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A qualcuno dispiace se, dopo un anno di gentilezza e cortesia, di disponibilità elargita ora io con tutto il

peso di un me stesso alterato mi pongo di traverso, in una barocca strage, concettosa deflagrazione d’idee?
Sarò breve, il tempo di un innesco, un po’ di miccia e poi il boato. Perché se a parole sono tutti buoni, io
godo a essere cattivo con le medesime, prigioniero di una mia intima coerenza, per cui nato deluso dagli
esseri umani e da me stesso io non posso esprimere una surreale tenerezza di discorsi, che nel loro dire
vadano ad abbracciare la realtà, in un affetto simulato, generato, lo spazio di un po’ di nero su bianco.
Nutro diverse ambizioni, tra cui quella di un sapere che sia crudele quanto il mondo, indi lascio a voi le
misere ipocrisie di chi si consola e rassicura, ricusando tutto ciò, perché almeno qua la mia compassione
possa essere spietata, così d’ammettere che per me altro non vi è che l’inganno, la suggestione di ritrovare
in ogni uomo il proprio volto e rispecchiare nella propria faccia tutti gli altri visi. Una splendida falsità,
verissima nella sua metafisica, e questa sarebbe comprensione? Forse di un generale, ma dovendo
relazionarci con tutta la restante carne di cannone, massa di dannati e fottuti singoli, che infesta il mondo
niente ho trovato di meglio che un gusto alla pazienza. Se io sarò calmo, allora sarò forte e potrò dominare
l’onda d’urto della mia sensibilità, senza soccombere e il caos diventerà uno strumento, senza che io debba
ridurmi a idolatrare il controllo e le sue forme repressive, ossessive. Tutta qui la mia nobiltà d’animo verso
gli individui e la loro irriducibile diversità, il resto è pacata e sorridente indifferenza. E se l’imperatore
Augusto, saputo del massacro nella foresta di Teutoburgo, andava disperandosi e gridando a gran voce:
“Varo rendimi le mie legioni!” io al contrario, speranzoso, alla stessa maniera commosso, dico per celia:
“Mondo bello, perché vario, forse un po’ avariato, grazie per la resa delle mie ragioni!”. Lo dico scherzoso,
per il piacere del gioco di parole, perché nell’ambiguità del detto non le ho mai davvero indietro, eppure
allo stesso tempo mai si arrendono. In tal maniera, in un profondo occulto, sento di pronunciarmi dopo
questo periodo di vita un poco massacrante in quella selva, di alberi-servizi forniti, che è a Puttemburgo,
essendo la sede di, per i miei amici rinominata, Barbolandia ben distante da casa mia. E posso finirla qua
quindi di parlare? O devo aggiungere altro? Sul serio devo restituire qualcosa, forse a grazie, in grazia
dell’esperienza che mi è stata permessa di vivere, che ha ulteriormente in me innescato? Se è cosa carina
che si faccia da contratto, allora si faccia, venga la miccia, ma si sappia che io sono un ingrato , o meglio
incapace di gratitudine se essa non rientra in un meccanismo di ulteriore utile. E come potrebbe essermi
utile, oltre al mio impegno filantropico, retribuito palesemente in riconosciuta perdita a fronte del monte
ore, ora dovermi pure spendere in una qualche forma di retorica ad attestare significati? Non mi serve,
esula e anzi, di più, io non posso far ciò, che questo passo è quasi al termine e io, giunto in fondo, a lambire
l’estremo di ultimi tempi, sono stremato. Per cui nessuno osi chiedermi un’oncia oltre rispetto a
un’esplosione di egoismo, lirico mio proprio, in risposta a tutte le maschere di carne, che si chiamano
persone che mi sono sciamate davanti agli occhi, ciascuna ad occupare un qualche momento di tempo
guadagnato, di tempo subito dopo andato perso. Serbo gelosamente e non parlerò di nemmeno uno di
loro, neppure un singolo momento concretamente avvenuto sarà nominato ed eletto a rappresentare
chissà che. Preferisco una granata a frammentazione a sintetizzare e viva la detonazione di me, perenne
scoppiato. Sinceramente non posso fare altro, e già in gran parte, come sempre, sto mentendo e al diavolo
la concretezza, squallida e lercia, di tutte le cose. Viva i derelitti e i reietti, con i loro stigma! Dunque venga
la fantasia a tingere il cielo, così scabro a mio parere, di comete a schiantarsi fino alle stalle, le più infime
stamberghe con le loro lenzuola tutte diverse. Allora, dipende di certo da che altezza la vertigine, ma se vi
dicessi che ogni uomo, o donna, pure in tutte al loro bassezza di bisognosi di un fazzoletto per il naso, di
adulanti i suoi simili con il mazzo di chiavi, essi alieni, o forse un poco alienati, io compreso, provengono da
oltre le stelle? E che ad ogni misero loro passo, o gradino in salita e discesa, fatto come membro di un
gregge portato dopo la mangiatoia a nottare, lungo tutte le scale, vi sia l’infinito a mezzo? Che pensereste
nell’intendere che da lì il loro sconosciuto mondo giunge, da così lungi, in un perenne continuo rovescio di
sorte, in ostinata direzione contraria, un bagliore di meteora, o meteorismo, valendo poco più di un’aria di
viscere forse? E pensate anche, se potete, che in questa siderale distanza, a dividere e separare in maniera
non rimediabile forse, la velocità è necessaria, inesorabile, ineludibile, ineluttabile per colmare, sempre a
metà, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, chi lo sa, che finché c’è vita è già qualcosa e si può
rispondere “bene” al come va. Il susseguirsi ammazza, tutto passa, anche quel che si incaglia a cicatrice, ed
io so del segno in più, tuttavia sembra ieri l’inizio dell’anno. Per cui possa pure ogni attimo passare in
lunghi pomeriggi, in un prato di noia, punteggiato di sedie rosse e di momenti come fiori, dove qualcosa
guizza favoloso e oscuro assieme, ugualmente la rapidità dello scorrere, o dello scorsoio se talvolta ci si
sente soffocare, è d’obbligo, che il tempo passa e si marcia, si vuol marciare e chi non si sente giustamente
scandito, forse alla lunga si sente un poco marcire. Non pare di essere in un manicomio a volte? Per cui
intendendo tutto questo, quanto finora detto, capireste gentilmente la mia vertigine? Mi sento di star
cadere, avete presente? Quella sensazione, una sorta di risucchio e il cuore in gola, e per quegli istanti, con
che sforzo immane ci può essere altro oltre ad essa? Insomma mi si perdoni se si può, ma sono proprio una
frana, che viene giù, sfaldandosi da un tempo preciso che non rammento e chi mi può fermare? Fatico a
mantenere un equilibrio, è una sorta di labirintite mentale e allora mi sento cadere, di star per mancare,
nonostante io mi faccia sempre più presente. Ma mi sembra non sia mai abbastanza, che sia davvero
troppa la distanza, anzi per assurdo più io ci sono, più mi accorgo di tutte le mancanze e mi intrido,
impregno di assenza, tutto l’altrimenti possibile che non c’è, che come le pareti, le siepi di un labirinto mi
smarrisce e rischio di perdermi. Con che faticoso, disperato impegno, sempre imperfetto e fallace, allora mi
aggrappo e mi richiamo a un ordine di cose anch’esso mancante, assente? Con che spirito essere tra la
gente e le loro istanze, affermazioni casuali d’esistenza? E forse che io stia parlando di un fugace adesso, un
momentaneo umore? Questo no, non lo pensate, perché questo è il mio eterno sempre, la buona stella
sotto cui sono nato. E quante volte come un’ombra nera la mia infelicità mi ha martellato in testa,
rapendomi alla migliore possibilità di me stesso, di esserci con tutte le mie energie in onore, dedica al
prossimo? Io non lo sopporto questo mio vacuo malessere, questo esilio in un senso di altrove, lo avverso
con quanto di me non ne è contaminato, volendo resistere, dovendolo a me stesso e a tutti gli altri,
all’ideale per cui vale la pena provare a esserci anche lì, ai limiti dell’inesistenza, dell’altrui indifferenza
sostanziale. Che io mai che differenza posso fare? Giusto una piccola somma di atti volti ad affermare un
valore, un non sottrarsi, un minimo spendersi e poco meno, più che più. E di contro? Immani sono le
sensazioni negative, di un proprio meschino ego, preda di frustrazioni e bisogni, di sé conscio; e terribili le
implicazioni, circa la scalinata dell’essere, suggerite dalle vite storpiate, sfortunate, malvissute che si
esprimono nella loro innocenza e malignità fuse assieme; e gigantesco ed esagerato, come onde di un
oceano dove goccia è l’universo, il senso di errore irrimediabile, seminato così negli occhi a pregiudicare, a
ritenere che ci sia uno iato tra il giusto e lo sbagliato, tra il riuscito ed il fallito; intanto che tutto ciò è soglia
insensata a un vuoto che ancora più grande pare essere alle base di ogni cosa. E una possibilità diversa di
considerazione? Talora spontanea sorge e che rabbia sfiorarla appena, a supplizio, a presa in giro e subito
ripiombare in un solipsistico delirio, che si sa essere l’oscuro frutto del peccato originale. Ma i semplici
momenti di comunione imperfetta, ineffabile e incomprensibile, salvi dall’aporia di senso e dalla rovina dei
significati, valgono l’inferno di vederli dal nulla giungere e nel nulla sprofondare. E come ogni cosa rara
bella, di quella semplicità che mi colpisce e umilia tutto il mio mastodontico riflettere, mi lascia un buco in
petto, un tassello mancante alla trama, un cratere nella terra fumante. Ed è da lì che le mie incomplete,
incompiute, difettanti, carenti, deficienti, fallaci, mancanti, inadeguate energie trovano la forza di risultare,
tentare in spregio e gloria di tutto quel che di umano vi è che perdura, persiste e sorride, nonostante il
tutto. Da lì traggo la volontà di un qualsiasi qualcosa che provi a inverare, al di là di una maschera che sul
mio viso pongo per non far trasparire quel senso di aver già ceduto, da sempre.

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