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Il morbo di Parkinson

La Malattia di Parkinson è, dal punto di vista clinico, caratterizzata da un gruppo di sintomi


tipici, ovvero rigidità, tremore, difficoltà nei movimenti (acinesia), difficoltà dei riflessi
posturali (basta una piccola spinta per far perdere l'equilibrio ai pazienti).

Importante per la diagnosi è l'evoluzione dei sintomi, infatti il paziente tende inesorabilmente
a peggiorare, più o meno velocemente.

Di solito il male colpisce prima un lato del corpo, per poi colpire dopo mesi o anni anche
l'altro.

I sintomi vengono alleviati dalla terapia con una sostanza chiamata L-Dopa.

In realtà alcuni dei sintomi che ho elencato sopra possono mancare, per esempio il tremore
può mancare, almeno in una fase iniziale.

A complicare il processo diagnostico c'è il fatto che esisto una serie di malattie nelle quali
alcuni sintomi possono richiamare la Malattia di Parkinson, ma che in realtà sono altre
malattie.

La Malattia di Parkinson è una malattia nella quale un sistema di centri nervosi cerebrali
vanno in crisi. Questo sistema, che si chiama “extrapiramidale”, governa e regola i nostri
movimenti e fa si che vi sia armonia e scioltezza del gesto.

Grossolanamente possiamo dire che noi pensiamo di compiere un movimento, il sistema


“piramidale” manda il messaggio ai muscoli per eseguirlo e il sistema “extrapiramidale”
decide quando iniziare il movimento, facilita l'armonia e l'esecuzione di movimenti fini come
allacciarsi le scarpe oppure abbottonarsi la camicia.

Il sistema extrapiramidale è composto di numerosi gangli nervosi e a seconda di quale di


questi si ammala e a seconda della causa della malattia noi possiamo avere una serie
dimalattie che assomigliano al Morbo di Parkinson, ma che Parkinson non sono.

E' importante la diagnosi corretta per impostare la terapia corretta e per formulare anche
una prognosi, cioè sapere più o meno come evolverà la malattia, perché noi sappiamo, come
detto prima che si tratta di una malattia che peggiora con il tempo.

Tipicamente colpisce le persone sopra i 60 anni, ma vi sono casi in cui la malattia


esordisce prima, sono per lo più forme familiari.

I farmaci che vengono usati per il Parkinson tendono ad aumentare i livelli di


dopamina prodotti nel cervello.

La Levo Dopa è "la benzina" delle cellule che producono dopamina, infatti questa
sostanza viene trasformata dalle cellule in dopamina.
aumentando la disponibilità di L-Dopa le poche cellule funzionanti riescono a
produrre la dopamina necessaria.

I farmaci in commercio si chiamano Sinemet e Madopar, entrambi contengono delle


sostanze che inibiscono la trasformazione della L-Dopa a dopamina nel corpo
tranne che nel cervello, così è possibile ridurre la dose di L-Dopa da somministrare,
perchè tutta disponibile per il cervello. Nel Sinemet la sostanza inibitrice è
lievemente diversa da quella usata nel Madopar, così alcuni pazienti si giovano più
del Madopar altri più del Sinemet.

Gli effetti collaterali di questi farmaci sono essenzialmente la nausea e


l'abbassamento della pressione. A lungo andare, dopo circa 5-10 anni l'effetto del
farmaco si riduce e tra una somministrazione e l'altra ricompaiono i sintomi, oltre
tutto se si aumentano le dosi di farmaco compaiono dei movimenti non voluti del
corpo chiamati discinesie.

Ad un certo punto della malattia bisogna quindi fare un bilancio tra la scioltezza dei
movimenti e la presenza di movimenti fastidiosi, antiestetici e che interferiscono con
i movimenti voluti.

Nella figura si vede l'effetto die farmaci nei vari stadi della malattia intendendo
"on" come benessere e "off" presenza di sintomi.

La quantità di farmaco in circolo è importante per mantenere la funzionalità delle


cellule. La L-Dopa è un aminoacido e pertanto il suo l'assorbimento intestinale può
essere ostacolato dalla presenza di altri aminoacidi assunti con i pasti.
La L-Dopa dovrebbe essere assunta lontano dai pasti e soprattutto a pranzo
bisogna evitare i cibi proteici, niente carne e latticini.

Nella figura qui sotto si vedono i livelli di farmaco nel sangue se assunto a
digiuno, linea scura, o dopo un pranzo proteico, linea chiara.
Altri farmaci usati sono i dopaminoagonisti, ovvero sostanze che si sostituiscono
alla dopamina e che arrivano direttamente sulle cellule che vengono stimolate da
questo neurotrasmettitore.

Tra questi i farmaci in commercio solo il Parlodel (tra i primi usati), il Nopar,


il Requip (farmaci più nuovi). 

I dopaminoagonisti si affiancano alla terapia con L-Dopa, aumentandone l'efficacia o


eliminando i periodi di "off".

Possono essere usati anche come farmaci di prima scelta ancora prima del
Madopar e Sinemet.

Gli effetti collaterali sono la nausea e l'ipotensione, per evitare questi problemi
bisogna aumentare poco a poco il dosaggio.

Dall'anno scorso abbiamo un'arma in più per combattere farmacologicamente il


Parkinson, si tratta di un inibitore degli enzimi che eliminano la dopamina.

Il nome commerciale del farmaco è COMTAN e deve essere assunto insieme al


Madopar o al Sinemet. Prolunga l'azione della L-Dopa e stabilizza i livelli di farmaco
in circolo.
Il farmaco è utilizzato soprattutto nelle fasi relativamente avanzate della malattia.

In ultimo vi è la terapia chirurgica destinata ai pazienti relativamente giovani ed in


salute, particolarmente handicappati dalla malattia.

Vi sono due approcci che vengono valutati a seconda dei casi, le lesioni di alcuni
fasci nervosi, per ridurre il tremore e l'impianto di elettrodi che agiscono anche sugli
altri sintomi.

Questa è la nuova dispendiosa sfida che il sistema sanitario nazionale sta


affrontando per aiutare i pazienti con Malattia di Parkinson.
            

La terapia del morbo di Parkinson

La terapia farmacologica prevede la somministrazione di anticolinergici, levodopa (L-Dopa) e farmaci

agonisti della dopamina. La levodopa è stata per molto tempo il principale strumento farmacologico,

ma dopo alcuni anni presenta una riduzione del suo effetto sul paziente; inoltre ha fastidiosi effetti

collaterali. Viene oggi somministrata assieme ad altre sostanze, come carbidopa ed entacapone, che

riducono la degradazione della levodopa all’interno dell’organismo.

I dopaminoagonisti sono i farmaci che negli ultimi anni hanno dato esiti più efficaci, consentendo di

rimandare nel tempo il ricorso alla levodopa. Gli anticolinergici ostacolano l’azione dell’acetilcolina che

diventa negativa quando si abbassano i livelli di dopamina a causa del Parkinson. Gli inibitori delle

monoaminoossidasi (selegilina) e delle catecolometiltransferasi (entacapone) agiscono bloccando gli 

enzimi che degradano la dopamina, ma non sono molto efficaci e in genere si prescrivono solo per

potenziare l’effetto della levodopa.

La cura può essere personalizzata con l’età del soggetto. Se il Parkinson compare a meno di 50 anni si

inizia con dopaminoantagonisti e solo in un secondo tempo si usa levodopa a basse quantità; se

compare fra i 50 e i 70 anni si può scegliere fra dopaminoantagonisti e levodopa a basse quantità; se

compare dopo i 70 anni si inizia con levodopa, eventualmente associata a un dopaminoantagonista.

Oltre alla terapia farmacologica esiste anche l’opzione chirurgica, sia per distruggere le cellule nervose

malfunzionanti sia per autotrapiantare cellule cerebrali in grado di produrre dopamina. La prima

soluzione ha però esito positivo solo nei confronti del tremore, inoltre può essere applicata solo

monolateralmente. Gli ultimi sviluppi hanno visto l’introduzione di una tecnica che consiste nella

neurostimolazione delle cellule mediante l’impianto di elettrodi nel cervello. Un’ulteriore


sperimentazione in corso prevede il trapianto di cellule nervose dopaminergiche nel cervello dei

soggetti malati.

TERAPIA FARMACOLOGICA
Allo stato delle attuali conoscenze, la medicina non dispone di un trattamento che sia in grado di
impedire il progredire della malattia e riportare il malato alla normalità. Esistono soltanto farmaci
“sintomatici” che possono in parte migliorare la situazione esistente e rallentare la progressione della
malattia. Tuttavia, è importante sottolineare che:

 questi farmaci sono da utilizzare nella prima fase della malattia, lieve e moderata (non
nelle fasi avanzate);
 non funzionano in tutti i casi (ci sono malati che rispondono bene al trattamento, i
“responders”, e altri che invece non hanno alcun beneficio, i “non-responders”) e non si
sa in anticipo quali siano;
 possono avere effetti collaterali anche gravi (quindi la somministrazione di questi
farmaci necessita della supervisione di un medico specialista).
E’ opportuno precisare inoltre che raramente i bisogni del paziente possono essere affrontati con la
semplice somministrazione di un solo farmaco più o meno efficace e, al contrario, richiedono un
approccio che può essere effettuato in vari modi che tenga conto del quadro clinico (caratterizzato
non solo dalla presenza di sintomi cognitivi, ma anche di sintomi non cognitivi), dalla presenza di
malattie precedenti o in atto (diabete, ipertensione, disturbi psichiatrici), delle ripercussioni
sull’autonomia della persona e delle problematiche sociali e familiari. Distinguiamo i farmaci per la
Malattia di Alzheimer e farmaci per i disturbi del comportamento.

Inibitori dell’acetilcolinesterasi (Donepezil, rivastigmina e galantamina): l’utilizzo di questi


farmaci su basa sulla dimostrazione che nella malattia di Alzheimer vi è una cerenza a livello
cerebrale una sostanza chimica chiamata acetilcolina, sostanza che è importante in particolare per
la memoria. L’acetilcolina è un neurotrasmettitore che invia messaggi da una cellula all’altra e, dopo
aver terminato il suo compito, viene distrutta in modo che non si accumuli tra le cellule.
Questi farmaci hanno lo scopo di mantenere la disponibilità di acetilcolina e possono compensare,
ma non arrestare, la distruzione delle cellule cerebrali provocata dalla malattia. Possono migliorare
alcuni sintomi cognitivi (quali memoria e attenzione) e comportamentali (quali apatia, agitazione e
allucinazioni), ma questa loro capacità diminuisce con la progressione della malattia. Attualmente
questi farmaci sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale e sono dispensati presso le Unità di
Valutazione Alzheimer (U.V.A.).
Memantina: nelle fasi più avanzate della malattia può essere indicata la memantina. Questo
farmaco agisce con meccanismi diversi dai precedenti, compensando gli effetti tossici derivanti
dall’eccessiva stimolazione delle cellule nervose causata da un’altra sostanza, il glutammato: esso
ha un ruolo essenziale nell’apprendimento e nella memoria, ma quantità eccessive provocano la
morte delle cellule nervose. La memantina può proteggere le cellule da questo eccesso. Si ritiene
inoltre che il farmaco abbia un duplice effetto: sintomatico, migliorando in alcuni casi i sintomi
cognitivi e comportamentali, e neuroprotettivo (funzione protettiva per le cellule del cervello, cioè i
neuroni). Da aprile 2009 anche la memantina è a carico del Servizio Sanitario Nazionale ed è
dispensato presso le U.V.A. Studi scientifici dimostrano l’efficacia della memantina anche in
associazione con gli inibitori dell’acetilcolinesterasi.
Antiossidanti (Selegilina, Vitamina E, Gingko-Biloba): si sente spesso parlare, anche in relazione
all’invecchiamento della pelle, dei radicali liberi. Cosa sono? La produzione di radicali liberi è un
evento fisiologico che si verifica normalmente, tuttavia si ritiene che con il passare degli anni i
radicali liberi si accumulerebbero e svolgerebbero una potente azione dannosa per il nostro
organismo. In condizioni fisiologiche normali vi è uno stato di equilibrio tra la produzione da parte del
nostro corpo di radicali liberi e la loro eliminazione da parte di specifici meccanismi propri
dell’organismo. Quando invece prevale la produzione di radicali liberi, si viene a determinare un
danno che a lungo andare procura una progressiva usura del corpo e della mente. Gli antiossidanti
sono sostanze in grado di neutralizzare i radicali liberi e proteggere l’organismo dalla loro azione
negativa. Le importanti proprietà di molti alimenti di origine vegetale (ad esempio mirtilli, cavoli,
succo di uva e di pompelmo) sono legate proprio al loro prezioso contenuto in antiossidanti.
Si ritiene che farmaci con proprietà antiossidanti intervengano nei processi che caratterizzano
l’invecchiamento. Il loro impiego contribuirebbe (il condizionale è d’obbligo perché gli studi che
documentano questi effetti sono pochi e con risultati non sempre in accordo tra loro) a “rallentare” i
meccanismi che portano alla perdita delle cellule cerebrali. Essi sono abitualmente ben tollerati e gli
effetti collaterali sono rari, ma ci sono. Questi farmaci sembrano avere effetti principalmente
sull’autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane, non direttamente sulla memoria o sulle
altre funzioni cognitive. Questi risultati che sembrano incoraggianti devono essere tuttavia
confermati da altri studi prima di avere la certezza della loro reale efficacia. Un farmaco che ha
ottenuto grande attenzione è il Ginkgo Biloba, un estratto dalle foglie di una pianta subtropicale ad
azione neurotrofica, antiossidante e antinfiammatoria. Per quanto riguarda il gingko-biloba sono stati
pubblicati alcuni studi che ne documentano un’efficacia, sia pur modesta, sulle funzioni cognitive e
sul comportamento. Sono necessarie, però ulteriori ricerche per comprendere il suo meccanismo di
funzionamento e va ricordato che anche questo trattamento non è esente da possibili effetti
collaterali anche gravi (azione anticoagulante con aumentato rischio di emorragie).
I limiti del trattamento con i farmaci appena descritti hanno portato la ricerca a orientarsi verso
approcci terapeutici alternativi che mirano alla prevenzione e alla cura più che al rallentamento dei
sintomi caratteristici della malattia.

Recentemente, particolare attenzione è stata volta a una sostanza anomala (cioè irregolare, che non
rispetta le regole) denominata beta-amiloide, che è stato dimostrata essere presente nel cervello
dei pazienti con demenza di Alzheimer (sotto forma di placche). E’ quindi attualmente in corso la
sperimentazione di un nuovo farmaco che potrebbe rallentare la progressione della malattia
attraverso l’inibizione della sintesi della sostanza beta-amiloide.
Si sente spesso parlare anche di cellule staminali in relazione alle demenze e in generale ad altre
malattie degenerative (ad esempio la sclerosi multipla). Cosa sono le cellule staminali? Sono cellule
presenti in ogni organismo che si distinguono dalle altre in quanto sono cellule non differenziate
(cioè non specializzate), nel senso che non hanno ancora una funzione ben precisa all’interno
dell’organismo stesso. Alcuni studi condotti su topi di laboratorio (siamo quindi ancora all’inizio della
sperimentazione!) hanno evidenziato che le cellule staminali iniettate nel cervello dell’animale
agiscono come fertilizzante per il cervello. Le staminali aiutano quindi il cervello del topolino a creare
nuove connessioni tra le cellule che lo compongono e a guarire quelle “ammalate”. Ma non tutto
quello che fanno o che possono fare è poi così “miracoloso”, ci sono comunque dei limiti soprattutto
per patologie come la demenza oltre ad essere degenerative, colpiscono più aree cerebrali e quindi
un grandissimo numero di cellule cerebrali.
Sulla base della considerazione che molti pazienti affetti da demenza sono persone che hanno una
storia di diabete, di ipertensione o di malattie cardiovascolari, un altro passo in avanti proviene da
uno studio americano che avrebbe confermato che alcuni farmaci comunemente usati per
trattare l’ipertensione e le malattie cardiache possono ridurre il rischio di sviluppare la malattia di
Alzheimer e le altre forme di demenza. Si tratta ad oggi di risultati che, per quanto interessanti,
andranno comunque confermati da ulteriori programmi di ricerca futuri.
Infine, un approccio terapeutico molto promettente è basato sullo sviluppo dei vaccini, che si sono
dimostrati in grado di prevenire la formazione della sostanza beta-amiloide e la cui sperimentazione
sui soggetti sani, inizialmente interrotta per il verificarsi di alcuni gravi effetti collaterali, è attualmente
in fase di ripresa.
Concludendo, il quadro generale lascia prevedere la possibilità di individuare nuovi farmaci per la
malattia di Alzheimer, potenzialmente diretti alle cause invece che ai sintomi. D’altra parte occorre
anche sottolineare che le nuove terapie hanno tempi di sviluppo lunghi e quindi nel breve e nel
medio termine non è possibile prevedere di sostituire i farmaci attualmente impiegati.

 
Decorso e sintomi
Il decorso della malattia è lento e in media i pazienti possono vivere fino a 8-10
anni dopo la diagnosi della malattia.
 
La demenza di Alzheimer si manifesta con lievi problemi di memoria, fino a
concludersi con grossi danni ai tessuti cerebrali, ma la rapidità con cui i sintomi
si acutizzano varia da persona a persona. Nel corso della malattia i deficit
cognitivi si acuiscono e possono portare il paziente a gravi perdite di memoria, a
porre più volte le stesse domande, a perdersi in luoghi familiari, all’incapacità di
seguire delle indicazioni precise, ad avere disorientamenti sul tempo, sulle
persone e sui luoghi, ma anche a trascurare la propria sicurezza personale,
l’igiene e la nutrizione.
 
I disturbi cognitivi possono, tuttavia, essere presenti anche anni prima che
venga formulata una diagnosi di demenza di Alzheimer.
 
Diagnosi
Oggi l’unico modo di fare una diagnosi certa di demenza di Alzheimer è
attraverso l’identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile
solo con l’autopsia dopo la morte del paziente. Questo significa che durante il
decorso della malattia si può fare solo una diagnosi di Alzheimer “possibile” o
“probabile”. Per questo i medici si avvalgono di diversi test:

 esami clinici, come quello del sangue, delle urine o del liquido spinale
 test neuropsicologici per misurare la memoria, la capacità di risolvere
problemi, il grado di attenzione, la capacità di contare e di dialogare
 Tac cerebrali per identificare ogni possibile segno di anormalità
 Questi esami permettono al medico di escludere altre possibili cause che
portano a sintomi analoghi, come problemi di tiroide, reazioni avverse a
farmaci, depressione, tumori cerebrali, ma anche malattie dei vasi
sanguigni cerebrali.

Come in altre malattie neurodegenerative, la diagnosi precoce è molto


importante sia perché offre la possibilità di trattare alcuni sintomi della malattia,
sia perché permette al paziente di pianificare il suo futuro, quando ancora è in
grado di prendere decisioni.
 
Terapie farmacologiche
Oggi purtroppo non esistono farmaci in grado di fermare e far regredire la
malattia e tutti i trattamenti disponibili puntano a contenerne i sintomi. Per
alcuni pazienti, in cui la malattia è in uno stadio lieve o moderato, farmaci come
tacrina, donepezil, rivastigmina e galantamina possono aiutare a limitare
l’aggravarsi dei sintomi per alcuni mesi. Questi principi attivi funzionano come
inibitori dell'acetilcolinesterasi, un enzima che distrugge l'acetilcolina, il
neurotrasmettitore carente nel cervello dei malati di Alzheimer. Perciò inibendo
questo enzima, si spera di mantenere intatta nei malati la concentrazione di
acetilcolina e quindi di migliorare la memoria. Altri farmaci, inoltre, possono
aiutare a contenere i problemi di insonnia, di ansietà e di depressione.
 
La messa a punto di nuovi farmaci per la demenza di Alzheimer è un campo in
grande sviluppo, nei laboratori di ricerca si sta lavorando a principi attivi che
aiutino a prevenire, a rallentare la malattia e a ridurne i sintomi.
 
Altra via di ricerca attiva è quella che punta sullo sviluppo di una risposta
immunologica contro la malattia cercando di sviluppare un vaccino in grado di
contenere la produzione di b-amiloide (il peptide che si aggrega a formare le
placche).
 
Terapie non farmacologiche
Fra le varie terapie non farmacologiche proposte per il trattamento della
demenza di Alzheimer, la terapia di orientamento alla realtà (ROT) è quella per
la quale esistono maggiori evidenze di efficacia (seppure modesta). Questa
terapia è finalizzata ad orientare il paziente rispetto alla propria vita personale,
all’ambiente e allo spazio che lo circonda tramite stimoli continui di tipo verbale,
visivo, scritto e musicale.

Morbo di Parkinson: farmaci


Contrariamente a quanto accade per la cura del morbo di Alzheimer, dove i
farmaci sono scarsi e poco efficaci, per il trattamento del morbo di Parkinson è
disponibile un numero superiore di principi attivi che, seppur non in grado di
invertire la malattia, possono comunque migliorare la qualità di vita del paziente
affetto. Accanto alla terapia farmacologica, si raccomanda di seguire una terapia
psicologica, di praticare sport e di alimentarsi secondo quanto dettato
dalle regole dell'educazione alimentare.
Tornando alla terapia medica, i farmaci possono migliorare ed alleggerire i
sintomi che contraddistinguono il morbo di Parkinson, ma non possono curare
definitivamente il paziente. Da considerare, inoltre, che ogni organismo risponde
in maniera soggettiva alla terapia, perciò non è detto che un farmaco efficace in
un paziente produca il medesimo effetto terepeutico in tutti i malati; tuttavia, va
sottolineato che la risposta iniziale al trattamento anti-Parkinson può anche
essere drammatica.
Abbiamo analizzato che nel cervello dei malati di morbo di Parkinson si osserva
una carenza di dopamina: spontaneo sarebbe pensare che la somministrazione
diretta di questo neurotrasmettitore possa essere miracolosa. Ma non è così: la
dopamina pura, infatti, non è in grado di giungere al cervello, perché non
oltrepassa la barriera emato-encefalica. In sostituzione alla dopamina, è
possibile assumere la L-DOPA, il suo precursore, in grado di attraversare questa
barriera e giungere perciò al cervello, dove esercita la propria attività terapica.
 
Si è osservato che il morbo di Parkinson può essere corretto tanto meglio
quanto più veloce è l'accertamento diagnostico e l'inizio della terapia: infatti, la
terapia di ultima generazione mira anche e soprattutto alla protezione delle
cellule nervose, sottoposte agli insulti ossidativi.
 
In terapia, oltre alla L-DOPA, farmaco più efficace in assoluto per il morbo di
Parkinson, si utilizzano agonisti della dopamina, inibitori MAO, catecol o-
metiltransferasi, anticolinergici e bloccanti del glutammato. Vediamoli più in
dettaglio.
 
Levodopa (es. Duodopa, Sinemet): questo farmaco è in assoluto il più utilizzato
in terapia per il morbo di Parkinson, oltre ad essere il più efficace per trattare i
sintomi. Quando assunto per via orale, il farmaco è in grado di oltrepassare la
barriera emato-encefalica e, raggiunto il cervello, si trasforma in dopamina. La
levodopa è sempre reperibile in associazione ad altri principi attivi, quali il
carbidopa e l'entacapone (es. Levodopa/Carbidopa/Entacapone orion): la
carbidopa impedisce che la levodopa si trasformi in dopamina prima di
raggiungere il cervello (ricordiamo brevemente che la dopamina assunta
dall'esterno è inefficace perché non riesce a passare la BEE). La posologia,
comunque perfezionata dal medico, suggerisce di assumere al massimo 7-10
compresse (costituite da 50-200 mg di levodopa e 12,5-50 mg di carbidopa)
durante la giornata. Non somministrare ai pazienti affetti da gravi disfunzioni
epatiche. La posologia dev'essere regolata durante il corso della terapia: tipica
di questo farmaco è infatti la perdita progressiva d'efficacia terapeutica. Tra gli
effetti collaterali più comuni, ricordiamo le discinesie e l'ipotensione.
 
Agonisti della dopamina (dopaminergici): questi farmaci non agiscono come
il precedente, vale a dire non vengono convertiti in dopamina nel cervello;
essi imitano gli effetti terapeutici della dopamina, stimolando i neuroni a reagire.
La somministrazione di questi farmaci nel contesto del morbo di Parkinson non
si rivela efficace nel lungo termine. Tra gli effetti collaterali,
ricordiamo: allucinazioni, ipotensione, ritenzione idrica e sonnolenza; possibile
anche la comparsa di comportamenti ossessivi-compulsivi come l'ipersessualità,
il gioco d'azzardo e il comportamento alimentare compulsivo.

 Pramipexolo (es. Mirapexin, Pramipexole Teva, Oprymea, Pramipexole
Accord): per il trattamento del Morbo di Parkinson, si consiglia di
somministrare per via orale una dose di farmaco pari a 0,088 mg, tre volte
al giorno nel caso di compresse a rilascio immediato, oppure 0,25 mg una
volta al giorno per le compresse a rilascio prolungato. La posologia
dev'essere aumentata gradualmente ogni 5-7 giorni, fintanto che gli effetti
collaterali possono essere controllati. Non superare tre compresse a
rilascio immediato da 1,1 mg tre volte al giorno. Quando si termina la
malattia, si raccomanda di diminuire lentamente il dosaggio e di non
interrompere bruscamente la somministrazione. Consultare il medico.
 Apomorfina (es. Apofin): altro farmaco agonista dopaminergico indicato
per dare un rapido sollievo al paziente affetto da morbo di Parkinson.
Prima di iniziare la terapia è necessario sperimentare il farmaco sul
paziente con una dose minima (0,2 ml, corrispondenti a 2 mg); qualora il
farmaco fosse tollerato senza provocare reazioni avverse, è possibile
iniziare la terapia con una dose di 0,2 ml (2 mg) somministrati per via
sottocutanea, tre volte al giorno. La dose di mantenimento suggerisce di
aumentare gradualmente il dosaggio (aumentando la dose ogni pochi
giorni di 0,1 ml = 1 mg), fino ad un massimo di 0,6 ml (6 mg) per dose. Non
somministrare il farmaco per più di 5 volte al giorno e non superare i 2 ml
(20 mg) al giorno.

Inibitori delle monoaminossidasi (I-MAO): aiutano a prevenire la


disgregazione della dopamina naturale (sintetizzata dall'organismo) e quella
assunta sottoforma di levodopa. Questa attività terapeutica è possibile
attraverso l'inibizione dell'attività degli enzimi monoamino-ossidasi B (enzimi che
metabolizzano la dopamina nel cervello). Tra gli effetti collaterali, si ricordano:
allucinazioni, confusione, cefalea, vertigini.

 Selegilina (es. Egibren, Jumex, Seledat): disponibile in compresse orali e


in compresse disintegrabili. È possibile assumere il farmaco sottoforma di
compresse orali da 5 g, due volte al giorno, a colazione e a pranzo. Per le
compresse da sciogliere, è possibile somministrare 1,25 mg, una volta al
giorno (preferibilmente a colazione) per 6 settimane. Se necessario, dopo
le prime 6 settimane di trattamento, è possibile aumentare la dose fino a
2,5 mg al dì. Consultare il medico.
 Rasagilina (es. Azilect): per il trattamento del Parkinson, assumere una
compressa da 1 mg al giorno, con cibo o a digiuno. Bloccando l'enzima
monoaminoossidasi-B (responsabile della degradazione della dopamina
nel cervello), il farmaco risulta assai utilizzato in terapia per il morbo di
Parkinson, in particolare contrasta la rigidità e la lentezza dei movimenti.

Catecol o-metiltransferasi si tratta di farmaci indicati per prolungare l'effetto


terapeutico della levodopa-carbidopa, interagendo e bloccando l'enzima che
distrugge la levodopa.

 Entacapone (es. Comtan, Entacapone Teva): assai utilizzato in terapia


associato a levodopa e carbidopa (es. Levodopa/Carbidopa/Entacapone
Orion). Non causa particolari problemi epatici, nonostante possa provocare
confusione, discinesia ed allucinazioni. Indicativamente, assumere 200 mg
di farmaco in associazione a levodopa e carbidopa, fino ad un massimo di
8 volte al giorno. Il farmaco può essere assunto con o senza cibo.
 Tolcapone (es. Tasmar): farmaco potente ma estremamente pericoloso
per i danni al fegato che derivano dalla sua somministrazione. Utilizzato,
generalmente, in quei pazienti malati di Parkinson che non rispondono alle
cure precedenti. Indicativamente, assumere 100 mg di farmaco tre volte al
giorno, sempre in associazione a levodopa/carbidopa.

Rivastigmina (es. Rivastigmina Teva, Nimvastid, Prometax, Rivastigmina
Actavis): si tratta di un farmaco inibitore reversibile dell'acetilcolinesterasi, di
elevato interesse farmacologico. Iniziare la terapia con dosaggi di farmaco
piuttosto bassi (1,5 mg, da assumere 2 volte al giorno, a colazione e a cena),
per poi aumentarli gradualmente ad intervalli di 2 settimane, fino a 3-6 mg/die.
Non superare i 6 mg due volte al giorno. Indicato anche per la cura del morbo di
Alzheimer.
 
Anticolinergici: farmaci ampliamente utilizzati, da molto tempo, per il controllo
dei sintomi associati al morbo di Parkinson (soprattutto tremori). Ponendo
l'attenzione sul bilancio tra gli effetti terapeutici (contrasta il tremore) e quelli
collaterali (alterazione della memoria, confusione, compromissione della
minzione, secchezza delle fauci, secchezza oculare), si comprende come questi
farmaci non possano essere utilizzati da tutti i pazienti malati dal morbo di
Parkinson.

 Benztropina (es. Cogentin): iniziare la terapia per il morbo di Parkinson


con una dose di farmaco variabile da 0,5 a 2 mg, per via orale,
intramuscolare o endovenosa, una volta al giorno. Per la forma idiopatica
del Parkinson, assumere 0,5-1 mg di farmaco per via orale, una volta al
giorno, la mattina. La dose di mantenimento può essere aumentata
gradualmente ogni 5-6 giorni, fino a 6 mg/dì.
 Triexifenidile o Triesifenidile (es Artane): iniziare la terapia per il morbo di
Parkinson con una dose di attivo pari ad 1 mg/dì. Aumentare di 2 mg ogni
3-5 giorni. La dose di mantenimento prevede di assumere 1 mg al giorno,
aumentando la dose – quando necessario -  da 5 a 15 mg al giorno,
equamente distribuiti in 3-4 dosi. Non superare i 20 mg al giorno. Ridurre
la dose quando si associano altri farmaci anti-Parkinson: in associazione
con il levodopa, per esempio, la dose del farmaco varia da 3 a 6 mg al
giorno, sempre frazionati in più dosi.

Farmaci bloccanti del glutammato: indicati in genere per il trattamento dei


sintomi iniziali del morbo di Parkisnon. Inoltre, la terapia con questi farmaci è
indicata per i malati da Parkinson con marcate alterazioni posturali (discinesie),
specie se derivate dalla somministrazione di levodopa.

 Amantadina (es. Mantadan): si tratta di un agonista dopaminergico


piuttosto debole, con effetti terapeutici antiparkinsoniani modesti: agisce
dando sollievo a tremore e rigidità, ma può generare tolleranza, confusione
ed allucinazione. La posologia suggerisce di assumere 100 mg al giorno,
da aumentare dopo una settimana a 100 mg in duplice dose giornaliera, in
associazione eventualmente ad altri farmaci antiparkinson. Non assumere
oltre 400 mg al giorno. Dà sollievo a breve termine nel contesto del morbo
di Parkinson

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