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Il termine economia indica due ordini di idee ben diversi, ovvero un complesso di attività e la
scienza economica. Il primo concetto si riferisce al complesso di attività e risorse di un territorio; le
attività sono compiute per sfruttare le risorse e trarne ricchezza. Il secondo concetto, quello di
economia come scienza, si riferisce agli studi condotti per conoscere come l’uomo sfrutta le risorse
che ha disposizione, come le distribuisce, come le lavora e come le scambia; il suo compito consiste
anche nell’elaborare delle leggi che definiscano la migliore utilizzazione possibile delle risorse.
Quando si parla di risorse s’intendono le materie prime (energia, minerali, metalli e prodotti
agricoli), la terra, gli stabilimenti e i macchinari industriali e il capitale di persone, imprese e Stato.
La difficoltà della scienza economica, probabilmente quella principale, risiede nelle innumerevoli
variabili che possono influenzare l’agire umano che sono importanti da monitorare per condurre
degli studi analitici in materia. Per gestire questa difficoltà l’economia si rivolge a quelle scienze
che conoscono e studiano il comportamento umano, la psicologia e la storia. Parallelamente si
avvale del diritto e delle scienze matematiche e statistiche.
Molte sono le branche dell’economia; le principali, particolarmente interessanti dal punto di vista
culturale, sono:
• l’economia aziendale (di cui fa parte la ragioneria)
• l’economia politica
• la scienza delle finanze.
Economia aziendale
L’economia aziendale è la branca dell’economia che analizza, qualitativamente e
quantitativamente, in ogni loro fase, le varie tecniche di gestione, produzione, organizzazione e
vendita utilizzate dalle aziende per raggiungere i propri fini aziendali. Secondo la definizione
dell’economista G. Zappa, è quella disciplina che studia “le condizioni di esistenza e le
manifestazioni di vita dell’azienda”. Un ramo importante dell’economia aziendale è la ragioneria,
la disciplina che studia ed enuncia i principi e le norme generali di controllo economico-contabile
sulla gestione delle aziende e delle amministrazioni pubbliche e private.
Le fonti di finanziamento
Ogni impresa, per svolgere la propria attività, necessita di una certa ricchezza, ossia di un insieme
di beni di vario tipo (denaro, merci, crediti ecc.) che possono essere utilizzati, con varie modalità,
per il soddisfacimento dei fini aziendali; questo insieme di beni viene definito patrimonio aziendale.
Il patrimonio non è mai esattamente costante perché, in seguito alle operazioni aziendali, aumenta
e diminuisce ciclicamente.
Dal momento che il patrimonio aziendale è necessario allo svolgimento dell’attività aziendale, è
necessario che l’imprenditore si procuri dei finanziamenti che investirà in fattori produttivi (beni in
natura o beni in denaro).
Al momento della sua accensione, un finanziamento dà luogo a un’entrata che può essere di denaro
oppure di beni; quando tale finanziamento viene estinto, di solito comporta un’uscita di denaro.
L’azienda può essere finanziata dal proprietario (nel caso di un’impresa individuale), dai soci (nel
caso di un’impresa la cui proprietà è di più persone) o da creditori esterni; nel caso di finanziamenti
conferiti da un proprietario o da soci, si parla di capitale proprio; sono finanziamenti a titolo di
capitale proprio anche gli utili gestionali che non sono stati prelevati dal proprietario o dai soci; si
parla invece di capitale di debito nel caso di finanziamenti ricevuti da soggetti terzi; in altri
termini, si tratta debiti contratti dall’azienda con fornitori, banche ecc.
I finanziamenti con capitale proprio non hanno una scadenza predeterminata, non comportano
l’obbligo di una determinata remunerazione (a prescindere che l’azienda abbia prodotto o no utili) e
sono soggetti al rischio d’impresa (c’è il rischio di perderli).
I finanziamenti con capitale di debito devono essere rimborsati a una certa scadenza, comportano
l’obbligo di una determinata remunerazione (in altri termini, l’imprenditore deve corrispondere gli
interessi concordati, a prescindere che il risultato aziendale sia stato positivo o no) e sono soggetti al
rischio d’impresa.
In economia aziendale si distingue fra debiti di regolamento e debiti di finanziamento; i primi
sono quelli che l’impresa contrae quando effettua l’acquisto di beni o servizi ottenendo dilazioni di
pagamento che possono essere più o meno lunghe; si ha quindi un investimento in prodotti (beni o
servizi) che si accompagna al sorgere di un debito che viene estinto con un’uscita di denaro; i
secondi, sono prestiti che procurano all’impresa i mezzi monetari necessari allo svolgimento della
propria attività; quando vengono accesi si ha un’entrata di denaro; al momento dell’estinzione,
invece, si ha un’uscita di denaro.
Il rapporto fra il capitale proprio e quello di debito viene detto grado di capitalizzazione; questo
può assumere tre valori:
• 1; in questo caso il capitale proprio è uguale al capitale di debito;
• >1; il capitale proprio è superiore a quello di debito;
• <1; il capitale proprio è inferiore a quello di debito.
La situazione migliore è ovviamente la seconda (quanto più è elevata l’incidenza del capitale
proprio, tanto più l’azienda è in buone condizioni); la soglia di attenzione è quella di valori
inferiori a 0,6.
Uno degli obiettivi più importanti di un’impresa è quella di raggiungere l’equilibrio finanziario,
ovvero quella situazione in cui l’impresa ha la capacità di far fronte con le proprie entrate sia ai vari
obblighi di pagamento che ha assunto precedentemente, sia agli investimenti che l’attività aziendale
comporta.
La gestione finanziaria (raccolta e gestione dei mezzi finanziari) è una parte fondamentale
dell’attività dell’impresa e, quando è ottimale, può creare eccedenze che possono essere sfruttate
per effettuare fruttuosi investimenti.
I mezzi finanziari raccolti vengono investiti dall’impresa per l’acquisto dei fattori produttivi (beni e
servizi) che, tipicamente, vengono distinti in 4 categorie:
• beni strumentali
• beni destinati alla lavorazione, alla vendita e al consumo
• servizi
• prestazioni da lavoro dipendente.
I primi sono beni che partecipano ai processi produttivi aziendali per periodi più o meno lunghi e,
comunque, superiori all’anno; vengono infatti anche detti beni pluriennali; rappresentano
investimenti strutturali.
I secondi sono beni che partecipano soltanto una volta al processo di produzione o, comunque, sono
utili per periodi di tempo inferiori all’anno.
Vengono invece definiti servizi le prestazioni che l’impresa acquista da collaboratori autonomi o da
altre imprese.
Le prestazioni da lavoro dipendente sono quelle fornite all’impresa da soggetti che a essa sono
legati da un contratto di lavoro subordinato (dirigenti, impiegati, operai ecc.).
Con l’eccezione dei beni strumentali, che sono pluriennali, i vari fattori produttivi sono fattori
d’esercizio.
I fattori produttivi possono essere distinti anche in beni materiali (per esempio gli impianti, le
merci) oppure immateriali (per esempio, licenze, marchi, brevetti).
Il patrimonio aziendale
Il patrimonio dell’impresa può essere analizzato da due punti di vista: qualitativo e quantitativo.
L’aspetto qualitativo ne prende in considerazione la natura e le varie caratteristiche e lo suddivide in
raggruppamenti omogenei; l’aspetto quantitativo ne esamina invece il valore facendo riferimento a
una misura monetaria.
Da un punto di vista qualitativo, il patrimonio aziendale è un insieme di beni, monetari e no, a
disposizione dell’impresa; tali beni vengono definiti impieghi; a loro volta, gli impieghi possono
essere suddivisi in attivo immobilizzato (o fisso) e attivo circolante.
L’attivo immobilizzato è costituito da immobilizzazioni materiali (fattori produttivi il cui ciclo di
utilizzo è superiore all’anno; per esempio un macchinario), immobilizzazioni immateriali (beni
immateriali, per esempio un brevetto) e immobilizzazioni finanziarie (per esempio, crediti a medio-
lungo termine).
Dal punto di vista quantitativo, il patrimonio aziendale suddivide gli impieghi e i finanziamenti in
attività (patrimonio lordo), passività e patrimonio netto. Lo schema seguente chiarisce bene
l’aspetto quantitativo del patrimonio aziendale:
(immobilizzazioni materiali,
immobilizzazioni immateriali, Debiti (a breve e a medio-lungo termine)
immobilizzazioni finanziarie (crediti a
medio-lungo termine)
+\–
Utili aziendali conseguiti, ma non prelevati dal
proprietario o non distribuiti ai soci dell’impresa
(autofinanziamento) \ Perdite d’esercizio o perdite
riportate da esercizi precedenti
Costi e ricavi
L’analisi della gestione dell’impresa sotto l’aspetto economico è relativa al sostenimento dei costi e
al conseguimento di ricavi.
Sono considerati costi tutti quegli oneri che l’impresa deve sostenere per acquistare i fattori
necessari allo svolgimento dell’attività aziendale; l’acquisizione di fattori produttivi che verranno
impiegati per più esercizi (impianti, macchinari, terreni, fabbricati ecc.) dà luogo a costi pluriennali.
Sono invece costi d’esercizio quelli relativi a fattori produttivi la cui funzione economica si
esaurisce nell’arco dell’esercizio durante il quale sono stati acquisiti.
Come facilmente si può immaginare, i costi di esercizio sono variegati e molto diversi fra loro; fra i
numerosi esempi si possono citare quelli sostenuti per l’acquisizione di materie prime e di beni di
consumo, i costi per le merci destinate alla rivendita, gli stipendi del personale dipendente, gli oneri
assicurativi e previdenziali, i costi relativi all’acquisizione dei servizi necessari alla produzione e
alla vendita (energia elettrica, gas, telefono, manutenzioni varie, trasporti, consulenze di vario tipo,
provvigioni), costi relativi ai finanziamenti ottenuti da terzi (interessi verso banche o fornitori, spese
bancarie ecc.), tributi, affitti, noleggi ecc. Da un punto di vista finanziario, i costi sono misurati da
uscite di denaro.
Sono invece definiti ricavi i corrispettivi che si ottengono dalla vendita di beni (prodotti finiti, merci
di vario tipo ecc.) o dalla prestazione di servizi.
L’impresa può ottenere ricavi anche nel caso in cui abbia concesso finanziamenti a soggetti terzi
(interessi sui conti correnti bancari e postali, su titoli, su dilazioni di pagamento concesse ai propri
clienti) oppure da affitti attivi, da disinvestimenti di beni strumentali usati e non più necessari alla
produzione ecc.
La tabella seguente riassume molto schematicamente quanto sopra riportato; a sinistra si riportano i
componenti negative di reddito (costi), mentre a destra quelle positive (ricavi):
Costi Ricavi
Ricavi da vendite di
Costi pluriennali
merci
Ricavi per la prestazione
Costi per acquisto di merci
di servizi
Salari e stipendi Proventi vari
Costi per il godimento di beni di terzi (canoni per affitto di azienda, per
Ricavi finanziari
la locazione di immobili, per utilizzo di marchi e brevetti ecc.)
Disinvestimenti di beni
Costi per l’acquisto di servizi
strumentali
Oneri finanziari (interessi e altri oneri sostenuti dall’impresa per
l’ottenimento di finanziamenti ecc.)
Costi fiscali
Viene definito reddito di esercizio il risultato che l’impresa consegue in dato periodo di tempo
(che, generalmente, ha la durata di un anno; tipicamente ha inizio il primo giorno dell’anno e
termina il 31 dicembre); è, praticamente, la somma algebrica dei componenti positivi (ricavi) e
negativi (costi) di reddito.
Il reddito d’esercizio (anche risultato economico) viene definito utile d’esercizio qualora i ricavi
dell’esercizio sopravanzino i costi sostenuti; in caso contrario, si avrà una perdita di esercizio.
Se ci rifacciamo allo schema sopra riportato, l’eventuale utile di esercizio sarà inserito a pareggio
nella parte sinistra, mentre un’eventuale perdita sarà inserita a destra:
Idealmente, l’utile d’esercizio di un’impresa dovrebbe essere “remunerativo”; ovvero avere le
seguenti caratteristiche:
• dovrebbe garantire uno stipendio che sia commisurato, qualitativamente e
quantitativamente, al lavoro che l’imprenditore o i soci hanno svolto nell’azienda; tale
stipendio deve essere maggiore di quello che sarebbe stato da loro percepito nel caso in cui
fossero stati dipendenti dell’azienda;
• dovrebbe garantire un interesse di computo sul capitale che è stato investito nell’azienda;
tale interesse deve essere uguale o superiore a quello che si sarebbe percepito nel caso in cui
si fosse optato per una forma di investimento alternativa;
• dovrebbe generare un profitto che compensi del rischio di impresa che ci si è assunti.
Per verificare il tasso di remunerazione del capitale di rischio, ovvero quanto rende il capitale
conferito all’azienda dall’imprenditore o dai soci si utilizza il ROE, l’indice di redditività del
capitale proprio:
ROE = (Utile d’esercizio/Capitale proprio)*100.
Confrontando il ROE con il rendimento di eventuali investimenti alternativi senza rischio (per
esempio CCT o BOT) è possibile rendersi conto della bontà della remunerazione aziendale.
La contabilità generale
Si definisce contabilità generale l’insieme delle rilevazioni contabili (scritture contabili) che
riguardano i fatti amministrativi e gestionali di un’impresa; scopo precipuo di tali rilevazioni è la
determinazione del risultato economico d’esercizio (utile o perdita) e del patrimonio di
funzionamento, ovvero il patrimonio che si forma al termine del periodo amministrativo in
un’impresa in normale operatività in modo contestuale e in funzione della determinazione del
risultato economico. La contabilità generale, inoltre, fornisce sia i dati necessari alla compilazione
del bilancio d’esercizio, un documento nel quale sono esposti i risultati ottenuti dall’azienda, sia i
dati occorrenti alla redazione della dichiarazione dei redditi (documento con il quale il quale il
contribuente comunica al fisco il proprio reddito ed effettua il calcolo delle imposte dovute).
Le scritture contabili, attraverso un metodo contabile (ne esistono diversi; il più utilizzato è quelle
della partita doppia), rappresentano le operazioni aziendali di gestione esterna sotto un duplice
profilo: quello finanziario e quello economico.
Lo strumento basilare necessario alla rilevazione quantitativa delle operazioni aziendali è il conto,
ovvero un prospetto che viene suddiviso in due sezioni: dare (a destra) e avere (a sinistra); nel
conto vengono riportate quantità di segno algebrico diverso che vengono espresse in un’unica
moneta.
Quando si inserisce un determinato valore nella sezione dare il conto viene accreditato; viceversa,
inserendo un valore nella sezione avere, il conto viene addebitato. La differenza fra le quantità
riportate in dare e in avere esprime il saldo del conto.
Nel più utilizzato sistema di scritture, il sistema del reddito, le scritture contabili consentono di
determinare analiticamente il risultato d’esercizio attraverso l’individuazione di costi e ricavi
(componenti di reddito rispettivamente negativi e positivi) di competenza dell’esercizio stesso;
contestualmente permettono di accertare consistenza e struttura del patrimonio dell’impresa
attraverso la verifica dei movimenti monetari e finanziari generati dalla gestione aziendale.
Questi due obbiettivi non possono prescindere dall’organizzazione di un sistema di rilevazioni
quantitative che consenta la registrazione di tutti gli eventi gestionali e amministrativi il cui
verificarsi ha conseguenza sulla formazione del reddito e sull’ammontare del capitale di
funzionamento.
Tutto ciò comporta la registrazione contabile di tutti quegli atti amministrativi che danno luogo a
entrate o uscite di cassa o a crediti e debiti.
I dati che vengono rilevati da chi è addetto alla contabilità aziendale (il contabile, o ragioniere)
sono dati oggettivi in quanto vengono desunti da vari tipi di documento (fatture, note di debito, note
di credito ecc.) che indicano quantitativamente (sono espressi in moneta di conto) dei fatti
amministrativi.
L’aspetto originario delle rilevazioni contabili è costituito, quindi, da variazioni finanziarie (anche
numerarie) che consentono anche di determinare l’ammontare dei costi e dei ricavi a esse correlato
(aspetto derivato); questi, infatti, sono misurati dalla variazione numeraria da cui hanno avuto
origine.
In sostanza, la gestione aziendale viene osservata sia sotto l’aspetto numerario, ovvero quello che
rileva le variazioni numerarie attive (entrate monetarie e crediti) e passive (uscite monetarie e
debiti) e sotto l’aspetto economico (che da quello numerario deriva) attraverso la rilevazione di
costi, ricavi e variazioni patrimoniali (apporti o rimborsi di capitale), anch’esse misurate da
variazioni finanziarie.
La partita doppia
La partita doppia il metodo contabile più utilizzato in assoluto; esso prevede la doppia e
contemporanea rilevazione contabile dei valori quantitativi in due serie di conti che funzionano in
modo contrapposto; i conti sono lo strumento che il metodo della partita doppia impiega per la
rilevazione delle scritture contabili dell’azienda.
Le due serie di conti si riferiscono ai conti numerari e ai conti economici di reddito e di patrimonio.
Tutte le registrazioni contabili consistono nell’individuazione dell’aspetto originario e di quello
derivato dell’osservazione e nella collocazione dei valori quantitativi delle operazioni in una
determinata sezione (dare o avere) dei conti della prima serie e nella classificazione di tali valori
nella sezione opposta dei conti della seconda serie; in tutte le registrazioni di partita doppia il totale
degli accreditamenti deve coincidere con quello degli addebitamenti; la tipicità di tale metodo
contabile, infatti, consiste proprio nel far funzionare in modo simultaneo e in modo contrapposto le
due serie di conti.
Convenzionalmente, i valori quantitativi vengono inseriti nelle diverse sezioni dei conti in base a
regole predeterminate.
• Nei conti numerari, le variazioni numerarie attive (entrate di cassa, accrediti bancari,
crediti maturati, estinzione di debiti) vengono registrate in dare (sezione di sinistra); le
variazioni numerarie passive (uscite di cassa, addebiti bancari, debiti contratti, estinzione
di crediti) vengono registrate in avere (sezione di destra).
• Nei conti economici di reddito, le componenti positive (ricavi, proventi vari, storni di costi
ecc.) vengono registrate in avere, mentre le componenti negative (costi, oneri vari, storni di
ricavi ecc.) vengono registrate in dare.
• Nei conti economici di capitale, infine, le variazioni attive del capitale netto devono essere
registrate in avere; quelle passive in dare.
Vediamo un esempio semplicissimo di scrittura contabile, la registrazione di una fattura di acquisto
in data 5 gennaio 2018 (abbiamo acquistato merci per un valore di 1.000 euro; l’IVA relativa
ammonta a euro 220).
Nella fattispecie saranno movimentati tre conti:
• Merci c/acquisti (si legge merci conto acquisti); è un costo, ovvero una componente negativa
di reddito;
• IVA c/acquisti (si legge IVA conto acquisti); è un credito che abbiamo verso l’erario;
• Debiti v/fornitori (si legge Debiti verso fornitori); è un debito che abbiamo verso un nostro
fornitore.
Il primo è un conto economico, gli altri due sono conti finanziari. Di seguito la registrazione della
fattura:
Economia politica
Le origini dell’economia politica sono antiche, anche se la sua nascita come disciplina a sé stante,
svincolata da legami con filosofia e teologia, viene fatta risalire al XVIII secolo; rientra nel novero
delle cosiddette scienze sociali, fra le quali è considerata una delle più importanti; essa studia e
analizza il funzionamento dei sistemi economici che, come abbiamo visto trattando dell’economia
aziendale, sono insiemi che raggruppano operatori economici, le loro attività economiche e le loro
relazioni reciproche che sono costituite da trasferimenti reciproci di beni e servizi (flussi reali) e
denaro (flussi monetari); più precisamente, l’economia politica osserva il comportamento degli
uomini quando si trovano a fronteggiare il problema della soddisfazione dei bisogni individuali nel
momento in cui si ha scarsità di risorse.
Il circuito economico
Ogni comunità, che sia un Paese o un insieme di Paesi, prima per sopravvivere e in seguito per
evolversi e raggiungere determinati fini, deve necessariamente soddisfare i propri bisogni; questo
soddisfacimento viene effettuato tramite la disponibilità di beni (che possono essere risorse naturali
o prodotti dall’uomo) che abbiano un’utilità economica (beni economici) ovvero, in altri termini,
idonei a soddisfare una determinata domanda.
Il problema principale è che, mentre i bisogni sono potenzialmente infiniti, i beni utili
economicamente sono disponibili in quantità limitate; un bene disponibile in quantità illimitate (il
classico esempio è l’aria) non può essere definito, per sua natura, come bene economico.
L’esistenza di una disciplina come l’economia politica nasce proprio perché esiste una
contrapposizione fra illimitatezza dei bisogni umani e limitatezza dei beni economici. Allo scopo di
rendere meno netta questa contrapposizione, il sistema economico deve porsi come obiettivo quello
di rendere disponibile ai soggetti che ne fanno parte la maggior quantità possibile di beni
economici; ciò dovrebbe essere realizzato attraverso un’organizzazione produttiva e distributiva che
sia il più possibile efficiente (ottimizzata), ovvero in grado di allocare nel modo migliore le risorse
di cui dispone. Per raggiungere questi risultati sono necessarie alcune scelte: cosa, quanto, come e
per chi produrre.
In modo schematico e molto elementare, un sistema economico può essere descritto come segue:
Nel sistema economico rappresentato in figura, i soggetti economici rappresentati sono solamente
due: le famiglie e le imprese (ovviamente, i sistemi economici sono decisamente più complessi e gli
operatori che vi prendono parte sono più numerosi: banche, operatori esteri, apparato pubblico
ecc.).
Le famiglie rappresentano il mercato dei beni di consumo, mentre le imprese quello dei fattori
produttivi; le famiglie richiedono beni e servizi alle imprese pagandoli in denaro, offrono inoltre
altre risorse (per esempio il lavoro o capitali), necessarie alla produzione e alla distribuzione; tali
risorse vengono pagate con salari e altri redditi (per esempio, interessi e rendite).
Microeconomia e macroeconomia
L’economia politica viene classicamente suddivisa in due grandi branche: microeconomia e
macroeconomia.
La microeconomia si occupa del comportamento dei singoli operatori economici (consumatori,
imprenditori, risparmiatori), nei singoli mercati (mercato bancario, mercato siderurgico, mercato
automobilistico, mercato ittico ecc.), mentre la macroeconomia studia il comportamento dei grandi
aggregati economici (famiglie, imprese, Stato); la macroeconomia, quindi, considera il sistema
economico come un unico mercato che risulta dall’addizione di tutti i mercati che lo costituiscono;
le grandezze economiche che vengono pertanto prese in considerazione sono le quantità aggregate
dell’intero sistema (produzione complessiva del Paese, livello generale dei prezzi, tasso di
inflazione ecc.).
La macroeconomia ha una connotazione più pratica della microeconomia perché non si limita ad
analizzare le unità elementari dell’economia (i beni, il lavoro, le imprese, i mercati), ma anche il
comportamento dei soggetti economici da un punto di vista collettivo. La macroeconomia, per
esempio, studia la domanda aggregata di tutti i consumatori del mercato (e non la domanda del
singolo consumatore), le fasi di recessione o quelle di espansione, la disoccupazione.
Secondo Keynes, il padre della macroeconomia, forse il più influente degli economisti del XX sec.,
non si possono spiegare i vari fenomeni macroeconomici attraverso l’osservazione dei
comportamenti individuali. In molti casi, per esempio, il comportamento di un singolo operatore
economico diverge da quello collettivo della categoria alla quale appartiene; per esempio, una scelta
razionale da un punto di vista individuale di un’azienda può non esserlo dal punto di vista collettivo
della categoria delle imprese.
In questo caso si nota che la quantità offerta di un bene è correlata positivamente con il prezzo di
vendita; maggiore è il prezzo di un bene, tanto più le imprese sono disposte a produrlo in quantità
maggiori; in altri termini, quando il prezzo di un bene aumenta, le imprese ne aumentano la
produzione e/o altre imprese entrano sul mercato per cominciare a produrlo.
Il prezzo d'equilibrio
Viene definito prezzo d’equilibrio quel prezzo in corrispondenza del quale la quantità della
domanda coincide con quella dell’offerta; se osserviamo il piano cartesiano seguente, il punto di
equilibrio è rappresentato da E, punto nel quale si incontrano le curve della domanda e dell’offerta.
In altri termini, al prezzo d’equilibrio (P*), la quantità del bene (Q*) prodotta dalle imprese è uguale
a quella richiesta dai consumatori; si tratta della classica situazione di stabilità nella quale non c’è
interesse alcuno da parte delle imprese e degli acquirenti a modificare le quantità vendute e
acquistate.
Come già accennato, il mercato tende a spingere il prezzo verso una condizione di equilibrio; le
condizioni di disequilibrio sono due, diametralmente opposte: eccesso di offerta ed eccesso di
domanda.
Quando il prezzo di un bene è elevato, sul mercato si concretizza una condizione di eccesso di
offerta; rimane quindi invenduta una parte dei beni prodotti; ciò spinge le imprese a una riduzione
del prezzo per cercare di piazzare le scorte di magazzino invendute; tale riduzione ha un duplice
effetto; da una parte si verifica un aumento della domanda da parte dei compratori, dall’altra una
riduzione della produzione del bene da parte delle imprese; questi due effetti portano alla
convergenza fra quantità richiesta e quantità offerta e quindi alla situazione di equilibrio di mercato.
Quando il prezzo di un bene è basso, sul mercato si concretizza, invece, una condizione di eccesso
di domanda; i magazzini dei produttori si svuotano velocemente e la domanda rimane solo
parzialmente soddisfatta; a questo punto, le imprese aumentano il prezzo del bene per incrementare
i loro ricavi; tale aumento ha un duplice effetto; da una parte si registra un calo della domanda da
parte dei consumatori, dall’altra si ha un aumento della produzione da parte delle imprese; questi
due effetti portano alla convergenza fra domanda e offerta e, conseguentemente, all’equilibrio di
mercato.
Le forme di mercato
Esistono varie forme di mercato che vengono distinte in base alle condizioni in cui i soggetti
economici (essenzialmente, compratori e venditori) si trovano a operare; quelle che possiamo
considerare come principali sono le seguenti:
• concorrenza perfetta
• monopolio
• oligopolio
• concorrenza monopolistica.
Meno diffuse, ma comunque di un certo interesse, sono:
• monopolio bilaterale
• monopsonio
• duopolio.
Esistono varie differenze fra tutte queste forme, ma quella principale è relativa al numero di
imprese che vi prendono parte.
La concorrenza perfetta
La concorrenza perfetta è una forma di mercato più ipotetica che reale; le sue caratteristiche
principali sono:
• atomizzazione del mercato,
• omogeneità del prodotto
• trasparenza
• piena mobilità dei fattori produttivi.
Quando si parla di atomizzazione (o polverizzazione) del mercato si fa riferimento alla presenza di
moltissimi compratori e venditori di piccole dimensioni (nessuno di essi è in grado di avere
influenza sul prezzo di mercato); i prodotti scambiati nel mercato di concorrenza perfetta sono fra
loro omogenei (ne discende che per gli acquirenti è del tutto indifferente comprare il prodotto da un
venditore o da un suo concorrente); con trasparenza del mercato si fa riferimento al fatto che i
compratori sono del tutto e correttamente informati sulle varie condizioni di domanda e offerta (in
particolar modo sono perfettamente al corrente dei prezzi praticati); con piena mobilità dei fattori
produttivi si intendono sia la libertà per gli imprenditori di spostarsi geograficamente o di cambiare
settore operativo sia l’assenza di barriere di mercato (in altri termini, gli operatori hanno piena
libertà di entrare o uscire nel mercato in base alla loro convenienza) sia il fatto che i soggetti del
mercato operano senza che vi siano intese senza altri venditori o compratori.
Secondo la scuola classica, la concorrenza perfetta rappresentava l’unica forma di mercato in grado
di assicurare i massimi vantaggi a tutti gli appartenenti alla collettività; questo perché quando il
singolo operatore è in competizione con tutti gli altri per massimizzare il proprio interesse personale
ne trae vantaggio tutta la collettività. I fautori del mercato in concorrenza perfetta ritengono che tale
forma abbia notevoli vantaggi: massimizzazione del volume della produzione, sovranità del mercato
ai consumatori (è la domanda che crea i presupposti dell’attività di produzione), migliore
allocazione delle risorse, indipendenza assoluta degli operatori economici (soprattutto nei confronti
dell’apparato statale).
Ovviamente non mancano le critiche a questo modello, critiche accentuatesi dopo la cosiddetta
grande depressione (crisi del 1929); i detrattori fanno notare che un sistema che si basa sulla libera
concorrenza senza alcun freno da parte dello Stato, conduce inevitabilmente a frequenti crisi
dell’occupazione; un’altra pesante critica è rivolta alla supposta sovranità del consumatore; questa
sarebbe solo teorica in quanto le varie imprese, grazie alle strategie pubblicitarie, sono in grado di
creare bisogni fittizi o, peggio, dannosi per i consumatori. La concorrenza perfetta, inoltre, non è in
grado di garantire la giustizia sociale in quanto consente agli operatori più forti economicamente di
agire nel proprio interesse determinando ingiustizie nella distribuzione della ricchezza. Va da sé che
un mercato che abbia tutte le caratteristiche della concorrenza perfetta è di difficile (se non
addirittura impossibile) riscontro nella realtà.
Il monopolio
Il monopolio è una forma di mercato le cui principali caratteristiche sono:
• offerta concentrata nelle mani di un solo produttore (monopolista)
• presenza di numerosi compratori
• assenza di surrogati del prodotto offerto
• impossibilità di accesso nel mercato da parte di altre imprese.
In regime di monopolio, l’impresa ha un’alternativa: stabilire il prezzo di mercato (e immettere
quindi sul mercato la quantità di prodotto che i consumatori richiedono a quel determinato prezzo)
oppure fissare la quantità di prodotto da mettere in vendita (accettando il prezzo al quale i
compratori sono disposti a comprare tale quantità); di fatto, il monopolista non può controllare
contemporaneamente entrambe le variabili (prezzo e quantità). Fondamentale caratteristica del
monopolio è il fatto che per prodotti che vengono scambiati non esistono surrogati; il compratore,
quindi, non ha la possibilità di acquistare un surrogato del bene offerto dall’imprenditore
rivolgendosi altrove. Per poter parlare di monopolio non si può inoltre prescindere dal fatto che non
vi è alcun modo per altre imprese di accedere al mercato; di fatto, il monopolio è un mercato in cui
vi è la totale assenza di concorrenza. Può essere distinto in pubblico (o monopolio di Stato; l’unica
impresa operante è un ente pubblico) o privato (se, al contrario, l’unica impresa del mercato è
privata). Nel nostro Paese un esempio di monopolio pubblico è quello in vigore sul tabacco.
Il monopolio è una forma di mercato che ha numerosi svantaggi: innanzitutto i prodotti che
vengono immessi sul mercato hanno un prezzo più alto rispetto a quello che verrebbe stabilito in un
regime di concorrenza perfetta; i prezzi più elevati tolgono ai consumatori con minori possibilità
economiche di acquistare altri prodotti; il monopolio determina un’elevata concentrazione di
notevoli ricchezze nelle mani di un solo soggetto economico (il monopolista); il monopolista non è
sempre facilmente controllabile dato il notevole potere economico concentrato nelle sue mani (in
altri termini, può avere una notevole influenza sul mondo politico e sociale); il monopolio
garantisce generalmente redditi particolarmente elevati; ciò consente importanti investimenti in
impianti e macchinari con conseguente negativo impatto sull’occupazione; la presenza di tutti questi
svantaggi spiega perché in molti Paesi esistono leggi piuttosto restrittive sui monopoli privati. Il
regime di monopolio ha comunque anche alcuni vantaggi; innanzitutto, i grandi profitti permettono
di investire sulla ricerca e di ottimizzare la produzione; nel caso di monopoli pubblici si possono
offrire importanti servizi a tariffe contenute e, in alcuni casi, differenziate in base al reddito; il
monopolio pubblico, inoltre, consente allo Stato di avere sicure e notevoli fonti di entrate.
L'oligopolio
L’oligopolio è una forma di mercato che si caratterizza per la presenza di poche imprese
(generalmente di notevoli dimensioni) che offrono determinati beni o servizi e per una domanda
frazionata fra numerosi compratori.
Si distinguono due forme di oligopolio: perfetto e imperfetto; nel primo caso, i prodotti che vengono
offerti dalle imprese sono praticamente gli stessi; nel secondo caso (molto diffuso nella realtà), i
prodotti hanno un certo grado di differenziazione, anche se sono sostituibili gli uni con gli altri (il
classico caso è il mercato degli elettrodomestici).
Una delle caratteristiche dell’oligopolio è rappresentata dalle difficoltà di ingresso di nuove
imprese; tali difficoltà derivano essenzialmente dal fatto che le poche imprese presenti hanno grandi
dimensioni (molto spesso si tratta di multinazionali), dispongono di impianti di prim’ordine e di
ingenti capitali e non è semplice essere concorrenziali con loro.
In questo mercato è notevole l’interesse che le imprese hanno nei confronti delle loro concorrenti le
cui mosse vengono sempre valutate con estrema attenzione; risultano fondamentali la pubblicità, il
marketing, le sponsorizzazioni e la cura verso le tecniche di vendita e la distribuzione dei prodotti.
Il prezzo di vendita dei prodotti deve ovviamente coprire tutti i costi relativi alla produzione e
tenere conto di un margine di profitto che sia adeguato al proprio potere sul mercato; in alcuni casi
però, nei mercati dove l’azienda deve ancora affermarsi, il prezzo di vendita potrebbe essere, per un
certo periodo di tempo, inferiore a quello che le consentirebbe un livello di profitto adeguato.
La concorrenza monopolistica
Nota anche come concorrenza imperfetta, la concorrenza monopolistica è una forma di mercato
piuttosto comune nella realtà (la gran parte dei mercati dei beni di consumo è in concorrenza
monopolistica), che ha sia alcune caratteristiche della concorrenza perfetta, sia del monopolio (da
qui la sua denominazione che accosta due termini in antitesi come concorrenza e monopolio).
Nella concorrenza monopolistica è presente un’atomizzazione del mercato sia per quanto riguarda
l’offerta (sono presenti molte imprese) sia per quanto riguarda la domanda (sono presenti moltissimi
consumatori); i prodotti offerti sono generalmente sostituibili fra loro con una certa facilità, ma
possono presentare alcune differenziazioni che possono essere reali o apparenti; vi possono essere
cioè differenze qualitative oppure soltanto esteriori (vale a dire prodotto simile, ma packaging
differente); un ruolo di fondamentale importanza in questo mercato è ricoperto dalla pubblicità che
può convincere i consumatori che determinati prodotti hanno caratteristiche che, in realtà, non sono
presenti o comunque sono sovrastimate. I prezzi dei prodotti possono quindi essere molto diversi fra
loro, anche nel caso di caratteristiche simili perché il consumatore potrebbe essere convinto, grazie
a sapienti strategie pubblicitarie, che un determinato bene è qualitativamente superiore ad altri.
Il monopolio bilaterale
Il monopolio bilaterale è una forma di mercato rara e atipica nella quale si fronteggiano soltanto
due operatori: l’acquirente (detto monopsonista) e l’offerente (detto monopolista); ognuna delle due
parti è consapevole che è in grado di poter avere influenza sull’altro e che dovrà a sua volta subire
l’influsso delle decisioni della controparte. L’equilibrio di mercato nel monopolio bilaterale viene
determinato dalla forza contrattuale e dal potere negoziale delle due parti in causa. Un esempio di
monopolio bilaterale è rappresentato dal mercato del lavoro, durante le contrattazioni salariali tra i
sindacati e le associazioni delle imprese di un settore industriale; pur avendo interessi del tutto in
conflitto fra loro, i soggetti sono comunque costretti a collaborare perché, di fatto, uno non potrebbe
esistere senza l’altro.
Il monopsonio
Il monopsonio è quella forma di mercato nella quale operano numerosi soggetti economici dal lato
dell’offerta (molte imprese in concorrenza fra loro) e un solo soggetto economico dal lato della
domanda. Le quantità di beni acquistati sono decisamente inferiori a quelle offerte; l’acquirente ha
in questo caso un potere contrattuale particolarmente elevato e può spuntare prezzi molto
convenienti; il monopsonio è, di fatto, l’opposto del monopolio.
Un esempio di questa forma di mercato è riscontrabile nel caso di una determinata impresa che
rappresenta l’unica opportunità lavorativa in un determinato luogo; l’impresa, potendo influenzare
al ribasso il prezzo del bene richiesto (in questo caso la forza lavoro) si trova quindi in una
posizione di vantaggio nel confronto dei singoli offerenti (gli aspiranti lavoratori).
Il duopolio
Il duopolio è una forma estremizzata di oligopolio; nel duopolio operano soltanto due imprese che
offrono beni omogenei; la domanda è polverizzata (moltissimi compratori).
Nel duopolio le imprese possono optare per due tipi di equilibrio: cooperativo (o collusivo) o non
cooperativo; nel primo caso, i due soggetti coopereranno al fine di massimizzare i loro profitti,
mentre nel secondo caso tentano di raggiungere la massimizzazione dei profitti scegliendo la
competizione. Le strategie imprenditoriali sono influenzate pesantemente dal comportamento, reale
o presunto, dell’impresa concorrente (interdipendenza strategica).
Questa forma di mercato viene utilizzata come riferimento nella teoria dei giochi, ovvero quella
scienza matematica che studia e analizza le decisioni di un soggetto che si trova ad affrontare
situazioni di conflitto oppure di interazione strategica con due o più soggetti rivali finalizzate
all’ottenimento del massimo guadagno di ogni soggetto in causa.
Le variabili macroeconomiche
Nell’ambito della macroeconomia sono molte le grandezze che entrano in gioco; fra le importanti si
devono ricordare le seguenti:
• PIL (Prodotto Interno Lordo)
• inflazione
• occupazione e disoccupazione
• moneta circolante.
L'inflazione
In macroeconomia si definisce inflazione l’aumento progressivo del livello medio generale dei
prezzi dei beni e dei servizi in un determinato periodo di tempo che genera una riduzione del potere
d’acquisto (ovvero del valore) della moneta.
Nel nostro Paese l’inflazione viene calcolata dall’ISTAT (Istituto nazionale di statistica, un ente
pubblico di ricerca); per calcolarla si prendono in considerazione beni e servizi consumati dalle
famiglie (generi di uso quotidiano, beni durevoli e servizi) durante l’anno; questi vengono inseriti
nel cosiddetto paniere dei prezzi; tutte le voci di spesa hanno un prezzo che può variare nel corso
dell’anno; il tasso d’inflazione sui 12 mesi corrisponde al prezzo complessivo del paniere in un
certo mese rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
L’inflazione può avere varie cause (aumento dei costi di produzione, eccessiva quantità di moneta in
circolazione, domanda aggregata complessiva di beni e servizi che eccede le possibilità di offerta
ecc.) e gli economisti non sono tutti concordi su quale sia quella che ha la maggiore influenza.
L’inflazione viene definita strisciante quando si ha un aumento dei prezzi relativamente modesto
(<10%), ma prolungato nel tempo e galoppante nel caso di un incremento rapido e inarrestabile dei
prezzi; si parla invece di iperinflazione allorquando l’aumento dei prezzi è particolarmente elevato
(>50% al mese).
Esiste un fortissimo legame fra inflazione e crescita economica a patto che si tratti di un’inflazione
piuttosto bassa e controllabile; non è infatti un caso che la gran parte delle banche centrali punti a
un tasso di inflazione annuo che oscilli fra il 2 e il 3% circa; quando il tasso di inflazione rientra in
questo range, gli aumenti dei prezzi vengono di solito compensati dagli incrementi salariali (il
potere d’acquisto rimane quindi immutato); se invece il tasso di inflazione è elevato, gli aumenti
salariali non sono sufficienti a compensare l’aumento dei prezzi e i compratori sono di fatto “più
poveri”, i tassi di interesse crescono e farsi prestare denaro diventa più oneroso, si hanno in genere
conseguenze negative sul denaro risparmiato (gli interessi nominali sono sempre più bassi del tasso
di inflazione per cui il potere d’acquisto del denaro risparmiato perde valore), il Paese subisce un
deprezzamento della valuta rispetto ad altri Paesi loro partner commerciali ecc.
Nella Comunità Europea è la Banca Centrale Europea (BCE) che cerca di tenere sotto controllo
l’inflazione attraverso varie misure di politica monetaria fra le quali la manipolazione del tasso di
interesse della valuta; quando l’economia è forte, se l’inflazione supera la soglia prestabilita, la
BCE aumenta il tasso di interesse (aumentando quindi il costo del denaro); così facendo si
scoraggia l’accesso al credito, si ha una riduzione della moneta circolante e l’inflazione scenderà.
Se invece l’economia è in un momento difficile o comunque è stagnante e l’inflazione è troppo
bassa o addirittura negativa (deflazione), la BCE interviene riducendo i tassi di interesse
incoraggiando l’accesso al credito e facendo circolare una maggiore quantità di moneta con
conseguente incremento del tasso di inflazione.
Occupazione e disoccupazione
In economia, quando si parla di occupazione e disoccupazione si fa generalmente riferimento
all’utilizzo, da parte di un sistema economico, del fattore lavoro.
Nel sistema economico, gli occupati costituiscono quell’insieme di soggetti che, in base alle
rilevazioni dell’Istituto nazionale di statistica sulla forza lavoro risultano attivi in un determinato
momento come dipendenti o come autonomi.
Si definisce piena occupazione quella situazione in cui si registra l’assenza di disoccupazione
involontaria; in questa situazione la domanda di lavoro eguaglia o supera l’offerta (in un’economia
capitalista la piena occupazione è questione puramente teorica).
Con l’espressione tasso di occupazione si fa riferimento al rapporto percentuale fra il numero di
persone occupate e la popolazione.
Con disoccupazione volontaria si intende invece la condizione in cui si trova colui che offre la
propria forza lavoro in cambio di un salario o di uno stipendio, ma non riesce a trovare alcun
impiego per un periodo di tempo prolungato.
Di solito si distinguono quattro tipologie di disoccupazione: frizionale, strutturale, tecnologica e
ciclica.
La disoccupazione frizionale è un fenomeno considerato naturale e mai del tutto eliminabile; nasce
dal normale turnover che si ha nel mondo del lavoro (soggetti che entrano ed escono dalla forza
lavoro e dalla continua creazione e distruzione di posti di lavoro). Di solito è di breve durata (il
tempo necessario perché datore di lavoro potenziale e soggetto in cerca di occupazione si
incontrino). Può essere in parte ridotta migliorando l’efficienza dei servizi di collocamento.
La disoccupazione strutturale è quella che viene a verificarsi a causa dell’assenza di una
corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro; non vi è, in pratica, coincidenza fra le abilità
possedute dall’aspirante lavoratore e quelle che invece sono richieste dal datore di lavoro. Si cerca
di porvi parzialmente rimedio con i corsi di riqualificazione professionale.
La disoccupazione tecnologica è quella dovuta all’introduzione delle cosiddette tecniche
risparmiatrici di lavoro ovvero quelle tecnologie che consentono una riduzione del carico di lavoro
eseguito da operatori umani; può essere riassorbita in parte o in toto da un aumento di investimenti
verso la nuova tecnologia.
Si definisce infine disoccupazione ciclica quella causata dalle variazioni del ciclo economico; di
fatto, aumenta allorquando l’economia si trova in una fase di recessione e si riduce nel corso di una
fase di espansione economica.
La moneta circolante
Con il termine moneta si fa riferimento a tutto ciò che viene impiegato come mezzo di pagamento
per l’acquisto di beni e di servizi nonché per l’estinzione di debiti.
La moneta svolge essenzialmente tre funzioni:
• riserva di valore (è un bene che conserva il suo valore nel tempo e può quindi essere
detenuto per un futuro utilizzo; in altri termini, si può risparmiare una parte di reddito
conseguito nel tempo presente per poi impiegarlo per effettuare acquisti in un tempo futuro)
• unità di conto (è un’unità numerica standard che consente di misurare il valore di mercato
di beni e servizi; permette cioè di fissare prezzi e registrare debiti)
• mezzo di scambio (viene utilizzata per acquistare beni e servizi).
Nel corso del tempo la moneta è stata disponibile sotto varie forme che essenzialmente possono
essere suddivise in due macrocategorie: moneta senza valore intrinseco (ma riconosciuta come tale
e quindi accettata come mezzo di scambio) e moneta dotata di valore intrinseco. Il primo caso è
quello delle banconote e delle monete metalliche il cui valore in sé sarebbe trascurabile se non fosse
fissato per legge (di fatto, una banconota da 500 euro avrebbe il solo valore della carta utilizzata per
stamparla), mentre il secondo caso è quello dei metalli preziosi (come oro, argento ecc.). Tutti i
Paesi utilizzano ormai moneta legale, ma l’oro viene ancora impiegato per i pagamenti
internazionali.
In economia, con la locuzione moneta circolante (anche base monetaria o aggregato monetario
M0) si fa riferimento all’insieme delle banconote e delle monete metalliche in circolazione nel
sistema economico in un determinato momento; nella misurazione della quantità di moneta presente
si deve tenere conto non soltanto del circolante, ma anche dei depositi di conto corrente (c/c)
presenti nei vari istituti di credito e liquidabili tramite emissione di assegni bancari o circolari; la
somma del circolante e dei depositi in c/c è la forma più liquida di denaro e viene definita come
aggregato monetario M1; viene definito invece aggregato monetario M2 la somma di M1 e dei
depositi bancari con durata fino a due anni; l’aggregato monetario M3, infine, è la somma di M2 e
di operazioni pronti contro termine, quote dei fondi comuni monetari e titoli del mercato monetario.
L’offerta di moneta e dei mezzi di pagamento, la regolazione del credito e il coordinamento delle
banche commerciali vengono controllati dalle banche centrali. Nel nostro Paese la banca centrale è
la Banca d’Italia, un istituto di diritto di pubblico.
L’autorità monetaria della Comunità europea è la BCE, la Banca Centrale Europea la cui sede si
trova a Francoforte. La BCE è stata istituita nel 1998 e fra i suoi compiti fondamentali ci sono quelli
di assicurare la maggior stabilità possibile dei prezzi all’interno dell’area euro e quello di formulare
le politiche monetarie dei Paesi che fanno parte della Comunità europea.
I grandi economisti
La scienza economica come la conosciamo oggi è stata praticamente fondata dagli economisti
classici (il primo dei quali fu Adam Smith); cronologicamente, quella dei classici è la terza scuola di
pensiero economico dopo quelle dei mercantilisti e dei fisiocratici. Di seguito un breve cenno ad
alcuni dei più famosi economisti della storia mondiale.
Adam Smith (XVIII sec.) – Economista e filosofo scozzese, è considerato dalla maggior parte
degli studiosi il fondatore della scienza economica moderna.
La sua opera più importante è l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni,
testo con il quale Smith chiude il periodo dei cosiddetti mercantilisti (il mercantilismo fu la politica
economica prevalente in Europa dal XVI al XVII sec.; si basava sul concetto che la potenza di una
nazione fosse accresciuta dal surplus commerciale, ovvero la prevalenza delle esportazioni sulle
importazioni) e avvia quello degli economisti classici.
David Ricardo – Economista inglese che operò a cavallo del 1800, è unanimemente considerato
uno dei maggiori esponenti della scuola classica avviata da Smith. Importantissimi sono i suoi studi
sulla svalutazione della moneta, sugli scambi internazionali, sulle rendite fondiarie e, in particolar
modo, sulla distribuzione della ricchezza. La sua opera principale è Principi di economia politica e
dell’imposta le cui principali conclusioni sono relative alla redditività della terra e al commercio
internazionale.
Marie Esprit Léon Walras (XIX sec.) – Economista francese il cui nome è associato
all’approfondimento dell’economia pura (che, diversamente dall’economia applicata, studia i
fenomeni economici in maniera astratta; prescinde cioè dalla realtà e non tiene conto né del
momento storico né dei fattori ambientali) e al modello di equilibrio economico generale, detto
appunto equilibrio walrasiano. La teoria dell’equilibrio economico generale cerca di spiegare come
la domanda, l’offerta e i prezzi di diversi prodotti siano in reciproca relazione e determinati in modo
simultaneo in un esito definito come “equilibrio generale”. Le sue opere principali sono Elementi di
economia politica pura, Studi di economia sociale e Studi di economia politica applicata. Walras fu
definito da Schumpeter come “il più grande di tutti gli economisti”.
Alfred Marshall (XIX-XX sec.) – Economista inglese, è considerato come uno degli esponenti più
rappresentativi della scuola neoclassica; a lui si deve la creazione del sistema degli equilibri
parziali. Attraverso l’analisi di breve e lungo periodo della curva di domanda che origina dalle
preferenze dei consumatorii e dalla curva di offerta, Marshall individua il prezzo attorno cui ogni
singolo mercato tende a orientarsi (prezzo di equilibrio). La sua opera più famosa è Principi di
economia considerata la base dell’economia neoclassica e che, nel suo Paese di origine, è rimasto
per lungo tempo il testo economico di riferimento.
Vilfredo Pareto (XIX-XX sec.) – Economista italiano (nacque a Parigi da padre italiano e madre
francese), è uno dei principali rappresentanti dell’indirizzo marginalistico (neoclassico),
contrapposto alla scuola classica di Smith e Ricardo. È celebre per la definizione dell’ottimo
paretiano (fondamentale per il successivo sviluppo della teoria del benessere), un concetto
utilizzato non solo in economia, ma anche nella teoria dei giochi, in ingegneria e nelle scienze
sociali. L’ottimo paretiano (anche efficienza paretiana) si realizza allorquando l’allocazione delle
risorse è tale che non vi sono più possibilità di apportare miglioramenti paretiani, ovvero non si è in
grado di migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare quella di un altro. Fra le sue opere
principali si devono ricordare Corso di economia politica, Manuale di economia politica e Trattato
di sociologia generale.
Joseph Alois Schumpeter (prima metà del XX sec.) – Economista austriaco, è una delle figure di
spicco del XX sec. È noto in particolar modo in qualità di teorico del ciclo e dello sviluppo
economico e in quanto sostenitore dell’importanza fondamentale dell’imprenditore nell’evoluzione
dell’economia, sia dell’importanza della creazione di credito da parte del sistema bancario nei
confronti delle decisioni degli imprenditori stessi e, di conseguenza, del progresso economico.
John Maynard Keynes (prima metà del XX sec.) – Economista britannico, è universalmente
considerato come una delle figure fondamentali e più influenti della scienza economica del XX sec.
nonché come il padre della macroeconomia. Il contributo di Keynes alla teoria economica ha dato il
via a quella che è stata definita come rivoluzione keynesiana. La sua opera principale è la Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta con la quale getta le fondamenta del
pensiero macroeconomico. Keynes attribuisce un peso fondamentale alla domanda aggregata,
ovvero alla quantità di beni e servizi che la collettività richiede al sistema, nella convinzione che la
domanda condizioni l’offerta, e mette in discussione il pensiero neoclassico secondo il quale
l’offerta crea sempre i presupposti per il proprio totale assorbimento. Keynes sostiene l’importanza,
o più precisamente, la necessità degli investimenti pubblici nell’economia al fine di stimolare la
domanda in periodi di sottooccupazione.
Milton Friedman (XX sec.) – Economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1976, è il
fondatore pensiero monetarista, una teoria macroeconomica che si occupa in particolar modo dello
studio degli effetti dell’offerta di moneta governata dalle banche centrali nel sistema economico
(l’indirizzo monetarista considera importantissimo il controllo dell’offerta di denaro sia come argine
ai processi inflazionistici sia per assicurare stabilità al sistema). Il pensiero e gli studi di Friedman
hanno avuto un’influenza notevole su molte teorie economiche. Fra le sue opere più importanti va
ricordato il testo Capitalismo e libertà, nel quale Friedman presenta la libertà economica come
prerequisito per la libertà politica.
Scienza delle finanze
La scienza delle finanze è quella branca dell’economia che tratta dell’attività finanziaria pubblica,
ovvero l’attività che lo Stato e i vari enti territoriali (Comuni, Province e Regioni) svolgono allo
scopo di reperire i mezzi necessari all’erogazione dei servizi di pubblico interesse (bisogni
collettivi).
Per soddisfare i bisogni collettivi sono indispensabili entrate pubbliche (rappresentate dai diversi
introiti che lo Stato e tutti gli altri soggetti pubblici reperiscono grazie ad apposite norme) e spese
pubbliche (vale a dire le uscite necessarie per la messa a disposizione dei vari servizi).
Nell’attività finanziaria pubblica si distinguono pertanto soggetti attivi (lo Stato e i vari enti) e
soggetti passivi (i contribuenti, ovvero i cittadini chiamati per legge al pagamento dei vari tributi).
È importante definire il significato della locuzione bisogni pubblici (anche bisogni collettivi); si
tratta, essenzialmente di quelle esigenze che il cittadino avverte in quanto membro di una
collettività; ne sono facili esempi l’ordine pubblico, la difesa, l’istruzione, la salute, la giustizia ecc.
I bisogni pubblici possono essere distinti in generali e speciali; i vantaggi che i primi portano con sé
non sono esattamente quantificabili per il singolo cittadino (si pensi ai servizi dell’ordine pubblico o
a quelli della difesa), mentre il vantaggio dei secondi è misurabile in quanto sono divisibili per il
singolo fruitore (il classico esempio è il prezzo che il cittadino sostiene per l’erogazione di un
certificato).
I bisogni pubblici generali vengono finanziati con le imposte, mentre quelli speciali con le tasse.
Come nel caso di un’impresa privata, la differenza fra le entrate e le spese in un dato periodo (il
cosiddetto anno finanziario che, nel nostro Paese, coincide con l’anno solare) dà luogo a un avanzo
pubblico (se le entrate superano le spese) oppure a un deficit pubblico (le spese sopravanzano le
entrate), che è il caso più frequente. Per coprire (finanziare) il deficit pubblico, lo Stato ricorre
generalmente al debito pubblico.
È possibile a questo punto introdurre la definizione di fabbisogno finanziario dello Stato, che non
è altro che la somma delle spese pubbliche che l’apparato statale deve sostenere nell’anno
finanziario.
Nelle economie moderne, l’ammontare globale della spesa pubblica tende sempre ad aumentare e
questo viene considerato come uno dei più seri problemi che i governi di ogni Paese sono chiamati
ad affrontare. La misura del deficit statale viene generalmente espressa ricorrendo a una percentuale
riferita al prodotto interno lordo, il PIL, definibile come il risultato finale dell’attività produttiva dei
residenti in un Paese nel corso di un anno finanziario. È di vitale importanza per un Paese riuscire a
mantenere il deficit dello Stato al di sotto di una determinata soglia (per esempio, il 2%).
Le cause alla base della tendenza alla crescita della spesa statale sono diverse (inflazione,
incremento dei bisogni della collettività, burocrazia statale eccessiva con conseguenti aumenti di
spesa, sprechi delle risorse pubbliche, inefficienze della macchina statale, finanziamento della
disoccupazione, spese per il servizio sanitario nazionale ecc.).
Per quanto riguarda l’Italia, fra le spese pubbliche più rilevanti vanno senz’altro segnalate quelle
relative alla previdenza sociale, alla sanità e all’istruzione.
Le spese pubbliche
Le spese pubbliche sono le spese sostenute dallo Stato e dai vari enti pubblici per far fronte alle
esigenze della collettività.
Tali spese possono essere suddivise basandosi su vari criteri; in base alla loro destinazione si
distinguono spese correnti e spese di investimento; le prime sono necessarie al funzionamento
della pubblica amministrazione e sono pertanto ricorrenti; ne sono esempi i costi sostenuti per il
reperimento dei materiali necessari alle varie attività pubbliche, i pagamenti degli stipendi dei
dipendenti statali, gli interessi maturati sui titoli di Stato ecc.; le seconde, invece, sono riferite ai
pagamenti che lo Stato deve sostenere per la costruzione o il mantenimento delle opere pubbliche e
delle varie infrastrutture (ospedali, strade, edilizia popolare), per la costruzione di macchinari, per le
sovvenzioni a fondo perduto alle imprese ecc. Le spese di investimento sono anche definite spese in
conto capitale.
A seconda della loro frequenza si distinguono spese ordinarie e spese straordinarie; le prime sono
quelle che lo Stato sostiene in modo continuativo nel tempo (pagamento degli stipendi, erogazione
delle pensioni ecc.), le seconde sono invece sostenute una tantum oppure in modo non regolare
tempo; le spese straordinarie possono essere previste, ancorché occasionali (realizzazione di
un’opera di pubblica utilità) oppure impreviste (il classico caso è quello delle spese che si devono
sostenere in seguito a una calamità naturale). In linea di principio, le spese ordinarie dovrebbero
essere coperte con le entrate ordinarie, mentre quelle straordinarie con entrate straordinarie, cosa
che non sempre è possibile realizzare.
Si distinguono poi, in base all’ente che le effettua, spese statali e spese locali; esempi delle prime
sono le spese per la difesa e per la giustizia, esempi delle seconde sono le spese sostenute per la
sanità pubblica che, come noto, sono di competenza regionale.
A seconda delle norme giuridiche che le regolano, si distinguono spese obbligatorie e spese
facoltative; le prime, imposte dalla legge, devono essere obbligatoriamente sostenute; il classico
caso è rappresentato dal pagamento degli stipendi dei dipendenti del pubblico impiego; quelle
facoltative sono invece le spese che sono decise dal Governo che è attualmente in carica (per
esempio, i costi da sostenere per realizzare la costruzione di una ferrovia).
Un’altra distinzione è quella relativa allo scopo; in base a questo criterio si hanno spese di governo
e spese di esercizio; le prime sono quelle necessarie al soddisfacimento dei bisogni collettivi (per
esempio, l’erogazione delle pensioni) e per il conseguimento di altre finalità statali; le seconde sono
quelle che lo Stato sostiene per procurarsi delle entrate (spese per gli accertamenti fiscali, interessi
sui titoli di Stato ecc.).
Le entrate pubbliche
Per far fronte alle spese pubbliche sono ovviamente necessarie delle entrate pubbliche, che sono
identificabili con tutte le differenti risorse che lo Stato e i vari enti incassano attraverso diverse
modalità:
• entrate tributarie: imposte, tasse e contributi
• entrate provenienti dal patrimonio statale e locale (sia per la fruizione che il cittadino ha di
questi beni sia per l’alienazione di una parte di essi)
• entrate provenienti dalle attività delle imprese pubbliche
• entrate per il rimborso di crediti.
Merita un cenno la distinzione fra imposte, tasse e contributi. Le prime sono tributi che consistono
in un prelievo coattivo di ricchezza dal contribuente; servono a finanziare i vari servizi pubblici;
l’imposta è espressione del potere d’imperio (sovranità) dello Stato che preleva una parte della
ricchezza del cittadino allo scopo di fornire alla collettività i cosiddetti servizi indivisibili
(l’istruzione, la difesa, la costruzione di strade ecc.).
Erroneamente, il termine imposte viene comunemente considerato quale sinonimo di tasse; in realtà,
queste ultime si distinguono dalle prime in quanto rappresentano il corrispettivo per un servizio
pubblico che viene richiesto in forma individuale (ne sono esempi le tasse aeroportuali, le
concessioni, le licenze ecc.).
I contributi sono prelievi di ricchezza effettuati da enti pubblici i quali, con le loro opere, arrecano
un vantaggio al singolo contribuente senza che questi avesse fatto una richiesta di qualsivoglia
prestazione (si pensi, per esempio, ai contributi che devono essere versati per le bonifiche
pubbliche). Si tratta di una categoria di tributo sulla quale la dottrina economica non è
unanimemente concorde; alcuni autori ritengono che si tratti di tasse (sono dovuti per uno specifico
servizio, per esempio i contributi che si versano per le utenze stradali), altri li considerano come
imposte (per esempio, i contributi che vengono versati al Servizio Sanitario Nazionale).
Tutte le entrate sopraccitate sono comunque definibili come “entrate fiscali”; vanno poi ricordate le
cosiddette entrate “parafiscali”, i tipici esempi sono rappresentati dai pagamenti che i cittadini e le
imprese effettuano a enti previdenziali e assistenziali quali INPS, INAIL ecc.
Come nel caso delle spese pubbliche, anche le entrate pubbliche possono essere suddivise in base a
vari criteri.
A seconda della fonte di derivazione si hanno entrate originarie ed entrate derivate; le prime sono
rappresentate dagli introiti che derivano dai beni che fanno parte del patrimonio dello Stato e
dall’esercizio delle imprese pubbliche, industriali o commerciali che siano; le seconde sono invece
costituite dalle entrate che derivano da tributi e pene pecuniarie, che sono prelievi effettuati nei
confronti di cittadini e imprese in virtù della sovranità di Stato ed enti pubblici.
Vale la pena ricordare che, nel corso degli anni, le entrate originarie sono diminuite in modo
considerevole a causa delle privatizzazioni; molte aziende pubbliche sono state trasformate in enti
privati (si pensi all’ENEL, all’INA e all’ENI, che hanno acquisito la veste giuridica di S.p.A.
-Società per Azioni-, le cui azioni possono essere acquistate dai risparmiatori privati) e ciò ha
portato a un notevole decremento delle entrate originarie; lo scopo delle privatizzazioni è duplice:
l’entrata finanziaria derivante dalla vendita e l’evitare che lo Stato sia costretto a intervenire nel
caso di aziende con bilancio in passivo.
Altro criterio di distinzione è la natura delle entrate; si avranno quindi entrate tributarie (imposte,
tasse, contributi) ed extra-tributarie (tutto ciò che non è riconducibile ai tributi).
Le entrate possono essere ordinarie o straordinarie; le prime si ripetono di anno in anno; le
seconde non hanno una periodicità regolare (ne sono esempio le imposte una tantum oppure le
entrate derivanti dall’alienazione di un bene del patrimonio pubblico).
Il disavanzo statale e il debito pubblico
Quando le spese pubbliche superano le entrate pubbliche si genera un deficit pubblico (o disavanzo
statale).
Ogni anno il Bilancio dello Stato registra un deficit più o meno consistente, deficit che deve essere
necessariamente coperto; le possibilità sono essenzialmente due:
la Banca centrale provvede all’emissione di moneta;
• si ricorre al debito pubblico (emissione di titoli obbligazionari acquistabili da soggetti
privati).
La prima soluzione è difficilmente percorribile perché avrebbe un impatto fortemente negativo sui
livelli di inflazione che potrebbero aumentare in modo drastico; la seconda soluzione è quella che
viene solitamente perseguita.
I titoli che lo Stato emette per ottenere liquidità sono di diverso tipo; meritano un cenno i Buoni
Ordinari del Tesoro (BOT), i Buoni del Tesoro Pluriennali (BTP), i Certificati di Credito del Tesoro
(CCT) e i Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ).
I BOT sono titoli dalle varie scadenze (3 mesi, 6 mesi, un anno) e si caratterizzano per l’interesse
che, di fatto, viene corrisposto anticipatamente, dal momento che vengono emessi “sotto la pari” (il
titolo ha, per esempio, un valore di rimborso di 100 euro, ma il sottoscrittore lo acquista per 95
euro); i BTP, invece, fruttano un interesse semestrale predeterminato per periodi medio-lunghi; i
CCT sono titoli a lunga durata e hanno tasso di interesse variabile; i CTZ funzionano
sostanzialmente come i BOT, ma la loro durata è maggiore (2 anni).
I titoli di Stato godono di una tassazione favorevole rispetto a quella prevista per i titoli non statali.
I titoli di stato possono essere emessi alla pari o sotto la pari; con queste locuzioni si fa riferimento
al prezzo di acquisto, il quale può essere, rispettivamente, uguale al valore di rimborso
(tecnicamente si parla di valore nominale) oppure inferiore.
Se i titoli sono intestati a chi li sottoscrive, vengono definiti nominativi; se non lo sono, si parla di
titoli al portatore.
La legge di stabilità
La legge di stabilità, comunemente nota come legge finanziaria o manovra economica, è una legge
ordinaria del governo italiano che è necessaria per regolare la politica economica del Paese. Dal
momento che la Costituzione italiana (art. 81, terzo comma) prevede che “con legge di
approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese“, si rendeva
necessario uno strumento contabile che consentisse di superare il limite costituzionale, introducendo
variazioni alle entrate e alle spese della Pubblica Amministrazione.
La legge di stabilità fu introdotta negli anni ’70 del secolo scorso (legge 468/1978) con la
denominazione di legge finanziaria. La modifica di tale denominazione risale al 2009.
Le imposte
Gli elementi che contraddistinguono le imposte sono:
• il presupposto di imposta
• l’oggetto
• il soggetto attivo
• il soggetto passivo
• la base imponibile
• l’aliquota
• la fonte
• gli oneri deducibili e detraibili.
Il presupposto di imposta è quella situazione il cui verificarsi fa sì che sorga l’obbligo di versare
l’imposta; per esempio, il soggetto privato che produce un reddito è sottoposto all’IRPEF (imposta
sui redditi delle persone fisiche).
L’oggetto dell’imposta è la ricchezza sulla quale grava l’applicazione dell’imposta (reddito,
patrimonio ecc.).
Il soggetto attivo è chi impone il tributo (lo Stato o gli enti pubblici).
Il soggetto passivo è chi deve pagare il tributo; può essere una persona fisica, una persona
giuridica, un ente ecc.
La base imponibile è l’importo sul quale viene applicata l’aliquota; è una grandezza che scaturisce
da un certo numero di operazioni; nel caso delle imposte dirette, viene determinata applicando al
reddito deduzioni e riduzioni fiscali, mentre nel caso di imposte indirette, il metodo di calcolo varia
a seconda del tipo di tributo.
L’aliquota è il tasso, espresso in percentuale, che viene applicato alla base imponibile per
determinare l’imposta dovuta dal contribuente.
La fonte è la ricchezza che il contribuente utilizza per pagare l’imposta; l’oggetto e la fonte delle
imposte possono coincidere (è per esempio il caso delle imposte sul reddito che vengono pagate con
una parte del reddito stesso).
Gli oneri deducibili sono spese che, in base alla legge, possono essere sottratte (dedotte)
dall’imponibile prima che venga effettuato il calcolo dell’imposta da versare.
Gli oneri detraibili sono quelle spese che, sempre in base a una disposizione di legge, possono
essere sottratte (detratte) dall’imposta lorda allo scopo di determinare l’imposta netta da versare al
fisco.
Molto concretamente possiamo rappresentare così le componenti che entrano in gioco quando si
compila la dichiarazione dei redditi (un documento tramite il quale il contribuente comunica al
fisco il proprio reddito e l’ammontare delle imposte che è tenuto a versare oppure ciò che deve
ottenere come rimborso):
Esistono varie classificazioni relative alle imposte; fondamentale la loro suddivisione in dirette e
indirette; le prime colpiscono direttamente la ricchezza, sia quella esistente (patrimonio) sia nel
momento in cui essa viene prodotta (reddito); le seconde, invece, colpiscono la ricchezza soltanto
nel momento in cui essa viene consumata o trasferita (IVA, accise, imposta di registro, imposta di
bollo ecc.).
È importante anche la distinzione fra imposte sul reddito e imposte sul patrimonio.
Esempi di imposte sul reddito sono l’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche), l’IRES
(imposta sul reddito delle società) e l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive); un
esempio di imposta patrimoniale è invece rappresentato dall’IMU (imposta municipale unica),
tributo che viene applicato sulla componente immobiliare del patrimonio. La sostanziale differenza
fra imposta sul reddito e imposta patrimoniale è che la prima colpisce un flusso di ricchezza che il
contribuente produce annualmente, mentre la seconda viene calcolata sulla ricchezza che il
contribuente già detiene.
Altra suddivisione degna di nota è quella fra imposte personali e imposte reali; le prime
colpiscono la ricchezza dei contribuenti tenendo in considerazione la loro condizione familiare,
economica e sociale (è il caso dell’IRPEF); le seconde invece prescindono dalle valutazioni citate e
colpiscono la ricchezza oggettivamente considerata; il classico esempio è quello della già citata
imposta municipale unica.
Le imposte possono essere anche distinte in fisse e variabili; le prime prescindono dalla ricchezza
del contribuente e da altri fattori e sono dovute in un ammontare fisso (è il caso dell’imposta di
registro; per alcuni atti pubblici, per esempio, il contribuente è tenuto al pagamento di un’imposta
fissa a prescindere dal valore che è registrato in detti atti); le imposte variabili, invece, cambiano al
variare della base imponibile; possono essere proporzionali, progressive o regressive; l’imposta è
detta proporzionale nel caso in cui l’aliquota fiscale rimanga costante a prescindere dal valore della
base imponibile (se l’aliquota fiscale è il 20% e la base imponibile è 10.000, il contribuente deve
versare 2.000 euro; se la base imponibile è 15.000, il contribuente verserà 3.000 euro ecc.); quando
l’aliquota aumenta all’aumentare della base imponibile, l’imposta è detta progressiva (il criterio di
progressività del sistema tributario italiano è sancito dall’articolo 53 della Costituzione); l’imposta è
invece detta regressiva allorquando l’aliquota diminuisce all’aumentare della base imponibile.
Si può infine ricordare la suddivisione fra imposte generali (che colpiscono tutti i settori
dell’economia in egual misura) e imposte speciali (vengono colpiti solo determinati settori oppure
tutti, ma con aliquote fiscali diverse).
IRPEF e IVA
Fra i vari tipi di imposte previsti dal nostro ordinamento fiscale meritano sicuramente un cenno a
parte l’IRPEF e l’IVA.
IRPEF è un acronimo che sta per Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche; l’IRPEF è un tributo
diretto, personale e progressivo che è regolato dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR)
ovvero il DPR 917/86. La sua istituzione risale al 1974; l’introduzione nel nostro ordinamento
fiscale di un’imposta di questo tipo fu una novità di non poco conto; in Italia infatti il sistema
tributario era alquanto complesso e macchinoso e si basava su diversi tipi di imposte che venivano
applicate alle diverse tipologie di reddito.
Erano ormai circa dieci anni che si stava lavorando alla riforma del sistema fiscale; sostanzialmente
si volevano introdurre due tipi di tributo: un’imposta personale a carattere progressivo sui redditi e
un’imposta a carattere generale sui consumi. Nel 1973 entrarono in vigore l’IVA (Imposta sul
Valore Aggiunto) e l’INVIM (Incremento Valore Immobili), nel 1974, come detto, fu la volta
dell’IRPEF; IVA e IRPEF sono tuttora in vigore, mentre l’INVIM è stata soppressa a partire dal
gennaio 2002.
Il presupposto su cui si basa l’IRPEF è il possesso di redditi (in denaro oppure in natura) che
rientrano nelle categorie previste dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Tali categorie sono le
seguenti:
• redditi fondiari
• redditi di capitale
• redditi di lavoro dipendente
• redditi di lavoro autonomo
• redditi di impresa
• redditi diversi.
I soggetti passivi dell’IRPEF possono essere sostanzialmente suddivisi in due categorie:
• persone residenti sul territorio italiano (per tutti i cespiti posseduti e i redditi prodotti in
patria o all’estero);
• persone non residenti sul territorio italiano (per i soli redditi prodotti nel territorio italiano).
Si considera come “residente nel territorio italiano” un soggetto che per la maggior parte del
periodo di imposta risulti iscritto nell’anagrafe comunale della popolazione residente e che abbia
domicilio o residenza nel territorio italiano.
Con decorrenza primo gennaio 1999 (vedasi legge 448/1998), vengono considerati residenti nel
territorio italiano, salvo che non si provi il contrario, anche quei cittadini italiani cancellati
dall’anagrafe dei residenti ed emigrati in Paesi che adottano un regime fiscale privilegiato (ovvero i
cosiddetti paradisi fiscali).
Nella disciplina IRPEF rientrano anche altri soggetti (soggetti passivi impropri); detti soggetti sono
le società di persone, e altri enti a esse assimilati, i cui redditi vengono imputati direttamente ai soci
(che sono soggetti passivi IRPEF), indipendentemente dall’effettiva percezione, in base alla quota
di partecipazione agli utili che sono stati prodotti dalla società stessa.
Al momento della sua nascita l’IRPEF prevedeva 32 scaglioni di reddito e altrettante aliquote;
l’aliquota iniziale era del 10%, quella finale del 72%.
IVA è un acronimo che sta per Imposta sul Valore Aggiunto; si tratta di un’imposta adottata in molti
Paesi del mondo; in Italia fu introdotta nel 1972 ed entrò in vigore l’anno successivo; viene
calcolata basandosi sull’incremento di valore (valore aggiunto) che un bene o un servizio acquisisce
a ogni passaggio economico a partire dalla fase produttiva fino ad arrivare a consumo finale. Nel
valore aggiunto sono comprese anche eventuali accise (imposte sulla fabbricazione e vendita di
prodotti di consumo) che il venditore fa gravare sul consumatore finale.
Grazie a un sistema di detrazione e rivalsa, l’IVA grava, di fatto, soltanto sul consumatore finale; il
soggetto passivo d’imposta (colui che opera la cessione di beni o di servizi) detrae l’imposta pagata
imposta pagata sugli acquisti di beni e servizi che ha effettuato nell’esercizio d’impresa, arte o
professione, dall’imposta addebitata (a titolo di rivalsa) agli acquirenti dei beni o dei servizi prestati.
L’imposta sul valore aggiunto, quindi, finisce per rappresentare un costo soltanto per coloro che non
possono esercitare il diritto alla detrazione, ovvero i consumatori finali. Si possono quindi
distinguere in questa fattispecie, un contribuente di fatto (il consumatore finale) che, pur non
essendo soggetto passivo d’imposta, ne sostiene l’onere economico, e un contribuente di diritto (chi
cede il bene o il servizio) su cui gravano gli obblighi che gli derivano dall’essere soggetto passivo
d’imposta, anche se questa non graverà finalmente su di lui.
Le fonti normative, i principi e gli effetti delle
imposte
La principale fonte del sistema tributario del nostro Paese è sicuramente la Carta costituzionale; in
essa si specifica chiaramente che i prelievi di ricchezza nei confronti dei cittadini possono essere
fatti soltanto a seguito di una disposizione di legge. Nello specifico, gli articoli della nostra
Costituzione che riguardano i tributi sono il 23, il 53, il 75 e l’81.
L’articolo 23 specifica che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta al
cittadino se non in base alla legge; è così che i padri costituenti hanno fissato il cosiddetto principio
della riserva di legge per quanto riguarda l’istituzione delle entrate tributarie. È però previsto che i
dettagli delle imposte stabilite con una norma legislativa siano disciplinate da fonti normative
secondarie (per esempio da regolamenti emanati dal Governo del Paese).
L’articolo 53 specifica che tutti i residenti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione
della loro capacità contributiva (principio della capacità contributiva) e che il sistema tributario è
informato a criteri di progressività (principio della progressività delle imposte).
Nell’articolo 75 si specifica che non è ammesso il referendum abrogativo per le leggi tributarie e di
bilancio; il motivo di questa disposizione costituzionale è evidente; se i cittadini potessero abolire le
imposte tramite voto referendario, si potrebbe arrivare al paradosso di uno Stato senza alcuna
entrata.
L’articolo 81 stabilisce che con la legge di approvazione del bilancio non è possibile stabilire nuovi
tributi e nuove spese. È necessaria quindi una legge finanziaria per effettuare variazioni a entrate e
spese ritenute necessarie per il conseguimento degli obbiettivi di politica economica.
Essenzialmente, le fonti normative in materia tributaria possono essere suddivise in tre gradi; fonte
di primo grado è la Carta costituzionale; fonti di secondo grado sono le leggi ordinarie, i decreti
legge, i decreti legislativi, le disposizioni della Comunità Europea e le leggi regionali; fonti di
terzo grado sono i regolamenti.
Si possono a questo punto riassumere i più importanti principi relativi alle imposte:
principio della capacità contributiva (idoneità economica del soggetto a concorrere alle spese
pubbliche, che si esprime attraverso indici economicamente valutabili);
principio della progressività delle imposte (il contributo complessivo del singolo contribuente alle
spese pubbliche deve aumentare in modo più che proporzionale rispetto all’incremento della
ricchezza posseduta);
principio della riserva di legge (le imposte possono essere istituite soltanto con apposite norme di
legge);
principi della generalità e dell’uniformità (tutti i soggetti con capacità contributiva devono
pagare le imposte e, a parità di reddito, in modo paritario, fatte salve eccezioni -le cosiddette
agevolazioni fiscali- dettate da motivi di carattere socio-economico).
Le imposte hanno diversi effetti, non tutti necessariamente positivi; vale la pena ricordare i
seguenti:
• evasione fiscale: comportamento illegittimo attraverso il quale contribuente contrasta il
prelievo tributario; quando il contribuente nasconde una parte dei suoi redditi e paga meno
imposte del dovuto, si parla di evasione parziale; se tutti i redditi vengono nascosti al fisco e
non si pagano imposte, l’evasione è totale. L’evasione fiscale è un fenomeno molto diffuso
che lo Stato combatte attraverso vari strumenti sanzionatori. In alcuni casi l’evasione fiscale
comporta semplici sanzioni amministrative, mentre in altri, decisamente più gravi, è
perseguibile penalmente.
• Elusione fiscale: comportamento del contribuente che mette in atto comportamenti che, pur
essendo in sé legittimi, hanno il mero scopo di ridurre le proprie obbligazioni tributarie. Per
la legge italiana, l’elusione fiscale è considerata un vero e proprio “abuso del diritto”; meno
tecnicamente, ma efficacemente, si può affermare che la legge tributaria non viene infranta,
ma aggirata.
• Traslazione dell’imposta: è un fenomeno attraverso il quale un soggetto (detto contribuente
di diritto o contribuente percosso) trasferisce totalmente oppure in parte l’intera quota del
tributo dovuto su un altro soggetto (detto contribuente di fatto o contribuente inciso).
Condizione indispensabile alla traslazione è che siano in gioco beni di mercato trasferibili, in
quanto non può verificarsi nel caso di beni pubblici o non soggetti a trasferimento.
• Pressione fiscale: rapporto tra i prelievi fiscali e parafiscali (imposte, tasse, contributi
previdenziali e assistenziali), utilizzati per finanziare la spesa pubblica, e il PIL (prodotto
interno lordo). Nel nostro Paese la pressione fiscale è superiore al 40%.