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riassunto del libro di dialettologia "N.De Blasi - Profilo linguistico della Campania - manuali Laterza"
La Campania è stata abitata fin dall’età preistorica, cioè da circa centomila anni.
Nell’età antica la città più importante era Capua abitata dal secolo IX a.C. dagli
etruschi, che popolavano anche la parte meridionale della regione.
Anche Cuma ha avuto un ruolo di primo piano nell’antichità: questa città fu fondata
nel VII secolo a.C. dai Greci che già in precedenza si erano stabiliti nell’isola di
Ischia. Gli abitanti di Cuma si spostarono anche un po’ più a sud, fondando
prima Dicearchia e poi Partenope.
La zona meridionale della regione attuale non faceva parte dell’antica Campania: il
Cilento era controllato dai Lucani.
Agli Etruschi, ai Greci, ai Lucani, si aggiunsero i Sanniti e gli Oschi che occupavano
le vaste zone collinari dall’interno della Campania, intorno alle valli del Calore e il
Volturno.
La crisi dell’Impero romano fece sentire i suoi effetti in Campania: a partire dal II
secolo d.C. le campagne si spopolarono, si ridusse la
Benevento diventò invece la capitale del ducato longobardo, altre città importanti
furono Salerno, Nola, Nocera, Acerra, Capua.
I Normanni ebbero una funzione decisiva nella storia della Campania e di tutte le
regioni meridionali, perché per loro iniziativa fu unificato il territorio che come Regno
di Napoli avrebbe poi conservato i confini fissati dai Normanni. Proprio i Normanni
istituirono nel nuovo regno un regime feudale.
Dopo la morte dell’imperatore Federico II il Regno passò agli Angiò, che scesero in
Italia quando il Papa offrì a Carlo d’Angiò la corona di re di Sicilia. Il re stabilì la
capitale a Napoli. In questo periodo cominciò ad accrescersi la popolazione della
capitale: Napoli diventa il simbolo di una monarchia accentratrice. La capitale da
parte sua si aprì all’influenza e alle mode dei francesi e accolse anche numerose
parole di origine francese.
Il dominio degli Angioini finì quando dalla penisola iberica arrivò il re catalano Alfonso
d’Aragona. Egli entrò a Napoli nel 1442: contribuì ad un profondo rinnovamento della
cultura perciò si circondò di letterati.
La capitale della metà del 400 diventò sempre più popolosa e forse cominciò ad
accentuare alcune caratteristiche di città commerciale che conserva ancora adesso.
Commercianti di diversa provenienza per curare meglio i propri interessi si stabilirono
intorno al porto.
Con la fine della dinastia aragonese, nel 1503, il Regno di Napoli perse la sua
autonomia e diventò Viceregno spagnolo. In questo periodo furono edificati i
Quartieri Spagnoli, destinati inizialmente ad accogliere le truppe spagnole. La
dominazione spagnola inasprì ulteriormente il peso delle tasse e contribuì a rendere
più difficili le condizioni delle province. Inoltre si ebbero più volte carestie e
pestilenze, insurrezioni e rivolte.
A seguito della guerra di successione di Spagna, il Regno di Napoli all’inizio del 700
rientrò nel dominio austriaco fino al 1734, quando sul trono di Napoli salì Carlo III di
Borbone: con lui Napoli fu di nuovo capitale di un Regno nel quale si avviarono
numerose innovazioni. Fece costruire monumenti e importanti strade.
Il principio dell’assistenza ai poveri e i primi tentativi di un sistema di istruzione
statale furono segni notevoli di modernità che posero il Regno di Napoli
all’avanguardia tra le monarchie illuminate del 700.
Dalla Francia, sul finire del 700, giunsero le idee rivoluzionarie che attecchirono
anche a Napoli, dove nel 1799 ebbe luogo un tentativo di rivoluzione che portò alla
proclamazione della Repubblica Partenopea che ebbe però una tragica conclusione.
Questa breve fase rivoluzionaria rese evidente che un’enorme distanza separava le
aspirazioni della plebe (fedele alla monarchia) rispetto al modo di vivere e di pensare
degli intellettuali fautori della Repubblica.
Se la perdita del ruolo di capitale ha pesato non poco sul versante culturale, si
registrano d’altro canto sia la buona conservazione del dialetto, sia la sua nuova
diffusione extralocale. Inoltre è significativa una certa diffusa attenzione verso il
dialetto che si affianca alla costante opera di valorizzazione del dialetto come oggetto
di studio delle ricerche di ambito accademico e scientifico.
Il nome stesso della regione ha un’origine davvero significativa, perché indizio della
presenza degli Etruschi: infatti il nome Campania si collega agli abitanti di Capua.
Con il nome Campania si indicava originariamente soltanto la zona intorno a Capua,
che poi è stata chiamata Terra di Lavoro.
Toponimo di origine greca è Napoli, chiamata Nea polis “città nuova” per
differenziarla dal primo insediamento urbano poi identificato come Palepoli.
Della presenza dei Romani nella regione resta una traccia molto evidente nei
toponimi che risalgono alla suddivisione delle grandi proprietà terriere.
Con la presenza dei Greci bizantini si radicarono una serie di parole di origine greca,
che andarono ad aggiungersi ai toponimi di epoca classica.
Con l’arrivo dei Longobardi si delinea una certa differenziazione tra area costiera e
aree interne. I più evidenti longobardismi residui si notano nella toponomastica. Sono
di origine longobarda alcune parole ancora oggi usate nei dialetti, soprattutto in quelli
dell’interno della regione.
Quando il Regno passò sotto il controllo degli Aragonesi cominciò nei dialetti
campani un afflusso di lessico di provenienza iberica (catalano). Altri liberismi,
questa volta di origine casigliana, si diffusero a Napoli dall’inizio del 500 al 700.
Come gli altri stati europei, anche il Regno di Napoli nel Settecento fu profondamente
influenzato dalla cultura e dalle idee politiche e filosofiche provenienti dalla Francia.
Insieme con le idee giunsero fino al Regno altri francesismi, che si aggiunsero a
quelli già entrati nei dialetti in epoca normanna e in epoca angioina. I francesismi più
recenti si stabilizzarono soprattutto nei diversi settori della cultura, dell’abbigliamento
e della gastronomia. Nell’ambito gastronomico l’influsso francese è del resto stato
attivo per tutto l’800 e fino al 900.
Dittongo metafonetico;
Chiusura metafonetica;
Femminile plurale con rafforzamento sintattico;
Vitalità del genere neutro;
Variazione consonantica;
Suono indistinto finale.
Solo in Campania, come dimostra Franco Fanciullo essi si trovano tutti insieme e si
presentano collegati l’uno all’altro a formare una sorta di struttura portante di quella
che potremmo definire l’area linguistica campana.
Con il nome di metafonesi si indica una particolare evoluzione delle vocali toniche.
Nei dialetti che hanno un sistema vocalico con sette vocali toniche, una diversa
evoluzione metafonetica ha luogo da un lato per le vocali aperte –è-, -ò- e dall’altro
per le vocali chiuse –è-, -ó-. In un caso e nell’altro i suoni vocalici tonici si modificano,
con modalità diverse, per effetto dell’influenza prodotta su di essi dalle vocali –i e –u
presenti alla fine della parola o anche nella sillaba immediatamente successiva alla
vocale tonica.
Nel latino classico le vocali si distinguevano in base alla quantità. Si avevano cinque
vocali brevi e cinque vocali lunghe.
Nel latino parlato, che è quello da cui dipendono i dialetti italiani e tutte le altre lingue
romanze, le vocali si distinguevano però attraverso il grado di apertura: le vocali
originariamente lunghe erano pronunciate come aperte, mentre le vocali
originariamente lunghe erano pronunciate come chiuse. Si è delineato un vocalismo
tonico formato da sette vocali, da cui derivano i sistemi vocalici di gran parte delle
lingue romanze.
Le vocali che sono anche alla base dei dialetti di tipo campano sono quindi queste
sette:
i è è a ò ó u
Per effetto della metafonesi, quando nella sillaba successiva o in quella finale si
trovano –I oppure –U etimologica, le vocali aperte toniche –è-, -ò- dittongano in –ie-
e in –uo-. Si parla in questi casi di dittongazione metafonetica.
Quando invece la metafonetica colpisce le vocali chiuse é, ó, sempre per effetto di
una –I oppure di una –U etimologica, si produce una chiusura metafonetica: la –è-
chiusa si chiude ulteriormente in –i-, mentre la – ó- chiusa si chiude ulteriormente in
–u-.
3. Rafforzamento sintattico
- le congiunzioni e, né;
- la negazione nu (non);
- il che interrogativo;
- accussì;
- cchiù ‘più’;
- tre;
4. Variazione consonantica
Esempio in dialetto napoletano: nu juoco (in posizione debole) – che gghiuòco? (in
posizione forte)
Ciò accade perché un unico fonema viene realizzato attraverso due allofoni diversi,
in rapporto alla diversa posizione nella sequenza fonetica.
Il sistema della variazione dimostra che la pronuncia delle consonanti nei dialetti
campani è in un certo senso poco stabile ed esposta ai condizionamenti del
contesto.
Nei femminili plurali la consonante iniziale è rafforzata non solo quando precede
l’articolo, ma anche quando le forme sono precedute da aggettivi qualificativi o
dimostrativi.
6. Il neutro
In Campania oltre ai nomi di genere maschile e a quelli di genere femminile esistono
i nomi di genere neutro. In molti casi i nomi neutri del dialetto rappresentano delle
innovazioni rispetto al latino e spesso sono neologismi più o meno recenti.
L’incremento numerico dei nomi di genere neutro è una delle più evidenti prove di
vitalità dei dialetti campani.
Sono neutri i nomi riferiti a entità materiali o concettuali viste nel loro insieme e non
pluralizzabili. I nomi neutri preceduti dall’articolo determinativo si presenta con la
consonante iniziale rafforzata. Alla motivazione fonetica e sintattica (cioè
l’assimilazione tra –D di ILLUD e l’iniziale consonantica del nome) si aggiunge una
motivazione di tipo semantico, nel senso che sono trattati come neutri tutti quei nomi
che vengono riconosciuti come ‘etichette’ di un genere visto nel suo insieme.
Altra caratteristica tipica dell’area campana è l’indebolimento del suono finale atono,
che viene articolato come suono centralizzato indistinto (qui rappresentato nella
grafia con ë). Tale pronuncia indebolita si combina in una sorta di sostegno
reciproco, con la funzione morfologica dagli esiti metafonetici e del rafforzamento
sintattico. La vocale finale può essere indebolita nella pronuncia in quanto non è più
un indispensabile veicolo di informazioni morfologiche, dal momento che sono
trasmesse dalle toniche metaforiche o dalle consonanti rafforzate.
Tra gli altri esiti fonetici frequenti nei dialetti in Campania ricordiamo qui in primo
luogo l’evoluzione dei nessi di consonante+L; da BL- si ha la semivocale j- per cui si
ha BLANCU>janco; da FL- inoltre si ha la palatale fricativa [ƒ], per cui sciore da
FLOREM. Da segnalare sono poi la frequente sonorizzazione dopo nasale la
pronuncia fricativa della s- prima di labiale e velare, la conservazione della
semivocale j- che in italiano invece diventa affricata palatale.
Nella pianura che si estende tra il Vesuvio e Salerno il dialetto è simile a quello
napoletano, ma si notano fenomeni particolari che ricorrono anche nei dintorni di
Napoli.
Nettamente differenziano dagli altri dialetti campani è il dialetto che si parla nella
parte meridionale estrema della provincia di Salerno. Qui incontriamo un sistema
vocalico con cinque vocali toniche; questo è definito vocalismo tonico siciliano in
quanto si presenta nei dialetti siciliani e in quelli delle regioni meridionali estreme.
In alcune località nei pressi del golfo di Policastro si conservano sporadiche tracce
riconducibili alla presenza nel Medioevo di coloni settentrionali.
2. Dialetti irpini
I dialetti irpini hanno una serie di tratti in comune con quelli del Cilento, anche se per
altri aspetti hanno affinità con il napoletano.
3. Dialetti sanniti
Tra i fenomeni che caratterizzano l’area campana figurano il genere neutro con
rafforzamento sintattico e gli esiti metafonetici di tipo napoletano con dittongo e
chiusura. Nell’avvicinarsi al confine settentrionale (o anche nord-orientale) della
regione tutti questi fenomeni si presentano in forma attenuata o seguono regole
diverse.
Nelle zone del Sannio più vicine alla provincia di Avellino gli esiti metafonetici sono
simili a quelli che si trovano negli altri dialetti campani, ma altrove si incontrano esiti
di altro genere riconducibili a una metafonesi non di tipo napoletano, ma di tipo
sabino, presente cioè in una parte del Lazio. Nella metafonesi sabina le vocali chiuse
–e-, -o- in condizioni metafonetiche si chiudono in –i-. Le vocali aperte non
dittongano in –ie- e in –uo- ma si chiudono in –e-, -o- chiuse.
Nella situazione di confine dell’area sannita, collocata tra spinte di tipo adriatico e
influenza laziale, le caratteristiche dialettali si presentano complesse e variegate.
In certi casi la pronuncia (di una parte) dei dialetti sanniti è simile a quella della zona
irpina (o cilentana), ma è diversa dal napoletano.
Anche nella provincia di Caserta, nella zona in prossimità del confine regionale, i
dialetti sono in parte diversi da quelli della zona napoletana. Una certa somiglianza
con i dialetti del Lazio meridionale è del resto giustificata da precise ragioni storiche.
Sull’altro versante della costa napoletana, a Torre del Greco o a Torre Annunziata si
hanno dittonghi simili a quelli di Pozzuoli.
6. Napoli
Anche per il napoletano si nota qualche elemento tipico. Per prima cosa, a Napoli
risulta indebolito il suono vocalico finale e spesso si indebolisce la pronuncia
dell’intera sillaba finale. Ciò in parte può essere posto in relazione con la maggiore
velocità della pronuncia, che viene percepita dai non napoletani, cosi come da parte
dei napoletani è avvertita la maggiore pacatezza della pronuncia degli altri dialetti
campani.
I cambiamenti che intervengono in una lingua sono più vistosi quando riguardano
l’uso di nuove parole.
L’influenza linguistica della città di Napoli si sarebbe svolta non tanto imponendo il
proprio dialetto all’esterno, quanto proponendosi come luogo di confluenza di dialetti
diversi e come centro di irradiazione dell’ialiano. Nei secoli del passato, anche
svolgendo tale funzione strettamente connessa al ruolo di capitale, la città ha
rinunciato, in un certo senso, alla propria identità cittadina identificandosi con l’intero
Regno. In quanto capitale in osmosi con il Regno, Napoli non ha mai avvertito la
necessità di imporre il proprio dialetto. Queste circostanze forse spiegano anche
come mai il dialetto cittadino sia rimasto il solo dialetto parlato in città. La capitale
irradiava nel regno come lingua ufficiale prima il latino e poi l’italiano. Nei secoli, tra i
vari dialetti delle diverse aree regionali si sono andate addensando alcune
caratteristiche comuni che permettono oggi di distinguere un’area linguistica
campana rispetto alle altre aree dell’Italia meridionale. Il favorire del radicarsi di certe
caratteristiche sia stato determinante il ruolo della capitale non tanto nell’imposizione
del proprio dialetto urbano, quanto nel porsi come punto di riferimento in cui in
qualche modo trovano conferme e forza di aggregazione tratti linguistici già presenti
sparsamente altrove. La diffusione del napoletano cittadino ha conosciuto un’impulso
decisivo proprio dopo l’Unità. Dopo l’Unità il napoletano diventa il veicolo
dell’immagine cittadina al di fuori della città.
Parole che sono presenti in Campania, ma anche in gran parte dell’Italia meridionale;
Parole diffuse più o meno generalmente in tutta la Campania;
Parole in uso solo nei dialetti di una parte della Campania, ma non nel resto della
regione.
Le parole del dialetto conservano spesso uno stretto legame con la cultura materiale
e con gli usi tradizionali. Un nesso di questo genere è evidente in genere per tutte
quelle parole che si riferiscono alla cucina e alla gastronomia locale, alla tradizione,
insomma.
L’incremento di neologismi viene visto non come un indizio di crisi, ma come segno
di notevole vitalità del dialetto.
Dopo una lunga tradizione di uso letterario riflesso e dopo un periodo in cui è spesso
apparso sul punto di vivere una crisi definitiva, il dialetto, tra la fine del XX e l’inizio
del XXI, ha forse conquistato nuovi spazi. A volte il dialetto affiora anche nella
comunicazione scritta che ha luogo attraverso gli sms, le chat, le e-mail: tanto più
significativi appaiono questi usi sia perché si realizzano attraverso nuovi canali
comunicativi sia perché il più delle volte i protagonisti di queste interazioni sono
giovani. A una rinnovata vitalità rimanda inoltre l’uso del dialetto in scritture destinate
a un’esposizione pubblica.