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Sociolinguistica II

riassunto del libro di dialettologia "N.De Blasi - Profilo linguistico della Campania - manuali Laterza"

Capitolo primo: La regione e la sua storia

1. Gli antichi abitanti: Greci, Etruschi, Oschi, Lucani.

La Campania è stata abitata fin dall’età preistorica, cioè da circa centomila anni.

Nell’età antica la città più importante era Capua abitata dal secolo IX a.C. dagli
etruschi, che popolavano anche la parte meridionale della regione.

Anche Cuma ha avuto un ruolo di primo piano nell’antichità: questa città fu fondata
nel VII secolo a.C. dai Greci che già in precedenza si erano stabiliti nell’isola di
Ischia. Gli abitanti di Cuma si spostarono anche un po’ più a sud, fondando
prima Dicearchia e poi Partenope.

La zona meridionale della regione attuale non faceva parte dell’antica Campania: il
Cilento era controllato dai Lucani.

Agli Etruschi, ai Greci, ai Lucani, si aggiunsero i Sanniti e gli Oschi che occupavano
le vaste zone collinari dall’interno della Campania, intorno alle valli del Calore e il
Volturno.

Quando i Greci sconfissero gli Etruschi i Sanniti avanzarono verso la pianura,


sottraendo spazio agli Etruschi e minacciando la stessa Cuma. Nel frattempo la
nuova città di Neapolis acquistava un ruolo rilevante, grazie ai suoi prosperi
commerci con le zone interne.

2. I Romani in Campania

I Romani entrarono nella regione e vi stabilirono una serie di roccaforti militari,


favorendo lo sviluppo di altri centri.

Quando arrivarono i Romani, le popolazioni locali continuarono a parlare le proprie


lingue. Il latino, a partire dal 180 a.C., diventò la lingua ufficiale della città di Cuma.
Per i Romani la Campania vera e propria era la pianura compresa tra il Vesuvio e la
Terra di Lavoro: nella loro divisione amministrativa questa zona fu riunita al Lazio,
mentre in altre regioni rientravano il Cilento da un lato e il Sannio dall’altro.
I Romani, che tra l’atro favorirono lo sviluppo della città di Napoli, costruirono nella
regione una serie di strade che collegavano le città campane alle regioni vicine.

3. La regione nel Medioevo: Longobardi e Bizantini

La crisi dell’Impero romano fece sentire i suoi effetti in Campania: a partire dal II
secolo d.C. le campagne si spopolarono, si ridusse la

produzione dei campi e diminuì l’importanza dei movimenti commerciali.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente giunsero in Campania i Longobardi,


mentre Bisanzio controllava una parte della regione, che in questo modo fu di nuovo
raggiunta da genti di origine greca. Nell’area di influenza bizantina si trovavano in
particolare le città costiere.

Benevento diventò invece la capitale del ducato longobardo, altre città importanti
furono Salerno, Nola, Nocera, Acerra, Capua.

La Campania fu abitata da popolazioni tra loro contrapposte: i Longobardi


occupavano le zone interne, mentre i Greci Bizantini si trovavano lungo la costa e nel
Cilento. Il primo effetto linguistico di tale differenziazione tra Greci e Latini è dato
dalla più consistente presenza di parole di origine greca nella zona napoletana e nel
Cilento, mentre nelle aree interne si presentano parole e toponimi di provenienza
longobarda.

4. La nascita del Regno: Normanni, Angioini, Aragonesi

Dopo l’anno Mille arrivarono in Campania i Normanni che occuparono le città di


Aversa, Capua, Salerno e Napoli. Nello stesso periodo Benevento si consegnò al
Papa, e rimase sotto il suo controllo fino all’Unità d’Italia.

I Normanni ebbero una funzione decisiva nella storia della Campania e di tutte le
regioni meridionali, perché per loro iniziativa fu unificato il territorio che come Regno
di Napoli avrebbe poi conservato i confini fissati dai Normanni. Proprio i Normanni
istituirono nel nuovo regno un regime feudale.

Federico II, poi, fissò a Palermo la capitale.


Con l’imperatore Federico II Napoli ebbe per la prima volta una funzione politica e
culturale ufficiale. Nel 1224 l’imperatore vi fondò uno Studio universitario.

Insieme con i Normanni si trasferirono in Italia meridionale alcuni coloni provenienti


dalle regioni settentrionali. Queste, giunte in Italia meridionale anche in seguito
hanno lasciato tracce linguistiche della loro presenza sia in alcuni dialetti lucani, sia
in alcuni centri campani.

Dopo la morte dell’imperatore Federico II il Regno passò agli Angiò, che scesero in
Italia quando il Papa offrì a Carlo d’Angiò la corona di re di Sicilia. Il re stabilì la
capitale a Napoli. In questo periodo cominciò ad accrescersi la popolazione della
capitale: Napoli diventa il simbolo di una monarchia accentratrice. La capitale da
parte sua si aprì all’influenza e alle mode dei francesi e accolse anche numerose
parole di origine francese.

Il dominio degli Angioini finì quando dalla penisola iberica arrivò il re catalano Alfonso
d’Aragona. Egli entrò a Napoli nel 1442: contribuì ad un profondo rinnovamento della
cultura perciò si circondò di letterati.

La capitale della metà del 400 diventò sempre più popolosa e forse cominciò ad
accentuare alcune caratteristiche di città commerciale che conserva ancora adesso.
Commercianti di diversa provenienza per curare meglio i propri interessi si stabilirono
intorno al porto.

5. Dal Viceregno al regno dei Borbone

Con la fine della dinastia aragonese, nel 1503, il Regno di Napoli perse la sua
autonomia e diventò Viceregno spagnolo. In questo periodo furono edificati i
Quartieri Spagnoli, destinati inizialmente ad accogliere le truppe spagnole. La
dominazione spagnola inasprì ulteriormente il peso delle tasse e contribuì a rendere
più difficili le condizioni delle province. Inoltre si ebbero più volte carestie e
pestilenze, insurrezioni e rivolte.

A seguito della guerra di successione di Spagna, il Regno di Napoli all’inizio del 700
rientrò nel dominio austriaco fino al 1734, quando sul trono di Napoli salì Carlo III di
Borbone: con lui Napoli fu di nuovo capitale di un Regno nel quale si avviarono
numerose innovazioni. Fece costruire monumenti e importanti strade.
Il principio dell’assistenza ai poveri e i primi tentativi di un sistema di istruzione
statale furono segni notevoli di modernità che posero il Regno di Napoli
all’avanguardia tra le monarchie illuminate del 700.

Dalla Francia, sul finire del 700, giunsero le idee rivoluzionarie che attecchirono
anche a Napoli, dove nel 1799 ebbe luogo un tentativo di rivoluzione che portò alla
proclamazione della Repubblica Partenopea che ebbe però una tragica conclusione.
Questa breve fase rivoluzionaria rese evidente che un’enorme distanza separava le
aspirazioni della plebe (fedele alla monarchia) rispetto al modo di vivere e di pensare
degli intellettuali fautori della Repubblica.

All’inizio dell’800 anche il Regno di Napoli x circa un decennio fu controllato dai


francesi. Dopo il Congresso di Vienna (1815) fu restituito alla famiglia dei re Borbone.

Nei decenni successivi l’area napoletana fu percorsa da nuove aspirazioni politiche e


culturali che puntavano all’unificazione politica italiana. In questa prima parte dell’800
Napoli svolse rispetto all’intera area campana un fondamentale ruolo linguistico e
culturale: da Napoli si irradiava nel resto della Campania l’italiano delle istituzioni
religiose e burocratiche. A Napoli si trovavano a contatto con l’italiano tutti quelli che
dalle province si recavano nella capitale per compiere gli studi superiori universitari:
si formava in questo modo un ceto intellettuale e politico.

6. Napoli, la Campania e il dialetto dopo l’Unità d’Italia

Il regno di Napoli fu aggregato al Piemonte dopo il plebiscito di annessione del 21


ottobre 1860, e del 1861 i territori campani diventarono una regione del nuovo Regno
d’Italia e assunsero il nome di Campania.

Al momento dell’Unità, la regione era segnata da una profonda crisi economica e


culturale, particolarmente drammatica perché ancora una volta si evidenziava il
contrasto tra l’antica capitale piuttosto progredita e il resto della regione. Nelle
campagne si diffondeva il fenomeno del brigantaggio. Napoli cominciò ad avvertire i
contraccolpi negativi della sua nuova condizione. La città ha vissuto una lunga fase
di accentuazione di alcuni problemi di lungo periodo; sintomo e in parte causa di tali
problemi va considerato il mutamento di fisionomia della delinquenza organizzata,
nota con il nome di camorra.
Nelle difficili condizioni postunitarie, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, furono circa
un milione i campani che emigrarono verso altri paesi europei e verso il Nord
America. Si aprì cosi un flusso di migrazione che proseguì anche nel nuovo secolo.
Ciò spiega anche la profonda crisi che nel corso del 900 ha colpito l’agricoltura della
Campania.

La crisi dell’agricoltura, i nuovi stili di vita, la diffusione di modelli culturali diversi da


quelli tradizionali sono tutti fattori connessi alle modifiche linguistiche; a volte si tende
ad affermare che la diffusione dell’italiano ha provocato la “morte” dei dialetti; i dialetti
in realtà non muoiono, ma cambiano: interi settori del lessico possono diventare
all’improvviso arcaici e uscire dall’uso quotidiano perché si modificano
profondamente alcune tecniche di lavorazione o di produzione artigianale. Tali
modifiche però non comportano solo la perdita di alcune parole, ma anche di
acquisizione di una nuova terminologia adattata al dialetto.

È tutta da dimostrare anche l’idea che l’insegnamento scolastico dell’italiano abbia


rappresentato una causa decisiva per la crisi dei dialetti. È ovvio che la scuola abbia
dato in certe epoche un impulso decisivo alla diffusione dell’italiano. Nei decenni
passati nella scuola si sono manifestati anche atteggiamenti antidialettali. Tuttavia
occorre notare che molto difficilmente l’insegnamento dell’italiano può avere indotto
gli alunni a dimenticare il proprio dialetto, soprattutto quando il dialetto era l’effettiva
lingua materna degli scolari e la lingua da loro parlata in casa.

Se la perdita del ruolo di capitale ha pesato non poco sul versante culturale, si
registrano d’altro canto sia la buona conservazione del dialetto, sia la sua nuova
diffusione extralocale. Inoltre è significativa una certa diffusa attenzione verso il
dialetto che si affianca alla costante opera di valorizzazione del dialetto come oggetto
di studio delle ricerche di ambito accademico e scientifico.

7. Toponimi e lessico nella storia

Il nome stesso della regione ha un’origine davvero significativa, perché indizio della
presenza degli Etruschi: infatti il nome Campania si collega agli abitanti di Capua.
Con il nome Campania si indicava originariamente soltanto la zona intorno a Capua,
che poi è stata chiamata Terra di Lavoro.

Toponimo di origine greca è Napoli, chiamata Nea polis “città nuova” per
differenziarla dal primo insediamento urbano poi identificato come Palepoli.
Della presenza dei Romani nella regione resta una traccia molto evidente nei
toponimi che risalgono alla suddivisione delle grandi proprietà terriere.

Al paesaggio agricolo di epoca romana si collegano i nomi che derivano da nomi


delle piante. Al latino inoltre risale la gran parte del lessico dialettale campano.

Con la presenza dei Greci bizantini si radicarono una serie di parole di origine greca,
che andarono ad aggiungersi ai toponimi di epoca classica.

Con l’arrivo dei Longobardi si delinea una certa differenziazione tra area costiera e
aree interne. I più evidenti longobardismi residui si notano nella toponomastica. Sono
di origine longobarda alcune parole ancora oggi usate nei dialetti, soprattutto in quelli
dell’interno della regione.

Durante il Medioevo, in Campania e in tutta l’Italia meridionale, si stabilirono i


Normanni, che portarono con sé parole di origine francese tuttora riconoscibili nei
dialetti.

Quando il Regno passò sotto il controllo degli Aragonesi cominciò nei dialetti
campani un afflusso di lessico di provenienza iberica (catalano). Altri liberismi,
questa volta di origine casigliana, si diffusero a Napoli dall’inizio del 500 al 700.

Come gli altri stati europei, anche il Regno di Napoli nel Settecento fu profondamente
influenzato dalla cultura e dalle idee politiche e filosofiche provenienti dalla Francia.
Insieme con le idee giunsero fino al Regno altri francesismi, che si aggiunsero a
quelli già entrati nei dialetti in epoca normanna e in epoca angioina. I francesismi più
recenti si stabilizzarono soprattutto nei diversi settori della cultura, dell’abbigliamento
e della gastronomia. Nell’ambito gastronomico l’influsso francese è del resto stato
attivo per tutto l’800 e fino al 900.

Capitolo secondo: tratti tipici dell’area campana

In Campania hanno abitato popolazioni diverse e non esiste un unico dialetto. Si


riconoscono oggi una serie di caratteri linguistici comuni, anche se in Campania i
confini amministrativi non coincidono con i confini linguistici. Napoli è stata – per sei
secoli – capitale di un regno molto esteso, poi città più popolosa d’Italia fino al 1911,
nonché per lunghi secoli metropoli di portata internazionale. Il peso linguistico di
Napoli all’interno della Campania è certo di notevole rilievo, ma in nessun caso
sembra accettabile l’idea di un equivalenza tra dialetto napoletano e dialetti campani.

1. L’area linguistica campana e le sue caratteristiche prevalenti

Le caratteristiche linguistiche tipiche dei dialetti campani sono:

 Dittongo metafonetico;
 Chiusura metafonetica;
 Femminile plurale con rafforzamento sintattico;
 Vitalità del genere neutro;
 Variazione consonantica;
 Suono indistinto finale.

Solo in Campania, come dimostra Franco Fanciullo essi si trovano tutti insieme e si
presentano collegati l’uno all’altro a formare una sorta di struttura portante di quella
che potremmo definire l’area linguistica campana.

2. Metafonesi di tipo napoletano: dittonghi e chiusure

Con il nome di metafonesi si indica una particolare evoluzione delle vocali toniche.
Nei dialetti che hanno un sistema vocalico con sette vocali toniche, una diversa
evoluzione metafonetica ha luogo da un lato per le vocali aperte –è-, -ò- e dall’altro
per le vocali chiuse –è-, -ó-. In un caso e nell’altro i suoni vocalici tonici si modificano,
con modalità diverse, per effetto dell’influenza prodotta su di essi dalle vocali –i e –u
presenti alla fine della parola o anche nella sillaba immediatamente successiva alla
vocale tonica.

Nel latino classico le vocali si distinguevano in base alla quantità. Si avevano cinque
vocali brevi e cinque vocali lunghe.

Nel latino parlato, che è quello da cui dipendono i dialetti italiani e tutte le altre lingue
romanze, le vocali si distinguevano però attraverso il grado di apertura: le vocali
originariamente lunghe erano pronunciate come aperte, mentre le vocali
originariamente lunghe erano pronunciate come chiuse. Si è delineato un vocalismo
tonico formato da sette vocali, da cui derivano i sistemi vocalici di gran parte delle
lingue romanze.
Le vocali che sono anche alla base dei dialetti di tipo campano sono quindi queste
sette:

i è è a ò ó u

Per effetto della metafonesi, quando nella sillaba successiva o in quella finale si
trovano –I oppure –U etimologica, le vocali aperte toniche –è-, -ò- dittongano in –ie-
e in –uo-. Si parla in questi casi di dittongazione metafonetica.

Quando invece la metafonetica colpisce le vocali chiuse é, ó, sempre per effetto di
una –I oppure di una –U etimologica, si produce una chiusura metafonetica: la –è-
chiusa si chiude ulteriormente in –i-, mentre la – ó- chiusa si chiude ulteriormente in
–u-.

Il dittongo e la chiusura di origine metafonetica permettono di distinguere i maschili e


i femminili e, talvolta, il singolare dal plurale. Tale distinzione affidata agli esiti
metafonetici assume un importante valore morfologico in quei dialetti campani in cui
la vocale finale è pronunciata come suono indistinto, in particolare nel dialetto di
Napoli e dei dintorni.

Le chiusure metafonetiche e i dittonghi metafonetici assumono una funzione


morfologica anche nelle voci verbali. Nella flessione di un verbo la vocale tonica si
adegua x metafonia alla vocale della desinenza. Nella seconda persona, che ha
desinenza –i-, si determinano le condizioni metafonetiche, per cui la seconda
persona si distinge dalle altre.

3. Rafforzamento sintattico

Il rafforzamento sintattico sarebbe la pronuncia rafforzata delle consonanti iniziali


quando queste siano precedute da monosillabi o da alcune parole particolari.

Il rafforzamento sintattico è presente anche in italiano. Nei dialetti campani, però,


assume un’importante funzione morfologica, poiché si presenta nei femminili plurali e
nei nomi di genere neutro.

In italiano il rafforzamento sintattico si manifesta come rafforzamento dell’iniziale


consonantica provocato da una parola che precede. In una serie di casi a provocare
il rafforzamento sintattico sono parole (in genere monosillabi) che in latino
presentavano una terminazione consonantica. Quando queste forme precedono una
parola che inizia con consonante determinano il rafforzamento dell’iniziale per effetto
di un processo di assimilazione, nel quale fa ancora avvertire la sua antica presenza
la finale latina che pur non pronunciata va ugualmente a rinforzare la consonante che
segue.

Il rafforzamento sintattico non è noto ai dialetti settentrionali, ma accomuna i dialetti


centrali e quelli meridionali. Le forme che provocano in Campania il rafforzamento
sintattico non sono sempre le medesime che lo determinano in italiano. Nei dialetti
campani producono rafforzamento le seguenti forme:

- le congiunzioni e, né;

- la negazione nu (non);

- le preposizioni a, cu, pe;

- gli indefiniti ogne, quacche;

- il che interrogativo;

- accussì;

- cchiù ‘più’;

- tre;

- l’articolo neutro ‘o;

- il pronome neutro ‘o;

- gli articoli femminili plurali e in genere le forme pronominali o aggettivali


femminili;

- i pronomi maschili e femminili plurali;

- le forme verbali so’;

- la prima persona del verbo stare: sto.


Il rafforzamento sintattico ha luogo quando tra le due parole coinvolte c’è un effettivo
legame di frase, cioè quando esse non siano separate da una pausa rilevante sul
piano sintattico.

4. Variazione consonantica

Tutte le consonanti sono pronunciate come intense quando si determina il


rafforzamento sintattico (cioè in posizione forte), mentre, in caso contrario,
sono non intense o scempie. Nel caso di alcune consonanti la pronuncia in
posizione forte è radicalmente diversa da quella in posizione debole.

Esempio in dialetto napoletano: nu juoco (in posizione debole) – che gghiuòco? (in
posizione forte)

Ciò accade perché un unico fonema viene realizzato attraverso due allofoni diversi,
in rapporto alla diversa posizione nella sequenza fonetica.

Il sistema della variazione dimostra che la pronuncia delle consonanti nei dialetti
campani è in un certo senso poco stabile ed esposta ai condizionamenti del
contesto.

5. Il femminile plurale e il rafforzamento sintattico

Nei dialetti di area campana il rafforzamento sintattico assume una funzione


grammaticale, perché permette di distinguere i femminili plurali.

Nei femminili plurali la consonante iniziale è rafforzata non solo quando precede
l’articolo, ma anche quando le forme sono precedute da aggettivi qualificativi o
dimostrativi.

L’iniziale consonantica rafforzata nei femminili plurali assume in sé una funzione


morfologica che di norma è svolta dalle desinenze finali. Ma nei dialetti campani le
vocali finali tendono ad attenuarsi fino a essere pronunciate come indistinte. Il
rafforzamento sintattico permette perciò di trasferire sull’articolo e sulla parte iniziale
delle parole quell’informazione morfologica che dovrebbe essere veicolata dalla
desinenza e dalle vocali finali.

6. Il neutro
In Campania oltre ai nomi di genere maschile e a quelli di genere femminile esistono
i nomi di genere neutro. In molti casi i nomi neutri del dialetto rappresentano delle
innovazioni rispetto al latino e spesso sono neologismi più o meno recenti.
L’incremento numerico dei nomi di genere neutro è una delle più evidenti prove di
vitalità dei dialetti campani.

Sono neutri i nomi riferiti a entità materiali o concettuali viste nel loro insieme e non
pluralizzabili. I nomi neutri preceduti dall’articolo determinativo si presenta con la
consonante iniziale rafforzata. Alla motivazione fonetica e sintattica (cioè
l’assimilazione tra –D di ILLUD e l’iniziale consonantica del nome) si aggiunge una
motivazione di tipo semantico, nel senso che sono trattati come neutri tutti quei nomi
che vengono riconosciuti come ‘etichette’ di un genere visto nel suo insieme.

La diversa pronuncia della consonante iniziale è di per sé indizio di appartenenza al


neutro.

7. Un fenomeno di collegamento e sostegno: la finale indistinta come chiave di volta

Altra caratteristica tipica dell’area campana è l’indebolimento del suono finale atono,
che viene articolato come suono centralizzato indistinto (qui rappresentato nella
grafia con ë). Tale pronuncia indebolita si combina in una sorta di sostegno
reciproco, con la funzione morfologica dagli esiti metafonetici e del rafforzamento
sintattico. La vocale finale può essere indebolita nella pronuncia in quanto non è più
un indispensabile veicolo di informazioni morfologiche, dal momento che sono
trasmesse dalle toniche metaforiche o dalle consonanti rafforzate.

8. Altri fenomeni fonetici

Tra gli altri esiti fonetici frequenti nei dialetti in Campania ricordiamo qui in primo
luogo l’evoluzione dei nessi di consonante+L; da BL- si ha la semivocale j- per cui si
ha BLANCU>janco; da FL- inoltre si ha la palatale fricativa [ƒ], per cui sciore da
FLOREM. Da segnalare sono poi la frequente sonorizzazione dopo nasale la
pronuncia fricativa della s- prima di labiale e velare, la conservazione della
semivocale j- che in italiano invece diventa affricata palatale.

Capitolo terzo: Una regione tanti dialetti


Nelle diverse aree della Campania si delineano caratteristiche specifiche che
contribuiscono a rendere variegato il panorama linguistico regionale.

1. Dialetti dell’area salernitana e del Cilento

La provincia di Salerno si estende dall’area vesuviana fino al golfo di Policastro e a


Sapri. Perciò i dialetti che si parlano in quest’area così ampia sono tra loro piuttosto
diversi.

Nella pianura che si estende tra il Vesuvio e Salerno il dialetto è simile a quello
napoletano, ma si notano fenomeni particolari che ricorrono anche nei dintorni di
Napoli.

Nettamente differenziano dagli altri dialetti campani è il dialetto che si parla nella
parte meridionale estrema della provincia di Salerno. Qui incontriamo un sistema
vocalico con cinque vocali toniche; questo è definito vocalismo tonico siciliano in
quanto si presenta nei dialetti siciliani e in quelli delle regioni meridionali estreme.

L’area campana meridionale presenta una serie di caratteristiche che l’accomunano


sia ai dialetti lucani sia a quelli irpini.

In alcune località nei pressi del golfo di Policastro si conservano sporadiche tracce
riconducibili alla presenza nel Medioevo di coloni settentrionali.

2. Dialetti irpini

I dialetti irpini hanno una serie di tratti in comune con quelli del Cilento, anche se per
altri aspetti hanno affinità con il napoletano.

3. Dialetti sanniti

Tra i fenomeni che caratterizzano l’area campana figurano il genere neutro con
rafforzamento sintattico e gli esiti metafonetici di tipo napoletano con dittongo e
chiusura. Nell’avvicinarsi al confine settentrionale (o anche nord-orientale) della
regione tutti questi fenomeni si presentano in forma attenuata o seguono regole
diverse.

Nelle zone del Sannio più vicine alla provincia di Avellino gli esiti metafonetici sono
simili a quelli che si trovano negli altri dialetti campani, ma altrove si incontrano esiti
di altro genere riconducibili a una metafonesi non di tipo napoletano, ma di tipo
sabino, presente cioè in una parte del Lazio. Nella metafonesi sabina le vocali chiuse
–e-, -o- in condizioni metafonetiche si chiudono in –i-. Le vocali aperte non
dittongano in –ie- e in –uo- ma si chiudono in –e-, -o- chiuse.

Il diverso tipo di metafonia differenzia notevolmente i dialetti sanniti, che d’altro


canto, si distinguono dai dialetti campani anche per l’assenza di rafforzamento
sintattico nei femminili plurali; per di più nella stessa zona si consta l’assenza del
genere neutro. Ciò sta a significare che la specificità dei nomi neutri si è ormai
affievolita sia nell’uso, sia nella percezione dei parlanti. In qualche caso, tuttavia,
emergono tratti che se non rinviano direttamente al neutro sono interpretabili come
indizi di una specificità di nomi collettivi.

Nella situazione di confine dell’area sannita, collocata tra spinte di tipo adriatico e
influenza laziale, le caratteristiche dialettali si presentano complesse e variegate.

In certi casi la pronuncia (di una parte) dei dialetti sanniti è simile a quella della zona
irpina (o cilentana), ma è diversa dal napoletano.

4. La provincia di Caserta

Anche nella provincia di Caserta, nella zona in prossimità del confine regionale, i
dialetti sono in parte diversi da quelli della zona napoletana. Una certa somiglianza
con i dialetti del Lazio meridionale è del resto giustificata da precise ragioni storiche.

Già in prossimità di Napoli avvicinandosi verso Caserta, si notano caratteristiche


diverse da quelle del napoletano. Le peculiarità della Terra di Lavoro diventano però
più vistose al di là del fiume Volturno, che si dispone come uno dei confini
settentrionali dei dialetti di tipo napoletano.

5. La provincia napoletana

In Campania somiglianze e differenze dialettali si incrociano tra le diverse aree. Tale


indicazione è di per sé un indizio di come le specificità locali non siano state
compromesse dall’influenza della città di Napoli; inoltre ciò conferma quanto sia
improprio ritenere che tutti i dialetti campani possano essere compresi sotto
l’etichetta del napoletano.
Diversamente dal napoletano a Procida si incontrano fenomeni presenti anche in
altre zone della Campania, come se il procedano conservasse tutte insieme
caratteristiche di altre aree regionali assenti invece a Napoli e negli immediati
dintorni. Una possibile spiegazione di queste differenze è che l’area urbana presenti
innovazioni che si sono affermate gradualmente attraverso i secoli mentre altri
fenomeni sono stati conservati in altre zone meglio che in città.

Altri vistosi elementi di differenziazione rispetto al napoletano si riscontano nel


vocalismo di Pozzuoli.

Sull’altro versante della costa napoletana, a Torre del Greco o a Torre Annunziata si
hanno dittonghi simili a quelli di Pozzuoli.

6. Napoli

I napoletano ha una serie di caratteristiche in comune con altri dialetti campani: il


dittongo metafonetico, il genere neutro, la vocale indistinta, la variazione
consonantica; anzi, è probabile, che la principale influenza esercitata da Napoli sul
resto della regione consista proprio nell’aver rinsaldato tra loro questi diversi
fenomeni, che tuttavia erano già presenti nel resto della regione.

Anche per il napoletano si nota qualche elemento tipico. Per prima cosa, a Napoli
risulta indebolito il suono vocalico finale e spesso si indebolisce la pronuncia
dell’intera sillaba finale. Ciò in parte può essere posto in relazione con la maggiore
velocità della pronuncia, che viene percepita dai non napoletani, cosi come da parte
dei napoletani è avvertita la maggiore pacatezza della pronuncia degli altri dialetti
campani.

I cambiamenti che intervengono in una lingua sono più vistosi quando riguardano
l’uso di nuove parole.

7. Il dialetto di Napoli e il ruolo di capitale

L’influenza linguistica della città di Napoli si sarebbe svolta non tanto imponendo il
proprio dialetto all’esterno, quanto proponendosi come luogo di confluenza di dialetti
diversi e come centro di irradiazione dell’ialiano. Nei secoli del passato, anche
svolgendo tale funzione strettamente connessa al ruolo di capitale, la città ha
rinunciato, in un certo senso, alla propria identità cittadina identificandosi con l’intero
Regno. In quanto capitale in osmosi con il Regno, Napoli non ha mai avvertito la
necessità di imporre il proprio dialetto. Queste circostanze forse spiegano anche
come mai il dialetto cittadino sia rimasto il solo dialetto parlato in città. La capitale
irradiava nel regno come lingua ufficiale prima il latino e poi l’italiano. Nei secoli, tra i
vari dialetti delle diverse aree regionali si sono andate addensando alcune
caratteristiche comuni che permettono oggi di distinguere un’area linguistica
campana rispetto alle altre aree dell’Italia meridionale. Il favorire del radicarsi di certe
caratteristiche sia stato determinante il ruolo della capitale non tanto nell’imposizione
del proprio dialetto urbano, quanto nel porsi come punto di riferimento in cui in
qualche modo trovano conferme e forza di aggregazione tratti linguistici già presenti
sparsamente altrove. La diffusione del napoletano cittadino ha conosciuto un’impulso
decisivo proprio dopo l’Unità. Dopo l’Unità il napoletano diventa il veicolo
dell’immagine cittadina al di fuori della città.

8. Lessico della regione e lessico locale

La diffusione delle diverse caratteristiche di una lingua è favorita dalla circolazione


delle parole, che si propongono all’attenzione dei parlanti e vengono usate anche in
territori più vasti di quelli in cui esse hanno origine. Con esse entrano in circolazione
anche gli elementi della fonetica e della morfologia (bagaglio fonetico e morfologico).
La storia delle parole e della loro diffusione che rende evidente il nesso tra lingua e
cultura. Se le parole si diffondono attraverso la storia, cioè grazie ai contatti tra le
persone, e se sono anche indizi di storia culturale, saranno significative la presenza
e la diffusione di certe parole in una determinata area. In questa prospettiva
geografica si distinguono in Campania parole con un diverso grado di diffusione:

 Parole che sono presenti in Campania, ma anche in gran parte dell’Italia meridionale;
 Parole diffuse più o meno generalmente in tutta la Campania;
 Parole in uso solo nei dialetti di una parte della Campania, ma non nel resto della
regione.

Le parole del dialetto conservano spesso uno stretto legame con la cultura materiale
e con gli usi tradizionali. Un nesso di questo genere è evidente in genere per tutte
quelle parole che si riferiscono alla cucina e alla gastronomia locale, alla tradizione,
insomma.
L’incremento di neologismi viene visto non come un indizio di crisi, ma come segno
di notevole vitalità del dialetto.

Dopo una lunga tradizione di uso letterario riflesso e dopo un periodo in cui è spesso
apparso sul punto di vivere una crisi definitiva, il dialetto, tra la fine del XX e l’inizio
del XXI, ha forse conquistato nuovi spazi. A volte il dialetto affiora anche nella
comunicazione scritta che ha luogo attraverso gli sms, le chat, le e-mail: tanto più
significativi appaiono questi usi sia perché si realizzano attraverso nuovi canali
comunicativi sia perché il più delle volte i protagonisti di queste interazioni sono
giovani. A una rinnovata vitalità rimanda inoltre l’uso del dialetto in scritture destinate
a un’esposizione pubblica.

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