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“Sound design”… ma per chi?

(Doriana Dal Palù, Claudia De Giorgi, Beatrice Lerma ed


Eleonora Buiatti, Frontiers of Sound in Design: A Guide for the
Development of Product Identity through Sounds, Cham, CH,
Springer International, 2018).

Il suono e gli oggetti sonori sono sempre più presenti nella vita pub-
blica e nella produzione accademica. Tuttavia, i discorsi sui suoni e gli
oggetti sonori stanno ormai passando dalla rivendicazione della loro
importanza – i soliti lamenti su quanto fossero stati trascurati nel corso
della storia – alla riflessione sulla loro funzione, anzi sulle loro funzio-
ni. In effetti, le attività professionali e le ricerche intorno ai suoni sono
ormai molto specializzate: includono la musica, l’arte sonora o “sound
art”, e il “sound design” o progettazione sonora. Restando nel campo del
“sound design”, è anche possibile individuale dei percorsi professionali
molto diversi, che includono ad esempio il design sonoro degli spetta-
coli teatrali o la creazione di suoni e musiche per videogiochi. Ci sono
pure degli approcci concettuali contrastanti.
Il libro di cui ci occupiamo ha, in questo senso, un campo d’inte-
resse molto specifico: quello del “sound design” dei prodotti. In modo
ancora più specifico, come dichiara il sottotitolo, si occupa dell’identità
di prodotto che si sviluppa attraverso i suoni. Leggendo questo potrem-
mo pensare che ci si tratti di “audio branding”, inteso come l’insieme
di azioni comunicative, sonore e musicali, che esprimono l’identità di
un certo marchio o prodotto, ad esempio i jingle usati nella pubblici-
tà. Tuttavia, l’oggetto del libro sono invece i suoni funzionali prodotti
dai loro materiali e nel loro uso, che alcuni autori considerano pure
come un aspetto dell’”audio branding” (vedasi ad esempio l’articolo
di Francesco D’Amato “Uno ‘sguardo’ sull’audio branding in Italia”,
Comunicazionepuntodoc, numero 16, luglio 2017, pp. 321-30), anche se
è sicuramente un aspetto meno noto. Senz’altro i suoni funzionali sono
di vitale importanza per chi vende o commercializza un certo prodot-
to, e possono anche influire sulle scelte dei consumatori; si pensi, ad
esempio, al suono rassicurante della chiusura delle porte di una mac-
china di lusso. Tuttavia, le autrici di questo libro evitano di presentare
l’identità sonora dei prodotti come una stretta questione di marketing,
e collocano l’argomento in un orizzonte più largo, che comprende delle
riflessioni sui concetti di design e metadesign, o sul ruolo dei suoni nel
design multisensoriale, come vedremo. D’altra parte però, il libro è con-
cepito come una presentazione di SounBe, un interessante strumento
per la creazione, sperimentazione e valutazione dei suoni meccanici dei
prodotti. Sviluppato dalle autrici (Doriana Dal Palù, Claudia De Giorgi,
Beatrice Lerma ed Eleonora Buiatti) e Arianna Astolfi, ricercatrici del
Politecnico di Torino, con la collaborazione di Francesca Arato, SounBe
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è uno strumento pensato per le aziende e brevettato, quindi di accesso
impossibile a scopi di ricerca. Inserendo SounBe in discorsi più gene-
rali sui vari aspetti del design e dei processi di metadesign, le autrici lo
spiegano e contemporaneamente lo legittimano aldilà della sua utilità
industriale. Più avanti commenteremo le difficoltà di questo approccio.
Per quanto riguarda la struttura, il libro si apre con due premesse.
La prima, a cura di Flaviano Celaschi, dell’Università di Bologna, sot-
tolinea il rapporto prelinguistico dell’uomo col suono, ed evoca addi-
rittura il mondo sonoro e auditivo dell’”homo sapiens”, in linea con la
sensibilità fenomenologica che imbeve tanto di quanto si pubblica oggi
nel campo dei “sound studies”. Nella seconda premessa Patrick Susini e
Olivier Houix, membri di un gruppo di ricerca dell’Ircam che si occupa
di percezione e progettazione sonora, sottolineano la distinzione tra la
figura del “sound artist” e quella del “sound designer”. Gli autori argo-
mentano che il secondo lavora al servizio di valori tali come l’usabilità,
la soddisfazione (nell’uso), la coerenza o l’ecologia; valori che il primo
può benissimo ignorare. Susini e Houix indicano pure alcune linee di
sviluppo futuro del “sound design”, tra le quali la migliore definizione
e comprensione del ruolo dei prototipi nel processo, e innanzitutto
la creazione di un lessico condiviso che permetta di parlare dei suo-
ni in modo più preciso, che è il soggetto principale della loro ricerca
all’Ircam.
Dopo queste due premesse, la prefazione firmata dalle autrici si
richiama alla nozione di paesaggio sonoro o “soundscape” definita da
Raymond Murray Schafer alla fine degli anni Settanta, e accentua il
confronto tra i suoni progettati (“designed sounds”), identificati preva-
lentemente con i suoni di prodotto, e l’inquinamento acustico (“noise
pollution”) (p. XV). Le autrici argomentano che dalla possibilità di
progettare i suoni degli oggetti quotidiani dovrebbe risultare un pae-
saggio sonoro migliore (p. XVI). Comunque, i suoni di prodotto, in par-
ticolare se vengono intesi come un aspetto dell’identità del prodotto,
non sono sempre in linea con l’approccio ecologico rappresentato da
Murray Schafer, né con le preferenze acustiche degli utenti – cioè, non
mirano necessariamente al benessere acustico dei consumatori, ma
ad attirare la loro attenzione e garantire la riconoscibilità dei prodotti.
In realtà, non si può neanche escludere che i suoni progettati (alcuni,
per lo meno) possano far parte dell’inquinamento ambientale. Meno
controverse sono le considerazioni espresse dalle autrici sull’interdi-
sciplinarietà e transdisciplinarietà del “sound design” di prodotto, che
appartiene all’ingegneria industriale, ma deve anche tener conto di
aspetti psicologici e di ergonomia cognitiva, tra varie altre discipline.
Nella prefazione si presenta anche brevemente SounBe, inteso come
uno strumento, anzi una cassetta degli attrezzi (“toolkit”) che permette
di scegliere i materiali più adatti a un prodotto secondo il loro suono,
e che dovrebbe garantire la riproducibilità dei processi di creazione di
suoni.
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Alla prefazione segue un primo capitolo (“State of the Art on the Topic”)
scritto principalmente da Dal Palù, che offre qui una panoramica dei
gruppi internazionali impegnati nella ricerca sul “sound design”, i prin-
cipali convegni e riviste, e alcune delle mostre che sono state allestite
negli ultimi anni sull’argomento. Si riferisce anche al concetto di “sound
icons” (o “auditory icons”), che William Gaver ha esplorato da metà de-
gli anni Ottanta per le interfacce da computer (si veda ad esempio il suo
articolo di 1986 “Auditory Icons: Using Sounds in Computer Interfaces”,
Human-Computer Interaction, 2(2), pp. 167-77), e all’interesse di alcu-
ne compagnie per sviluppare dei suoni facilmente riconoscibili, come
il suono creato per la Microsoft da Brian Eno, e quello di Jim Reekes per
i computer Mac. Così come lo presenta Dal Palù, il problema princi-
pale nella progettazione dei suoni di prodotto è quello di individuare
gli obiettivi e le procedure, quando invece le esperienze uditive sono
soggettive, intangibili e difficili da misurare. Di nuovo, la soluzione
proposta punta verso la multidisciplinarietà, cioè il fatto di coinvolgere
degli esperti di diversi campi nel processo, e verso la consapevolezza
della multisensorialità dei prodotti, quindi verso una considerazione
degli aspetti sonori dentro a un insieme funzionale.
Il capitolo 2, scritto principalmente da Claudia De Giorgi, si in-
titola “What Sound Will My Product Make? Birth of a New Design
Requirement” e si concentra sulla funzione del suono nella fase di “me-
tadesign” o metaprogettuale, che comprende lo studio delle necessità
e i requisiti che deve soddisfare un prodotto. A questo scopo De Giorgi
offre un resoconto dell’evoluzione del design, dal periodo razionale de-
gli anni Sessanta e Settanta verso una maggiore consapevolezza della
sua multidisciplinarietà, quindi degli aspetti psicologici e di marketing,
includendovi le emozioni, verso una maggiore importanza della meta-
progettazione, e una sempre maggiore attenzione alla prospettiva degli
utenti o consumatori, rappresentata dai concetti di co-design e design
partecipativo. Per quanto sommaria, la panoramica offerta da De Giorgi
è efficace nel presentare l’emergenza del “sound design” nel contesto di
una rivalutazione di aspetti “invisibili”, che erano esclusi dalla defini-
zione modernista del design. In questa rivalutazione l’autrice sottolinea
il contributo di Andrea Branzi e il suo libro del 1984 La casa calda, che
ha attirato l’attenzione verso gli elementi ambientali. Ancora più decisi-
vo è stato il saggio Emotional Design di Donald Norman, pubblicato nel
2004, dove il suono era considerato uno degli elementi da curare nella
progettazione, almeno nei livelli che il teorico nordamericano chiama
“visceral” e “behavioral”. Tuttavia, la domanda su come includere gli
aspetti sonori nel processo resta aperta nella storia del design, giacché
in genere – come argomenta De Giorgi – i designers hanno dedicato
più sforzi a cancellare i suoni indesiderati o spiacevoli che a trovare il
suono adatto a ogni prodotto. Per trovare questo suono bisogna tener
conto sia dei materiali che dei modi di interazione col prodotto. In
effetti, non soltanto i suoni, ma tutti i messaggi sensoriali comunicati
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dal prodotto devono essere considerati come parte del suo carattere
espressivo, insieme alla forma e i materiali. C’è comunque da chiedersi
se la distinzione tra forma, materiali e messaggi sensoriali, per quanto
ragionevole, sia utile nei processi di valutazione di un prodotto, giacché
gli utenti non sono sempre in grado di differenziare gli effetti prodotti
dalla forma o il materiale da quelli che risultano da altri stimoli. Per
quanto riguarda l’interazione, De Giorgi ragiona che sia necessario
testare i prodotti per capire quale suono aiuta a comprendere meglio
la loro identità e il loro uso, ed eventualmente fare altre scelte di forma
e materiali. Si tratta, scrive, di ottenere un suono (traduco dalla p. 15)
che conferma che stiamo usando un prodotto sicuro e solido, o che
ci fornisce delle informazioni sullo stato di pausa o di chiusura di un
certo apparecchio. Da questo punto di vista il suono sarebbe un nuovo
requisito da considerare tra i vari requisiti che un prodotto dovrebbe
compiere, e si dovrebbe integrare attraverso processi di analisi e speri-
mentazione. A questo punto De Giorgi introduce l’elenco dei requisiti
di base di un prodotto, elaborato da lei insieme a Claudio Germak e
Marco Bozzola, che si propone agli studenti del Politecnico di Torino
dal 2008, ma sul quale l’autrice spiega soltanto che è stato concepito
seguendo un metodo basato sulla performance. Tra i requisiti di base
De Giorgi osserva che il suono può essere particolarmente importante
per l’identità (la riconoscibilità di un prodotto in un certo contesto) e
l’ergonomia, e quindi per concludere il capitolo, riformula questi due
requisiti includendovi il suono.
Il terzo capitolo, del quale Eleonora Buiatti è l’autrice principale, si
intitola “From Multisensory to Multicognitive: The Sound of a Product
is Other Than the Sum of Its Parts” e difende un approccio multisen-
soriale al disegno di prodotto, richiamandosi al Sensorama sviluppato
da Morton Heilig dalla fine degli anni Cinquanta. Propone quindi il
concetto di “usecue”, che potremmo tradurre come “spunto d’uso”, e
che si riferisce a come gli utenti interagiscono coi prodotti interpre-
tando le possibilità d’uso che offrono attraverso le loro caratteristiche
percettive. Seguendo le teorie sull’esperienza di prodotto sviluppate da
Hendrik N. J. Schifferstein e Paul Hekkert (ad esempio nel libro Product
Experience, curato da loro e pubblicato nel 2008) Buiatti sostiene che
il fatto di identificare le “usecues” più importanti ci permette di capire
come i consumatori interagiscano coi prodotti, cioè che caratteristiche
possono percepire senza l’intervento della mente (il percettibile), che
caratteristiche possono identificare (il percepito, che i ricercatori pos-
sono individuare, ad esempio, con le tecniche di monitoraggio oculare
o “eye tracking”) e che cose effettivamente capiscono o interpretano.
Per quanto questa divisione tripartita renda evidente la complessità
che ogni atto di percezione e comprensione implica, trasmette pure
l’impressione che la percezione sia un campo separato dall’intervento
mentale, cosa che almeno alcuni noti psicologi della percezione (si
pensi ad esempio a Richard Gregory) hanno negato. Buiatti si concentra
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poi sull’importanza degli spunti sonori nella vita quotidiana, nella
quale incontriamo spesso avvisi uditivi che ci premono a reagire in un
certo modo. Siamo anche capaci di identificare una grande varietà di
suoni presenti negli ambienti che frequentiamo. Questi suoni, continua
Buiatti, non trasmettono solo delle informazioni, ma hanno anche degli
effetti edonistici ed emotivi. Per il cosiddetto condizionamento valuta-
tivo (“evaluative conditioning”) i suoni possono pure condizionare la
percezione di altre qualità sensoriali o di un certo ambiente, spesso
senza che ce ne rendiamo conto (p. 26). Insomma, il processo di me-
taprogettazione e progettazione non dovrebbe solo tener conto della
qualità dei suoni dei prodotti, ma dovrebbe anche considerare che
ruolo hanno questi suoni nella percezione totale della forma e uso del
prodotto, e studiare come altre caratteristiche sensoriali possano inte-
ragire (rinforzare o meno) gli aspetti sonori (quello che Buiatti chiama,
in modo un po’ confuso, “design sinestesico”).
La questione della multisensorialità ricompare nel capitolo 4,
“Multisensory Design: Case Studies, Tools and Methods to Support
Designers”, scritto principalmente da Beatrice Lerma, che prende atto
dell’interesse crescente dei consumatori negli aspetti sensoriali dei
prodotti. Lerma si riferisce all’esperienza dell’utente e alla questione
del design multisensoriale, presentate nel capitolo precedente, ma si
concentra invece su casi di studio e contributi di altri autori sull’im-
portanza della ricerca multisensoriale allo sviluppo di nuovi prodotti.
Tra i casi di studio riferiti ci sono degli esempi di interazioni fra aspetti
visivi e olfattivi, di qualità tattili che rinforzano la percezione dell’i-
dentità del prodotto, dell’uso di testure particolari nel design del cibo,
e pure alcuni (pochi) casi che si riferiscono al suono del packaging o
alla concezione di prodotti silenziosi. Nella seconda parte del capi-
tolo l’autrice presenta anche alcuni metodi e strumenti per applicare
il design multisensoriale al design di prodotto e valutarne gli effetti.
In primo luogo difende la validità di metodi come i panel di esperti,
ai quali si chiede di valutare l’esperienza sensoriale del prodotto tra-
mite questionari, elenchi di differenziali semantici o “focus groups”
(in questo caso non si tratterebbe necessariamente di esperti) di età
e profili diversi. Questi metodi si possono usare per valutare aspetti
qualitativi e quantitativi, sia nella fase di metaprogettazione che nella
fase di progettazione. Lerma elenca anche altri metodi tecnologici
(chiamati “global perceptive tools”) che registrano delle reazioni
fisiche, ad esempio monitorano il movimento degli occhi (“eye tra-
cking”) o classificano le espressioni facciali, e in questo modo otten-
gono dei dati sugli utenti evitando la mediazione (e le ambiguità) del
linguaggio. Un altro elemento importante per analizzare e valutare
gli aspetti multisensoriali sono i sistemi e strumenti di misura dei
singoli sensi, come ad esempio i diapason per i suoni, e altri sistemi
più nuovi elencati alla fine del capitolo, tra i quali la carta dei suoni o
lo Spinotron sviluppati all’Ircam di Parigi o lo xilofono prodotto dalla
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Materioteca di Milano per comparare i suoni prodotti da diversi poli-
meri. Il SounBe del Politecnico di Torino dovrebbe essere considerato
come una aggiunta a questa serie di strumenti. Tuttavia, in questo ca-
pitolo si percepisce già una tensione tra il concetto di esperienza dei
consumatori e la scelta di metodi che, come il panel di esperti, danno
priorità a un gruppo molto specifico di utenti potenziali.
Il capitolo 5 (“Creation, Validation and Possible Applications of a
New Tool for Sound Design”), scritto principalmente de Doriana Dal
Palù, si occupa di SounBe, dalla sua creazione alle possibili applica-
zioni future, e costituisce il nucleo del libro. Secondo quanto racconta
Dal Palù, la ricerca alle origini di SounBe è partita dall’esperienza della
MATto, la biblioteca di materiali del Politecnico di Torino, che dal 2004
ha sviluppato un sistema di aggettivi e scale di valore per descrivere le
caratteristiche sensoriali dei materiali, individuate da panel di esperti.
Tuttavia, mancava uno strumento per riferirsi ai suoni dei materiali, e
a questo scopo si è costituito nel Politecnico un gruppo di lavoro mul-
tidisciplinare e transdisciplinare, con ricercatori dei campi del design,
dell’acustica e dell’ergonomia cognitiva. Un primo passo è consistito
nell’analizzare e semplificare le variabili dei suoni meccanici, riducen-
doli a tre elementi principali: il materiale (o i materiali), la configura-
zione della forma e il modo di eccitazione. Secondo Dal Palù, il gruppo
di lavoro ha preso come modello di riferimento lo strumento Sensotact
(ora chiamato Touchfeel) sviluppato dalla Renault allo scopo di creare
un vocabolario comune per la descrizione sensoriale. Con questi ele-
menti nel 2010 si è creata la prima versione di SoundBe, che in sostanza
era una scatola di legno contenente vari strumenti per eccitare i mate-
riali e campioni di materiali diversi, e quindi poter confrontare le loro
risposte acustiche. Dal Palù ci dettaglia i diversi modi di eccitazione dei
materiali, che in alcuni casi prevedono l’intervento umano, e in altri
casi no; i suoni prodotti possono anche essere registrati. I suoni devono
poi essere descritti, idealmente da un panel di esperti, che possono
scegliere tre aggettivi da un elenco (si tratta degli aggettivi proposti da
Von Bismarck nel 1974 per descrivere il timbro). Le scelte degli esperti
sono poi valutate e analizzate, e da questo processo ne risulta un profilo
di ogni suono. I profili dei suoni si raccolgono poi in un database, che si
può usare sia per confrontare i suoni di diversi materiali, sia per trovare
il suono o suoni più adatti a un certo progetto, partendo dai descrittori.
Per provare SounBe i ricercatori hanno svolto un test alla MATto che ha
permesso di descrivere 90 suoni diversi, e sulla base dei risultati di que-
sto test è stato chiesto il brevetto italiano, concesso nel 2011. Nel 2013 è
stata avviata la procedura di brevetto dell’European Patent Convention,
che al momento della pubblicazione del libro (e della scrittura di questa
recensione) non era stata ancora conclusa.1 In parallelo, comunque,

1. La scheda della richiesta si può consultare qui: https://www.knowledge-


share.eu/en/patent/sounbe-method-and-tool-for-the-qualitative-acoustic-
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Dal Palù ha svolto dal 2013 al 2016 una ricerca dottorale mirata alla
validazione sperimentale di SounBe, che oltre alla revisione della let-
teratura sull’argomento ha tentato di provare che i suoni ottenuti con
SounBe fossero confrontabili a quelli ottenuti da oggetti reali in azione.
Questi oggetti, pero, non sono stati studiati in contesti d’interazione
reali (o simili ai reali), ma in una camera anecoica, dove è stato chiesto
a 60 volontari di descrivere i suoni prodotti da due sedie da ufficio su
tre tipi diversi di pavimento, e poi di descrivere i suoni prodotti da una
versione semplificata di questi elementi, tratti da SounBe. Per quanto
la ricerca abbia confermato che non ci sono differenze importanti
tra le descrizioni ottenute in uno e nell’altro caso, c’è da farsi qualche
domanda sulla loro validità ecologica, cioè fino a che punto si possa
decidere sull’idoneità di certi suoni (la frizione delle ruote delle sedie
sul pavimento dell’ufficio, in questo caso) senza tener conto della mol-
teplicità di suoni che possono essere presenti nel contesto (stampanti,
chiamate telefoniche, sistemi di refrigerazione e riscaldamento, ecc.).
Queste obiezioni sono state studiate, almeno in parte, in un secondo
esperimento che ha coinvolto esperti e non esperti, che stavolta dove-
vano descrivere i suoni usando i differenziali semantici. L’esperimento
prevedeva l’ascolto degli stessi suoni analizzati in precedenza (il suono
delle ruote delle sedie da ufficio), ma in tre situazioni diverse: in un
contesto simile al reale, in un laboratorio con dei suoni reali diffusi via
cuffie, e in un laboratorio coi suoni prodotti con materiali di SounBe
diffusi via cuffie. Anche in questo caso, ragiona Dal Palù, non sono state
rilevate delle differenze significative tra i differenziali semantici attri-
buiti ai tre tipi di suoni. In seguito a questi processi di validazione, si av-
viò la fase di perfezionamento del prototipo SounBe, fino a raggiungere
il Technology Readiness Level (TRL) 8.
Comunque, quale sarebbe lo scopo principale di SounBe, in un
contesto dove, come ribadisce Dal Palù, la sensorialità dei prodotti
diventa sempre più importante? SounBe servirebbe principalmente
per aiutare gli architetti e i designers a scegliere i materiali più adatti
a un progetto, tenendo conto (anche) del loro suono. Quindi sarebbe
principalmente uno strumento di lavoro per quelli che partecipano
ai processi di metadesign e design. Da questo punto di vista, la scelta
di testare SounBe prevalentemente con panel di esperti sarebbe coe-
rente. Tuttavia, seguendo i ragionamenti anticipati nella prefazione,
Dal Palù difende anche l’utilità di SounBe per i consumatori finali. Pur
ammettendo che è difficile capire quale messaggio venga trasmesso
da un certo suono, e come possa essere interpretato, argomenta che
SounBe possa servire per valutare come il suono di un certo prodotto
comunichi la sua qualità. A questo punto però, non è molto chiaro se
i suoni siano qui considerati dal punto di vista della loro funzionalità
(cioè, della capacità di soddisfare le necessità dei consumatori), oppure

evaluation-and-descriptive-materials/
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siano concepiti prevalentemente come un elemento di marketing; ac-
centando che potrebbero pure svolgere tutte e due le funzioni. Nella
terza sezione del capitolo l’autrice difende la necessità che il “sound
design” di prodotto si svolga come campo autonomo, e propone a que-
sto scopo alcuni casi in cui potrebbe essere applicato, dall’arredamento
degli uffici per un migliore comfort acustico, allo sviluppo di imballaggi
per prodotti alimentari che mettano in rilievo le loro caratteristiche gu-
stative e aumentino così la loro attrattiva per i consumatori. In questo
senso, un suono “buono”, sottolinea Dal Palù, non è sufficiente, giacché
i suoni devono essere coerenti con altre caratteristiche sensoriali dei
prodotti (p. 63). Nonostante gli appelli alla multisensorialità in vari ca-
pitoli del libro, manca comunque un metodo per applicare SounBe te-
nendo conto anche dei dati sensoriali non acustici. Un’altra limitazione
importante è il fatto che SounBe possa testare solo dei suoni meccanici,
quando, come ammette l’autrice, dagli anni Ottanta i designers usano
sempre più spesso una grande varietà di “beeps” e altri suoni digitali.
Questi suoni pero, argomenta Dal Palù, in parte imitano i suoni reali (ad
esempio, il suono del cestino che si svuota quando cancelliamo il con-
tenuto del folder della spazzatura del Mac), e in questo senso SounBe
può essere anche molto utile. L’ultima sezione del capitolo insiste sul
collocare la funzione del “sound design” sotto il concetto di paesaggio
sonoro ed ecologia acustica, opponendo la nozione di qualità sonora
(“sound quality”) a quella d’inquinamento acustico (“noise pollution”),
e puntando verso la salute e la sicurezza dei consumatori. La qualità
del suono è definita come la correttezza e idoneità dei suoni per le fun-
zioni alle quali corrispondono, e si sottolinea anche che devono essere
immediati, ma anche non invadenti e informativi. C’è comunque una
tensione tra le caratteristiche definite qui e gli obiettivi del marketing
sensoriale, giacché la creazione di un’identità sonora sicuramente non
si può fare contro i gusti degli utenti, ma non implica necessariamente
che i loro bisogni debbano essere messi in primo piano. Le ultimissime
considerazioni dell’autrice sul fatto che il “sound design” sia stato appli-
cato finora soprattutto ai prodotti di lusso, ma si debba applicare anche
(magari usando SounBe) a prodotti per un pubblico più ampio, ci fanno
chiederci “quale ‘sound design’?”, e soprattutto, “per chi?”
Il capitolo di conclusioni, firmato da Arianna Astolfi e Claudia De
Giorgi, non affronta però nessuno degli interrogativi che abbiamo in-
contrato finora e si perde invece in considerazioni molto generali. Le
autrici cominciano addirittura dalla definizione di design, e continua-
no poi con l’importanza dell’interdisciplinarietà, la metodologia e le
nuove tecnologie nel design – discorsi che avrebbero avuto un senso
forse come prefazione, ma che alla fine del libro destano la perplessità
del lettore.

Marta García Quiñones

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