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Raccolta di Politica Internazionale
Il meglio da “Risiko-Geopolitica e dintorni”- “BloGlobal” - “Prospettiva Internazionale”
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Numero 3 - Marzo 2011

Perché “Chaos” All’interno:


La politica internazionale è una cosa difficile da comprendere fino in fondo e, per questo, Viðrar vel til Loftárá- 4

è difficile seguirla. Essa è molto di più di un semplice sistema di relazioni internazionali, La Libia nel vuoto 6
di rapporti interstatali, di interconnessioni economiche, di collegamenti fra sistemi regio- Lybia: the European 7
nali, molto di più di quella che — spesso riduttivamente — viene chiamata Union devided on the
intervention
―globalizzazione‖. Tra le diverse teorie che hanno tentato di spiegare tale complessità,
La collocazione inter- 9
ne è stata formulata recentemente una davvero particolare: applicare le leggi che rego- nazionale dell’Italia
lano la biologia, la fisica quantistica e la ―teoria del caos‖ anche alle scienze politiche e L’Italia nel mondo:
12
alle relazioni internazionali (―Mondo Caos‖, di Roberto Menotti, edito da Laterza - 2010). buon compleanno,
Belpaese
Da qui nasce l’idea di ―Chaos‖ (scritto in inglese, con 5 lettere, come i 5 continenti): una
Il costo della rivolu- 16
raccolta dei migliori articoli pubblicati da alcuni emergenti blog italiani, ―BloGlobal‖, zione
―Risiko-Geopolitica e dintorni‖ e ―Prospettiva internazionale‖. Essi hanno lo scopo di pro-
La Striscia di Gaza è 19
muovere la conoscenza della politica internazionale e di spiegare, in termini accessibili a ancora occupata da
Israele?
tutti, i fattori e le dinamiche che muovono il mondo e la sua, appunto, caoticità. Com-
La battaglia cartografi- 27
prenderle permette di prendere consapevolezza delle nostre radici e, ora come non mai, ca (parte II): carte come
armi in Israele-Palestina
del nostro futuro!

In evidenza questo mese: La guerra in Libia


Libia: la nostra responsabilità di proteggere - di Gianpiera Mancusi (BloGlobal) - 18.03.2011

Ce l'hanno fatta. Ebbene, dopo giorni di rinvii e tentennamenti, i 15 membri del Consiglio di Sicurezza hanno appro-
vato la Risoluzione 1973 che, tra le altre cose, autorizza gli Stati membri a prendere tutte le misure necessarie per
proteggere i civili e ad istituire la no-fly zone. Non è ancora chiaro come si articolerà l'intervento, nè se verrà imple-
mentato da una coalizione di nazioni o attraverso un'organizzazione regionale. Quello che è certo, a poche ore
dall'approvazione del testo, è che la crisi libica rappresenta per le Nazioni Unite un'occasione di rilancio del suo ruolo
di guardiano della pace e della sicurezza collettiva e, soprattutto, la prima reale applicazione della responsabilità di
proteggere, principio che sancisce la base legale per l'intervento umanitario.

La Risoluzione 1973

Presentata da Francia, Inghilterra e Libano, con il supporto degli Stati Uniti, la Risoluzione è passata con 10 voti a
favore e 5 astenuti (Cina, Russia, Brasile, India e Germania). Per le prime due nazioni l'astensione non è una novità:
entrambe sono storicamente contrarie agli interventi contro stati sovrani. La Germania, poi, ha sollevato molte per-
plessità circa i rischi che un intervento armato potrebbe comportare. Ma nessuno ha votato contro: questo è un ele-
mento, a mio parere, molto significativo perché segnala una certa coesione tra gli Stati circa l'impossibilità di stare a
Pagina 3 CHAOS
guardare mentre si sta consumando una violazione sistematica di diritti umani a danno del popolo libico da parte
delle truppe del Colonello Gheddafi. L'accordo circa un possibile intervento armato per fermare questa barbarie è
anche dovuto all'ampio sostegno dei Paesi arabi ed, in primis, della Lega Araba la cui cooperazione viene richiama-
ta esplicitamente nel testo.
La Risoluzione autorizza l'istituzione della celeberrima no fly zone. Celeberrima perchè sono settimane che se ne
parla senza giungere ad alcuna decisone, tanto che in molti avevano perso la speranza, soprattutto dopo gli eventi
del Giappone. La no fly zone implica il divieto di sorvolo sui cieli libici da parte di qualsiasi aereomobile tranne per
quelli strettamente umanitari. Viene, inoltre, rafforzato l'embargo di armi ed vengono autorizzati gli Stati a compiere
ispezioni in porti, aereoporti ed in alto mare per fermare l'approvigionamento di armi da parte del regime e l'utilizzo di
mercenari. Si allunga, poi, la lista delle entità finanziare libiche come la Central Bank of Libya, la Libyan Investment
Authority, la Libyan Foreign Bank alle quali vengono congelate le proprietà. Vengono imposte anche all'ambasciato-
re della Libia in Ciad e al governatore di Ghat (nella Libia del Sud) le restrizioni alla libertà di movimento ed il conge-
lamento dei beni perché "coinvolti nel reclutamento dei mercenari" da altri Paesi dell'Africa.

La protezione dei civili


Qualora il Colonnello non fermasse immediatamente le sue azioni contro i civili, gli Stati membri sono autorizzati a
prendere tutte le "misurie necessarie" per "proteggere i civili e le aree civili popolate sotto minaccia di attacco in Li-
bia, compresa Bengasi", città che ha accolto con giubilo la notizia dell'approvazione della Risoluzione. Vi è ampia
discrezionalità circa le possibili misure da intraprendere, comprese quelle ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni
Unite, tranne una: l'occupazione militare. Perchè sia chiaro: questo non è un nuovo Iraq.
La protezione dei civili è il nucleo del testo approvato ieri e ne costituisce la base legale per l'intervento. E' da circa
un decennio che a New York, e non solo, si parla di "responsability to protect". E' stato l'ex Segretario Generale
dell'Onu, Kofi Annan, a farsi promotore di tale principio. Durante gli anni '90, infatti, la natura dei conflitti è profonda-
mente cambiata. Se si è verificata una significativa riduzione nei conflitti tra Stati sovrani, sono aumentati, sempre
più, i conflitti intrastatali. Le guerre civili sono spesso motivate da contrapposizioni etniche e religiose e caratterizzate
da un alto numero di vittime tra la popolazione. Ma, soprattutto, l'elemento distintivo di tali conflitti è l’alto numero di
violazioni di diritti umani tra cui detenzioni arbitrarie, sparizioni, atti di tortura, esecuzioni sommarie fino ad arrivare
alla vera e propria pulizia etnica. I Balcani ed il Rwanda possono drammaticamente testimoniare quanto affermato.
Proprio di fronte a tali episodi la comunità internazionale ha cominciato ad interrogarsi su quali azioni intraprendere
contro uno Stato che si macchi di crimini atroci contro i propri cittadini. La risposta data da Kofi Annam nel suo re-
port In Larger Freedom: Towards Development, Security and Human Rights for All del 2005 sembra lasciare pochi
dubbi. Pur ricordando che è lo Stato sovrano ad avere la responsabilità primaria nella protezione dei propri cittadini,
la comunità internazionale ha il diritto/dovere di intervenire qualora lo Stato si dimostri incapace o non disposto ad
assicurare tale protezione. Tra le misure che possono essere intraprese, oltre a quelle di tipo diplomatico ed umani-
tario, ci sono anche le misure implicanti l'uso della forza, a cui ricorrere solo come last resort. Con il World Summit
Outcome Document, sempre del 2005, i Capi di Stato e di Governo hanno concordato sulla possibilità di intervenire,
in maniera sussidiaria, per proteggere i civili. Ma tale impegno è rimasto lettera morta, almeno sino ad oggi. La pau-
ra del terrorismo, le vecchie contrapposizioni tra i membri permanenti, la crisi economica, gli alti costi connessi ad un
intervento militare, hanno impedito, ad esempio, qualsiasi azione contro il Sudan di al-Bashir, regime accusato di
compiere un vero e proprio genocidio in Darfur. Vi è poi nei confronti dell'intervento umanitario una certa cautela,
anche dovuta ad un certo abuso del termine. Molte guerre sono state combattute per "motivi umanitari": peccato che
quasi sempre vi fossero, nascosti sotto la facciata, interessi molto più egoistici (Iraq docet). L'intervento NATO in
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Kosovo, poi, seppur motivato da considerazioni umanitarie, è avvenuto in palese violazione della Carta delle Nazioni
Unite.
Ecco perchè, a mio avviso, l'azione che, nei prossimi giorni, potrebbe scatenarsi contro il regime di Gheddafi costi-
tuisce l'inizio di una nuova fase per le Nazioni Unite ma anche per tutta la comunità internazionale. Si lancia, infatti,
un segnale forte a tutti quei regimi, responsabili di massacri nei confronti dei propri cittadini, che la sovranità territo-
riale e politica non costituisce più un principio a cui appellarsi per fare, entro i propri confini statali, ciò che si vuole.
Di fronte a questa ondata rivoluzionaria o di rivolta (questo solo la storia potrà dirlo), la comunità internazionale è
chiamata a svolgere un ruolo cruciale di tutela ed ad assistere le popolazioni coinvolte nel far fronte alle sfide di que-
sta fase di transizione epocale.

Viðrar vel til Loftárása* - di Alessandro Badella (Risiko) - 21.03.2011

Ho volutamente deciso di astenermi per qualche giorno dal commentare i bombardamenti sulla Libia per far "sbollire"
un po' le sensazioni contrastanti che si alternano in ognuno di noi. Anche io, come molti, non condivido la guerra co-
me strumento univoco per la risoluzione dei conflitti. La guerra è un pessimo strumento per redimere le controversie
interpersonali come internazionali, ma purtroppo è una dinamica del divenire storico. La stessa Italia unita, che ab-
biamo festeggiato solo alcuni giorni or sono, così come l'Italia repubblicana hanno avuto genitori in armi. Addirittura
la Carta delle Nazioni Unite, che, nonostante alcune evidenti lacune applicative, rimane un ottimo testo, prevede la
guerra come strumento dissuasivo-imperativo. Questo è innegabile. Come è innegabile che è molto difficile liberarsi
di un dittatore sanguinario senza sparare un colpo. Anche questo inizio del 2011 lo dimostra apertamente. Tunisia
ed Egitto, prima ancora della Libia, hanno pagato il loro tributo di sangue durante le sanguinose proteste di gennaio
e febbraio.
Secondo punto: lo start. Le operazioni sono state iniziate dalla Francia di Sarkozy per creare i presupposti di u-
na efficace no-fly zone. A ruota sono arrivate Gran Bretagna, Italia, Belgio, Danimarca, Stati Uniti e Canada. In posi-
zione defilata, sia in seno al Consiglio di Sicurezza sia durante l'intervento aereo, si è posizionata la Germania della
Merkel. Altri, come Lega Araba e la Russia hanno appoggiato la proposta di una interdizione dello spazio aereo libi-
co, ma hanno aspramente criticato i mezzi utilizzati per portare a termine il compito assegnato dall'Onu. La difesa
della Francia sta nel ripetere che è stata la Risoluzione n.1973 a volere un intervento con siffatte modalità e quindi la
coalizione internazionale starebbe agendo in toto sotto l'ombrello di una disposizione delle Nazioni Unite.
In realtà, la Risoluzione n.1973 è stata abbastanza "fumosa" su come creare una no-fly zone. Si legge nel testo:

[the Security Council] Authorizes Member States that have notified the Secretary-General and the Secre-
tary-General of the League of Arab States, acting nationally or through regional organizations or arran-
gements, to take all necessary measures to enforce compliance with the ban on flights imposed by para-
graph 6 above, as necessary, and requests the States concerned in cooperation with the League of Arab
States to coordinate closely with the Secretary General on the measures they are taking to implement
this ban, including by establishing an appropriate mechanism for implementing the provisions [...].

L'interpretazione di questo passaggio, che è il paragrafo 8 della risoluzione, è centrale per determinare se Francia e
soci si siano spinti oltre nel bombardare installazioni militari in Libia. E' sicuramente vero che il Consiglio ha voluto
rafforzare il valore del pronunciamento, dichiarando che gli stati membri (dell'Onu) sono autorizzati a prendere tutti i
provvedimenti necessari al rispetto della no-fly zone. Al contempo è vero che il paragrafo precisa anche che ogni
Pagina 5 CHAOS
stato membro ha il compito di coordinare i propri sforzi con la la Lega Araba e il Segretariato di Stato.
Dunque, a prima vista, sembrerebbe che Sarkozy e soci abbiano spinto un po' troppo sull'acceleratore interpretando
in maniera "hard" una risoluzione che alludeva ad una misura non implicante l'uso della forza (ex art. 41 della Carta
Onu). Lo stesso accadde per l'Iraq, quando Bush jr. decise unilateralmente l'intervento sostenendo di aver applicato
una decisione del Consiglio di Sicurezza, quando quest'ultimo non aveva emanato nessuna risoluzione atta a lancia-
re un'offensiva contro Saddam Hussein. Inoltre, il par.11 della risoluzione n.1973 sembra andare in tutt'altra direzio-
ne rispetto all'applicazione fatta dalla coalizione internazionale:

[The Security Council] Decides that the Member States concerned shall inform the Secretary-General
and the Secretary-General of the League of Arab States immediately of measures taken in exercise of
the authority conferred by paragraph 8 above, including to supply a concept of operations.

Chiaramente l'obbligo di informare il Segretario Generale e la Lega Araba sono disposizioni ex ante, ovvero prima di
una qualsivoglia azione di applicazione concreta della no-fly zone gli stati membri avrebbero il compito di informare i
due o r g a ni m e nzi o n at i ( a rt . 1 1 ), per c o n c o r d ar e una st r a t e gi a c om u n e ( a r t . 8 ).
Da ciò si comprende come molti paesi favorevoli ad una no-fly zone preventiva (del tipo "sopra la Libia non si vola,
altrimenti valuteremo sanzioni appropriate", che sarebbe il vero spirito della n.1973) siano stati un po' seccati
dall'incipit francese.
Staremo a vedere gli sviluppi dei dibattiti in corso. Sia all'Onu, sia tra Francia e NATO, con la prima poco propensa a
lasciare il comando delle operazioni all'organizzazione atlantica. La gatta frettolosa fa i gattini ciechi: il comando del-
le operazioni sta prendendo una brutta piega. Ci sono un sacco di primi violini, ma non si sa bene chi sia il direttore
dell'orchestra. E Frattini ha rilanciato l'idea che l'Italia possa gestire autonomamente le proprie basi militari, come
dire "ognuno per sé e Dio per tutti". Certo questa disorganizzazione e questa sovrapposizione di ruoli non giova al
fine della missione.

A proposito...quale fine ha la missione? Secondo la risoluzione Onu il fine dell'area di non sorvolo sarebbe quello di
proteggere i civili dalle violazioni commesse dal regime di Gheddafi. In realtà il fine (quello umanitario) non avrebbe
potuto essere raggiunto pienamente con il mezzo applicato dalle Nazioni Unite. Gheddafi stava paurosamente avan-
zando verso est e avrebbe probabilmente conquistato Bengasi in pochi giorni senza un attacco diretto da parte della
Francia. Il regime libico avrebbe potuto commettere uno sterminio anche senza far volare un solo caccia. Per cui,
anche se la liceità dell'atto può essere contestata, a livello pratico, l'azione francese ha raggiunto l'obiettivo di frenare
l'avanzata dei "verdi" fedelissimi al raiss.

Il domani è molto incerto. Non sappiamo francamente quali siano gli obiettivi di medio e lungo periodo della coalizio-
ne. E soprattutto è incerto se esiste veramente una coalizione (Robert Gates sembra si stia chiamando fuori e vi so-
no forti incertezze sull'assegnazione del comando delle operazioni) e soprattutto quali siano i reali obiettivi della mis-
sione Odyssey Dawn. Mero interesse petrolifero o reale animus umanitario?
Difficile dirlo ora. Mi è sembrato nelle ultime settimane che l'intervento militare (anche solo dall'alto) si stesse defi-
nendo sempre con maggiore nitidezza. Molti avevano il bottone sullo start per dare il via alle operazioni. Forse stava-
no solo vedendo chi avrebbe ceduto prima alla tentazione di premere quel tasto.

*Viðrar vel til Loftárása è una canzone del gruppo islandese Sigur Ròs. Significa "Un tempo meraviglioso per un attacco aereo".
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La Libia nel vuoto - di Prospettiva Internazionale - 20.03.2011


Su Gheddafi molti commentatori avevano già tracciato una grossa X. Pensavano che sarebbe stato spodestato, tra-
volto dalla piazza. Si sbagliavano. Quella di Mu'ammar Gheddafi è una figura largamente "incompresa" in occidente
[1]. Ora siamo in guerra, si cerca di abbatterlo e, in questa vicenda che è appena agli inizi, ci sono alcuni punti vera-
mente oscuri. Proviamo ad esporre qualche considerazione.

A chi è abituato a ragionare sull'agire statale in termini d' interessi la prima cosa che viene da chiedersi è: come si
spiega l'interventismo di Francia e Gran Bretagna? A te che pensi che il motivo risieda nell'indignazione dei due Pae-
si per il bombardamento dei civili libici da parte del regime rispondo semplicemente "no". Tutti i governi europei si
sono indignati, fare la guerra è qualcosa d'altro. Sostengo che gli Stati ragionino prevalentemente in termini cartogra-
fici. Francia e Gran Bretagna in particolar modo hanno sviluppato questo tipo di forma mentis durante il periodo del
loro splendore coloniale. Sono i "vizi" del pensiero moderno, sono difficili da perdere. Special modo se l'occasione si
presenta illuminata dalla luce di un'opinione pubblica internazionale profondamente indignata e che auspica un inter-
vento. Se mi presentassero un foglio con le tre parole "Francia", "Gran Bretagna", "Africa-Medio oriente" l'avvertirei
come una serie di Fibonacci e la quarta parola mi risulterebbe scontata. Geograficamente la Libia confina con Tuni-
sia, Algeria, Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. La Francia su questo scacchiere ha sicuramente una buona influenza su
Algeria e Ciad. Dopo le rivolte popolari, l'Egitto e soprattutto la Tunisia sono in una fase di delicata transizione. La
geopolitica come la natura rifugge il vuoto. Quando questo si crea il potere circostante tende al suo riempimento.
Oggi controllare la Libia significherebbe prender parte ai processi che si sono recentemente aperti in Africa del Nord
ed esercitare in tale contesto la propria influenza per cercare di ampliarla. Non è dunque solo una questione di petro-
lio. L'Italia, che non è naturalmente e materialmente predisposta a ragionamenti di questo tipo deve operare in modo
tale da non uscire troppo ridimensionata dal nuovo ordine che sarà stabilito in Libia.

Ma ci sarà un nuovo ordine? Le intenzioni e i risultati sono due cose molto diverse. L'impressione al momento è che
dietro questa guerra ci sia una debole riflessione strategica da parte delle potenze europee. Le guerre si concludono
con le forze terrestri. Anche se al momento non se ne parla, dopo i bombardamenti aerei bisognerà andare a piazza-
re una bandierina sul suolo libico e prenderne il controllo, marciando. Allora l'immagine dell'occidente colonialista
tornerà a popolare l'immaginario dei Paesi arabi e bisognerà fare i conti con lo scenario della guerra civile. In Iraq i
problemi degli americani sono cominciati proprio con l'invasione terrestre. Gli europei sono pronti ad affrontare e ge-
stire un simile scenario?

Nell'immediato è da capire quanto Gheddafi riuscirà a resistere. E' indiscutibile che gli americani siano destinati a
giocare un ruolo decisivo e di primaria importanza nel conflitto ma non vogliono assolutamente che diventi una loro
guerra (un'altra), i loro interessi sono altrove. Al momento il profilo del conflitto è un profilo europeo. Ma se il Colon-
nello riuscirà a tener duro mettendo alla prova la risolutezza degli Stati del vecchio continente allora gli USA potreb-
bero ritrovarsi in una scomoda situazione, sotto i riflettori.

[1] Link a Muhammar Gheddafi: istruzioni per l’uso. http://prospettivainternazionale.blogspot.com/2010/03/muhammar-gheddafi-


istruzioni-per-luso.html
Pagina 7 CHAOS

Cercasi interlocutore libico - di Alessandro Badella (Risiko) - 13.03.2011


Solo pochi mesi fa, quando si trattava di ricapitalizzare un'azienda, si trovava sempre un Gheddafi disponibile a par-
tecipare economicamente: l'interlocutore libico c'era sempre. Da qui le svariate partecipazioni in alcune delle princi-
pali società italiane da parte della famiglia del raiss.
Ad oggi la situazione è un po' più complessa. Alcuni post fa avevo sottolineato come ormai l'UE ed il mondo occiden-
tale non potesse più permettersi il lusso di una vittoriosa offensiva di Gheddafi. Sarebbe un potenziale nuovo nemico
alle porte del Mediterraneo. Ed infatti, nell'ultimo vertice europeo, i 27 hanno "segato" tutti i legami con Tripoli: Ghed-
dafi non è più l'interlocutore libico dell'UE. Al contempo, come ha confermato il vertice del movimento degli insorti, vi
sarebbero stati nei giorni scorsi alcuni contatti tra ministri degli esteri europei (è uscito il nome di Frattini) e i ribelli.
Tuttavia, questa presa di posizione dell'Unione sul proprio interlocutore libico è qualcosa di estremamente mobile e
traballante. In primis perché arriva in ritardo ed in un momento poco opportuno, ovvero quando Gheddafi sta ricon-
quistando con successo alcune roccaforti dei ribelli, come Ras Lanuf e Brega. Probabilmente il colloquio diretto con
il "nuovo interlocutore" libico avrebbe potuto essere anticipato di alcune settimane. Il futuro interlocutore dell'UE ver-
rà fuori da questa lotta intestina tra i sostenitori del raiss e il movimento rivoluzionario. Non è escluso che Gheddafi
se la possa cavare anche questa volta. Ed allora che succederebbe? Chi andrebbe a spiegare al raiss e famiglia che
è un dittatore sanguinario, ma ci serve il suo/loro petrolio?
Certo, il rapporto tra la comunità internazionale e la Libia si è bruscamente modificato e la strage di dimostranti com-
messa dal regime libico non può che lasciare tracce anche qualora Gheddafi ripristinasse lo status quo.
Anche la soluzione militare, anche indiretta, sembra allontanarsi dalla sfera del possibile. Più possibiliste Francia e
Gran Bretagna, decisamente meno la Germania. Ma, anche sull'opzione no fly zone, l'andazzo è quello di lasciare
all'Onu la patata bollente di decidere un intervento concreto sul fronte libico. E, in seno al Consiglio Onu, è tutta da
definire la posizione di Russia e Cina che sicuramente hanno condannato la risposta militare del regime libico, ma
solitamente non sono molto disponibili a suggellare interventi militari nei confronti di paesi con cui potrebbero avere
interessi commerciali in gioco (come Iran e Korea del Nord).
Mentre si cerca un interlocutore libico, quello vecchio potrebbe rimettersi di nuovo in sella.

Libya: the European Union devided on the intervention - di Eleonora Peruccacci (Risiko) -
23.03.2011

Is there going to be a new Iraq scenario for theEuropean member states? In 2003 the Iraqi war already divided the
EU nations upon whether the intervention was right or not, and at that time Germany, France, Luxemburg and Bel-
gium didn’t agree with the United States’ decision to intervene on the Iraqi population’s behalf. Even at that time
the humanitarian issue was at stake: throwing the bloody dictator down and setting the poor people free were the
main goals (this is what the Western media have been telling us).
At the moment, a basic condition has changed: there is no German-French axis, at least not now, and this make the
European foreign and security policy much weaker than before. German Prime Minister Angela Merkel hesitates in
openly standing against the war solution, whereas her deputy seems very firm in defining this whole situation a mere
―adventure‖, motivated only by oil interests.
Though the 27 members voted unanimously the 1973 UN resolution, there are still many doubts regarding the
French leadership of the mission: many countries, Italy first, are quite concerned about the predominant role of their
ally and put some pressure on passing that role to the NATO. Even now, after 3 days of attacks, there is still confu-
sion on what the real objective of these mission is: is that Gaddafi? Is that the Libyan armoury? Is it only the libera-
tion of an oppressed population from a despotic regime?
Numero 3 - Marzo 2011 Pagina 8

It’s up to each of us to decide which theory is the most reliable, but meanwhile the bombings are still a concrete rea-
lity on the Libyan soil, even if many people are trying to understand why this war has really started.

Ambiguità all’alba - di Alessandro Badella (Risiko) - 28.03.2011


L'operazione"Odissea all'alba", teoricamente supportata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni
Unite, avanza con difficoltà esterne (la resistenza di Gheddafi sembra essere più forte e tenace del previsto) ed inter-
ne (la colazione presenta piccole crepe un po' ovunque).
Alcune ambiguità della risoluzione Onu, la n.1973, sono abbastanza evidenti. In primis, la risoluzione - alla partenza
- aveva riscosso un certo successo. Come spesso è accaduto in passato e negli ultimi anni, le decisioni del Consiglio
sono"ostaggio" del diritto di veto delle potenze con seggio permanente. I casi di Sudan, Korea e le piccole guerre
interne ed internazionali dimenticate sono validi esempi di come gli interessi cinesi, russi o americani, a turno, osta-
colino qualsivoglia processo decisionale.
Per la Libia, la situazione si è andata configurando in termini molto diversi: l'accordo è stato raggiunto, senza palesi
defezioni, in un tempo utile per prevenire eventuali degenerazioni della situazione interna del paese africano. I pro-
blemi sono sorti successivamente. E' vero che la risoluzione n.1973 non prevedeva direttamente un intervento arma-
to come prima ratio nella protezione dei civili libici, ma è strano che Cina e Russia non avessero pensato ad una tale
eventualità nel momento in cui non hanno opposto il proprio veto al provvedimento passato in Consiglio.
Oggi la coalizione traballa pericolosamente e l'unità di intenti è solo virtuale. Addirittura potrebbe essere possibile
un asse Germania-Italia per trattare un cessate il fuoco con il regime libico. Anche la Turchia si è offerta di fare da
mediatore tra i bombardieri della Nato e Gheddafi. Questi atteggiamenti di prudenza, ampiamente giustificati dalla
difficile situazione che si sta vivendo, nascono anche da alcuni silenzi ed omissioni presenti nella stessa risoluzione
votata dall'Onu.
In primo luogo vi è il problema del dopo Gheddafi. La risoluzione non ha messo in chiaro se il leader libico è diretta-
mente un ricercato internazionale e se il suo regime è stato "condannato a morte" dalle Nazioni Unite. I giudizi del
Consiglio su Gheddafi ed il suo governo sono durissimi, ma di fatto la fine del raiss non è un obiettivo della missione,
che si occupa principalmente della protezione dei civili. Il dopo Gheddafi è assolutamente ambiguo poiché (e la riso-
luzione ne è una prova) le potenze non hanno un'idea chiara su cosa farne (di Gheddafi e della Libia), considerando
anche le esperienze traumatiche di Iraq e Afghanistan.
Il secondo problema è meramente di carattere militare. Nessuno sa quali siano i reali limiti dell'operazione. Ovvero
nessuno al momento è in grado di prevedere se l'operazione potrebbe avere anche uno sviluppo "terrestre", con una
partecipazione di forze militari d' "occupazione". Ovviamente la risoluzione non prevede nulla. E quindi nessuno sa
immaginare quali possano essere gli scenari futuri.

A splendid expensive war - di Alessandro Badella (Risiko) - 28.03.2011


More than one century ago, the American Ambassador in London, on the eve of Spanish-Cuban-American
War (1895-1898), wrote to Teddy Rosevelt: "It's been a splendid little war". That war against Spain granted the US
the control of the Western hemisphere and the status of international power.
Today, the things seems really different. USA is trying to defend their international status against the emerging eco-
nomies of the world, as the BRIC group. Obama's administration has to cope with the thorny problem of Libyan insta-
bility and, as European leaders, he has to face the consecuences of the public involvement of the United States in
the mission against Libyan regime.
Pagina 9 CHAOS
Anyway, Obama seems to adopt a lower profile on the matter. The United States are not the leading country in the
operation against Quadafi. France and UK has a more prominent role in organizing an armed force, even if not di-
rectly requested by the UN resolution n.1973.
Last night, Obama gave a speech from the National Defense University, that was not so appreciated by the interna-
tional analists. The President tried to convince the public opinion about the goodness of the intervention in Lybia
with "revolutionary" arguments (as the US were born with a revolution and Northern Africa can follow the same path)
and the defence of national interest. This speech was not so relevant in explaining the public opinion the reasons of
American (and international) intervention in Libya.
Excatly, the main question remained the same: why Libya? Obama's answer was a bit confused: he stressed the
idea the African country is at a particular moment, that represents "a unique opportunity" to stop violence "without
putting U.S. troops on the ground.". That answer do not explain why "yes" for Libya and "no" for other countries such
as Sudan or Yemen or Barhain. FP columnist Rothkopf, about this foggy answer on American Midle East projects,
quoted Caroll's "Alice in Wonderland":

After all, as Carroll wrote (presciently if inadvertently describing America's apparent foreign policy in
the new Middle East): "If you don't know where you are going, any road will get you there."

We cannot anticipate any further step chosen by US administration on Libyan ground. The only thing we can imagine
is that Obama's policy should face the report from the Pentagon about the costs of the actions against Quadafi's regi-
me. In ten days of intervention the US Army spent $550 million. And the growing of these costs is highly uncertain,
as states the Pentagon. Actually, American waships in the Mediterranean Sea are firing 1$ million missiles. At the
end of the campaign, the total cost of the wat will probably amount more than 1$ billion.
Unfortunately for American interests, these costs are not so predictable, because the future of the Libyan regime is
really uncertain to release a precise prevision. Quadafi could leave in few day, or keep the power from some years
more. Even, the plan of the "coalition" attacking the raiss is not made of concrete. And these problems inside the
Western alliance make uncertainity grow.
At the end, it will be a splendid expensive war.

Europa

La collocazione internazionale dell’Italia - di Maria Serra (BloGlobal) - 31.03.2011


Il compimento del centocinquantesimo anno dell’unità d’Italia e la decisione della comunità internazionale di interve-
nire sullo scenario libico con la controversa missione ONU/NATO, sollevano molte riflessioni sulla collocazione inter-
nazionale del nostro Paese. Di fronte alla sfida che proviene (inaspettatamente) dal mondo arabo, ma anche da
quelle che derivano dalle dinamiche di un modo sempre più multipolarizzato e globalizzato, l’Italia ha l’opportunità di
operare un significativo ri-orientamento che le permetterebbe di acquisire una credibilità non solo a livello nazionale,
ma anche a livello internazionale. Tale ri-collocazione non è possibile se non avviene secondo due profili: quello ge-
ografico e quello storico.

L’Italia è un Paese povero di risorse, ma in una posizione strategica di grande importanza, perché posto al centro del
Mediterraneo e, dunque, in una posizione favorevole per la mediazione dei rapporti tra il mondo occidentale e quello
orientale. L’Italia è un Paese povero di risorse, ma in una posizione strategica di grande importanza, perché posto al
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centro del Mediterraneo e, dunque, in una posizione favorevole per la mediazione dei rapporti tra il mondo occiden-
tale e quello orientale. È un dato inconfutabile, dimostrato, se vogliamo rintracciare le nostre origini, anche semplice-
mente dall’Impero romano o dalle rotte politiche e commerciali tracciate dalle Repubbliche marinare o, persino, dalle
dominazioni che per almeno tre secoli si sono alternate sui nostri territori e che hanno determinato, in un modo o
nell’altro (e anche nelle diverse regioni), le stesse percezioni della nostra collocazione nel mare nostrum.

Proprio il ritardo nell’unificazione rispetto agli altri Stati europei e una riconsiderazione del posizionamento geopoliti-
co, ha spinto l’Italia nei primi anni del suo Regno a volersi misurare con le altre grandezze europee e di sviluppare, di
volta in volta negli anni, tre diverse direttrici politiche: la direttrice nord-occidentale, quella nord-orientale, quella meri-
dionale e mediterranea. A seconda delle varie epoche sono state sviluppate una sola, o due, o tutt’e tre le direttrici
insieme, ma il Novecento (e forse anche l’attualità) ha insegnato che l’Italia ha espresso appieno le sue potenzialità
solo quando sono state sviluppate contemporaneamente tutte e tre le traiettorie. Tuttavia, a differenza proprio degli
altri Stati europei, l’Italia non ha mai potuto contare sul supporto di una forza armata al livello dei suoi concorrenti e
ha dovuto puntare, semmai, sul ruolo della diplomazia e, dunque, sulle alleanze che sono state suggerite, più che
dalle affinità politiche ed ideologiche, dagli interessi e dalle situazioni che, essendo mutevoli, hanno appunto reso
insicure le stesse alleanze ed, evidentemente, incerta anche la nostra azione in politica estera.

È solo sulla base di queste considerazioni che si può comprendere l’intera storia della politica estera italiana, dai ―giri
di valzer‖ – che ci hanno spinti da un’alleanza all’altra, con le conseguenti vittorie e sconfitte, o vittorie mutilate – alle
avventure coloniali, intraprese nel tentativo di arginare le spinte e le influenze provenienti – anche a causa della dis-
soluzione di antichi centri di potere – dalle altre potenze continentali europee e di trovare così, nel gioco degli equili-
bri di potenza regionali, il nostro ―spazio vitale‖.

È stato più facile dopo il secondo dopoguerra, nonostante le spinte interne che guardavano all’Unione Sovietica, tro-
vare una collocazione internazionale. Non solo era caduto il concetto delle sfere di influenza e il sistema di sicurezza
collettivo imponeva un ripensamento delle diritto internazionale e del sistema delle diplomazie, ma in un’ottica di
Guerra Fredda l’Italia scelse inevitabilmente l’―opzione atlantica‖ e, dunque, anche quella europea. Percorso, comun-
que, non facile per l’opposizione di altre potenze (come la Francia) che avrebbero preferito un ridimensionamento
del ruolo italiano. Tuttavia, proprio la sicurezza della scelta atlantica ha permesso all’Italia di gestire con più scioltez-
za il proprio ruolo sulla scena comunitaria, diventandone, in taluni casi promotrice (come la Comunità Europea di
Difesa).

L’apertura interna al centro-sinistra indusse la classe politica italiana ad una sorta di revisione del legame transatlan-
tico (del Patto Atlantico si tentava di sottolineare più gli aspetti della cooperazione economico-sociale che non di
quelli militari) e, anche nell’ottica della ―destalinizzazione‖, ad una riapertura dei rapporti con l’Est. Per un ventennio i
governi del centro-sinistra, oscillarono – anche in maniera contraddittoria – fra una ferrea fedeltà atlantista ed euro-
peista e una politica ―neo-atlantica‖, tesa cioè alla cooperazione con le nazioni dell’area mediterranea e con i Paesi
arabi, senza dimenticare di strizzare l’occhio anche all’Unione Sovietica. Così, ad esempio, mentre veniva dato il
consenso all’ammodernamento missilistico della NATO in Europa Occidentale, la classe dirigente allacciò negoziati
con i Paesi del Patto di Varsavia per una riduzione degli armamenti nucleari nel continente.

Nonostante la politica estera della I Repubblica sia passata nei libri di storia come essenzialmente filoamericana, il
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il dissolvimento dell’URSS significò la perdita di un punto di riferimento essenziale, perché era stato proprio
l’ondivago rapporto fra le due superpotenze ad aprire varchi di azione in politica estera e a favorire le iniziative diplo-
matiche, contribuendo a dare un volto all’Italia. Il ri-orientamento è stato più lento è più difficoltoso del precedente.
La fine della contrapposizione Est-Ovest aveva chiuso gli spazi di autonomia che la nostra diplomazia si era faticosa-
mente ritagliata e, non esistendo più il concetto di Occidente come fino ad allora era stato inteso, perdevamo la no-
stra posizione di ―territorio di frontiera‖, rimettendoci a livello di peso internazionale. Di fronte al nuovo ordine unipola-
re, all’estensione della piaga terroristica alimentata dal fondamentalismo islamico, alla crisi del multilateralismo e
all’incapacità del sistema di sicurezza collettivo di garantire l’ordine pacifico, l’Italia non è sembrata in grado di trova-
re adeguate risposte e definire i nuovi interessi nazionali.

La debolezza politica, l’incapacità di esprimere una consistente forza militare nelle aree di crisi che si sono spalanca-
te negli ultimi anni e la concorrenza con gli altri Paesi (soprattutto europei), hanno d’altro canto fatto sì che l’Italia
abbia potuto esprimere il suo potenziale internazionale soprattutto da un punto di vista economico. La possibilità di
intrecciare il nostro sistema economico-produttivo
con altre realtà, se da un lato ha sembrato creare
situazioni di contrasti e inimicizie, dall’altro ha gio-
vato alla nostra immagine, poiché si sono potute
approfondire tutte e tre le direttrici: quella nord-
occidentale (con gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione
Europea, seppur spesso in contrasto con l’asse
franco-tedesco), quella nord-orientale (con la Rus-
sia) e quella mediterranea, che al momento attua-
le potrebbe essere l’occasione per un effettivo
rilancio internazionale del nostro Paese.

Fonte: Limes

Come si vede, l’ondeggiamento della posizione italiana non costituisce una novità ed è sempre stato giustificato dal-
la ricerca di un ruolo che non fosse di ―media potenza‖. La complessità dell’attuale situazione mediterranea e medio-
rientale, nonché le posizioni che stanno assumendo gli altri Paesi europei non devono tuttavia indurre a pensare che
l’Italia in questo momento non abbia spazi di manovra. Ciò che sta avvenendo dovrebbe spingere l’Italia a ricercare
un fondamento più nello scenario mediterraneo che non in altri contesti, prediligendo magari i rapporti con la Tur-
chia, l’ingresso della quale nell’Unione Europea sostiene strenuamente già da un po’ di tempo. Forse non è poi così
azzardato dire che sono cambiate le dinamiche, ma l’essenza di quanto sta accadendo sulle coste del Nord africa è
la stessa di quella dell’inizio del Novecento, quando i Paesi europei si spartivano le sfere di influenza. Stati come la
Francia hanno visto l’opportunità di rientrare prepotentemente nel grande gioco africano e l’Italia, dal canto suo, se
non vuole perder quella fetta di influenza – economica – che si è ritagliata negli ultimi anni e dalla quale dipende per
soddisfare i propri bisogni interni, deve ricorrere ad un nuovo gioco di alleanze. La Turchia, metafora di un’Europa
che sul piano estero non sa (e non vuole per ragione storiche, politiche ed economiche) essere unita e non sa deci-
dere, rappresenta un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per il nostro futuro collocamento, non solo nell’ambito eu-
ro-mediterraneo, ma anche, perché no, globale.
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L’Italia nel mondo: buon compleanno Belpaese - di Domenico D’Alessandro (Risiko) - 13.03.2011

Buon compleanno, Italia. In questa settimana noi tutti (ed è bello cliccare sulla tastiera queste lettere, t-u-t-t-i) festeg-
giamo il nostro compleanno. 150 anni, l'Italia compie 150 anni. L'Italia unita compie un secolo e mezzo di vita. Anche
la stampa internazionale "celebra" questa ricorrenza. Lo fa, ad esempio, il quotidiano britannico The Indipendent,
che in un articolo semiserio elenca i 15 regali che l'Italia ha fatto al mondo. E noi ve li riportiamo, a mo' di hit parade.
In quindicesima posizione c'è una leggenda del calcio,Roberto Baggio. L'"essenza degli anni d'oro del calcio italiano"
era dotato di velocità, agilità e abilità "che non potevano non renderlo una leggenda": "ha sbagliato il calcio più im-
portante della sua vita, quello della finale mondiale del 1994. Se l'avesse realizzato l'avremmo scambiato per un su-
per-uomo".

Al quattordicesimo posto c'è Leonardo Da Vinci, "forse la persona più straordinariamente talentuosa che sia mai esi-
stita, ha un curriculum vitae superiore a quello di chiunque altro". E vai con le sue opere memorabili: "ha realizzato
progetti credibili di un autoveicolo, di un carro armato, di un elicottero, di una calcolatrice. Ha fatto scoperte fonda-
mentali nel campo della medicina, dell'ottica e della termodinamica. Ha suonato brillantemente la lira. Ha lavorato
per i Borgia come architetto militare. E ha dipinto una manciata di capolavori stupefacenti, tra cui il ritratto più famoso
del mondo".

Tredicesima posizione per Dante, "padre della lingua italiana". A cui si deve l'esistenza stessa della nostra lingua
(perché "ha dimostrato che il latino può non essere l'unica voce della letteratura") e il concetto di "amore cortese",
quando si innamorò di Beatrice Portinari.

In dodicesima piazza si trova Giacomo Casanova, "il cui nome è sinonimo di donnaiolo senza cuore", uomo molto
intelligente e colto ma noto per la sua capacità seduttiva e gli "scandali" di cui fu protagonista.

L'undicesimo regalo è Roma Antica, che "ha dominato l'Europa occidentale per 1200 anni, a partire da un insieme di
insediamenti attorno al Tevere sino a un impero che si estendeva dalla Britannia fino a Costantinopoli".

Ahimè, al decimo posto c'è la mafia. "L'Italia non ha inventato i gangster, ma in essa si è generato il concetto di
'famiglia criminale'". Da qui, il riferimento al film Il Padrino, che "ha presentato al mondo il Capo di tutti i Capi".

Al nono posto c'è invece il Latino. Qui l'Indipendent elenca una serie di espressioni latine ormai entrate nel linguag-
gio comune: "Amo, amas, amat. Amor omnia vincit. Veni, vidi, vici. Lacrimae rerum. Alea iacta est Timor mortis me
conturbat. Annus mirabilis. Annus horribilis. Lingua franca. Non plus ultra. Post hoc ergo propter hoc. In media res. In
flagrante delicta. In propria persona. In loco parentis. Infra dignitate. Sub Rosa. Sub fusculum. Tempus fugit. Homo
sapiens. Cave Canem. Caveat emptor. Bono Vox. Terra Firma. Terra Incognita. Ad hoc. Video. Audio. Fellatio". E
poi il pezzo prosegue: "Chi ha detto che il latino è una lingua morta non si rende conto di cosa sta dicendo".

In ottava posizione c'è il genio del cinema italiano, Federico Fellini. "Sensuale, lascivo, perverso, voluttuoso, osceno,
infantile, ossessionato dal grottesco", Fellini "tra i neorealisti del cinema italiano del dopoguerra si distinse come un
creatore di miti".
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Ancora spettacolo, al settimo posto c'è Enrico Caruso, ossia la musica "prima di Pavarotti, prima di Bocelli, prima di
Gigli". "Inconfondibile voce potente ma lirica, il primo a vendere un milione di copie di un disco è stato primo tenore
al Met di New York per 18 stagioni consecutive".

In sesta posizione, gli inglesi ci ringraziano per averli conquistati per la gola tramite il gelato: "Tutti sanno che quello
italiano è migliore di qualsiasi altro gelato", scrive l'Indipendent. I Medici lo servivano sui loro banchetti, Bernardo
Buontalenti ha inventato nuove tecniche di refrigerazione proprio per il gelato, il pescatore siciliano Dei Coltelli ha
creato la prima macchina del gelato. Sì, è merito nostro: che acquolina in bocca.

Quinto posto per il sonetto, il componimento poetico tanto amato da Shakespeare: caratterizzato da versi da quattor-
dici versi endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, senza di lui "non avremmo le poesie di Milton, Wor-
dsworth, Elizabeth Barreth". Lo stesso Shakespeare ha scritto, tra l'altro, 154 sonetti.

Ci avviciniamo al podio. Ma ai suoi piedi restano i gondolieri, che si sono rivelati insostituibili per "i turisti in 900 anni".
Questi uomini "incarnano l'anima dell'Italia, in quanto romanticamente ti traghettano lungo il Canal Grande cantando
'O sole mio' e 'That's amore'".

Siamo nella "Top 3". Medaglia di bronzo per le auto: "qual è il legame mistico tra gli ingegneri italiani e l'automobi-
le?", si chiede il quotidiano inglese, citando le marche storiche dell'automobilismo del Belpaese: Lancia, Bugatti, Alfa
Romeo, Lamborghini, Maserati, Ferrari, Fiat.

Seconda posizione per "il dolce far niente": "Piacevole e dolce far niente. Deliziosa pigrizia. Gli italiani hanno in qual-
che modo brevettato questa esortazione al relax, senza alcuna preoccupazione circa il lavoro e la sorte". Attenzione
a non fare confusione con il "carpe diem latino, che predica esattamente l'opposto, o La dolce vita", il film con Mar-
cello Mastroianni e Anita Ekberg.

Ma il migliore dei regali che l'Italia ha fatto al mondo, secondo il The Indipendent, ha un nome e un cognome.
"Qualcuno potrebbe pensare Sofia Loren - scrive il quotidiano - qualcun altro Gina Lollobrigida, qualcun altro ancora
Monica Bellucci ma, tra tutte, la dea del grande schermo italiano che ha dominato il cinema del dopoguerra
è Claudia Cardinale". Il quotidiano conclude citando un noto attore inglese, David Niven. Secondo cui "Claudia Car-
dinale è, dopo gli spaghetti, la migliore invenzione degli italiani".

A voi la sentenza sull'opinione che i britannici hanno di noi. In fondo, in un articolo semiserio come questo, non è
niente male. Buon compleanno, Italia. Buon compleanno, italiani.

America del Nord

Se USA e Cina parlassero di guerra - di Prospettiva Internazionale - 15.03.2011


Recentemente un lettore mi ha esortato ad esprimere un commento su un articolo di Giulietto Chiesa
(Sopravviveranno Usa e Uk alla Cina?[1]) in cui l'autore si meraviglia (e pare si rammarichi) del fatto che alla luce
dell'ascesa cinese sul panorama internazionale "nessuno parli di guerra". La risposta immediata che ho dato in pri-
vato al lettore è stata che trovo il suddetto articolo molto superficiale. Colgo dunque l'occasione per "parlare di guer-
ra" e, in conclusione, fornire qualche risposta agli interrogativi posti da Chiesa.
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Lo stato attuale dell'arte nei rapporti USA-Cina può essere considerato come un punto posizionato nella zona media-
na tra i due estremi del continuum cooperare/confliggere che caratterizza i rapporti tra Stati. Sull'asse ideale della
reciproca percezione che va dal valore "amico" al valore "nemico" il rapporto sino-americano è attualmente immagi-
nabile nella zona intermedia della "rivalità". Questo valore è suscettibile di subire aggiustamenti verso uno dei due
estremi spinto dall'influenza delle azioni e delle interazioni che gli attori pongono in essere nel tempo e della loro per-
cezione delle medesime oltre che del contesto.

La reciproca percezione degli Stati influenza a sua volta l'interpretazione delle reciproche azioni. Una stessa azione
se compiuta tra "nemici" o tra "amici" sortisce risultati differenti. Se ad esempio uno Stato incrementa la quota della
sua ricchezza destinata al settore militare, sortirà un effetto rassicurante in un secondo Stato suo alleato mentre ge-
nererà insicurezza se il secondo Stato è suo nemico.
Ma i tratti xy e yz non sono caratterizzati dal medesimo grado di flessibilità. In linea generale la struttura anarchica
del Sistema Internazionale pone in essere forti disincentivi ad intraprendere azioni volte alla cooperazione e, in que-
sta cornice, ogni Stato tende a sovrastimare le minacce e a sottostimare le possibilità di cooperazione. Allo stesso
tempo ogni stato tende a sottostimare il grado di minaccia che le proprie azioni possono assumere agli occhi dell'al-
tro. Tornando al precedente schema potremmo dire che l'ambiente internazionale opera in modo tale che in una si-
tuazione di equilibrio è più facile dal punto y spostarsi verso z che non verso x.
Nel caso specifico del rapporto USA-Cina questi vincoli strutturali sono suscettibili di emergere con forza.
All'elevata interdipendenza (intesa come reciproca vulnerabilità complessiva) tra le due potenze non fa da contralta-
re un elevato livello di concertazione e controllo. Questo si traduce in un contesto caratterizzato da un elevato nume-
ro di interazioni e da un' elevata probabilità di fraintendimento, erronea interpretazione delle intenzioni e azioni
dell'altro, erronea percezione di come l'altro interpreti la situazione in cui entrambi gli attori si trovano ad operare in
modo interagente. Questo schema tocca sia l'aspetto geoeconomico che quello geopolitico dei rapporti tra Washin-
gton e Pechino.
In una situazione tale che la linea di espansione del potere cinese ha buone probabilità di entrare in rotta di collisio-
ne con gli argini posti dal potere americano, la configurazione inefficiente presentata poc'anzi assume particolare
rilevanza.
Sulla scorta della sua crescita economica la Cina sta espandendo il suo potere regionale per soddisfare il suo biso-
gno di sicurezza. Il mare nell'immaginario strategico cinese è dal XIX secolo la maggiore fonte d'insicurezza naziona-
le e nel mare oggi la Cina è "accerchiata" dalla presenza militare statunitense. A questa situazione fa fronte una dot-
trina cinese del potere marittimo particolarmente offensive-oriented, proiettata in un contesto in cui non mancano
dispute territoriali con gli alleati e i protetti degli Stati Uniti. Dal canto loro gli USA non possono mostrare alcun segno
di incertezza o ritirata nel difendere gli interessi geopolitici degli alleati dato che tali comportamenti sarebbero inter-
pretai come indici di debolezza. Anzi, più la crescita del potere cinese viene avvertita come una minaccia da questi
ultimi e più gli Stati Uniti devono farsi sentire presenti e al loro fianco. In breve, la Cina è sicuramente una rising
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power e "rischia" di diventare un challenger regionale per gli Stati Uniti.
Ma non è detto che l'esito della situazione sia destinato ad essere quello di una bottiglia di vetro riempita d'acqua e
messa in freezer
Nel Pacifico le relazioni USA-Cina attualmente sono assimilabili al gioco del pollo e aderiscono allo schema della
deterrenza. Nel medio periodo i costi di DD (defezione-defezione) sembrano destinati a rimanere per entrambi gli
attori evidentemente e notevolmente superiori rispetto a quelli di altri profili strategici (CC, CD, DC). Per ora questa
configurazione dovrebbe bastare a mantenere la pace.
Al momento il quadro logico è molto più chiaro (ed incisivo) di quello psicologico. Il punto è cruciale. Dal punto di
vista meramente logico la Guerra Fredda sarebbe dovuta terminare, nel periodo della superiorità nucleare america-
na, con un attacco nucleare sull'Unione Sovietica. Attualmente la Cina mostra prudenza riguardo al futuro e determi-
nazione riguardo al presente. La Cina vuole crescere ma al momento non ha intenzione di presentarsi apertamente
come un challenger statunitense. Fino a quando questa intenzione non sarà manifestata con chiarezza e fino a
quando la schiacciante superiorità militare di Washington rimarrà tale e sarà orientata (e percepita) in senso difensi-
vo, la short-run stability pare essere il risultato più attendibile.
In una prospettiva di lungo periodo i risultati appaiono invece più incerti. La crescita cinese innescherà delle dinami-
che di bandwagoning o di balancing nella regione Asia-Pacifico[2]? Come si distribuirà nel tempo la vulnerabilità-
interdipendenza tra i due attori? Il G2 riuscirà ad acquisire, parallelamente al crescere del potere cinese, le fattezze
di un regime internazionale effettivamente operante? Dato che maggiore è il campo di interessi che si vogliono tute-
lare maggiore è la possibilità che la cooperazione fallisca, Washington sarà disposta a mantenere ragionevole il
campo di ciò che ritiene rientrare nei propri interessi in modo tale da incrementare le possibilità di cooperazione? I
tempi della Cina, la crescita del suo potere ed il grado di responsabilità internazionale che essa è disposta ad assu-
mere riusciranno a trovare un punto di equilibrio soddisfacente? Gli Stati Uniti sapranno impiegare saggiamente la
loro superiorità militare?

Questi sono quesiti molto importanti e a far loro da sfondo rimane il fatto che nel Sistema Internazionale risultati e
intenzioni raramente coincidono. Anche se gli Stati sanno di avere un obbiettivo in comune, possono non essere in
grado di perseguirlo e di raggiungerlo. Assumendo le attuali tendenze internazionali come costanti, la stabilità nel
lungo periodo dipenderà da come Cina e USA riusciranno ad agire sugli incentivi per stimolare il comportamento
cooperativo e integrare la realtà internazionale degli strumenti adeguati a nuove configurazioni di potere. E' su que-
sto che oggi le due potenze devono concentrarsi per evitare una nuova "guerra fredda" [3].

Giulietto Chiesa ragionando più in termini apocalittici che in termini politici si chiede "come mai nessuno parli di guer-
ra". Innanzitutto non è vero che nessuno parla di guerra. Ci sono esperti di Relazioni Internazionali che ormai da
tempo contemplano l'opportunità dell' opzione bellica. E' da anni che il Prof. John Mearsheimer, maggiore esponente
del realismo offensivo, si rivela fortemente scettico nei confronti della pacifica ascesa cinese[4]. Ma Mearsheimer a
differenza di Chiesa riesce a sostenere le sue posizioni sulla scorta di una solida teoria delle relazioni tra grandi po-
tenze[5]. "Ci sono nove banchieri che controllano i destini del mondo" non mi pare granché come strumento euristico
della realtà internazionale. Anche le paturnie ingenerate dai calcoli demografici à la Malthus lasciano il tempo che
trovano. In secondo luogo se il Presidente degli Stati Uniti o il Presidente cinese parlassero di guerra dinanzi alle
rispettive nazioni, ben presto ci troveremmo in presenza di una self fulfilling prophecy. Il dilemma della sicurezza si
acuirebbe immediatamente e la situazione diventerebbe (mercé l'elevata interdipendenza e lo scarso livello di con-
trollo) altamente instabile. Se "nessuno parla di guerra" è perché al momento e in prospettiva il confronto è inevitabi-
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le ma sussistono nel medio periodo significativi fattori di stabilità e margini di manovra: oggi parlare di guerra sareb-
be il miglior modo per comprometterne l'efficacia.

[1] Link all’articolo di G. Chiesa, Sopravviveranno Usa e Uk alla Cina?. http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/20/usa-e-uk-sopravviveranno


-alla-cina/93142/

[ 2] Link al l ’a rt i c o l o A mo l Sh ar ma , Asia’s N ew Arms Race. h t t p :/ / o n l i n e . ws j . c o m/ a rt i c l e /


SB10001424052748704881304576094173297995198.html?mod=WSJEUROPE_hpp_MIDDLETopNews#articleTabs%3Darticle

[3] Link all’articolo di H. Kissinger, Avoiding a U.S. China cold war. http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/01/13/
AR2011011304832.html

[4] Link all’articolo di J. Mearsheimer, The Gathering Storm: China’s Challenge to US Power in Asia. http://mearsheimer.uchicago.edu/pdfs/
A0056.pdf

[5] La teoria del Prof. Mearsheimer è esposta nel libro The Tragedy of Great Power Politic.

Mediterraneo e Medio Oriente

Il costo della rivoluzione - di Maria Serra (BloGlobal) - 12.03.2011


La comunità internazionale nel giro di un mese è stata scossa dalle rivoluzioni nel mondo arabo: in poche settimane i
governi occidentali hanno dovuto abbandonare il sostegno ad alleati poco democratici ma strategici nell’ottica degli
equilibri politici ed economici mondiali, passando ai rallegramenti per la loro caduta, al ripensamento di strategie poli-
tiche e, nel caso della Libia, alla formulazione di un intervento militare ed umanitario. Ai più realisti, tuttavia, non
sfugge che la grande crisi mediorientale casca proprio nel momento in cui si aprivano spiragli di ottimismo per la ri-
presa economica. Inutile dirlo, ma il motore dell’Occidente è proprio il petrolio del Medio Oriente. In che misura gli
eventi nordafricani e mediorientali incideranno sulle attività dei governi, sulla vita delle aziende e, finanche, sulle no-
stre abitudini quotidiane, lo si potrà valutare già da qui a pochi mesi.
Qualsiasi sarà l’esito delle rivolte che stanno trasformando la regione, un dato è certo: il mondo del petrolio ne uscirà
modificato profondamente. La regione mediorientale produce il 35% del petrolio mondiale, 29 milioni barili di greggio
al giorno, di cui 20 diretti verso Stati Uniti, Europa, Cina e Giappone. Sono nulla in confronto i 7 milioni di barili espor-
tati dalla Russia, i 6 milioni dell’Africa (quella sub-sahariana), il milione del Sud America. Secondo alcune proiezioni
del dipartimento americano dell’energia, nel 2035 la macro-regione fornirà il 43% del petrolio globale. Ecco perché il
contenimento del prezzo è fondamentale.

Andamento del prezzo del petrolio. Fonte: New York Times


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Un rincaro del prezzo non dipende solamente dall’interruzione degli approvvigionamenti (ci riferiamo a quelli della
Libia in particolare), ma anche dalle aspettative. Come è stato notato da Adam Sieminski della Deutsche Bank,
l’andamento dei mercati, e quello del petrolio nella fattispecie, è determinato anche dagli annunci ai tagli della produ-
zione e al timore degli sviluppi delle rivolte. Soltanto questi fattori da soli sono capaci di far innalzare il prezzo del
20%.

Ma a suscitare più preoccupazione non tanto la situazione della Libia – che pure
esporta da sola 1,7 degli 88 milioni di barili prodotti ogni giorno, rifornendo i mag-
giori Paesi dell’Europa Occidentale (Italia in primis con il 32%, seguita da Germa-
nia e Francia, rispettivamente con il 14% e il 10%), Stati Uniti e Cina – quanto
quella dell’Arabia Saudita.

I sauditi estraggono circa 9 milioni di barili di greggio al giorno, un nono, cioè, della
produzione mondiale e sono gli unici swing producer, ossia capaci di compensare
da soli gli eventuali cali di produttività degli altri Paesi che fanno parte dell’OPEC,
mantenendo così stabile il prezzo del petrolio. Questo almeno nel breve periodo.

Infatti cosa accadrebbe se la rivolta attecchisse anche in Arabia Saudita? La preoccupazione è forte, anche alla luce
di quanto sta avvenendo nell’intero Golfo Persico e, più in particolare, in Bahrein, che poco conta dal punto di vista
della produzione di greggio, ma che è un anello fondamentale per gli equilibri economici e strategici sia dell’Arabia
Saudita stessa che delle potenze occidentali poiché attraverso esso transita circa il 18% del petrolio mondiale.
Riyad sta prendendo le precauzioni necessarie e ha già annunciato una serie di misure: aumenterà da 9 a 17 miliar-
di di euro il fondo di sostegno ai giovani (acquisto delle casa, creazione di aziende, supporto alle famiglie) e incre-
menterà gli stipendi del 15%. Inoltre, proprio la volontà di placare i disumori, potrebbe incoraggiare la famiglia re-
gnante a ridistribuire per usi interni parte dei profitti dell’estrazione del greggio che precedente mente sono stati uti-
lizzati nelle strategie esterne. E qualcuno teme che tutto questo potrebbe comunque non essere sufficiente perché i
giovani sauditi chiedono misure contro la disoccupazione, riforme politiche e maggiore partecipazione.

Il timore di un nuovo shock petrolifero si fa, dunque, sempre più concreto. Tuttavia, la situazione è ben diversa da
quella degli anni Settanta: l’Occidente ora conosce bene i propri partner mediorientali, anche se non sa come si po-
trebbe evolvere la situazione. In secondo luogo, l’economia è molto più globalizzata, per cui sul mercato si riversano
anche le quantità di greggio provenienti dai Paesi in Via di Sviluppo appartenenti al Sud America e all’Africa sub-
sahariana, per la quale la crisi dei vicini potrebbe essere paradossalmente un’opportunità di sviluppo. Inoltre, i gover-
ni hanno già da tempo predisposto contromisure nel caso in cui ci dovesse essere un blocco degli approvvigiona-
menti, riserve energetiche in primis. Le scorte nelle mani dei governi ammontano a 4,4 milioni di barili (727 milioni
solo la riserva degli Stati Uniti), circa 50 giorni di consumo globale a ritmo costante. Infine, da non sottovalutare sono
le fonti energetiche alternative, sulle quali, pur richiedendo grandi investimenti, si dovrebbe puntare.

Sarebbe, infatti, un errore pensare che la crisi mediorientale sia una crisi temporanea. Se poi consideriamo che so-
prattutto noi europei dalla crisi economico-finanziaria non ne siamo ancora usciti, diventa una necessità diminuire la
dipendenza dal petrolio.
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La “tempesta araba” arriva in Giordania? - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 16.03.2011


Dall'inizio dell'anno, ormai, la situazione nel mondo arabo è alquanto turbolenta e, uno dopo l'altro, i regimi più lunghi
e duraturi cadono come delle pedine di un domino. Ora la protesta arriva in zone dove si pensava non potesse mai
avvenire, come in Bahrain e in Yemen e, domani, chissà forse in Arabia Saudita, Giordania e Siria. Il punto è proprio
questo. L'effetto domino colpirà anche i regimi tradizionalmente più legati all'Occidente o, questi, riusciranno a so-
pravvivere imbarbarendo i propri governi? La Giordania tra i regimi citati sembra essere quello più prossimo e sensi-
bile ad un futuro approdo delle rivolta araba a causa delle instabilità politiche interne e delle tensioni sociali sempre
più forti.
Il regno hashemita di Giordania divenne indipendente nel 1946 a seguito della fine del Mandato Britannico sulla Pa-
lestina, ma la sua nascita la deve all'attivismo dell'Emiro Abdallah al-Husayn che fu il primo Re del Regno di Tran-
sgiordania dal 1923, fino alla sua morte nel 1951. Questa terra al centro del Vicino Oriente è stata a lungo oggetto di
numerose tensioni popolari, causa la vicinanza con la Palestina araba, e terra di divisioni e scontri ideologici tra le
varie dinastie politiche arabe, divise fondamentalmente tra conservatori e progressisti islamici. La Giordania sotto Re
Hussein I ha conosciuto il suo massimo splendore, ma dopo la sua morte nel 1999, il piccolo Regno è passato nelle
mani del figlio Abdallah II, il quale non è mai riuscito ad emulare il prestigio del padre. Il Paese è tra i più occidenta-
lizzati e sicuri dell'intera regione mediorientale, ma al suo interno nasconde sotto la ―cenere‖ i tizzoni ardenti di un'in-
soddisfazione e di un malessere popolare sempre più profondo.
La monarchia costituzionale giordana oggi si trova in un difficile momento politico, dovuto anche all'ennesimo esau-
toramento anticipato del Primo Ministro di turno (Samir Rifai), e stretto in una morsa tra le esigenze politiche di stabi-
lità e sicurezza della stessa dinastia, sempre poco propensa alle innovazioni, e le contingenze dettate dalla pressio-
ne popolare che chiede vere riforme costituzionali per avere una maggiore ed effettiva democrazia nel Paese.
Non a caso, lo scorso 28 gennaio, in tutto il Paese sono sorte improvvise e potenti manifestazioni popolari, talmente
impressionanti che lo stesso Re Abdallah si è trovato costretto a promettere pubblicamente delle riforme politiche e
istituzionali concrete, come ad esempio una nuova legge elettorale che devolva più poteri al Parlamento, l'istituzione
di un sistema multipartitico vero, una maggiore libertà di manifestazione e di stampa e una riforma parlamentare che
permetta l'accesso anche a quelle frange politiche, come la Fratellanza musulmana, che oggi non trovano rappre-
sentanza ad Amman. Il giovane Re si è subito prodigato a nominare un nuovo Primo Ministro, Maarouf Bakhit, al
posto di Rifai, chiedendo al nuovo esecutivo di dare avvio a riforme reali, in grado di aumentare la partecipazione dei
cittadini alla gestione dello Stato. La contromossa del Re, dettata più dalla paura che dalla reale volontà di concede-
re riforme, somiglia molto ad un tentativo di calmare la piazza, affidando, peraltro, la testa del governo ad un suo
uomo di fiducia, operazione già notata nelle altre rivolte in corso nel mondo arabo. Ma già nel 1989 ci fu una rivolta
analoga, a seguito del costo spropositato del prezzo del pane e dell'incremento della crisi economica giordana. Quin-
di già da tempo il governo e il Re hanno avviato alcune riforme timide, ma le tensioni sociali interne che sono oggi
presenti hanno indebolito nettamente l'autorità hashemita.
Infatti la cronica e irrisolta questione palestinese ha inciso, anche, nella politica nazionale e nell'identità giordana,
portando ad una divisione del movimento dei Fratelli musulmani locali – principale gruppo oppositore alla monarchia
hashemita –nel quale la frangia più estrema è rimasta legata ad Hamas, mentre il resto del gruppo direttivo si è lega-
to a posizioni sempre più filo-occidentali. Di conseguenza anche tra le fasce popolari tale divisione ha prodotto fram-
mentazione e instabilità. Ricordiamo che in Giordania quasi la metà della popolazione è di origine palestinese, arri-
vata lì dal 1948, a seguito delle guerre arabe contro Israele. Questa divisione inevitabilmente influisce anche sul tes-
suto sociale.
Inoltre, la crisi economica e l'alto tasso di disoccupazione giovanile (13,4 %) favoriscono un clima di tensione socia-
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le. La quasi totale assenza di materie prime, principalmente acqua e idrocarburi, produce anche una dipendenza
nazionale nei confronti dei Paesi vicini. Infine, i cospicui ―aiuti‖ versati ogni anno dalla CIA e dal governo USA al Re-
gno giordano, per combattere il terrorismo e per tenerlo legato alla propria sfera di influenza come parte interessata
all'interno di una possibile soluzione nel processo di pace, forniscono, pertanto, un forte dipendenza della Giordania
dalla politica e dall'economia dei governi stranieri, statunitense in primis[1].
Anche i membri delle principali tribù beduine hanno protestato contro il governo, minacciando una rivolta sullo stile
tunisino ed egiziano qualora non venissero introdotte le riforme contenute in una lettera firmata da trentasei capi tri-
bali. Il fronte politico e sociale del Paese, quindi, resta molto teso.
Delineato il quadro è facile intuire, come l'insoddisfazione popolare sia alle stelle e la possibilità di ―contagio‖ delle
insurrezioni che arrivano dal Nord Africa possano giungere anche nel Mashreq intero, ed in particolare ad Amman.
L’onda che è partita dalla Tunisia mette sotto pressione molti regimi autoritari della regione ed imprime coraggio alle
rispettive popolazioni. La Giordania, seppur con le dovute differenze, rientra nelle possibilità descritte precedente-
mente. Il problema semmai sarà capire l'atteggiamento che assumeranno il governo e Re Abdallah nei confronti di
ulteriori manifestazioni qualora verranno disattese le promesse. La questione è molto complicata e ne va di mezzo,
ulteriormente, la ―stabilità‖ dell'intera regione. Però è necessario fare una premessa. La Giordania non è né la Tuni-
sia, né tantomeno l'Egitto. Ad ogni modo, se dovesse cadere Amman non ci sono dubbi che qualsiasi tipo di rivolta
potrà attecchire anche in Siria e in Arabia Saudita. Dopo Ben Alì, Mubarak e forse anche Saleh, la rivolta se portata
a conseguenze inaspettate in Bahrein, potrebbe colpire anche la Giordania.
È necessario a questo punto però porsi una domanda: la caduta di questi regimi pluriennali segna il tramonto dei
grandi ―patriarchi arabi‖, con conseguente evoluzione verso una propria formula democratica, o è solo l'ennesimo
camuffamento di un falso passaggio di consegne?

[1] CIA World Factbook, in https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/jo.html.

La Striscia di Gaza è ancora occupata da Israele? - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 27.03.2011


E' di qualche ora la notizia di un raid israeliano nel Nord della striscia di Gaza, in cui è stata colpita una cellula di mili-
ziani che stava completando i preparativi del lancio di razzi Qassam verso il Negev. Questa azione militare fa seguito
agli ultimi proclami del governo israeliano che ha aperto nuovamente la stagione delle colonie nei quartieri arabi di
Gerusalemme Est e nel Sud della Striscia di Gaza. Infatti a Ras al-Almud e a Itamar sono stati annunciati dal Primo
Ministro israeliano Benyamin Netanyahu, rispettivamente, 100 e 500 nuovi insediamenti. Ma alla politica ufficiale si
sono accompagnate le azioni terroristiche contro i coloni (proprio ad Itamar è stata uccisa un'intera famiglia) e a Ge-
rusalemme Est (un ordigno ha ucciso un civile e ferito gravemente circa 50 persone).
Da tempo il governo di Tel Aviv afferma che l'interesse israeliano è di riportare la calma e la sicurezza nei Territori
per evitare pericolose escalation. Al tempo stesso, però, alle prudenti affermazioni governative seguono azioni politi-
co-militari sempre molto dure nei confronti della popolazione che vive lì in condizioni a dir poco disumane, secondo
anche gli ultimi rapporti delle Nazioni Unite. Come hanno fatto notare i rapporti degli Special Rapporteur ONU John
Dugard e Jean Ziegler, con deleghe rispettivamente per il rispetto dei diritti umani e per il diritto all’alimentazione, i
Territori Occupati Palestinesi sono a rischio catastrofe umanitaria proprio a causa delle misure estremamente dure
imposte dalle autorità militari israeliane, misure che vengono giustificate dall'occupante per motivi di sicurezza.
Israele, dopo la famigerata operazioneCast Lead (Piombo Fuso) nella Striscia di Gaza del dicembre-gennaio 2008-
2009, sembrava fosse riuscita a colpire gravemente i centri nevralgici di Hamas tanto nella Striscia di Gaza, tanto in
West Bank e a mettere a tacere, quasi definitivamente, la resistenza palestinese all'―occupante israeliano‖.
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Da qui sorge la domanda se Israele sia ancora una forza occupante all'interno dei Territori Occupati Palestinesi. Ciò
serve anche a capire se il governo israeliano si muove o meno all'interno della legalità internazionale. Ma a questo
punto è necessario fare una premessa riguardante, appunto, il diritto internazionale umanitario.
Questo, o jus in bello, è la branca del diritto internazionale che determina il modo in cui è condotta una guerra. Com-
pito principale di tale dottrina è dare dignità alla guerra attraverso norme di regolamentazione della condotta bellica
e, contestualmente, dando protezione a tutte quelle categorie di persone definite ―protette‖ da numerose convezioni
internazionali ad hoc. La materia principale di tale regime giuridico è l'“occupazione militare”, definita come un atto di
sottrazione del territorio ad uno Stato nemico compiuto da uno Stato terzo, in seguito ad operazioni militari. Perché
possa, quindi, dirsi occupato un territorio, occorre che un'autorità esterna eserciti effettivamente un dato controllo sul
luogo conquistato.
Nel 2005, Israele aveva dichiarato la sua ritirata unilaterale dal territorio della Striscia di Gaza e pertanto, ufficialmen-
te Gaza non sarebbe dovuta essere sottoposta ad alcun controllo straniero. L'ultima operazione militare israeliana è,
tuttavia, datata Gennaio 2009. Anche tra gli esperti, i giuristi e gli analisti, esistono discordanze sull'interpretazione
da dare allo status di Gaza. Infatti c’è chi, come Eyal Benvenisti, Yuval Shany o Nicholas Rostow, ritengono l'area
non più sotto il controllo israeliano dal momento che in quell'area è presente un'Autorità Palestinese che esercita
funzioni sovrane. Idee opposte le esprimono Iain Scobbie, Claude Bruderlein o Yoram Dinstein che fanno notare
come la divisione di responsabilità tra Israele e ANP sorte dopo gli Accordi di Oslo hanno reso particolarmente inde-
finibile e incerto lo status giuridico di Gaza. Secondo i primi, Israele non ha alcuna presenza fisica e militare tale da
poter far pensare di essere ancora un occupante, né dispone della capacità potenziale di poter intervenire negli affari
di governo o di sicurezza all'interno della Striscia stessa. Al contrario i secondi sostengono, invece, un cambiamento
della natura del controllo israeliano sull'area, passando da una forma diretta ad una indiretta. Secondo questi, Israele
esercita un controllo potenziale sull'area di Gaza grazie alla presenza militare israeliana lungo i confini terrestri, ma-
rittimi e attraverso il controllo dello spazio aereo. Pertanto, controllando i valichi di frontiera di Erez, come Rafah o
Karni, Israele si è assicurato un controllo di fatto del territorio e può perpetuare il regime di occupazione sotto altre
forme, favorito, appunto, dal controllo degli spazi aerei, marittimi e terrestri.
Oggi, però, va delineandosi tanto tra gli studiosi, tanto tra la giurisprudenza internazionale la concezione che
lo status della Striscia di Gaza sia un territorio ―sui generis‖. Anche altri territori come il Kosovo, la Namibia, l'Abkha-
zia e il Sud Ossezia presentano una denominazione simile. Il governo e le Corti nazionali israeliane definiscono la
condizione di ―sui generis‖ dei Territori solitamente come una situazione ascrivibile all'interno dell'interpretazione
dell'art. 2.2 della IV Convenzione di Ginevra del 1949[1], per cui essi non possono considerarsi come facente parti di
alcuno Stato. Pertanto si nega il riconoscimento di sovranità ad Egitto e Giordania sui territori di Gaza e West Bank.
In questo modo Israele sostiene che le conquiste dei Territori effettuate nel 1967 erano assolutamente nella legalità
internazionale. Pertanto, prendendo spunto dalla posizione ufficiale israeliana, si può affermare che l'unicità del-
lo status di Gaza consiste nel fatto che tale territorio non è sotto un effettivo controllo israeliano, ma mantiene delle
caratteristiche indirette di controllo sull'area che producono perciò una situazione ―sui generis‖. Lo ―status sui gene-
ris‖ di Gaza trova un riscontro nella pratica. Infatti a monte c'è un fallimento da parte di Israele nell’adempimento ai
suoi obblighi nel periodo di occupazione, come dimostrato dalla dipendenza di energia elettrica della Striscia di Ga-
za. Quindi possiamo dire, in generale, che non esiste in senso assoluto un'occupazione su Gaza, però si può notare
come Israele continui ad esercitare un controllo indiretto tramite forze esterne che non permettono ad Hamas di e-
sercitare una libera autorità sulla regione. Quello che è ancora in atto nei Territori palestinesi è definibile, dunque, un'
―occupazione prolungata‖.
Una molteplicità di eventi e situazioni – atti espansionistici, dichiarazioni, tentativi di risoluzione delle controversie,
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ecc, - hanno ulteriormente ingarbugliato la ―matassa israelo-palestinese‖. Alla volontà politica quasi mai hanno fatto
seguito dei fatti concreti che dimostrassero il desiderio di entrambe le parti – israeliana e palestinese – di porre defi-
nitivamente fine ad una situazione che in realtà era tale già prima del 1967. Esempi storici sono non solo la politica
di insediamenti delle colonie israeliane, soprattutto a Gaza e a Gerusalemme Est, appunto, ma anche la costruzione
di un ―Muro difensivo‖ in Cisgiordania lungo la linea armistiziale dellaGreen Line.
E’ evidente che le attività di sicurezza dello Stato israeliano mal si conformano, a volte, con il diritto internazionale
umanitario, risultando spesso queste azioni controverse sotto un punto di vista della loro liceità. A rimetterci è quasi
sempre la popolazione civile palestinese, che versa in condizioni umanitarie a dir dopo disastrose. Ad ogni modo, le
esigenze politiche di entrambe le parti hanno spesso inciso e sovrastato anche le più elementari norme di conviven-
za, risultando spesso le cause di attrito tra la popolazione.
Pertanto, ancora oggi il negoziato politico fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese resta l'unica alternativa seria
per una pace definitiva in Palestina. Il negoziato, pur a rilento, resta l'unica soluzione al momento possibile. Il proble-
ma, semmai, sarebbe quello di individuare un punto d’incontro tra le numerose questioni cruciali rimaste ancora in-
definite, quali lo status di Gerusalemme, i profughi palestinesi – che dal 1948 sono ancora fuori dalle proprie terre –
e il riconoscimento di uno Stato autonomo a Gaza. Infatti, quest'ultimo punto potrebbe essere la chiave di volta, poi-
ché, fintanto che Israele non acconsentirà a riconoscere l’indipendenza di Gaza, lo Stato ebraico sarà minacciato
lungo i ―suoi‖ confini e dovrà a garantire la sicurezza e le condizioni umanitarie necessarie alla popolazione civile che
abita la Striscia, nel pieno rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani fondamentali, ma commetterà, ogni vol-
ta, un illecito internazionale per via della sua sproporzionata risposta militare agli attacchi di Hamas.
Quindi una risoluzione proprio dello status di Gaza potrebbe essere utile anche per allentare le tensioni in tutta l'area
mediorientale, e non solo in Israele stesso, poiché questa crisi resterà una vicenda dominante anche in epoca futura,
e determinerà, inevitabilmente, sia gli equilibri della regione mediorientale che quelli di potenza a livello internaziona-
le.

[1] L'art. 2 della Convenzione in questione dispone l'applicazione delle norme di occupazione militare “in caso di guerra dichiarata
o di qualsiasi altro conflitto armato che scoppiasse tra due o piu' delle Alte Parti contraenti, anche se lo stato di guerra non fosse
riconosciuto da una di esse‖. Il par. 2 dell'art. 2 dispone che la Convenzione si applicherà «in tutti i casi di occupazione totale o
parziale del territorio di un'Alta Parte contraente, anche se questa occupazione non incontrasse resistenza alcuna militare».

Asia

L’ascesa kazaka nel panorama dell’Asia Centrale - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 19.03.2011
L'Asia Centrale tradizionalmente è un territorio molto difficile da inquadrare dal punto di vista geo-strategico e geo-
politico a causa della sua complessità. La variegata esistenza nella regione di un'ampia gamma di razze, culture e
religioni influisce, non poco, a renderne difficile l'inquadramento geo-politico. Questa fascia di territorio raccoglie al
suo interno cinque ex Repubbliche Sovietiche (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tajikistan) di
fede musulmana sunnita e, al suo interno, altamente frammentate in varie identità tribali molto forti.
Queste terre oggi vengono viste come una nuova ―terra promessa‖, come una grande opportunità dal punto di vista
geo-economico e geo-strategico e, non a caso, proprio qui si sta giocando la sfida decisiva per alcuni dei futuri equi-
libri mondiali. Queste terre ricche di petrolio, gas e altre risorse naturali si trovano al centro di un intero continente e
sono altamente strategiche per i collegamenti con l'Europa, con il sub-continente indiano, l'Asia Orientale e l'Africa
Orientale. Spesso sentiamo parlare nei telegiornali e nelle radio di Afghanistan o Pakistan come territori cruciali per
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gli equilibri della regione, ma ben più importanti e strategiche sono diventate queste ex Repubbliche Sovietiche. In-
fatti Russia, Cina e Stati Uniti si stanno sfidando l'una contro l'altra per controllare questa zona vitale per i propri inte-
ressi.
Tradizionalmente queste repubbliche sono legate alla vecchia Madre Russia a causa di rapporti politici ed economici
molto stretti. Infatti, in questi territori sono ben saldi personaggi, assai discutibili, legati alla vecchia nomenclatura
PCUS. Un personaggio emblematico è il Presidente kazako Nursultan Nazarbayev.
Nazarbayev è Presidente del Kazakistan ininterrottamente dal 1989 e recentemente è stato proclamato Presidente
fino al 2020, cancellando pertanto, attraverso un referendum farsesco molto simile ai plebisciti di stampo napoleoni-
co, le elezioni che si sarebbero tenute il prossimo anno. In realtà, già lo scorso 13 maggio 2010 il Parlamento kazako
aveva ufficialmente riconosciuto il Presidente Nazarbayev come ―leader della nazione‖: un ruolo che gli avrebbe ga-
rantito un'influenza politica perpetua e numerose immunità – cosa, tra l'altro, che già avviene dal 1989. In un mes-
saggio affidato ai mezzi di informazione Nazarbayev ha rifiutato l'onorificenza e ha aspettato che fosse un'incorona-
zione popolare a ―legittimarlo‖. Le reazioni internazionali sono state molteplici e il giudizio su questo leader e sul suo
Paese sono state varie e, sempre, legate tra chi gli riconosce i meriti e chi lo accusa di aver guadagnato potere a
scapito del rispetto delle più basilari libertà democratiche e civili dei cittadini.
Il personaggio Nazarbayev occupa un ruolo particolare sulla scena kazaka. Egli incarna la tipica figura di uomo forte
e carismatico, tipico della vecchia nomenclatura comunista, alla quale ha spesso associato il pragmatismo più spic-
ciolo per mietere una serie di successi in politica interna ed internazionale che hanno portato il Paese dallo sbando
seguito alla dissoluzione dell’URSS fino al ruolo di potenza regionale in Asia Centrale, grazie alla grande disponibili-
tà di idrocarburi, che fanno del Paese uno dei più importanti produttori mondiali di gas naturale e petrolio. Nel 2010,
per la prima volta il Kazakistan ha presieduto l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa
(OSCE), mentre nel 2011 guiderà l’Organizzazione della Conferenza Islamica, dando, così, grande risalto internazio-
nale al giovane Paese centro-asiatico.
Oltre a questi meriti, favoriti anche e soprattutto da una totale assenza di avversari, su Nazarbayev si allungano nu-
merose ombre sulla sua attività politica. In Occidente è stato accusato di finanziare i regimi dei Paesi vicini in funzio-
ne anti-occidentale e, grazie al forte alleato moscovita, vanta un grosso credito politico anche in ambito regionale
permettendosi, addirittura, di fare la voce grossa tanto con l'Iran, quanto con la Cina. I pochi oppositori interni a Na-
zarbayev, lo accusano di violare le più minime norme di diritti umani attraverso l'uso – anche spietato a volte – di un
potente apparato di polizia segreta e diintelligence e attraverso un controllo politico e statale dei mass media nazio-
nali, i quali bloccano sul nascere, gli uni con la violenza, gli altri con l'assenza del contraddittorio, qualsiasi forma di
dissenso. Infatti, numerosi gruppi in difesa dei diritti dell’informazione hanno criticato il governo di Astana per la pro-
gressiva soppressione della libertà di espressione e per i tentativi di controllo dei media indipendenti. Non a caso, un
elevato numero di giornalisti sono stati infatti arrestati, picchiati o addirittura assassinati. Caso emblematico fu l'as-
sassinio, nel 2006, di Altynbek Sarsenbayev, uno dei dirigenti del partito di opposizione Ak Zhol, assassinato in un
agguato da alcuni agenti dei servizi segreti kazaki, si dice su mandato dello stesso Nazarbayev.
Oltre a lamentare una totale mancanza di libertà di espressione e di stampa, si accusa il Presidente di sfruttare la
propria posizione dominante per ottenere un ―incarico a vita‖ e, pertanto, per instaurare una forma ―blanda‖ di dittatu-
ra personale. Il problema è che, oltre a disporre di un grosso potenziale economico fornito dalle risorse naturali, il
Kazakistan vanta l'amicizia russa che, in più di un'occasione, è stata utilizzata come strumento per estendere l'influ-
enza kazaka sull'Asia Centrale, in contrapposizione a Iran, Cina e USA. A differenza degli altri regimi della regione, il
potere di Nazarbayev resta molto saldo e lungimirante. Le condizioni di vita sono nettamente le migliori della regio-
ne; i giovani possono studiare all’estero in Europa (soprattutto nella vicina Russia o Regno Unto), Stati Uniti e Giap-
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pone. La classe media è in crescita grazie agli investimenti stranieri e all’insediamento e alla creazione di piccole e
medie imprese. Gli anziani hanno una pensione garantita e più che dignitosa. Rispetto agli standard della regione,
quindi, il livello medio di vita è molto alto.
Tendenzialmente i Paesi occidentali preferiscono avere a che fare con Paesi democratici, o, quando si relazionano
con regimi autoritari, si aspettano che questi mostrino almeno dei simbolici atteggiamenti democratici (facendo, ad
esempio, dei fittizi gesti verso la liberalizzazione del sistema politico). In tale ottica, la strategia politica di Nazarbayev
trova piena giustificazione, poiché conferisce al Kazakistan quel tocco di democraticità che l’Occidente gradisce. Si
tratterebbe, dunque, di un'accurata forma di maquillage politico-diplomatico gradito tanto agli Occidentali, quanto agli
ex alleati Comunisti.
Pertanto, possiamo notare come gli interessi in gioco sono tanti e molto intricati tra loro. Quindi non saranno certo
un'assenza di democrazia o un mancato rispetto dei diritti umani a fermare gli interessi geo-strategici, geo-economici
e geo-politici di questo grande Stato dell'Asia Centrale. E pazienza se gli Occidentali chiuderanno un occhio dinanzi
ad alcuni crimini, perché in fondo quel che muove l'interesse mondiale è l'argent.

America Latina

Cina e America Latina: opportunità e strategie - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 28.03.2011


Già da qualche anno la Cina ha trovato la propria fortuna in zone di mondo considerate minori. E’ ormai consolidata
la presenza cinese in Africa, ma da qualche anno la penetrazione in Sud America è diventata sempre più stringente.
È di questi giorni, infatti, una serie di accordi commerciali firmati dal Dragone con Venezuela e Colombia, i principali
produttori mondiali di petrolio, gas e carbone.
La strategia cinese è chiara. Pechino esercita il proprio soft power per garantirsi un’ascesa pacifica nel panorama
internazionale. L’obiettivo è di dimostrarsi un affidabile interlocutore internazionale promuovendo uno sviluppo non
conflittuale delle relazioni internazionali in modo da garantire una fiducia diffusa e mutui vantaggi in prospettiva di un
nuovo ordine mondiale pacificato e armonico. Dopo aver colonizzato Africa e Sud-Est Asiatico, ora punta dritto in
America Latina proponendosi, dunque, anche come un nuovo modello culturale.
Dal 2006 Cina e Venezuela hanno stretto i primi rapporti commerciali attraverso la vendita del petrolio venezuelano a
Pechino. Ma l’appetito cinese non terminò qui. Pechino ha firmato contratti anche con il Brasile per il suo petrolio,
con l’Ecuador per l’energia idroelettrica, con il Cile per il rame, etc.. La Cina è già il principalepartner commerciale di
Cile e Perù e sia avvia ad esserlo in altri Paesi della regione. Il 18% delle esportazioni cilene e il 15% di quelle peru-
viane sono dirette in Cina, seguono Argentina e Brasile con il 13%. Ad essere esportate sono soprattutto materie
prime (rame, alluminio, argento, zinco) o prodotti agricoli come la soia, su cui si basa la produzione di carne cinese.
Anche gli investimenti diretti sono in crescita, ma i 9 miliardi investiti in Sud America sono ancora lontani dai 41 inve-
stiti dalla Cina in Africa e dai 25 investiti in Europa[1].
Ora però lo shopping cinese si allarga anche verso gli storici alleati di Washington, come la Colombia. Infatti il Presi-
dente colombiano Santos si è sempre detto interessato a migliorare le infrastrutture del Paese e a promuovere ac-
cordi di libero scambio con l’Asia, e con la Cina in primis. Pechino ha colto l’occasione e ha promosso la costruzione
di un ―canale asciutto‖ alternativo a Panama, ossia una lunga rete ferroviaria di 212 km che collega Buenaventura
(sull’Oceano Pacifico) con una cittadina vicino Cartagena (sul Mar dei Carabi) che la Cina utilizzerebbe come punto
d’accesso per l’America Latina, proprio per la posizione strategica del Paese colombiano. I lavori sono iniziati da
poco, sono finanziati in gran parte dai capitali cinesi, e termineranno entro il 2014, permettendo il passaggio di circa
18-20 mila navi l’anno, contro le 14-15 mila attuali di Panama, ritenuto ormai saturo. Naturalmente l’affare non piace
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a Washington che guarda con molta diffidenza alla penetrazione cinese nel ―proprio‖ continente. Gli USA vedono in
questo atto una sfida aperta all'autorità americana e all’ormai secolare prassi della ―Dottrina Monroe‖. Infatti, l’opera,
una volta terminata, potrebbe ulteriormente diminuire la posizione dominante degli Stati Uniti nel Continente e ridi-
mensionarne anche il ruolo a livello globale, favorendo un passaggio di consegne a favore dei cinesi.

Commercio estero tra Cina e America Latina.


Fonte: Sistema Económico Latinoamericano y del Caribe

Questa politica di penetrazione cinese in Sud America è stata pianificata dal Presidente Hu Jintao in maniera detta-
gliata intorno al 2008, anche grazie alla presenza di Pechino al vertice del G-20 di Washington e al vertice APEC di
Lima, in Perù, dello stesso anno, in cui la presenza cinese in America Latina è stata definita una questione strategica
per la propria sopravvivenza, a livello non solo economico, ma anche politico. La Cina insieme al Brasile fa parte di
quel gruppo di Paesi definiti BRIC (gli altri due sono Russia e India) che rappresentano la nuova economia mondiale,
le nuove potenze in ascesa. Però, allo stesso tempo, questi Paesi non sono solo degli alleati politico-commerciali,
ma anche e soprattutto dei temibili competitors.

Ma la Cina non teme tanto questi Paesi, quanto l’avversario di sempre, gli Stati Uniti. Pechino mira, infatti, ad inde-
bolire Washington stringendo rapporti commerciali con i suoi principali partner strategici del continente latino, come
Messico, Argentina, Colombia, appunto, e Brasile. Perché questa penetrazione prepotente? La Cina dipende ener-
geticamente dalle provvigioni estere e, pertanto, stringere rapporti con i principali partner strategici del Sud America
le garantirebbe petrolio, gas, carbone e tutta un’altra serie di materie prime di cui ha bisogno non solo per soddisfare
il proprio fabbisogno interno, ma anche per giocare un ruolo più attivo nella geoeconomia regionale e mondiale. La
Cina si interessa sempre più alla regione amerinda proprio mentre gli USA la trascurano. Se da una parte la Cina
rappresenta per questi Paesi un’opportunità e un’importante risorsa per lo sviluppo di infrastrutture e del proprio mer-
cato, dall’altra il dragone cinese mira ad aggiudicarsi la gestione del settore petrolifero sudamericano e ad incidere
nelle relazioni Sud-Sud senza tuttavia incrinare troppo le relazioni con Washington. Resta interesse della Cina, gra-
zie anche al proprio pragmatismo, continuare, dunque, a guardare ad entrambe le sponde dei continenti americani.
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Mondo

Rapporto Unicef Russia 2010: i traffici legali all’interno della Federazione Russa - di
Eleonora Ambrosi (BloGlobal) - 17.03.2011

Il report presentato dall’Unicef in collaborazione con IOM e CIDA (Canadian International Development Agency)
descrive la situazione attuale del traffickingall’interno della Federazione Russa. I capitoli suddivisi per aree tematiche
sono 3 (le pagine totali sono circa 140): nel primo si descrive a grandi linee l’attuale situazione dei traffici, presentan-
done natura ed origini del problema, chi sono le vittime maggiormente esposte e possibili metodi di ―reclutamento‖,
traffici illegali e corruzione. Nel secondo capitolo, invece, si presentano le attuali misure utilizzate per combattere
questo tipo di traffici, da un punto di vista legislativo e di cooperazione a livello internazionale. Il report si conclude
con il terzo capitolo che propone soluzioni sulla base delle analisi prodotte nei capitoli precedenti.
Allo stato attuale la Russia non ha ancora ratificato la Convenzione numero 28 della ―Civil Aspects of International
Child Abduction‖, il Protocollo opzionale della convenzione ―On the Rights of the Child‖, del 2000 così come le Con-
venzioni ILO (numero 97 e numero 143). La ratifica di questi documenti è essenziale al fine di lottare efficacemente
contro questi traffici.
Nel 2004 la Russia ha riconosciuto il Protocollo di Palermo, contro lo smuggling e i gruppi criminali che sfruttano le
migrazioni per i propri profitti. Il Protocollo include anche i problemi legati alla moderna schiavitù originata dalla ricer-
ca di una vita migliore da parte dei migranti che in questo modo si sottopongo involontariamente allo sfruttamento
del crimine organizzato. I migranti vengono in questo modo sfruttati fisicamente ma anche sotto forma di lavoro for-
zato, nella maggior parte dei casi nel commercio del sesso o altre attività pericolose.
In generale la definizione di human trafficking e sfruttamento data nel Codice Penale russo coincide con le definizioni
che si trovano nel Protocollo di Palermo. Ad ogni modo, l’esperienza ha dimostrato che esistono ancora molte diver-
genze fra l’attuale legislazione russa e le direttive del Protocollo.
Con il termine ―sfruttamento‖ deve intendersi lo sfruttamento di altre persone sotto forma di lavoro forzato, servitù o
rimozione di organi o tessuti.
Nel Codice Penale russo si descrive in modo dettagliato ciò che ricade sotto la definizione di sfruttamento, elencan-
done ogni singola attività direttamente connessa. In contrasto con il Protocollo non si menziona la formula ―as a mini-
mum‖, cui significato è da intendersi nel senso che le definizioni includono ―come minimo‖ quelle attività e, pertanto,
lasciano spazio ad altre che possono ricadere all’interno della stessa lista. Perciò nel Codice russo vengono automa-
ticamente escluse alcune nuove forme di sfruttamento non rientranti direttamente in quella lista precisa. Il Protocollo
inoltre non utilizza il termine ―compra – vendita‖, ritenendo che esso complichi oltremodo la comprensione della que-
stione. La Russia ha usato il Protocollo nei suoi standard minimi, aggiungendo da sé alcune leggi lontane dagli obiet-
tivi internazionali. Il Protocollo diventa operativo nel momento in cui il traffico sia di dimensioni transnazionali. Nel
caso opposto, trovano applicazione le leggi nazionali.
La Russia ha optato per degli standard più universali, coprendo allo stesso tempo il traffico all’interno del suo territo-
rio e all’esterno. Il fatto che poi le persone vengano portate all’estero è un aggravante. Il Protocollo trova applicazio-
ne solo nei traffici portati avanti da gruppi criminali (OCG – Organised Criminal Groups) mentre la legge russa ha
adottato in questo senso un approccio più estensivo includendo tutti i casi di traffici in esseri umani, anche quelli per i
quali non c’è stata partecipazione di OCG. Al contrario, il fatto che ci sia stata partecipazione di gruppi criminali non
fa altro che aggravare la situazione .
Gli esperti identificano alcune rotte del traffico utilizzate per portare le vittime fuori dai confini della Federazione Rus-
sa:
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 la via Baltica (attraverso la Lituania) ;
 la via dell’Europa centrale (attraverso Varsavia e Praga) ;
 la via del Caucaso o georgiana (che sfrutta i deboli confini con la Turchia). Gli esperti hanno notato come la
maggior parte dei migranti siano stati trasportati in Turchia attraverso la Georgia, la Grecia, il Mediterraneo;
 la via dei Balcani ;
 la via del sud della Russia verso gli Emirati Arabi ;
 la via della Cina – Siberia e della Cina Primorsky ;

Negli ultimi due anni il traffico di esseri umani è stato denun-


ciato su diversi media: televisioni, radio e giornali. Secondo il
IBF (Independent Broadcasting Foundation), il livello generale
di consapevolezza dell’esistenza di questi traffici è basso.
Gli esperti in comunicazione notano che sia la TV, sia i pro-
grammi radiofonici, generalmente non vanno al cuore del pro-
blema, fornendo analisi molto generiche e prive di soluzioni.
Di conseguenza le persone tendono a spaventarsi, ma in re-
altà coloro che già hanno deciso di migrare non cambiano
idea.
Si crede che sia necessaria una campagna pubblicitaria che
non abbia lo scopo di spaventare ma che attiri l’attenzione
sul problema reale e sui rischi concreti.

Fonte: UNICEF, Human trafficking in the Russian Federation -


Inventory and Analysis of the current situation and responses, 2010

Si è dimostrato come il traffico di esseri umani coinvolga frequentemente altri tipi di violazioni: falsificazione dei docu-
menti, organizzazione di bordelli, prostituzione. Per quanto riguarda i traffici allo scopo di sfruttamento lavorativo si
registrano la restrizione di libertà, minacce e umiliazioni.
Il sistema di protezione e assistenza alle vittime prevede che vengano incluse due componenti principali: i diritti uma-
ni devono essere garantiti a chiunque sia vittima dei traffici e alle vittime che hanno deciso di collaborare nelle inve-
stigazioni.
Nel terzo capitolo si discute la necessità di una strategia e di una politica continuativa e coerente nei suoi passaggi
che combatta efficacemente questi traffici. Per funzionare essa deve necessariamente includere:
 una completa legislazione anti traffici,
 un piano di azione nazionale che includa la prevenzione, la persecuzione e la protezione delle vittime
 un sistema di monitoraggio costante
 un sistema di finanziamento per le persone coinvolte
 un sistema di monitoraggio con il quale ci si accerti che tutte le attività descritte in precedenza vengano corret-
tamente attuate.
Pagina 27 CHAOS
Geografia e Geopolitica

La battaglia cartografica (parte II) - carte come armi in Israele-Palestina - di Prospettiva


Internazionale - 3.01.2011

"E. Said ha scritto che israeliani e palestinesi cercano di isolarsi e di dimenticarsi a vicenda, e a mio avviso questa
lucida osservazione evidenzia una costante del rapporto tra i due popoli che mi pare intimamente collegata al co-
stante fallimento degli sforzi per trovare una soluzione al conflitto." da Introduzione al ciclo di post "appunti sulla geo-
grafia politica del conflitto israeliano-palestinese" [1]

La carta 1 è una carta internazionalmente corretta dello Stato d'Israele.


In essa i confini dello Stato sono quelli segnati dagli accordi di armistizio
del 1949 e Gerusalemme non è indicata dalla toponomastica come capi-
tale. Una rarità quest'ultima, riscontrabile da chiunque abbia a portata di
mano un comune atlante Zanichelli o un planisfero appeso alla parete
della propria camera. La carta 2 invece mostra quanto si sia complicata,
successivamente alla costituzione dello Stato d'Israele e alle guerre ara-
bo-israeliane, la geografia politica in Israele-Palestina.

Carta 1: mappa ONU d'Israele

Sullo sfondo di questo nuovo contesto geografico e nelle maglie dei


contrasti che lo caratterizzano, si sono sviluppate e continuano ad esse-
re alimentate, due antitetiche narrazioni spaziali nessuna delle quali a
sua volta è in sintonia con la realtà politica del territorio (vedi carta 1).

Carta 2
Se da un lato quella parte della comunità palestinese che continua a non riconoscere l'esistenza dello Stato d'Israele
racconta il territorio semplicemente come se lo Stato d'Israele non esistesse[3], dall'altro l'intellighenzia israeliana
tende a sostituire la corretta immagine dello Stato con quella ideologica[4] del Grande Israele, omettendo o cancel-
lando l'esistenza legittima di uno spazio territoriale avversario per far posto ad una rappresentazione nazionalista in
cui la West Bank, Gaza e le alture del Golan sono inglobate ed omogeneizzate entro i confini del territorio statale.
Per un turista che si rechi in Israele è facile imbattersi in queste immagini falsate ed esserne "vittima"; si va dalle
comuni cartoline che spediremo agli amici alle calamite che probabilmente attaccheremo al frigorifero al nostro ritor-
no:
Numero 3 - Marzo 2011 Pagina 28

fig.1 Una cartolina da Israele fig.2 Una calamita da Israele

Non solo, queste rappresentazioni sono sparse anche in varie guide turistiche (e solitamente, quando presenti, è
l'intera guida a seguirne lo spirito);dunque scegliete con cura la vostra guida ed esaminate attentamente oltre alla
completezza delle informazioni pratiche anche la sezione sulla storia e la geografia del Paese.
La battaglia cartografica si muove anche sul web, nelle pagine dei vari siti ufficiali del governo israeliano. Sul sito del
Ministero degli Affari Esteri (MFA)[5] il riferimento ai confini di Great Israel è la norma nella rappresentazione del ter-
ritorio dello Stato.

fig.3 Caratteristiche geografiche[6] d'Israele dal Ministero degli Esteri

Nella descrizione del moderno Israele (Modern Israel within boundaries and cease-fire lines) al
2004 (Carta 3) il sito MFA definiva i Territori della West Bank, Gaza e Golan come "sotto con-
trollo israeliano e con status finale in sospeso". Gerusalemme non era inclusa in questa cate-
goria e, secondo la carta, rientrava a pieno diritto nel territorio israeliano. Inoltre nella descri-
zione che corredava la carta, nel calcolo dell'estensione territoriale d'Israele era computata
tacitamente parte dei territori occupati. La superficie d'Israele propriamente detto, cioè risultan-
te dalla somma della superficie dei 6 distretti che compongono lo Stato, è di circa 20.700 kmq;
il sito invece riportava una superficie di 22.145 kmq.

Carta 3[7]

Al 2006 la carta della stessa sezione del sito (Israel within boundaries and cease-fire lines) è stata
aggiornata o meglio sostituita con una ancora più criptica, senza descrizione, né colori che richiami-
no vagamente la demarcazione della linea verde (Carta 4)

Il sito del Ministero degli Esteri d'Israele è solo un esempio tra tanti; per altre carte simili presenti su
siti ufficiali rinvio all'articolo Many official Israeli maps fail to show Occupied Territories di Philip
Weiss[9].

Carta [8]
.
Pagina 29 CHAOS
La narrazione geografica in Israele-Palestina è un'arma tanto subdola quanto efficace nella perpetrazione dell'odio
reciproco. Le menti della popolazione sia da una parte che dall'altra vengono plasmate in modo distorto ed in questo
la cartografia presente nei testi scolastici svolge un ruolo incisivo.

Un giovane palestinese che sia stato educato alla sistematica negazione dell'esistenza dello Stato
d'Israele difficilmente potrà contribuire a quell'ideale processo di convergenza[10] necessario al
raggiungimento di una qualche forma di convivenza che non implichi sopraffazione; parimenti un
colono o un futuro soldato israeliano svolgerà "meglio" il suo lavoro se sin da piccolo è stato abitu-
ato a pensare al suo Stato nei termini geografici e storici di Great Israel: si sentirà valoroso anche
nella perpetrazione delle più grandi ingiustizie, perché si riterrà (a torto) nella parte del giusto, nel-
la parte di chi compie il proprio dovere per riconquistare ciò che gli appartiene. Capita che alcuni
giovani soldati israeliani nel primo periodo del loro servizio si accorgano dell'enorme differenza Carta 5: Palestina
senza Israele
che intercorre tra ciò che gli è stato insegnato nelle scuole e la realtà con la quale sono chiamati
a confrontarsi una volta in uniforme. Il mestiere del soldato per loro diventa tanto insostenibile da spingerli ad ab-
bandonare il servizio pur sapendo quanto siano gravi in Israele le conseguenza di tale scelta. La stragrande maggio-
ranza dei giovani soldati invece resta lì, sul campo di battaglia, a rendere ogni giorno omaggio ai suoi cattivi maestri.

[1]Link a Introduzione al ciclo di post "appunti sulla geografia politica del conflitto israeliano-palestinese"http://
prospettivainternazionale.blogspot.com/2010/11/introduzione-al-ciclo-di-post-appunti.html
[2] http://www.un.org/Depts/Cartographic/map/profile/israel.pdf
[3] Documento Intelligence and Terrorism Information Center at the Center for Special Studies (C.S.S) http://www.terrorism-
info.org.il/malam_multimedia/english/eng_n/pdf/as_nm_e.pdf
[4] Vedi su Chaos n2 2011, La battaglia cartografica parte 1: sionismo e cartografia.
[5] http://www.mfa.gov.il/MFA/
[6] http://www.mfa.gov.il/MFA/Facts+About+Israel/Land/THE+LAND-+Geography+and+Climate.htm
[7] http://www.mfa.gov.il/MFA/Facts+About+Israel/Israel+in+Maps/Modern+Israel+-within+boundaries+and+cease-fire+li.htm
[8] http://www.mfa.gov.il/MFA/Facts+About+Israel/Israel+in+Maps/Israel+within+Boundaries+and+Ceasefire+Lines+-+200.htm
[9] http://mondoweiss.net/2009/04/many-official-israeli-maps-fail-to-show-occupied-territories.html
[10] Link all’articolo di Or Kashti, PA adopts textbook, banned in Israel, offering both sides' narratives http://www.haaretz.com/print
-edition/news/pa-adopts-textbook-banned-in-israel-offering-both-sides-narratives-1.318307

QUESTA RACCOLTA DI ARTICOLI PUBBLICATI SU


Hanno scritto per BloGlobal:
“BLOGLOBAL”, “RISIKO -GEOPOLITICA E DINTORNI” E
“PROSPETTIVA INTERNAZIONALE” NON RAPPRESENTA
Eleonora Ambrosi
UNA TESTATA GIORNALISTICA, PERTANTO NON PUÒ
Giuseppe Dentice
CONSIDERARSI UN PRODOTTO EDITORIALE AI SENSI
Gianpiera Mancusi
DELLA LEGGE N. 62 DEL 7.03.2001.
Maria Serra
PUBBLICAZIONE DISTRIBUITA SOTTO LICENZA.
Hanno scritto per Risiko:

Alessandro Badella
http://blogloball.blogspot.com Domenico D’Alessandro
http://risikoblog.org Eleonora Peruccacci
http://prospettivainternazionale.blogspot.com
Impaginazione a cura di Maria Serra;
Copertina a cura di Maria Serra.

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