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SPETTACOLO DAL 1900

L’arte della fabbrica


La regia è l’arte della fabbrica e nasce nel momento in cui fiorisce la fabbrica
capitalistica. La rivoluzione industriale (riferito alla seconda rivoluzione
industriale a partire dal 1870/80) è proprio questo, il salto da una tipologia
lavorativa artigianale a una tipologia industriale. Il teatro del regista sta al teatro
dell’attore come la fabbrica sta alla bottega di mestiere. La regia si afferma con il
trionfo del capitalismo. Agli attori si richiede un buon livello professionale ma
nessun reale contributo al progetto della messinscena, che è delegato interamente
al regista, unico garante dell’assemblaggio del lavoro dei vari attori.
Il regista punta a realizzare un suo proprio progetto di spettacolo ma pretende poi
che questo progetto sia replicato ogni sera, identico a sé stesso.
Al biglietto d’ingresso, uguale come quantità di denaro richiesto, sera dopo sera,
deve corrispondere un prodotto spettacolo similmente uguale come qualità . Ogni
replica deve essere tendenzialmente identica alla prima, perché tutti gli spettatori
– acquirenti che pagano lo stesso biglietto – hanno diritto a vedere lo stesso
prodotto. Ma quando nasce esattamente la regia? La regia nasce con il gruppo dei
Meininger verso il 1870, il secondo anello della catena è rappresentato da Antoine,
creatore nel 1887 del Theatre Libre, e il terzo anello della catena è Stanislavskij,
fondatore nel 1897 del Teatro d’Arte di Mosca.

- La figura del regisseur


E se il primo regista fosse l’autore?
Cosa c’è prima del teatro di regia. In principio ci sono gli attori, ma non è
esattamente così. Alle origini del teatro d’occidente ci sono gli autori. Autori che
sono anche attori, ed in qualche modo anche registi. Eschilo e Sofocle aprono la
storia del teatro tragico e, al tempo stesso, coordinano la messinscena dei loro
testi e fanno da registi.

I Meininger:
Il nome del gruppo teatrale dei Meininger deriva dalla città di Meininger, città
della Germania.
La figura del Duca Georg II è davvero importante per la storia del teatro. Fin dagli
anni giovanili manifestò una viva attenzione nei confronti dell’arte e soprattutto
del teatro. Fu però un osservatore particolare: criticava l’approssimazione dei
costumi, delle scenografie, la scarsa attenzione per la ricostruzione storica e
soprattutto i rimaneggiamenti dei testi.
Dopo l’abdicazione del padre nel 1866 assume il controllo del piccolo teatro e
subito inizia a mettere a frutto le proprie esperienze artistiche per una forte
riforma del teatro. Nel 1970 fonda la compagnia dei Meininger sotto il principio
generale che tutte le varie parti di uno spettacolo (scenografia, recitazione,
costumi, luci, musica…) devono rispondere ad un principio unitario di coerenza
scenica.
Il punto di partenza è il totale rispetto del testo letterario che deve essere recitato
nella sua integrità e seguendo i principi del naturalismo. Il primo periodo di
riforma del teatro fu infatti all’insegna del realismo scenico, della riproduzione
puntuale della vita sulla scena e del rispetto del principio fondamentale della
quarta parete, che portava ad ignorare completamente la presenza del pubblico.
Gli attori recitano senza curarsi dello spettatore, anche di spalle e coprendosi l’un
l’altro. Ad una scenografia fatta di quinte dipinte (bidimensionale) si sostituisce un
ambiente tridimensionale e praticabile, con oggetti e mobili veri. Ogni dettaglio è
definito sul fondamento di uno studio attento e minuzioso. La scenografia non è
più un semplice sfondo ma un luogo fatto di oggetti reali con cui l’attore
interagisce.
La ricostruzione storica è maniacale. Sia nei costumi che negli oggetti i Meininger
vanno alla ricerca della riproduzione precisa dell’epoca in cui la rappresentazione
è ambientata. Per il Giulio Cesare di Shakespeare tutta la compagnia si spostò a
Roma per studiare i luoghi reali in cui si era svolta la storia. L’ambientazione
veniva ricostruita a partire da quadri, disegni dell’epoca con la maggiore
precisione possibile. Ogni spettacolo era insieme una ricostruzione filologica del
testo e una ricostruzione storicamente perfetta di un’epoca. Il tutto era finalizzato
ad una precisa volontà illusionistica: il pubblico doveva illudersi di assistere ad un
pezzo di realtà , non ad una finzione. Il repertorio è costituito prevalentemente da
classici e drammi storici (Shakespeare soprattutto).
Per quanto riguarda gli attori il duca rinuncia ad assumere interpreti famosi,
privilegiando piuttosto persone di formazione dilettantistica, messe cioè a recitare
dopo un’esperienza d’un paio d’anni come figuranti o in piccole parti. Non vale più
il principio secondo cui l’attore impersona sempre il medesimo tipo di
personaggio. Durante le prove gli attori devono già abituarsi a recitare con i
costumi in scena prendendo confidenza con essi.
Il duca in persona realizza gli schizzi delle scene e dei costumi ed è
contemporaneamente sia direttore artistico che finanziatore dell’impresa, ma la
funzione di effettivo regista è delegata a un suo fedele collaboratore Ludwig
Chronegk. Le prove duravano a lungo ed erano regolate da una ferrea disciplina
sotto il comando del regista della compagnia, Ludwig Chronegk che per la sua
forte autorità fu definito un regista-despota.
Il duca poteva contare invece su una troupe, pagata da lui e alle sue strette
dipendenze, composta da una settantina di persone in cui vigeva la legge della
rotazione: non sempre gli attori di maggior valore recitavano nel ruolo
protagonista. Questo portava alla conseguenza che tutti, prima o dopo, avrebbero
recitato nelle scene corali portandole così a risultati molto più soddisfacenti e
apprezzabili.
Ma il grande valore di questa compagnia fu nell’imposizione della disciplina, nel
controllo sull’attore.
Il sistema della rotazione servirà ad infondere anche nei migliori interpreti
l’abitudine a subordinarsi totalmente ad un regista.

PUNTI FONDAMENTALI:
I MEININGER – 1866
- Rigoroso rispetto del testo drammaturgico.
- Massima coerenza tra testo e messinscena; concezione dello spettacolo
come unità organica.
- Repertorio di testi classici e drammi storici (Shakespeare, Schiller,
Kleist).
- Studio filologico dell’opera.
- Aggiunta di elementi tridimensionali praticabili sulla scena.
- Meticolosa ricostruzione storica.
- Filone naturalista: realismo scenico. Gli attori recitano anche di spalle al
pubblico.
- Rinuncia all’ingaggio di interpreti già famosi e formati.
- Grande attenzione riservata alle comparse.

André Antoine:
Il Theatre Libre di Antoine (1887-1895 durò appena nove anni) si
caratterizza fin da subito per la totale autonomia di ricerca: non solo libertà dalla
censura, ma anche libertà dalla tradizione, dai condizionamenti del mercato
teatrale. L’iniziativa di Antoine è assolutamente al di fuori del quadro commerciale
del teatro parigino.

La riforma di Antoine si basava su quattro punti fondamentali:


1. Modernizzare il repertorio secondo le nuove esigenze del pubblico.
2. Rinnovare le sale, troppo scomode e insicure.
3. Abbassare il prezzo del biglietto.
4. Reagire al predominio del grande attore, creando compagnie di
complesso.

La messa in scena doveva ovviamente seguire i principi del naturalismo:


- Scena tridimensionale praticabile in opposizione al fondale dipinto.
- Illuminazione il più naturale possibile. Grazie all’elettricità i proiettori
potevano essere posti in modo che la luce entrasse dalle porte e dalle
finestre, come nella realtà .
- Uso della quarta parete. Gli attori non si rivolgono più al pubblico, ma l’uno
all’altro. Recitano come se al posto dell’arco scenico ci fosse un’altra parete e
come se il pubblico non esistesse. Lo spettatore deve assistere all’azione
come se essa si stesse svolgendo davvero nella vita e come se l’attore non
sapesse di essere visto.

Una grande innovazione è costituita poi dalla nuova figura dell’attore che non
è più l’attore professionista con i suoi capricci e smanie di protagonismo, ma un
attore dilettante, un appassionato del palcoscenico che vivono di altre professioni.
Il teatro non è un lavoro ma una passione. Questi attori non lavorano per sé stessi,
ma inseriti in un gruppo e si impegnano per esso. Gli attori devono essere collocati
in uno spazio credibile, reale
Gli attori possono girare le spalle al pubblico e oltre a recitare con la voce e il volto
usano anche le mani, i piedi e la schiena. Secondo Antoine l’attore deve perdersi
nel personaggio, deve immedesimarsi a tal punto da dimenticare sé stesso e
calarsi a piedi giunti nella parte. Antoine considera l’attore come una marionetta
nelle mani del regista.
Ogni elemento teatrale (attore, luci, scenografia, musica…) è una parte che deve
funzionare ben inserita nel tutto perché quello che conta è il quadro d’insieme, la
totalità . Non c’è un elemento predominante sugli altri, nemmeno l’attore.
Spettri:
Antoine fece scoprire Ibsen al pubblico francese dell’Ottocento, mettendo in
scena proprio questo testo. È noto che fu per iniziativa di Zola che il dramma
Spettri fu messo in scena a Parigi presso il “Théâ tre Libre”, nel maggio del 1890. In
Spettri ricostruisce i particolari psicologici e ambientali: ripercorre con minuzia
tutte le cause morali e fisiche che scatenano la crisi finale di Osvald.
Dopo le lunghe polemiche alla scelta di Nora di lasciare i suoi figli in Casa di
bambola, Ibsen, come sempre, risponde con un’altra opera mostrando così la
legittimità del suo lavoro. Ed è in questo modo che nasce un altro dei suoi
capolavori, magistralmente riuscito. Spettri è un testo affascinante che appassiona
sin dall’inizio e unisce il mistero al dramma familiare, l’accusa sociale alla
consapevolezza della realtà . La signora Alving, a differenza di Nora, ha fatto una
scelta socialmente corretta e ne pagherà le conseguenze amaramente. Dopo la
delusione di un matrimonio infelice, delusa dal suo vero amore che le consiglia per
il bene dell’opinione pubblica di tornare dal suo marito traditore e ubriacone,
decide a malincuore di allontanare il figlio per proteggerlo dall’influenza negativa
del padre. Così sopporta amaramente una vita a cui è costretta finché, una volta
diventata vedova, decide di aprire un asilo con i soldi del marito e far tornare il
figlio a casa per poter vivere insieme felici senza l’ombra oscura del padre. Tutto
sembra destinato a risarcire la signora Alving del dolore che ha dovuto sopportare
negli anni, ma in realtà le si rivolterà tutto contro e i suoi piani andranno in
frantumi quando scopre che tutto ciò per cui ha lottato è stato inutile. Il figlio ha
ereditato dal padre la sifilide e i vizi di un carattere pieno di gioia di vivere, ha del
risentimento verso la madre che l’ha fatto sentire rifiutato e si è innamorato di
Regine, la governante della madre che in realtà è la figlia illegittima del padre con
la serva.
All’improvviso tutta la verità piomba come un macigno sulla signora Alving che
non potrà che accettarla e decidere l’epilogo.
Una storia tragica e intricata che tocca vari aspetti e può essere letta sotto diversi
punti di vista. Forse questa è una delle opere in cui i personaggi sono i più riusciti
grazie ad un’estrema profondità psicologica che li rende complessi e interessanti
nonostante i loro ruoli. Forse è questa la grande capacità di Ibsen, delineare
caratteri veri e intensi attraverso i quali si snoda la vicenda.
L’attacco contro il falso perbenismo della borghesia è ciò che risalta sotto gli occhi
da subito, ma vi è anche la dimostrazione di quanto una vita piena di menzogne e
sofferenza solo per non dare scandalo, sia profondamente sbagliata e terribile.
Salvare le apparenze è costato molte vite e tanta felicità , come l’amore tra la
signora Alving e Manders che non è mai potuto sbocciare a causa della rigida
scelta di Manders di attenersi alle regole. Ha preferito ingenuamente salvare il suo
nome piuttosto che scegliere l’amore e la felicità , convinto che tutto potesse
risolversi al meglio. Al contrario però , le cose non cambieranno mai nella vita della
signora Alving, perché non c’è rimedio o miglioramento possibile in una vita
odiata e sofferta.
Quello che colpisce di più al cuore ed emoziona è il dramma familiare di una
madre che ama suo figlio con un desiderio di possessione maniacale e che si
troverà a dover accettare una realtà sconvolgente che le distruggerà la vita.
Konstantin Stanislavskij:
È un autodidatta. I suoi maestri sono i Meininger e i grandi attori italiani come
Tommaso Salvini, Ernesto Rossi e Eleonora Duse. La svolta decisiva avviene
quando nel giugno del 1897 incontra Dancenko, insegnante di teatro e regista.
Decisero insieme di riformare il teatro e di aprire il Teatro d’Arte di Mosca la cui
attività inizierà nel 1898. Il primo punto su cui Stanislavskij e Dancenko si
trovarono d’accordo fu la necessità di riformare la condizione stessa della vita
materiale dell’attore. Entrambi dichiararono guerra a tutti i vizi consueti
dell’attore: il ritardo, la pigrizia, le bizze e l’imperfetta riconoscenza della parte.
Rifiutano, come i Meininger e Antoine, le gerarchie dei ruoli. Il programma
operativo di Stanislavskij e Dancenko consiste anzitutto nel mantenere una rigida
disciplina fra gli attori ammessi a fare parte della compagnia al fine di creare un
gruppo artistico omogeneo. In tale compagine attoriale, composta da una
quarantina di elementi, si provvede all’abolizione dei ruoli, ora sostituiti da un
criterio di rotazione, e all’instaurazione di una pratica di allestimento degli
spettacoli fondata sul rigore e su un’insolita attenzione per i dettagli realistici.
L’attore si muove con naturalezza, recitando anche con le spalle rivolte alla platea.
- Realismo esteriore: (Giulio Cesare e Mercante di Venezia): ricerca
fisica del personaggio che si vuol rappresentare attraverso ogni specie
di costume. Riproduzione fotografica della realtà .
- Realismo interiore: l’attore deve immedesimarsi nel personaggio e
vivere la parte.
Con Čechov, Stanislavskij muove dal realismo esteriore verso quello più interiore,
capace di evocare l’atmosfera attraverso (l’insieme dell’ambiente, del tempo e
dell’ora) una maniacale descrizione di stampo naturalistico. Nei drammi di Chekov
non succede mai nulla di decisivo ai personaggi praticamente statici. E quello che
Stanislaski comprende grazie alla lezione di Chekov è che non è possibile recitare
il personaggio checoviano dall’esterno, occorre ricrearne anche la vita interiore; a
partire dal testo ma anche autonomamente dal testo.
Al fine di sviluppare le proprie capacità artistiche e creative, gli interpreti devono
superare – secondo Stanislavskij – il semplice processo imitativo, facendo
riferimento costante alla propria personalità . Attraverso un metodo fondato sulla
psicotecnica, oltre che sulla conoscenza delle tradizionali norme della recitazione,
dunque, l’attore deve cercare entro sé stesso, nel profondo dell’animo e della sua
esperienza biografica, la molla per dare vita ai personaggi, secondo un atto di
procreazione. Partendo dalla conoscenza del proprio io privato, l’attore deve
giungere a sviluppare l’io creativo che, a sua volta, produca l’io personaggio.
La piena identificazione con un personaggio non conduce a recitare, bensì a vivere
la parte, cosicché l’espressione mimica e gestuale dell’interprete si rivelerà vera e
credibile.
Per Stanislavskij il concetto di verità è essenziale. L’attore non deve recitare bene
o male, ma deve essere vero. La sua verità è interiore, vissuta e sofferta. Per
questo non si può partire né dalla finzione né dall’imitazione. L’attore non deve
sembrare o fingere, ma essere il personaggio, deve cioè viverlo. Non è un eccesso
di naturalismo come potrebbe sembrare, perché lo scopo è sempre quello di una
creazione organica, efficace, credibile e più vera della realtà . La situazione
dell’attore è difficile: deve essere vero, mentre tutto è falso intorno a lui (scene,
costumi, trucco, luci etc.)
Sottotesto: per ricostruire la vita del personaggio, l’attore dovrà , dunque,
ripercorrere il processo che l’autore ha seguito per crearlo e utilizzare la propria
memoria emotiva, stabilendo analogie tra la sua personale sensibilità e quella del
personaggio.
Per imprimere vita al personaggio l’attore deve quindi sempre partire da sé stesso,
per non recitare dall’esterno la parte e ricorre quindi alla memoria emotiva, che è
l’aspetto fondamentale del metodo Stanislavskij.
Per esprimere emozioni che appartengono ad un’altra persona (il personaggio)
l’attore deve trovare dei punti di contatto tra la sua vita e quella del personaggio.
Deve cioè andare a ritroso e ricercare quei momenti della sua vita che hanno
provocato sentimenti analoghi a quelli del personaggio.
Il punto è fare in modo che l’attore non reciti, ma viva il personaggio. L’attore non
può recitare un personaggio che non ha dentro di sé, che non sente.

Due sono, per Stanislavskij, i grandi processi che sono alla base
dell'interpretazione: quello della personificazione e quello della reviviscenza:
- Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare per
proseguire con lo sviluppo dell'espressività fisica, dell'impostazione
della voce, della logica e coerenza delle azioni fisiche e della
caratterizzazione esteriore.
- Il processo di reviviscenza parte dalle funzioni dell'immaginazione e
prosegue con la divisione del testo in sezioni, con lo sviluppo
dell'attenzione, l'eliminazione dei cliché, e l'identificazione del tempo-
ritmo. La reviviscenza è fondamentale perché tutto ciò che non è
rivissuto resta inerte, meccanico ed inespressivo. Ma non basta che la
reviviscenza sia autentica: essa deve essere in perfetta consonanza con
la personificazione.
Reviviscenza al centro del Metodo: infatti è il processo attraverso cui l’attore
rievoca e rivive un’esperienza in qualche modo autobiografica, almeno analoga a
quella del personaggio che gli serve per calarvisi dentro.
In Stanislavskij, il “metodo delle azioni fisiche” era un mezzo perché gli attori
creassero “una vita reale”, una vita “realistica” nello spettacolo.
N.B. Metodo analogico: trovare nella propria vita un’emozione analoga a
quello del personaggio.

Otello 1896
e il metodo delle azioni fisiche:
L'attore, per poter controllare la giusta espressione del sentimento, deve
come prima cosa fissare le azioni connesse con il sentimento stesso perché fissare
i sentimenti è molto più problematico dato che sono instabili: solo così può essere
sicuro di non cadere nell'enfasi, nella retorica, nella falsità e di raggiungere la
verità . Agli attori è vietato inizialmente di imparare la parte a memoria. È
sufficiente che conoscano a linee generali il contenuto di ogni scena e sulle basi di
questo contenuto devono improvvisare una serie di azioni fisiche. Solo una volta
che la successione delle azioni fisiche è fissata verrà il tempo di sostituire le
battute improvvisate dall’attore con quelle del testo drammaturgico.
La prima cosa che deve essere vera, autentica e non falsa è la scenografia.
Staniskalskij nel primo atto vuole le gondole, i canali. La grandezza di questo
autore è costituita dallo scavo nel personaggio e dalla ricostruzione di ciò che egli
chiama sottotesto.
In Stanislavskij, il “metodo delle azioni fisiche” era un mezzo perché gli attori
creassero “una vita reale”, una vita “realistica” nello spettacolo.

Appunti su Stanislavskij:
Il gruppo di Stanislavskij si impegnò a mettere in luce il naturalismo e lo
psicologismo del lavoro chechoviano (Il gabbiano), ma anche a valorizzarne le
qualità poetiche. Il successo della rappresentazione stabilì le future e fortunate
sorti del “Teatro d’Arte”, e anche del drammaturgo stesso.

Adolphe Appia
ed il Tristano e Isotta di Wagner:
Nato in Svizzera nel 1862, teorico e scenografo, compose teorie sulla messa in
scena incentrate sull’importanza del corpo e dei movimenti dell’attore in rapporto
con i volumi circostanti, sull’importanza della luce, dell’articolazione dello spazio
come scansione ritmica. Appia e Craig hanno contribuito a mettere in luce
l’esigenza dell’unità delle componenti teatrali che fino allora erano separate (testo,
scena, attore) rendendo necessaria la figura di un coordinatore, quindi il regista.
Appia ha dato il suo contributo alla definizione di regia attraverso la riflessione sul
Tristano e Isotta di Wagner. Nel 1882 Appia assiste per la prima volta ad un’opera
di Wagner a Bayreuth e ne resta affascinato. Egli riconosce nel dramma musicale
lo spettacolo del futuro, secondo lui Wagner era riuscito a estrarre dalla musica la
massima espressività . Inoltre Appia era affascinato anche dalle innovazioni del
teatro: l’orchestra nascosta, la platea ad anfiteatro, il buio in sala durante lo
spettacolo. Però c’era un’incongruenza tra la recitazione, il modo innovativo di
usare la musica e la scena che rimane realista e quindi in asincrono con il modo
recitativo.
Nel 1888 Appia decide di dedicare la sua vita e le sue forze alla riforma della
messinscena a partire dal dramma wagneriano.
Uno degli espedienti wagneriani più efficaci in questo senso era l’uso frequente dei
cambi di scena a vista il cui scopo non era quello di stupire lo spettatore, ma quello
di non interrompere la melodia infinita per non spezzare il principio
d’incantamento e per instaurare l’unità temporale. Appia è particolarmente critico
nei confronti della recitazione dei cantanti wagneriani: i cantanti di quest’ultimo si
rivolgevano l’un l’altro mentre i cantanti secondo Appia dovevano cantare
frontalmente, dovevano rivolgersi al pubblico. Quella di Appia è una recitazione
ieratica, concettuale e non naturalistica cioè devono dare l’impressione della
tensione attraverso il corpo, mai in atteggiamento di riposo, rilassamento ma
sempre agile e sveglio quindi lavora anche sulla fisicità .
Il suo obiettivo era la fusione di 3 elementi:
- parola - ovvero la ricerca della sacralità del teatro.
- tono
- azione - egli non ama spezzare il flusso temporale, riteneva che un flusso
continuo temporale fosse necessario per il principio d’incantamento, di
conseguenza i cambi erano a vista.
Leitmotiv: dal tedesco, “tema conduttore” ovvero il motivo dominante. Indica un
tema musicale ricorrente associato ad un personaggio, un luogo, un’idea, un
sentimento, un oggetto, utilizzato per dare universalità e continuità all’opera.
– Richard Wagner è il compositore a cui viene più spesso associata la tecnica del
leimotiv –
Appia riteneva che la componente principale e determinante del Wort-tondrama
(il dramma wagneriano di parola e suono) fosse la musica. Doveva essere questa,
con i suoi ritmi, a definire il tempo, a determinare fisicamente la durata di azione e
parlato, che dovevano inserirsi armoniosamente nel flusso sonoro di note e pause.
La scenografia secondo Appia doveva essere evocativa, che stimolasse
l’immaginazione del pubblico, così inizia ad eliminare sempre più elementi di
scena, opponendosi anche al fondale dipinto.
– Scenografie di Wagner: costumi e scenografie non aderiscono alla
trasfigurazione musicale, c’è una sorta di contrasto –

Ritmo della parola e non solo del corpo


Secondo Appia l’allestimento scenico doveva favorire l’espressione
dell’autore nella fisicità dell’attore e degli elementi che lo circondano. Appia
immagina una scena essenziale e fisica, in cui l’attore possa muoversi in
profondità senza cadere nell’illusione ottica della prospettiva dei pannelli
posteriori. Pertanto la sua scena è costituita da praticabili, ossia da elementi che
l’attore può percorrere e calpestare, quali scale, gradini, piani inclinati posti su
piani diversi e da scivoli che permettono all'attore movimenti razionali e offrano
resistenza alla sua corporeità e interagiscano con i suoi movimenti.
Come far corrispondere l’espressione scenica a quello poetico/musicale? Egli
riducendo i materiali di scena concepì Tristano e Isotta con una luce (che secondo
lui era l’elemento fondamentale capace di creare un’atmosfera) totalmente
astratta, in grado di tradurre la dicotomia tra la rappresentazione del mondo
interiore e quello esteriore attraverso un contrasto tra luce e ombre, chiaro e
scuro. Isotta per fuggire la realtà che le fa orrore si nasconde nella sua tenda, in
penombra. La tenda diviene così il simbolo della separazione tra lo spettacolo
della vita esteriore e l’espressione del suo mondo interiore.
La musica, allo stesso modo, doveva determinare lo spazio. Così come imponeva il
tempo, doveva imporre all’attore il movimento e la misura dei gesti, che a loro
volta dovevano quantificare e qualificare lo spazio in cui egli si muoveva. Lo
spazio, dunque la scena teatrale, diventa, in quest’ottica, una conseguenza
necessaria della musica.

Appunti su Appia:
Appia riconosce nel dramma wagneriano il rapporto tra parola e suono. Egli
però non è convinto delle scene e dell’uso delle luci, perché nonostante tutto erano
di routine e non simboliste. C’era un’incongruenza tra la recitazione, il modo
innovativo di usare la musica e la scena che rimane realista e quindi in asincrono
con il modo recitativo.
Il Teatro di Wagner diventò un teatro dove si recitava un dramma, una storia, un
mito, quindi delle relazioni vere tra gli attori. Ma non vi riesce, gli attori risultano
cantare all’Italiana esibendo solo le loro caratteristiche come de giullari in una
recitazione fronte pubblico.
Quindi la realtà rappresentata da Wagner è solo scenica. Egli con la sua musica è
innovativo ma comunque rimane attaccato quello che era il teatro stanislavskiano.
Appia al contrario cambia questo realismo con una riflessione meno razionale e
più simbolica.
La bidimensionalità statica della scena dipinta sulla tela era incompatibile con la
tridimensionalità mobile del corpo umano. Al posto della pittura, abolite le luci di
ribalta che appiattivano distruggevano le forme umane, subentravano le
proiezioni luminose e lo spazio scenico praticabile. Purtroppo le idee di Appia
erano troppo avanzate per l’epoca e infatti i suoi progetti di messinscene furono
criticati e respinti dallo stesso Wagner.
Con il tempo l’espressione del corpo umano plastico e mobile dell’attore divenne
per Appia sempre più importnte, anche rispetto alla musica. Appia aveva intuito
che bisognava trovare una specie di ginnastica musicale che servisse da
intermediario tra l’espressione musicale e l’espressione gestuale, tra l’attore (col
suo corpo vivente) e la musica.
Una ginnastica che permetteva all’attore di un dramma musicale una scioltezza,
indipendente dal temperamento dell’individuo e dalle proporzioni degli esseri
umani. Essa permetteva al corpo vivente dell’attore, con il suo movimento, di
visualizzare e tradurre scenicamente nello spazio il ritmo e la durata musicale.
Appia individuava nella ginnastica ritmica il cardine del teatro dell’avvenire e nel
ritmo un fattore centrale per l’attivazione e il coinvolgimento del pubblico.
APPIA -> RIDURRE LA SCENOGRAFIA -> USO ESPRESSIVO DELLA LUCE -> CORPO
UMANO COME MEZZO ESPRESSIVO.

Edward Gordon Craig


e il Didone e Enea di Purcell:
Secondo Craig un regista può essere un drammaturgo, un compositore, un
architetto, ma è indispensabile che sia stato innanzitutto un attore. Inoltre bisogna
che sia disegnatore e che abbia il senso del teatro. Anche Craig come Appia non
muove i suoi primi passi come regista partendo da un testo letterario, ma da
un’opera musicale. La sua prima regia è la messinscena di Didone e Enea di
Purcell, compositore seicentesco. Didone e Enea era una composizione basata su
una struttura convenzionale in cui, a differenza, delle opere ottocentesche, ciò che
contava non era l’intrigo, ma la musica, la quale era ampiamente sufficiente e
parlava da sola. Craig invece propose di rappresentare quest’opera su un
palcoscenico con delle scene e di renderla il più possibile teatrale. Lo spazio che
Craig aveva a disposizione era una sala da concerto dotata di una scena
semicircolare, con un grande podio costituito da una piattaforma aggettante e
altre piattaforme complementari che si sollevavano verso il fondo. Egli con una
serie di catinelle e travi riuscì a trasformare la sala in un palcoscenico teatrale, più
largo che profondo, senza celetti e senza quinte, limitato ai lati da due tele sospese
perpendicolarmente, dello stesso colore del fondale. Inoltre aggiunse due
proiettori in fondo alla sala che illuminavano il volto degli attori passando
attraverso il pubblico. Gli interpreti (una sessantina circa) erano volutamente
dilettanti. Solo il tenore e il primo ruolo femminile erano dei professionisti. La
scelta degli attori/cantanti non di mestiere era dovuta alla mancanza di mezzi
economici ma anche a una ragione precisa: l’avversione di Craig nei confronti dello
star system. Cioè secondo lui gli attori dilettanti rispetto ad uno con maggiore
esperienza era più disponibile ad accettare il lavoro del regista.
Un’altra novità del regista era la cura dettagliata di ogni aspetto dello spettacolo.
Precisione nel metodo, nella chiarezza delle intenzioni, ma non nel particolare, nel
tratto. Alla definizione limitante del dettaglio Craig preferisce lo sfumato che crea
atmosfera, suggerisce il mistero, perché l’arte di Craig è un’arte della suggestione,
dell’evocazione, che restituisce libertà all’immaginazione del pubblico.
Egli fece grande uso della combinazione del chiaroscuro e del contrasto: verde,
porpora, blu, scarlatto. Craig era influenzato dal movimento simbolista, si rifaceva
a Turner e agli scopritori dell’arte giapponese, da cui trasse due elementi
essenziali: l’insistenza sulla linea obliqua e l’uso simbolico della luce. Il suo
obiettivo e quello dello scenografo in generale secondo lui non era quello di
riprodurre realisticamente l’ambiente, il luogo in cui si svolgeva l’azione, ma
creare l’atmosfera, nell’ideare un paesaggio volutamente irreale, ideale. La scena
non doveva più raccontare, descrivere, ma suggerire significati. Il suo scopo era
quello di trasportare lo spettatore al di là della realtà . Per Craig è fondamentale
l’uso della luce, l’uso simbolico del colore. Con Craig la luce cessa di essere uno
strumento tecnico per illuminare il viso dell’attore, diventa un elemento artistico,
espressivo, creativo. La materia e il colore non possono essere utilizzati come
mezzi decorativi, ma devono avere un valore e una funzione nel dramma. Come
per esempio nella messinscena di Amleto del 1911 dove Craig aveva raggruppato
tutta la corte sotto un manto di porpora del re Claudio per rappresentare la
sottomissione servile dei cortigiani. Tutto era in perfetta armonia (luci, colori,
scene e costumi). La realtà teatrale era per lui un insieme visivo e uditivo, ogni
elemento agiva sui sensi e sulla fantasia dello spettatore.
Screens: Nel 1907 Craig inizia a disegnare i primi screens, ovvero, pannelli
rettangolari snodabili in grado di assumere configurazioni e posizioni diverse in
relazione alle diverse situazioni del dramma, consentendo infinite possibilità di
movimento. Gli screens divennero l’emblema della scenografia simbolica di Craig.
Nello stesso anno pubblicò un saggio teorico al quale avrebbe legato gran parte
della sua fama: l’attore e la supermarionetta. In questo saggio egli spiega che
secondo lui l’attore deve privarsi dell’aspetto più effimero, ma deve essere algido,
freddo, privo di emozioni e capace di riprodurre sempre lo stesso, meccanico.

Appunti su Craig:
Craig caratterizzava i suoi allestimenti con il prepotente inserimento di
elementi tridimensionali, massicce presenze simboliche costituite da forme solide
elementari, tra le quali il movimento degli attori fosse plasticamente armonizzato.
Il suo teatro si rivolge all’emozione, non alla testa, la chiave sono le suggestioni.
Differenze: Mejerchol’d al contrario vuole incidere sul pensiero, sulla capacità
critica del pubblico. Concezione teatrale diversa da quella di Antoine.

Vsevolod Mejerchol’d:
La carriera di Mejerchol’d regista inizia con la scontentezza di Mejerchol’d
attore al Teatro d’Arte di Mosca. La scuola di Stanislavskij fu un’esperienza
fondamentale per la formazione non solo attorca ma anche regista di Mejerchol’d.
Egli aveva capito che l’attore era l’anima del teatro ed era incompatibile con il
naturalismo: ragionava in termini musicali, ritmici. Nel 1902 lasciò il Teatro d’Arte
e fondò una sua compagnia e cominciò a recitare in provincia, in cerca di nuove
strade espressive. Nel suo repertorio, oltre a Chekov etc., che allestì seguendo la
concezione realista, comparvero nuovi autori contemporanei più difficili come
Maeterlinck, che Mejerchol’d mise in scena cercando nuovi metodi non
naturalistici. L’esperienza in provincia che durò tre stagioni, si rivelò difficile. Egli
aveva bisogno di sperimentare e così convinse Stanislavskij ad aprire un
teatro/studio. Qui lavorò soprattutto sui testi di Maeterlinck e fece i primi
esperimenti di un teatro di stile, o come lui lo chiamava, di un teatro
convenzionale.
Mettendo in pratica un nuovo metodo di lavoro registico, Mejerchol’d lasciava
liberi gli attori di provare, di proporre, passando solo in seguito ad armonizzare in
scena le varie parti. Era convinto che il lavoro teatrale fosse un’opera collettiva e
che il compito del regista consistesse nell’equilibrare tutto ciò che gli altri creatori
avevano elaborato liberamente. Egli sperimentò anche una nuova maniera di
recitare. Chiedeva agli attori di scandire le parole freddamente, senza vibrazioni di
voce, facendole cadere come gocce in pozzo profondo. E, soprattutto, alla dizione,
andava integrata una recitazione plastica che non corrispondeva alle parole ma in
un certo senso le completava. Per lui il compito del regista non è quello di
illustrare un’opera letteraria ma di sentirne il ritmo interiore e saperlo restituire
non attraverso le parole ma tramite la plasticità corporea: la mimica, le pause, le
sospensioni, le espressioni, il gesto, i movimenti che mettono in luce ciò che il
testo non esprime con le parole.
La continua ricerca di questo ritmo d’insieme è l’elemento costante di Mejerchol’d.
Ma all’interno di questa visione si succedono nel suo lavoro diverse fasi
sperimentali. La prima nacque in opposizione evidente al naturalismo e fu, su
diretto influsso di Maeterlinck, la linea simbolista, la scena di stile. Invece di
profusione di dettagli, stilizzazione. Invece di suoni e rumori, musica.
Invece di luce da interni, effetti luminosi usati, come da Craig, al posto della
scenografia. La recitazione divenne allusiva, volutamente imprecisa. Poiché i
movimenti plastici dell’attore erano per Mejerchol’d il principale mezzo
espressivo della musica interiore dell’opera, ci voleva una scena che consentisse di
concentrare tutta l’attenzione degli spettatori sui movimenti degli attori.
Mejerchol’d abbandonò l’uso dei modellini e dispose le figure sulla scena come
negli affreschi e nei bassorilievi. Recitando testi di Maeterlinck e Ibsen, utilizzando
uno spazio scenico compreso in un’esile striscia, sull’orlo della ribalta o addossata
al fondale, davanti a dei grigi drappeggi che nascondevano i muri del palcoscenico,
gli attori si muovevano di profilo tenendo un contegno statuario, passando di posa
in posa, con gesti solenni e liturgici, impassibili, come modelli. Una recitazione
flemmatica, priva di fuoco. Egli sceglieva i costumi in modo che le figure
sembrassero ricamate o dipinte sopra i pannelli, compenetrati alla superficie
cromatica come nei quadri di Klimt. Tutte cose che estrapolò da Maeterlinck.

Hedda Gabler:
Il 10 novembre 1906 andò in scena Hedda Gabler di Ibsen. Ignorando
volutamente le didascalie, depurando il testo da ogni elemento concreto, egli
rinunciò a rappresentare nei dettagli il ricco ambiente norvegese descritto
dall’autore e creò una scena impressionista, che dava l’idea di una fredda ricchezza
in un clima autunnale, un fondale rappresentante una baia, e all’interno mobili
bianchi, tappezzerie blu e oro, personaggi vestiti con costumi dai colori simbolici,
come macchie variopinte dai contorni sommari. Gli attori entravano e uscivano
dalle quinte laterali con calcolata economia dei gesti, movimenti ritmici, lenti,
come passi di danza. La loro mimica era semplificata: fremiti, sorrisi, sguardi
prolungati ed intensi, lunghi silenzi. Tendendo a creare così una sinfonia, egli
subordinava gli attori al ritmo d’insieme della sua concezione pittorica.

Mejerchol’d andò avanti alla ricerca di nuove strade. Nell’intenzione di abolire la


ribalta, eliminare il sipario e portare l’azione in mezzo al pubblico, aveva
riscoperto il proscenio che il naturalismo aveva abolito. Si era così accorto che la
prossimità dello spettatore, come avveniva su tutte le scene popolari e tradizionali
d’un tempo, non tollerava un attore dal pathos affettato e privo di scioltezza
corporea.
Nello stesso tempo egli capì che la stilizzazione con il suo fare sintetico,
impoveriva la pienezza della vita mostrandone un unico aspetto. Abbandonò
progressivamente i semitoni e la gestualità statuaria della fase simbolista e
riscoprì il teatro teatrale delle tradizioni classiche, popolari, arcaiche e primitive
nella quale non c’era l’aspirazione all’illusione, l’attore era solo e sapeva di essere
solo con la sua voce, i suoi gesti e la sua mimica nel dover esprimere il pensiero del
drammaturgo. Alla marionetta impersonale e statica del mistero subentrò la
marionetta viva e mobile del baraccone.

Don Giovanni:
Lo spettacolo culmine di questa fase fu la messinscena del Don Giovanni di
Moliere. Nel Don Giovanni, Mejerchol’d più che sul testo si concentrò sullo stile, la
teatralità del tempo di Moliere, ricreandoli liberamente sul palcoscenico e nella
sala. Mostrò al pubblico l’eleganza e il lusso della corte di Luigi XIV, (come
nell’opera di Moliere) e nello stesso tempo la sua libertà inventiva. Eliminando il
sipario, la scena era visibile al pubblico. la buca del suggeritore era scomparsa,
sostituita da due piccole nicchie ai due lati della scena, separate dal palcoscenico
da eleganti paraventi. Due suggeritori in parrucca e costumi d’epoca verdi, con due
grandi pagine sotto il braccio, vi prendevano posto alla vista del pubblico.

Mistero Buffo:
Nel novembre 1918, al primo anniversario della Rivoluzione d’ottobre,
Mejerchol’d mise in scena Mistero Buffo di Majakovskij, che come lui aveva
aderito immediatamente ed incondizionatamente alla Rivoluzione. Parodia del
diluvio universale biblico, la pièce voleva rappresentare il grande binomio della
Rivoluzione, nella quale si affrontano il mistero proletario e il buffo della
borghesia. Il Mistero è ciò che la rivoluzione ha di grande, il Buffo ciò che ha di
ridicolo. Il luogo scenico dello spettacolo di Mejerchol’d era il globo terrestre
raffigurato dalla calotta di un enorme emisfero dipinto di blu che occupava tutto il
palcoscenico, e sulla quale si issavano faticosamente gli umani scampati al
disastro: sette coppie di Puri (borghesi) e sette coppie di Impuri (i proletari).
Questi ultimi costruivano un’arca, che Mejerchol’d raffigurò con un insieme di cubi
con quale raggiungevano la terra promessa dove non c’erano più padroni e gli
oggetti inanimati, creazione dell’uomo, erano benevoli. Era il paradiso proletario.
Macchine, elettricità , collettivismo. Il ritmo era rapido e la satira costantemente
sottolineata dall’eccentricità .

Il Magnifico Cornuto:
Mejerchol’d nel Il Magnifico Cornuto (1923), che mise in scena con un
centinaio di allievi, liberatosi della scatola scenica, del soffitto e della scenografia
dei teatri all’italiana, Mejerchol’d fece recitare gli attori sullo sfondo di mattoni
nudi del teatro, su di una leggera costruzione stilizzata, concepita in modo tale che
ogni suo elemento veniva costantemente proiettato nella recitazione degli attori.
La scenografia era una specie di macchina che si animava durante la messinscena.
Incentrato sul tema della gelosia d’amore, Il magnifico cornuto era un testo
lontano dai temi politici cari alla Rivoluzione. Mejerchol’d aveva scelto questa
pièce perché era affascinato dalla dimostrazione paradossale che si faceva della
logica della gelosia e voleva portarla a un grado di assurdità comica facendone un
esercizio per gli attori. Un’occasione per fisicizzare l’espressione delle emozioni.
Gli attori presentavano il proprio personaggio parodiandolo, interpretavano il loro
ruolo e nello stesso tempo ne prendevano le distanze, preludendo lo straniamento
brechtiano. Rinunciando ad ogni principio estetico di costume, gli attori vestivano
un’uniforme da lavoro alla quale si aggiungevano pochi accessori identificativi: dei
pompon rossi, che ricordavano il vestito da clown, intorno al collo di Bruno, il
protagonista maschile. Una cappa morbida di carta oleata per Stella, la
protagonista femminile. Bastone e monocolo per il personaggio del Conte. Alcuni
accessori come lo scrittoio dello scrivano, erano di dimensioni volutamente
esagerate. Altre erano inesistenti e venivano sostituiti dalla pantomima. Con il suo
stile volutamente non realista, la messinscena aveva un tono di infantile innocenza
che azzerava il contenuto erotico del testo.
L’impatto emotivo sul pubblico fu enorme, soprattutto a causa della recitazione.
Per formare i suoi attori, prepararli ai movimenti ritmici, non naturalistici,
Mejerchol’d aveva infatti escogitato la biomeccanica: una tecnica incentrata su
esercizi muscolari che consisteva nella trasformazione ginnica dei dati psichici.
Basandosi su una serie di fonti che andavano dalla ginnastica al circo, dalla boxe al
musical, la biomeccanica mirava ad insegnare all’attore tutte le attitudini basilari
per muoversi con agilità sulla scena, proponendosi di suscitare una grande
duttilità di riflessi. Ciò li avrebbe aiutati a tradurre in atti fisici o in giochi di agilità ,
i sentimenti del personaggio.

Il Revisore:
Nella seconda metà degli anni venti inizia per Mejerchol’d una nuova fase.
Spirito indiavolato dei racconti di Hoffmann, in cui i fantasmi bevono dei lassativi.
Illusionismo e magia. È la fase del grottesco, ultima tappa nella via della
stilizzazione, che mette fine all’analisi e alla schematizzazione dei precedenti
spettacoli. Il suo metodo ora è la sintesi. Eliminando i dettagli, mescolando gli
opposti accentuando le contraddizioni, il grottesco ricrea la pienezza della vita. Il
capolavoro di questa fase è Il Revisore di Gogol, andato in scena il 19 dicembre
1926. La messinscena di quest’opera faceva appello a tutte le sue ricerche: sul
gesto, sulla pantomima, sul ruolo della parola e della musica. Mejerchol’d aveva
adottato come punto di vista il grottesco, uno stile scenico che giocava per acute
contrapposizioni e costringeva lo spettatore a sdoppiarsi contemplando la scena.
Con Il Revisore egli parlava della Russia, di tutta la Russia di Nicola I. Rivelando
con spietato sarcasmo il senso simbolico nei temi sociali, Mejerchol’d con la sua
messinscena dava al testo una pungente attualità . Il Revisore era dunque, anche da
questo punto di vista, uno spettacolo di sintesi.
Egli introdusse anche molti nuovi personaggi supplementari che servivano a
spezzare i monologhi in dialoghi, eseguivano intermezzi pantomimici
commentando l’azione col gesto, o incarnavano altri personaggi presi dal mondo
dell’autore, che duplicavano i temi dei personaggi del revisore diventando dei
prolungamenti, degli ‘echi scenici’ dei personaggi principali.
Nel suo adattamento la commedia era suddivisa non in cinque atti ma in 15
episodi. Questa struttura, corrispondeva meglio al modo di percezione dello
spettatore moderno, permetteva di mettere l’accento non sul testo letterario ma
sull’azione teatrale.
La scena aveva come fondale una parete semicircolare con 15 porte a due battenti
di lucido compensato rosso, imitazione del mogano di moda nell’epoca di Nicola I.
A destra e a sinistra due pannelli simmetrici prolungavano il dispositivo scenico
verso la sala, riducendo la profondità della scena in modo da concentrare l’azione
sul proscenio. Le tre porte di centro si aprivano come un solo portone lasciando
passare delle piattaforme che scorrevano su binari di legno. Le piattaforme erano
arredate come carri da carnevale, con ornamenti, mobilio, e gli interpreti in pose
pietrificate. L’azione era compatta, concentrata nei limiti di un piccolo spazio.
L’attore doveva essere cosciente di ognuno dei suoi movimenti iscritto in questo
spazio misurato con molta esattezza e nello stesso tempo restare attento al ritmo
generale per non spezzare l’unità musicale e scenica. L’azione scenica era costruita
da due assi portanti. Sul proscenio, nelle scene d’insieme, Mejerchol’d illustrò la
commedia del potere. Gli altri episodi, montati su praticabili mobili in primo piano,
interpretavano la pièce su un livello più personale e più umano: mostravano caos.
La slabbratura della società e della famiglia. Gli oggetti e i mobili in scena
servivano da supporto per l’attore e insieme avevano una funzione simbolica.
Erano compatti, ingombranti, le persone in confronto apparivano esili, minute, e
l’insieme suggeriva un’atmosfera angusta.
Recitazione: gli attori di Mejerchol’d recitano in modo sinfonico, diverso dall’
egocentrismo narcisistico dell’attore ottocentesco. Bisogna recitare come in una
orchestra. La messinscena era organizzata secondo un principio musicale. Quando
si dice che questo spettacolo è concepito come una sinfonia, bisogna prendere alla
lettera questa nozione: non si tratta né di un accompagnamento e né di un
montaggio musicale, ma nel senso che la musica non solo regola, ma satura la
parola, le intonazioni, il timbro delle battute; essa presiede al taglio delle battute -
Mejerchol’d ha spezzettato i monologhi in dialoghi, che diventano melodie, trattate
in variazioni o in successioni contrastate. Le battute vanno da un pianissimo a un
forte fragoroso. Presa l’abitudine a misurare il tempo, l’attore poteva anche fare a
meno del sottofondo musicale.
La scena finale de Il Revisore chiudeva lo spettacolo con un effetto potente,
ovvero, il palcoscenico era vuoto. Aveva tradotto il grottesco drammatico di Gogol,
in grottesco scenico.

Appunti su Mejerchol’d:
Parlando del teatro naturalista, da Antoine a Stanislavskij, abbiamo sempre
sottolineato l’influenza che la compagnia dei Meininger ebbe sul lavoro di questi
uomini di teatro. Mejerchol’d sottolinea invece le conseguenze deleterie
dell’entusiasmo per i Meininger.
C’è un aspetto molto interessante nella critica che Mejerchol’d muove contro il
naturalismo: riteneva negativo il fatto che il naturalismo precludesse la
partecipazione attiva dello spettatore. La riproduzione fedele e ossessiva del reale
spinge a riempire la scena di dettagli scenografici e a rendere una realtà chiusa in
sé stessa, ben determinata e finita, viene meno il mistero perché si dà tutto allo
spettatore e quindi non gli da la possibilità di poter viaggiare con la fantasia.
Mejerchol’d richiama invece la necessità dell’indefinito che spinge lo spettatore a
completare ciò che vede con la propria fantasia.
Mejerchol’d incolpa il naturalismo di aver paura del mistero, di tendere a mostrare
tutto, a mostrare troppo, non tenendo conto del principio che in arte non bisogna
introdurre nulla di superfluo.
Che cosa si intende poi per “teatro della convenzione”? Come è noto il teatro è
colmo di convenzioni. Una convenzione è un patto fatto con lo spettatore: gli si
chiede di accettare alcune regole. È una convenzione per esempio che se un attore
dice una battuta tra sé e sé, gli altri personaggi non sentono ciò che dice, ma gli
attori si. Il pubblico diciamo che fa finta che non lo sentano. Il fatto stesso di essere
in un teatro è una convenzione: il pubblico deve di volta in volta far finta di
trovarsi in un altro luogo. Il teatro naturalista tende a nascondere le convenzioni, a
far finta che non esistano, a illudere lo spettatore che il teatro non ci sia, che quello
che si sta svolgendo sia un pezzo di vita vera che accade lì e in quel preciso istante.
Il “teatro della convenzione” è invece un teatro che si libera del bisogno di dover
nascondere, si semplifica, accetta e sfrutta l’artificialità dell’evento teatrale. Lo
spettatore non deve dimenticare di trovarsi di fronte ad un attore che recita.
L’attore viene liberato dalla scenografia e da ogni oggetto superfluo e la
messinscena è così semplice da poter scendere in strada. Il teatro della
convenzione è libero da ogni bisogno di illudere uno spettatore che viene invece
chiamato a svolgere un ruolo attivo.

Caratteristiche del teatro simbolista di Mejerchol’d:


Le caratteristiche fondamentali del lavoro di Mejerchol’d si possono cosi
schematizzare:
- Stilizzazione: la messinscena deve sintetizzare l’atmosfera, l’essenza di un
periodo. Si usa quindi un fondale dipinto, pochissimi oggetti di scena e una
recitazione che si libera di ogni psicologismo per divenire puro ritmo.
- Immobilità: Mejerchol’d auspica un teatro statico che “non si rivela nel
massimo sviluppo della azione drammatica e nelle grida strazianti ma, al
contrario, nella forma più tranquilla, statica, immobile, e nella parola
pronunciata a bassa voce”. Movimenti limitati, quindi, che rifiutano il
superfluo e si affidano alle pause, ai silenzi, al non detto.
- Bidimensionalità: il palcoscenico è poco profondo, ridotto ad una striscia
di proscenio. Gli attori, spogli della loro tridimensionalità , sono ridotti a
bassorilievi e agiscono come segni grafici sul fondale dipinto. Perdono di
consistenza, quindi di materialità .
- Movimento come ritmo: i movimenti e i gesti degli attori non devono
rappresentare stati d’animo o psicologici del personaggio. Il movimento per
Mejerchol’d è ritmo, come nella danza. Il gesto viene poi reso eloquente e
estremamente significativo.
Pur mantenendo la stilizzazione, a partire dagli inizi del 1907, Mejerchol’d
abbandona la bidimensionalità.
- Biomeccanica: ovvero lavoro sull’attore, non lavora sullo psicologismo, ma
prepara l’attore per interpretare la parte, per costruire un personaggio
bisogna lavorare sul ritmo.
Lavora sulla meccanica del corpo che deve sviluppare anche un senso
dell’immaginazione.

Quello di Mejerchol’d è un teatro di agitazione e di propaganda, l’intento è quello


di svegliare la coscienza critica del pubblico senza creare incantamento,
assuefazione e passivizzazione.
Vi sono cinque fasi:
- Simbolismo: Eliminare il gesto quotidiano, si muove come un geroglifico (si
spostano in modo orizzontale e mai a 360°), ieratico, movimento astratto,
come delle pietre che cadono nello stagno. Disgregare il corpo: eliminare
proprio la teatralità che comprende invece azione. Disgregazione di tutto ciò
che è ordinario, e modulare la voce mantenendo sempre la stessa pressione.
- Teatro Teatrale: Studia soprattutto la commedia dell’arte e ripristina il
movimento, la fisicità e studia le forme archetipiche del teatro.
Esasperazione del movimento.
- Cubismo: Teatro politico, e il suo obiettivo è sempre lo stesso ma si
aggiunge l’impegno politico (cfr. Mistero Buffo).
- Costruttivismo: Politicamente uguale al cubismo, il testo diventa un
pretesto per svegliare la coscienza politica, prevede una scenografia
dinamica e non bella (cfr. Il Magnifico Cornuto).
- Grottesco: Lettore dei segni, c’è sempre il movimento, la biomeccanica.
Tende a lavorare molto in proscenio per far si che l’attore sia visibile.
L’attore deve essere molto preparato fisicamente.
Ricerca di contrasti forti, ovvero il grottesco -> accostamento drammatico e
comico. Scenograficamente struttura semicircolare con delle porte, per Il
revisore di Gogol’ -> distorsione dell’immagine per creare il grottesco.

Antonin Artaud
Il teatro e la crudeltà:
C’è bisogno di un teatro che ci svegli, nervi e cuore. Il cinema, che ci bombarda
di immagini riflesse e, filtrato dalla macchina, non può più raggiungere la nostra
sensibilità , ci tiene da dieci anni in un torpore inefficace, dove sembrano
sprofondare tutte le nostre facoltà . Tutto ciò che agisce è crudeltà . Partendo da
questa idea di azione estrema, spinta a tutte le conseguenze, il teatro deve
rinnovarsi. Profondamente convinto che il pubblico pensa anzitutto con i sensi e
che è assurdo, come fa il consueto teatro psicologico, rivolgersi anzitutto al suo
raziocinio, il Teatro della Crudeltà vuole ricorrere allo spettacolo di massa; cercare
nell’agitazione di masse numerose, ma convulse e scaraventate l’una contro l’altra.
Il punto di partenza è l’esigenza di riscoprire la necessità del teatro, ovvero ciò che
rimane come specifica ragion d’essere di questa arte nell’epoca delle
comunicazioni di massa e della riproducibilità tecnica del prodotto artistico.
Artaud ritrova tutto questo nel rapporto tra attore e pubblico. L’attore è il corpo
vivo in azione, e a lui è affidata la vera essenza e l’unicità dell’atto teatrale; lo
spettatore, a sua volta, deve sperimentare un coinvolgimento totale e viscerale
nello spettacolo rappresentato. È il progetto del Teatro della Crudeltà .
L’intuizione di fondo, che avrebbe incontrato grossa fortuna nei decenni a venire,
è l’esaltazione del significato catartico del teatro, e della violenza che nello
spettacolo deve essere rappresentata per purificare la società mediante la
liberazione delle forze oscure e deteriori degli individui, che saranno elaborate e
sconfitte attraverso la rappresentazione.

Erwin Piscator:
Per molto tempo il ruolo di Piscator è stato circoscritto a quello del teorico
del Teatro politico, ma oggi Piscator ci interessa non tanto per l’aspetto ideologico,
che è il fine del suo teatro, ma quanto per l’aspetto tecnologico e multimediale che
è il mezzo del suo teatro.
Avendo intuito il rapporto diretto che intercorreva tra massa e cultura delle
immagini, egli ha individuato una nuova forma di teatro multimediale che
funzionava per le masse proletarie di ieri, ma continua a funzionare per la società
di massa di oggi.
Come già avevano fatto Appia, Craig, anche Piscator, ha colto il primato della
visione rispetto alla parola. E così ha creato un nuovo tipo di comunicazione
spettacolare, che ovviamente all’epoca fece scandalo. Inserendo il cinema nel
teatro, ultimando il film per rinnovare la scena, ha dato vita a una nuova
drammaturgia, non più incentrata sulla parola recitata, a un testo-ottico il cui
autore non era più un letterato, ma il regista. Così Piscator è stato il primo a usare
il cinema nel teatro in modo creativo. Tramite il film documentario ha allargato lo
spazio ristretto della scatola scenica, mettendo in contatto la finzione della
vicenda teatrale con le vicende reali del mondo, e tramite la tecnica del collage e
del montaggio ha impresso alla rappresentazione teatrale un andamento non più
naturalistico, logico, ma ritmico, rapido, telegrafico, fatto di alternanze e contrasti.
Tra il 1918-1919 egli fa due esperienze fondamentali della sua vita: fa amicizia con
gli inventori del fotomontaggio, ovvero George Grosz e John Heartfield, insieme ai
quali prende parte alle serate del dada, e si iscrive al partito comunista. Sarà
proprio l’intreccio di queste due componenti, il marxismo e il dada, la volontà
politica e l’esperienza di un linguaggio alternativo, il tratto peculiare della
proposta scenica di Piscator. Dal 1919 al 1921 Piscator dà vita al Proletarische
Theater (Teatro Proletario di Berlino) nei locali dei quartieri operai di Berlino,
trasformatosi in teatri provvisori, con attori professionisti e in collaborazione di
Heartfield come scenografo. L’intento dichiarato era quello di accantonare l’arte e
l’estetica, e di mettere il teatro al servizio della propaganda politica, facendone
uno strumento della lotta di classe.

Opà, noi viviamo!:


Lo spettacolo fu inaugurato il 3 settembre 1927. Lo spunto era tratto da un
omonimo testo di Ernst Toller. Piscator tramutò il testo teatrale di Toller in una
specie di sceneggiatura. In occasione della messinscena di Oplà , noi viviamo!
Piscator sperimentò per la prima volta un nuovo metodo di lavoro. Creò un
enorme libro di regia, redatto prima di iniziare le prove, in cui ad ogni pagina del
testo corrispondeva un grande foglio suddiviso in sei colonne con tute le
indicazioni relative alla messinscena: una colonna per l’atmosfera, una per gli
attori, una per le proiezioni e il film, una per la musica e i rumori, e una per le luci.
Il lavoro del regista era il frutto del montaggio simultaneo fra le diverse
componenti che attraverso un’elaborazione progressiva e la collaborazione tra il
regista, lo scenografo, gli attori e i tecnici, si incastravano tra loro come i diversi
pezzi di un ingranaggio.
La scenografia di Oplà , noi viviamo! era un impianto costruttivista. Consisteva in
un’impalcatura di ferro, in tubi metallici per il gas, divisa verticalmente in tre parti.
Nella parte centrale alta tre metri, un pannello mobile, se necessario, poteva
arretrare e diventare la parete di fondo di un grande spazio chiuso nel quale si
svolgeva l’azione degli attori: una cella della prigione, il vestibolo del ministero,
l’atrio di un hotel. In altri casi il pannello poteva servire come schermo
cinematografico. Le altre due parti, laterali, erano tagliate orizzontalmente in
modo da formare tre piani per parte, sei piccoli spazi cubici. Nel suo insieme la
scena appariva così suddivisa in sette parti, una centrale e sei laterali. Ognuna di
esse poteva essere utilizzata come piccolo palcoscenico autonomo, oppure,
coperta da un telo bianco, come schermo di proiezione. Il risultato era un
dispositivo a scacchiera, che consentiva azioni simultanee e innumerevoli
combinazioni. Posto su rotaie o su una scena girevole che gli permetta di ruotare
con tutto l’impianto delle luci e degli schermi, l’insieme poteva presentarsi agli
spettatori da prospettive diverse. Piscator aveva ricreato a teatro i metodi del
cinema: dissolvenza e montaggio.
Ma se la grande novità che viene riconosciuta a Piscatori è l’invenzione del film nel
teatro, l’elemento più interessante del suo lavoro è il suo metodo, il modo in cui
egli ha attuato questa contaminazione, utilizzando il collage come Heartfield nei
suoi fotomontaggi e il montaggio come Ejzenstejn nei suoi film. Negli spettacoli di
Piscator il montaggio di linguaggi diversi avveniva senza soluzioni di continuità ,
senza pause, producendo quel ritmo incalzante che era la caratteristica del suo
teatro, la cosa che più veniva percepita dal pubblico. L’elemento fondamentale era
la dinamica, il movimento. Un movimento che conteneva un messaggio, alludendo
all’incredibile processo di trasformazione subìto in poco tempo dal mondo.

Appunti su Piscator:
È evidente anche l’influenza dei suoi metodi di lavoro sul Living Theatre. Tra
loro si riscontrano non solo accostamenti formali evidenti, come la struttura
costruttivista di Frankenstein del Living, che riprende in modo chiaro quella di
Oplà , noi viviamo!, ma soprattutto scelte sostanziali, atteggiamenti analoghi nei
confronti del teatro e del mondo. La rottura della tradizione e il bisogno di creare
nuove forme, la frantumazione della scatola ottica e la scelta di usare la totalità
dello spazio scenico, l’attivazione del pubblico, la volontà di integrare gli spettatori
nell’attività teatrale. La creazione collettiva, il gruppo come insieme di persone
pensanti, l’impegno dell’attore cui si chiede la visione complessiva non solo del
ruolo e del testo, ma del contesto e del mondo. Tutte queste cose passarono da
Piscator al Living Theatre.
Utilizzò nelle sue messe in scena macchinari teatrali e costruzioni sceniche
complesse.
Portò nel teatro una pratica politica e rivoluzionaria rielaborando i testi in senso
marxista e avvalendosi nella messinscena delle più moderne novità scenotecniche
(la piattaforma rotante, il tapis roulant, la scena multipla, ecc.) e del cinema,
inserendo nell’azione filmati e proiezioni.
Ma fu l’impegno politico che lo portò a realizzare alcune delle sue performance più
significative come Oplà , noi viviamo! Piscator è convinto di poter mettere in scena
con la figura del protagonista la debolezza del proletariato che manca di una
coscienza di classe in un’epoca di repressione. La scena è disposta su diversi livelli
per simboleggiare l’ordine sociale. Uno schermo cinematografico è collocato in
modo tale da permettere una fusione tra film e scena.
Il termine ‘epico’ è stato anticipato già da Piscator, ma il suo teatro più che epico è
da definirsi un teatro oratorio, cioè che tende all’oratoria politica (e c’è anche una
parte emotiva perché risveglia la coscienza dello spettatore).
Egli analizza che nella società della tv l’immagine diventa più forte rispetto alla
parola ed è per questo che introduce un elemento tecnologico e multimediale nel
teatro, ovvero, il filmato.
Elemento straniante: il video, in quanto lo spettatore trova un distacco. È un
elemento depistante, non c’è il principio d’incantamento.

Bertolt Brecht:
Con Brecht nasce il teatro politico chiamato anche teatro epico. “Epico” in
senso sostanzialmente tecnico poiché si rifà alla distinzione fissata da Aristotele
nella Poetica fra epico e drammatico. Nel poema epico c’è un narratore che
racconta, che guida il filo dell’intreccio, rivolgendosi al lettore, mediando fra i
personaggi e il lettore. Nella rappresentazione teatrale invece i personaggi si
presentano da soli, direttamente in faccia allo spettatore, e non hanno bisogno del
tramite di un narratore. Il teatro epico presuppone una sorta di io epico, che è al
centro dello spettacolo, che organizza lo spettacolo. Il regista Piscator, cui si deve il
primo tentativo di teatro politico - teatro oratorio. Ma se Piscator anticipa di
qualche anno Brecht su questo terreno di un rinnovamento radicale della vecchia
struttura teatrale, è indubbio che Brecht insiste maggiormente, e con più coerente
radicalità , sul fatto che il teatro epico debba combattere l’aspetto psicologico -
emozionale della comunicazione teatrale. La rivoluzione non è il portato di una
tensione sentimentale ma è progetto logico intellettualmente preciso e
determinato. Quello di Piscator più che teatro epico è un teatro oratorio, cioè che
tende all’oratoria politica, all’enfasi che trascina lo spettatore sull’empito del
coinvolgimento emotivo.
Brecht si oppone all’immedesimazione, ma non polemizza Stanislavskij perché
non conosce ancora il suo sistema. Se la prende piuttosto con Aristotele,
responsabile di un processo di immedesimazione dello spettatore nel personaggio
che presuppone a sua volta l’immedesimazione dell’attore nel personaggio. Al
contrario se l’interprete riesce a conservare un margine di distacco rispetto al
proprio personaggio, allora potrà straniare lo spettatore, renderlo cioè estraneo
rispetto alla rappresentazione. Il pubblico deve allontanare l’oggetto della
fruizione. Occorre che lo spettatore resti freddo, cogliendo nell’accadimento
teatrale l’occasione di una sua crescita essenzialmente intellettuale. Egli recupera
la funzione pedagogica e didascalica del teatro. Solo con la razionalità lo spettatore
può comprendere la condizione umana come trasformabile e trasformare, ma da
trasformare solo e soltanto attraverso la lotta politica. Brecht approfondisce e
articola la riflessione sulla nuova tecnica dello straniamento lungo l’intero periodo
della propria vita: dagli anni dell’esilio, durante il nazismo, al dopoguerra, quando
torna a Berlino est, a capo di un suo teatro.
Brecht sistematizza la strumentazione già utilizzata da Piscator, che vale a
straniare la rappresentazione, appunto per riflettere criticamente su di essa (titoli
e cartelli proiettati, con funzione di anticipazione delle scene, canzoni che
spezzano il recitativo e commentano i personaggi e le loro vicende etc.).

Madre Coraggio e i suoi figli - 1939:


Una cronaca in dodici quadri che parla della guerra dei 30 anni. Madre
Coraggio è una madre indegna perché sempre assente, e sempre assente perché
sempre impegnata nei suoi traffici. Tra i suoi figli e i suoi commerci, opta per la
seconda, sia pure con sofferenza.
Brecht pretende che il pubblico comprenda il carattere puramente mercantile
della guerra, frutto naturale del sistema capitalistico, e che giudichi il fatto che
Madre Coraggio creda nella guerra nonostante le porti via i tre figli, sottolineando
il cinismo e la ferocia della protagonista. Rinuncia a passionalità , sentimenti,
emotività , l’attore deve essere celebrale rispetto a Piscator. La madre non è la
guerra, ma è stata ridotta così dalla guerra stessa.
Inoltre Brecht capisce che un altro elemento di straniamento è il ritmo, da cui l’uso
di inserti cantati, accompagnato dall’anticipazione su pannelli di quanto accadrà
nell’atto prossimo, ha come unico obbiettivo quello di fare dello spettatore un
giudice super partes e distaccato rispetto alle vicissitudini dei personaggi.
Nonostante la protagonista Anna Fierling fosse, nelle intenzioni dell’autore, un
personaggio negativo da cui prendere le distanze, il pubblico la vedeva come
un’eroina dall’istinto vitale e materno. Questo portò Brecht a introdurre alcune
modifiche nel testo, ma soprattutto a insistere sulla necessità di recitare il ruolo
con il massimo distacco.

Opera da tre soldi - 1928:


Quest’opera fu accolta con entusiasmo sin da suo debutto a Berlino.
Ambientata nel contesto della malavita londinese, Opera da tre soldi è un violento
attacco socialista alla società capitalista che viene ritratta come una banda di
delinquenti, ruffiani e mercenari. Critica feroce al mondo borghese di cui viene fatta
parodia con un umorismo estremamente cinico.
L'autore mise in scena il mondo del sottoproletariato, dei banditi e dei derelitti,
con intenzione provocatoria nei riguardi del pubblico borghese, che avrebbe
dovuto scandalizzarsi di fronte all'ambiente, ai personaggi e al loro linguaggio.
Il pubblico ideale per Brecht doveva essere il proletariato, cioè gli operai
dell'industria. Infatti il titolo indicava provocatoriamente il prezzo del biglietto
d'entrata, ma paradossalmente gli operai disertarono le rappresentazioni, mentre
il pubblico borghese invece ne decretò il successo, con sorpresa e disappunto
dell'autore.
Lo spettacolo alterna momenti di prosa a momenti musicali e cantati. In molti
punti l'opera si appella direttamente al pubblico, rompendo la "quarta parete" e
ricercando un effetto che Brecht chiama di straniamento, contrapposto
all'immedesimazione che al tempo di Brecht era lo standard dominante nella
messinscena; per esempio vengono proiettate delle frasi sul fondale e i personaggi
a volte portano in scena dei cartelli. L'opera pone rilevanti questioni politiche e
sociali, con intento provocatorio, e punta a sfidare le nozioni di ciò che all'epoca
erano considerati "teatro" e "decenza".

Appunti su Brecht:
Attraversa tre fasi:
- Espressionismo 1922-27
- Drammi didattici 1929-32 3
- Esilio 1933-47
Bisogna parlare al pubblico in maniera didascalica. Il concetto di ‘epico’ lo riprende
da Aristotele sottolineando la differenza con il concetto di dramma.
Dichiarare tutto: luci in sala, orchestra a vista, tutto con il fine dello straniamento.
Scene: molto concettuali.
Costumi: uso di mascheroni, espressionisti.
Lo spettatore è invitato a riflettere, deve ragionare, non deve essere assuefatto e
nessun elemento di psicologismo, non si deve immedesimare nel personaggio.
L’attore deve essere distante dal personaggio, come se lo raccontasse in terza
persona così da arrivare allo straniamento.

Giorgio Strehler:
La cosiddetta “stellprobe” (arrangiamento dei movimenti, lett. “giro di
prova”) che ovunque normalmente inaugura il periodo delle prove, non esiste più
per Strehler. Invece egli riunisce intorno a sé per otto, dieci e anche quindici giorni
i suoi attori, racconta perché ha scelto una data opera, espone i risultati dei suoi
lunghi studi preliminari e li mette a conoscenza delle sue conclusioni, legge con
loro l’opera, gliela fa leggere e rileggere, la discute con loro. Quando iniziano le
prove in scena, l’attore in qualche modo si è già familiarizzato con il contesto
spirituale e storico in cui deve inserirsi, e il testo è penetrato, quasi senza che se ne
accorga, nel suo centro mnemotecnico. Così egli può esprimersi con maggiore
libertà di movimento, può provare con più obiettività lo svolgimento tecnico, e
sperimentare senza sentirti inceppati i singoli particolari creativi. Egli ascolta le
proposte degli attori per la soluzione di un determinato problema, fa proposte egli
stesso; e così si trova quella più facilmente realizzabile. Anche durante le prove
continua la sua lotta per l’identificazione con l’autore, che era già incominciata
durante i solitari studi preliminari, perché egli non giudica mai il proprio schema
più importante di quello dell’autore e cerca incessantemente di spianare ai suoi
attori la via per comprenderne il contenuto e lo stile, senza tuttavia violentare
l’individualità dell’interprete.
È stato principalmente un autodidatta, ma ha avuto tre “maestri” che lo hanno
influenzato:
- Il primo è Jacques Copeau: la visione severa, giansenista, morale del teatro. Il
sentimento dell’unità del teatro, unità tra parola scritta e rappresentazione, attori
e scenografi e musicisti e autori, un tutto unico, fino all’ultimo macchinista. Il
teatro come ‘responsabilità ’ morale, come amore accanito ed esclusivo. Un senso
impegnato e religioso della teatralità .
- Poi Louis Jouvet. A lui deve il coraggio di avere accettato il teatro, anche nelle
sue miserie, come un lavoro quotidiano e non come un’arte divina. Ha imparato da
lui l’amore per il mestiere in quanto mestiere e l’umile orgoglio nel farlo, e farlo
bene. Il teatro, dunque, come lavoro umano. Deve a lui la presenza critica nel
mettere in scena un testo, intesa non solo come studio filologico critico culturale
dello stesso, ma come comprensione sensibile, che è anche questo uno dei modi di
far critica.
- Ed infine Bertolt Brecht, che rappresenta il punto di incontro di tutte queste
componenti, la somma. Quello che Brecht ha passato a Strehler è un teatro umano,
ricco, tutto teatro ma che non sia solo fine a se stesso e che non sia solo teatro. Un
teatro fatto per gli uomini per divertirli ma anche per aiutarli a trasformarsi e
trasformare il mondo in un mondo migliore, un mondo per l’uomo. Non un teatro
fuori dalla storia, fuori dal tempo, non l’eterno teatro di sempre, non la storia
contro il teatro, ma storia e teatro e mondo e vita insieme, in un rapporto
dialettico, continuo, difficile, talvolta penoso ma sempre attivo, sempre attento al
divenire intorno a noi.

Secondo Strehler il regista deve essere soprattutto paziente e umano, deve capire,
aiutare, chiarire, rendere armonico o spesso far scoppiare le contraddizioni, con
gli attori e degli attori fra loro. Egli si sente una guida nel senso brechtiano del
termine.

Il giardino dei ciliegi:


L’idea di Cechov di far svolgere il primo e ultimo atto del Giardino nella
‘camera dei bambini’ non è casuale. Né lo è l’armadio, in quella stanza. È strano che
nessuno abbia mai dato l’importanza che merita a questa evidente figura/simbolo:
l’armadio di cent’anni. L’idea dell’armadio, oggetto reale, plastico ed anche
simbolo, integra perfettamente l’idea della ‘camera dei bambini’ e cioè dei giochi di
una età ormai favolosa per i ‘vecchi’. L’armadio è qualcosa di intermedio fra la
gente che agisce e il giardino (reale o simbolico) che è antichissimo. Il gioco del
tempo viene così potenziato dall’armadio. Cechov non scrive mai una didascalia a
caso come ad esempio ‘Varia apre l’armadio, che scricchiola’. Qui c’è dunque
un’indicazione comica, di una cosa ‘antica’, penosa, che fa fatica, che evoca il senso
del tempo e tanto altro. Il problema del ‘giardino’ è fondamentale. Nessuno è
riuscito mai a rendere poeticamente, simbolicamente e plasticamente questo
giardino, che rappresenta forse troppe cose insieme per poter essere
‘rappresentato’. In realtà ci si deve rendere conto che non bisogna tentare di
rappresentare Cechov sulla traccia di Stanislavskij, ma su un altro versante: quello
più universale/simbolico, con il terribile pericolo di ricadere in una specie di
astrazione tutto fare, di togliere ‘ogni significanza’ alla realtà plastica di Cechov in
una scena astratta, in un vuoto simbolico.
Per Strehler il problema di Cechov è quello delle ‘tre scatole cinesi’:
Ci sono tre scatole: una dentro l’altra, a stretto contatto, l’ultima contiene la
penultima, la penultima la prima.
- La prima scatola è la scatola del ‘vero’, e il racconto è un racconto umano,
interessante. In questa prima scatola si racconta la storia della famiglia di
Gaiev e di Liubov, e di altri. Ed è una storia vera, che si colloca nella storia,
ma il suo interesse sta proprio in questo suo far vedere come vivono
davvero i personaggi, e dove vivono. È un’interpretazione/visione
‘realistica’.
- La seconda scatola è invece la scatola della Storia. Qui l’avventura della
famiglia è vista sotto l’angolatura della storia, che non è assente nella prima
scatola, ma ne costituisce il sottofondo lontano. Qui invece la storia non è
solo ‘costume’ o ‘oggetto’: è lo scopo del racconto. Qui interessa di più il
muoversi delle classi sociali in rapporto dialettico tra di loro. I personaggi
sono loro stessi, ‘gente umana’, con precisi caratteri individuali, ma
rappresentano una parte della Storia che si muove: sono borghesia
possidente che sta morendo di apatia, la nuova classe capitalistica che sale e
si impadronisce, la rivoluzione che si annuncia e così via. Qui stanze, oggetti,
vestiti, gesti pur mentendo il loro carattere, sono ‘straniati’ nel discorso e
nella prospettiva della Storia. La seconda scatola contiene la prima, ed infatti
si completano.
- La terza scatola è la scatola della vita. La grande scatola dell’avventura
umana; dell’uomo che nasce, cresce, vive, ama e non, vince, perde, capisce e
non, passa, muore. Qui i personaggi sono visti ancora nella verità di un
racconto ancora nella realtà di una storia ‘politica’ che si muove, ma anche in
una dimensione quasi ‘metafisica’, in una sorta di parabola sul destino
dell’uomo.
Ogni scatola ha, dunque, la sua fisionomia e il suo pericolo. La prima, il pericolo
della minuzia pedante, del ‘gusto’ della ricostruzione e del racconto. La seconda ha
il pericolo dell’isolare i personaggi come emblemi di storia cioè di togliere umanità
vera ai personaggi per ergerli a simbolica storia. La terza ha il pericolo di
diventare solo ‘astratta’. Solo metafisica. Fuori quasi del tempo. Ambiente neutro.
Un teatro coperto da un fondale di un certo colore, con alcune cose dietro. Ma
comunque tutta la rappresentazione diventa stratta, simbolica, universale,
perdendo il peso quasi terreno.
Ora, Il Giardino dei Ciliegi è ‘tutte e tre le scatole’, una dentro l’altra. Insieme. Il
giardino dei ciliegi, che sembra esistere da sempre e fiorire in ogni stagione. Il
giardino è simbolo di tutto ciò che c’è di caro al mondo, di quel che è radicato in
noi, del posto da cui veniamo e che prima o poi, strappati dal caso o dalla violenza
oppure di nostra volontà , dobbiamo abbandonare.

Luca Ronconi
e il Realismo Critico:
Luca Ronconi ha sempre coltivato nei suoi spettacoli, a volte rivoluzionari,
spesso di difficile costruzione, una duplice linea di ricerca: sullo spazio e sulla
recitazione. Lo scopo è ritrovare una comunicazione tra la scena e la platea,
arrivare a una lettura dei testi il più possibile vicina a quella dei tempi in cui sono
stati creati; ovviamente ricorrendo nella messinscena ad altri mezzi perché nel
frattempo è cambiato il pubblico, è cambiata la conformazione della società , è
cambiata anche la funzione del teatro a causa della concorrenza di nuovi mass
media, come cinema e televisione.

Lunatici - 1966:
Si manifesta la ricerca di una diversa immediatezza di rapporti, mobilitando
oltre alla voce degli attori, distesa insistentemente su alte note, l’espressività di
corpi che non temono di deformarsi con maschere spaventose o di gonfiarsi
sgraziatamente o di adornarsi di protesi. Ma al di là della cura attribuita alla
recitazione, è un’altra caratteristica a determinare il primo periodo registico di
Ronconi: proprio l’atteggiamento verso i testi assunti senza pretesa di
reinterpretarli, di contrapporvi personaggi positivi e negativi o di elaborarli
drammaturgicamente alla luce di una lettura unitaria che giustifichi ogni
atteggiamento; al contrario si sottolinea la suddivisione di ogni opera in scene o
blocchi singolarmente esasperati in modo da accrescere la tensione interna delle
contraddizioni fino a farle esplodere nell’animo dello spettatore a cui tocca poi nel
proprio intimo di risolverle. A questo procedimento, che si dichiara oggettivo, si
aggiunge l’imposizione costante di un elemento esterno che funge da filtro critico,
e può trattarsi della scenografia: così nei Lunatici il suggerimento di un unico
ambiente, il manicomio, sorregge l’idea base di negare una distinzione tra sani e
pazzi all’interno della tragedia.

Orlando furioso - 1969:


Ronconi crea con l’Orlando furioso una delle messinscene più movimentate
dell’intera storia del teatro. Il poema epico-cavalleresco di Ludovico Ariosto,
condensato dal poeta Edoardo Sanguineti intorno ad alcuni personaggi e nuclei
narrativi, si trasforma in uno spettacolo-festa che invade chiese e piazze e diventa
uno dei simboli della rivoluzione teatrale di quegli anni. L’Orlando furioso
sorprende il pubblico da due palcoscenici scomponibili e mobili posti alle due
estremità dello spazio scenico, ma anche irrompendo con carrelli di legno spinti
dagli attori nella zona centrale occupata dagli spettatori, che vengono dunque
utilizzati come una sorta di “scenografia vivente” e costretti ad assecondare
l’azione, che spesso si sviluppa simultaneamente in più luoghi. Lo spettatore,
spiega Ronconi, fondamentalmente si trova davanti a due scelte: o partecipa al
gioco che gli proponiamo, o si mette in disparte e sta a guardare. Secondo lui lo
spettacolo va vissuto, non certo visto e giudicato. Se lo spettatore entra nel gioco
potrà immediatamente essere parte viva e attiva di esso.
Ronconi adatta le ottave del poema di Ariosto per il palcoscenico, organizzando lo
spettacolo in una sorta di simultaneità di scene e di labirinto rappresentativo,
degno dell'intreccio narrativo che caratterizza il poema stesso. Lo spettacolo viene
rappresentato all'interno della chiesa di San Nicolò di Spoleto, attraverso una
somma di azioni simultanee che avvengono in luoghi lontani fra loro. Il pubblico
diviso in gruppi segue, tra i filoni narrativi proposti, quello che preferisce, potendo
anche cambiare quando vuole la scelta della rappresentazione da vedere, finendo
quasi per interagire con gli attori stessi che molto spesso recitano fra la gente. I
percorsi sono determinati da una scenografia molto articolata e volutamente
fittizia, quasi a voler richiamare agli antichi deus ex machina del teatro greco. La
separazione tra rappresentazione e pubblico, tipico del teatro classico, qui è
totalmente scomparsa per lasciare libero sfogo all'intreccio narrativo, che sarà
peculiare anche in altre future regie di Ronconi.

The Living Theatre – 1974, Judith Malina e Julian Back:


Nel 1947 Judith Malina, un’attrice di formazione tedesca e allieva di Piscator,
e il pittore/poeta Julian Beck, esponente dell’espressionismo astratto newyorkese,
fondano a New York Il Living Theatre.
La loro intenzione è quella di fare un teatro vivente, mettendo in scena soprattutto
testi del teatro contemporaneo, più vicini alla sensibilità e ai problemi del nostro
tempo. Dovrà essere anche un teatro di repertorio, cioè un teatro che avrà più
spettacoli in cartellone nello stesso tempo, con la possibilità di cambiare
programma di sera in sera. Passeranno alcuni anni prima che i due riescano a
trovare una sede stabile. Lo scoprono infine nel 1957. In questo magazzino, che si
chiama appunto Living Theatre, il gruppo riceve la sua consacrazione definitiva
quale capofila della ricerca teatrale statunitense, presenta i suoi lavori più
importanti del periodo americano e comincia a elaborare la composita cifra
stilistica e tematica che lo renderà poi celebre in tutto il mondo. Tuttavia però in
quegli anni il teatro non era visto di buon occhio dalle istituzioni: infatti nel 1963
gli agenti delle imposte lo sfrattano con la motivazione che la compagnia fosse in
debito con lo Stato.
Per quanto riguarda la produzione del Living, dal 1951 al 1963 il gruppo
rappresenta ben 29 testi per un totale di 22 spettacoli. È possibile distinguere tre
fasi principali nella storia scenica del Living fino al 1964:
- La prima fase è la fase del teatro di poesia,
- la seconda è la fase del teatro nel teatro,
- la terza è il passaggio dal teatro del caso al teatro della crudeltà.

I FASE
Teatro di poesia, 1951-1955:
Il Living, il gruppo teatrale che per anni è stato superficialmente etichettato
come capofila di un ‘teatro del gesto’, fu invece per molti anni un teatro letterario,
un ‘teatro di parola’, anzi di parola poetica, un teatro che cercò proprio nella
poesia contemporanea un mezzo per rinnovare il linguaggio drammatico e
scenico. Fece spettacoli con drammi poetici di G. Lorca e altri, oppure inscenò testi
di prosa. Erano perfettamente consapevoli che la poesia che andavano cercando
non era ancora stata scritta e non lo è ancora oggi, ma tentarono ugualmente;
volevano incoraggiare i poeti a scrivere per il teatro, affinché nascesse quella
poesia del teatro di cui sentivano intimamente l’esigenza. Quando parlano di
poesia del teatro non si riferiscono alla metrica o roba simile, ma intendono porre
un problema di forma: alludono cioè ad un linguaggio drammatico non atrofizzato,
ma distillato ed esatto, pensano alla parola ‘onestà ’, che dice il vero.
In ogni caso in questi primi anni cinquanta il tentativo di dare vita a un teatro di
poesia si rivela un enorme fallimento: un insuccesso dopo l’altro, totale
disinteresse del pubblico. Entrambi a distanza di tempo si interrogano anche sul
perché sia andata male e loro stessi si rispondono dicendo di non aver saputo
allestirli, quei drammi in versi, di non essere riusciti a trovare lo stile registico e di
recitazione adeguato ad essi.

II FASE
Teatro nel teatro, 1955-1959:
Pur perdurando il loro interesse per il teatro di poesia, in questo periodo la
coppia si mette in cerca di testi che fossero in grado di conferire maggiore
immediatezza al loro modo di fare teatro e a favorire così l’avvento di un teatro
vivente di fatto, oltre che di nome. E così la loro attenzione si rivolge a Pirandello,
il quale aveva messo a fuoco la tematica dei rapporti ambigui tra realtà e finzione
mediante il ricordo a quella formula drammaturgia che si è soliti chiamare ‘meta
teatro’ o ‘teatro nel teatro’.
La scelta cade appunto su Questa sera si recita a soggetto in cui Pirandello mette in
scena una compagnia di attori mentre prova una nuova commedia,
evidenziandone caricaturalmente i rapporti conflittuali con la figura del regista.
Nella versione scenica del duo, la commedia diventa la satira di un piccolo gruppo
teatrale d’avanguardia con un piccolo regista d’avanguardia: insomma una presa
in giro di sé stessi e del Living Theatre. Lo spettacolo riscuote grande successo.
Nello stesso anno (1959) Il Living aveva debuttato con il suo spettacolo più
famoso ovvero The Connection.

The Connection – 1959:


La messa in scena di The Connection rappresenta nello stesso tempo, il
culmine della ricerca del Living sul teatro nel teatro e l’inizio del suo superamento
in direzione dell’improvvisazione autentica. Un gruppo di drogati sono riuniti nel
loro appartamento in attesa della connection e cioè del contatto, come viene
chiamato in gergo lo spacciatore, che li rifornisca. Ma non si tratta di normali
personaggi: l’autore, Jack Gelber, chiede al pubblico di credere che quella che si
vede in scena sia una vera riunione di drogati veri convocata per una produzione
cinematografica che è lì con la sua troupe per girare un documentario. L’accordo è
che i drogati, dietro compenso naturalmente, vivranno come fanno di solito in
attesa del ‘contatto’. E così vengono mescolai droga, jazz, metateatro,
improvvisazione, finzione e realtà . Il Living nell’allestimento di The Connection
giocherà molto sulla confusione tra verità e finzione, in particolare mescolando
improvvisazioni autentiche a quelle false, e addirittura mandando nell’intervallo
gli attori a elemosinare una ‘dose’ dagli spettatori. Ebbe un enorme successo anche
da parte della critica anche se inizialmente era ostile, il pubblico ne usciva
sconvolto e disorientato. Il trucco era perfettamente riuscito: ci erano cascati.
Nella loro analisi, a distanza di tempo, come sempre spietata, il teatro nel teatro
finisce per diventare soltanto un espediente disonesto. Se gli spettatori
applaudivano, questo accadeva non perché stavano al gioco, ma perché ci
cascavano, ma l’inganno non era il mezzo con cui Malina e Beck volevano
coinvolgere il pubblico.
In ogni caso The Connection non fu soltanto un trucco pirandelliano, ma il Living vi
intravide anche l’idea di un rapporto più profondo col pubblico.

III FASE
Teatro della crudeltà, 1959-1963:
Ultima delle tre fasi. Attraverso un itinerario drammaturgico che spazia da
Pirandello a Sofocle, a Brecht, il Living riesce progressivamente a delineare una
più consapevole poetica teatrale, definendone presupposti, obiettivi e mezzi.
Da tempo il problema centrale è diventato lo spettatore: è nel rapporto fra attore e
spettatore che secondo il Living si gioca la partita decisiva a teatro. Solo che il
gruppo ha capito dopo The Connection che questa partita va giocata senza inganni,
a carte scoperte. Se si ricerca la partecipazione sincera e totale del pubblico, la
stessa disponibilità ci deve essere anche da parte loro. Non si tratta più di fingere
la vita ma di viverla davvero, con tutti i rischi e pericoli che ciò può comportare
per un attore, e su questa offerta completa e autentica di sé stessi cercare
l’adesione dello spettatore. Ma come coinvolgere totalmente lo spettatore e a farlo
in modo sincero senza trucchi? Per il Living si tratta in pratica di riuscire a
conciliare il teatro della crudeltà di Artaud con il teatro politico di Brecht. Artaud
aveva individuato il problema centrale del teatro contemporaneo, ovvero la
necessità di aggredire totalmente lo spettatore, e ne aveva immaginato delle
soluzioni. Secondo il duo, Artaud coglie la funzione fondamentale della scena:
distruggere la violenza mediante la sua rappresentazione, ovvero, esorcizzare la
violenza reale per mezzo della violenza teatrale.

The Brig – 1963:


Fortemente influenzati dal Teatro della crudeltà  di Antonin Artaud e dal suo
libro Il teatro e il suo doppio, Julian Beck e Judith Malina erano alla ricerca di un
testo teatrale che andasse in tale direzione e la loro scelta cadde su di un
manoscritto di circa 40 pagine intitolato The Brig (La Prigione) spedito loro per
posta da un giovane e sconosciuto ex marine di nome Kenneth H. Brown. Il testo è
ambientato in una prigione militare, crudo, violento e privo di una vera trama.
L'opera descriveva una giornata tipo in una prigione militare dei marines, una
realtà quotidiana fatta di violenze e vessazioni di ogni tipo, di divieti e prescrizioni
assurde, miranti a spersonalizzare l'individuo. Brown era stato rinchiuso per un
mese nella prigione militare statunitense di Okinawa, Giappone, negli anni ’50 e
aveva semplicemente descritto ciò che aveva visto e sperimentato di persona.
Messo in scena nel 1963, The Brig era uno spettacolo di denuncia: un testo breve
suddiviso in due atti e sei scene.
Era teatro dell’Intelletto e teatro della Crudeltà insieme, teatro della Forma e
teatro della Scommessa, teatro del Caso e teatro dell’Intenzione. Esattamente
quello di cui il Living andava in cerca da tempo per mettere in pratica l’enunciato
artaudiano sull’uso catartico ed esorcistico della violenza teatrale.
Per il Living, e in particolare per Malina, regista dello spettacolo, non si tratta di
rappresentare The Brign ma di viverlo, non di interpretare dei prigionieri, ma di
esserli. Sincerità e verità , mai più finzioni.
Influenzata da Artaud e convinta che gli attori dovessero "vivere" quell'esperienza
e non solo recitarla, Malina impose un rigidissimo regime di prove, ispirato da Il
manuale dei marines, dal quale estrae un durissimo regolamento per le prove,
seguendo lo schema del regolamento della prigione. Il suo intento era quello di
ricreare nella troupe le relazioni che uniscono guardie e prigionieri. La compagnia
accetta di sottoporsi a questo esperimento e il brig diventa per loro una realtà che
si rinnova di giorno in giorno. Si stava verificando proprio quello che volevano
Malina e Beck.
Era necessario che gli attori vivessero in tutta la sua insopportabile oppressione la
struttura chiusa, l’universo concentrazionario, perché solo a tale condizione
sarebbero stati poi capaci di trasmetterne direttamente l’orrore al pubblico, in
modo da sentire entrambi il desiderio di abbattere questa struttura e, con essa,
tutte le altre istituzioni totali che opprimono la libertà dell’individuo e le relazioni
con i suoi simili. Anche l’indeterminatezza del testo e le improvvisazioni servono
allo stesso scopo. Tanto nelle prove quanto durante le rappresentazioni viene
lasciato un certo margine di iniziativa libera sia ai prigionieri che alle guardie:
basta che un prigioniero/attore commette un piccolo errore o dimentichi qualcosa
perché la guardia/attore che se ne accorge possa improvvisare un’azione punitiva
non prevista dal testo di Brown. In questo modo gli attori si sentono tutti come su
di una corda tesa, disarmati, in una situazione di costante pericolo che finisce,
artaudianamente, per porre in tensione anche lo spettatore.

Con The Brig il Living si avvia a diventare un’avanguardia riconosciuta anche per
quella nuova coscienza politica, che proprio allora stava dando le sue prime
manifestazioni. Sotto il nome di Movement, si raggrupparono rapidamente masse
sempre crescenti di giovani attenti ai diritti civili e con obiettivi come la pace e la
protesta contro la guerra in Vietnam. D’ora in avanti l’impegno artistico e
l’attivismo ideologico politico saranno un tutt’uno per il Living, a volte anche a
scapito del linguaggio teatrale e della precisione della tecnica scenica. Ben presto
anche il sistema si rende conto della pericolosità di questo gruppo che stava
diventando un simbolo. Infatti nel 1964 il Living abbandona gli Stati Uniti
iniziando una peregrinazione per tutta l’Europa per oltre quattro anni, durante i
quali creerà i suoi spettacoli più importanti.
Sono molte le novità proposte dal Living europeo nella seconda metà degli anni
sessanta. Oltre alla trasformazione da compagnia newyorkese stabile in un gruppo
nomade in perpetuo vagabondaggio per il vecchio continente, c’è una novità : il
fatto allora quasi inedito per il teatro contemporaneo, di essere una compagnia
teatrale che si pone anche e soprattutto come realizzazione di una comunità di vita
e di lavoro legata da quegli stessi ideali pacifisti che cercano di promuovere.
Un’affermazione verso l’intera società attuata in primo luogo al suo interno.
Il merito principale del Living è quello di praticare il cambiamento cercando di
fornire un esempio concreto, a differenza di altri gruppi politici che si limitavano a
predicare e a richiedere un cambiamento. L’attuazione dell’ideale del Living si
propone, a livello professionale, di sovvertire gli arcaici principi piramidali in
favore di quelli anarchici autoimposti che implicherebbero l’eliminazione di ogni
distinzione di ruoli e di compiti all’interno della compagnia ed in particolare tra
regista e attori.
Il nodo più difficile da sciogliere sarò quello legato alle difficoltà implicate dalla
creazione collettiva, innovazione che il Living sbandiera fin dal 1964, con
Mysteries and Smaller Pieces, ma che in realtà non fu mai veramente risolto, per
loro stessa ammissione, fino a Paradise Now.

Mysteries and Smaller Pieces - 1964:


Il processo di deteatralizzazione teatralizzata decolla con quest’opera e tocca
il suo culmine con Paradise Now. Quest’opera per il Living è lo spettacolo dei
primati: primo lavoro europeo, prima creazione collettiva, primo esempio di free
theatre, primo tentativo di coinvolgimento attivo dello spettatore.
In realtà si tratta di uno spettacolo di occasione. Quest’opera probabilmente
rappresenta uno dei successi maggiori fra tutte le produzioni del Living nel
periodo europeo. La scena più significativa è quella centrale, chiamata del Coro, o
dell’Accordo, e consistente in una celebrazione della comunità armoniosa. A
questa scena paradisiaca si arrivava soltanto dopo aver superato alcune tappe
infernali, consistenti nella rappresentazione violentemente grottesca e
dolorosamente deformata del mondo così com’è, dominato dalla cupidigia del
potere e del denaro.

Frankenstein - 1965:
Il Living debutta con questo spettacolo al festival del teatro di Venezia.
Frankenstein rappresenta lo spettacolo più compiuto e riuscito sul piano
strettamente teatrale: una dimostrazione dei risultati che il Living avrebbe potuto
sicuramente conseguire sulla strada del perfezionamento. Dopo il debutto, passa
per altre tre fasi, nel corso delle quali, oltre a ridursi nella lunghezza complessiva,
lo spettacolo viene profondamente modificato (con note sempre più
pessimistiche) nel 3° atto e soprattutto nel finale. L’opera è volta a ricordarci che
“(…) la malvagia follia che tiene il mondo nelle insopportabili condizioni attuali non
sta solo fuori di noi, nella cattiveria dei potenti e delle istituzioni, ma risiede anche
dentro di noi, in ognuno di noi (…)”.
Due sono i temi nei quali si specifica il leitmotiv livinghiano del cambiamento e
della trasformazione:
- il tema della nascita dell’uomo nuovo dall’uomo vecchio,
- ed il tema dell’acculturazione e cioè della formazione/manipolazione
dell’individuo da parte della società e della storia.
Se due sono gli argomenti dello spettacolo, due sono anche le immagini simboliche
che contengono il nucleo emotivo del lavoro, conferendogli una caratteristica
flessione antitetica:
- si tratta dell’immagine del volo, che fallendo si trasforma
continuamente in caduta,
- e quella della resurrezione dalla morte, produttrice a sua volta di altra
morte.
Volare, risorgere: due diverse metafore visive per esprimere la stessa,
permanente, tensione dell’uomo all’impossibile, la sua eterna nostalgia del
Paradiso.
Proprio in questa circolarità risiede il pessimismo profondo dello spettacolo.
La scena di Frankenstein è dominata da un’alta impalcatura a tre piani di tubi
metallici e divisa in 15 sezioni. Un sistema di luci e di altoparlanti permette di
illuminare se necessario, ogni sezione e di far arrivare al pubblico qualunque
suono emesso in qualsiasi zona, il cui significato è ambivalente: rappresenta la
struttura sociale ma anche il complesso dei mezzi che produciamo per
combatterla.
Su questa impalcatura si svolgono tutte le azioni principali dello spettacolo: dalle
esecuzioni capitali all’operazione chirurgica che dà la vita alla creatura, dal viaggio
dell’io attraverso la testa, alla nascita della parola.
Antigone - 1967:
Dopo Frankenstein, gli sforzi del Living si concentrano sull'obiettivo di
responsabilizzare lo spettatore, facendogli prendere coscienza dalla necessità
indifferibile del Cambiamento e mostrandogli le vie da percorrere per poterlo
realmente avviare, tale scopo viene centrato con Antigone, che “è lo spettacolo più
noto e celebrato del Living”.
Non si tratta più di un'inedita creazione collettiva, bensì della rielaborazione del
classico testo di Sofocle, già riscritto da Bertolt Brecht. La rielaborazione di Brecht
aveva già modificato il motivo della guerra tra Tebe e Argo, riconducendola non
più agli dei (come nell’originale), bensì a mere ragioni di natura economica e
materialista (il conteso possesso di una miniera d’oro).Inoltre l'Antigone di Brecht
è la tragedia del "troppo tardi": “(…) troppo tardi apre gli occhi la protagonista,
troppo tardi arrivano pure gli altri (…), quel popolo di Creonte che fino all'ultimo
cerca di non vedere la catastrofe imminente e piega il capo a tutti i voleri del suo
tiranno (…)”.
Della rilettura di Brecht, il Living mantiene il tema del "troppo tardi" ma cambia
l'interpretazione dei motivi della guerra, che non sono più economico-materialisti,
bensì etico-politici: l'acquisizione delle miniere di Argo serve ad aumentare il
potere di Tebe. Questa lettura è l'occasione per ribadire le posizioni anarchiche del
Living. Ma la vera innovazione di Beck e Malina sta nell'identificazione della
responsabilità : la guerra non è mossa solo dall'avidità di Creonte, re di Tebe, ma è
una responsabilità individuale di ogni cittadino. L'espediente per trasmettere
questo messaggio sta nell'assegnare una parte al pubblico, che nello spettacolo
rappresenta Argo, la città nemica di Tebe che è invece impersonificata dagli attori
sul palcoscenico. Questo viene fatto capire sin dall'inizio di Antigone, quando gli
attori entrano e si siedono davanti al pubblico guardando gli spettatori negli occhi
con sguardo di sfida e ostilità (e provocando notevole imbarazzo in platea). Lo
spettacolo procede con la sconfitta di Tebe, e alla fine, quando il pubblico è già
pronto per l'applauso finale, gli attori costringono la platea a provare
colpevolezza: i membri del Living arretrano impauriti dagli spettatori, che sono i
loro assassini.

Paradise Now – 1968:


L'intento del Living era la creazione di uno spettacolo che “fosse
un'esplosione di felicità e di ottimismo rivoluzionario”. Dopo una serie di
spettacoli pessimisti sul mondo, Beck e Malina volevano far capire che il
cambiamento era invece possibile. Esempio di via di mezzo tra teatro e happening,
lo spettacolo ebbe notevoli problemi di censura, con ripetuti divieti di
rappresentazione e arresti per oltraggio al pudore e motivi di ordine pubblico.
Dopo circa tre mesi di prove, nei primi mesi del ‘68 la compagnia si trasferì in
Francia poiché la prima era prevista al Festival di Avignone dello stesso anno. Qui
il Living entrò in contatto con i moti della rivolta del maggio francese, restandone
fortemente colpito, e di conseguenza tali avvenimenti ebbero una notevole
influenza su Paradise Now che da allora assunse una valenza meno mistica e più
politica.
Paradise Now venne anche influenzato dal processo di "deteatralizzazione" che
stava attraversando il Living, il quale ricercava una sempre maggiore interazione e
confusione tra attori e pubblico, tra spontaneità e recitazione, abbandonando
quindi sempre di più la classica forma teatrale, per avvicinarsi all'happening.
Secondo lo stesso Beck, tale spettacolo arrivava a configurare "una sorta di
funerale del teatro".
Il risultato più grande raggiunto dal Living con Paradise Now, oltre alla rottura
finalmente concreta ed autentica della barriera che separa pubblico e platea, sta
nel fatto che un gruppo di persone con uguali valori e convincimenti, sia stato
riunito in una grande famiglia per fare teatro. Ciò che conta è soprattutto
l’esperienza esistenziale. Nasce un’immagine di vita, l’icona – che sarà poi
leggendaria – di una tribù apolide, che si sposta di paese in paese, come scrive
Peter Brook in Lo spazio vuoto pubblicato in quello stesso ’68: “una trentina di
persone, tra uomini e donne, vivono e lavorano insieme, fanno l’amore, mettono al
mondo figli, recitano, inventano testi drammatici, praticano esercizi fisici
spirituali, condividono e discutono tutto ciò che incontrano sul loro cammino.
Prima di tutto sono una comunità ; ma lo sono soltanto perché insieme hanno una
funzione speciale che da significato alla vita in comune: recitare”.

Appunti sul Living Theatre:


Beck e Malina, dunque, intendono fin dal principio portare avanti il progetto
di innovare in maniera sostanziale le tradizionali tecniche di costruzione dello
spettacolo teatrale, per risvegliare l’interesse di un pubblico sempre più passivo e
distaccato. Beck e Malina non sono dei drammaturghi (almeno nel senso classico
con cui generalmente si intende il termine), ma attingono a piene mani dalla
tradizione del dramma novecentesco per trovare ciò che possa adattarsi alla loro
idea di messa in scena, rielaborando i testi con un metodo che prevede un intenso
lavoro di gruppo. In particolare, in una prima fase (all’incirca fino alla metà degli
anni cinquanta), il Living Theatre si misura con la tradizione del “dramma
poetico”.
In una seconda fase, man mano che si va delineando con maggiore chiarezza l’idea
che lo spettacolo teatrale deve coinvolgere al contempo “il corpo, l’intelletto, le
viscere”, dunque trascinare lo spettatore in un’esperienza emotiva e intellettuale
totalizzante, il gruppo mette al centro della propria ricerca l’espediente del “teatro
nel teatro”. Ne deriva la “scoperta” di Pirandello (che fino ad allora era rimasto
quasi sconosciuto negli Stati Uniti), con la messa in scena, nel 1955, di Questa sera
si recita a soggetto, che, con il titolo Tonight we improvise, riscosse un gran
successo dal pubblico (tanto che il Living Theatre riprenderà più volte il lavoro,
fino al 1959).
Attraverso Pirandello il Living Theatre intende dare uno stimolo nuovo al pubblico
mediante l’insistenza sull’ambiguità del rapporto tra realtà e finzione. Con il
medesimo intento, nel 1959 il gruppo produce uno dei suoi più celebri spettacoli,
The Connection, che rielabora un testo scritto da Gelbert. Dopo The Connection si
compie un ulteriore passaggio evolutivo nella storia artistica del Living Theatre. I
fondatori del gruppo, infatti, cominciano a sentire l’esigenza di portare a
conseguenze ben più radicali al processo di coinvolgimento dello spettatore
sperimentato con l’espediente del teatro nel teatro, e si rendono conto che tale
evoluzione deve necessariamente implicare una messa in discussione completa
del lavoro dell’attore.
Solo in questa nuova fase l’ideologia anarchico-pacifista di Beck e Malina diventa
centrale nell’elaborazione del progetto teatrale: la concezione politica del teatro
tipica di Brecht, infatti, viene posta al centro dell’interesse del Living Theatre, che
cominciano a farsi sostenitori della necessità di utilizzare il teatro come mezzo per
incidere sulla coscienza della gente, ma viene rielaborata con concetti desunti
dall’opera di Artaud. Ciò porta alla scelta di mettere in scena di The Brig, opera di
un ex marines, racconta una giornata nella vita all’interno di un carcere militare.
L’apporto originalissimo di Julian Beck e Judit Malina è nel fatto che in questo caso
lo spettacolo non doveva essere soltanto rappresentato per gli spettatori, ma
realmente vissuto dagli attori, in un lungo training che sostituì di fatto le classiche
prove, che si basò sulla riproduzione della vita degli internati nella prigione
militare. Nell’intenzione del regista Julian Beck, soltanto attraverso questo
doloroso e completo processo di immedesimazione si poteva trasmettere anche al
pubblico l’orrore dell’esperienza di prigionia e della violenza militare.
Il Living Theatre si mette contro il sistema:
- Prima fase: Teatro di poesia: teatro come mezzo di liberazione e per
inviare messaggi politici. Ricerca di un linguaggio per il teatro che non
fosse naturalistico; la poesia come disgregazione del naturalismo.
- Seconda fase: Teatro nel teatro: parvenza di finzione e realtà
confondono lo spettatore, gli attori fanno ironia su stessi.
- Terza fase: Teatro della crudeltà : elemento di crudeltà , catarsi attoriale,
mostrare gli orrori allo spettatore per liberarlo allo stesso tempo della
crudeltà .

Jerzy Grotowski:
Il teatro ricco e il teatro povero:
Da un lato c’è il teatro ricco, dell’happening e dei mezzi misti fondato sul caso
e sull’immediatezza, dal lato opposto c’è il teatro povero di Grotowski, cioè un
teatro che strada facendo abbandona ogni altro mezzo espressivo all’infuori
dell’attore. In uno dei suoi scritti teorici più famosi, Per un teatro povero,
Grotowski racconta come egli sia arrivato, attraverso il lavoro pratico con gli
attori, a rifiutare ogni forma di Teatro ricco, in quanto dannoso, e ad imboccare la
strada opposta della povertà in teatro. Per Grotowski l’errore strategico principale
del Teatro ricco risiede nella pretesa di competere con il cinema e la televisione,
suoi concorrenti. Il Teatro rimarrà pur sempre inferiore sul piano tecnologico al
cinema e alla televisione. Se il teatro vuole cercare di recuperare una sua
necessità , senza essere surclassato dalla impari concorrenza dei media tecnologici,
deve scegliersi un terreno di lotta a lui più favorevole, lavorando sulle sue
specificità , su ciò che lo rende unico rispetto alle altre forme di spettacolo e alle
comunicazioni di massa: vale a dire il rapporto diretto fra scena e pubblico, fra
attore e spettatore.
In un altro testo famoso egli prende di petto una domanda: “che cosa rende
davvero unico il teatro da garantirgli anche oggi uno spazio nei confronti delle
forme tecnologiche di spettacolo?”. Brook, in base a questo quesito, cerca di
arrivare a una ridefinizione del fatto teatrale.
Il teatro può esistere senza costumi, effetti di luci, scenografie, musica che
commenti lo svolgersi dell’azione? Sì. Ma può il teatro esistere senza gli attori? No.
Può esistere senza spettatori? No. Ce ne vuole almeno uno perché si possa parlare
di spettacolo. È possibile perciò definire il teatro come ciò che avviene tra lo
spettatore e l’attore. Tutto il resto è supplementare. Inoltre, a quell’epoca, egli
aveva già attuato la prima decisiva svolta del suo lavoro, passando dalla regia alla
ricerca sull’attore, ossia da un teatro in cui è il regista il principale autore della
creazione scenica a un teatro Povero nel quale la leadership creativa viene invece
assunta dall’attore.
Questo radicale cambiamento di concezione, con il progressivo spostarsi
dell’interesse di Grotowski e dei suoi collaboratori dal prodotto teatrale al
processo creativo, si riflette sui vari cambiamenti che il nome del loro teatro
subisce durante gli anni sessanta: nel 1962 vi compare, per la prima volta la parola
“laboratorio”. Al centro del suo lavoro vi è l’attore e la relazione interumana,
dell’uomo con l’altro uomo: una relazione di cui il rapporto attore-spettatore
costituisce un caso particolare.

Quattro periodi di Grotowski:


Di Grotowski è possibile distinguere almeno quattro periodi nella sua attività ,
dagli inizi al 1984, anno della definitiva chiusura dell’Istituto Laboratorio.
- Primo periodo, 1957-1961: Teatro di Regia
Questa fase di apprendistato comprende le regie che Grotowski cura
mentre è ancora allievo della Scuola Superiore di Arte Teatrale di
Cracovia, ed in questa fase sono già evidenziati alcuni degli elementi
chiave intorno ai quali ruoterà la ricerca di Grotowski: l’autonomia del
teatro dalla matrice letteraria, la centralità dell’attore e della sua
espressione fisica e il rapporto con lo spettatore.
- Secondo periodo, 1962-1969: coincide con il momento della grande
affermazione internazionale, grazie ad alcuni spettacoli, nei quali la
poetica del teatro povero e la sperimentazione sulle tecniche
dell’attore, toccano il loro punto più alto fondendosi in una sintesi
artistica irripetibile.
- Terzo periodo, 1970-1979: Parateatro
Nel ’70, dopo un lungo soggiorno in India, Grotowski insieme al suo
gruppo, annuncia l’intenzione di non allestire mai più nuovi spettacoli e
quindi di cessare l’attività teatrale per dedicarsi a ricerche concernenti
l’intercomunicazione e l’incontro tra individui. Queste attività , chiamate
“parateatrali” si sviluppano per tutti gli anni ‘70 mediante una serie di
progetti speciali, ognuno dei quali è a sua volta articolato in un certo
numero di tappe intermedie: Progetto montagna, La veglia, L’albero
delle genti, Meditazione a voce alta, etc.
- Quarto periodo, 1979 – 1999: Teatro delle Sorgenti, per def. di Grotowski
Periodo che segue quello parateatrale e continua, anche se
individualmente (l’Istituto Laboratorio chiude definitivamente nel
1984), fino alla fine. È una fase che rappresenta un recupero di quegli
interessi antropologici e storico/religiosi che Grotowski aveva coltivato
da giovane, fra l’altro con frequenti viaggi in Oriente. Con la differenza
che ora la ricerca non è più funzionale al lavoro di regia o a quello
sull’attore, ma il suo interesse è rivolto all’uomo e al complesso di
tecniche del comportamento (soprattutto corporeo) mediante le quali
questi cerca di mantenere un rapporto con le proprie radici, con il
proprio bios, con il proprio processo organico.
Apoteosi e derisione:
Uno dei pregiudizi più tenaci nei confronti del nuovo teatro è sempre stato
che nei suoi spettacoli si riscontrava un atteggiamento di totale ostilità verso la
drammaturgia scritta. È del tutto infondato sia per il Living che per Grotowski. In
realtà ciò che Grotowski ha sempre rifiutato non è il testo drammatico scritto di
per sé, piuttosto il modo in cui il teatro lo ha usato (prevalentemente) da due o tre
secoli a questa parte: come qualcosa da tradurre fedelmente in scena, come
qualcosa che sarebbe già teatro, spettacolo e che quindi la messa in scena
dovrebbe limitarsi a illustrare o a interpretare.
Grotowski, invece, il campo della creazione teatrale è sempre apparso del tutto
autonomo da quello della letteratura: per lui mettere in scena un testo non ha
assolutamente niente a che vedere con la sua interpretazione. Gli stessi termini
“messa in scena” e “rappresentazione” gli risulteranno ben presto impropri e
ambigui. Secondo lui, quello fra il gruppo teatrale e il testo deve essere un incontro
ed un confronto: bisogna porsi dinanzi all’opera drammatica come davanti a
un’entità materiale e spirituale dotata di una sua vita propria e di una sua propria
oggettività e assumere questo incontro/confronto come il punto di partenza,
l’impulso per l’avvio di un processo creativo del tutto indipendente.

Lo spettatore: dalla partecipazione alla testimonianza


Per Grotowski tutto è sottraibile dall’immagine tradizionale del teatro, tranne
l’attore e lo spettatore, anzi secondo il regista il teatro può essere definito proprio ‘
ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore’. Ma di che tipo di spettatore si tratta e
come può l’attore instaurare con lui un vero rapporto? Qui il punto di vista di G. si
fa complesso e anche un po' contraddittorio. Con un atteggiamento comune ad
altri esponenti del nuovo teatro, egli, mentre da un lato pone lo spettatore in cima
ai suoi interessi e alle sue preoccupazioni, dall’altro rifiuta l’opportunistica
subalternità e il servilismo ipocrita che hanno spesso caratterizzato il rapporto
con il suo pubblico da parte dell’attore occidentale, sempre esibizionisticamente
teso a piacere, suscitare il consenso, a raccogliere l’applauso. Questo
atteggiamento Grotowski lo chiama “pubblicotropismo” e deve essere combattuto.
Non per il pubblico deve recitare l’attore, ma alla sua presenza, cercando di
stabilire con lui un confronto.
Grotowski pensa che sia necessario e possibile, formare lo spettatore o
quantomeno manipolarne la presenza da indurre in lui una partecipazione più
autentica e profonda all’evento teatrale. Il regista ritiene che per ottenere dal
pubblico il tipo di adesione più stretta cui egli aspira; non basti abolire la divisione
palcoscenico/platea ma sia necessario fare dello spettatore un elemento specifico
dello spettacolo integrandolo anche materialmente nel luogo teatrale e nell’azione
scenica, in maniera ogni volta diversa e opportuna, a seconda delle esigenze della
rappresentazione. Ma alla fine Grotowski e il suo gruppo si rendono conto che
questo metodo per attizzare lo spettatore era oppressivo e del tutto inefficace
poiché aveva prodotto forme di partecipazione inautentiche: falsa disinvoltura,
reazioni imbarazzate. Egli supera il falso assioma che identifica la partecipazione
attiva del pubblico con il suo coinvolgimento fisico. Questa nuova strategia appare
già nel Principe Costante e in Apocalypsis cum figuris, dove gli spettatori disposti
lungo i quattro lati della sala, chi seduto su panche o in terra, chi in piedi, formano
una specie di cerchio all’interno del quale agiscono gli attori. Realizza una nuova
immagine: il testimone, lo spettatore come testimone. Il testimone si tiene un po'
in disparte, non vuole intromettersi, desidera essere cosciente, guardare ciò che
avviene dall’inizio alla fine. Grotowski superata la fase degli spettacoli, tornerà a
pensare a una partecipazione diretta del pubblico parlando, ad esempio, di cultura
attiva, solo che non si tratterà più del costrittivo coinvolgimento dello spettatore
in un ruolo drammaturgico prefissato, ma della stimolazione in lui di dinamiche
comunicative, di rapporti interpersonali intensi, di esperienze alte di vita di
gruppo.

L’attore: un professionista della verità


Se per Grotowski il teatro consiste nella relazione fra il pubblico e l’attore non
resta che concentrare i propri sforzi sul secondo, l’attore, l’unico elemento a
disposizione, dunque ciò che determina e definisce un teatro. Se il teatro povero
ha bisogno di uno spettatore nuovo, tanto di più gli sarà necessario un nuovo
attore. Ma dove cercarlo, come formarlo? Infatti è anche per questo che nel 1959
fonda un teatro diventato ben presto un Laboratorio. Il problema però per lui è
etico, più che tecnico: non si tratta di formare attori più bravi degli altri, ma di
formare attori che siano in grado di vivere il loro lavoro in modo diverso e
migliore rispetto a quello corrente.

L’allenamento dell’attore:
Egli è stato il primo nel teatro europeo del secondo dopoguerra ad affrontare
il problema della formazione dell’attore e della ricerca degli strumenti idonei a tal
fine. Per lui il primo obiettivo da raggiungere con la fondazione dell’autonomo
Teatro delle 13 file: rallentare il ritmo degli allestimenti, riservare sempre più
tempo alle prove, ritagliare soprattutto, uno spazio sempre maggiore per
l’addestramento. Si tratta di creare uno spazio pedagogico: una scuola. Questa
sintesi di teatro e scuola egli la trova nel Laboratorio: luogo di educazione
permanente per l’attore, un luogo in cui questi può prima acquisire, poi
conservare e perfezionare gli elementi etico/tecnici indispensabili per la sua
attività . Una parte molto importante del lavoro al teatro/laboratorio è sempre
stata costituita dagli esercizi. Mediante gli esercizi l’attore si allena all’artificialità e
all’elaborazione formale, apprendendo in primis a superare i limiti dello
pseudorealismo del quotidiano e del naturalismo psicologico, per poi tendere
verso l’espressività fisica totale. Ecco perché in tutto l’allenamento, l’accento è
posto sempre sul corpo e sulla parola. Proprio perché anche la parola nasce dal
corpo, ci vuole una adeguata preparazione fisica così che la voce potrà essere
usata correttamente. Il teatro laboratorio si trova a disporre di un vasto repertorio
di esercizi attinti alle tecniche del corpo più disparate (yoga, pantomima, danza,
vari sport, etc.) Quanto ai tipi di esercizi, si tratta di esercizi fisici e di
composizione, esercizi della maschera facciale e anche quelli vocali che riguardano
la respirazione, l’impostazione della voce e la dizione.

Appunti su Grotowski:
Nel lavoro di Grotowski, in particolar modo nel suo lavoro con il Teatro
Laboratorio, gli attori non cercavano mai i personaggi (a differenza della ricerca
che fa l’attore stanislavskiano). I personaggi appaiono solo nella mente dello
spettatore, a causa del montaggio costruito da Grotowski come regista.
CGrotowski si creano azioni direttamente dai ricordi personali. Spesso c’è anche
un testo, ma noi non recitiamo personaggi. Puoi ricordarti di un momento della
tua vita, o della vita di qualcuno che ti è vicino, o di un evento preciso nella tua
fantasia e che non era mai accaduto, ma che avevi intensamente desiderato
accadesse. E quindi puoi cominciare a costruire la struttura attraverso le azioni
fisiche. Grotowski sottolinea sempre che il lavoro sulle azioni fisiche è la chiave
del mestiere dell’attore. Un attore deve essere capace di ripetere la stessa
partitura più di mille volte e ogni volta deve essere viva e precisa. Come fare?
Come può un attore fissare la sua linea di azioni fisiche? Questa diventa per lui ciò
che la partitura è per un musicista. La linea di azioni fisiche deve essere elaborata
fino al più piccolo dettaglio e completamente memorizzata. L’attore deve averla
assorbita al punto di non aver più bisogno di pensare quale sia la prossima cosa da
fare.

Peter Brook:
Il regista inglese Peter Brook arriva alla fine degli anni cinquanta a percepire
il senso d’inutilità che insidia il lavoro teatrale nella nostra civiltà . Egli avvia una
fase completamente nuova del suo lavoro presso il Centro Internazionale di
Creazioni Teatrali, da lui fondato a Parigi fra il 1968 e il 1970. Egli nel suo saggio
più famoso intitolato Il teatro e il suo spazio offre una riflessione sul teatro
contemporaneo accusato di essere per la massima parte, un teatro morto, anzi
mortale, un teatro ormai del tutto privo di necessità e di senso. Egli è ormai
consapevole dell’impossibilità di cambiare davvero il teatro, e di restituirgli così
un valore e una funzione, continuando a restare all’interno dell’istituzione teatrale.
Ma Brook era riuscito in una cosa che era quasi impossibile allora: “rigenerare”
teatralmente Shakespeare. Secondo Brook, per cercare di cambiare il teatro,
restituendogli senso ed efficacia, è necessario rimetterlo in questione dalle basi,
riesaminandone tutti i punti nevralgici (tutti gli elementi costitutivi, a cominciare
da quello più importante di tutti: il rapporto fra spettacolo e il pubblico.) Ma
riesaminare significa ricercare e sperimentare e proponendo una visione più
comprensiva del lavoro teatrale. Brook trova un aiuto con gli scritti di Artaud ma
anche con il lavoro del Living Theatre e delle ricerche di Grotowski. Ed è
importante ricordare che un altro tratto importante della personalità di Brook
consiste proprio nella sua incredibile capacità di farsi solleticare da un gran
numero di esperienze e di stimoli diversi riuscendo poi a rielaborarli in un
risultato del tutto personale.
La sua carriera fino al 1962 può essere vista solo come un apprendistato, ma egli
non è stato soltanto un regista shakespeariano. Negli intervalli fra uno
Shakespeare e l’altro, egli dirige di tutto ed in tutto il mondo, praticando generi di
ogni tipo e non privandosi neppure di quelli più commerciali come il teatro di
boulevard o il musical. Questo attraversamento dei generi più disparati risponde
alla fondamentale esigenza, da parte di Brook di costruirsi empiricamente un
proprio metodo registico. La necessità di adottare uno shifting point, cioè un punto
di vista variabile. I momenti principali di Brook sono scanditi dagli allestimenti
shakespeariani. Non a caso, perché Shakespeare rappresenta il riferimento
costante di Brook, una specie di stella polare che orienta tutto il suo lavoro
teatrale fino a oggi. Si potrebbe dire: Shakespeare come modello e come
laboratorio. La prima fase del lavoro shakespeariano di Brook appare dominata da
una raffinata ricerca visuale e cromatica e di un certo effettismo scenografico. Una
volta avviata, con successo, questa operazione di ripulitura della messa in scena
shakespeariana, Brook può imprimere una nuova sterzata al proprio lavoro,
muovendo più decisamente verso il recupero degli elementi primigeni perduti,
verso quel modo elisabettiano di fare teatro, che impronterà gran parte della sua
attività futura.
Su questa nuova strada si collocano già alcuni allestimenti degli anni cinquanta
caratterizzati da atmosfere più cupe e violente e evidenziando, in particolare, una
maggiore attenzione alla realtà interiore dell’uomo. Il King Lear del 1962, fu uno
degli spettacoli più importanti di Brook.

King Lear - 1962:


In questo allestimento, Brook rinuncia alle citazioni visive e ai complessi
effetti sonori per immergere il protagonista e gli altri personaggi della tragedia, in
una scena astratta, una spoglia arena in cui lo scontro tra l’uomo e la crudeltà
dell’esistenza emerge in tutta la sua violenza. In questo Lear assurdo e crudele
nello stesso tempo, Brook offre una prova della sua inimitabile capacità di
assimilare stimoli diversi fondendoli in una visione del tutta originale. Infatti da un
lato egli subisce l’influenza della lettura attualizzante (in chiave beckettiana)
dall’altro, Brook è ancora sotto l’effetto della scoperta del teatro della Crudeltà di
Artaud con il suo linguaggio scenico forte, diretto, fisico e non psicologico.
Brook servendosi di una scrittura scenica che spazia di continuo fra l’astratto, il
realistico e l’onirico, il regista inglese mette il pubblico di fronte a uno
Shakespeare senza soluzioni e senza risposte, lo immerge in un universo ambiguo
e privo di rassicurante teleologia.
Il Lear di Brook rappresentò , per il teatro inglese, un evento memorabile,
ricordato per molti anni, come il prototipo forse irraggiungibile di un modo
completamente nuovo di mettere in scena un classico. Egli stesso, dieci anni più
tardi, indicherà proprio nel Lear il momento in cui supera, il teatro dell’immagine,
per muoversi risoluto nella direzione di un teatro dell’evento diretto, cioè di un
teatro in cui è sufficiente un attore che attraversa lo spazio, o anche solo un
palcoscenico nudo, per accendere una situazione drammatica minima, sulla base
della quale sviluppare tutto un processo creativo.

Brook - Teatro, follia e crudeltà, 1963 - 1964:


Nel 1963 Brook riunì 12 attori della Royal Shakespeare Company in un
gruppo sperimentale che avrebbe dovuto dedicarsi ad una Stagione sul Teatro
della Crudeltà presso il teatro Lambda di Londra. Suo principale collaboratore in
questo esperimento fu Charles Marowitz, già assistente nel Lear. Entrambi
intendevano confrontarsi, in una situazione da laboratorio, con le visioni teoriche
di Artaud, non tanto per tradurle in pratica, ma piuttosto per verificare che tipo di
suggerimenti potevano venire da esse, sul piano empirico, riguardo a problemi
cruciali quali l’attore, l’uso dello spazio, il rapporto col pubblico etc.
Questo laboratorio sul Teatro della Crudeltà si proponeva una più vasta indagine
sui linguaggi teatrali, e attorici in particolare, nell’intento di andare oltre i limitati
confini dell’espressione verbale. Ma intenzione a parte, che tipo di lavoro si svolse
concretamente in questo primo esperimento di laboratorio teatrale del
dopoguerra? L’attività consistette in “esperimenti” molto semplici,
improvvisazioni, esercizi plastici e vocali. Ma il tema dominante della ricerca di
Brook sarà soprattutto il teatro come comunicazione interpersonale. Da un lato si
trattava di verificare quali fossero gli elementi minimi di cui uno ha bisogno per
comunicare con un altro, e di sperimentare fino a che punto questa soglia fosse
abbassabile, affinando le doti espressive e percettive degli attori; dall’altro lato, si
trattava di vedere fino a quale limite era possibile sviluppare le capacità di
comunicazione non verbale se ci si vietava l’uso della parola. In entrambi i casi il
problema di fondo concerneva il rapporto fra resistenza ed espressione o tra
costrizione e forma. Quegli esperimenti avevano lo stesso scopo delle ricerche di
Grotowski: si trattava cioè di mostrare che non è facilitando il compito all’attore,
non è riducendogli le resistenze, che lo si porta all’espressione, ma al contrario,
aumentando queste resistenze rendendogli il compito sempre più difficile: solo
così infatti l’attore è spinto a superare gli automatismi e gli stereotipi dello
pseudo-realismo del quotidiano e a cercare una forma d’espressione che sia al
tempo stesso più autentica e più interessante, e che appaia articolata senza per
questo risultare ovvia.
La stagione sul Teatro della Crudeltà terminò nel gennaio del 1964 con la
presentazione al pubblico dei risultati del lavoro svolto.

Marat Sade – 1964


Verso un teatro immediato:
Uno degli spettacoli più importanti di Brook in cui davvero mise a frutto in
una sintesi gli esperimenti e le acquisizioni del Lambda: questo spettacolo fu il
Marat Sade di Peter Weiss che Brook allestì nel 1964. Il dramma di Weiss si
rappresentava la messa in scena dell’assassinio di Jean Paul Marat da parte di una
compagnia di malati mentali di un manicomio francese sotto la guida del marchese
de Sade, lì ricoverato. Affrontando temi della rivoluzione e della follia, della lotta
politica e della libertà dell’individuo, e i loro numerosi nessi reciproci. Ma da un
punto di vista teatrale, l’elemento che dominava il dramma era la violenza:
violenza delle immagini, del linguaggio, delle situazioni, delle idee. Il testo di Weiss
era dunque un’occasione ideale per tentare una prima realizzazione di quel teatro
immediato verso cui muove la ricerca di Brook. “Teatro immediato”, cioè come
teatro totale, che sia nello stesso tempo, teatro di disturbo e di choc ma anche di
affermazione (come in Brecht), insomma un teatro che coniughi gli opposti in una
forma d’espressione il più possibile partecipe della globalità della vita stessa.
Naturalmente il prototipo di questo tipo di teatro non può che non essere
Shakespeare: egli è un modello che contiene sia Brecht che Beckett, e va al di là di
tutte e due. E alla fine, tutto dipende dal pubblico: è infatti lo spettatore, al suo
modo di porsi nei confronti dell’evento teatrale che si lega la possibilità , per
quest’ultimo, di trasformarsi effettivamente da ripetizione in rappresentazione,
cioè in azione viva, gesto presente.

Negli anni sessanta, a partire da Lear, Brook era alla ricerca di una
partecipazione più autentica del pubblico, elaborando un linguaggio teatrale
violento, diretto, fisico, che sia in grado di colpire e di scuotere, stimolando una
nuova disponibilità percettiva, ricercando temi e argomenti fra i più scottanti
dell’attualità , mediante i quali passare dallo choc alla proposta, e agire così in
modo costruttivo.

US – 1966:
Marat Sade rappresenta una prima tappa su questa strada, la successiva è
costituita da US, del 1966, sull’aggressione americana in Vietnam: di sicuro uno
degli spettacoli più politicizzato di Brook. La prima parte del lavoro era una specie
di teatro-verità sul conflitto vietnamita e comprendeva fra l’altro la protesta di un
monaco buddista che si dava fuoco. La seconda parte era invece costituita dal
dialogo fra un uomo prossimo al suicidio e una ragazza progressista. Con questo
spettacolo Brook per la prima volta si serve di un copione nato dalla
collaborazione di tutti i membri della compagnia. Soltanto il Living Theatre lo
aveva fatto prima di Brook, con Mysteries and Smaller Pieces.

Eugenio Barba:
Fonda l’Odin Teatret il 1° ottobre del 1964. Barba non voleva dei mestieranti,
dei professionisti, pretendeva, invece, degli individui capaci di darsi delle
motivazioni personali talmente forti per tutto quello che facevano, da crederci poi
fino in fondo. Era convinto che fosse necessaria una selezione basata sulle doti di
carattere, sulla forza d’animo, sulla testardaggine, e non sull’apparente talento o
sulle capacità espressive. I primi lavori dell’odio sono fortemente politici. Fin dal
primo spettacolo emerge quello che diventerà uno dei temi di riflessione preferiti
dell’Odin: e cioè il problema della diversità dell’incontro fra culture differenti e
dell’integrazione sociale.

Ornitofilene - 1965:
Debutta ad Oslo, questo spettacolo che si basava su un testo non finito di
Bjorneboe che Barba aveva rimaneggiato insieme all’autore. È evidente sia da
parte dell’autore che di Barba la messa in discussione di cliché ideologici e
abitudini mentali consolidate, smascherando l’ipocrisia del filantropismo e
facendo emergere le contraddizioni annidate in situazioni apparentemente lineari
come quella che vede contrapposti gli ornitofili (oggi si direbbe gli ecologisti) ai
cacciatori.
Per questo spettacolo Barba ha organizzato (grotowskianamente) lo spazio a
disposizione, una sala di dieci metri per quindici, in maniera da mescolare attori e
spettatori, abolendo non soltanto il palcoscenico ma anche qualsiasi altra
separazione fra chi agisce e chi guarda. Tuttavia ciò che colpì maggiormente fu
soprattutto la violenza della recitazione, un tipo di espressione fisica e vocale che
con grande precisione ed efficacia insieme svariava di continuo, mediante scarti
bruschi, dal lirico al tragico, al grottesco.

Kaspariana – 1967:
È il secondo spettacolo di Barba all’Odin Teatret, ed affronta ancor più
direttamente i suoi temi centrali: il rapporto col diverso, la trasmissione della
cultura e la dialettica fra violenza e educazione. Se per Ornitofilene si poteva
parlare, nonostante tutto, di messa in scena di un testo, o meglio, basata su un
testo, con Kaspariana siamo già a uno stadio ulteriore: qui il testo drammaturgico
funge ormai soltanto da spunto per la creazione scenica e le improvvisazioni degli
attori. Altra novità segnata da Kaspariana è l’abbandono di ogni proposito di
coinvolgere materialmente lo spettatore nello spettacolo. Anche Barba si rende
ben presto conto che il contatto fisico diretto non è affatto indispensabile per
ottenere dallo spettatore quell’intensa partecipazione emotiva e intellettuale che
egli desidera. E infatti nello spazio scenico di Kaspariana la relazione
attore/spettatore era addirittura di tipo ‘medievale’.
Ma l’Odin non è solo un teatro di spettacoli: esso tende a porsi, per quanto
riguarda il suo lavoro teatrale, non tanto come un centro di produzione quanto
piuttosto come un luogo di ricerca e di sperimentazione, come un laboratorio in
cui l’attore porta avanti quotidianamente un duro programma di allenamento e di
apprendimento.

Training: fra le parole magiche del nuovo teatro un posto di rilievo spetta al
training, termine che si riferisce all’allenamento cui l’attore si sottopone ogni
giorno. (Grotowski lo introduce nel Teatro/laboratorio già molto prima e che cari
altri gruppi arrivano negli anni sessanta, a includere l’esercitazione degli attori nel
novero delle loro attività fisse.) Per l’Odin la figura dell’attore che si allena,
impegnandosi ogni giorno in molte ore di pesanti sedute fisiche, è venuta
pressoché a coincidere con l’immagine complessiva del gruppo, diventando in un
certo modo l’emblema riassuntivo e simbolico del suo modo di fare teatro.
Barba scopre che l’attore poteva ottenere risultati molto migliori nel suo lavoro se
si fosse esercitato costantemente. Eppure quando Grotowski e Barba fecero questa
scoperta a molti sembrò una stranezza e qualcuno pensò che si volesse
trasformare l’attore in un atleta, ridurre la sua recitazione a una performance
ginnico-acrobatica, ma naturalmente non era così.
In principio, all’Odin il training era collettivo, tutti eseguivano gli stessi esercizi
nello stesso tempo e nello stesso modo. Si trattava di esercizi presi dalla
pantomima, dal balletto, dalla ginnastica, dalla ritmica, dallo yoga. Poi, col passare
del tempo ci si rende conto che ogni individuo ha un suo ritmo diverso da quello
degli altri: il training non poteva non basarsi su questo ritmo e doveva perciò
diventare individuale, personalizzandosi. In realtà mentre si trasforma da
collettivo in individuale, il training cambia anche di significato e i suoi esercizi
mutano profondamente di valore; gli esercizi ormai sono concepiti soprattutto alla
stregua di ostacoli che questi trova, o mette egli stesso sul suo cammino e deve
cercare di superare in base a una motivazione che sarà differente da quella di ogni
altro attore.
Un altro cambiamento importante subito dal training dell’Odin nel corso degli
anni riguarda i rapporti che esso intrattiene con le altre due principali componenti
del lavoro teatrale in senso stretto: le prove e lo spettacolo.
Si possono distinguere tre fasi principali:
- Prima fase, 1964-1974: gli esercizi del training non possono mai
essere usati negli spettacoli (come la chiama Barba è la politica dei “due
binari”).
- Seconda fase, 1974-1979: gli esercizi possono essere usati soltanto
negli spettacoli di strada.
- Terza fase, dal 1979 in poi: gli esercizi possono essere usati anche
negli spettacoli veri e propri.

Ferai - 1968:
Ferai è il terzo lavoro dell’Odin e si tratta di un’opera dalle dimensioni
materiali molto modeste: un piccolo grande spettacolo.
L’Odin comincia a lavorare a Ferai nel 1968 e nel 1969 hanno luogo le prime
rappresentazioni. L’Odin sceglie, ancora una volta, di andare controcorrente: uno
spettacolo destinato a pochissimi spettatori e ambientato in uno spazio scenico, se
possibile, ancora più spoglio e disadorno dei precedenti. Ferai è a suo modo uno
spettacolo fortemente politico che cerca di fare i conti sino in fondo con il
Sessantotto, insinuando pesanti interrogativi nelle certezze a senso unico di cui
sembravano nutrirsi in quegli anni il movimento di contestazione giovanile e la
sinistra rivoluzionaria. Quella che Barba e i suoi propongono, infatti, con Ferai è
una riflessione ideologica sul tema del potere, e più esattamente sulle
contraddizioni con le quali ogni tipo di potere, anche il più democratico, è
costretto a fare i conti. Ferai segna un momento importante sulla strada di Barba,
vedrà attori e spettatori incontrarsi e interagire in una dimensione teatrale. È
quindi un duplice processo di liberazione quello che si avvia: da un lato,
liberazione dell’attore dalla tirannia del personaggio e della regia, ovvero dalla
rappresentazione, dall’altro, liberazione dello spettatore, dalle costrizioni di una
visione unica e predeterminata dello spettacolo. Qui l’attore comincia ad affidarsi
al libero divenire delle sue improvvisazioni.

Tadeusz Kantor:
Artista prima ancora che teatrante: pittore, scenografo di professione per un
certo periodo, legato alle Avanguardie storiche e organizzatore inventivo di
happenings e altri eventi sperimentali. Il successo europeo arriva solo tra gli anni
‘70/’80 con due spettacoli: La classe morta 1975 e Wielopole, Wielopole 1980.

La classe morta – 1975:


Anche se giunge in Italia solo all’inizio del 1978, nell’ultimo anno del lungo
infinito sessantotto, che termina nel maggio, con l’uccisione di Aldo Moro. Per
Attisani, direttore, in quegli anni, di un’importante rivista teatrale militante, lo
spettacolo di Kantor è uno shock, da leggere però decisamente come teatro
politico: “oltre al cattolicesimo e quindi al potere della chiesa, la classe morta
condanna implicitamente anche il Partito”.
La peculiarità dello spettacolo è data dai personaggi che appaiono come vecchi
impegnati a trascinarsi addosso, dei doppi, dei fantocci con il volto di cera, che è il
volto di loro stessi, dei bambini che furono. L’attore vivo, ma con la faccia livida,
porta impressa la maschera di sé, del tempo e della morte. Kantor trae dalla sua
cultura avanguardistica, dalle sue letture di Kleist e Craig, la scelta di definire il
proprio attore come bio oggetto, organismo unitario, sintesi del corpo dell’attore e
di un suo prolungamento materiale in cui tuttavia la realtà dell’oggetto va a
limitare l’attore, a privarlo della sua capacità emotiva, a impedirgli il processo di
immedesimazione. L’attore condannato a convivere con una sorta di protesi del
proprio corpo, finisce per assumere la rigidità dell’automa. Ma c’è un altro
elemento che gioca in questa stessa prospettiva, ed è l’intervento del regista sul
palcoscenico. Kantor sta fra gli attori, ma non è attore; si muove con naturalezza,
mentre quelli hanno movimenti legnosi, burattineschi, da automi. Mai si pone
frontalmente al pubblico, ma piuttosto di tre quarti, o di profilo, o di schiena.
Controlla il lavoro degli attori, corregge dei dettagli, sposta un manichino,
l’inclinazione di un cappello, etc.
Sembra un servo di scena, che però molto spesso diventa una sorta di inedito
direttore di orchestra con movimenti secchi del braccio, della mano, anche solo
dell’indice: rivolti agli attori, o ai tecnici, perché facciano partire la musica oppure
la arrestino. Egli però non è né attore né un direttore d’orchestra, ammette che gli
piace la provocazione, l’illegalità e che ama stare sul palcoscenico perché questo è
contro tutte le convenzioni teatrali. Ha anche confessato una cosa importante:
intervenendo sul lavoro dell’attore, toccandolo, correggendolo, distrugge
l’illusione, svela la finzione, impedisce all’attore di prendersi troppo sul serio, di
recitare alla vecchia maniera, lasciandosi trascinare dall’emozione.

Wielopole, Wielopole - 1980:


È la creazione successiva. Il titolo corrisponde al nome del villaggio presso
Cracovia dove Kantor è nato. questa volta non solo non c’è testo/pretesto, non solo
questa volta Kantor si scrive da sé, dall’inizio alla fine, la sceneggiatura del suo
copione, ma ci mette dentro tutti i suoi ricordi, la sua infanzia, i suoi parenti,
sebbene mescolati con frammenti della storia (della prima e della seconda guerra
mondiale).
Rappresentazione: Kantor che entra, si introduce. Entra e comincia a dislocare gli
oggetti, gli elementi del decoro della stanza della memoria. La rappresentazione
coincide con un processo mentale che ripercorre continuamente le proprie
rimembranze, che sposta incessantemente i propri segni che si fissa via via in una
serie di immagini.
L’impianto scenografico riprende lo schema della Classe Morta, è la stanza della
sua infanzia: un armadio, un tavolo, delle sedie, un letto, e sullo sfondo, centrale, di
fronte al pubblico, un’enigmatica struttura di sassi di legno sovrapposte che si
apre a fisarmonica per far entrare le ombre della rimembranza kantoriana. Si
dischiude a scatti, a molla: funziona come il meccanismo della memoria,
intermittente. Una sorta di sipario che non sta davanti agli attori, ma alle spalle
degli attori, che divide la scena dall’altra scena, quella visibile da quella invisibile,
da cui provengono i fantasmi della mente. Il legno domina incontrastato l’apparato
scenografico, come già nella Classe Morta. L’intera scena è costruita interamente
in legno. Un legno grezzo, artigianale. Il legno si deteriora e si distrugge, marcisce
e si dissolve in polvere proprio come la vita dell’uomo. Se Kantor chiama la sua
produzione il teatro della morte, è ovvio che le sue scenografie siano
esclusivamente in legno. Perciò il legno è la morte.
Il flusso memoriale che guida la creazione è strettamente connesso alla
dimensione sonora. Prima c’è la musica, e dopo ci sono le parole del dialogo. Le
parole vengono sempre dopo, non contano. Le immagini in appoggio alla musica:
le immagini come prolungamento musicale che concretizzano emozioni, profonde,
dell’animo, emozioni musicali, appunto. Un teatro della memoria che si pone come
un teatro della musica. Tutto Wielopole Wielopole è giocato sull’alternanza di
quattro motivi: una percussione di bastoni, il salmo 110, la marcia militare Grigia
Fanteria, la melodia natalizia della Notte della Vigilia.
C’è anche un’indefinita religiosità kantiana, che è nella sua ossessione della
morte, e che è in questo suo costruire continuamente un teatro della carne, della
materialità e del patimento dei corpi.

Appunti su Kantor:
La Classe Morta, la sua opera teatrale più famosa, la quale non si basa su una
trama realistica, ma si sviluppa a partire da atti rituali e da un’alternanza di
movimento e immobilità che segue il motivo musicale. Questo lavoro può essere
descritto come un misto di commedia, happening e installazione, ed i suoi
molteplici riferimenti biografici illustrano le memorie di un’infanzia ormai
passata. L’ambientazione è una classe scolastica arredata con vecchi banchi di
legno e libri di testo diventati quasi polvere. La stanza racchiude inoltre i ricordi
delle punizioni subite, riportate sulla lavagna, e i richiami allo spogliatoio della
scuola, inteso come un luogo di maggiore libertà .
Gli attori sono uomini anziani, più vicini alla morte che alla vita. Truccati per
apparire più pallidi, portano sulla schiena dei manichini a grandezza naturale che
simboleggiano la loro infanzia. I personaggi di Kantor non rivestono di certo ruoli
chiari e privi di ambiguità , ma presentano un ammasso di ricordi di esistenze
diverse. Il gruppo di persone e i manichini raccontano infatti di una memoria
collettiva, e questi ultimi sono importanti in quanto non sono solo messaggeri di
morte, ma testimoniano anche concetti di repressione.
La tematica della memoria è, in particolare in un’opera come La classe morta,
indissolubilmente legata alla tematica della morte.
L’immagine della morte è dunque, nelle intenzioni di Kantor, l’immagine più
potente e più efficace per rappresentare la vita. Ed inoltre essa è metafora del
teatro stesso, che è lo spazio extra moenia (dal lat. “fuori le mura della città”, ivi “al
di fuori della vita”) in cui lo spettatore vive la realtà come ideale e metafora.

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