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Farmacologia

La farmacologia è la branca della biologia che studia il modo in cui le sostanze chimiche
interagiscono con gli organismi viventi.
Un farmaco è una sostanza che in un organismo vivente può produrre modificazioni funzionali con
un’azione chimica, fisico-chimica o fisica; l’azione può essere anche negativa, mentre al termine
medicamento è riservato ai farmaci che hanno lo scopo di ricondurre alla normalità una situazione
organica alterata (patologia, lesione ecc.).
La farmacologia si diffuse originariamente in Egitto, in Cina, come semplice elenco dei farmaci
utilizzabili; solo grazie allo sviluppo della chimica, la farmacologia ha acquisito valore scientifico.
Grazie agli studi compiuti dai farmacologi, si è riusciti a debellare malattie, il più delle volte
mortali.
La farmacologia include molte branche:
• farmacocinetica; per razionalizzare le indicazioni terapeutiche e la posologia di un farmaco,
ne analizza gli eventi biologici conseguenti alla sua somministrazione
• farmacodinamica; si occupa dell’azione che i farmaci esercitano su organismi sani o malati
• farmacogenetica; studia le risposte dell’organismo ai farmaci in funzione dei fattori
genetici
• farmacognosia; si occupa del riconoscimento e dello studio delle sostanze medicinali
• tossicologia che si interessa in modo specifico delle molecole che hanno un effetto nocivo
sull’organismo
• farmacovigilanza; l’attività di controllo sui farmaci in commercio, allo scopo di
individuarne eventuali effetti collaterali non registrati nella fase di sperimentazione
• farmacoterapia, che studia i farmaci utilizzati in terapia per tutte le patologie.
La farmacopea è il codice emanato dallo Stato che registra i nomi di tutti i farmaci in uso e tutte le
informazioni annesse.
I farmaci topici (locali) sono quelli che sono capaci di indurre modificazioni già nel punto di
contatto; i farmaci sistemici sono farmaci ad azione generale che sono attivi dopo essere entrati in
circolo; i farmaci ad azione diretta (indiretta) agiscono senza (con) intermediari; i farmaci ad
azione elettiva interessano solo un determinato tessuto specifico.

Categorie di farmaci
Esistono molti modi di classificare i farmaci, per esempio:
• proprietà chimico-fisiche
• sistemi e/o apparati su cui agiscono
• tipologia di somministrazione.
A livello di singolo apparato/sistema/organo possono essere somministrati farmaci con modalità di
azione anche molto differenti; si pensi per esempio a un collirio per abbassare la pressione oculare
(prevenzione o controllo del glaucoma) e un farmaco antibiotico per combattere un’infezione
oculare. Appare pertanto più sensato suddividere i farmaci in base alla loro azione, più che sul
bersaglio su cui agiscono.
Alcune categorie sono di dubbia interpretazione; si pensi per esempio agli afrodisiaci, sostanze i cui
effetti sono spesso tutti da dimostrare. Gli antiossidanti possono essere farmaci, ma soprattutto sono
integratori o principi alimentari che hanno lo scopo di rallentare o prevenire l’ossidazione di
determinate sostanze in quanto tale processo produce radicali liberi che, mediante una reazione a
catena, danneggiano le cellule. Altri farmaci sono di uso talmente comune che alcuni di essi sono
diventati farmaci da banco, acquistabili senza prescrizione:
• farmaci che controllano la stipsi o la diarrea (lassativi e antidiarroici)
• farmaci per il controllo della nausea o del vomito (antiemetici)
• farmaci per la tosse (antitussivi, mucolitici, mucoregolatori ecc.)
• farmaci antifebbrili (oltre al paracetamolo, si usano spesso anche antinfiammatori che hanno
comunque azione antifebbrile) e contro le malattie da raffreddamento
• farmaci dermatologici (antimicotici, farmaci per la medicazione delle ferite, farmaci per la
disinfezione della pelle e contro le irritazioni e le impurità cutanee e farmaci contro i calli e
le verruche).
• farmaci antisettici (spesso confusi con i disinfettanti; i primi sono farmaci antinfettivi usati
su tessuti e mucose umani o animali, integri o danneggiati, mentre i secondi sono usati su
superfici e oggetti)
• farmaci anticoncezionali.
Altre categorie hanno una maggiore complessità sia per lo spettro d’azione sia per la gravità delle
patologie per le quali sono usati. Da ricordare:
• ansiolitici
• antiaggreganti
• antiaritmici
• antibiotici
• anticoagulanti
• antidepressivi
• antidolorifici (analgesici)
• antinfiammatori
• antipertensivi
• antistaminici
• antivirali
• cortisonici (corticosteroidi)
• diuretici
• farmaci antiacido
• psicofarmaci
• statine.

Ansiolitici
Gli ansiolitici sono una classe di farmaci in grado di controllare gli stati ansiosi in soggetti nevrotici
o in soggetti sani sottoposti a particolari e inusuali condizioni di stress; gli ansiolitici trovano vasto
impiego anche come sonniferi e nella pratica anestesiologica.
Gli ansiolitici, assieme ad antidepressivi e neurolettici (tranquillanti maggiori o antipsicotici),
rientrano nella grande famiglia delle sostanze psicoattive, molecole capaci di alterare l’umore e il
comportamento mediante la regolazione della secrezione di neurotrasmettitori nel sistema nervoso
centrale (SNC). In questa famiglia, gli ansiolitici sono conosciuti anche come tranquillanti minori.
Gli ansiolitici attualmente più diffusi si distinguono in:
• benzodiazepine
• barbiturici
Per l’ansia vengono poi usati a volte antidepressivi (attacchi di panico e nei disturbi di ansia
generalizzata) e betabloccanti (curano alcuni sintomi fisici dell’ansia come le palpitazioni e
l’ipersudorazione).
Gli svantaggi più evidenti di un uso prolungato e ingiustificato di farmaci ansiolitici sono la
dipendenza (difficoltà nell’interrompere la terapia) e la tolleranza (sono richieste dose sempre più
elevate per lo stesso effetto farmacologico) soprattutto nel caso delle benzodiazepine.
Come conseguenza, l’interruzione della terapia a base di farmaci ansiolitici provoca spesso effetti
indesiderati notevoli come ansia, insonnia e attacchi di panico, tipici di una crisi di astinenza,
ragione per cui, usare questi farmaci in modo incauto quando non necessario, potrebbe far entrare in
un infelice circolo vizioso.

Benzodiazepine
Le benzodiazepine sono i farmaci più diffusi nella categoria degli ansiolitici. Peraltro, oltre a un
vasto impiego come ansiolitici vengono utilizzati con successo per l’insonnia, come miorilassanti,
anticonvulsivanti e anche in alcune procedure anestetiche.
Attualmente si assiste a un ingiustificato incremento della prescrizione di questi farmaci; questa
leggerezza nella prescrizione è dovuta in parte alla loro “sicurezza”, nel senso che il sovradosaggio,
oltre a poter essere curato da un antidoto, il flumazenil, non provoca l’inibizione respiratoria letale
che caratterizza invece il sovradosaggio con l’altra categoria di sedativi, i barbiturici.
L’uso protratto di benzodiazepine come sonniferi può avere degli effetti molto dannosi sul delicato
equilibrio sonno-veglia; per questo motivo le terapie farmacologiche per i disturbi del sonno vanno
sostenute per brevi periodi (massimo alcune settimane, mai mesi) e devono essere accompagnate a
importanti considerazioni sullo stile di vita.

Barbiturici
Storicamente introdotti in commercio prima delle benzodiazepine, i barbiturici sono tristemente
famosi per i numerosi casi di intossicazione e sovradosaggio (spesso volontario, come nel
misterioso “suicidio” di Marilyn Monroe) e per essere stati utilizzati come “siero della verità” (il
Pentotal).
I barbiturici provocano una potente inibizione dell’attività respiratoria causa di morte in caso di
sovradosaggio.
Al giorno d’oggi i barbiturici sono stati soppiantati dalle benzodiazepine nella terapia dell’ansia e
dell’insonnia e vengono impiegati come anestetici e come anticonvulsivanti in alcuni casi di
epilessia.

Antiaggreganti
Gli antiaggreganti (anche antiaggreganti piastrinici) sono farmaci che agiscono interferendo con il
funzionamento delle piastrine (anche trombociti, elementi figurati del sangue coinvolti nei
meccanismi di coagulazione del sangue, ovvero l’emostasi) bloccando la loro aggregazione.
Molti dei farmaci in questione non agiscono in modo diretto sull’aggregazione delle piastrine, bensì
nelle fasi che precedono la loro attivazione; per questo motivo, la denominazione più corretta è
antipiastrinici. Anche fra gli addetti ai lavori però, i termini sono spesso utilizzati come sinonimi.
Fra i vari farmaci antiaggreganti, il più noto in assoluto è sicuramente l’acido acetilsalicilico
(aspirina), un principio attivo che interrompe l’attivazione piastrinica in una delle sue fasi iniziali.
L’impiego clinico degli antiaggreganti è piuttosto esteso. Si tratta di principi attivi che hanno
mostrato un’ottima efficacia nel trattamento di varie condizioni patologiche causate da fenomeni di
trombosi ed embolia arteriosa, fra cui vanno senz’altro ricordati l’infarto del miocardio, l’ictus
cerebrale e le arteriopatie periferiche.
Interferendo sul funzionamento dei trombociti, gli antiaggreganti allungano i tempi dei
sanguinamenti che possono verificarsi in seguito a un trauma o a un taglio. È abbastanza frequente
osservare la formazione di lividi la cui estensione è sproporzionata all’intensità di un trauma, così
com’è comune veder sanguinare a lungo delle ferite anche molto piccole.
L’acido acetilsalicilico è un farmaco molto utilizzato, ma non è scevro da effetti collaterali, talvolta
molto importanti; può infatti causare, o far decisamente peggiorare, una gastrite, così come può
determinare il sanguinamento di ulcere gastriche o acutizzarne la sintomatologia. Non a caso, gli
antiaggreganti sono controindicati nei soggetti affetti da colite ulcerosa, ulcera gastroduodenale e
gastrite emorragica.
Non si deve fare confusione fra farmaci antiaggreganti e farmaci anticoagulanti; si tratta infatti di
due categorie farmaceutiche ben diverse. Gli anticoagulanti bloccano i fattori della coagulazione e,
di norma, vi si ricorre per il trattamento delle trombosi venose; sono efficaci anche nel trattamento
di trombosi arteriose e nella prevenzione di emboli che possono determinare ictus cerebrale (come
può accadere a chi soffre di fibrillazione atriale). Gli antiaggreganti, invece, agiscono sul
funzionamento delle piastrine e non sui fattori di coagulazione.

Antiaritmici
Gli antiaritmici sono farmaci rivolti a ripristinare la normale conduzione elettrica nel cuore. Non
sono gli unici farmaci cardiaci usati (da ricordare la digossina e i nitroderivati che riducono il
lavoro cardiaco e il fabbisogno di ossigeno), ma, come dice il nome, sono quelli che agiscono
direttamente sul ritmo del cuore. Infatti, un’alterazione dell’attività elettrica cardiaca può causare
aritmie più o meno gravi, a volte letali.
Gli antiaritmici vengono suddivisi in cinque classi secondo la classificazione Vaughan Williams, in
base al loro effetto sul potenziale d’azione, il fenomeno elettrofisiologico che genera lo stimolo
elettrico che regola la contrazione del miocardio.
• Classe I – Farmaci che lavorano sui canali del sodio (in maniera analoga ai farmaci
anestetici).
• Classe II – Farmaci betabloccanti, cioè farmaci che bloccano i recettori del sistema
betadrenergico. Sono usati nelle tachicardie e nelle aritmie dovute a eccessivo tono
adrenergico. I betabloccanti agiscono sul cuore, ma hanno anche un’azione secondaria a
livello dei reni dove bloccano la secrezione di renina e di conseguenza diminuiscono la
pressione arteriosa.
• Classe III – Farmaci che agiscono sui canali del potassio.
• Classe IV – Vi appartengono i calcio-antagonisti, una categoria di farmaci molto utilizzata
attualmente anche per trattare l’ipertensione arteriosa. I canali del calcio sono presenti in
molto tessuti, ma questi principi attivi agiscono principalmente a livello cardiaco e sulla
muscolatura liscia dei vasi periferici. Causano quindi anche ipotensione dovuta a
vasodilatazione periferica.
• Classe V – Farmaci con attività antiaritmica con meccanismo non ancora completamente
compreso.
In campo professionale oggi si utilizzano suddivisioni più moderne, basate sui meccanismi d’azione
di questi farmaci e dei loro bersagli farmacologici.
Poiché i farmaci antiaritmici influenzano l’attività elettrica del cuore, paradossalmente l’effetto
secondario più frequente è l’induzione di aritmie anche mortali. Questo fenomeno è stato osservato
negli anni ’90. Si scoprì che, nonostante i farmaci antiaritmici riportassero il ritmo cardiaco alla
normalità, la mortalità dei pazienti aumentava di tre volte. Grazie a queste osservazioni, l’utilizzo di
farmaci antiaritmici è molto controllato e ora sono proposte altre terapie non farmacologiche. Tra
queste, da citare l’ablazione transcatetere con radiofrequenza e l’utilizzo del defibrillatore
cardiaco impiantabile (ICD), essenziale nei casi di aritmie ventricolari maligne.
Importante conoscere la differenza fra pacemaker (PM) e l’ICD. Il PM monitora il battito cardiaco
ed eroga un impulso se rileva una frequenza troppo bassa (ritmo cardiaco molto lento, causa di
vertigini o svenimenti); l’ICD è un pacemaker con in più la capacità di riconoscere un’aritmia
cardiaca a ritmi elevati, iniziando una terapia elettrica per risolverla prima che diventi pericolosa
per il paziente.

Antibiotici
Un antibiotico è una sostanza che è prodotta da microrganismi e che è in grado d’agire su altri
microrganismi (o su cellule viventi) inibendone la crescita (antibiotico batteriostatico) o
distruggendoli (antibiotico battericida).
Tali farmaci possono essere di origine naturale (anche antibiotici naturali o in senso stretto) oppure
di origine sintetica (più correttamente si dovrebbe parlare di chemioterapici antimicrobici o di
antimicrobici di sintesi). Con antibiotici semisintetici si fa riferimento ad antibiotici naturali
modificati chimicamente.
Il primo antibiotico fu identificato da un italiano, Vincenzo Tiberio, alla fine del XIX sec.; Tiberio
descrisse il potere battericida di alcune muffe. Di fatto, comunque, le moderne ricerche sugli
antibiotici iniziarono nel 1928, anno in cui Alexander Fleming, un medico, biologo e farmacologo
britannico, scoprì la penicillina, sostanza originata e diffusa da un fungo (il Penicillium notatum) e
in grado di inibire lo sviluppo di numerose specie di batteri, anche se soltanto dal 1940 essa trovò
impiego in campo terapeutico.
Le modalità di classificazione degli antibiotici sono molteplici. Una modalità di una certa rilevanza
è quella che suddivide tali farmaci in famiglie; quelle maggiormente utilizzate in ambito medico
sono i beta-lattamici (fanno parte di questa famiglia le penicilline e le cefalosporine), le
tetracicline, i macrolidi, i chinoloni, i sulfamidici e gli aminoglicosidi.
In base al tipo di azione si distinguono antibiotici batteriostatici e battericidi. I primi agiscono
bloccando la crescita dei batteri e agevolando conseguentemente la loro rimozione da parte
dell’organismo, i secondi agiscono invece causando la morte dei batteri. In molti casi il tipo di
azione (battericida o batteriostatica) è legato al dosaggio di antibiotico assunto.
Un antibiotico può essere classificato anche facendo riferimento al suo spettro d’azione che può
essere ampio, medio oppure ristretto. Quelli ad ampio spettro sono attivi sia verso i batteri Gram+
sia verso i batteri Gram-; quelli a medio spettro sono invece molecole attive contro i batteri Gram+
e contro alcuni batteri Gram-; quelli a spettro ristretto sono invece attivi o soltanto verso i batteri
Gram+ o soltanto verso i batteri Gram-.
La scelta dell’antibiotico da utilizzare dipende non solo dal tipo di microrganismo estraneo, ma
anche dalla sede nella quale è presente l’infezione. Il sistema che viene generalmente adottato per
decidere quale sia il metodo migliore da applicare, è quello di effettuare una coltura dei batteri e
verificarne la sensibilità a vari tipi di antibiotico.
In certi casi, per accrescere l’efficacia del trattamento e ridurre il rischio di resistenza agli
antibiotici, possono essere prescritti contemporaneamente diversi principi attivi. Inoltre,
l’associazione di più antibiotici non porta in alcun caso a un potenziamento della loro azione, bensì
a un semplice effetto addizionale della loro efficacia, agendo su diversi batteri sui quali un
determinato antibiotico può risultare inefficiente. In certi casi può addirittura verificarsi uno stato di
antagonismo tra antibiotici diversi, per cui si consiglia prevalentemente di impiegare il più idoneo
per combattere uno specifico batterio.
Alcuni batteri sono in grado di sviluppare una certa resistenza a un antibiotico che in precedenza si
era dimostrato efficace (antibiotico-resistenza). La resistenza consiste nell’insensibilità da parte di
alcuni batteri nei confronti di un antibiotico che risulta invece efficace con altri microbi della stessa
colonia. A lungo andare i batteri resistenti si sviluppano sempre più, dando origine a una nuova
specie resistente. In questi casi si ha un’insensibilità primaria all’antibiotico, mentre si parla di
insensibilità secondaria quando il farmaco provoca una mutazione genetica su alcuni
microrganismi appartenenti a una medesima colonia, con lo stesso risultato che si ha una nuova
specie.
Può comparire resistenza anche nei casi in cui un determinato batterio si sviluppi seguendo una via
metabolica che non sia bloccata dall’azione del farmaco o inizi a produrre un enzima che scinda o
inattivi l’antibiotico stesso.
I casi in cui si sviluppa più facilmente resistenza sono quelli nei quali un individuo non assume
l’antibiotico secondo le prescrizioni mediche oppure durante un trattamento prolungato. Proprio per
questo motivo è consigliabile seguire alcune regole pratiche, onde evitare di assumere un antibiotico
senza che questo abbia realmente effetto. Prima di tutto non bisogna mai utilizzare un antibiotico se
non è necessario (e questo lo deve comunque decidere un medico); inoltre si deve evitare di
ricorrere a dosi di antibiotici inferiori a quelle previste e di effettuare trattamenti discontinui o
incompleti; meglio evitare infine gli antibiotici più potenti se basta una semplice penicillina per
risolvere il problema.
Oltre ai classici effetti collaterali tipici di ogni specifico gruppo, la maggior parte degli antibiotici
provoca saltuariamente nausea, diarrea ed eruzioni cutanee. Gli antibiotici possono inoltre uccidere
i batteri naturalmente presenti nell’organismo, successivamente sostituiti da funghi che causano, per
esempio, candidosi orale, intestinale o vaginale. Talvolta si verifica una grave reazione allergica che
induce gonfiore e prurito o difficoltà di respirazione.

Anticoagulanti
Gli anticoagulanti sono sostanze in grado di rallentare o inibire il processo di coagulazione del
sangue agendo su quei processi e su quei fattori che intervengono nel meccanismo della
coagulazione.
Le sostanze anticoagulanti vengono utilizzate sia in medicina di laboratorio (utilizzo in vitro) sia
come farmaci (utilizzo in vivo) per prevenire l’instaurarsi o l’estendersi di una tromboembolia.
Si parla di farmaci anticoagulanti in vivo per riferirsi all’uso di farmaci che regolano la fluidità del
sangue. Essi sono utilizzati sia a scopo preventivo (quello più specifico) sia a scopo terapeutico
(quando un trombo si è già formato, gli anticoagulanti non sono in grado di causarne la
dissoluzione; è infatti necessario ricorrere ai farmaci fibrinolitici, ma l’utilizzo di anticoagulanti è
comunque necessario al fine di inibire l’estensione di fenomeni coagulativi).
Gli anticoagulanti possono essere somministrati per via orale o parenterale (per iniezione). Fra gli
anticoagulanti somministrati per via parentele, il principale è senza dubbio l’eparina.
La gran parte delle proteine coinvolte nei processi di coagulazione (i cosiddetti fattori della
coagulazione) vengono sintetizzate dall’organo epatico; affinché tali proteine possano essere
sintetizzate e attivate è necessaria la presenza della vitamina K (che peraltro è l’antidoto per gli
anticoagulanti), tant’è che tali fattori della coagulazione vengono anche detti fattori coagulativi
vitamina K-dipendenti (fattore II, VII, IX e X); la vitamina K è altresì coinvolta nell’azione di altre
due proteine che interessano il fenomeno della coagulazione ovvero la proteina C e la proteina S.
Ostacolando l’azione della vitamina K si ostacola pertanto la produzione dei fattori sopracitati e,
venendo questi a mancare, la formazione di coaguli non può verificarsi. Gli anticoagulanti orali più
noti (per esempio il warfarin) svolgono la loro azione attraverso l’inibizione a monte dei fattori
coagulativi vitamina K-dipendenti.
La gestione degli anticoagulanti non è questione banale; la loro somministrazione richiede
un’attenta analisi relativa ai dosaggi; ogni soggetto, infatti, richiede una dose personalizzata di
farmaco per raggiungere l’adeguato livello di anticoagulazione; si deve infatti tenere conto che se
da un lato questi farmaci agiscono preventivamente contro la formazione di trombi, dall’altro
aumentano il rischio di emorragie.

Antidepressivi
Gli antidepressivi sono psicofarmaci utilizzati in caso di depressione o di altre patologie legate a
variazioni abnormi dell’umore. La depressione è malattia complessa e di difficile definizione: la
diagnosi deve essere fatta con molta attenzione agli aspetti tipici del paziente, unendo a una terapia
con farmaci antidepressivi una psicoterapia che rimuova eventuali aspetti psicologici che
predispongono alla malattia. Infatti, i soli antidepressivi non hanno consentito un miglioramento
tangibile dello stato di salute delle persone malate di depressione, nonostante, dal punto di vista
fisiologico, alla base di uno stato depressivo si osserva tipicamente uno scompenso, a livello di
sistema nervoso centrale, nella secrezione dei neurotrasmettitori.
Intorno agli anni ’60 del secolo scorso, si è notato casualmente che alcune sostanze ad azione
antistaminica miglioravano l’umore e lo stato depressivo. Da questa osservazione sono partite
ricerche che confermarono l’influenza di questi farmaci sulla disponibilità nel cervello di alcuni
neurotrasmettitori. Allo stesso tempo l’esistenza di un’altra classe di farmaci antidepressivi che
inibivano la degradazione di alcune molecole neuroeccitatorie (IMAO) ha dato voce all’ipotesi delle
amine biogene (per esempio l’adrenalina, la noradrenalina, la serotonina ecc.), implicate, a livello
di conduzione degli impulsi nervosi, nella regolazione chimica del comportamento. Secondo questa
teoria si ipotizzava che la depressione fosse causata da uno squilibrio dei neurotrasmettitori
eccitatori nel sistema nervoso centrale. A tutt’oggi però la base biologica della depressione non è
ancora chiara e per molti l’ipotesi biochimica risulta semplicistica; attualmente si ritiene che
accanto a una disfunzione nella secrezione di neurotrasmettitori ci possano essere anche problemi
neuro-anatomici e metabolici di alcune aree del cervello. Inoltre, fattori ambientali e psicologici
possono svolgere un ruolo fondamentale nell’eziologia della depressione.
Le categorie di antidepressivi sono:
• sali di litio; il meccanismo d’azione dei sali di litio (principalmente come carbonato di litio
e citrato di litio) è a tutt’oggi poco chiaro e si ritiene che esso influenzi la conduzione del
segnale nervoso piuttosto che la disponibilità dei neurotrasmettitori.
• Antidepressivi triciclici; storicamente la categoria; più importante; questi farmaci
inibiscono il riassorbimento della noradrenalina, un neurotrasmettitore strutturalmente molto
simile all’adrenalina.
• Inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO); mentre i triciclici bloccano la ricaptazione dei
neurotrasmettitori, questi farmaci bloccano invece un enzima mitocondriale, la
monoaminoossidasi, deputato alla degradazione dei neurotrasmettitori.
• Inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI); seguono un meccanismo d’azione
simile ai triciclici, ma hanno una struttura chimica diversa e sono selettivi per la ricaptazione
della serotonina.
• Inibitori della ricaptazione di serotonina e noradrenalina (SSNRI).
Antidolorifici (analgesici)
I farmaci antidolorifici, detti anche analgesici, sono farmaci che vengono impiegati per alleviare il
dolore.
L’azione antidolorifica può essere raggiunta mediante la cura delle cause scatenanti il dolore, se
sono chiaramente definite, o mediante la manipolazione della conduzione nervosa dello stimolo
doloroso.
L’OMS ha proposto una suddivisione dell’intensità del dolore oncologico utilizzando la scala
analogica visiva, associando diverse categorie di antidolorifici a specifici intervalli di valori; questa
suddivisione è stata poi ripresa per il dolore muscolo-scheletrico ed è la seguente:
• dolore lieve: scala VAS 1-3; suggeriti i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei)
• dolore moderato: scala VAS 4-6; suggeriti oppioidi deboli, FANS e adiuvanti
• dolore forte: scala VAS 7-10: oppioidi e adiuvanti.
Molti FANS sono ormai farmaci da banco e ciò causa spesso abusi, visto che comunque
comportano effetti collaterali non minimali. Un breve cenno va al paracetamolo, un farmaco dagli
effetti antidolorifici e antipiretici; il suo meccanismo d’azione non è stato ancora del tutto chiarito;
si pensa la sua capacità di alleviare il dolore e di abbassare la febbre dipenda dal fatto che esso
inibisce, a livello del sistema nervoso centrale, la produzione di alcune sostanze, i prostanoidi, che
causano le sensazioni dolorose. Non viene classificato tra i FANS in quanto non possiede una
significativa attività antinfiammatoria.
Il dolore intenso, acuto o cronico, è spesso di origine neuropatica. È più difficile da gestire e
richiede trattamenti che controllano il sistema di percezione del dolore che di solito non è
funzionante oppure è danneggiato. In questo caso si cerca di aumentare la soglia del dolore, agendo
a livello del sistema nervoso centrale, oppure si blocca la sua trasmissione attraverso i neuroni
periferici verso la corteccia cerebrale.
I farmaci antidolorifici disponibili per la cura di questo dolore vengono suddivisi in
• anestetici (generali o locali)
• oppioidi (morfina, codeina, ossicodone, metadone ecc.)
• inibitori del sistema nervoso centrale (detti anche adiuvanti; ansiolitici, etanolo,
antipsicotici ecc.).

Antinfiammatori
I farmaci antinfiammatori (o farmaci antiflogistici) sono una categoria di farmaci che agiscono
riducendo l’entità di un processo infiammatorio localizzato in una determinata zona dell’organismo.
L’infiammazione è un processo fisiopatologico che si instaura nei tessuti nel momento in cui questi
ultimi entrano in contatto con agenti lesivi di vario tipo. Oltre all’azione antiflogistica, i farmaci
antinfiammatori possono avere anche azione antalgica (analgesica) e antipiretica (antifebbrile).
Esistono due grandi categorie di farmaci antinfiammatori:
• farmaci antinfiammatori steroidei
• farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS).
I farmaci antinfiammatori steroidei, più noti come cortisonici (corticosteroidi), sono farmaci
costituiti da molecole che, da un punto di vista strutturale, sono analoghe al cortisolo, un ormone
prodotto dalla zona fascicolata della porzione corticale delle ghiandole surrenali.
I farmaci antinfiammatori non steroidei, comunemente noti come FANS, sono i farmaci più
utilizzati in assoluto; il più noto di essi è sicuramente l’acido acetilsalicilico (aspirina).
Essi agiscono bloccando la produzione di prostaglandine (sostanze ormonosimili che agiscono quali
mediatori dell’infiammazione) attraverso l’inibizione dell’enzima ciclossigenasi; di questo enzima
sono note tre isoforme:
• ciclossigenasi 1 (COX-1)
• ciclossigenasi 2 (COX-2)
• ciclossigenasi 3 (COX-3).
La COX-1 è una proteina particolarmente presente a livello della mucosa gastrica e che agisce
stimolando la produzione di prostaglandine coinvolte nei processi di tipo fisiologico; una sua
inattivazione interrompe la produzione del muco gastrico che protegge lo stomaco.
La COX-2, proteina assente nei tessuti sani, viene prodotta in seguito a processi di tipo
infiammatorio.
La COX-3, proteina presente in particolar modo a livello del sistema nervoso centrale; essa è
coinvolta sia nella genesi del dolore che in quella della febbre.
I primi farmaci antinfiammatori non steroidei che sono stati sintetizzati (e che tuttora vengono
commercializzati) non distinguono tra le forme enzimatiche COX-1 e COX-2 e agiscono inibendole
entrambe. Quelli che agiscono solo sulla COX-2, dopo gli entusiasmi iniziali, sono stati molto
ridimensionati soprattutto per i pesanti effetti collaterali.
Oltre il 60% dei soggetti risponde alla terapia con antinfiammatori, ma la risposta è individuale nei
confronti dei singoli farmaci. Nella scelta dell’antinfiammatorio si deve considerare il principio
attivo (non il nome commerciale!) e il suo dosaggio. Fondamentale comprendere che il dosaggio
non è lo stesso per tutti gli antinfiammatori, per esempio l’ibuprofene da 400 mg non è 4 volte più
forte del diclofenac da 100 mg.
Poiché il problema maggiore è la gastrolesività, gli antinfiammatori dovrebbero essere assunti
sempre a stomaco pieno, anche se recentemente sono stati introdotti prodotti che utilizzano principi
attivi (dexketoprofene) oppure soluzioni (combinazione di un FANS e un protettore gastrico, per
esempio ketoprofene+sucralfato) che permettono l’assunzione anche a stomaco vuoto.

Antipertensivi
Gli antipertensivi sono farmaci impiegati per controllare l’ipertensione; infatti, essi sono in grado
di agire sui meccanismi fisiologici che regolano la pressione del sangue. La loro modalità d’azione
li porta a essere divisi nei seguenti quattro gruppi:
• azione sul bilancio sodio-acqua
• azione sul sistema nervoso simpatico
• azione sui centri nervosi deputati al controllo della motilità vasale (vasocostrizione e
vasodilatazione)
• azione sul sistema renina-angiotensina che regola la pressione sanguigna, il volume totale
del sangue circolante e il tono della muscolatura arteriosa.
Un’altra suddivisione divide i principi attivi nelle seguenti classi:
Calcio antagonisti – Bloccano i canali lenti del sodio.
• Betabloccanti – Bloccano i recettori beta 1 e beta 2 che interagiscono con l’adrenalina e
altre catecolamine. Possono essere selettivi (usati soprattutto quelli che bloccano i recettori
beta 1) o non selettivi.
• Antiadrenergici – Agiscono sul sistema nervoso simpatico, a livello centrale oppure a
livello periferico (alfabloccanti che agiscono sui recettori alfa 2).
• ACE-inibitori – Bloccano l’enzima che converte angiotensina I in II.
• Sartani – Bloccano i recettori dell’angiotensina II, ma con effetto antipertensivo minore e
più lento rispetto agli ACE-inibitori.
• Inibitori della renina – Inibiscono l’azione della renina con conseguente aumento
dell’escrezione di sodio e acqua.
• Diuretici – Agiscono sul riassorbimento di sodio e acqua.
Gli antipertensivi possono essere assunti:
• in compresse
• in sospensioni per via orale
• soluzioni per iniezione (sottocutanea, intramuscolare o endovenosa)
Sono farmaci che possono dare controindicazioni di una certa gravità, quindi sia la loro prescrizione
sia il loro dosaggio devono essere demandati al medico che solo dopo un’attenta valutazione del
paziente (non bastano semplici misurazioni della pressione arteriosa) sceglie la soluzione
globalmente più efficiente. In genere i farmaci vengono prescritti quando:
• i valori pressori sono sicuramente preoccupanti
• il soggetto, nonostante un buon stile di vita, non ha alcun giovamento né da un’attività fisica
né da una sana alimentazione.
Purtroppo, alcuni medici, complice anche la scarsa propensione del paziente a cambiare vita,
trascurano l’importanza del secondo punto e puntano direttamente sui farmaci.
In gravidanza e nell’allattamento gli antipertensivi sono generalmente sconsigliati.
Le controindicazioni sono molte e dipendono dalla reazione individuale e dal principio attivo usato.

Antistaminici
Gli antistaminici sono farmaci che contrastano l’azione dell’istamina, un messaggero chimico
dell’infiammazione che regola alcune risposte cellulari, dalle reazioni allergiche alla secrezione di
acido nello stomaco.
L’istamina è sintetizzata in tutti tessuti del corpo, ma si trova a concentrazioni più elevate nel
tessuto polmonare, nel tessuto gastrico e nella cute, dove è una risposta importante a sollecitazioni
esterne (per esempio anche una semplice puntura di vespa).
I mastociti sono le cellule che secernono l’istamina in seguito a uno stimolo nocivo; in essi
l’istamina è contenuta in granuli, rilasciati opportunatamente in seguito a stimoli fisici (distruzione
delle cellule a seguito di temperatura, traumi o azione di tossine di varia natura).
L’istamina possiede recettori specifici posti sulla superficie cellulare che sono distinti in recettori
H1 e H2 e la loro stimolazione provoca diverse risposte biologiche. Gli effetti dell’istamina
dipendono dal recettore coinvolto e quindi dalla sede dell’evento (bronchi, intestino, cute, cuore,
stomaco).
Quando il sistema di regolazione dell’istamina non funziona in modo corretto e c’è una
ipersecrezione di istamina, si possono attuare due strategie: inibire gli effetti dell’istamina
bloccando i suoi recettori con farmaci (antistaminici) definiti “antagonisti” recettoriali oppure
cercare di diminuire la sua liberazione dai granuli contenuti nelle mastcellule. La prima strategia è
quella largamente più usata.

Antivirali
Gli antivirali sono farmaci che sono utilizzati nel trattamento delle patologie a eziologia virale,
cioè provocate da virus, parassiti intracellulari obbligati (organismi che sfruttano per replicarsi i
processi cellulari della cellula infettata).
Le fasi dell’infezione virale sono molte e i farmaci antivirali le prendono di mira per bloccare
l’azione del virus. Infatti, gli antivirali sono generalmente distinti a seconda del tipo di processo che
è colpito. L’inconveniente di questo approccio è che spesso l’antivirale danneggia anche la cellula
ospite, quella compita dal virus. Come nella chemioterapia, anche nella ricerca sugli antivirali si
cercano soluzioni che minimizzano questo effetto collaterale.
Inoltre, a differenza delle infezioni batteriche, i sintomi delle malattie virali si manifestano quando
l’infezione è già avanzata e ciò rende meno efficaci i farmaci antivirali usati per combatterla. Per
questo motivo, le terapie antivirali migliori sono quelle profilattiche o quelle ottenute mediante
vaccinazione.
Gli antivirali si possono suddividere in:
• Antivirali che inibiscono le prime fasi della replicazione virale
• Antivirali che interferiscono con la replicazione dell’acido nucleico virale (la molecola del
farmaco inganna il virus e, incorporandosi nel DNA virale, ne blocca la sintesi)
• Antivirali che inibiscono il rilascio del virus (cioè la sua diffusione; ci sono però dubbi sulla
loro reale efficacia)
• Farmaci anti-HIV (il virus HIV, ritenuto responsabile dell’AIDS, è un retrovirus che richiede
un ulteriore processo detto retrotrascrizione).

Cortisonici (corticosteroidi)
I cortisonici (corticosteroidi o farmaci antinfiammatori steroidei), sono costituiti da molecole simili
come struttura al cortisolo, un ormone sintetizzato dal colesterolo e secreto dal surrene. Fra l’altro,
il cortisolo è importante nel controllo della glicemia, interviene nel metabolismo proteico e nei
processi infiammatori
L’industria farmacologica da oltre mezzo secolo produce molecole simili strutturalmente al
cortisolo; soprattutto inizialmente, a fianco dell’azione antinfiammatoria, si aveva anche un’azione
mineralcorticoide, cioè una massiccia ritenzione idrica; inconveniente che le molecole più recenti
hanno notevolmente limitato.
Gli attuali cortisonici (cortisone, prednisone, prednisolone, triamcinolone, betametasone,
idrocortisone ecc.) si differenziano a seconda della durata d’azione (in quelli ad azione prolungata
l’effetto può essere anche di un mese) e della via di somministrazione. Sono diventati praticamente i
farmaci primari per la cura di manifestazioni allergiche come rinite e asma.
Data la somiglianza con il cortisolo, si deve notare che la somministrazione porta l’organismo a
sopprimere la naturale produzione di ormoni steroidei per evitare “sovraccarichi” funzionali; non si
deve pertanto sospendere bruscamente la terapia per evitare che l’organismo, abituato a produrre
meno ormoni glucocorticoidi, manifesti segni d’insufficienza surrenalica.
Purtroppo, data la forza della loro azione metabolica, molti sono gli effetti indesiderati dovuti alla
somministrazione di cortisonici, soprattutto se prolungata; fra questi, osteoporosi e riduzione della
sintesi di collagene (quindi difetti della riparazione delle ferite), edema e ritenzione idrica,
stimolazione di ulcere peptiche.

Diuretici
I diuretici sono molecole che hanno la particolare caratteristica di aumentare la diuresi, cioè la
quantità di urina prodotta, attraverso l’inibizione del trasporto di ioni (generalmente il sodio) al
quale consegue un’aumentata eliminazione di acqua
Le loro principali indicazioni sono pertanto:
• stati edematosi, cioè quando si ha un aumento del liquido extracellulare come
nell’insufficienza cardiaca, nelle disfunzioni renali ed epatiche croniche ecc.
• controllo dell’ipertensione
• come supporto alle terapie di altre patologie (glaucoma, diabete insipido, avvelenamenti
ecc.).
Come si vede, il loro spettro d’azione è molto ampio; infatti, sono anche diversi e numerosi i
meccanismi di controllo della diuresi, variabili al variare del diuretico.
Ecco le varie categorie:
• inibitori dell’anidrosi carbonica (un enzima che regola indirettamente il riassorbimento del
sodio)
• diuretici tiazidici (bloccano direttamente il trasportatore sodio/cloro)
• diuretici dell’ansa (agiscono nell’ansa di Henle, una porzione specifica del nefrone, l’organo
filtrante del rene, impedendo il riassorbimento del sodio e del cloro e quindi aumentando la
diuresi; sono i diuretici più efficaci, i cosiddetti diuretici drastici)
• diuretici risparmiatori di potassio (provocano l’inibizione del riassorbimento di sodio e
contemporaneamente bloccano la secrezione di potassio, un effetto negativo collaterale di
altri diuretici).
• diuretici osmotici (sono sostanze idrofile che non vengono riassorbite e quindi richiamano
acqua per azione osmotica, acqua che viene poi eliminata con esse).
Farmaci antiacido
I farmaci antiacido (antiacidi) sono utilizzati nei casi di iperacidità gastrica, di ulcere peptiche e di
reflusso gastroesofageo, eventi collegati all’aumentata secrezione di acido cloridrico contenuto nel
succo gastrico.
Gli antiacidi agiscono secondo diversi meccanismi d’azione:
• neutralizzazione del pH del succo gastrico grazie all’uso di sali alcalini (si tratta di antiacidi
non sistemici, assunti per via orale, in cui il principio attivo sono sali di calcio, di magnesio
o di alluminio)
• riduzione della produzione di acido (i più efficaci e i più usati a scopi terapeutici; agiscono
sulle molecole che producono il succo gastrico e sul meccanismo di effettiva secrezione
dell’acido cloridrico)
• somministrazione di agenti protettivi per la mucosa gastrica (protezione della mucosa con
una pellicola sintetica sulla superficie gastrica o stimolazione della produzione di muco).

Psicofarmaci
Gli psicofarmaci sono sostanze che agiscono influenzando l’attività psichica. Attualmente, la
classificazione maggiormente utilizzata in psicofarmacologia è quella che distingue gli psicofarmaci
in quattro grandi categorie:
• ansiolitici
• antidepressivi
• neurolettici (antipsicotici)
• stabilizzatori dell’umore.
Ansiolitici e antidepressivi hanno un uso (spesso un abuso) così ampio nella da essere considerate
categorie farmacologiche a sé stanti, in quanto, a differenza delle altre due categorie, vengono usati
anche su soggetti psichiatricamente “normali”.
I neurolettici (noti anche come antipsicotici) sono farmaci che esplicano una notevole azione
sedativa del sistema nervoso centrale; agiscono regolando i livelli di diverse sostanze che sono
presenti a livello cerebrale (dopamina, noradrenalina, serotonina ecc.).
Si è soliti classificare questa categoria di psicofarmaci in antipsicotici di prima generazione
(antipsicotici tipici), antipsicotici di seconda generazione (antipsicotici atipici) e antipsicotici di
terza generazione (antipsicotici atipici di terza generazione); i primi (aloperidolo, clorpromazina,
ecc.) sono stati scoperti più di mezzo secolo fa, mentre i secondi e i terzi sono stati scoperti a partire
dai primi anni ’90 del XX secolo (tranne la clozapina scoperta circa vent’anni prima).
Gli antipsicotici non sono scevri da numerosi e importanti effetti collaterali e, a tutt’oggi, è ancora
particolarmente acceso il dibattito se gli antipsicotici di nuova generazione siano da considerarsi
maggiormente efficaci e sicuri rispetto agli altri.
Gli stabilizzatori dell’umore sono psicofarmaci che vengono somministrati in quanto ritenuti in
grado di controllare determinate condizioni mentali patologiche che sono caratterizzate da notevoli
oscillazioni dell’umore (disturbo affettivo bipolare, disturbo dell’umore bipolare, disturbo maniaco-
depressivo ecc.). I principi attivi di questa categoria che vengono utilizzati maggiormente sono i sali
di litio, la carbamazepina e il valproato di sodio. Molti di questi farmaci appartengono alla categoria
dei farmaci antiepilettici. Anche gli stabilizzatori dell’umore, come del resto tutti gli altri
psicofarmaci, possono essere causa di importanti effetti collaterali.
Purtroppo, negli Stati Uniti, una statistica ha dimostrato che il 50% delle persone trattate con
psicofarmaci non ha alcun disturbo mentale. La prescrizione di psicofarmaci in soggetti “sani”
viene definita anche uso estetico del farmaco e denota una necessità della società moderna di voler a
tutti i costi “stare meglio” senza affrontare eventuali problemi, ma assopendoli.

Statine
Negli ultimi decenni per il rischio cardiovascolare si è decisamente sopravvalutato il ruolo del
colesterolo (il fumo, l’ipertensione e l’obesità sono fattori di rischio decisamente più gravi); ciò ha
portato alla ribalta farmaci per il controllo del colesterolo (che andrebbe controllato innanzitutto con
un buon stile di vita che coniuga una sana alimentazione all’attività fisica).
Attualmente le statine (naturali o sintetiche) sono considerate come i farmaci più efficaci nella
riduzione dei livelli di colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo, in contrapposizione a
quello buono, il colesterolo HDL). Le statine sono farmaci che agiscono inibendo la sintesi del
colesterolo endogeno. Diversamente dai comuni integratori che vengono usati per la riduzione dei
livelli di colesterolemia, che basano la loro azione sulla riduzione del suo assorbimento, le statine
agiscono alla base del problema (vale la pena ricordare che i livelli di colesterolemia sono dovuti
soprattutto alla sua sintesi endogena, pari all’80% circa, e in misura molto più modesta, 20% circa,
al contributo del regime alimentare).
Uno dei vantaggi delle statine è quello della loro selettività nei confronti del colesterolo LDL;
questi farmaci, infatti, riducono soprattutto i livelli del colesterolo cattivo senza intaccare quelli del
colesterolo HDL.
Alle statine, inoltre, sono riconosciute proprietà antinfiammatorie; svolgono un’attività protettiva
nei confronti delle pareti dei vasi stabilizzando le placche ateromatose e diminuendo il rischio di
eventi morbosi quali angina pectoris, rottura di aneurisma e infarto del miocardio.
Purtroppo, molti sono gli effetti collaterali: epatotossicità, miopatia, rabdomiolisi, dispepsia, nausea,
stipsi, cefalea e aumento del rischio di insorgenza di diabete mellito nelle donne che si trovano in
menopausa. Alcuni degli affetti avversi, in particolare quelli di tipo gastrointestinale, hanno la
tendenza a regredire spontaneamente dopo un certo periodo di tempo.
Per quanto concerne le interazioni, la più importante è probabilmente quella con i fibrati (è
abbastanza frequente che i soggetti affetti da ipercolesterolemia vengano trattati con associazioni di
farmaci ad azione ipolipemizzante, cioè di riduzione dei trigliceridi), anche se si segnalano
interazioni con farmaci ad azione antibiotica, ad azione anticoagulante e ad azione antidepressiva
nonché antifungini, calcioantagonisti, immunosoppressori, miorilassanti ecc.

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