di prove raccolte,
ero sicura che Lupo avrebbe deciso per il rinvio a giudizio, tanto che mi ero
regalata qualche giorno di vacanza a Ischia. Ero in spiaggia, leggevo una rivista
di moda mollemente adagiata sul lettino sotto il sole ormai estivo, quando era
squillato il cellulare. Dall’altra parte, la voce funerea di Gherardo aveva
farfugliato qualcosa che avevo inteso solo in parte. Gli avevo chiesto di ripetere
e lui, senza preamboli, aveva detto: “Abbiamo perso, tutti assolti con formula
piena”.
Come prima reazione mi arrabbiai con lui: “Se è uno scherzo è di cattivo
gusto!”. Ma Gherardo, con voce sempre flebile, disse che no, non era affatto uno
scherzo. Ancora incredula, telefonai al “mio” maresciallo, Daniele Spello, il
sottufficiale della guardia di finanza nel quale riponevo totale fiducia. Ma anche
a lui non restò che confermare, sconsolato: “Tutti assolti”. Davvero non riuscivo
a crederci: come aveva potuto il giudice non tenere conto delle prove che gli
avevamo consegnato? Della documentazione bancaria che già da sola avrebbe
meritato la verifica del dibattimento? Tornai di corsa a Milano.
In procura l’atmosfera era cupa. Nessuno di noi rilasciò dichiarazioni, anzi
restammo d’accordo di rimanere in silenzio fino al deposito delle motivazioni e
solo a quel punto avremmo deciso se presentare ricorso. Le motivazioni non
tardarono e, dopo averle lette, la procura depositò quaranta pagine assai critiche
sulle scelte del giudice. La Corte d’appello accolse i nostri rilievi, ribaltò la
sentenza di Lupo e rinviò a giudizio tutti gli imputati, a esclusione di Berlusconi.
La motivazione di questa eccezione aveva dell’incredibile: a Berlusconi erano
state concesse le attenuanti generiche (così che il reato era caduto in
prescrizione) perché al momento del processo era presidente del Consiglio.
Si determinò così la bizzarra circostanza per cui Berlusconi era diventato il
convitato di pietra nel processo, a fronte di un quadro accusatorio che lo vedeva
protagonista della guerra di Segrate, l’unico soggetto che aveva interesse a
ottenere con ogni mezzo il controllo della Mondadori, il creatore dei fondi neri
all’estero usati per comprare sentenze.
L’ultimo atto del 2000 – che rinfocolò le polemiche e gli attacchi nei miei
confronti – fu la riformulazione del capo d’imputazione nel processo “toghe
sporche”. Mossa peraltro anticipata alle difese nel corso delle udienze di giugno,
come sempre accompagnata da una copiosa documentazione, per l’esame della
quale gli avvocati chiesero un congruo periodo di tempo.
Il 17 novembre, dunque, venne ufficialmente contestato a Previti e Berlusconi
il versamento di mezzo miliardo a Renato Squillante, con una transazione tra
conti svizzeri, datata 1991. Come avevamo accertato per tabulas, il 5 aprile di
quell’anno, dal conto “Ferido” del Credit Suisse di Chiasso, nella disponibilità di
Berlusconi e alimentato con risorse extracontabili della Fininvest, era partito un
bonifico di 434.404 dollari a favore del conto “Mercier” presso la Darier
Hentsch di Ginevra, intestato a Cesare Previti. Lo stesso giorno, e dallo stesso
conto, un identico importo era stato girato sul conto “Rowena” di Renato
Squillante, presso la Sbt di Bellinzona.
Con la contestazione suppletiva, il reato per cui procedevamo diventava la
corruzione in atti giudiziari, dato che il periodo dei presunti illeciti veniva
spostato dal 1989 al 1991, portando la prescrizione a quindici anni. Non era una
nostra trovata per rilanciare il processo, né tanto meno – come gridavano certa
stampa e certa politica – un accanimento nei confronti dell’allora Cavaliere.
Semplicemente, quell’accusa non era stata già contestata perché i fatti accertati
arrivavano solo fino al 1989, cioè prima del debutto del nuovo reato. Con la
contestazione del bonifico dal conto “Ferido”, datato 1991, non avevamo fatto
altro che applicare il Codice riformato e, di conseguenza, chiedere la modifica
del capo di imputazione.
Berlusconi in persona non si lasciò sfuggire l’occasione di scagliarsi contro
l’ufficio. Paragonò la nostra scelta processuale all’arrivo della “cavalleria” delle
“toghe rosse”, utilizzata per eliminare dalla scena gli avversari politici. Si spinse
fino a invocare l’intervento del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, perché stigmatizzasse la persecuzione mirante “ad azzopparlo nella
corsa elettorale” proprio quando la sua vittoria era “già scritta nei sondaggi”.
Questo il mantra che ripeteva in ogni occasione, amplificato dall’eco dei suoi
aficionados e dal martellamento dei suoi media.
A parte la pressione che schiacciava la procura, la vicenda della contestazione
suppletiva segnò anche un’altra svolta nella mia vita personale: una grave
incomprensione con Gianni De Gennaro, che da pochi mesi il governo Amato
aveva scelto come capo della polizia.
Tutti gli amici di Gianni, me compresa, avevano accolto la notizia con grande
gioia. Una sera, a Roma, brindai a lui e a Giovanni durante una cena per pochi
intimi a casa di Liliana Ferraro, che fino alla fine aveva lavorato fianco a fianco
con Falcone al ministero. Una bella serata di chiacchiere, musica, persino
qualche ballo.
Finora non ho mai raccontato il duro contrasto che ebbi con Gianni, proprio
qualche giorno prima dell’udienza del 17 novembre, e ancora oggi faccio fatica a
parlarne. Il mio rapporto con De Gennaro è stato intenso, il suo ruolo nelle mie
scelte di vita dopo la morte di Giovanni è stato importante, gli volevo bene, lo
stimavo, anche perché sapevo quale affetto Giovanni nutrisse per lui. Per questo
in certi momenti molto delicati mi feci guidare dai suoi consigli e dalle sue
esortazioni.
Non era da meno il legame con Liliana Ferraro, cui mi accomunava l’affetto
per Falcone. Dal 1992 al 2009, Liliana e io siamo state inseparabili, pur vivendo
lei a Roma e io a Milano. Ogni volta che andavo nella Capitale, mi accoglieva
con amicizia nella sua casa, si prendeva cura di me e io l’aggiornavo sulle
difficoltà che dovevo affrontare. Accettavo i suoi consigli disinteressati,
compresi quelli che mi aiutavano a capire le dinamiche del sottobosco romano,
un intrico illeggibile per chi non abita e non lavora lì. In tutti quegli anni di
frequentazione, capitava spesso che con Liliana parlassimo di noi, della morte di
Giovanni, anche coinvolgendo i commensali che si alternavano a casa sua in via
di Sant’Eufemia e poi in via Cavour.
Fu proprio lei a telefonarmi quel venerdì 10 novembre 2000 per dirmi che De
Gennaro aveva urgente bisogno di parlarmi e che, per favore, andassi subito a
Roma. Allarmata, le chiesi se fosse successo qualcosa: mi rispose di non
preoccuparmi, ma dal suo tono di voce capii che quel viaggio a Roma era
improrogabile. Partii il prima possibile e, non appena ci vedemmo a casa sua, le
chiesi di nuovo cosa fosse accaduto. “Te lo dirà direttamente Gianni, sta per
arrivare,” mi rispose. Mi tranquillizzai e, nell’attesa, cominciammo a
chiacchierare del più e del meno come facevamo di solito. Quando Gianni
arrivò, erano ormai le 10 di sera.
Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa
stessi “combinando a Milano”, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato
a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che aveva in ogni occasione parlato loro bene
di me, garantendo sul fatto che fossi una persona corretta. Insomma, si era speso
per “evitarmi il peggio”. Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così
diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla
contestazione suppletiva che avrei depositato pochi giorni dopo al processo
Sme-“toghe sporche”.
Invece era proprio quella scadenza imminente – anzi, il tentativo di
neutralizzarla – che rendeva De Gennaro tanto aggressivo. A rincarare la dose,
aggiunse che gli era stato riferito che i miei colleghi del pool, compreso il capo
dell’ufficio Gerardo D’Ambrosio, erano favorevoli all’idea di non procedere alla
contestazione e che, infine, se io avessi rinunciato, anche Gherardo si sarebbe
adeguato. Stando così le cose, l’unico ostacolo ero io e per il bene di tutti dovevo
ripensarci, perché erano in gioco delicatissimi equilibri istituzionali.
Durante quell’intemerata, Liliana era rimasta in silenzio, ma dal suo imbarazzo
ricavai la netta sensazione che fosse già al corrente di quella manovra.
Non ho mai ricevuto un pugno nello stomaco, ma credo che l’effetto sia lo
stesso che provai incassando le parole di Gianni. Dopo il primo momento di
smarrimento, iniziò a montare dentro di me una rabbia feroce, mi sentivo tradita.
Non gli risposi, o meglio non argomentai una risposta alla sua perorazione in
favore di quanti mi aggredivano da anni. Gli vomitai addosso parolacce e insulti
mentre, infuriata, cercavo le mie cose e mi avviavo alla porta. Uscii, sbattendola
con tutta la forza che avevo.
Non sapevo dove andare, ormai era notte fonda, ero allo stesso tempo
furibonda e frastornata, non avevo con me denaro né telefono, perché
nell’agitazione avevo lasciato tutto a casa di Liliana. Ma non pensavo a questi
dettagli, mi bruciava troppo il voltafaccia di quel compagno di strada:
camminavo e piangevo per il dolore e la delusione della pugnalata ricevuta da
una mano più che amica. Di lì a pochissimo fui raggiunta da Liliana, che cercò
di calmarmi e mi riportò a casa. De Gennaro era già andato via e lei, pur
convenendo che Gianni aveva sbagliato a usare quei toni, cercò di convincermi
che il suo scopo era quello di proteggermi, di trovare una soluzione di
compromesso accettabile. Un tentativo inutile, nemmeno a mente più fredda mi
pareva ammissibile quella richiesta, quell’intervento su un processo.
La mattina dopo tornai a Milano con addosso tanta tristezza, la rabbia non del
tutto sbollita e molto su cui riflettere. Innanzitutto il pool: davvero, come aveva
insinuato Gianni, il nostro gruppo non era più compatto, c’era disapprovazione
nei miei confronti, così che mi trovavo a fare da parafulmine, isolata e
sovraesposta? Inoltre, De Gennaro era convinto dei cedimenti cui mi aveva
rudemente invitato o si era prestato al volere di altri, coinvolto perché persona
che poteva permettersi di parlarmi in quel modo, data la nostra amicizia e la
fiducia che ci legava?
Non potevo rispondere a nessuno dei quesiti che mi tormentavano e
comunque, come da programma, il 17 novembre depositammo la contestazione
suppletiva. E lo feci più convinta che mai, anche se percepivo che il muro di
protezione intorno a me cominciava a vacillare. Dopo la brutta esperienza
romana non potevo che andare avanti: meglio se in gruppo, ma anche da sola se
fosse stato necessario.
Nel 2001 Berlusconi vinse di nuovo le elezioni e, tornato a palazzo Chigi, fece
subito approvare dalla sua maggioranza la prima legge ad personam, che
dichiarava non utilizzabili le prove giunte dall’estero in risposta a una rogatoria
italiana, se non rispettando certi vincoli formali e burocratici.
Da mesi le difese facevano di tutto – anche sfiorando il ridicolo – per
convincere il tribunale a dichiarare nulle le carte che documentavano i
movimenti bancari svizzeri: perché mancava un numero di pagina, perché erano
fotocopie senza timbro di conformità, perché i documenti erano passati
direttamente dai giudici elvetici a quelli italiani senza transitare per il ministero
della Giustizia.
Istanze sempre respinte, ma una volta riconquistato palazzo Chigi, con il
pretesto di ratificare la convenzione italo-svizzera del 1998 sulla reciproca
assistenza giudiziaria (un passaggio dimenticato per tre anni dal precedente
governo di centro-sinistra), nell’ottobre 2001 la nuova maggioranza varò la
legge che stabiliva l’inutilizzabilità processuale degli atti inviati dalla
magistratura di un altro Paese se non autenticati con apposito timbro, se giunti
via telefax o allegati a una email, se consegnati brevi manu, in fotocopia o con
qualche vizio formale. E se anche l’imputato non avesse eccepito sul contenuto o
sull’autenticità, i documenti andavano comunque cestinati. Questa normativa, la
367/2001, violava ogni convenzione internazionale fino a quel momento
ratificata dall’Italia, nonché le prassi seguite da decenni in tutta Europa.
E sarebbe stata solo la prima delle leggi che miravano direttamente al cuore
dei procedimenti in corso, per vanificarli o allungarne a dismisura i tempi. Il
primo atto di quella vergognosa sequela di atti legislativi che sarebbe poi stata
giustamente definita come “difendersi dai processi” anziché difendersi nei
processi.
Penso che la spudoratezza con cui si cercava di neutralizzare il “problema”
delle rogatorie avesse colpito quella parte di opinione pubblica “affezionata” allo
Stato di diritto. Anche il cittadino più sprovveduto e ignaro delle tortuosità della
legge poteva intuire che quella normativa si sarebbe abbattuta come un maglio
sui processi in corso, affossandoli.
A parte queste difficoltà, ero anche intimamente delusa. Continuavo a
chiedermi, per esempio, come avesse potuto un uomo di diritto come Gaetano
Pecorella – conoscitore di convenzioni e trattati internazionali oltre che, in quel
periodo, presidente della Commissione giustizia della Camera – sostenere “per
ordine di scuderia” la necessità della nuova legge e addirittura salutarla come un
“atto di civiltà”.
Mentre ancora cercavo una ragione plausibile per un simile comportamento,
giunse l’articolata presa di posizione di Rudolf Wyn, vicedirettore dell’Ufficio
federale svizzero. Con un linguaggio stringato e tecnico, Wyn mise diversi
puntini sulle “i”, ribadendo l’originalità di tutta la documentazione fino a quel
momento inviata in Italia: innanzitutto gli imputati titolari dei conti avrebbero
potuto impugnare gli ordini di trasmissione; inoltre, come indicato dalla legge
elvetica, prima di consegnare i documenti all’autorità competente, le banche
avevano avvertito i clienti interessati e messo a loro disposizione ogni carta da
inviare a Milano. Il vicedirettore dell’Ufficio federale svizzero non mancò poi di
attestare ufficialmente che il materiale in questione era lo stesso acquisito presso
le banche, senza omettere né aggiungere un solo foglio.
Le due sezioni di tribunale emisero ordinanze ineccepibili, sancendo la
genuinità dei documenti acquisiti. Apriti cielo! Entrambi i collegi diventarono
bersaglio di critiche feroci, tanto quanto la procura, rea di aver richiesto
“illegittimamente” il parere della procura federale svizzera.
Mentre le polemiche divampavano, arrivò anche l’11 settembre con l’attacco
alle Torri gemelle e al Pentagono. Le immagini terribili degli aerei che
sfondavano i grattacieli di Manhattan, il crollo delle Torri, la fuga degli
scampati, le migliaia di vite mietute in pochi attimi turbarono le coscienze e
ancora oggi sono ferite non rimarginate.
Ma persino in quei frangenti di shock universale, il governo Berlusconi restò
concentrato sull’obiettivo, utilizzando addirittura i risvolti dell’immane tragedia
d’oltreoceano. Con il pretesto di recuperare uomini per fronteggiare il terrorismo
dell’Islam fanatico, d’accordo con tutti i ministri e con il beneplacito delle
opposizioni vennero ridimensionati, ridotti o cancellati diversi apparati di
sicurezza personale (vale la pena di ricordare che titolare dell’Interno era quel
Claudio Scajola che era riuscito a definire “un rompicoglioni” il professor Marco
Biagi che chiedeva disperatamente protezione e fu assassinato dalle Brigate
rosse nel marzo 2002).
Tra gli apparati aboliti o depotenziati, anche quelli assegnati ai magistrati. A
tutti i magistrati? Naturalmente no. Di sicuro la scorta venne tolta a me e venne
trasformata in una tutela ridotta, cioè un solo agente che mi avrebbe
accompagnata e che avrebbe dovuto vegliare sulla mia sicurezza.
In Italia le scorte sono sovrabbondanti, assegnate a politici, magistrati e
giornalisti che non sempre corrono reali pericoli. Da cittadina, quindi, ne ho
sempre auspicato un’assegnazione oculata e ragionata, ma i governi di ogni
colore che si sono succeduti hanno sempre agito con grande timidezza, senza
obiettività, più attenti a non scontentare gli interessati che ai problemi di
organico e di costi.
Anche per questo la decisione che mi riguardava riaccese la mia amarezza per
il sapore di vendetta che emanava e anche perché mi sentii abbandonata da
Gianni De Gennaro, che in cuor mio continuavo a considerare un amico,
nonostante lo scontro di qualche mese prima. Pensai che non aveva alzato un
dito per proteggermi e mi deluse il fatto che non si sentì in dovere di informarmi
personalmente. Forse non ne ebbe voglia o forse gli mancò il coraggio di
chiamarmi, anche solo per dirmi: “Ilda, ci ho provato, ma non c’è stato niente da
fare”. Mi sarebbe bastato. Ma, stati d’animo a parte, presi la decisione di
rinunciare anche alla tutela ridotta, pur consapevole dei rischi che correvo.
A prendere le difese mie e di Gherardo (anche a lui era stata revocata la tutela
minima di cui era dotato) fu ancora una volta Saverio Borrelli che, pur non
essendo più il capo dell’ufficio, convocò una conferenza stampa, nella sua stanza
di procuratore generale, e in quell’occasione pronunciò parole pesanti come
macigni:
Protesto ad altissima voce contro una decisione alla quale attribuiamo una motivazione e una valenza di
carattere squisitamente politico. Così facendo si è inteso sottolineare pubblicamente l’isolamento di un
piccolo gruppo di magistrati, evidentemente sgraditi al potere in carica rispetto alle altre istituzioni.
Sembra indiscutibile che certe decisioni assunte debbano collocarsi nel quadro di un’ostilità contro
magistrati che tengono alta la bandiera della legalità, senza timori e senza guardare in faccia nessuno.
A casa, faticai non poco a rasserenare i miei figli, assicurando loro che non
avrei commesso imprudenze e avrei limitato le uscite, in ogni caso sempre
accompagnata da amici. Effettivamente, mi adattai a vivere i momenti di svago
in casa, ridussi ulteriormente le occasioni di distrazione e leggerezza. Non che
fosse un grande sacrificio, perché da anni vivevo una vita privata a scartamento
ridotto e mi faceva bene essere circondata dall’affetto dei miei cari e dalla
solidarietà che potevo percepire.
Non avevo alcuna intenzione di accettare passivamente questa ennesima
angheria, stigmatizzata da Borrelli. Lo capì persino Giuliano Ferrara, sempre
assai ruvido nei miei confronti, che però in quel caso contestò duramente la
decisione di privarmi della scorta, dati i rischi che correvo, soprattutto per essere
stata a lungo indicata come accanita persecutrice e acerrima nemica
dell’amatissimo leader del centro-destra.
Così cominciò dalle pagine del “Foglio” una campagna di segno opposto alle
solite, per sollecitare il governo a tornare sui suoi passi. Da persona intelligente
quale è, Ferrara comprendeva l’azzardo cui si era esposto Berlusconi: quali
reazioni ci sarebbero state se mi fosse accaduto qualche episodio spiacevole (o
peggio)? Bastava un ceffone ricevuto per strada da un fanatico, proprio come
qualche anno dopo sarebbe accaduto al Cavaliere, quando gli era stata lanciata in
faccia una miniatura del Duomo. Alla luce del trattamento che “Il Foglio” mi
aveva riservato a lungo, penso tuttavia che il direttore temesse soprattutto la
crescita della mia popolarità, che avrebbe vanificato anni di martellamento per
convincere gli italiani che fossimo “toghe rosse” con la missione di abbattere
Berlusconi per via giudiziaria.
20.
Tra un rinvio e l’altro
10 gennaio 2002
Ho sentito il bisogno, incoercibile, di manifestare la simpatia, la stima, il rispetto che le sue azioni
professionali e il suo stile hanno generato in me. Quello che mi ha fatto vincere la pigrizia a esprimermi
sono state una serie di inquadrature televisive che la riprendono sola, avvolta nella sua toga nera, mentre
tormentava la penna davanti allo spettacolo dei numerosi avvocati della difesa (diversamente da lei
sempre sorridenti) che parlavano di tutto tranne che dei fatti contestati. In quei momenti ho provato la
voglia di manifestarle la mia solidarietà. Mi sono messo nei suoi panni di fronte alle azioni, alle calunnie,
agli attacchi verbali violenti, continui, pretestuosi, gratuiti di una parte del mondo politico e istituzionale:
allora ho pensato ai sentimenti di amarezza, di solitudine, di rabbia, che mi avrebbero attanagliato. Io non
ce l’avrei fatta ad andare avanti. Ma io, fortunatamente per tutti, non sono lei.
11 gennaio 2002
Desidero aggiungere il mio personale sostegno a tutti coloro che le hanno scritto per manifestarle
solidarietà e incoraggiamento nella vicenda processuale Sme. Capisco quanto debba essere duro resistere
al terribile ostruzionismo in corso. Tenga duro, lei rappresenta un faro per tutti coloro che in questo buio
continuano a sperare, in Italia e all’estero, che nel nostro Paese possa ancora esserci giustizia. Pensi ai
giovani nel difficile sforzo per compiere il suo dovere. Noi “vecchi” non possiamo deluderli.
11 gennaio 2002
La memoria di quanto ha fatto lei nella nostra città di Palermo ci riempie di gratitudine, quello che lei sta
facendo adesso di ammirazione e gratitudine infinita. Grazie, grazie, grazie.
14 gennaio 2002
[...] La ringrazio per il coraggio che da tempo la sorregge per poter rimanere in prima linea. La ringrazio
per quella sua sicurezza professionale che l’aiuta a non desistere davanti a ostacoli davvero
insormontabili. La ringrazio per quella sua sconfinata fiducia nella giustizia che aiuta anche noi a credere
nei valori, soprattutto la voglio ringraziare per quell’essere Donna che non si lascia piegare e sa porsi da
esempio innanzitutto ai giovani che saranno la società di domani e a noi onesti cittadini.
21.
La legge Cirami
Nella tarda serata del 29 aprile, il presidente Paolo Carfì, con accanto i giudici
della IV sezione, Maria Luisa Balzarotti ed Enrico Consolandi, lesse il
dispositivo della sentenza. Guardando la fotografia pubblicata da tutti i
quotidiani, in cui i tre giudici erano ritratti in piedi, Carfì con i fogli in mano e,
sopra le loro teste, la scritta “La legge è uguale per tutti”, mi veniva da sorridere.
Non per la condanna, ma per il fatto che avevamo portato a termine un processo
tormentato, difficilissimo ed eravamo approdati a una sentenza nel rispetto di
quella frase.
Fino alla fine era rimasta in dubbio la possibilità di celebrare il processo e il
fatto stesso che dopo quasi tre anni il collegio potesse leggere la sentenza
costituiva per me la vera vittoria al di là del merito della decisione. In tutto quel
lunghissimo periodo ci eravamo battuti per dimostrare la colpevolezza degli
imputati – certo – ma anche per difendere la legittimità del nostro lavoro, il
diritto della magistratura a raccogliere le prove, a celebrare un processo
affrontando il contraddittorio tra le parti. A dirlo oggi sembra tutto scontato, ma
in quegli anni bui, in cui il diritto veniva preso a schiaffi – e noi con esso –, la
certezza del traguardo era stata conquistata solo negli ultimi metri, dopo una
gara segnata dalle scorrettezze.
Mentre il presidente leggeva la sentenza, non riuscivo a concentrarmi sulle
condanne che stava elencando, faticavo a distinguere le parole, come stordita da
un solo pensiero: chi aveva voluto aggredire e delegittimare la funzione
giudiziaria dello Stato non aveva vinto; chi si era illuso che una donna non
sarebbe stata in grado di superare gli ostacoli e le difficoltà disseminati sul
percorso non aveva vinto. “Ilda la rossa” ce l’aveva fatta, con le sue fragilità, la
sua ostinazione, il suo coraggio da incosciente. Aveva resistito come l’agave.
Nel 2006 e poi nel 2007 la Suprema corte avrebbe dichiarato definitiva la
sentenza per le vicende Imi-Sir e Lodo Mondadori, confermando le condanne
inflitte a Previti, Pacifico, Acampora e Metta e assolvendo, in relazione alle
vicende Imi-Sir, Squillante, la vedova Rovelli e il figlio Felice.
Anche il dibattimento innanzi alla I sezione era ormai alle battute finali. Il 18
aprile il presidente del Consiglio aveva fatto una fuggevole comparsa in aula,
rimanendovi solo pochi minuti. Nei mesi precedenti erano state più volte
annunciate le sue dichiarazioni spontanee e l’attesa creata ad arte era notevole.
Chissà cosa avrebbe detto di tanto eclatante da convincere il collegio delle sue
ragioni... Dopo circa un mese, il 5 maggio, Berlusconi si ripresentò in aula e
stavolta parlò, a braccio, per circa un’ora.
Non mi è piaciuto, quel 5 maggio. È stata, a mio avviso, una giornata segnata
da una caduta di stile della magistratura milanese. Per l’audizione di Berlusconi,
il collegio aveva deciso di tenere udienza in aula magna. Per la prima volta nella
storia del palazzo di giustizia di Milano, veniva concessa a un imputato la
sacralità dello spazio dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario o alla
commemorazione dei colleghi uccisi dal terrorismo e dalla mafia. La scelta era
stata fatta dai vertici del palazzo senza interpellare la procura e, non appena ne
venimmo a conoscenza, Gherardo e io ci trovammo d’accordo nel criticare quel
gesto di debolezza verso un potente che veniva lì per essere processato.
Quel giorno la confusione era quasi ingovernabile: pubblico numerosissimo,
cittadini curiosi, fan del presidente, avvocati al gran completo, tanti giornalisti.
Date le dimensioni dell’aula magna, tra il banco dei giudici, gli scranni del pm e
quelli degli avvocati c’era una distanza esagerata, in una scenografia surreale
nella quale bisognava parlare a voce altissima per potersi sentire superando il
brusio di centinaia di persone. Un di più di difficoltà e di disagio che mi irritò
non poco.
Anche per stemperare la tensione, avevo scelto con cura dalla mia collezione
la collana da indossare: una vistosa due fili di corallo rosa, molto bella, e un paio
di orecchini di corallo di Sciacca. Per tutto il tempo dello show di Berlusconi
pensai a come spezzare quella situazione di vantaggio, non tanto per i risibili
argomenti portati a sua difesa, ma per quel suo avere campo libero, senza che si
potesse sentire anche la voce dello Stato in un frangente mediaticamente tanto
amplificato. Berlusconi non si era fatto interrogare e le dichiarazioni spontanee
di un imputato non consentono il contraddittorio, ma non potevo permettere che
quel giorno avesse lui l’ultima parola. Così, quando ebbe terminato di parlare,
mi alzai improvvisamente ed esclamai: “Presidente!”. Non avevo iniziato per
caso con quell’appellativo: in quell’aula, di presidenti ce n’erano due e
approfittando della perplessità della presidente Ponti – che, ritenendo mi stessi
rivolgendo a lei, si dispose ad ascoltarmi – continuai tutto d’un fiato fissando
Berlusconi: “Presidente, vuole cogliere l’occasione per aggiungere, a sua difesa,
qualche spiegazione sulle dichiarazioni dei suoi collaboratori a proposito dei
fondi neri accumulati all’estero dalle sue aziende?”.
Nessuno si aspettava quella domanda irrituale, cortese nel tono, ma per
Berlusconi urticante nella sostanza. E ne rimase spiazzato. Ero certa che sarebbe
caduto nella provocazione, difatti fece per rispondermi, piccato dalla mia
sfrontatezza, ma fu immediatamente bloccato dai suoi difensori, Ghedini e
Pecorella: rivolti ai giudici dissero che purtroppo il presidente doveva andare,
richiamato dai suoi impegni istituzionali. Scuro in volto, per una volta
Berlusconi obbedì ai suoi legali e uscì in fretta seguito dal solito codazzo di
assistenti, guardie del corpo e giornalisti. Ma per me andava bene così, perché la
mia domanda, la reazione stizzita dell’imputato e l’affannarsi degli avvocati per
contenerla avevano riportato l’udienza su un piano di parità, quanto meno
mediatico.
Ero certa di aver fatto la cosa giusta e ne ebbi conferma da alcune lettere ed
email ricevute subito dopo. Una mi arrivò il giorno stesso dell’udienza: “Cara
Ilda, ci tenevo a dirti che la tua domanda di oggi al processo è stata grande! Ne è
valsa la pena. Lui era in netta difficoltà e stava per dire una cazzata. Sono
intervenuti prontamente per fermarlo. Ancora grazie per tutto questo. Baci”. Era
firmata da una sconosciuta.
Per gli impegni “improcrastinabili legati al suo ruolo istituzionale” Berlusconi
non si presentò più in udienza e, comunque, pochi giorni dopo il tribunale separò
la sua posizione da quella degli altri imputati, proprio mentre iniziava l’iter
parlamentare dell’ennesima legge blocca-processi, ovviamente ad personam. La
nuova normativa prevedeva che le cinque più alte cariche dello Stato –
presidente della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio, della Corte
costituzionale – non avrebbero potuto subire processi nel corso del loro mandato.
Iniziai la requisitoria del processo Sme-“toghe sporche” il 23 maggio 2003,
proprio il giorno dell’undicesimo anniversario della morte di Giovanni, e la
conclusi il 30 maggio, chiedendo la condanna degli imputati. Con l’usuale
tempismo, lo stesso giorno arrivarono in procura gli ispettori del ministero,
inviati dal ministro Castelli. Ero stanca, avevo appena terminato di parlare e
perciò decisi di trascorrere un weekend a Sarzana, ospite di Lilia Fredella, una
cara amica in servizio nella cittadina ligure come dirigente del commissariato.
Riuscii, almeno per un po’, a scrollarmi di dosso la tensione chiacchierando,
leggendo, prendendo il sole e mangiando dell’ottimo pesce.
Tornata a Milano, insieme a Gherardo mettemmo mano alla relazione da
consegnare agli ispettori Ciro Monsurrò e Arcibaldo Miller, due colleghi che non
guadagnarono la mia stima, tanto forte era la sensazione che operassero al
servizio del potere.
Come se non bastasse, era stato fissato per il 4 giugno l’incontro per niente
gradito con gli inviati da via Arenula, tanto che con Gherardo decidemmo di
liquidarli senza perdere troppo tempo: “Consegniamo la nota di risposta
richiesta, corredata da allegati, a nostro avviso tempestiva ed esauriente in
relazione al contenuto dell’inchiesta. Riteniamo che questa memoria scritta sia
completamente esaustiva”. Mantenere un atteggiamento distaccato verso quei
due colleghi mi costò parecchio, perché avvertivo il forte desiderio di dire loro in
faccia ciò che pensavo. Ma non volevo mostrarmi agitata o impaurita per
l’iniziativa del ministro. Speravo che percepissero la disistima che nutrivo per
loro e per quel prestarsi ad azioni del genere senza un soprassalto di orgoglio
professionale. In fondo erano magistrati, anche se temporaneamente prestati alla
burocrazia.
Il 18 giugno, la norma blocca-processi venne votata anche dalla Camera e
diventò legge, “congelando” la posizione processuale di Berlusconi fino a
quando non avesse lasciato palazzo Chigi. Ritenendo questa limitazione di
dubbia costituzionalità, una settimana dopo chiedemmo in udienza che su
quell’obbrobrio si pronunciasse la Consulta. Il tribunale giudicò fondata la
richiesta e di conseguenza sospese il processo in attesa del responso definitivo. Il
“Lodo Schifani” – così ribattezzato dai media, dal nome del suo promotore,
Renato Schifani, fedelissimo senatore di Forza Italia – sarebbe stato giudicato
incostituzionale e quindi bocciato nel gennaio 2004.
In una ennesima puntata di questa telenovela giudiziaria, nell’aprile dello
stesso anno iniziò il processo-stralcio nei confronti di Berlusconi, davanti a un
nuovo collegio presieduto da Francesco Castellano. Alla prima udienza, il 16
aprile, accusa e parti civili chiesero l’astensione del presidente che, in
concomitanza con l’inizio del processo, aveva lasciato trasparire in alcune
interviste la sua propensione verso la parte politica dell’imputato.
Il collegio respinse la richiesta e, nel dicembre 2004, Berlusconi fu assolto con
formula piena per entrambi i capi di imputazione. L’imprenditore che aveva
scalato due imperi economici (Sme e Mondadori) grazie all’attività criminale dei
Previti, dei Pacifico, degli Acampora e alla corruzione dei magistrati Squillante e
Metta era riuscito a sfuggire alla giustizia sfruttando il potere connaturato alla
carica istituzionale ricoperta per guidare il Paese. Mi auguro che su questa verità
storica riflettano a fondo le generazioni future.
Dopo la mia requisitoria, al processo Sme-stralcio parlarono le parti civili e
vennero infine le arringhe dei difensori. Ma poco prima della pausa estiva –
ormai era luglio –, arrivò un altro siluro. Stavolta lanciato da Brescia: la
procura, retta da Giancarlo Tarquini, aveva avviato un’indagine penale contro
me e Gherardo per abuso d’ufficio.
Un tentativo grottesco. Ma devo darne conto per rendere l’idea della spossante
sequenza di mosse che aveva un solo protagonista, Cesare Previti, molti
comprimari e l’obiettivo esplicito di fermare in tutti i modi il processo Sme,
ormai prossimo a sentenza.
Il 4 luglio, un avvocato di Perugia, tal Giacomo Borrione, presidente di un
“Comitato nazionale per la giustizia”, aveva sporto denuncia contro me e
Gherardo per la gestione del fascicolo da cui erano nati i vari processi. Nel suo
esposto, Borrione sosteneva che “la sua iniziativa era tecnico-giuridica e non
certo politica”, anche se aveva dimenticato di specificare la sua carica di
dirigente regionale di Forza Italia e, precisamente, di responsabile dei problemi
della giustizia per il partito in Umbria.
L’avvocato aveva raccolto in modo grossolano le accuse più volte ripetute da
Previti, rilanciate dai suoi amici parlamentari e amplificate dai giornali di
quell’area, concludendo in una striminzita paginetta che “la condotta dei
pubblici ministeri titolari dell’indagine integrava estremi di reato”. Dall’analisi
della tempistica di questo episodio, sembra che la procura di Brescia non
aspettasse altro: il 9 luglio, cinque giorni dopo l’iniziativa del pasdaran di Forza
Italia, era stato protocollato l’esposto e il 10 luglio eravamo già iscritti nel
registro degli indagati. I colleghi bresciani non ci avevano messo tanto a valutare
il livello minimo di attendibilità della denuncia e nemmeno – com’è d’uso,
logico e pure d’obbligo – a verificare l’identità del firmatario. Tarquini chiese
tutti gli atti dei nostri processi e delegò ben tre colleghi per esaminare i fascicoli
e indagare sul nostro operato. Evidentemente il carico di lavoro del suo ufficio
non era esorbitante oppure, se lo era, venne accantonato per occuparsi di ombre
e complotti. Fatto sta che i colleghi bresciani ebbero il tempo di disporre anche
l’audizione di una marea di testimoni per arrivare a novembre a chiedere
l’archiviazione.
Circondati su tre fronti – indagati a Brescia, sotto ispezione del ministro
Castelli e oggetto dell’azione disciplinare da parte della procura generale della
Cassazione –, Gherardo e io continuavamo a partecipare anche al balletto delle
udienze, in attesa della sentenza. Dimenticavo, ero anche indagata dalla procura
di Perugia, a seguito di un esposto presentato da due signori non proprio
sconosciuti: Renato Squillante e Cesare Previti.
Dato l’attivismo frenetico degli inquirenti bresciani, temevamo anche azioni
invasive, come una perquisizione domiciliare. Una possibilità per niente remota
che mi metteva in agitazione, soprattutto perché Alice non stava ancora bene,
doveva sottoporsi a frequenti controlli dopo l’intervento per il quale era ancora
sotto shock e aveva bisogno di essere rassicurata sul suo futuro. Come avrebbe
reagito se la polizia avesse bussato a casa nostra per una perquisizione? Il suo
equilibrio ancora fragile ne avrebbe risentito, per non parlare della prevedibile
reazione di sconcerto di Antonio.
Fantasie? Non proprio, visto che la procura di Perugia aveva già inviato la
guardia di finanza a perquisire il mio ufficio e fatto sequestrare come possibile
corpo di reato una radio con lettore di musicassette che tenevo in bella vista sulla
scrivania. L’ipotesi perugina era che avessi usato quella radio per manipolare le
intercettazioni ambientali captate tra Renato Squillante e il collega Francesco
Misiani! Invece era lo stesso apparecchio che mi teneva compagnia a
Caltanissetta, dove ascoltavo fino alla noia la canzone di Dalla, con la sua
ragazza dagli “occhi verdi come il mare”.
La situazione diventò addirittura parossistica quando al povero maresciallo
Spello cadde malauguratamente in terra, e si spezzò in due, il cd con la
registrazione delle conversazioni tra Squillante e Misiani, ritenuto dai difensori il
supporto originale. Apriti cielo! Previti, Berlusconi e gli avvocati gridarono allo
scandalo, additarono la presunta opacità della nostra azione, parlarono di
manipolazione delle prove e fummo accusati di ogni nefandezza. Il maresciallo
Spello, disperato, ne fece una malattia. La violenza delle calunnie era tale che
decidemmo di tutelarci instaurando una vertenza civile per danni davanti al
tribunale di Brescia. Una causa che anni dopo avremmo vinto.
24.
Il caimano
Nel gennaio 2011 la malattia era già dentro di me anche se io l’avrei saputo
mesi dopo. Probabilmente per esplodere aspettava solo una spintarella che
aumentasse il livello di stress fisico e psicologico cui ero sottoposta da anni. Il
27 gennaio di quell’anno, il quotidiano “il Giornale” pubblicò in prima pagina
un articolo intitolato “Verità nascoste. Amori privati della Boccassini”. La
giornalista che lo firmava, Anna Maria Greco, ripescava una vicenda di cui ero
stata vittima quasi trent’anni prima, un fatto dall’inconfondibile olezzo di
misoginia che in un sol colpo aveva leso la mia vita privata e la mia immagine
pubblica.
Nel 1981 ero finita sotto procedimento disciplinare dopo che l’allora
procuratore Mauro Gresti (delle cui opacità ho già scritto) aveva chiesto il mio
trasferimento ad altra sede per incompatibilità ambientale. Tutto era nato dalla
relazione di servizio di un carabiniere di scorta a un collega molto vicino al
procuratore stesso. In questa relazione, scritta ad arte per danneggiarmi, il
carabiniere riferiva di avermi vista per strada in atteggiamenti sconvenienti con
un giornalista di sinistra. E qual era l’atteggiamento così scandaloso da meritare
di essere segnalato in un rapporto? Stavo camminando lungo una via vicina al
palazzo di giustizia, in pieno giorno, a braccetto con un amico. Un
comportamento di per sé disdicevole – secondo il procuratore – ma con alcune
“aggravanti”: io ero un pubblico ministero, simpatizzante per la corrente di
Magistratura democratica, divorziata (nelle carte inviate al Csm le parole
“Magistratura democratica” e “divorziata” erano sottolineate in rosso) e il mio
amico era “persona nota” in quanto cronista giudiziario, accreditato presso la
sala stampa del palazzo per il quotidiano “Lotta continua”. Insomma, nella testa
del procuratore eravamo due pericolosi sovversivi che, sommati, avrebbero
potuto danneggiare l’immagine dell’ufficio, io rivelando e lui scrivendo chissà
quali segreti istruttori. In realtà, in quei miei primi anni da magistrato mi
occupavo esclusivamente di reati bagatellari, ma poco importava: il vero
pericolo che rappresentavo per una certa mentalità allora imperante era costituito
dalla mia simpatia per Md. Benché fossero tanti i colleghi della procura che
militavano attivamente nello stesso gruppo, Gresti scelse freddamente di colpire
me, una giovane collega donna.
Tutte quelle assurde accuse caddero e nel 1983 venni prosciolta. A difendermi
era stato Armando Spataro, all’epoca uno dei sostituti di punta e in prima linea
nella lotta al terrorismo politico: il solo fatto che avesse accettato di
rappresentarmi davanti alla sezione disciplinare diceva abbastanza
sull’inconsistenza delle calunnie e sulla “pericolosità” del mio rapporto di
amicizia con un giovanotto di sinistra. Anche se sono passati tanti anni, ricordo
perfettamente che per l’audizione innanzi al Csm scelsi un vestito decisamente
serioso, con tanto di bavero bianco che mi copriva il collo: mi sentivo una Maria
Stuarda che stava affrontando il patibolo con la fierezza di una regina offesa
nell’onore. Regina a parte, l’indignazione mi bruciava eccome.
L’articolo del “Giornale” del 2011 riportava dettagliatamente le notizie e i
documenti riservati risalenti a trent’anni prima, conservati nella mia pratica
personale al Consiglio superiore. Come aveva fatto la giornalista a entrarne in
possesso? Semplice. Un membro laico del Consiglio, Matteo Brigandì, avvocato
messinese nonché ex deputato ed ex senatore della Lega Nord, era andato a
frugare nell’archivio, aveva sottratto il contenuto del mio fascicolo e l’aveva
passato al quotidiano berlusconiano. Un vero e proprio killeraggio organizzato ai
miei danni, cui si erano prestati un indegno rappresentante delle istituzioni
fattosi ladro, un direttore di giornale e una giornalista.
L’obiettivo era, al solito, quello di disinformare e così disorientare l’opinione
pubblica, mettendo sullo stesso piano lo spessore morale di Berlusconi e quello
della donna che rappresentava la pubblica accusa nello scandaloso “caso Ruby”,
colei che aveva “spiato” le feste di Arcore, ascoltato le conversazioni pruriginose
delle ragazze di via Olgettina, che aveva preteso di “sbirciare nella camera da
letto” del presidente del Consiglio. Così ogni giorno ripetevano sui giornali e in
tv gli accoliti del capo del centro-destra.
Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, il 2 febbraio, dando seguito
alla segnalazione della presidenza del Csm, la procura di Roma inviò la polizia
giudiziaria a perquisire la redazione romana del quotidiano e l’abitazione di
Anna Maria Greco. Nella sua reazione furibonda, il direttore Alessandro Sallusti
spese parole pesanti: “Per l’ennesima volta la corte dei magistrati mostra il suo
volto violento e illiberale. La perquisizione nell’abitazione privata della collega
Greco non è solo un atto intimidatorio, ma una vera e propria aggressione alla
persona e alla libertà di stampa”. Non mi pare che la libertà di stampa contempli
il diritto di distruggere la privacy di una cittadina e di infangarne l’immagine
professionale.
In quelle stesse ore, infatti, una lettera di minacce indirizzata a me fu
recapitata alla redazione bolognese del “Resto del Carlino”. Non era firmata, ma
riportava l’intestazione “Fuan” (compagine universitaria di destra, appendice del
Movimento sociale italiano) scritta in stampatello e le frasi contenute erano del
tipo “La Boccassini deve morire” e “Farai una brutta fine”. Dal timbro sulla
busta fu possibile verificare che la lettera minatoria era stata smistata dalle Poste
il 29 gennaio, meno di quarantotto ore dopo la pubblicazione dell’articolo del
“Giornale”. Nello stesso periodo mi fu recapitata in ufficio una busta con due
proiettili inesplosi.
Brigandì, dichiarato decaduto dal Csm dopo un paio di mesi dalla scoperta
della malefatta, ha successivamente subito un processo che si è concluso con la
condanna definitiva e con la liquidazione di un risarcimento a mio vantaggio di
60.000 euro. Ma approfittando delle lungaggini del processo, durato anni, l’ex
avvocato di Umberto Bossi – inseguito anche dal fisco e pure dalla Lega che
vantava crediti nei suoi confronti – ebbe il tempo di azzerare i suoi conti correnti
e di spostare la residenza in Tunisia, riuscendo così a risultare nullatenente in
Italia. Anche se, come ex deputato, percepiva dalla Camera un assegno vitalizio
pari a 5.471,10 euro mensili. Dopo la sentenza definitiva, nel 2019, il tribunale
di Roma ha accolto la mia richiesta di pignoramento. Ovviamente ne percepisco
solo spiccioli, perché Brigandì è debitore dell’erario per 1.391.059 euro e
l’Agenzia delle entrate gli trattiene ogni mese il 95,3%. Ma non importa, per me
conta la soddisfazione di aver ottenuto il riconoscimento per quell’ignominia e il
pignoramento di un vitalizio decisamente immeritato.
Nel periodo dell’ennesimo assalto mediatico non arrivarono, per fortuna, solo
insulti e minacce, ma anche attestati di solidarietà, soprattutto da parte di donne
di ogni età, ceto sociale, professione. Un fiume di affetto che mi fece bene anche
perché – pensavo – le donne che volevano testimoniare la loro vicinanza erano
lontane anni luce dalle frequentatrici di Arcore, altre giovani donne pronte a
tutto per assicurarsi un po’ di benessere e un po’ di effimera notorietà televisiva.
Il giorno stesso dell’uscita dell’articolo sul “Giornale”, ricevetti una email da
Marianna Aprile, che non conosco. Ma l’ho conservata ed è saltata fuori solo
quando ho lasciato la mia stanza numero 30 in procura:
Gentile dottoressa Boccassini, sono una giornalista del settimanale “Oggi” e le scrivo per testimoniare
tutta la mia solidarietà per l’indecente attacco di cui è stata fatta oggetto questa mattina da alcuni miei
colleghi. So che probabilmente l’aveva messo nel conto e che ha la corazza più forte dei petardi che certa
gente può indirizzarle. Ma a nome della categoria, le chiedo comunque scusa. A nome di tutte le giovani
donne italiane (vabbe’... giovani... io ho trentaquattro anni) la ringrazio invece per quello che sta
facendo. Spero davvero che quanto sta emergendo grazie al coraggioso lavoro suo e dei suoi colleghi
possa costituire un punto di svolta verso la ricostruzione della dignità delle donne in questo Paese.
Tra il 2013 e la fine del 2015 la mia vita è trascorsa tutto sommato serena.
Come sempre il lavoro occupava la maggior parte del tempo, ma questo non mi
impediva di passare ore piacevoli con le amiche, di andare al cinema e a teatro,
di godermi weekend rilassanti.
In linea di massima essere single non mi pesava, anche se non nego che
quando – per esempio durante i viaggi – la sera chiudevo la porta della camera
d’albergo, non mi sarebbe dispiaciuto avere qualcuno accanto. Così come penso
di tanto in tanto che non sarebbe stato male invecchiare con un uomo a fianco:
ma ora che ho superato la linea dei settant’anni, mi pare improbabile la comparsa
sulla scena di un principe azzurro.
In fondo, però, questo è uno dei frutti delle mie scelte, delle enormi energie
spese nel lavoro e, soprattutto, il risultato del mio frapporre il fantasma di
Giovanni a ogni possibilità di incontro, di fatto negandomelo. A volte sento più
il peso che non i vantaggi della mia totale libertà e mi capita di mettere in
guardia le amiche quando, sospirando, sembrano dire “Beata te”, per il mio
status di donna senza vincoli, non tenuta a convivere per anni con lo stesso
uomo, anche quando l’affetto e il rispetto sono tutto ciò che resta dell’amore.
Sempre più spesso la malinconia mi spinge a guardare indietro, alla ricerca di
occasioni che ho scelto di non cogliere, quelle in cui ho esitato troppo a lungo,
gli attimi che non ho saputo afferrare. È anche possibile che risultasse
respingente l’immagine di donna indurita, urticante nei modi, professionalmente
spietata, insomma quell’immagine che lo psicologo Panayotis Kantzas aveva
paragonato a un’agave. E i cosiddetti colpi di fulmine? Sì, qualcuno. Ma sono
sempre fuggita. Non volevo che il dolore di una delusione turbasse l’equilibrio
di una vita già abbastanza complicata. E comunque mi hanno sempre fatto
sorridere le storie di amori nati su una tratta aerea o durante un viaggio di
gruppo.
Insomma, un disastro. Non volevo innamorarmi? Avevo paura di non essere
più capace di vivere in coppia? Sono stata sfortunata e la vita non mi ha più fatto
incrociare l’uomo capace di farmi accelerare i battiti del cuore? Non so darmi
una risposta, comunque ho vissuto la vita che volevo e proprio come volevo
viverla.
Non sono mancati, negli anni, pettegolezzi sui miei amori, mossi
essenzialmente da una domanda, rimasta senza risposta: Ilda è davvero single o
nasconde qualche relazione, mantiene nell’ombra il nome di un uomo? Specie
nel periodo siciliano, il gossip mi ha attribuito questo o quell’amante, sempre
pescato nel mondo della politica, dell’economia, dell’informazione, dello
spettacolo. Era sufficiente che venissi vista più di una volta con la stessa
persona, perché questa mi venisse affibbiata come amante. Dicerie che mi hanno
sempre fatto sorridere, che non ho mai fatto nulla per smentire o bloccare anche
perché, in fondo, il mistero che avvolgeva la mia vita privata mi era congeniale.
Solo in un’occasione il chiacchiericcio nato intorno a una presunta simpatia tra
me e Roberto Scarpinato mi fece arrabbiare e ci tenevo a negarla ogni volta che
potevo. In primo luogo perché Scarpinato era stato uno dei magistrati che
avevano ostacolato Giovanni quand’era in procura, in secondo luogo perché
dissentivo dalle sue interpretazioni del fenomeno mafioso. Infine, non ho mai
apprezzato il suo stile da narciso siciliano (una specie endemica del tutto
particolare) perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D’Artagnan.
Intendiamoci: qualche ammiratore negli anni l’ho racimolato, pure tra
pensionati e coltivatori diretti. Tra questi, uno spasimante poco meno che
ottantenne mi ha scritto più volte e mi ha persino inviato una sua foto in
pantaloncini corti, canottiera e un bel paio di sandali indossati sui calzini. Tra le
lettere di sconosciuti ammiratori alcune mi hanno fatto persino ridere.
24 novembre 1995
Dottoressa! Ti ho vista in televisione! Questa volta tutta intera, finalmente! Sei bella robusta e senza
pancia! Poi hai i capelli rossi: basta, che dire d’altro! Sei la donna dei miei sogni. Dottoressa Ilda, io
posso lasciare il servizio dal 1.1.96 e vorrei ricoverarmi nelle braccia di una donna bona e bella come te!
Tesoro, io sono innamorato veramente... Dottoressa, io voglio darti tutto l’amore che sono capace di
dare.
13 marzo 1996
Cara Ilda, ieri sera ti ho rivisto in tv, quei capelli rossi e selvaggi che mi fanno impazzire... sicché sono
rossi veramente? Come te la passi alla procura di Milano? I tuoi colleghi ti adorano come una Madonna?
Io sì, e se non è così vengo lì e faccio un macello e a te ti bacio e ti porto fiori profumati... Vorrei baciarti
le mani e i piedi.
Un’altra avance postale è senza data, ma è collocabile negli anni dei processi
più seguiti dai media. Nella busta c’è anche una mia foto senza più ricci e con la
toga, ritagliata da un giornale:
Prima era bellissima, ora con la nuova pettinatura lei è splendida! Io la guardo, la riguardo, la desidero,
mi sento tutto bello caldo e le dico, le urlo che lei è una donna fino al midollo! Lei piace, rinfocola,
rinnova, esalta, scalda, saturna, spinge, calamita, seduce, brilla. Se uno è dritto lo mette carponi, se uno è
avventizio lo trasforma in imprenditore, se è scialbo ribolle, se è piatto come un foglio sul tavolo, diventa
una brocca d’argento fragrante di elixir! IO L’AMO.
Che fossi in grado di “saturnare” qualcuno è una novità per me e, credo, anche
per i dizionari d’italiano.
31.
“Sei brava, ma sei Ilda”
Gli ultimi due anni in procura non sono stati esaltanti. In verità, i primi mesi
del 2018 sono stati dolorosi poi, pian piano, sono riuscita a farmene una ragione.
A febbraio, alla scadenza degli otto anni da procuratore aggiunto, è cessata
anche la delega alla Direzione distrettuale antimafia. Mi sarebbe piaciuto
concludere la carriera indagando sulla criminalità organizzata, anche nelle sue
propaggini al Nord. Sapevo bene che rimanere in Dda sarebbe stato
burocraticamente complicato, ma confidavo nel fatto che, appena nominato,
Francesco mi aveva garantito che avrebbe trovato una soluzione per farmi
restare all’Antimafia. Non mi sembrava di chiedere troppo, ma in pratica lui si
limitò a consultare altri colleghi, senza prendere iniziative e, peggio, senza mai
interpellarmi. Mi sarebbe bastato essere rassicurata, quanto meno facendomi
partecipe delle iniziative prese o che intendeva prendere per soddisfare questa
mia unica richiesta. Perciò non mi meravigliai quando cominciò a intervenire a
convegni e seminari sulla criminalità organizzata, nella sua veste di capo
dell’ufficio. Invitato grazie al lavoro svolto dalla Dda negli ultimi anni,
Francesco accettava di parlare ovunque e – sempre senza interagire con me –
intratteneva le platee su tematiche di cui non era esperto perché i suoi interessi
erano centrati su argomenti di natura diversa, in particolare le malefatte di
finanzieri in doppiopetto o di evasori fiscali di alto bordo.
A differenza di Bruti Liberati, che mi ha sempre coinvolta e ha chiesto il mio
appoggio quando da capo dell’ufficio aveva dovuto confrontarsi con casi di
mafia, Greco non ha mai ritenuto di approfondire la materia.
Cessata la funzione di delegato distrettuale, si sono velocemente defilate tutte
quelle persone che per otto anni mi avevano cercata, anche con insistenza, per
avermi ai loro convegni, seminari, manifestazioni come relatrice o esperta:
professori universitari, scrittori, giornalisti, avvocati, molti dei quali hanno
utilizzato gli atti delle inchieste milanesi per le loro pubblicazioni, sono spariti
nel nulla dall’oggi al domani. Tra questi, mi spiace dirlo, Nando Dalla Chiesa,
con il quale ho intrattenuto per anni ottimi rapporti e di cui ho sempre apprezzato
l’impegno sul fronte antimafia.
In attesa di conoscere il mio destino, trascorrevo in ufficio gran parte della
giornata e del primo pomeriggio finché, non avendo granché da fare, andavo a
casa di Alice a godermi Martino, il mio nipotino. Non ero abituata a ritmi di
lavoro così blandi, ma rimanere in ufficio a far nulla mi rattristava. Perciò,
volendo trovare il lato positivo, posso dire di essermi goduta i primi anni di
crescita di Martino molto più di quanto non fosse accaduto con quelli dei miei
figli. La gravidanza di Alice ha fatto sì che entrasse nella nostra vita una persona
straordinaria, Maria Pia, la mamma di Nico, il compagno di mia figlia. Ci siamo
piaciute subito, le voglio bene e con lei condivido la gioia dei nipoti. È una
donna positiva, intelligente, rassicurante, che ha regalato a mia figlia la sua
dedizione mai invadente. Alice si è affidata a lei per la crescita dei figli e io non
mi sono mai sentita esclusa, perché sono consapevole che qualche anno in meno
e la dimestichezza con i neonati sono doti preziose che Pia condivide con
generosità.
La situazione in cui mi trovavo si faceva ogni giorno più incresciosa, ma non
volevo lamentarmene con i colleghi. Ne parlavo soltanto con Paolo Storari, pur
sapendo che molti altri magistrati della procura erano indignati per il prolungarsi
delle non-scelte di Greco. A quanti mi confidavano la loro perplessità per la
nuova gestione, raccomandavo di pazientare perché era ancora troppo presto per
tirare conclusioni. Sebbene anch’io la pensassi allo stesso modo, restava
prioritario contribuire alla coesione interna dell’ufficio.
I mesi trascorrevano lenti, senza novità di rilievo, mentre cominciava a
prendere forma il progetto organizzativo del nuovo procuratore, tanto
favorevolmente accolto dai membri della commissione che ne aveva deciso la
nomina, a cominciare da Paola Balducci, membro laico espresso dalla sinistra,
convinta sostenitrice di Greco, oltre che indiscussa rappresentante della logica
spartitoria, come sarebbe di lì a poco emerso dalle conversazioni e dalle chat di
Luca Palamara.
A togliere il procuratore dall’impasse di trovarmi una collocazione, per così
dire, “adeguata”, è purtroppo intervenuta nel 2018 la malattia della collega
Giulia Perrotti, responsabile del dipartimento che indaga sui reati contro la
pubblica amministrazione. Giulia, cui ero legata da un rapporto di affetto e
stima, prima di ammalarsi passava da me quasi ogni mattina per fare due
chiacchiere e fumare una sigaretta, gesto che probabilmente ha contribuito a
ucciderla. Benvoluta da tutti per la sua simpatia, dolcezza e affabilità, una volta
nominata procuratore aggiunto aveva preso il posto di Alfredo Robledo,
trasferito a Torino.
Il cancro ai polmoni le era stato diagnosticato dopo qualche mese in cui
lamentava una tosse stizzosa che non guariva nonostante le cure. La scoperta
della malattia non le aveva fatto perdere il buonumore e con determinazione
aveva iniziato le terapie. All’inizio si faceva forza, tra un ciclo di chemio e
l’altro veniva in ufficio: nonostante il dimagrimento continuava a essere una
donna molto bella, solare. Lavorava da casa e in un modo o nell’altro guidava il
suo dipartimento.
Giulia si occupava di corruzione che, come la malattia che l’ha colpita, si
propaga silenziosamente dentro un corpo, scoppia all’improvviso, corrode
l’organismo inviando segnali ambigui, di difficile lettura, e quando esplode è
quasi sempre troppo tardi. Ecco perché, in entrambi i casi, è importantissima la
prevenzione. La corruzione si muove sotto traccia, raramente viene denunciata
ma, se non si agisce per tempo, si diffonde sempre di più. In tutte le indagini sul
fenomeno mafioso ci siamo imbattuti in sacche di neghittosità, menefreghismo a
tutti i livelli, facili da trasformare in complicità nei comportamenti illegali. Dopo
le crisi economiche e il venir meno di una politica nuova in seguito all’uragano
di Mani pulite; dopo il crollo, negli ultimi trent’anni, di un’etica condivisa,
abbiamo potuto constatare che la corruzione non attecchisce più soltanto ai piani
alti della società e delle istituzioni (ormai sono rare le maxitangenti), ma si è
diffusa e radicata un po’ ovunque, grazie alla disponibilità di tanti a svendere la
propria funzione per illudersi di esercitare un potere, che in realtà ne ha
intrappolato la mente e le azioni.
Nel corso delle riunioni degli aggiunti, anche durante la gestione di Bruti
Liberati, capitava spesso di affrontare il tema della corruzione. Negli ultimi anni,
va detto, la procura di Milano non ha brillato per iniziative di contrasto a questo
fenomeno: le indagini scarseggiavano e una parte dei colleghi che facevano
riferimento a Greco – compreso lui stesso, che prima della nomina dirigeva il
dipartimento Reati fiscali e societari – non si rendeva conto che dopo
Tangentopoli i tempi erano cambiati e la corruzione era ormai in fase di
metastasi, con una diffusione talmente capillare da rendere abbastanza inutile
puntare solo sul bersaglio grosso.
Forse mi sbaglio, ma ritengo che la sottovalutazione di non pochi colleghi in
materia di corruzione sia derivata da un approccio snobistico alle indagini, che li
ha portati a trascurare le piste minimali, periferiche, del paesino o della Asl
sconosciuta, per puntare su quelle più gratificanti per il loro impatto mediatico.
In quarant’anni di indagini, ho imparato ad annusare l’aria e a intuire con una
certa efficacia quali siano le strategie migliori per contrastare le varie forme di
illegalità e mi sembrava già allora poco produttiva la strada dell’accorpamento in
un unico dipartimento dei reati fiscali, societari e contro la pubblica
amministrazione.
Le mie perplessità si sono rivelate fondate quando, per poco meno di un anno,
ho sostituito Giulia: tra i colleghi scarseggiava o mancava la specializzazione
necessaria per gestire l’insieme della materia fiscale e societaria, senza contare la
complessità delle indagini che riguardano la pubblica amministrazione, in cui
bisogna districarsi nel labirinto di leggi, leggine e regolamenti che
contraddistingue il nostro sistema burocratico. Alcuni avevano esperienza nel
settore finanziario ma non in quello della pubblica amministrazione, altri
avevano trattato processi solo su questo secondo versante. I più giovani erano
completamente digiuni delle materie del dipartimento e, per quanto avessero
voglia di rimboccarsi le maniche, avrebbero ben presto dovuto scoprire che nel
nostro lavoro l’encomiabile buona volontà è necessaria ma non sufficiente.
Intanto, nei primi mesi del 2019 avevo cominciato a liberare il mio ufficio
dalle carte che si erano accumulate nei decenni di servizio. È solo in frangenti
come questi che ci si rende conto di quante cose – non tutte utili – si conservano
nel corso degli anni e quanto può essere triste ma anche liberatorio procedere
alla distruzione di pezzi della propria vita. Dato il tempo libero che avevo
improvvisamente a disposizione, mi sono potuta dedicare alla rilettura del
passato. Quelle carte ingiallite, a volte sbiadite dal tempo, contenevano la
conferma che avevo vissuto la vita che volevo, che avevo avuto una parte nella
storia del Paese, che avevo il privilegio di poter contare su tanti ricordi per
affrontare i periodi malinconici che mi avrebbero ben presto raggiunto. Per mesi
ho dedicato la mattina e il primo pomeriggio alla lettura del passato e alla cernita
dei ricordi da conservare, dopodiché correvo verso il futuro: mio nipote.
I momenti più dolorosi sono stati quelli in cui ho ripreso in mano i faldoni del
periodo siciliano. Ho fatto fatica a rileggere i documenti che parlavano di
Giovanni e della sua morte: ho rivisto una donna distrutta dal dolore, che si
faceva forza per resistere in una terra ostile e lontana dai suoi affetti, con un
enorme senso di vuoto davanti alle foto di un corpo senza vita in un anonimo
obitorio. Ero combattuta tra il desiderio di conservare tutto e quello di cestinare
tutto. Alla fine, dopo giorni laceranti, è prevalsa la necessità di sopravvivere, la
consapevolezza che quei momenti erano comunque dentro di me e non serviva
mantenerne tracce scritte. Così, quando ho cominciato a strappare quelle carte
una a una, mi sono sentita molto meglio, anche se l’operazione è durata a lungo
perché sentivo di dover trattare quei ricordi con tutta la delicatezza di cui ero
capace. Avrei potuto buttare via tutto in pochi minuti, invece ho spezzettato ogni
foglio dolcemente, come se non volessi fargli del male.
Questa lenta operazione di trasferimento del ricordo dalla carta alla memoria e
alla mia anima si è protratta fino quasi all’estate. Dopodiché avrei dovuto
resistere (è il termine più adatto) in ufficio ancora pochi mesi, fino al 7
dicembre. Contrariamente agli anni precedenti, decisi di regalarmi un mese e
mezzo filato di vacanza. Ovviamente mi rifugiai a Ischia con i miei fratelli, che
potevo frequentare davvero solo in quel periodo dell’anno.
A fine agosto tornai al Lido per il Festival del cinema, con gli amici Adriana e
Luigi, alloggiando come sempre alle Tre Fontane, un albergo di grande fascino e
in una posizione strategica rispetto alla Sala grande e al Palalido dove veniva
proiettata la maggioranza dei film. Anche il programma del 2019 era molto
denso ma, grazie all’abilità di incastro di Adriana, nei pochi giorni di
permanenza riuscimmo a vedere molti dei film e documentari che ci
interessavano. Il desiderio di assistere a tante proiezioni imponeva ritmi
incalzanti: a volte cominciavamo con quella delle 9 e andavamo avanti fino a
sera, con i brevissimi intervalli indispensabili per rinfrescarci e per consumare
veloci colazioni nel bel giardino dell’hotel.
Adoro l’atmosfera di quei giorni veneziani in cui, nonostante il caldo
opprimente di alcune estati, si respira un’aria diversa. Mi si apre il cuore nel
vedere in quelle giornate folle di giovani che riempiono le strade del Lido perché
hanno scelto di dedicare il proprio tempo libero alla cultura e alla passione per il
cinema.
Tornai in ufficio a metà settembre. Nella “mia” stanza numero 30, i vecchi
mobili ormai sgombri da carte, cartelline e faldoni davano una sensazione di
vuoto che forse era anche dentro di me. Al muro erano sempre appesi i crest
ricevuti in dono dalle forze di polizia, c’era ancora qualche soprammobile e
davvero poco altro. Avevo già deciso di regalare tutto ai miei collaboratori
perché, in quarant’anni di attività, si sono succedute nell’ufficio tante persone
per lo più capaci e perbene. Tra queste, il maresciallo capo della guardia di
finanza Natale Rifici, rimasto al mio fianco per quasi vent’anni. A lui avevo
affidato la gestione del “follow the money”, cioè la maggior parte degli
accertamenti bancari nel processo Ruby, che Natale aveva svolto in modo
impeccabile. La credibilità acquisita negli ambienti finanziari e la sua capacità di
allacciare rapporti anche personali erano risultate preziose per velocizzare la
trasmissione della documentazione bancaria di volta in volta richiesta. Per anni,
quindi, l’accoppiata Boccassini-Rifici aveva provocato più di un mal di pancia
nel mondo degli affari.
Solo due cose ho deciso di portare con me: il poster incorniciato del film The
Untouchables, un regalo di molti anni prima, e una fotografia in cui sono ritratta
con il prefetto Vincenzo Parisi, all’epoca capo della polizia, durante la
conferenza stampa a Roma, nel novembre 1993, dopo la cattura degli esecutori
della strage di Capaci. Nella foto sono di profilo, il volto minuto incorniciato da
una massa di riccioli rossi. Ero così felice, quel giorno!
Ormai anche la mia scrivania era sgombra, a esclusione del posacenere, di un
portapenne e del Codice penale. Provavo una strana sensazione dopo che per
anni un disordinato ammasso di carte aveva occupato ogni angolo della mia
stanza numero 30. Volutamente avevo lasciato per ultimi i faldoni con parte
delle lettere, fax, email ricevuti dai cittadini.
Il 7 dicembre si avvicinava. Avevo deciso di prendere qualche altro giorno di
ferie e avevo comunicato solo ai miei collaboratori la data esatta della nostra
separazione. Gli addii non mi piacciono, ma la mia squadra sapeva che non ci
saremmo persi di vista, che li avrei seguiti anche da lontano, pronta a sostenerli
se ne avessero avuto bisogno.
Me ne andavo con un carico di emozioni che pochi miei colleghi avevano
vissuto e chissà se avrebbero mai avuto la fortuna di vivere. Da tempo sentivo di
non appartenere più a una magistratura ormai così lontana dai principi che mi
avevano spinta a studiare, studiare, studiare per vincere il concorso e, nei
quarant’anni successivi, a impegnare ogni mia energia nel servizio. Percepivo
con chiarezza la distanza da quei colleghi giovani di età, ma già invischiati nelle
beghe correntizie, sempre indaffarati per ottenere una poltrona nel Consiglio
giudiziario o al Consiglio superiore, pronti a scalpitare per entrare nel cerchio
magico del capo e arraffare qualche incarico di secondo piano per allungare il
curriculum.
Negli ultimi due mesi non ho più incrociato il procuratore. Non l’ho cercato e
lui non mi ha cercato, così ho lasciato la procura senza nemmeno salutarlo. Mi
faceva sorridere e non più arrabbiare la favoletta che Francesco faceva circolare,
secondo la quale il mio “caratteraccio” aveva impedito qualsiasi forma di
dialogo e la decisione di andarmene alla chetichella era solo la naturale deriva di
questo mio tratto personale.
Per quanti sforzi faccia, non riesco a ricordare l’ultimo giorno in ufficio, forse
perché troppo uguale a tanti altri, forse perché non ho provato emozioni
particolari. Lo considero un buon segno, significa che già da tempo avevo
elaborato il lutto per il distacco. Ero comunque più che mai decisa a non
rimettere piede in tribunale, nemmeno per andare in banca, il mio sportello di
sempre, al piano terra, e così ho imparato persino a gestire le operazioni online.
Ero consapevole che l’ubicazione del tribunale, in pieno centro a Milano, non
avrebbe facilitato il distacco, ma credo che l’immane tragedia della pandemia,
scoppiata poche settimane dopo il pensionamento, mi abbia anche un po’ aiutato,
obbligandomi a rimanere barricata in casa per mesi. C’è stata una sola occasione
in cui sono stata costretta a varcare nuovamente la soglia del palazzo.
33.
Ancora un’audizione
Man mano che l’ora del pensionamento si avvicinava, pensavo sempre più
spesso a come sarebbe stata la mia nuova vita, a come avrei potuto superare
l’ansia e lo smarrimento che immaginavo mi avrebbero risucchiato come onde di
un mare in tempesta. Mi sentivo indifesa, per niente pronta ad affrontare un
cambiamento così radicale.
In questo momento mi accorgo che sto piano piano ricostruendo una vita
diversa. Sono cambiata. Il virus ha contribuito a farmi guardare in faccia i miei
settant’anni, la malattia mi ha imposto la consapevolezza che un animaletto
microscopico, raffigurato con sembianze persino graziose, può portarti alla
morte, come ai tempi della peste manzoniana.
L’isolamento, la profonda incertezza del domani, la paura di morire hanno
sprigionato in me una smisurata voglia di vivere, di gustare con voluttà i piccoli
gesti quotidiani perché, in attesa del peggio, anche le briciole più insignificanti
vanno raccolte e amorevolmente conservate. Sto bene così, non mi va più di
veder scorrere altrove la mia stessa vita mentre io sono distratta da incombenze
passeggere o effimere, come per certi versi è lo stesso lavoro. Ho bisogno di
assaporare persino l’aria che respiro in ogni istante della giornata. Voglio vedere
le rondini in cielo e osservare senza fretta il volto innocente dei miei nipoti
mentre dormono. Voglio riversare la mia energia nella nuova vita che è nata:
Giona, il figlio di Antonio e Carla, il mio terzo nipotino. Voglio dimagrire (anzi,
devo dimagrire). Voglio riprendere le lezioni di pilates – anche se mi pesa e non
mi diverte – perché il mio corpo ne ha bisogno. Voglio passare più tempo con le
mie amiche, parlare di frivolezze, fare progetti piacevoli, guardare al futuro con
serenità. Voglio sconfiggere la malinconia, o almeno imparare a mantenerla
sotto una soglia sopportabile. Voglio poter abbracciare i miei figli ogni volta che
vorrò (e che lo vorranno) per tutte le occasioni in cui non l’ho fatto, pur
amandoli senza riserve, come solo una madre sa.
Rimarrò una combattente? Credo di sì. E queste righe vogliono dire che ho
raccolto la mia ennesima sfida, perché so che il racconto della mia vita non
piacerà a tanti, soprattutto a molti miei colleghi.
La passione per le istituzioni e l’amore verso la toga hanno contribuito a farmi
raccontare anche il mondo in cui ho vissuto per quarant’anni, un mondo
inquinato, ma che potrebbe tornare quello che io ho sempre avuto in mente, a
patto che quanti lo abiteranno siano capaci di riconoscerne e ammetterne errori e
colpe.
In questo libro ho descritto più volte il mio abbigliamento e le collane che ho
indossato in occasione di momenti importanti della vita, perché sono elementi
che hanno sempre rappresentato un simbolo della mia libertà. Non a caso questa
prospettiva è stata perfettamente colta, quasi vent’anni fa, proprio da una donna,
la quale, dopo l’udienza tenuta in aula magna, alla presenza di Berlusconi,
scrisse una lettera all’“Unità”. Il titolo era “La collana di Ilda. Il coraggio delle
donne”.
Una donna seduta con la testa inclinata, appoggiata a un braccio. Una toga. Uno sguardo amaro. Una
grande collana rossa a doppio giro che spiccava in questa immagine. La sofferenza di Ilda. La solitudine
di Ilda. La speranza di Ilda. Cara, coraggiosa donna che hai visto morire il tuo collega, inghiottito dalla
vorace ferocia di tutti i burattinai di questo Paese. Hai visto morire la speranza, la voglia di riscatto
giorno per giorno. Ma sei rimasta lì al tuo posto, incrollabile, sicura, sola. Cara Ilda, la tua collana è la
mia. Si intreccia con le catene della sofferenza di tutte le donne che hanno patito nei secoli
discriminazioni, dileggi, offese, perché hanno osato entrare nel mondo degli uomini a rivendicare il loro
diritto di esistere, di pensare, di credere. È di tutte le donne coraggiose che hanno trasmesso alle altre, più
deboli, la forza di resistere. E tu che hai visto morire Giovanni Falcone, tu che hai dovuto privarti del suo
consiglio, del suo conforto, della sua saggezza, portavi una collana rossa. Portavi addosso la passione
indomita per la giustizia, per l’amore, per il riscatto. Credono “essi” di riuscire a piegarti?
Ringraziamenti