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SEZIONE SECONDA

FUNZIONI E FONTI

1. Le funzioni amministrative

Le organizzazioni vengono create per svolgere funzioni, ossia attività ordinate a fini per i quali le
organizzazioni sono mezzi. Oggi le funzioni dello Stato sono enormemente aumentate e sono, di
conseguenza, distribuite tra più apparati in conformità alla regola della specializzazione e della divisione del
lavoro che va necessariamente osservata nelle organizzazioni complesse. L’accresciuta complessità del
quadro organizzativo, che è parallela alla complessità delle funzioni, ha richiesto che anche a livello
costituzionale si intervenisse per stabilire alcuni criteri di distribuzione delle funzioni stesse. È da
premettere che, in ossequio al principio di legalità, le funzioni amministrative seguono le funzioni
legislative. In un ordinamento come il nostro, in cui la funzione legislativa è suddivisa tra lo Stato e le
Regioni, si può dire in linea di massima che il titolare della potestà legislativa ha anche la potestà
amministrativa. Poiché l’art. 117 Cost., nella versione risultante dalla legge cost. n. 3/200l, prevede tre
specie di potestà legislativa:

- la potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie elencate al comma secondo;

- la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni nelle materie elencate al comma terzo;

- la potestà residuale (e quindi esclusiva) delle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla
legislazione dello Stato.

Ne deriva che lo Stato esercita funzioni amministrative nelle materie assegnate alla sua potestà legislativa
esclusiva, le Regioni nelle materie di competenza residuale, ed entrambi nelle materie devolute alla
competenza legislativa concorrente. Questa regola di parallelismo tra funzioni legislative e funzioni
amministrative, che era espressamente sancita dall’art. 118 Cost. nella sua versione originale, subisce nel
nuovo titolo V della Costituzione temperamenti e deroghe. Innanzitutto, ci sono materie, tra quelle
assegnate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, per le quali non è configurabile una funzione
amministrativa. Quanto alla legislazione concorrente, essa non sempre giustifica l’istituzione o il
mantenimento di apparati amministrativi dello Stato, considerato che la potestà legislativa dello Stato è
circoscritta alla determinazione dei principi fondamentali. Si può pensare, cioè, che l’intervento dello Stato
si esaurisca nel momento legislativo. Ma la vera novità, almeno in apparenza, in tema di riparto delle
funzioni, è data dal nuovo art. 118 Cost. per cui “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo
che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. L’incipit sembra riservare ai
Comuni una specie di competenza amministrativa esclusiva, ma la clausola salvatoria che immediatamente
segue lascia aperta qualunque diversa soluzione, che ricorra l’esigenza di un esercizio unitario delle
funzioni. Il principio di sussidiarietà, che in linea generale comporta una presunzione di competenza
l’intervento sussidiario del livello di governo superiore quando la funzione interessata sia incompatibile con
la dimensione del Comune o della Provincia o della Regione. I principi di differenziazione e di adeguatezza
sono sostanzialmente neutri rispetto al problema della distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli
territoriali. Il principio di differenziazione impone di tenere in considerazione le diverse caratteristiche,
anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi. Richiede cioè che si tenga
conto, nell’allocazione delle funzioni non soltanto della diversa idoneità dei diversi livelli territoriali, ma
anche della diversa idoneità ad esercitare le funzioni di enti situati nel medesimo livello territoriale. In
conclusione, non pare che il nuovo art. 118 Cost. abbia sconvolto l’assetto precedente, come qualcuno ha
ritenuto. Né lo Stato né le Regioni possono spogliare gli enti locali di alcune funzioni ritenute coessenziali
alla stessa idea di autonomia locale. Resta tuttavia da individuare il criterio di riparto della potestà
legislativa nella materia degli enti locali. L’art. 117 Cost. assegna alla potestà legislativa esclusiva dello Stato
la legislazione elettorale, gli organi di Governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane. Poiché in altre materie sia lo Stato che le Regioni possono, anzi debbono in ossequio al
principio di sussidiarietà, attribuire funzioni amministrative agli enti locali nell’esercizio della loro potestà
legislativa, Comuni e Province riceveranno, come hanno ricevuto in passato, funzioni dallo Stato (per es. in
tema d’immigrazione, cittadinanza, stato civile, anagrafe tutela dell’ambiente), e funzioni dalle Regioni
(istruzione professionale, governo del territorio, valorizzazione dei beni culturali e ambientali). Se si
dovesse prendere alla lettera l’art. 118 Cost. comma 1, le funzioni amministrative sembrerebbero riservate
ai soli enti territoriali. Tuttavia, l’art. 117 Cost. comma 2, assegna alla competenza esclusiva dello Stato la
disciplina degli enti pubblici nazionali, e quindi ne presuppone l’esistenza, come titolari di una quota delle
funzioni amministrative. La dizione usata (enti pubblici nazionali) lascia intendere che accanto agli enti
nazionali possono esserci enti pubblici regionali o subregionali.

2. Le fonti dell’organizzazione e dell’attività amministrativa. Le leggi

La disciplina della pubblica amministrazione, che trova nella Costituzione i suoi principi fondamentali, è
contenuta essenzialmente nelle leggi, statali e regionali, nei regolamenti, ed è oggi profondamente
influenzata dal diritto comunitario e dalle convenzioni internazionali. Il principio di legalità richiede che la
legge non soltanto dia un fondamento al potere amministrativo ma che ne definisca anche i tratti essenziali.
Più precisamente la Costituzione utilizza la categoria della riserva di legge. Accanto alla riserva di legge
assoluta, che ricorre quando una norma costituzionale attribuisce soltanto alla fonte di legge (riserva cioè
alla legge) il potere disciplinare di una determinata materia escludendo che la disciplina possa essere
contenuta in fonti subordinate, vi è la riserva di legge relativa, utilizzando espressioni come in base alla
legge o secondo disposizioni di legge. La riserva di legge è assoluta in tema di libertà fondamentali e nella
materia penale. La riserva di legge è relativa quando è sufficiente che la legge fissi la disciplina di principio
di una determinata materia nell’ambito della quale è ammesso l’intervento di regolamenti. Secondo
l’opinione unanime, la pubblica amministrazione è sottoposta a riserva di legge relativa. L’art. 97 Cost., non
si limita, tuttavia, a distribuire la competenza normativa tra legge e regolamento, ma delinea anche il
minimo che deve essere regolato dalla legge. Alla legge, e soltanto alla legge, spetta stabilire,
nell’ordinamento degli uffici, le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari. Poiché
attribuzioni e competenze hanno per oggetto poteri amministrativi, ed i poteri si esercitano a mezzo di atti
amministrativi efficaci verso l’esterno, contro i quali, se lesivi di diritti e di interessi legittimi, è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale (art. 113 Cost.). È infine, riservato alla legge il conferimento di potestà
amministrative. La Costituzione quando fa riferimento non solo alle leggi in senso formale, ma anche agli
atti con forza di legge (decreti legislativi e decreti-legge); e la riserva di legge può essere soddisfatta anche
da una legge regionale quando la materia ricada nella competenza legislativa, concorrente o esclusiva. Le
Regioni non posso intervenire in tema di ordinamento civile, ordinamento penale, giurisdizione, giustizia
amministrativa, tutte materie che sono riservate alla legislazione esclusiva dello Stato. Sono, tuttavia,
competenti a vario titolo negli ambiti che sono tipici della legislazione amministrativa, dalla tutela della
salute all’alimentazione, da alcune opere pubbliche al governo del territorio, dalla valorizzazione dei beni
culturali alle pressioni ecc. Dispongono inoltre di potestà legislativa in ogni altra materia che non sia
espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Poiché in queste materie l’intervento legislativo non si
limita alla determinazione di regole, ma comporta l’istituzione di apparati amministrativi che ne curino
l’attuazione, si capisce come l’amministrazione trovi la fonte della propria disciplina anche nella legge
regionale. L’art. 97 Cost., che vincola la potestà legislativa sia statale che regionale, predetermina il
contenuto minimo della legge che riguarda l’organizzazione amministrativa (competenze, attribuzioni e
responsabilità), ma stabilisce anche due limiti a carattere finalistico, poiché la legge deve assicurare
l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione, intendendosi per amministrazione sia l’apparato
amministrativo sia l’attività che esso svolge. Come stabilisce il contenuto minimo che la legge deve avere
quando ha per oggetto la pubblica amministrazione, così la Costituzione determina anche un contenuto
massimo, al di là del quale la legge non può spingersi. Il principio della separazione dei poteri vieta in linea
generale che il legislatore possa fare l’amministratore, ossia che la legge abbia il contenuto concreto
dell’attività amministrativa. Effettivamente, se contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre
ammessa tutela giurisdizionale, non potrebbe la legge avere il contenuto di un atto amministrativo perché,
se lo avesse, verrebbe negata al destinatario la tutela giurisdizionale. Il singolo può impugnare un atto
amministrativo, ma non può impugnare una legge.

3. I regolamenti

La riserva di legge relativa cui è sottoposta la pubblica amministrazione comporta che una quota non
irrilevante dalla disciplina che la riguarda possa essere contenuta nei regolamenti. La materia dei
regolamenti governativi è oggi disciplinata dall’art. 17 della legge n. 400/1988. Sono elencate cinque specie
di regolamenti:

1. regolamenti esecutivi (adottati per l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti
comunitari);

2. regolamenti di attuazione e integrazione (delle norme di principio contenute nelle leggi e nei decreti
legislativi, escluse quelle che rientrano nella competenza regionale);

3. regolamenti indipendenti (nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di
legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge);

4. regolamenti di organizzazione (sull’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche


secondo le disposizioni dettate dalla legge);

5. regolamenti di delegificazione (emanati per la disciplina delle materie non coperte da riserva assoluta di
legge e tuttavia disciplinate con legge.

Con una nuova legge che stabilisce le norme generali regolatrici della materia viene disposta l’abrogazione
della legge precedente ed è autorizzata l’adozione del regolamento che sostituisce la sua disciplina a quella
della legge, la quale viene abrogata con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari. Si usa il
termine delegificazione perché, con questa operazione, una disciplina che era tutta contenuta nella legge
viene redistribuita fra legge e regolamento. Ne deriva di solito una modifica dei contenuti perché le norme
generali inserite nella legge di delegificazione non coincidono necessariamente con quelle della legge
preesistente così che il regolamento non mutua necessariamente i suoi contenuti dalla legge che viene
abrogata). L’art. 17 indica cinque specie di regolamenti poiché utilizza una pluralità di criteri di
classificazione, e le specie che ne risultano non sono mutuamente esclusive ma sono, almeno in parte,
coincidenti. Le prime tre specie (regolamenti esclusivi, regolamenti di attuazione e integrazione,
regolamenti indipendenti) sono classificate sulla base del rapporto tra legge e regolamento. Nel primo caso
la legge contiene per intero la disciplina sicché il regolamento tende ad assicurarne solo l’esecuzione; nel
secondo caso vengono in rilievo leggi che contengono solo norme di principio, delle quali il regolamento
costituisce lo svolgimento; nel terzo la legge manca e, non prevedendo la costituzione alcuna riserva di
legge, la disciplina può essere tutta stabilita col regolamento. Il regolamento di organizzazione è
caratterizzato, invece, dalla materia regolata (l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni
pubbliche), e può essere a sua volta un regolamento esecutivo o un regolamento di attuazione e di
integrazione. Il regolamento di delegificazione, infine, è una specie del regolamento di attuazione e
integrazione perché la legge di riferimento ha struttura di legge generale. Si caratterizza non per il suo
contenuto ma per l’effetto: la sostituzione di una disciplina legislativa con una disciplina regolamentare,
come tale suscettibile di più agevole modifica o abrogazione. Perché il carattere sub primario della fonte
regolamentare, sancito dall’art. 4 delle preleggi (i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle
disposizioni di legge), venga fatto salvo, l’abrogazione della legge (legge di delegificazione), in caso di
delegificazione non è operata dal regolamento, ma dalla nuova legge che, determinando le norme generali
regolatrici della materia e autorizzando il Governo ad esercitare la potestà regolamentare, dispone essa
stessa l’abrogazione, anche se la decorrenza dell’effetto abrogativo slitta alla data di entrata in vigore del
regolamento. Si discute sull’organo - Parlamento o Governo - al quale spetti decidere se una determinata
legge, per essere applicata o esser meglio applicata, richieda successivi interventi regolamentari di
esecuzione o di attuazione o di integrazione. Secondo l’opinione prevalente tale potere spetta al
Parlamento. L’art. 17 disciplina i tipi di regolamento, e il procedimento per la loro formazione, ma non
legittima di per sé l’esercizio della potestà regolamentare. Occorre, cioè, una specifica autorizzazione
contenuta nella legge che prevede un’esecuzione o un’attuazione o un’integrazione a mezzo di
regolamento. L’autorizzazione legislativa che il comma 2 dell’art. 17 esige con riguardo ai soli regolamenti
di delegificazione in realtà è richiesta in ogni caso. Il discorso non vale ovviamente per i regolamenti
indipendenti che per definizione presuppongono la mancanza di una disciplina da parte di legge e di atti
aventi forza di legge. In questo caso l’iniziativa non può che spettare al Governo. Poiché l’altro presupposto
è che la materia non sia comunque riservata alla legge è da escludere che un regolamento indipendente
possa disciplinare l’organizzazione e il funzionamento della pubblica amministrazione, materia che è
sottoposta a riserva di legge. Accanto ai regolamenti governativi la legge n. 400/1988 prevede i regolamenti
ministeriali che possono essere adottati nella materia di competenza del ministro o di autorità sottordinate,
quando la legge espressamente conferisca tale potere. I regolamenti ministeriali (o interministeriali) non
possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.

4. I regolamenti degli enti territoriali

Secondo l’originaria formulazione dell’art. 121 Cost., la potestà regolamentare della Regione apparteneva
al Consiglio regionale (organo legislativo) al pari della potestà legislativa. Con la modifica prodotta dalla
legge cost. n. 1/1999 è venuta meno la riserva al consiglio regionale della potestà regolamentare, sicché
spetterà alla singola Regione assegnare tale potestà al consiglio o giunta, e ciò attraverso il proprio statuto,
lo strumento che la Costituzione indica per quanto riguarda la determinazione dei principi fondamentali di
organizzazione e funzionamento. In concreto tutte le regioni (all’infuori dell’Abruzzo) hanno conferito la
potestà regolamentare alla giunta regionale (organo esecutivo), prevedendo per lo più forme di
partecipazione del consiglio. I regolamenti regionali sono stati così ricondotti allo schema originario,
sperimentato nello Stato, che configura il regolamento come un atto normativo del potere esecutivo.
Un’altra importante modifica è stata apportata dalla legge costituzionale n. 3/2001. L’art. 117 Cost. comma
6, attribuisce allo Stato la potestà regolamentare nelle materie di legislazione esclusiva, mentre in ogni altra
materia spetta alle Regioni. Viene meno così la potestà regolamentare dello Stato nelle materie di
competenza concorrente. La potestà regolamentare delle Regioni viene correlativamente ampliata anche
perché è prevista la possibilità che lo Stato deleghi alle Regioni la propria potestà regolamentare. L’art. 117
Cost. stabilisce, infine, che i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in
ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Lo Stato dispone
di potestà legislativa esclusiva in tema di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali
di Comuni, Province e Città metropolitane; sicché la competenza regolamentare dell’ente locale in ordine
alla disciplina dell’organizzazione non può, modificare il quadro degli organi di governo dell’ente stesso.
Quanto alla disciplina dello svolgimento delle funzioni locali, essa è in gran parte contenuta nelle leggi
statali e regionali che regolano i settori materiali chiamando a compartecipare il livello locale. Se ha per
oggetto lo svolgimento delle funzioni (e quindi i procedimenti amministrativi), la potestà regolamentare
dell’ente locale è vincolata dai principi stabiliti dalla legge sul procedimento amministrativo (legge n.
241/1990), ed è tenuta comunque al rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei
riguardi dell’azione amministrativa.

5. Gli statuti

Tra le fonti rilevanti per l’amministrazione vanno annoverati gli <b>statuti</b> delle Regioni e degli enti
locali. Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di
governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. L’atto con cui lo statuto viene
approvato dal consiglio regionale si distingue dalla normale legge regionale perché deve essere approvato a
maggioranza assoluta dei componenti del consiglio e con due deliberazioni successive adottate ad intervallo
non minore di due mesi. La potestà statutaria della Regione si muove tra la Costituzione, che individua
direttamente gli organi fondamentali (consiglio regionale, giunta e presidente) e ne disciplina le funzioni
essenziali, e la competenza legislativa residuale della Regione stessa, in tema di organizzazione
amministrativa della Regione, comprensiva dell’incidenza della stessa sulla disciplina del relativo personale.
Diversa è la condizione delle Regioni a statuto speciale perché i loro statuti, deliberati dai consigli regionali,
sono stati approvati con legge costituzionale del Parlamento. Sicché essi sono, sul piano formale,
sovraordinati agli statuti delle Regioni ordinarie perché hanno il rango delle leggi costituzionali, ma sul
piano sostanziale sono espressione di una autonomia minore. Anche gli enti locali hanno propri statuti. Lo
statuto è un’espressione dell’autonomia dell’ente.

6. Le fonti terziarie

Accanto alle fonti primarie (legge ed atti aventi forza di legge) e alle fonti secondarie (i regolamenti)
l’esperienza amministrativa conosce le c.d. fonti terziarie, ossia atti che pur provenendo
dall’amministrazione vincolano la successiva attività provvedi mentale se hanno come destinataria
l’amministrazione stessa o limitano l’attività dei privati, quando a loro si rivolgono, come se fossero leggi o
regolamenti. Le fonti terziare condividono con i regolamenti un duplice aspetto: di provvedimenti
amministrativi (in quanto provengono da una pubblica amministrazione) e di norme o precetti, che
vincolano in qualche misura ciò che viene appresso e ciò in ragione della loro struttura e del loro contenuto.
La fenomenologia delle fonti terziarie è ricca. Le direttive contengono indicazione sui comportamenti da
tenere rivolte ad altri soggetti pubblici. Si distinguono dagli ordini perché contengono un’implicita riserva di
deroga nel senso che il destinatario può disattendere la direttiva, nel caso concreto, purché ne dia
motivazione. La direttiva sopravvive oggi nei rapporti tra ministro e dirigente generale, e comunque nei
rapporti tra organo politico-amministrativo e dirigente. Il ministro, e più in generale l’organo politico-
amministrativo, definisce con la direttiva obiettivi, priorità, piani e programmi alla cui attuazione il dirigente
è tenuto, sicché il mancato raggiungimento degli obiettivi e più in generale l’inosservanza delle direttive
determina quella speciale forma di responsabilità che è la responsabilità dirigenziale e viene comunque in
rilievo ai fini del rinnovo o della revoca dell’incarico dirigenziale. Tra l’organo politico-amministrativo non
c’è un rapporto gerarchico e il dirigente può comunque giustificare il mancato raggiungimento degli
obiettivi stabiliti con la direttiva annua, con l’insufficienza delle risorse a lui assegnate (risorse umane e
risorse finanziarie) o col carattere velleitario degli obiettivi o adducendo altre serie ragioni. Le circolari sono
gli atti con i quali gli organi di vertice di un apparato di solito illustrano il contenuto di una legge recente, e
le modalità con cui essa verrà applicata dall’amministrazione. Destinatari della circolare sono gli uffici ma
indirettamente i cittadini i quali vengono informati dell’interpretazione che quella amministrazione dà alla
legge. Resta ferma la possibilità - visto che la circolare non è una legge - che la circolare sia a sua volta
illegittima perché in contrasto con la legge che ha preteso di interpretare. In questo caso la circolare potrà
essere impugnata insieme al provvedimento che ad essa si è conformato. Atti generali sono i piani
urbanistici, i piani paesaggistici, il piano nazionale di ripartizione delle frequenze (legge n.249/1997), la
pianta organica delle farmacie, i piani commerciali regionali, ecc. Questi atti si caratterizzano per l’ampiezza
e la varietà dei contenuti e per l’indeterminatezza dei destinatari (che non sono determinati ma sono
determinabili). Essi hanno una precettività che è superiore a quella delle direttive o delle circolari perché i
provvedimenti che ne costituiscono attuazione (il permesso di costruire o l’autorizzazione paesaggistica o
l’assegnazione della farmacia) devono ad essi conformarsi, pena la loro illegittimità. Proprio in ragione della
loro complessità gli atti generali sono esenti dall’obbligo di motivazione (legge n.241/1990), non nel senso
che essi possano essere arbitrari, ma nel senso che ciascuna singola previsione è giustificata dal complesso
delle altre. I bandi sono degli atti volti a sollecitare la partecipazione delle imprese ad una gara d’appalto o
la partecipazione dei candidati a un concorso per pubblico impiego. Essi contengono le regole della
competizione: il termine per la presentazione delle offerte (nelle gare d’appalto) o delle domande (nei
concorsi a pubblico impiego), i requisiti della partecipazione, i criteri per la valutazione comparativa ecc.
Sono regole per i concorrenti, ma anche regole per l’amministrazione che si impegna ad osservarle, se
vengono violate, l’impresa o il candidato che ne sono stati danneggiati, possono agire in giudizio per
l’annullamento (dell’esito della gara o del concorso). Tra le fonti terziarie vanno inclusi anche i decreti di
natura non regolamentare. Si tratta di atti, così testualmente definiti dalle leggi che ad essi fanno rinvio per
la disciplina di dettaglio di principi che spesso la norma enuncia in maniera generica o sommaria: atti che
hanno tutto il contenuto (e l’efficacia) di regolamenti anche se non sono qualificati come tali. La dottrina,
molto critica nei riguardi di questa fonte terziaria, ha spiegato le ragioni per cui, in luogo del regolamento, il
legislatore opta per questa specie di decreti. In questo modo viene consentito al Governo di sfuggire al
doppio vincolo che nasce dalla legge n. 400/1988 e dall’art. 117 Cost. La legge n. 400/1988 pone vincoli
materiali e procedurali; mentre l’art. 117 Cost. comma 6, limita la potestà regolamentare dello Stato alle
materie di legislazione esclusiva e stabilisce che in tutte le altre materie detta potestà è delle Regioni. Si è
parlato in proposito di fuga dal regolamento nel senso che il Governo, per sottrarsi alla consultazione
obbligatoria del Consiglio di Stato o per regolare materie di competenza regionale, ricorre ai decreti di
natura non regolamentare; o di truffa delle etichette nel senso che viene etichettato come decreto di
natura non regolamentare quello che in realtà, dal punto di vista del contenuto, è un regolamento.
Legittimi o non legittimi, i decreti ministeriali non aventi natura regolamentare contengono comunque
precetti che vincolano le amministrazioni ed i privati interessati.

7. Le fonti comunitarie

Con la sottoscrizione nel 1957, al Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea il sistema delle fonti
del diritto italiano ha subito una radicale modifica. L’unione agisce esclusivamente nei limiti delle
competenze che sono attribuite agli Stati membri (art. 5, par. 2, TFUE). Poiché tali competenze, anche se
numerate spaziano dall’agricoltura ai trasporti, dalla politica economica alla politica monetaria,
dall’occupazione alla politica professionale, alla sanità, ecc. è evidente l’influenza che il diritto europeo,
primario e derivato, esercita sulle amministrazioni pubbliche degli Stati membri (e sui contenuti della
legislazione interna che la disciplinano). Peraltro, i limiti inerenti al principio di attribuzione, consacrato
dall’art. 5 TFUE, possono essere varcati se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere
conseguiti in maniera efficiente dagli Stati membri, né a livello centrale, né a livello regionale, ma possono,
a motivo della portata e degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.
Le istituzioni comunitarie dispongono così, oltre che di poteri numerati risultanti dal principio di
attribuzione, anche di poteri impliciti. Del Trattato di Roma si è ritenuto per decenni che avesse il rango
della fonte con la quale era stato reso esecutivo, quindi il rango di legge ordinaria, sicché le norme del
Trattato tanto non sfuggirebbero ai comuni principi sulla successione della legge nel tempo e potrebbero
essere abrogate o modificate da norme interne successive. Questo indirizzo fu modificato nel 1975 quando
la Corte costituzionale, con riguardo ai regolamenti comunitari ma con dichiarazione di principio che
investe tutte le norme comunitarie direttamente applicabili, espresse l’avviso che una legge interna
successiva (al Trattato o al regolamento), in contrasto con la norma comunitaria, è da considerare
costituzionalmente illegittima per violazione dell’art 11 Cost. La prevalenza del diritto comunitario sulle
leggi interne era assicurata così dal controllo di costituzionalità. L’effetto pratico risultava, tuttavia,
insoddisfacente. Una legge ordinaria illegittima, perché in contrasto con una norma del Trattato o di un
regolamento comunitario, rimaneva in vigore e poteva comunque impedire l’applicazione della norma
europea finché la Corte costituzionale non l’avesse annullata per violazione dell’art. 11 Cost. Con la sent. n.
170/1984 l’impostazione cambia. All’art. 11 Cost., viene riconosciuta un’efficacia diversa. Dalla disposizione
in esso contenuta non deriva più l’illegittimità costituzionale della norma interna contrastante con la norma
comunitaria, ma il riconoscimento al diritto interno e al diritto comunitario di due diversi ambiti di
competenza. Il diritto interno si ritrae di fronte alle regole comunitarie. Queste ultime sono direttamente
applicabili, con l’effetto non già di caducare la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale
norma venga in rilievo. Da qui l’obbligo dello stesso giudice ordinario di non applicare o disapplicare la
norma interna illegittima, a nulla rilevando che essa sia anteriore o posteriore alla norma comunitaria.
Viene così soddisfatta l’esigenza di un’applicazione uniforme e contestuale del diritto comunitario
all’interno di ciascuno dei paesi membri. Problemi specifici sono sorti in relazione alle fonti comunitarie
derivate. L’art. 288 TFUE elenca come fonti derivate il regolamento e la direttiva: il primo è obbligatorio in
tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri; la direttiva vincola lo Stato
membro cui è diretta.

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