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«Il luogo comune e il suo rovescio»:

effetti della storia, forma libro e enunciazione


negli «Strumenti umani» di Sereni
Niccolò Scaffai

I. Dinamica del libro

La terza raccolta di Vittorio Sereni uscì per Einaudi nel 1965, corre-
data da una Nota dell’autore:
Tutti i testi compresi nel volume appartengono al periodo 1945-1965. Una
più circoscritta indicazione cronologica è consentita solo per alcuni gruppi di
poesie: così Uno sguardo di rimando può essere idealmente collocato nel perio-
do ’45-57, mentre Appuntamento a ora insolita e Apparizioni e incontri vanno ri-
spettivamente riferiti agli anni ’58-60 e ’61-65. Per i singoli componimenti una
datazione più rigorosa risulterebbe tutto sommato arbitraria. Sarebbe possibile,
se mai, per ciascuno di essi stabilire una data di «partenza» e una di «arrivo»:
nel qual caso, però, alcune «partenze» rischierebbero di figurare come anteriori
persino al ’45. Un margine così largo di tempo non implica in alcun modo fasi
di lavorazione protratte al segno dell’incontentabilità o del rigore dal punto di
vista strettamente stilistico, bensì una serie di modifiche e aggiunte, di deviazio-
ni e articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni offerte e suggerite, quando
non imposte, dall’esistenza, dal caso, dalla disposizione dell’ora […].1

La Nota dice molto non solo sulla struttura del libro (la scansione in
diverse parti e i titoli di alcune di esse), ma anche sulla dinamica della
sua composizione, com’è lecito attendersi da un autore dalla salda au-
tocoscienza letteraria, per di più abituato, per la pratica del lavoro edi-
toriale, a seguire la confezione del testo.
La statica, o se si vuole l’architettura, degli Strumenti umani si basa
sull’accostamento di cinque sezioni (Uno sguardo di rimando, Una visi-
ta in fabbrica, Appuntamento a ora insolita, Il centro abitato, Apparizio-
ni o incontri) che fanno del libro un insieme coerente, dotato degli ele-
menti propri di un macrotesto:2 presenza di testi “dispositivi”, che cioè

1 Si cita da TP, Apparato critico e documenti, p. 469.


2 Per un inquadramento teorico: Corti 1978, Genot 1967, Longhi 1979, Segre 1970, Testa
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sottolineano in forma programmatica sedi eminenti e snodi significati-


vi, come l’incipit e l’explicit o i passaggi tra le sezioni; testi caratterizzati
da una forte impronta metapoetica, nei quali siano riassunti e volti in
forma esplicita alcuni moventi dell’intera raccolta (negli Strumenti
umani, una simile funzione tocca per esempio a I versi, il cui titolo è
già segno eloquente di una scrittura di secondo grado);3 corrisponden-
ze nel lessico e nelle immagini, tali da favorire l’aggregazione di nuclei
tematici sui quali insistono più o meno direttamente tutte le zone del
libro; assetti stilistici marcati, sia come fenomeni interni e comuni a
singoli testi (per esempio la dizione interiore, la sermocinatio caratteri-
stiche del terzo e del quarto Sereni), sia come princìpi che regolano
l’allineamento e lo smistamento delle poesie nelle sezioni: nel caso de-
gli Strumenti umani, vige un criterio non “petrarchesco”, ma semmai
“leopardiano” e ancor più “montaliano”, di alternanza fra sequenze di
testi mediamente più brevi (Uno sguardo di rimando), poemetti (Una
visita in fabbrica) e blocchi di testi più lunghi (Il centro abitato e Appa-
rizioni o incontri) in cui la pronuncia dei grandi universali tende a in-
nalzarsi verso il piano metafisico. Più delicato è il rilevamento di una
progressione di senso all’interno del libro; nella definizione strutturale,
la progressione è il risultato di una successione di testi collocati in una
sede necessaria: ciascun componimento, cioè, si trova in una certa po-
sizione nell’ordine progressivo, né potrebbe essere dislocato altrove,
pena l’alterazione di un senso e di uno sviluppo preordinati. La rigidità
del concetto teorico, in sé discutibile e discusso,4 non corrisponde alla
mobilità del libro sereniano. Né d’altra parte la forma degli Strumenti
umani si risolve nel referto del progresso storico, evenemenziale e so-
ciale, pur presente e giustamente sottolineato da molti interpreti, a co-
minciare da Franco Fortini5 e Lanfranco Caretti.6 Referto storico che è

1983, 1984, 2003. Recentemente, le condizioni che fondano la coerenza semantica del macrotesto
sono state riepilogate da Bisogno 2000 e Dardano 2003. È dedicato al libro di poesia anche un
paragrafo di Giovannetti 2005 (§ 2.3: Il libro di poesia, pp. 65-71; ma all’argomento si accenna an-
che in altre sezioni del volume).
3 Cfr. Testa 1983, pp. 100-1.
4 Cfr. Scaffai 2005.
5 «Gli strumenti umani è un libro che può anche essere letto come una raffigurazione della
storia italiana – in una certa misura europea – degli ultimi quindici anni. Non soltanto per le indi-
cazioni di scena: avvento della Repubblica, ricostruzione, la nuova industria, il passaggio del be-
nessere, la guerra d’Algeria, la Germania del miracolo» (Fortini 1966, cit. in TP, p. XXIX).
6 «La terza raccolta di Sereni, Gli strumenti umani, scandisce il difficile e tormentato dopo-
guerra del reduce d’Algeria: dal primo ritorno a Milano (Via Scarlatti) alla sua lucida e matura
condizione d’oggi, dal 1945 al 1965» (Caretti 1966, cit. in TP, p. XLV).
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oggettivamente tra i motivi di unità tematica del libro e tra le risorse


della sua organizzazione ma che, al tempo stesso, riceve l’azione di altri
elementi per così dire di contrasto che emergeranno nell’analisi. In tal
senso, i versi di Situazione («Sono io tutto questo, il luogo | comune e il
suo rovescio», vv. 15-16) riconducono e quasi incarnano nel soggetto la
tendenza all’ossimoro o al contrappunto che qualifica il libro.7
Ma intanto, formulando l’ipotesi che gli Strumenti umani si sviluppi
in base a un’organizzazione sia formale che semantica non univoca-
mente orientata, si abbandonano i sondaggi sulla statica per affrontare
la dinamica. Questa risiede appunto in un sistema di spinte e contro-
spinte che si bilanciano nel tempo di elaborazione della raccolta (quel-
le «modifiche e aggiunte», «deviazioni e articolazioni», «dilatazioni e
rarefazioni» cui Sereni allude nella Nota) e che invitano a situare le os-
servazioni sulla struttura dell’opera nel quadro della sua genesi. La
stessa coerenza interna agli Strumenti non implica infatti una totale au-
tonomia della raccolta dal resto della produzione sereniana, tanto da
spingere – come ha osservato Dante Isella – la filologia d’autore fino al
«limite della possibilità di un’ordinata formalizzazione».8
Sereni aveva infatti previsto in un suo Piano generale per una ristam-
pa di tutte le poesie non rifiutate, datato all’inizio del 1960, la pubblica-
zione dei futuri Strumenti insieme alle liriche precedenti; del resto, già
nei primi stadi del progetto, di cui danno testimonianza i fascicoli dat-
tiloscritti classificati con la lettera W, Diario bolognese e altre poesie
poi rimaste nel Diario d’Algeria precedevano il nucleo della terza rac-
colta come prima sezione di Un lungo sonno, «la raccoltina con cui Se-
reni partecipò al Premio Libera Stampa 1956».9 (A questo riguardo,

7 Sembrano da condividere, in tal senso, le osservazioni di Pagnanelli 1980, p. 150: «Il mito
del libro “unico” come continuo diario lirico è veramente tormentato perché inerente a un con-
cetto idealistico e metastorico dell’opera d’arte nonché sottomesso al principio statico della irripe-
tibilità. A questo si sostituisce il libro “unico” come dinamismo, continua e giornaliera rimessa in
gioco, fedeltà della materia che si prolunga, pensiero che non si dà pace fin quando il suo essere
informe non si trasferisce in immagini».
8 Nessuna «opera, meglio della poesia di Sereni, potrebbe giustificare l’uso degli strumenti
propri della filologia d’autore. La quale, in questo caso, è stata messa continuamente di fronte a
una fenomenologia tanto complessa, talvolta al limite della possibilità di un’ordinata formalizza-
zione, da sollecitare tutte le risorse del mestiere e ampliarne proficuamente gli orizzonti» (Isella
1999, p. 235).
9 TP, p. 477. Gli indici di W1, W2 e W3 sono riprodotti da Isella nell’apparato di TP, alle
pp. 480-81. Per i dettagli sui fascicoli W (la cui serie comprende anche W4 e W5), è opportuno
consultare il Fondo Vittorio Sereni presso la Biblioteca comunale di Luino: un’ampia schedatura
del materiale è ora disponibile in rete nell’ambito del progetto Archivi letterari lombardi del Nove-
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c’è da dire che l’abitudine di contaminare negli scartafacci poesie di-


stribuite in libri diversi prosegue anche oltre Gli strumenti umani, co-
me si ricava dal contenuto dei Quaderni sereniani conservati nel Fon-
do luinese, in particolare da B:10 forse un effetto della stessa tenace
percezione di incompletezza che, come stiamo per vedere, accompa-
gnò l’allestimento degli Strumenti).
Entro il maggio del ’62, Sereni muta i termini del progetto, separan-
do le ultime quattro sezioni dal resto come parti di un nuovo «libro at-
tualmente in sviluppo e tuttora incompleto», prima della cui uscita non
sarebbe stata autorizzata alcuna ristampa dei versi anteriori.11 La sen-
sazione di incompletezza dura almeno fino al marzo del ’64, come ri-
sulta da una lettera di Sereni a Giulio Bollati:
Dunque, ho deciso, anche tenendo conto delle istanze di alcuni amici, di
pubblicare il libro delle poesie – o meglio mettere in moto la piccola macchina
della pubblicazione… – Il libro, almeno idealmente, non è completo. Non lo è
ai miei occhi, almeno. Questo non esclude che possa risultare tale agli occhi
altrui. In più, c’è quella specie di concentrazione o condensazione non tanto
artificiale che si verifica spesso quando uno compie l’atto concreto di decider-
si a pubblicare: può sembrare strano che lo dica io, avaro e tardigrado quale
posso sembrare, eppure mi è già capitato. Il merito degli amici che hanno toc-
cato questo argomento a più riprese con me sta nell’aver richiamato la mia at-
tenzione sul rischio che il libro, al di là di un eventuale successo di stima, arri-
vi troppo tardi rispetto al «discorso» che sta svolgendo.12

Parallela all’elaborazione della terza raccolta è poi la revisione delle


due precedenti in vista delle nuove rispettive edizioni: Diario d’Algeria
nel ’65 e Frontiera nel ’66. In una lettera del maggio ’64, Sereni invia a
Fortini una versione “epigrafica” (cioè in gruppi staccati di versi) di
Una visita in fabbrica, affiancando e intrecciando all’anticipazione di
quella parte della nuova e ormai prossima raccolta, osservazioni sulla

cento dell’Università degli Studi di Pavia, all’indirizzo http://www.lombardiabeniculturali.it/ar-


chivi/complessi-archivistici/MIBA0079E0/.
10 La descrizione di B è reperibile dalla schedatura sopra citata nel Fondo Sereni: Segnatura

provvisoria 1.2. Segnatura definitiva SER QU 0002. Collocazione b. 1, fasc. 2. Tipologia unità:
quaderno. Tipologia documentaria: ms. letterario. Formato mm 200 × 120. Consistenza numerazio-
ne: cc. 80 (pp. 160), num., + copertina. Interessa qui osservare come il contenuto di B consista in
poesie degli Strumenti umani e del poemetto Un posto di vacanza, incluso nella raccolta successiva.
11 TP, pp. 471-72.
12 Il testo della lettera di Sereni a Bollati, datata 10 marzo 1964, è riprodotto in Einaudi

1996, p. 52.
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silloge precedente: «Allo stesso modo posso dire di aver chiuso solo
adesso il Diario d’Algeria, dopo aver inserito cose (in prosa e in versi)
di cui non disponevo al tempo della prima edizione».13 Dal Diario
verrà appunto trasferita negli Strumenti umani la poesia di esordio, Via
Scarlatti, sulla cui diversa funzione all’interno dei due macrotesti do-
vremo più avanti riflettere.
È poco, certamente, per accreditare il mito del libro unico caro, tra
gli altri, anche al giovane Sereni;14 ma è abbastanza per vedere negli
Strumenti umani un libro “in contropiede” rispetto a una progressione
lineare, dislocato in posizione eccentrica rispetto a un fuoco cronologi-
co (si pensi alle parole dell’autore sull’arbitrarietà di ogni rigorosa da-
tazione e sugli Strumenti come libro «arrivato troppo tardi», buone co-
me indiretta dichiarazione di una poetica compositiva, prima o più che
come indicazione filologica) e probabilmente anche nei riguardi di un
orientamento ideologico: «quell’aspetto dell’“impegno” per cui la poe-
sia o lo scrivere hanno un peso nella misura in cui concorrono al for-
marsi della storia» dichiarava Sereni in un’intervista ad Anna Del Bo
Boffino nel 1982 «mi è totalmente estraneo».15 La reticenza di Sereni
sulla cronologia della raccolta e l’effettiva sfumatura dei contorni tra
un libro e l’altro contraddicono, cioè, da un lato la classicistica esigen-
za di simmetria che pure emerge con altrettanta forza e chiarezza nel-
l’architettura dell’opera16 (come ad esempio rivelano – lo diremo me-

13 TP, p. 545.
14 In una nota all’edizione delle Poesie, pubblicate da Vallecchi nel 1942, Sereni scriveva in-
fatti: «È meglio dire senz’altro che questa seconda raccolta è poco più di una ristampa con qual-
che aggiunta, senza varianti e senza sorprese. Chi ha letto Frontiera nell’edizione di “Corrente” la
vedrà integralmente riprodotta in queste Poesie con quelle stesse cose più deboli a cui si vorrebbe
rinunciare se lo permettesse una vena meno avara ma sopra tutto una tenace e forse monotona e
troppo umana fedeltà al tempo e alle circostanze vissute. In ogni caso l’autore non ha voluto, con
questa raccolta, riproporre o veder confermata la presenza del proprio nome; e nel titolo stesso –
generico e antologico rispetto all’altro, diletto ma troppo preciso – si concentra una chiara consa-
pevolezza di quanto questo libro sia idealmente distante da quello che in esso vagamente si raffi-
gura. Ma l’autore sa anche che questo è il suo unico libro, l’unico che nella migliore fortuna e nel
migliore dei casi continuerà a scrivere: era necessario assicurargli una veste più duratura che fosse
anche – eventualmente – definitiva» (TP, pp. 281-82).
15 Ivi, p. 582.
16 «Perché l’autore degli Strumenti umani, è bene ripeterlo, rimane fedele alla sua formazio-

ne fenomenologica […] nel considerare il fatto artistico come costituzionalmente incompiuto, e


l’opera d’arte come organismo in movimento, in divenire, frutto di una relazione fra il soggetto e
le circostanze esterne che lo attraversano, e sempre aperto a possibili svolgimenti successivi» (Pel-
lini 2004, p. 147). In merito alla probabile influenza di Solmi e della sua lettura degli Essais di
Montaigne sulla concezione fenomenologica del libro sereniano, si veda D’Alessandro 2001,
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glio – le corrispondenze tra l’ultima poesia, La spiaggia, e le prime


due); ma screditano anche, dall’altro lato, una dottrina progressiva del-
la storia, di ascendenza hegelo-marxiana (si pensi ai versi di Corso
Lodi: «Piantala se ti riesce una volte per tutte | la tetra folla che annusa
trifola ornamentale, | la turba dei baschi marxesistenzialisti | esisten-
zialmarxisti»), non molto diversamente da quanto farà di lì a poco, con
altro registro, il Montale di Satura: i versi appena citati sono del resto
tra i più “satirici” e in tal senso pre-montaliani di Sereni.

II. Il racconto impossibile

Nel saggio su Iterazione e specularità in Sereni, che accompagna l’e-


dizione degli Strumenti umani nella «Collezione di poesia» Einaudi,
Mengaldo osservava come «l’elemento costruttivo dell’iterazione e se-
rialità agisca anche sulla struttura diciamo così esterna dell’opera»,17
contribuendo alla compattezza e alla necessità interiore del macrotesto.
Sulla scorta dei sondaggi di Mengaldo, affiancati dalle osservazioni di
Enrico Testa,18 è in effetti possibile riconoscere un’articolata serie di
corrispondenze tra le poesie del libro, che in gradazione tipologica
vanno dalla ripresa di singole tessere lessicali o di segni grammaticali
“ostinati”, fino alla costituzione di sequenze tematicamente continue,
attraverso la scansione di sottotemi persistenti che accompagnano il di-
scorso come una specie di basso continuo.
Tra gli elementi lessicali spicca ad esempio una parola tematica qua-
le «primavera», presente fin nel testo di apertura (Via Scarlatti, v. 7: «e
forse il sole a primavera») come fantasma di una stagione idillica e allu-
sione a un tempo squisitamente letterario (il topico Natureingang) che
Sereni corteggia e nega («forse» a primavera il sole irromperà da uno
squarcio tra i caseggiati della via, ma intanto «adesso», cioè in un altro
tempo, «dentro lei par sempre sera»). Perciò anche la strategia che
presiede all’adozione e all’iterazione di certo lessico tematico va nella
direzione del controtempo, dell’impossibile linearità che la raccolta

p. 123: «E leggeva, nelle diverse edizioni degli Essais, continuamente accresciute e variate, l’“idea
di un’opera che cresce all’infinito per successive stratificazioni”, secondo un procedimento familia-
re a Sereni, sia pur nella dinamica più che negli esiti».
17 SU, p. 112.
18 Testa 1983.
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esprime.19 Possono confermarlo le occorrenze successive: nell’Equivo-


co, la figura del contrasto si attua nell’ossimoro «amare e dolci allèe di
primavera» (v. 10); nella contigua Ancora sulla strada di Zenna è di
nuovo l’avverbio «forse» ad associarsi a una primavera contraddetta o
ridotta agli effetti di una pura meccanica naturale («il verde si rinno-
va») ma incapace di generare l’idillio («non rifiorisce la gioia»); del re-
sto, nella successiva Finestra la «primavera | che si aspettava da anni»
arriva «di colpo» spiazzando, cogliendo letteralmente impreparato a
goderne la sintonia un io «troppo dal verde dissimile». Infine, nella
Sonnambula, la primavera torna solo come speranza (non senza, forse,
il tono antifrastico dell’ironia), come attesa di un evento euforico, sì,
ma al di fuori del principio di realtà: «Ci aspetta una città con la sua
primavera. | Non sai che città, | che primavera ti preparo…» (vv. 15-
17). Tutto ciò rientra più in generale nel tema, che attraversa la raccol-
ta insistendo soprattutto sulle ultime tre sezioni, della mancata sintonia
tra il tempo (nella doppia accezione: cronologico ed epocale) e l’espe-
rienza, sia questa individuale (nel Grande amico: «Non pareva il matti-
no nato ad altro?», v. 10), generazionale (Quei bambini che giocano:
«Ma la distorsione del tempo | il corso della vita deviato su false piste |
l’emorragia dei giorni | dal varco del corrotto intendimento», vv. 4-7),
storica (Il male d’Africa: «di noi sempre in ritardo sulla guerra», v. 93)
o più immediatamente idiosincratica (Nel sonno, V: «Non lo amo il
mio tempo, non lo amo», v. 9).
Per quanto riguarda i segni grammaticali, ha rilievo, nella zona inci-
pitaria del libro, l’iterazione dell’avverbio «qui», nella perentoria chiu-
sura di Via Scarlatti («E qui t’aspetto») e all’inizio della terza poesia, Il
tempo provvisorio («Qui il tarlo nei legni»). Oltre a stabilire una con-
nessione di luogo, l’avverbio, specie nella sua seconda occorrenza, rea-
gisce con la dimensione del tempo. Se l’hic richiama spesso anche un
nunc, l’insistenza sul primo termine della coppia può implicare un in-
ceppamento nel progresso del tempo, al limite una “morte” del tempo
(«è morto tempo da spalare al più presto», v. 9), conseguente a un
trauma, a un primum storico da cui si diramano le impunture che cu-

19 Come ciò si leghi alla discontinuità dell’io caratteristica di Sereni (e di altri tra i maggiori

poeti del secondo Novecento), l’ha intuito Mengaldo: «da S. Agostino allo stesso Proust l’idea o
sentimento del tempo come continuità soggettiva, interiorizzata, presuppone insomma un’idea
dell’io come unità; troppi sono invece gli indizi che ciò in Sereni […] non è più possibile, che l’io
è ora sentito come discontinuo e frantumato» (Mengaldo 2000a, p. 222).
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ciono insieme la stoffa del libro. Almeno nel Tempo provvisorio, il valo-
re del «qui» sembra disforico, come potrebbe confermare l’eco se non
proprio la citazione di un passo celebre delle Occasioni montaliane:
Il fuoco d’artifizio del maltempo
sarà murmure d’arnie a tarda sera.
La stanza ha travature
tarlate ed un sentore di meloni
penetra dall’assito. Le fumate
morbide che risalgono una valle
d’elfi e di funghi fino al cono diafano
della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo di qui, da questo tavolo
remoto, dalla cellula di miele
di una sfera lanciata nello spazio –
(Notizie dall’Amiata, I, vv. 1-11, corsivi miei).

Se le «travature tarlate» anticipano il sereniano «tarlo nei legni», è


l’evidenza dell’avverbio di luogo («ti scrivo di qui») a sottolineare la
possibile correlazione tra i due autori, forse corroborata dalla memoria
di un altro incipit montaliano, stavolta dalla Bufera: «Albe e notti qui
variano per pochi segni» (Il sogno del prigioniero). Del resto, nel secon-
do movimento di Notizie dall’Amiata le immagini finali del «tempo»,
del «lungo colloquio coi poveri morti», del «vento» sono tutte passate
o rinnovate per coincidenza nell’imagery degli Strumenti umani; sotto
questa luce, non appare un caso il fatto che I morti, come l’omonimo
“osso” montaliano il cui tema «avrebbe dato di nuovo risultati altissimi
nella Bufera»,20 fosse il titolo originario della Spiaggia. Diversamente
che in Montale, però, il «qui» in Sereni ha una connotazione urbana,
moderna, industriale, milanese (d’altra parte, anche i «legni» tarlati ri-
muovono ogni residua traccia dell’araldica ermetico-fiorentina in cui si
inscrivevano le «travature» montaliane). L’avverbio corrisponde cioè
direttamente all’esperienza biografica, allo scenario empirico dell’auto-
re: non è un paesaggio dell’anima o un’idealizzazione letteraria, un al-
trove attinto dalla memoria o il risultato di un’occasione odeporica. La
città di Sereni non ha insomma il crisma dell’eccezionalità ma lo stigma
della quotidianità: correlativo esistenziale dell’iterazione stilistica che
caratterizza la raccolta.

20 Genetelli 2008, p. 448.


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Si comincia così a intuire quale sia il contrasto di fondo, il sistema di


controspinte che tende e mette in movimento la struttura del libro: da
un lato la fuga in avanti tentata dal tempo della storia e della società,
che rimuove le spoglie del passato “morto”, della guerra e delle sue de-
vastazioni; dall’altro la persistenza dei segni di quel passato nella città,
la «cenere» e il «fumo», le «mura smozzicate delle case dissestate», che
sono il correlativo ineludibile della guerra. Non è irrilevante che Sere-
ni, negli Immediati dintorni, abbia osservato come
i modi insoliti della guerra – con l’orrore, con la paura, con l’accanimento;
ma anche col coraggio, con la fede nella causa eccetera – […] annullano certe
pienezze, certe complessità, sostituendole con realtà schiaccianti e palesi agli
occhi di tutti.21

La relazione tra ciò che muta e ciò che non muta,22 tema centrale di
Ancora sulla strada di Zenna, lì declinato nel confronto tra il soggetto e
il paesaggio, si innerva lungo tutte le direttrici del libro; per questo,
cioè perché facilita la comprensione del nesso tra la crisi storica e la
poetica anti-idillica, la poesia assume il rilievo di un fulcro tematico.
Un ruolo sottolineato anche dalla convergenza di allusioni interne al-
l’opera sereniana: «ancora» rimanda anaforicamente alla Strada di Zen-
na di Frontiera; gli «strumenti umani» a cui è intitolata la terza raccolta
sono prelevati da qui (vv. 18: «strumenti umani avvinti alla catena»); le
«piante» di A un compagno d’infanzia sono quelle già «turbate» dal
vento, al v. 1. Anzi, l’immagine della pianta mossa dal vento è già anti-
cipata, per collocazione e cronologia dei testi, da La repubblica: «Svetta
ancora allo svolto la vecchia pianta | e improvvisa brulica al vento»
(dove si delinea un paesaggio simile a quello di Ancora sulla strada di
Zenna – in entrambi è la «svolta» – ma ancora filtrato attraverso il vo-
cabolario montaliano: «svetta»).
Inchiodato al «qui», l’io non rimuove e non progredisce nel tempo
che pure procede: il paradosso, la contraddizione si riflettono in parte
anche nella struttura del libro, in cui a una sezione come Una visita in
fabbrica, non certo ingenuamente progressiva ma imperniata sulla
realtà industriale del dopoguerra,23 seguiranno ancora poesie legate al-

21 Male del reticolato, in Tentazione, p. 23


22 Lo «scambio di ruoli, al limite del corto circuito logico, fra movimento e immobilità è il
nucleo semantico profondo di tutto il componimento» (Pellini 2004, p. 133).
23 È utile, per l’intelligenza del poemetto, l’autocommento di Sereni nella lettera a Buzzi del
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la memoria e agli effetti della tragedia storica (come la serie “straniera”


nel cuore dell’ultima sezione: Dall’Olanda, La pietà ingiusta, Nel vero
anno zero).
La costruzione del libro, insomma, dà conto di una difficoltà, quella
del soggetto che fatica ad accettare lo svolgimento del tempo e che, an-
che per questo, non riesce a “mettere in racconto” gli eventi. Come si
legge nel Tempo provvisorio, del resto, il «tempo morto» della guerra va
rimosso, «spalato», senza dar modo alla storia di svolgersi, di essere ri-
percorsa e raccontata. In questo vi è anche il referto di una stagione vis-
suta dalla società italiana, quella di una ricostruzione impetuosa non
sempre e non per tutti preceduta da esami di coscienza e previsioni di
future responsabilità. È appunto il deficit di spiegazioni storiche a le-
garsi al contenuto e alla stessa organizzazione degli Strumenti umani.
Nonostante la palmare tendenza prosastica e a tratti narrativa della poe-
sia di Sereni,24 infatti, ciò che può essere raccontato sono gli avvenimen-
ti secondari, le esperienze inavvertite dell’io e dei suoi falsoveri interlo-
cutori. Resta sfocato, asintotico il racconto per eccellenza, quello della
guerra, che è ovunque e in nessun luogo del libro, presente per metoni-
mia nelle città, nelle coscienze e nelle reticenze dei personaggi.25 In una
lettera a Giancarlo Buzzi del 1 marzo 1961, Sereni in effetti scrive:
È poi vero quello che dici sul non avere io cantato né la guerra né la condi-
zione della mia generazione durante la guerra. Cioè: non le ho volute cantare
(ecco l’intenzionalità), ma è proprio da escludere che proprio nello scoprirsi
incapaci di spiegarsi la tragedia e di parteciparvi stia la «tragedia» della mia

15 maggio 1961: «Ma quando parli di “inesplicabile debolezza” mi fai sospettare che una cosa
non sia chiara in quello che ho scritto: che non ci si veda la condizione concreta dalla quale e del-
la quale parlo: l’intellettuale gettato nell’industria, gli operai che hanno gradatamente perduto la
loro tensione proletaria […], la demoralizzazione piccolo-borghese, il paternalismo dei grandi
complessi aziendali» (TP, p. 541).
24 Su questo punto, problematico come diremo, si vedano Cordibella 2004 e Ricci 2002. Del

resto, anche nella prosa-prosa di Sereni sono state osservate un’«aspirazione al romanzo» e una
concezione «rapsodica», più che un concreto tentativo di costruzione narrativa (Cipriani 2002,
p. 17). Con ciò, resta comunque vero che all’interno dell’opera di Sereni esistono sezioni o suites
di testi legati da connessioni che danno all’insieme un effetto narrativo: per Frontiera, ad esempio,
lo ha notato Fioroni 2007.
25 Perciò non condivido del tutto – non almeno per l’intero libro degli Strumenti umani –

l’interpretazione “liberatoria” proposta da Barile 1994, p. 53: «Sereni ormai si sente autorizzato a
parlare, dall’interno della sua esperienza, sia pure diversa, della storia d’Europa, e anche di quello
che ne è stato in questo secolo l’avvenimento centrale, l’orrore dei campi di concentramento. An-
zi è lui, come artista, il responsabile custode della memoria collettiva di quell’orrore: e Sereni si
assume in pieno tale responsabilità».
«Il luogo comune e il suo rovescio» 155

generazione o – almeno – di ciò che la mia generazione possa appunto ricono-


scere?26

L’unica spiegazione che il protagonista riceve all’inizio della Pietà in-


giusta («Mi prendono da parte, mi catechizzano»), viene resa attraver-
so il filtro della lingua straniera («Il paraît qu’il en fut un, un SS | qu’il
a été même dans l’armée | quoique pas allemand…»), certo a causa del-
l’evoluzione mimetica che lo stile sereniano conosce a quell’altezza del
libro, ma anche per una strategia di censura linguistica.
Per inciso storico-letterario, la difficoltà per così dire adorniana27 di
raccontare direttamente la guerra e i suoi più atroci portati distingue le
istanze di Sereni da quelle dei narratori coetanei: l’uscita degli Stru-
menti umani è preceduta solo di un anno dalla famosa prefazione alla
seconda edizione del Sentiero dei nidi di ragno in cui Calvino rievocava
la «smania» di raccontare che si era diffusa dopo la fine della guerra.28
Sereni, più che fidarsi del racconto come euforico strumento di una ri-
costruzione impossibile (o «idiota», ancora con Adorno29), ne ammette
i limiti evitando di dar voce a una testimonianza (come, con diversa
partecipazione e temperatura tragica, un altro grande poeta europeo
del secondo Novecento, Paul Celan), ma piuttosto figurandosi l’oscu-
rità del passato per via di induzione. In questo, Sereni anticipa il pro-

26 TP, p. 481.
27 Adorno 1975, p. 33: «Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad es-
sa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resi-
stenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione
all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e
spirito. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa
collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è
rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltan-
to la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una vol-
ta a menzogna».
28 «L’esplosione letteraria di quegli anni fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico,

esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani […] non ce ne sentivamo
schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena
conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. […] La rinata libertà di parlare fu per la gente al
principio smania di raccontare […]. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la mede-
sima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui era-
vamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce,
una cadenza, un’espressione mimica» (Calvino 1964, pp. 1185-86).
29 «L’idea che, dopo questa guerra, la vita potrà riprendere “normalmente” o la cultura esse-

re “ricostruita” – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione – è sempli-
cemente idiota» (Adorno 1994, p. 55).
156 Niccolò Scaffai

cedimento di recupero indiziario della memoria che la letteratura ispi-


rata all’Olocausto e alla Seconda guerra mondiale metterà a punto al-
cuni decenni dopo: esempio eccellente, Austerlitz (2001) di Winfried
G. Sebald.
Un dato biografico caricato di senso sia da Sereni che dai suoi inter-
preti30 può contribuire a motivare la differenza o l’estraneità rispetto
alla stagione della narrativa italiana che Sereni si lasciava alle spalle: la
forzata inazione durante gli anni in cui agiva in Italia la Resistenza, tra-
scorsi dal poeta in prigionia. Eloquenti, in tal senso, i versi di Il male
d’Africa: «di noi sempre in ritardo sulla guerra | ma sempre nei dintor-
ni | di una vera nostra guerra…», poesia significativamente inserita sia
nel Diario d’Algeria, cui si lega per l’ambientazione, sia negli Strumenti
umani, dove ha tra le altre la funzione di chiarire – come si è detto – un
movente storico, variandone al tempo stesso la declinazione rispetto al-
lo scenario urbano-industriale che risalta nelle prime sezioni.31

III. Corrispondenze

La reticenza, le tacite allusioni alla storia richiedono un costante


sforzo, spesso affrontato dallo stesso Sereni nelle lettere e negli auto-
commenti in prosa, di integrazione del contenuto del libro attraverso i
dati che provengono dall’esterno.32 È, in un certo senso, una disposi-

30 «Il culto sereniano della memoria non lo è solo della memoria personale, ma anche di
quella che possiamo chiamare memoria storica, soprattutto di una storia – lo sanno i lettori del
poeta – che ha il suo fulcro nell’orrore nazista e nella Resistenza, gli eventi che egli ha mancato
sentendo sempre questo appuntamento fallito come colpa» (Mengaldo 2000a, p. 223).
31 Al riguardo, si veda la lettera di Sereni a Giancarlo Buzzi del 15 maggio ’61: «Lasciamo

stare il giudizio di merito; ma vorrei rivendicare il diritto, o meglio la necessità, di scrivere le For-
nasette vicino alla visita in fabbrica, la mezza montagna vicino al male d’Africa. Mi sembra un se-
gno di libertà e di apertura; oppure sono pause necessarie; oppure il quadro ha bisogno, per esse-
re e restare vivo, anche delle Fornasette eccetera» (cito da TP, p. 466).
32 È questo un nodo da cui dipende, per Sereni, la distinzione tra la tradizione lirica e la poe-

sia contemporanea: «Da Leopardi a Pavese la situazione lirica cui la disposizione solitaria dell’ani-
mo offre spunto si va scostando sempre più dal suo elementare, classico schema, da quella specie
di luogo ideale, antico come la poesia lirica, che dello stato di solitudine faceva il punto d’equili-
brio delle passioni, il recupero di esse nell’attitudine contemplativa, la condizione stessa della
poesia in quanto fervido strumento di conoscenza. […] Al punto che lo sviluppo della lirica con-
temporanea parrebbe svolgersi secondo una progressiva tendenza a rompere, della solitudine, i
confini e ad affermare, se non il contrario, il bisogno, la sete del contrario» (da Apollinaire, in
Tentazione, p. 55).
«Il luogo comune e il suo rovescio» 157

zione verso la realtà extratestuale di tipo dantesco, comunque diversa


dall’autosufficienza classicistica di ascendenza lato sensu petrarchesca
cui ancora è affidata, per esempio, l’organizzazione dei libri montalia-
ni, anche della Bufera e altro, l’ultimo che Sereni poteva aver letto al-
l’altezza cronologica degli Strumenti.33 Eppure, a conferma della ten-
sione che attraversa il libro sereniano, bisogna constatare un dato ac-
cessibile anche dal semplice punto di vista del lettore: cioè che la tenu-
ta del libro è ribadita da una serie di connessioni intertestuali classici-
sticamente orientata verso un effetto di expolitio.34 Ne hanno dato con-
to Testa, Lenzini, Mengaldo:
Ecco dunque che le prime tre liriche, Via Scarlatti, Comunicazione interrotta
e Il tempo provvisorio sono ravvicinate dal motivo, ben più che uno sfondo, del
«quartiere»: «Non lunga tra due golfi di clamore | va, tutte case, la via», col
successivo «squarcio» – «nel quartiere più lontano» – «la lebbra | delle mura
smozzicate delle case dissestate: | un dirotto orizzonte di città». Viaggio all’alba
e Un ritorno hanno in comune, oltre alla complementarità del titolo, il motivo,
lessicalizzato, dello specchiarsi. Paura e Viaggio di andata e ritorno […] hanno
in comune, oltre al solito motivo del viaggio, quel «verso d’uccello» che evolve
a «strido» e soprattutto la coppia «E l’aria invade, anche ora | artiglia l’anima,
sfonda la vita | e insiste» – lo strido «che sgretola l’aria | e insieme divide il mio
cuore» […]. Facciamo un salto avanti, alla seconda sezione. Scoperta dell’odio,
Un incubo e Quei bambini che giocano articolano diversamente, per dritto e ro-
vescio, il tema dell’amore; ma in particolare poi la citazione finale di Quei bam-
bini appartiene a Saba, cioè il protagonista assoluto, a partire dal titolo, della li-
rica successiva, e le due condividono anche, fra l’altro, il motivo dell’amore tra-
dito che ci ferisce a morte. Passiamo alla terza sezione. Corso Lodi e Il male
d’Africa sono dominate da due figure d’amici, entrambi G., paterna-ammoni-
trice con ironia la prima, sostitutiva la seconda. Saltando sopra il Male d’Africa,
che da ultimo è stato redistribuito nel Diario d’Algeria, Corso Lodi e L’alibi e il
beneficio sono accomunati dal ripetuto scorcio della nebbia cittadina su cui sci-
vola quello dello «struggersi» degli anni. Infine l’ultima sezione, […] Appari-
zioni e incontri. […] Le Fornasette e Ancora sulla strada di Creva sono strette,
oltre che dal diffuso tema del viaggio, da un’opposizione pertinente, quella fra
la leggiadra figura femminile che appare nella prima e la severa condanna del-

33 Ha ragione Dal Bianco 2004, quando scrive che con Sereni siamo «insomma al “libro uni-

co” e all’“esile mito”, ma non nel senso del canzoniere, cioè di una costruzione organica e para-
narrativa, […] quanto proprio nel senso dell’impossibilità di distaccarsi da una forma di vissuto
interiore, per cui le tappe del “libro” sono anche le tappe della vita» (p. 188).
34 Nella retorica medievale, il termine definisce l’insistenza del discorso su uno stesso tema,

pur se declinato con parole e colori diversi; per Rico 2008, pp. 93 ss., sarebbe appunto questo
uno dei princìpi retorici che presiedono alla costruzione del Canzoniere petrarchesco.
158 Niccolò Scaffai

l’amore, contenente una rappresentazione tragica della giovinezza femminile,


nella seconda («ti conosco – diceva – mascherina | maschera detta amore, | bel-
la roba che sei»). Non occorre insistere su come siano coese, per il comune
riaffiorare di ricordi del nazismo, le prime due poesie del dittico Dall’Olanda e
La pietà ingiusta e Nel vero anno zero, mentre le ultime due hanno come loro
legame particolare da una parte la visione del reparto tedesco in sfacelo e del
giovane soldato «bocciato», «espulso dal futuro», dall’altra quella dei soldati
tedeschi che si arrendono a Stalingrado.35

Resta da aggiungere che la disposizione di alcuni richiami lessicali,


segni oggettivi di una più generica coerenza tematica interna al libro,
suggerisce talvolta una specifica intenzione dell’autore, soprattutto al-
l’interno della sezione Uno sguardo di rimando: ad esempio, la coppia
«specchiarmi» / «specchio» che collega Viaggio all’alba a Un ritorno è
il primo anello di una catena che lega ancora Un ritorno a Nella neve
tramite la capfinidad del lemma «cuore» («una lacuna del cuore» /
«cuori obliqui»), e Paura a Viaggio di andata e ritorno attraverso la pa-
rola «aria» che torna nei rispettivi finali in due immagini parallele di
sfacelo sentimentale: «E l’aria che invade anche ora | artiglia l’anima
sfonda la vita | e insiste», «o strido che sgretola l’aria | e insieme divide
il mio cuore». Il sintagma esclamativo «quanti anni», dal finale di Il
tempo provvisorio (v. 10: «E tu, quanti anni per capirlo»), si duplica
nell’incipit petrarchistico di Viaggio all’alba («Quanti anni che mesi che
stagioni»). Simili tracce lessicali possono anche avere una funzione per
così dire strategica, come spie di più sostanziali affinità fra i testi richia-
mati: è il caso del dittico composto da Un ritorno e Nella neve, poesie
parimenti incentrate sulla distonia tra res cogitans e res extensa, tra l’io
e un paesaggio produttore di segni illeggibili, scialo di tracce che non si
condensano in alcun simbolo, né producono senso attraverso una con-
tiguità analogica. (Al contrario del meccanismo metonimico che, ad
esempio, presiede alla poetica dell’“occasione”; del resto, è tutta una
fenomenologia della decifrazione di ascendenza appunto montaliana, e
indirettamente simbolistica, ad essere qui evocata e insieme rovesciata:
si pensi a Quasi una fantasia, negli Ossi, dove «i neri | segni dei rami sul
bianco» della neve vengono letti euforicamente dall’io «come un essen-
ziale alfabeto»36 e, per Un ritorno, alla prosa La regata nella Farfalla di
Dinard, cui sembra riferirsi più avanti anche Il grande amico, nella se-

35 Mengaldo 2000b, pp. 250-51.


36 Il riscontro è già nel commento a Nella neve in Poesie, p. 106.
«Il luogo comune e il suo rovescio» 159

zione Appuntamento a ora insolita).37 La durezza dell’enigma formulato


da quei segni si collega all’impasse che sbarra la strada al soggetto, vin-
colato a un «qui» continuamente presente, al trauma insuperabile sen-
za possibilità di fuga o riscatto dalla contingenza nell’attesa di un altro-
ve metafisico o memoriale, giusta il confronto ancora con Montale.
Se la parola-immagine della «primavera» – lo si è detto – attraversa
una sequenza continua di almeno quattro poesie (Viaggio di andata e ri-
torno, L’equivoco, Ancora sulla strada di Zenna e Finestra), sono le trac-
ce di un lessico sentimentale, la cui pronuncia è resa accettabile all’io
grazie alla sordina dell’inappagamento e di una sempre incombente ne-
gatività,38 a ribadire gli accostamenti, come l’«amore» che dal distico
finale di Mille miglia rimbalza al v. 4 e poi al v. 11, il penultimo, di An-
ni dopo.
Di un gioco di studiate corrispondenze fanno parte anche la mise en
abyme del titolo di sezione, Uno sguardo di rimando, nel verso di una
delle poesie che la compongono, L’Equivoco (v. 4: «C’era tra noi uno
sguardo di rimando»), e gli adempimenti di tipo narrativo che fanno di
una poesia come A un compagno d’infanzia, nella sezione Apparizioni o
incontri, un collettore di situazioni (l’inquietante epifania di Un sogno),
di luoghi (Creva, ripetuto anche alla fine della successiva Il muro, Ger-
mignaga, Voldomino), immagini (le piante, già in Ancora sulla strada di
Zenna). Si tratta per lo più di connessioni «di trasformazione»,39 che
implicano un ripensamento e un’evoluzione («Dunque via libera, e ba-
sta con le visioni», II, v. 11), in coincidenza di una svolta tragica, quella
del successivo trittico sul nazismo: come se il tempo dei fantasmi ideo-
logici (Un sogno), degli indugi esistenziali, delle “privilegiate memorie”
famigliari (Ancora sulla strada di Creva) o dell’elegia (Il piatto piange)
dovesse lasciare il posto all’urgenza mai risolta e anzi tanto più pres-
sante di una memoria che non cancella e non redime: un «passato che
non passa».40
Connessioni puntuali e tematicamente significative non mancano

37 Per un commento alle due poesie, Un ritorno e Nella neve, lette «come momenti contigui
e dipendenti di un unico moto», e per la possibile intertestualità con liriche del corpus montaliano
(quali Dora Markus e Ballata scritta in una clinica) rimando al commento di Luca Lenzini in GA
pp. 214-15, da integrare con le agnizioni di Simonetti 2002, p. 65.
38 Cfr. Testa 1983, pp. 40-41.
39 Per la distinzione tra connessioni di trasformazione e connessioni di equivalenza (che impli-

cano la modificazione di un dato tematico o ambientale di partenza), si veda Santagata 1975.


40 Mutuo l’espressione da Barile 2004.
160 Niccolò Scaffai

neanche nelle sezioni successive a Uno sguardo di rimando: lo spazio


«fuori porta», quello dove si estende l’«altra città» degli operai, da Una
visita in fabbrica raggiunge Scoperta dell’odio (v. 7: «si dilunga la strada
fuori porta»), in Appuntamento a ora insolita. Vi è infine una serie di
occorrenze forse non casuali che dalla prima sezione scavalcano nelle
ultime, marcando le trasformazioni tra l’inizio e la fine del libro: ad
esempio, gli «scafi» che sussultano «fuggiaschi» in Comunicazione in-
terrotta, correlativi di una dimensione euforica lontana dal presente
coercitivo, anticipano «lo scafo che passava prima al ponte» in Il gran-
de amico e, da ultimo, il «trambusto di scafi» in Gli amici (le due ulti-
me poesie si richiamano fin troppo palesemente nel titolo), dove muta-
no di segno per diventare oggetti-simbolo di un tempo perduto e insie-
me di una deriva sociale: «Che tempi – mormori – sempre più confusi |
che trambusto di scafi e di motori | che assortita fauna sul mare» (vv.
15-17). La «sacrosanta rissa» di Scoperta dell’odio (v. 10, in Appunta-
mento a ora insolita) viene ribadita in Un sogno (v. 21), prima poesia di
Apparizioni o incontri. (A margine, si osserverà come la parola, in Sere-
ni rivestita di connotati ideologici, suoni ancora una volta come un ac-
cusato montalismo, di nuovo prelevato da Notizie dall’Amiata: «Que-
sta rissa cristiana che non ha | se non parole d’ombra e di lamento»).
Diremo meglio più avanti delle corrispondenze tra le prime e l’ultima
poesia della raccolta: intanto, va qui osservato come la «via Scarlatti»
del primo titolo sia citata di nuovo nella quartultima poesia, Il muro
(«in via Scarlatti 27 a Milano») e come l’attesa espressa proprio nella li-
rica esordiale («Con non altri che te | è il colloquio») si adempia, alme-
no sul piano della ripresa grammaticale, nella penultima, I ricongiunti
(acclusa ad hoc nel ’74, nella sede che l’autore avrebbe voluto assegnar-
le già dal ’6541): «e solo adesso, con te, | la tavolata è perfetta sotto que-
ste pergole» (vv. 9-10, miei i corsivi nelle due ultime citazioni). Nono-
stante la diversa gradazione lirica dei due passi, entrambi esprimono
una tendenza più o meno volontaria all’esplicitazione delle premesse
contenute nella prima sezione. Appaiono, insomma, quali manifesta-
zioni di una controllata, ma comunque riconquistata loquacità rispetto
agli affetti e alle circostanze di contesto (anche la via Scarlatti, che nel-
l’omonima poesia valeva come sineddoche di una città e metonimia di
un’epoca, guadagna ora un’altra determinazione). Questo ribadire,
questa chiarezza guadagnata per via di ripetizione, sono forse i segni

41 Cfr. Einaudi 1996, p. 54, nota 1.


«Il luogo comune e il suo rovescio» 161

che anticipano e rendono possibile – come vedremo – la formulazione


dell’auspicio finale in La spiaggia.
Il confronto tra gli scartafacci sereniani e la versione definitiva degli
Strumenti umani mostra come alcuni accostamenti, con il conseguente
aggetto delle reciproche connessioni di lessico e di senso, non siano so-
lo l’effetto di una spontanea successione, ma il risultato di un’intenzio-
nale dispositio.42 Non si tratta, in altre parole, di una percezione dal so-
lo punto di vista del lettore, ma anche da quello, strategico, dell’autore.
Come risulta dall’apparato critico e filologico allestito da Dante Isella,
l’archivio privato della famiglia Sereni conserva, insieme al Piano gene-
rale per una ristampa di tutte le poesie non rifiutate, «un quarto foglio
dove mediante aggiunte e cassature sono elencate le poesie che conflui-
ranno nella terza raccolta».43 È vero che le date poste a fianco di ogni
titolo si succedono in ordine progressivo, suggerendo una disposizione
cronologica, più che strategica, all’interno del libro in costruzione. C’è
però da dire che tra il Piano e la definitiva organizzazione degli Stru-
menti non vi è perfetta coincidenza; inoltre, rispetto alla linea cronolo-
gica, si registrano alcune eccezioni (per esempio, Altri versi a Proserpi-
na, poi espunta, datata «1941», segue Cartolina luinese, «1947-1948?»;
così come Anni dopo, «<1954>» è preceduta da Mille miglia, «1955>-
1956<»); infine, la maggior parte delle date non esprime tanto una cro-
nologia puntuale, quanto segmenti pluriennali che spesso si interseca-
no, rendendo difficile stabilire precedenze temporali: è il principio del-
la doppia data, «di partenza» e «di arrivo», cui allude la nota sereniana
citata in apertura. (Senza trascurare la possibilità che Sereni, per attitu-
dini e competenze, riuscisse a dirigere a priori la lunga gittata di un
progetto macrotestuale).
L’indice provvisorio ricostruito da Isella prevedeva che Cartolina lui-
nese (poi intitolata Un ritorno) venisse collocata al sesto posto nell’or-
dine progressivo, seguita da Altri versi a Proserpina (n. 7), Viaggio al-
l’alba (n. 8), Nella neve (n. 9). Nella disposizione definitiva, invece, Un
ritorno, dapprima espunta insieme ad Altri versi a Proserpina, è reintro-
dotta tra Viaggio all’alba e Nella neve: viene così a costituirsi una serie
legata dai rimandi tematico-lessicali già esaminati, con un effetto di rin-
caro nella coesione del macrotesto, cruciale anche perché subito ap-
prezzabile nella parte iniziale della raccolta e dunque capace di sugge-

42 Cfr. Caretti 1985, pp. 343-51.


43 TP, p. 472.
162 Niccolò Scaffai

rire una modalità di lettura per l’intero libro. Analogamente, la serie


Dall’Olanda, dapprima anteposta a Una visita in fabbrica e a una se-
quenza di altri otto testi, verrà in seguito avvicinata a La pietà ingiusta e
a Nel vero anno zero.
Sul piano della genesi del libro, le dislocazioni più significative ri-
guardano però l’incipit. Come si è detto, Via Scarlatti era in origine l’ul-
tima poesia del primo Diario d’Algeria (1947); nel ’65, in vista della
nuova edizione del Diario e dell’uscita degli Strumenti, il testo trasloca
dalla seconda alla terza raccolta, dove acquista la prima sede nell’ordi-
ne progressivo. La decisione di dislocare Via Scarlatti deve aver prece-
duto di poco il definitivo allestimento e l’uscita dei due libri: lo lascia
credere il fatto che nell’avantesto degli Strumenti umani di cui dà con-
to l’edizione Isella non risultano indici provvisori che contemplino fin
dall’inizio la presenza della poesia. Dagli abbozzi, in effetti, si ricava
l’impressione che le maggiori incertezze sull’organizzazione del nuovo
libro abbiano riguardato proprio il suo attacco. Nell’indice che accom-
pagna il Piano già citato, i primi due titoli erano Diario bolognese e
Frammenti per una sconfitta, entrambi rifusi nel secondo Diario d’Alge-
ria. Espunte quelle due poesie, prima del successivo inserimento col n.
1 di Via Scarlatti, Sereni doveva aver pensato di lasciare in prima sede
Comunicazione interrotta, seguita da Il tempo provvisorio e La repubbli-
ca. Le tre poesie erano state composte in un primo tempo come altret-
tanti movimenti dello stesso testo;44 la loro successiva scissione sarà
parsa forse opportuna in relazione all’economia interna a Uno sguardo
di rimando, garantendo lo svolgimento di una sequenza di testi brevi in
reciproca e chiara connessione tra l’incipit e la chiave di volta, rappre-
sentata da Ancora sulla strada di Zenna. C’è poi da osservare che lo sta-
tus individuale di Comunicazione interrotta ne mette meglio in luce la
corrispondenza tematica (“telefonica” per la precisione) con la poesia
finale della raccolta, La spiaggia (che adempie, però, anche il finale di
La repubblica: «Ma nessuno | ne sa niente»).45 Certo, nell’indice prov-
visorio allegato al Piano, La spiaggia, uscita in rivista nel ’63, è assente;

44 TP, p. 486.
45 Come ha osservato Mengaldo, «da un certo punto di vista La spiaggia è ancor più legata
alla seconda poesia degli Strumenti, Comunicazione interrotta […]. La cosa è tanto più interessan-
te in quanto nella “forma” manoscritta degli Strumenti umani che precede immediatamente quel-
la della prima edizione (e molto le somiglia), Via Scarlatti, che a suo tempo chiudeva il Diario
d’Algeria, manca ancora, solo un foglietto separato avverte che vi andrà inserita (cfr. edizione Isel-
la)» (Mengaldo 2000b, pp. 251-52).
«Il luogo comune e il suo rovescio» 163

poco dopo però, in una redazione appena precedente all’uscita del vo-
lume, il testo finale è già presente e quello iniziale, mancando ancora
Via Scarlatti, è appunto Comunicazione interrotta.46

IV. «Via Scarlatti». Situazione e significati

Se ne può dedurre che Sereni, fino alla vigilia della pubblicazione,


avesse raggiunto una più salda determinazione sul finale che non sull’i-
nizio della raccolta (poco importa che tale determinazione risultasse in
parte disattesa dalle circostanze editoriali che tennero fuori I ricongiunti
dalla prima edizione, come ha chiarito lo stesso Giulio Einaudi). In par-
ticolare, l’aggiunta di Via Scarlatti pone in secondo piano la corrispon-
denza tra l’incipit provvisorio (Comunicazione interrotta) e la conclusio-
ne (La spiaggia), attenuando così la circolarità del libro – diciamo pure
la tendenza all’adempimento classicistico del macrotesto – introducen-
do ancora una forma di contrappunto. Via Scarlatti, che pure è eviden-
temente richiamata dalla poesia finale, entra infatti in relazione con que-
sta non tanto per una ripresa nel contenuto, quanto per l’anticipazione
quasi metapoetica dello stile enunciativo a cui tendono progressivamen-
te gli Strumenti e che culmina appunto con La spiaggia. Alla connessio-
ne puntuale, trasformativa o se si vuole narrativa, tra l’inizio e la fine,
Sereni sembra perciò preferire una premessa liminare, che da un lato
sottolinea il punto di partenza storico e delimita lo scenario che caratte-
rizza la raccolta, dall’altro indica le coordinate locutive del libro.
A rendere più complessa la funzione incipitaria di Via Scarlatti è
però proprio la sua provenienza da un altro libro. È uno degli esempi,
non frequentissimi nella casistica dei macrotesti, in cui la collocazione
modifica profondamente il senso di un singolo componimento. In pri-
mo luogo – ma è la considerazione più ovvia – nel Diario d’Algeria la
poesia configurava la conclusione di un itinerario, il nóstos del reduce;
negli Strumenti l’attesa espressa nel verso finale («E qui t’aspetto») vie-
ne decisamente proiettata verso un tempo che ancora deve compiersi.
In secondo luogo, il «colloquio» con il «te» poteva ancora ricadere, al-
l’interno del Diario, nella situazione topica, allocutiva, di un canzonie-
re. In quel libro, infatti, la progressione di senso legata all’evoluzione
della storia e delle circostanze di guerra e prigionia è intrecciata con

46 TP, pp. 476-77.


164 Niccolò Scaffai

una seconda trama, sottile e più sporadica ma pur sempre distinguibi-


le, che dipende dalla presenza di una figura interlocutrice. Se ne colgo-
no le tracce in La ragazza d’Atene (in cui viene appunto restaurata la
presenza di un “tu” femminile, di una deuteragonista la cui fenomeno-
logia ricorda quella delle ispiratrici montaliane: «è il tuo volto che
sprizza laggiù | dal cerchio del lume che accendi | all’icona serale», vv.
5-7) e in Frammenti di una sconfitta:
Ed ecco stranamente simultanee
le ragazze d’un tempo
tutte le mie ragazze tra loro per mano
in semicerchio incontro a me venire
non so se soccorrevoli od ostili. (vv. 6-10)

Nel contesto storico e militare affiora quindi tutt’altra vena temati-


ca; ne risulta una tensione verso gli aspetti compensatori e consolatori
(l’amore e la poesia) che hanno anche un ruolo positivo, quello cioè di
affermare e rendere riconoscibile lo statuto del Diario d’Algeria: non
solo documento di un’esperienza bellica da poco conclusa e del conte-
sto storico e geografico in cui si inseriva, ma anche monumento poeti-
co valido per fissare in una sede formalmente elaborata il «disagio re-
trospettivo» legato all’«informe» dell’esperienza bellica. Lo ha precisa-
to Sereni stesso, nella nota di commento a un’edizione del ’57 di Fram-
menti di una sconfitta e Diario bolognese:
Questi tardivi residui di un’esperienza ormai remota non solo nel tempo,
non è che li ritenga particolarmente degni di un’edizione numerata. È vero in
certo qual modo il contrario: un tentativo di dar corpo a un sottile disagio re-
trospettivo, quiete a certi spiriti vaganti e insoddisfatti, mi ha indotto a fissarli
in questa sede. Ci sono momenti della nostra esistenza che non danno pace fi-
no a quando restano informi e anche in questo, almeno in parte, è per me il si-
gnificato dello scrivere versi.47

L’allure diaristica della raccolta non rappresenterà quindi tanto l’a-


dempimento di un obbligo extratestuale (cioè il ripristino del filo stori-
co), quanto l’acquisizione a posteriori di una vicenda interna al sogget-
to lirico. In altre parole, l’assetto del diario serve solo in seconda istan-
za a registrare fedelmente il tempo esterno; in prima istanza, la sua fun-
zione è quella di dare una forma all’informe (per usare l’espressione di

47 Ivi, p. 427.
«Il luogo comune e il suo rovescio» 165

Sereni). In questo senso, ripercorrere con scrupolo la cronologia dei


fatti acquista una funzione per così dire esorcistica, quella cioè di ela-
borare ed accettare gli eventi vissuti dando loro un ordine il più possi-
bile oggettivo. È significativo che tale ordine sia quasi interamente affi-
dato al paratesto, cioè alle date e ai luoghi indicati in calce: in questo
modo viene reso anche visivamente percepibile lo scarto tra l’informe
(l’esperienza evocata nei testi) e la forma. Il paratesto, come inconfon-
dibile segnale di testualità, trasmette un’idea di ordine tutta concentra-
ta nel libro e nella sua costruzione formale e stilistica.48 Al di fuori di
quest’ordine, si estende una realtà indefinibile, controllabile solo nel ri-
cordo e attraverso la scrittura, baluardo di una civiltà letteraria di cui
ancora Sereni è pienamente partecipe.49
Ora, il sistema tematico e direi morale degli Strumenti umani, entro
cui Via Scarlatti viene calata, non prevede vie di compensazione conso-
latoria né nella forma, né nella tradizione. In questa chiave deve essere
letta anche la quasi totale rinuncia all’istituto dell’interlocutrice, che
era invece attivo nelle due precedenti raccolte e che ancora in Montale
poteva farsi mediatore delle attese ontologiche dell’io.50 Gli unici passi,
negli Strumenti umani, in cui una presenza femminile è grammatical-
mente accertabile sono in Viaggio di andata e ritorno (vv. 1-3: «Andrò a
ritroso della nostra corsa | di poco fa | che tanto bella mai ti sorprese la
luna», a meno che «bella» non sia predicativo di «luna»), L’equivoco
(vv. 3-4: «Ma che mai voleva col suo sguardo | la bionda e luttuosa pas-
seggera?»), Finestra (v. 4: «Ti guardo offerta a quel verde»). Per il re-
sto, si tratta di personificazioni allegoriche (dell’amicizia, dell’amore,

48 Sulla funzione del codice stilistico nel primo Sereni si leggano le considerazioni di Mazzo-
ni 2002, p. 142: «È inoltre significativo il fatto che un diario di guerra in versi, composto negli an-
ni in cui cominciavano ad emergere i temi e le forme del neorealismo, sia scritto in quel codice.
La traccia di nobiltà conservata dallo stile si contrappone agli esiti che sarebbero stati possibili in
tale situazione storica, come l’approdo a esiti espressionistici, o a una poesia in cui il decoro for-
male è sopraffatto dalle esigenze della confessione immediata o della comunicazione politica. Il
confronto rivela allora che la misura classica, oltre ad essere la difesa di una compostezza stoica
contro il grido immediato o l’abbandono sentimentale, implica anche la separazione dei valori
dall’azione concreta, la scissione fra la salvezza dell’anima e la lotta terrena».
49 Cfr. Scaffai 2005, pp. 77-82.
50 Lo ha chiarito Gilberto Lonardi, nell’Introduzione a GA, p. 18: «il “pensiero della colpa”

e l’assenza di una vera Mediatrice fanno tutt’uno in Sereni, che pure è così attento, da quasi subi-
to, a Montale. Se la Donna è misteriosamente partecipe della potenza, della pienezza, dell’Essere,
rinunciarvi come a tramite cardinale significherà che non si vuole, non si può giovarsi dell’ambi-
guità stessa della finzione poetica per un compenso più o meno dichiaratamente trascendentale,
per un alibi ontologico, una maschera della debolezza e incompletezza dell’io».
166 Niccolò Scaffai

della gioia) o quasi di prosopopee (come in La sonnambula); del resto,


anche dove potrebbe aspirare a diventarlo, raramente la donna è desti-
nataria diretta di un soliloquio lirico e mai vera interlocutrice, men che
meno figura salvifica: la «forma d’angelo», chiarisce Sereni in Appunta-
mento a ora insolita, appartiene ad «altri tempi».
L’emancipazione dal “tu” femminile limita anche la possibilità di
“messa in racconto” del libro, di una configurazione narrativa51 che
orienti il tempo in una vicenda con un inizio, uno sviluppo e una con-
clusione. La ricusazione di una «privilegiata memoria» in Dall’Olanda
(«Disse più tardi il mio compagno: quella | di Anna Frank non dev’es-
sere, non è | privilegiata memoria») è anche frutto della perplessità di
Sereni nei confronti di una soluzione e di un appiattimento della storia
di tutti nel romanzo di uno, due o comunque pochi personaggi indivi-
duati. La tematica amorosa, tradizionalmente esposta a uno sviluppo
narrativo, non perde fascino e valore – Sereni lo ha scritto nella prosa
Per un poeta d’amore (1961), composta in origine come nota introdutti-
va al libro di versi di Renzo Modesti intitolato Romanzo – ma richiede
una moderna problematizzazione:
Mi ha interessato l’ininterrotto, ostinato discorso d’amore che si svolge in
questo libro: o meglio, questo valersi della poesia per fissare un ininterrotto,
ostinato, irriducibile discorso d’amore. Il caso evidentemente non è nuovo nei
secoli, ma è anche vero che di solito, oggi, su una poesia che si qualifichi, nel
senso più semplice e letterale, come poesia d’amore, pesa tutto il logorio del
«genere», dell’apprendistato adolescenziale con cui di solito coincide; e, più
genericamente, del suo identificarsi con la fase irrimediabilmente minorile,
per definizione non all’altezza della situazione (Fortini), dell’intelligenza poeti-
ca. […]
Certo: si dovrebbe insistere, anche per dissentirne, sulla natura ossessiva,
di alienazione «a due», dell’operazione qui considerata. Che non vive, non
può vivere, nella dimensione della storia; ma piuttosto vi si brucia al primo
contatto, tanto da far sospettare che sia questo almeno un aspetto della poesia
nel rapporto con tale dimensione; ma che questo suo bruciarsi non sia una ra-
gione sufficiente a negarla.52

Non si può fare a meno di osservare come, a definire il discorso d’a-

51 Per il concetto di «configurazione», rimando a Ricoeur 1986. Per Ricoeur la configurazio-

ne (o mimesis II) consiste nel trasferimento di elementi della realtà nella finzione o, più precisa-
mente, nella dimensione del testo entro cui si realizza la costruzione di una trama con uno svilup-
po temporale (p. 80).
52 Tentazione, pp. 62-63.
«Il luogo comune e il suo rovescio» 167

more, Sereni adotti l’attributo inverso a quello della Comunicazione ne-


gli Strumenti umani, quasi a ribadire l’uscita dall’«apprendistato adole-
scenziale» durato fin lì. Anche rispetto alla struttura amorosa e narrati-
va della poesia, il punto di riferimento è inevitabilmente Montale e
«quel fatale, contagiante tu» delle sue «vecchie poesie». In un noto,
importante scritto dell’83, Dovuto a Montale, Sereni inserisce nel di-
scorso sul poeta delle Occasioni la memoria di un incontro fugace con
una “baudelairiana” passante:
Ero sul portone della casa dove un tempo avevo abitato. C’era attorno l’a-
ria di disfacimento del mercato che smobilita tra il rimbombo delle bancarelle
rimosse e un sentore di paglia, pollame, latticini, polvere e festuche nel vento.
Passò lenta una ragazza in bicicletta. Fece una pigra giravolta e mi ripassò da-
vanti, gettò un’occhiata dalla mia parte. Il fermacapelli che aveva in capo, un
nastro o altro di simile, mi fece pensare a una ghirlanda – o così mi pare di
aver pensato allora. A mia volta la guardai chiedendomi se per caso qualcuno
di comune conoscenza al corrente del mio arrivo le avesse parlato di me.
Quello sguardo reciproco era il guizzo con cui si saluta una novità?
Ripensandoci qualche ora più tardi m’immaginai che la ragazza avesse sor-
riso e che avessi sorriso a mia volta. Ma senza malizia o lusinga di qualunque
genere da entrambe le parti, non quello che si potrebbe supporre. Piuttosto
uno sguardo d’intesa. A che cosa? A un tutto o a un nonnulla che stava oltre
le rispettive persone?53

Lo sguardo reciproco (letteralmente «uno sguardo di rimando»: che


vi sia anche questa tensione repressa verso il romanzo, o la coscienza
della sua impossibilità, all’origine del titolo?) configura la possibilità di
una vicenda; ma a renderla pensabile, a dare al poeta gli strumenti per-
cettivi prima ancora che retorici per esprimerla, è l’insegnamento di
Montale: «Dai versi di Montale» osserva più avanti Sereni «vedevo tra-
pelare il possibile o supposto “romanzo”».54 Se torniamo a L’equivoco
e ne leggiamo il testo in controluce con il brano appena citato, ci ac-
corgiamo meglio che quella poesia ha al centro proprio l’inattingibilità
di un’ispiratrice, l’illusorietà del discorso amoroso:
Ma che mai voleva col suo sguardo
la bionda e luttuosa passeggera?
C’era tra noi il mio sguardo di rimando
e, appena sensibile, una voce:

53 Ivi, pp. 146-47.


54 Ivi, p. 149.
168 Niccolò Scaffai

amore – cantava – e risorta bellezza…


Così, divagando, la voce asseriva
e si smarriva su quelle
amare e dolci allèe di primavera.
Fu il lento barlume che a volte
vedemmo lambire il confine dei visi
e, nato appena, in povertà sfiorire. (vv. 3-13)

Quali sono allora significato e funzione del «te» di Via Scarlatti? Da


un lato, ripresa del “tu” che Sereni poteva interpretare come un diretto
riferimento a Montale (e alla tradizione lirica: «il tu | falsovero dei poe-
ti», così detto in Niccolò, nel quarto libro sereniano). Riferimento che si
intreccia con altri motivi tipicamente montaliani, quali l’attesa; peraltro,
le Conclusioni provvisorie della Bufera si chiudevano proprio con quel
tema – «L’attesa è lunga, | il mio sogno di te non è finito»: ma in questo
caso, sarebbe Sereni ad anticipare Montale (Via Scarlatti risale al 1946),
ricevendone forse, a posteriori, un’ideale autorizzazione per dare alla
propria «attesa» un rilievo particolare all’interno del libro. Montaliane
sembrano anche le due «occasioni» (lo «scatto di tacchi adolescenti» e
«l’improvviso sgolarsi d’un duetto»), magari qui in Sereni più umana-
mente concrete, quasi fisicamente sensibili. Del resto, è un dato stilisti-
co la somiglianza tra il finale di Via Scarlatti – un verso isolato, formato
da una sola frase perentoria, che inizia con una congiunzione assoluta –
e un analogo stilema dei Mottetti: I, «E l’inferno è certo»; XIX, «E il
tempo passa»; ma si vedano anche II, «E per te scendere in un gorgo |
di fedeltà, immortale» e III, «E durarono a lungo i notturni giuochi | di
Bengala: come in una festa»; o ancora, fuori dalla serie, il finale di Verso
Vienna e Verso Capua e, memorabili, le conclusioni di A Liuba che parte:
«e basta al tuo riscatto», Dora Markus I: «e così esisti!», La casa dei do-
ganieri: «Ed io non so chi va e chi resta».
Certo, rispetto alla poetica dell’occasione, manca in Sereni il valore
del fenomeno come risorsa conoscitiva del soggetto, né potrebbe esse-
re altrimenti, visto il legame prevalentemente euforico (almeno nelle
Occasioni; in parte diverso è il discorso per Finisterre)55 tra le epifanie
montaliane e la figura femminile, a cui Sereni rinuncia. Potremmo dire,
perciò, che la presenza retorica di Montale serve per negarne la pro-
spettiva gnoseologica, dischiudendo la possibilità e insieme la necessità
di una diversa visione supportata da altre risorse tematiche e formali. È

55 Cfr. Scaffai 2008.


«Il luogo comune e il suo rovescio» 169

da qui che trae ragione l’altra fondamentale funzione del «te» in Via
Scarlatti: dare avvio a una progressione enunciativa (alternativa alla
progressione di senso, che sarebbe invece, per così dire, narrativa), co-
minciando dalla «frattura dell’identità».56

V. La voce: struttura polifonica e enunciazione disturbata

Proprio le modalità enunciative negli Strumenti umani sono state tra


gli oggetti dell’analisi macrotestuale condotta a suo tempo da Enrico
Testa, che ha giustamente notato uno «spettro di occorrenze assai am-
pio», radunate da «un’isotopia di personae», in rapporto ora «antago-
nistico» ora «affettivo» con l’io.57 Sottolineerei qui, però, il grado cre-
scente di complessità che la modulazione della voce conosce tra la pri-
ma e le successive sezioni, come in uno sciame di provvisori «assesta-
menti».58 In una prima fase del libro, il «tu» vale in prevalenza da in-
terlocutore generico, corrispondente di una forma impersonale o passi-
vante (come in Comunicazione interrotta: «Lascialo dunque per sempre
tacere»), oppure rappresenta una variante enfatica dell’“io” nelle allo-
cuzioni a sé stesso (Il tempo provvisorio: «E tu, quanti anni per capir-
lo»; Un incubo: «Ma non è che si burlino di te»). Un hapax è l’allocu-
zione pseudo-liturgica di Viaggio all’alba («Ma dimmi una sola parola |
e serena sarà l’anima mia»). Di Viaggio di andata e ritorno e delle altre
rare poesie in cui il “tu” coincide con una figura deuteragonistica, si è
detto; ugualmente, si è accennato ai “tu” allegorici, personificazioni ad
alto tasso di eloquenza lirica che fanno parte di quel decoro post-erme-
tico a cui Sereni non rinuncia mai del tutto, almeno non in Uno sguar-
do di rimando (si vedano Gli squali: «Le nostre estati, lo vedi | memoria

56 «Il “colloquio” presuppone l’ipotesi dell’alterità, il “tu falso-vero” dei poeti che Sereni
stesso riconobbe nei versi di Montale, ma anche la frattura dell’identità in cui egli trovò l’unica
certezza del proprio esistere, e la possibilità di un dialogo attraverso il quale portare alla luce un
vissuto esperienziale fatto di stratificazioni del presente sul passato» (D’Alessandro 2001, p. 93).
57 Testa 1983, p. 75. Per l’analisi della “voce” nella quarta raccolta sereniana, si veda Testa

1999. In Stella variabile, Testa segue gli sviluppi che le modalità di enunciazione messe a punto
negli Strumenti umani hanno avuto in relazione ai «valori semantici connessi alla potenzialità e al-
l’atto della significazione e alla tensione al voler-dire e all’esprimere» (p. 63).
58 Frasca 1992, p. 20: «nelle quattro raccolte che [Sereni] ci ha consegnato […] si assiste ad

un costante ridisegnare il luogo della voce (inteso come luogo delle scelte formali dello scrivente),
come se avessimo a che fare con autentiche scosse di assestamento, mai definitive, mai pacificatri-
ci».
170 Niccolò Scaffai

che ancora hai desideri» e Anni dopo: «Dunque ti prego non voltarti
amore | e tu resta e difendici amicizia»).
Si tratta, fin qui, di conati allocutivi che non vanno oltre le forme
comuni della sermocinatio lirica. Casi più complessi riguardano lo
sdoppiamento del locutore, che alterca con un destinatario fittizio in
una sorta di dialogo interiore; il fenomeno è quasi il correlativo retori-
co di una figura tematica cara a Sereni, quella dell’“io” che si guarda,
che sogna di parlare attraverso altre voci (si vedano ad esempio Le sei
del mattino e, ancor più, un brano degli Immediati dintorni intitolato I
ricongiunti).59 La modalità è caratteristica della seconda metà della rac-
colta, a partire da Gli amici, nella sezione Appuntamento a ora insolita:
«Nell’anno ’51 li ricordi | la Giuliana e il Giancarlo | […] | Che tempi –
mormori – sempre più confusi». Ma le prime tracce di una svolta tema-
tica e stilistica all’interno del libro60 si notano già in Una visita in fab-
brica: dall’allocuzione di marca lirica («O voce ora abolita, già divisa, o
anima bilingue»), si passa, nel secondo movimento del poemetto, allo
sdoppiamento dell’“io” in un “tu” ancora generico e indistinto («che
sai di loro | che ne sappiamo tu e io»), favorito dalla sollecitazione delle
precedenti interrogative («Che cos’è | un ciclo di lavorazione? Un cot-
timo | cos’è?»). Finalmente, nel quarto movimento, interviene la voce
dell’operaio, distinta da quella dell’“io” («“Non ce l’ho – dice – coi pa-
droni. Loro almeno | sanno quello che vogliono. Non è questo, | non è
più questo il punto”»); al personaggio sorge allato – in una replica del-
la situazione dantesca Farinata-Cavalcante – un’altra figura che non
proferisce parole proprie ma cita Leopardi («E di me si spendea la mi-
glior parte»); l’effetto ironico è provocato dal successivo controcanto
del “coro”: «tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati». A
complicare la tipologia locutiva, ha accesso quindi anche un discorso
di secondo grado, sottolineato graficamente dal corsivo (espediente cui
Sereni fa ricorso, per inserti di discorso riportato, già in Uno sguardo di
rimando, in L’equivoco, v. 7: «amore – cantava – e risorta bellezza…»),
59 «Ero appena tornato da un viaggio breve e già mi diceva di un suo sogno. Era stato un

conciliabolo tra morti e vivi che si congratulavano a vicenda di essere lì riuniti inopinatamente e
oltre ogni loro speranza. Aveva nel raccontarlo la voce contraffatta con cui appunto si evoca, e
quasi si emula, la voce dei parlanti nel sogno – e più se in questo intervengono persone defunte»
(Tentazione, p. 91). Per il tema sereniano del dialogo con i morti, cfr. Policastro 2003, pp. 75-83.
60 «Il primo momento di svolta è Una visita in fabbrica. Più che per le nuove tecniche speri-

mentate da Sereni, il poemetto è importante perché mette in scena il contrasto fra l’io lirico e la
“voce d’altri, operaia”, il “grande moto” della fabbrica cui il poeta è estraneo» (Mazzoni 2002,
p. 161).
«Il luogo comune e il suo rovescio» 171

in cui si misura la polifonica distanza tra enunciatore e locutore.61


Nel quinto movimento, la voce del soggetto si stacca dalla condizio-
ne monologica dell’“io” lirico, per accennare a un dialogo telefonico;
ma, come in Comunicazione interrotta, il messaggio non viene adem-
piuto da alcuna risposta e alla voce del locutore (« – Chiamo da fuori
porta. | Dimmi subito che mi pensi e ami | Ti richiamo sul tardi –.») re-
plica solo la «beffarda e febbrile» sirena. Va da sé che alla conversazio-
ne mancata corrisponde anche una mancata relazione esistenziale tra
“io” e “tu”: in altre parole, l’irrealizzabilità del discorso amoroso. In
Appuntamento a ora insolita, chi risponde all’“io” è l’“io” stesso, per
l’interposta persona di una sua materializzazione psichica:
La città – mi dico – dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino…
«…asciuga il temporale di stanotte» – ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco. (vv. 1-6)

Alla tipologia vanno aggiunte altre categorie funzionali, tra le quali


almeno: la vociferazione o discorso corale62 (La poesia è una passione?:
«Lo si aspettava all’ultimo chilometro: “se vedremo spuntare | laggiù
una certa maglia…”», vv. 26-28); il discorso riportato, in Sereni spesso
presente nella specie tematico-funzionale del discorso ricordato, quin-
di lontano, filtrato nel tempo e pragmaticamente debole (Quei bambini
che giocano: «D’amore non esistono peccati, | s’infuriava un poeta ai tar-
di anni, | esistono soltanto peccati contro l’amore», vv. 13-15, dove il
corsivo, più che sottolineare la citazione, esprime la cristallizzazione
della frase, come in Il male d’Africa: «give me bonbon good American
please»); la dizione interiore e rimuginante (Il muro: «Certo chi muo-
re…», v. 7) e quella spersonalizzata nello stereotipo (La poesia è una
passione?: «“Caro – gli dice all’orecchio – amore mio”», v. 46).63

61 Cfr. Ducrot 1984 (in particolare il capitolo VII: Esquisse d’une théorie polyphonique de

l’énonciation, pp. 171-233).


62 Il discorso attribuibile «non a un unico parlante ma “collegialmente” a un gruppo di par-

lanti» è un esempio di «infedeltà» o di «stilizzazione» da parte del «reporter», che allude mimeti-
camente al contesto reale della comunicazione, senza riprodurre però il discorso originario, un di-
scorso primo la cui esistenza non è peraltro postulabile (cfr. Calaresu 2004, pp. 53 ss.). Si tratta
cioè di un espediente stilistico e, come tale, retoricamente e tematicamente orientato.
63 Per l’analisi della tipologia discorsiva e, in particolare, per il discorso riportato cfr. Ducrot

1984, Mortara Garavelli 1985, Mizzau 1994, Calaresu 2004.


172 Niccolò Scaffai

La molteplicità dei centri deittici e la varia casistica degli atti illocu-


tivi contribuiscono a rendere la poesia sereniana polifonica sul piano
della struttura linguistico-sintattica; non sempre, però, la polifonia è
apprezzabile sul piano metareferenziale o metalinguistico.64 La strate-
gia retorica, che più incide sul senso complessivo degli Strumenti uma-
ni, si basa appunto su questa collisione.65 In base alla definizione di
Ducrot, si ha «pluralità di voci» quando la responsabilità degli atti illo-
cutivi ricade su un enunciatore (chi ha in carico un’asserzione) chiara-
mente distinguibile dal locutore.66 Ora, fatti salvi casi sporadici come
la citazione leopardiana in Una visita in fabbrica, negli Strumenti umani
il confine tra locutore e enunciatore può essere molto labile, più di
quanto non spieghi la pura appartenenza alla dimensione fittiva carat-
teristica dei discorsi letterari.67 Forse può valere anche per la poesia
quanto Cesare Segre scriveva a proposito della narrativa: «L’orchestra»
che l’autore dirige «è composta di una sola voce infinite volte rifratta:
la sua».68
In Sereni, ciò si nota soprattutto nella prima sezione degli Strumenti:
in Finestra, ad esempio, la responsabilità dell’atto illocutivo può essere
attribuita sì all’interlocutrice, ma, in modo quasi ugualmente plausibi-
le, anche al locutore che si rivolge a sé stesso usando la seconda perso-
na: «Di colpo – osservi – è venuta, | è venuta di colpo la primavera».
Altrove, l’avvicinamento al discorso diretto libero attraverso la sottra-
zione dei segnali grafici, si unisce alla tenuità ontologica del referente-
enunciatore, provocando la ricaduta nella dizione interiore più tipica-
mente lirica. Il processo si nota, ad esempio, in Intervista a un suicida,
dove la voce di un interlocutore – l’anima materializzata in una «siepe
di fuoco | crepitante» – è labilmente individuata dall’uso del corsivo

64 Uso l’aggettivo ‘metalinguistico’ nel senso in cui viene adottato dai traduttori delle opere

di Bachtin 1968, 1979, come spiega Mortara Garavelli 1985, pp. 92-93: «L’ipotesi, o chiave, po-
lifonica serve a qualcosa di meglio che a separare caselle e ad assegnare etichette: serve a indivi-
duare e a spiegare le ragioni della pluridiscorsività – e della pluralità di voci – nelle riproduzioni
(dirette e indirette) di enunciazioni altrui. Essa va oltre le solite sezionature del discorso e degli
stili. Nel cercare come è fatto un discorso siamo condotti, per via bachtiniana, a trovare l’orienta-
mento delle singole enunciazioni rispetto alle voci che popolano i discorsi. In questo preciso senso
la tipologia di Bachtin è “metalinguistica”».
65 Per una recente discussione teorica sul concetto bachtiniano di ‘polifonia’ versus ‘multifo-

nia’ nei testi letterari, si veda Bottiroli 2006, pp. 294-308.


66 Cfr. Ducrot 1980a e 1980b, Mortara Garavelli 1985, pp. 56-57.
67 Cfr. Calaresu 2004, pp. 50 ss.
68 Segre 1991, p. 5.
«Il luogo comune e il suo rovescio» 173

(che in Sereni non è una marca esclusiva del discorso diretto e può per
questo generare ambiguità di attribuzione):
Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma,
non la storia di un uomo:
simulacri,
e nemmeno, figure della vita.
La porta
carraia, e là di colpo nasce la cosa atroce,
la carretta degli arsi da lanciafiamme…
rinvenni, pare, anni dopo nel grigiore di qui
tra cassette di gerani, polvere o fango
dove tutto sbiadiva, anche
– potrei giurarlo, sorrideva nel fuoco –
anche… e parlando ornato:
«mia donna venne a me di Val di Pado»
[…].

La citazione dantesca, delimitata come tale dalle virgolette, limita pe-


raltro l’efficacia mimetica del discorso, riconducendolo a una tipicità
letteraria interna alla memoria culturale dell’“io” e dello stesso Sereni
empirico; un fenomeno simile riguardava anche l’inserto leopardiano in
Una visita in fabbrica, riscattato però nella sua incisività polifonica dalla
collisione ironica con il contesto e con la voce del coro degli «altri». Del
resto, sono rari i casi in cui le battute attribuibili a personaggi diversi
dall’io recano tratti mimetici, almeno a livello lessicale; in Una visita in
fabbrica, il discorso iniziato dall’operaio («”Non ce l’ho – dice coi pa-
droni. Loro almeno | sanno quello che vogliono. Non è questo, | non è
più questo il punto”») riprende su un livello implausibile rispetto alla
situazione di quell’enunciatore: «…la sacca era chiusa per sempre | e
nessun moto di staffette, solo un coro | di rondini a distesa sulla scelta
tra cattura | e morte…». La tecnica – che per inciso distingue il dialogi-
smo di Sereni da quello di altri poeti del secondo Novecento, special-
mente di dialettali come Baldini, nonché dalla linea neorealista – per-
mette al locutore, all’io lirico insomma, di riattaccarsi al filo delle parole
altrui, dissimulando la risposta in commento e ridando così alla poesia
un’impostazione monodica. Lo si vede bene nel “lascia e prendi” che
allaccia, ancora, il quarto al quinto movimento di Una visita in fabbrica:
174 Niccolò Scaffai

IV.
[…]
Salta su
il più buono e il più inerme, cita:
E di me si spendea la miglior parte
tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati.

V.
La parte migliore? Non esiste. O è un senso
di sé sempre in regresso sul lavoro
o spento in esso, lieto dell’altrui pane
che solo a mente sveglia sa d’amaro.

Anche nei casi in cui la distinzione appare sintatticamente e grafica-


mente più marcata, gli enunciatori restano spesso anonimi (Nel sonno,
II, vv. 9-10: « – Ecco i soli sconfitti, i veri vinti… – | anonima ammoni-
sce una voce»), indistintamente collettivi, di incerta e metafisica consi-
stenza (è il caso di Intervista a un suicida, citata poco sopra), recuperati
dal passato o elaborati come proiezioni dell’“io”: «concetti virtuali»,
che non evocano necessariamente una rappresentazione definita.69 L’ar-
tificio – quando pure si giovi dell’adozione di tratti del parlato70 – non
basta cioè a raggiungere la condivisione della parola, che è obiettivo sto-
rico e morale sia per il Sereni poeta e intellettuale, sia per il Sereni redu-
ce e “politico”. A ben guardare, infatti, è raro che la successione degli
atti illocutivi generi, sul piano delle circostanze dell’enunciazione,71 un
dialogo: le voci che parlano raramente ottengono una risposta, a meno
che le battute non siano quelle di un dramma interiore al soggetto o
non vengano pronunciate in sogno (come accade, appunto, nella prima
tra le Apparizioni). I discorsi diretti restano, cioè, molto spesso irrelati
(emblematico, nel sesto tempo di Nel sonno, lo scambio di persona che
fa cadere nel vuoto le parole galanti dell’uomo alla ragazza) e anche
quando effettivamente si realizza, il dialogo risente di una condizione
abnorme, come quella che costringe il mittente e il destinatario di Il ma-
le d’Africa a gridare l’uno contro l’altro nel tentativo di capirsi:

69 Per i «concepts virtuels» cui si riferiscono i segni lessicali, cfr. Bally 1944, pp. 77-83.
70 Cfr. Girardi 1987 e Tomasin 2005.
71 Cfr. Ducrot 1973, p. 144: «Les linguistes (et, plus encore, les non-linguistes) savent que la

valeur globale d’un acte d’énonciation dépend, dans une large mesure, des circostances de l’énon-
ciation, et ne saurait être déduite de la seul description (lexicale et syntaxique) de la phrase
énoncée».
«Il luogo comune e il suo rovescio» 175

Siamo noi, vuoi capirlo, la nuova


gioventù – quasi mi gridi in faccia – in credito
sull’anagrafe di almeno dieci anni…
Portami tu notizie d’Algeria
– quasi grido a mia volta – di quanto
passò di noi fuori dal reticolato,
dimmi che non furono soltanto
fantasmi espressi dall’afa (vv. 85-92)

La stessa enunciazione disturbata si riscontra in A un compagno


d’infanzia («noi due nel vento urlandoci confidenze futili | e crederle
riepiloghi, drammatiche | verità sulla vita») e in Pantomima terrestre
(«Parli – gli grido dietro – | come un credente di non importa che fe-
de»). La dialogicità, la teatralità72 degli Strumenti umani è almeno in
parte un luogo comune, fondato su classificazioni sintattiche e assimi-
lazioni ad altri autori contemporanei che gli aspetti funzionali e l’«at-
teggiamento»73 del locutore nei confronti del messaggio spesso smenti-
scono. Appare per certi versi paradossale anche l’idea che Gli strumen-
ti umani sia, nel progetto complessivo e non solo nei suoi elementi di-
screti, un libro narrativo, quando esprime piuttosto l’impossibilità di
narrare:74 questo, certo, dipende dalla sfasatura tra piano retorico e
piano tematico, ma è comunque oggettivo che l’accumulo di voci pro-

72 Come ricorda Testa 1983, p. 108, la forma “teatrale” di molte poesie negli Strumenti uma-
ni era stata notata da Fortini 1966. Testa, accreditando l’idea fortiniana, parla in effetti della strut-
tura drammatica che presiede alle varie occorrenze della “voce” negli Strumenti (confrontandola
con quella di altri libri più o meno coevi). Ora, non vi è dubbio che l’incrocio formale di generi
diversi sia stata una delle risorse più importanti per i poeti che, nel secondo Novecento, sono riu-
sciti a liberarsi delle costrizioni ermetiche facendo i conti anche con i grandi maestri delle prece-
denti generazioni. Tuttavia, credo che negli Strumenti – come ho cercato di argomentare – la qua-
lità che l’enunciazione ha rispetto alla visione poetica e persino storica di Sereni non sia di tipo
teatrale, mancando appunto una vera correlazione drammatica tra i personaggi (semmai, se vo-
gliamo parlare di dramma, dovremo accostare le voci sereniane a certi specifici esiti del teatro
contemporaneo: penso, per esempio, a Beckett o a Ionesco).
73 La dimensione dell’«atteggiamento» rientra tra le «opzioni funzionali» studiate da Thom-

pson 1996. Ma sull’atteggiamento come primum rispetto alla scelta delle forme grammaticali, in
riferimento ai testi letterari e specificamente narrativi, cfr. Genette 1976, pp. 292 ss.
74 Mi sembra, per questo, che ancora regga quanto scrisse Montale recensendo il libro sere-

niano sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre 1965: «Il suo non è un canzoniere né un racconto
verseggiato, ma una serie di soliloqui o di appelli o di constatazioni che hanno un tema unico: la
prigionia dell’uomo d’oggi e gli spiragli che si aprono in questa prigione» (Montale 1965, p.
2750). Di «racconto poetico» parlò Guido Piovene nel 1966, in una recensione agli Strumenti
umani citata da Barile 2004, p. 47.
176 Niccolò Scaffai

vochi un effetto mimetico, non diegetico.


È vero che sul piano storico-letterario non si può minimizzare la di-
stanza tra la struttura polifonica del Sereni maturo e l’assetto monodi-
co del primo Sereni, quello ermetizzante. Né si può negare che il «si-
stema di relazioni che coinvolge il paesaggio, le cose, gli altri esseri
umani»75 abbia preservato la poesia di Sereni dall’egocentrismo che
stava alla base delle trasgressioni neoavanguardistiche.76 Tuttavia la
narratività discreta, apprezzabile nelle singole unità, non dà adito a un
racconto che si svolga nel complesso del libro. Anche in base a questa
caratteristica formale può essere misurata la distanza culturale tra Sere-
ni e i grandi modernisti: in Italia, Saba Montale Ungaretti. Il soggetto
non può infatti aspirare al dominio o alla manipolazione del tempo, at-
traverso la costruzione chiusa di una forma-canzoniere o di un’auto-
biogafia in versi. In tal senso, Sereni patisce la condizione postmoderna
di disancoramento del soggetto dal tempo,77 pur rimanendo preso nel
gorgo della modernità che si avvolge intorno all’evento-spartiacque
della guerra. Per questo, forse, Gli strumenti umani è un libro – come
scrisse l’autore a Bollati – maturato «troppo tardi». Il controtempo
epocale consente però a Sereni di tendere al superamento della lirica
senza procedere alla rivoluzione di sistemi formali e di immagini con-
solidate. Se ciò lo preserva dagli esperimenti poematici spesso velleitari
o provvisori di autori coetanei o più giovani, lo allontana anche dalla
seconda maniera di Montale, di cui pure condivide il presupposto, cioè
la sfiducia in un orientamento progressivo della Storia. Per certi versi,
Gli strumenti umani è il libro che Montale avrebbe potuto scrivere do-
po La bufera e altro, se non avesse deciso di “rovesciare il guanto”. Del
resto, l’attinenza degli Strumenti ai temi che la cultura europea del se-

75 Neri 2000, p. 32.


76 Vale la pena citare un passo della recensione di Zanzotto all’antologia dei Novissimi (ricor-
data da Neri 2000, p. 17, da cui si riprende il brano): «Balestrini, Porta, Giuliani – si protestano
più o meno sazi dell’“io” e delle sue poetiche, ma finiscono a un discorso in cui realtà interna ed
esteriore, solipsismo e depersonalizzazione, si confondono in una specie di surrealismo rovesciato
non inedito, anche se con un marcato segno del meno davanti». La recensione, datata maggio
1962, è ora inclusa in Zanzotto 1994, p. 25.
77 Jameson 2007, p. 42: «La crisi della storicità impone […] un ritorno […] alla questione

dell’organizzazione temporale in genere nel campo di forze del postmoderno […]. Se infatti il
soggetto ha perso la propria capacità di estendere attivamente le sue protensioni e ritenzioni sulla
molteplicità temporale e di organizzare il suo passato e il suo futuro in un’esperienza coerente, di-
venta abbastanza difficile vedere in che modo i prodotti culturali di un soggetto simile possano ri-
solversi in qualcosa di diverso da un “mucchio di frammenti”».
«Il luogo comune e il suo rovescio» 177

condo Novecento continua a coltivare, l’insistenza sui nodi etici neces-


sari (guerra e Olocausto, trasformazione e conservazione, memoria sto-
ria e oblio)78 e la ricerca di soluzioni espressive adeguate a rappresen-
tarli possono incidere nella formulazione di un giudizio di valore che
collochi il libro di Sereni al di sopra di Satura e di gran parte della poe-
sia italiana degli ultimi decenni.
La condivisione della parola rimane un obiettivo, il fine di una tensio-
ne;79 nella Spiaggia si delinea appunto questo fine, che adempie «il tra-
gitto stesso del libro»,80 senza però chiuderlo: i morti non parlano, ma
eventualmente «parleranno». In assoluto, poi, non conta tanto il fatto
che essi dicano (o abbiano già detto) qualcosa, cioè che la responsabilità
dell’enunciazione sia stata saltuariamente delegata a personaggi onirici o
a presenze oltremondane; conta piuttosto l’attesa, o magari l’illusione,81
che i morti – in specie quei morti, i sommersi dalla storia82 – possano un
giorno avere un «colloquio» (Via Scarlatti) con il protagonista o con chi
verrà dopo. Perché i morti, per Sereni, non sono andati «sprecati» in un
passato che precede il presente, e da questo è superato, com’è nella per-
cezione cronologicamente lineare e narrativa del tempo («di giorno in
giorno»), ma sono qui e ora, «pronti a farsi movimento e luce».

VI. Sereni-Fortini: Postilla su «Un posto di vacanza»


L’utopia del dialogo e della condivisione, che può essere ravvisata

78 Penso, ad esempio, a Assmann 2002 e Ricoeur 2003, 2004; per l’Italia, a Mengaldo 2006 e

Bidussa 2009.
79 Per questo, non sottoscrivo la chiosa di Lenzini al finale della Spiaggia: «Non si tratta di

una chiusa volitiva o fiduciosa: i morti, intesi come zone di resistenza alla comunicazione, parti ri-
mosse dell’io e in esso della storia, a questo punto della raccolta hanno già parlato.» (GA, p. 249).
80 «Il tragitto dal presente-astanza di Via Scarlatti […] ai morti che parleranno nella chiusa,

La spiaggia, è un po’ il tragitto stesso del libro. E l’apertura, nichilistica o utopica, al futuro, non è
possibile senza la concezione del nesso passato-presente non solo come continuità nutriente ma, e
ancor più, come ripetizione senza mutamento» (Mengaldo 2000a, p. 234).
81 «In queste condizioni contestuali ritenere che La spiaggia rovesci le forme di annichilimen-

to […], e che il futuro parlare dei morti conterrà la voce del vivo e dei vivi, è probabilmente az-
zardato. [...] Meglio pensare che l’utopia – perché di una potente utopia si tratta (i morti, almeno
questo è evidente, vengono a coincidere con i futuri) – prenda un’altra direzione» (Mengaldo
2000b, p. 250).
82 Secondo l’interpretazione forte che Mengaldo attribuisce all’espressione «calce o cenere»

nella Spiaggia (v. 11), «l’allusione sarebbe […] alle vittime, in particolare agli ebrei, dei massacri
nazisti: incenerimento nei forni e separazione con strati di calce delle file di assassinati gettati in
fosse comuni» (ivi, p. 246).
178 Niccolò Scaffai

nei percorsi tematici e stilistici degli Strumenti umani, ha una chance di


attuazione polemica nella quarta e ultima raccolta di Sereni, in partico-
lare nel poemetto Un posto di vacanza. Lì la figura dell’interlocutore è
modellata su quella empirica di Fortini. Tra le prime tracce del dialogo
a distanza, quasi un botta e risposta tra i due poeti, vi è una lettera da-
tata «Milano, 20 maggio [1946]»:
Caro Sandro
[…] Saprai forse di un congresso delle lettere e delle arti tenutosi qui [a
Milano] in questi giorni. Sono stato designato a relatore per la poesia e la cosa
è andata bene; ma ci sono molti particolari interessanti della discussione che
poi seguì: vorrei parlartene per darti un’idea di questo strano ambiente domi-
nato a chiacchiere dagli Jacobbi e dai Fortini (Lattes) […]. Ma è stato un mio
trionfo personale l’aver fatto loro ingoiare qualunque spunto societario e l’a-
verli costretti a parlare di poesia.83

Il mittente è Vittorio Sereni, il destinatario Alessandro Parronchi. Il


primo, legato al secondo da una lunga amicizia non compromessa dal
tempo né dall’assenza di una vera e propria consuetudine, parla a que-
sti di un terzo poeta, Franco Fortini. Sebbene, nella stessa lettera, Sere-
ni raccomandi a Parronchi la lettura di Foglio di via, la corrispondenza
lascia intendere come, a quell’altezza cronologica, il dissenso su ideolo-
gia e poesia tra Sereni e Fortini fosse acceso. Più tardi, com’è noto, la
polemica cederà il passo al dialogo intellettuale e amicale, o diventerà
una risorsa per il confronto, non per la prevaricazione di un poeta nei
confronti dell’altro.
Il capitolo più noto (e, probabilmente, il più significativo) del dialo-
go tra Sereni e Fortini non è però stato scritto nella prosa di un carteg-
gio, ma nei versi dei rispettivi componimenti. Da Italiano in Grecia,
poesia inclusa in Diario d’Algeria, Fortini estrae e cita alcuni sintagmi
con intento didascalico-polemico all’interno di un celebre epigramma
del ’54 indirizzato a Sereni e raccolto nell’Ospite ingrato (1966, poi ri-
stampato nel 1985 come L’ospite ingrato primo, insieme a un Ospite in-
grato secondo che ampliava il libretto di vent’anni prima). Sereni ri-
prende in seguito, nel poemetto Un posto di vacanza (in Stella variabi-
le), i versi dell’epigramma di Fortini, assunto a interlocutore e a «figura
interiorizzata di un diverso rapporto tra scrittura e reale».84

83 Carteggio Sereni-Parronchi, pp. 104-5.


84 GA, p. 254.
«Il luogo comune e il suo rovescio» 179

In Italiano in Grecia Sereni scrive:


Europa Europa che mi guardi
scendere inerme e assorto in un mio
esile mito tra le schiere dei bruti,
sono un tuo figlio in fuga che non sa
nemico se non la propria tristezza (vv. 8-12).

La replica di Fortini accoglie, in punta al primo verso, il sintagma


«esile mito», dislocandolo come apposizione al nome «Sereni», oggetto
dell’allocuzione, e dunque deviandone il significato del contesto origi-
nario e trasformandone l’intonazione da elegiaca a ironica:85
Sereni esile mito
filo di fedeltà
non sempre giovinezza è verità
un’altra gioventù giunge con gli anni
c’è un seguito alla tua perplessa musica…
Chiedi perdono alle «schiere dei bruti»
se vuoi uscirne. Lascia il giuoco stanco
e sanguinoso, di modestia e orgoglio.
Rischia l’anima. Strappalo, quel foglio
bianco che tieni in mano.

In Un posto di vacanza, Sereni ripete i versi dell’epigramma fortinia-


no, ma non li coinvolge nel tessuto del proprio discorso; li cita sottoli-
neandone l’alterità e la distanza attraverso l’espediente grafico del cor-
sivo, rendendoli così funzionali alla tensione dialogica che caratterizza
(e da cui dipende) la struttura argomentativa del testo:
Venivano spifferi in carta dall’altra riva:
Sereni esile mito
filo di fedeltà non sempre giovinezza è verità
. . .
Strappalo quel foglio bianco che tieni in mano.
Fogli o carte non c’erano da giocare, era vero. […] (I, vv. 12-16)

Il botta e risposta che coinvolge i due autori e i rispettivi testi adotta


come strumento retorico, sia nel caso dell’epigramma di Fortini che in

85 Fortini stesso definisce «ironici» i versi dell’Ospite ingrato, nell’Avvertenza che introduce
l’edizione del 1985 (ora in Fortini 2003, p. 859).
180 Niccolò Scaffai

quello del poemetto di Sereni, la citazione: nell’uno adattata alle esi-


genze sintattiche e semantiche del testo d’arrivo, nell’altro circoscritta
e separata dal contesto, anche se non inattiva sul piano semantico e su-
bito ripresa (meglio, citata a sua volta: «quel foglio bianco»> «Fogli o
carte»).
Una differenza non secondaria fra le due citazioni riguarda l’esplici-
tazione della fonte. La differenza non consiste tanto nel grado di reperi-
bilità dei rispettivi testi di partenza: che Fortini stesse citando Sereni e
Sereni Fortini doveva essere evidente, sia per gli autori – è ovvio – e i
critici, sia per i lettori avvertiti dal dibattito culturale in corso e abituati
(ieri più di oggi, certo) alla polemica e perfino alla pubblicistica in versi.
La distanza è stabilita, piuttosto, dalla presenza nell’epigramma fortinia-
no del nome di Sereni. Chiamando l’interlocutore per nome, Fortini ne
ricerca e ne provoca il coinvolgimento diretto fuori dal testo; per con-
tro, omettendo la fonte, Sereni riconduce la disputa all’interno del testo,
facendo dell’interlocutore una sorta di attante, un antagonista che metta
in discussione la coscienza ideologica dell’io. Dunque, in Un posto di
vacanza, i contendenti sono “io” versus “l’altro”; nell’Ospite ingrato, la
tenzone è invece tra due figure empiriche. Altrove, Fortini ha osservato
come un destinatario sia sempre «reale» e insieme «virtuale»;86 si direb-
be che, nell’epigramma indirizzato a Sereni, la bilancia penda a favore
del reale, mentre per Sereni il piatto più pesante è ancora quello del vir-
tuale. Questo, sia perché le risorse della poesia continuano a valere più
dello spunto immediato (sociologico o direttamente polemico), sia per-
ché la voce del suo interlocutore giunge da una sponda opposta: sponda
ideologica, certo, com’è nella facile metafora; ma, nella finzione del
poemetto, anche sponda geografica, materiale. Quanto basta per distur-
bare e interrompere, una volta di più, la comunicazione.

86 Per una ecologia della letteratura, in Fortini 1985, p. 282: «Il destinatario che si presume
possegga la competenza necessaria alla relazione con il testo sempre si scinde però in un destina-
tario reale e uno virtuale. Se il primo può (potrebbe) venir rilevato dall’indagine storico-sociologi-
ca, il secondo è inscritto nel testo, non è selezionato ma chiamato a esistere secondo una sorta di
codice genetico inesauribile e incluso, per così dire, “nella confezione”. Esso sorpassa sempre e
infinitamente i destinatari reali e rubricabili mentre, in potenza, altri ne costituisce, futuri ma an-
che passati che ormai, inclusi nel testo come scarabei nell’ambra o querce nella ghianda, con il te-
sto collaborano».
«Il luogo comune e il suo rovescio» 181

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Finito di stampare nel mese di giugno 2010

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