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BO LLET T I N O F I LO S O F I C O

Annuario a cura del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria

A11
215/4
Bollettino Filosofico
XXV (2009)

Sensazione e immaginazione

a cura di
Romeo Bufalo
Pio Colonnello
Copyright © MMX
ARACNE editrice S.r.l.

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

via Raffaele Garofalo, 133/A-B


00173 Roma
(06) 93781065

ISBN 978–88–548–xxx–x
ISSN 1593–7178

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di riproduzione e di adattamento anche parziale,
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senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: luglio 2010


Bollettino Filosofico XXV (2009)
Sensazione e immaginazione
a cura di ROMEO BUFALO e PIO COLONNELLO

Premessa ..................................................................................................................................................................................... p. 7
SEZIONE MONOGRAFICA
ADA BIAFORE
Tra le parole e le cose: il ruolo della sensazione e dell’immaginazione
nelle forme di organizzazione dell’esperienza .................................................................................................. p. 15
ROMEO BUFALO
La base sensibile dell’immaginazione in Kant .................................................................................................. p. 28
FELICE CIMATTI
Il limite tattile dell’io. Storia naturale della soggettività corporea ..................................................... p. 56
PIO COLONNELLO
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant.
Rileggendo l’interpretazione di Heidegger ......................................................................................................... p. 69
VALENTINA CUCCIO
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica:
l’invarianza nella variabilità .................................................................................................................................... p. 81
MARIA CHIARA GIANOLLA
Nudità e rivelazione ........................................................................................................................................................ p. 95
ALFREDO GIVIGLIANO
L’immaginazione sociologica. Tra scienza, soggetto e strutture sociali ............................................ p. 110
MARCO MAZZEO
Contro l’universale: immaginare il comune .................................................................................................... p. 135
LUCA PARISOLI
Concetti universali senza rappresentazione ..................................................................................................... p. 149
SANDRA PLASTINA
La sospensione delle differenze. Scetticismo, immaginazione e questioni di genere
a partire dai Saggi di Montaigne ......................................................................................................................... p. 174
ROCCO SACCONAGHI
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose ....................................................................... p. 193
STEFANO SANTASILIA
Della comunità del sentire.
Evidenza e sensus communis in Eduardo Nicol ...................................................................................... p. 210
CARLO SERRA
Mahler lettore di Nietzsche ...................................................................................................................................... p. 222

5
6

SONIA VAZZANO
Tra senso e visione: la riflessione sulle passioni in Lady Damaris Masham ................................. p. 256

VARIA E DISCUSSIONI
INES ADORNETTI
Fondamenti cognitivi della trasmissione culturale.
Il caso della credenza religiosa ............................................................................................................................... p. 271
GRAZIA BASILE
Dire le cose con ironia (in memoria di Tommaso Russo) ......................................................................... p. 291
FABRIZIO BONACCI
Forma logica e contesto nei modelli di trasmissione dell’informazione fra individui.
Processi di codifica/decodifica vs processi inferenziali ............................................................................. p. 300
ARMANDO CANZONIERI
Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente ......................... p. 322
ANNA CIPPARRONE
Il camerino dei marmi di Alfonso d’Este e il suo apparato epigrafico
di ispirazione senecana: uno Speculum Principis realizzato
con il connubio di immagini scolpite e latinae litterae .......................................................................... p. 332
ANNA DE MARCO
Diminutivi, genere e cortesia linguistica: un approccio sociocostruttivista ....................................... p. 342
ROSSELLA DE ROSE
Sulla filosofia della tragedia. La morte dell’Anticristo ............................................................................ p. 362
EMILIO M. DE TOMMASO
Sulle ginocchia di Uriel.
La tragica vicenda di Da Costa e la sua influenza su Spinoza ........................................................... p. 377
CARLO FANELLI
Retorica e conoscenza della natura umana nella commedia del Rinascimento .......................... p. 393
ANTONIA GIGLIO
Perdonare l’imperdonabile ........................................................................................................................................ p. 407
GIUSEPPE MACCARONI
Simone Weil: questione antropologica e riflessione politica .................................................................. p. 423
EUGENIA MASCHERPA
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh ................................................................................................ p. 441
SPARTACO PUPO
Forme di ‘cosmologia politica’ nel Novecento .................................................................................................. p. 461
EMILIO SERGIO
Parrasio in Calabria e la fondazione dell’Accademia Cosentina ( II): 1521-1535 .................. p. 487

RECENSIONI ..................................................................................................................................................................... p. 519

NORME EDITORIALI ................................................................................................................................................... p. 559


PREMESSA

Il numero XXII (2006) del Bollettino filosofico era dedicato al tema “Forma
e immagine”1. Quello che qui viene presentato si intitola “Sensazione e im-
maginazione”. Cos‟è, potrebbe chiedersi qualche lettore, una seconda punta-
ta sullo stesso argomento, o, peggio, una ripetizione, con altre argomenta-
zioni ed altri autori, di quanto era stato già detto?
Queste domande tradiscono la persistenza di un atteggiamento storiogra-
fico assai diffuso da noi: quello che orienta la propria attenzione prevalente-
mente, se non esclusivamente, sulle identità e sulle affinità, più che sulle dif-
ferenze e le divergenze; sulle unità più che sulle diversità. Il problema però è
che, polarizzando le energie sulle unità o sui lati generali–comuni del feno-
meno investigato (sia nell‟ambito della storia delle idee che, più in generale, in
quello della storia economica e sociale), si perdono di vista le caratteristiche
particolari, i tratti specifico–determinati, con le molteplici costellazioni di senso,
attraverso cui quel fenomeno concretamente si è via via presentato nella sto-
ria del pensiero. Eppure, l‟esigenza metodica di tenere insieme, in un rap-
porto di reciproca „illuminazione‟, lati comuni e tratti specifico–differenziali
in ogni indagine critica è stata raccomandata da pensatori anche fra loro di-
stanti quanto a scelte e risultati teorici complessivi della loro riflessione: dal
Marx della celebre (almeno fino a qualche decennio fa) Introduzione a Per la
critica dell’economia politica, allo Schopenhauer de La quadruplice radice del prin-
cipio di ragion sufficiente, giusto per fare qualche nome non secondario della sto-
ria del pensiero occidentale. Ma proprio per questo la „regola‟ a cui si è fatto
cenno si rivela particolarmente significativa e feconda.
Questo preambolo metodologico per dire che „immagine‟ e „immaginazio-
ne‟, pur avendo la stessa radice linguistica (= lato comune), presentano tut-
tavia peculiarità teoriche diverse (= tratti specifico-determinati). L‟immagi-
ne è un prodotto, cosa finita, ergon, che stabilisce un certo rapporto con ciò di
cui è immagine, che possiede un suo statuto ontologico, ecc. L‟immagina-
zione è invece energheia, attività con cui si producono le immagini. Ma non so-
lo (e non necessariamente) immagini. In Kant, per esempio, al quale, come
era giusto che fosse, è dedicato molto spazio negli interventi della sezione
monografica, l‟immaginazione trascendentale è una facoltà sintetica che gene-
ra immagini, ma anche schemi. E gli schemi non sono immagini, ma criteri per

1 Ricordiamo che il numero XXIV (2008) era dedicato al tema “Linguaggio ed emozioni”.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 7-11 7


8 Romeo Bufalo Pio Colonnello

la formazione dei giudizi. È pertanto del tutto evidente che, avendo una valen-
za conoscitiva, l‟immaginazione stia in strettissima connessione con quello
stadio originario del processo gnoseologico che è la sensazione.
Eppure, questa importante funzione, non solo teoretica, ma anche etica
(per gli evidenti risvolti pratici connessi ai giudizi) svolta dall‟attività im-
maginativa, non sembra essere di casa nei modi di pensare più comuni.
Non si sente spesso dire, infatti, a proposito di qualcuno, che ciò che egli
sostiene è il “frutto della sua immaginazione”; o, a proposito di qualcun al-
tro, che è dotato di una “fervida immaginazione”? In entrambi i casi si sot-
tintende che un conto è il “sano intelletto”, fondato sull‟analisi, l‟identità,
ecc.; un altro è invece quello strano potere sintetico della nostra vita men-
tale (wit) che, per esempio secondo il Locke del Saggio sull’intelletto umano,
anche se produce «quadri piacevoli per l‟immaginazione», tuttavia genera
figure, immagini, simboli, ecc., in maniera indiretta, battendo sentieri che
ci allontanano dalla «retta ragione».
Da questo punto di vista, si registra una inaspettata convergenza fra le posi-
zioni anti-immaginative di Locke e quelle, analoghe, espresse in più luoghi da
Cartesio. Ernesto Grassi ha ricordato che, da quando Cartesio, per rifondare la
filosofia, escluse da essa le cosiddette „discipline umanistiche‟, il problema del-
l‟immagine e dell‟immaginazione «non solo viene trascurato nelle discussioni
filosofiche, ma addirittura eliminato». È pertanto a partire dall‟età cartesiana
che «il discorso razionale, cioè scientifico, e quello patetico, cioè retorico, sono
stati separati, e la retorica, il linguaggio immaginifico, è stata esclusa dalla scien-
za filosofica»2. Paul Ricoeur, da parte sua, ha scritto che, a partire da Cartesio,
«la lotta contro lo psicologismo è, essenzialmente, una lotta contro l‟immagi-
nazione nella sua pretesa gnoseologica»3. Infine, Giovanni Piana ha sostenuto
che, fino al Neopositivismo viennese, l‟immaginazione è stata pacificamente
«connessa all‟irrazionale»; mentre, su un altro versante (quello francese), Ga-
ston Bachelard considerava, più o meno negli stessi anni (soprattutto ne La for-
mazione dello spirito scientifico), l‟immaginazione come uno dei più seri «ostacoli
epistemologici» che frenano lo sviluppo della scienza4.
Il quadro che dunque si presenta agli occhi dello storico delle idee, rela-
tivamente all‟immaginazione (ed alla sensazione, che quasi sempre ne ha
condiviso le sorti) vede fronteggiarsi due linee teoriche. Una è quella che

2 E. GRASSI, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Milano, Guerini & As-

sociati, 1989, p. 13.


3 P. RICOEUR, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, a cura di R. Messori, Palermo,

Centro Internazionale Studi di Estetica, 2002, p. 41.


4 G. PIANA, La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Milano,

Guerini & Associati, 1988, p. 15.


Premessa 9

scorge in essa un‟attività sostanzialmente secondaria e marginale nella vita


dello spirito, di scarsa o nessuna utilità ai fini della „vera‟ conoscenza; una
facoltà che genera prodotti effervescenti, brillanti, piacevoli, ma „apparen-
ti‟, finti, estetizzati (cioè falsi). L‟altra è invece quella che, come si è detto,
attribuisce all‟immaginazione un ruolo molto importante, se non decisivo,
nel processo di formazione e di crescita del pensiero, in quanto si colloca
«a mezza strada tra il concreto e l‟astratto, tra il reale e il pensato, tra il
sensibile e l‟intelligibile»5, e rappresenta il modo più efficace di andare al
di là del sensibile stando dentro il sensibile stesso. Ci fa intravedere il so-
vrasensibile con occhi sensibili.
Questa linea risale ad Aristotele, per il quale l‟immaginazione si con-
figura già come una sorta di trascendentale ante litteram, non tanto perché
essa svolge un ruolo intermedio tra aisthesis e noesis, quanto perché sembra
costituire la condizione di possibilità della vita sensibile. Essa si attiva anche
quando la sensazione non c‟è, ma se ne desidera la presenza; in questi casi,
la facoltà immaginativa si mette al lavoro per render presente l‟oggetto
dell‟orexis, ossia del desiderio. Da questo punto di vista, l‟immaginazione è
ciò che amplia i confini del mondo al di là di ciò che realmente (ed im-
mediatamente) percepiamo. È questo il ruolo che Aristotele assegna alla
phantasia aisthetiké, ossia all‟immaginazione sensibile o „estetica‟.
Tale prospettiva conoscerà interessanti riprese e diverse configurazioni
teoriche nel corso del Settecento (ad opera di autori come Gerard, Ad-
dison Diderot, Condillac, Vico, i quali variamente richiameranno l‟atten-
zione sull‟immaginazione come facoltà che ha il compito di „trasportare‟ il
sensibile verso l‟intelligibile), e culminerà nella Critica della facoltà di giudi-
zio di Kant e negli scritti di estetica di Schiller, il quale, sviluppando in mo-
do originale le idee kantiane, sostiene che l‟immaginazione estende la no-
stra ragione al di là della causalità meccanica del mondo naturale, conci-
liando, attraverso un „libero gioco‟ immaginativo, la sfera sensibile e quella
intelligibile.
Senonché, l‟aspetto proiettivo–creativo, che in Kant (come in Aristote-
le), alla stregua di un trascendentale, rimaneva saldamente ancorato al pia-
no empirico–fenomenico, scioglie decisamente gli ormeggi con il Romanti-
cismo, dove acquisterà una potenza che non le era mai stata riconosciuta,
ed il potere creativo dell‟immaginazione si affermerà addirittura contro la
natura e la realtà nella loro concretezza storica. Questo avviene, in parti-
colare, con gli inglesi (Coleridge, Wordsworth, Shelley). Ma anche i tede-

5 J.J. WUNENBURGER, Filosofia delle immagini, a cura di S. Arecco, Torino, Einaudi,

1999, p. XI.
10 Romeo Bufalo Pio Colonnello

schi non scherzano. A parte Hegel, che distinguerà una immaginazione pas-
siva da una phantasie iperattiva, Fichte considera l‟immaginazione alla base
del processo con cui l‟Io si pone, ad un tempo, come finito e infinito.
L‟esito di questo lungo ed accidentato percorso è però quello, ideali-
stico, di una fuoriuscita dell‟immaginazione dai confini dell‟esperienza sen-
sibile. Essa infatti, specie in Novalis, guadagna uno statuto talmente auto-
nomo da non aver bisogno più dei sensi (come invece ancora accadeva in
Kant ed in Schiller), e finisce con l‟abolire, in quanto forza totalmente au-
togenerativa, ogni esteriorità ed ogni alterità6. Bisognerà aspettare il Nove-
cento perché venga recuperato e rilanciato il ruolo gnoseologico dell‟im-
maginazione ed il suo contributo fondamentale in ordine all‟organizzazione
ed alla crescita del pensiero, soprattutto ad opera di pensatori come Hus-
serl, Sarte, Della Volpe, Brandi, Hannah Arendt, solo per citare i nomi più
significativi in tal senso.
Si pone, a questo punto, una questione teoreticamente decisiva: l‟im-
maginazione, esprime un contenuto di verità? E se sì, di che tipo di verità
si tratta? È la verità dell‟intelletto o una verità che fa capo ai sensi? Mau-
rizio Ferraris ritiene, giustamente, che quella che si afferma con l‟immagi-
nazione sia una verità estetica nel senso baumgarteniano del termine. Una
verità, cioè, connessa ad una «scienza della conoscenza sensibile», in cui
abbiamo a che fare con immagini «chiare» ma «confuse», e non «distinte»7
(come pretendeva Cartesio). Ed il fatto che siano confuse, non vuol dire
che siano, automaticamente, irrazionali. Semmai, in esse si trovano più ra-
gioni fuse insieme, cum–fusae, nessuna delle quali predomina sulle altre.
La fisionomia dell‟immaginazione si arricchisce qui di un nuovo profilo.
Essa infatti, oltre alla capacità di andare oltre il sensibile mediante il sensibi-
le; oltre a configurarsi come una dimensione intermedia tra sensazione e ri-
flessione, si precisa come lo sfondo entro cui prendono consistenza e la vita
emotiva e la vita cognitiva. Anzi, più radicalmente, possiamo forse dire che
non ci sono esperienze puramente emotive–sensibili, senza una qualche com-
ponente intellettuale; così come non ci sono esperienze puramente cognitive
prive di qualsiasi aspetto emotivo–retorico. È, in fondo, quello che diceva,
quasi tre secoli fa, Alexander Baumgarten quando, nelle Riflessioni sul testo
poetico del 1735, sosteneva che una ineliminabile componente retorica carat-
terizza anche il più asciutto dei discorsi scientifici, così come una dimensione
concettuale–conoscitiva è presente anche nel discorso poetico più alto.

6 E. FRANZINI, M. MAZZOCUT-MIS, “Immaginazione”, in EOD., Estetica, Milano, Bruno

Mondadori, 1996, pp. 241-243.


7 M. FERRARIS, Immaginazione, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 21.
Premessa 11

L‟aspetto più interessante, dalle considerazioni fin qui svolte a pro-


posito dell‟immaginazione, è quello che la vede come attività che trasporta,
metapherei, il sensibile dentro l‟intelligibile. Per fare questo non può col-
locarsi tra l‟uno e l‟altro. Non può essere qualcosa che viene dopo il sensi-
bile e prima dell‟intelligibile. Essa è piuttosto ciò che precede entrambi ren-
dendoli possibili8. In tal modo l‟immaginazione assicura validità logica alla
sfera delle sensazioni ed una base empirica a quella dei concetti.
Quelli che abbiamo qui elencati sono solo alcuni dei nodi storici e teo-
rici posti all‟attenzione contemporanea dall‟immaginazione e dalla sensa-
zione come categorie intorno a cui a lungo si è esercitata la riflessione filo-
sofica. Intorno a questi nodi, ed ai problemi da essi generati, si muovono
tutti, o quasi tutti, i saggi che formano la sezione monografica del presente
numero del Bollettino filosofico.

Università della Calabria, gennaio 2010 Romeo Bufalo


Pio Colonnello

8 Ibid.
Sezione I

Sensazione e immaginazione
ADA BIAFORE

Tra le parole e le cose:


il ruolo della sensazione e dell’immaginazione
nelle forme di organizzazione dell’esperienza

Senza l’immaginazione, non vi


sarebbe somiglianza fra le cose.
(M. FOUCAULT, Le parole e le cose)

«La mente non è uno specchio della natura»: con questa breve affermazio-
ne, convincente quasi quanto un aforisma, Gerald Edelman1 sembrava li-
quidare agli inizi degli anni Novanta una costellazione di teorie filosofiche e
di posizioni empiriche che fino ad allora erano prevalse nel dibattito rela-
tivo al rapporto tra percezione, cognizione e azione. Brevemente, l‟atteg-
giamento epistemologico criticato da Edelman consisteva nel credere che il
rapporto conoscitivo tra il soggetto e il mondo fosse oggettivo, coinvolgesse
le due polarità come entità statiche e si risolvesse in una relazione fissa tra
stati mentali e stati di cose. La metafora computazionale del cervello come
calcolatore, insieme alla considerazione del linguaggio come una funzione
autonoma della mente, un modulo (innato e indipendente dalle altre fun-
zioni cognitive) richiedevano, infatti, una concezione degli oggetti del mon-
do come appartenenti a categorie prefissate le quali mediante una correla-
zione formale con determinate parti del linguaggio (i significati) e del pen-
siero (i concetti) garantivano la presa della mente sul mondo. In questo
modo l‟esperienza e la conoscenza si riducevano a serie di elaborazioni di
informazioni svolte mediante la computazione di simboli formali „stanti
per‟, rappresentazioni di cose o eventi. Questo paradigma (a cui si è soliti
fare riferimento come „cognitivismo classico‟) sembra essere stato sosti-
tuito, negli ultimi quindici anni, da un moto „rivoluzionario‟, quello delle
scienze cognitive incarnate: la denuncia del dualismo implicitato dalla visio-
ne computazionale e modulare della mente è stata supportata da una „ri-
scoperta‟ del corpo e da una ibridazione dei campi di ricerca convergenti
nell‟attenzione, teorica e sperimentale, attribuita alle correlazioni tra pen-
siero e attività corporea.

1 EDELMAN 1993.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 15-27 15


16 Ada Biafore

La cognizione è legata al nostro corpo e ai processi sensomotori e non


può consistere di manipolazioni formali su simboli astratti: tale inversione
modifica fortemente i rapporti tra sensazione e immaginazione, tra perce-
zione e azione, tra esperienza e conoscenza. Nello specifico l‟obiettivo di
questo lavoro sarà quello di chiarire cosa comporta l‟adesione al „nuovo‟
paradigma relativamente alla questione della formazione dei concetti (in
rapporto a quella dello sviluppo e dell‟uso dei significati). Tenteremo di
comprendere se il modello di organizzazione della conoscenza proposto
dalle teorie embodied per spiegare l‟emergenza e il funzionamento dei con-
cetti relativi a oggetti concreti può veramente funzionare ed essere esteso,
come sostengono alcuni, all‟intero sistema concettuale (e quindi ai concetti
che esemplificano relazioni, proprietà o entità astratte).
Per rapportarci agli oggetti e agli eventi nel modo proprio in cui noi es-
seri umani lo facciamo, infatti, non abbiamo bisogno soltanto di una buona
competenza referenziale, ma è necessario anche che siamo in grado di co-
gliere le relazioni di tipo non logico che esistono tra oggetti ed eventi. Il
modo proprio degli uomini di rapportarsi al mondo comprende il dare ra-
gione di quanto accade o poterne dubitare allontanandosi dalla situazione
presente, fare congetture, immaginare situazioni controfattuali, concepire
mondi possibili diversi da quello immediatamente percepito. Per questo è
necessaria anche una capacità inferenziale, che sembra essere mutuata con-
tinuamente dalle connessioni sistematiche tra i segni che usiamo per rife-
rirci alle cose, le parole. Bisognerà quindi chiarire se i nostri processi co-
gnitivi partecipino (o vengano innescati) di quella dimensione simbolica
propria del sistema linguistico e in quale misura la simbolizzazione abbia un
ruolo creativo nell‟organizzazione cognitiva dell‟esperienza e del pensiero
oppure se, viceversa, essi non siano indipendenti e precedenti (ontogenesi-
camente e filogeneticamente) alla introduzione ai significati linguistici.

1. Ancorare la mente al corpo

I punti forti delle teorie della cognizione incarnata appaiono meglio se


si prova a guardare allo sviluppo di modalità (e modelli) di organizzazione
dell‟azione e della conoscenza umane immaginando scenari evolutivamente
distanti dalle società moderne. In tutte infatti viene evidenziata la relazione
di circolarità e mutua influenza tra azione e percezione, che condividereb-
bero anche i codici di realizzazione neurale. Allo stesso modo l‟azione sa-
rebbe fortemente legata alla conoscenza: in virtù di processi cognitivi riu-
Tra le parole e le cose 17

sciamo ad agire nel proprio ambiente mentre l‟elaborazione di informa-


zione „saliente‟ garantisce la riuscita delle azioni che compiamo2. La capa-
cità di adattarsi efficacemente (agendo in maniera appropriata) al proprio
ambiente avrebbe certamente favorito gli ominidi (e non solo, poiché al-
cune soluzioni neurali sono comuni anche ai primati non umani) e avrebbe
pure selezionato alcune strade „neurali‟ preferenziali (si pensi alle popo-
lazioni di neuroni specchio e di neuroni canonici). Scrive Barsalou 3 :
«„Grounded cognition‟ reflects the assumption that cognition is typically
grounded in multiple ways, including simulations, situated action, and, on
occasion, bodily states»: ad un approccio proposizionale rappresentazionale
amodale e astratto si sostituisce una forma di conoscenza situazionale ba-
sata su formazioni contestuali e locali, situate, riattivate da simulazioni
neurali. Per quanto riguarda lo specifico del nostro argomento, questo si
riflette nell‟idea che le caratteristiche fisico–percettive degli oggetti di es-
perienza ne caratterizzino la concettualizzazione in agglomerati contingenti
di informazione. Le rappresentazioni concettuali sono «immagini percet-
tive schematiche» (BARSALOU, 1993) estratte da tutte le modalità esperien-
ziali, esse sono inoltre composizionali in senso debole (ma sufficiente a ga-
rantire loro una relativa flessibilità), nel senso di essere costituite analiti-
camente come componenti più piccoli di una immagine e di escludere mol-
ta informazione percettiva. A partire dai prodotti dell‟attività delle trasdu-
zioni sensoriali vengono selezionati sottoinsiemi di stati che possono essere
utili per l‟azione futura, questi vengono estrapolati per poi essere utilizzati
o composti.
A giocare un ruolo cruciale per la loro formazione e il successivo utiliz-
zo è il meccanismo di attenzione selettiva, per cui l‟aspetto dell‟esperienza
„estratto‟ viene immagazzinato nella memoria a lungo termine: è allora che
inizia a funzionare come un simbolo percettivo.
La proposta di Barsalou4 si rivela abbastanza articolata e tiene in conto
anche del processo di sviluppo dei simboli percettivi: mediante il principio
«un-frame-per-una-entità» ipotizza una rappresentazione degli individui
mediante ampie collezioni di simboli percettivi integrati per formare una
rappresentazione unificata e continuativa. Si aumenta via via in generalità e
trascendenza: mediante la creazione di modelli–mondo e di modelli situa-
zionali diventa possibile organizzare credenze generali su tipi di cose nel

2 WILSON 2002.
3 BARSALOU 2008a.
4 BARSALOU 2003.
18 Ada Biafore

mondo (catturando similarità importanti tra i modelli) ma pure costruire


insiemi di modelli del mondo in base ai quali è possibile processare l‟infor-
mazione proveniente da entità non familiari ma riconosciute come istanze
del modello. Nel passaggio (e attraverso i rapporti) da situazioni episodiche
(in cui l‟informazione nuova va a specializzare quella preesistente integran-
dosi a essa) e situazioni generiche (attivazione di costanti generiche a parti-
re da situazioni episodiche somiglianti e correlate tra loro) sembra prodursi
un processo di astrazione sempre maggiore: le situazioni generiche non han-
no una controparte diretta nel mondo fisico ma sono invece più simili, onto-
logicamente, a tipi. Infatti oltre a criteri „sintattici‟ per stabilire comunanze e
costanze tra situazioni diverse vengono utilizzate largamente le conoscenze e
le credenze di sfondo per generare situazioni generiche (le quali arrivano a
contenere modelli astratti di individui piuttosto che frames di individui, in
modo tale da essere applicabili ad una varietà di situazioni fisiche).
Si vede dunque come la presentazione e la difesa di questa tesi sulla for-
mazione concettuale non implica automaticamente una negazione della
complessità dei modi di riferimento e delle operazioni cognitive che possia-
mo compiere con essi 5 : l‟informazione percettiva è incorporata diretta-
mente nei concetti durante interazioni semplici con le loro „controparti‟
nel mondo (se si tratta ad esempio di oggetti manipolabili) ma quando sono
in gioco azioni complesse e orientate a un fine che incorporano oggetti
complessi si accede a informazione percettiva e situazionale più generica
che orienta, in maniera flessibile, la risoluzione del compito.
In questa prospettiva, dunque, un concetto può essere definito come la
«collezione di tutti i modelli specializzati per un particolare tipo di indi-
viduo, insieme alle situazioni generiche associate» e non è possibile farne
una analisi per tratti (a causa dello stesso fenomeno descritto da Wittgen-
stein per il concetto di „gioco‟: potrebbe non esserci informazione comu-
ne a tutte le istanze attraverso tutte le situazioni). Durante l‟ultimo decen-
nio le ricerche di Barsalou6 si sono concentrate sempre maggiormente sul
ruolo del corpo e della simuazione nella cognizione, ovvero su quel pro-
cesso di «reenactment of percentual, motor, and introspective states acqui-
red during experience with the world, body and mind »7. In altre parole:
le stesse rappresentazioni che si generano durante i processi on–line (la
percezione o la pianificazione motoria) vengono rese disponibili per pro-

5 Cf. BARSALOU 1993, BARSALOU 2008a, BORGHI 2005.


6 E non solo: si veda BARSALOU 1999, DECETY & GRÈZES 2006, GOLDMAN 2006.
7 BARSALOU 2008a, p. 618.
Tra le parole e le cose 19

cessi off–line (il ricordo, il ragionamento, la pianificazione del comporta-


mento, la comprensione e la produzione linguistica) mediante la riatti-
vazione degli stessi pattern neurali8. Esse dunque hanno una fondazione ine-
quivocabile nei sistemi percettivo–motori e sono altamente flessibili e
dinamiche: le strutture di conoscenza multimodali immagazzinate in me-
moria (i concetti o simulatori) sono raggruppate in sottoinsiemi che si at-
tivano in maniera diversificata al fine di costruire simulazioni specifiche. Si
alleggerisce così il carico di predisposizioni necessarie allo sviluppo del si-
stema concettuale: non sono necessari un sistema simbolico astratto in-
terno (un linguaggio del pensiero o mentalese), né una innata predisposi-
zione a ritagliare la realtà mediante nozioni primitive di oggetto, causa,
continuità spazio–temporale etc., né una corrispondenza tra tali strumenti
di ritaglio e le ripartizioni categoriali delle cose stesse. Oltre ad una serie
di questioni aperte, fonti di dibattito interno tra i sostenitori della cogni-
zione incarnata (quali ad esempio l‟opportunità di fare a meno della nozio-
ne di rappresentazione, oppure se la mancata esibizione di inclinazione al-
l‟imitazione in primati che posseggono le stesse famiglie neurali reputate
responsabili della simulazione nell‟uomo metta o meno in questione il con-
cetto stesso di simulazione) quello che sembra quasi impossibile che tali
teorie di formazione concettuale riescano a soddisfare è il «requisito della
generalità»9. Esse infatti sembrano destinate al fallimento nel momento in
cui vengono estese alla spiegazione della formazione e del funzionamento
dei concetti astratti: i numerali, i concetti di democrazia, povertà, bellezza,
i connettivi logici resistono all‟incorporazione in schemi percettivo–motori
sensoriali. Le cose non sembrano andare meglio quando si tratta di rendere
conto degli usi metaforici (o astratti) di parole (relative a concetti) concre-
te. Nel prossimo paragrafo prenderemo in esame due esempi provenienti
dalla letteratura presente in materia soffermandoci in modo particolare sul-
la ricostruzione del significato del verbo «grasp» e del passaggio dal suo uso
«concreto» («afferrare un oggetto») a quello metaforico o astratto («affer-
rare una idea») fornita da Fiedelman e Narayan10 utilizzando gli strumenti e
i concetti delle teorie neurali incarnate del significato e descrivendo un
esperimento11 relativo alla attivazione di informazione percettiva da parte
dei concetti concreti e astratti.

8 JANNEROD 2006.
9 COLIVA 2006.
10 FELDMAN, NARAYANAN 2003.
11 BAZZARIN, FREINA, BORGHI, NICOLETTI 2006.
20 Ada Biafore

2. «I limiti dei nostri modelli sono i limiti del nostro mondo»

Quello dell‟incapacità di rappresentare i concetti astratti è un rimpro-


vero ormai classico per le teorie della cognizione situata. Come è possibile
che teorie che si basano sulla simulazione modale riescano a spiegare con-
cetti che non sono modali? I sostenitori della cognizione incarnata si difen-
dono ribattendo che una simile obiezione è dovuta a un errore prospettico:
si crede infatti che in una visione incarnata il contenuto concettuale possa
derivare soltanto dalla percezione del mondo esterno, invece, poiché gli
individui percepiscono anche stati interni, il contenuto concettuale può de-
rivare anche dalle risorse interne. L‟informazione introspettiva sarebbe co-
sì centrale nella rappresentazione di concetti astratti12 e attiverebbe le stes-
se procedure di simulazione degli stati esterni. Fieldman e Narayanan af-
frontano, seguendo questa direzione, il problema di come è possibile com-
prendere e produrre i significati linguistici. L‟esempio da loro preso in con-
siderazione è quello del verbo grasp, afferrare, e l‟ipotesi generale di par-
tenza è che i parlanti comprendano cosa significano gli enunciati mediante
l‟immaginazione subconscia (o simulazione) della situazione che da questi
viene descritta.
Afferrare è un buon esempio. Gli autori sostengono che il cuore del se-
mantico della parola sia la sinergia complessa che supporta l‟afferramento:
nell‟azione infatti intervengono una componente motoria, varie compo-
nenti percettive e delle componenti somato–sensorie. Le operazioni di pro-
duzione e comprensione del significato sono dipendenti dal contesto e so-
prattutto dai substrati multimodali neurali interessati nella processazione
delle azioni. Resta il problema di determinare come l‟enunciato è associato
a questo particolare tipo di significato. Bailey13 ha progettato un software
che modella l‟apprendimento delle parole del bambino attraverso differen-
ti domini di azione: uno dei requisiti per il buon funzionamento del pro-
gramma doveva dunque essere quello di catturare le differenze concettuali
esistenti tra le diverse lingue (lingue diverse utilizzano parole diverse con
relazioni tra le parole del tutto peculiari). A partire da uno schema sem-
plice di associazione tra l‟azione e la percezione di un suono (una „etichet-
ta‟ linguistica) Bailey ha riprodotto analoghi delle reti di controllo neurali.
Infatti a partire dagli stessi circuiti neurali le lingue selezionano e nominano,
in modi diversi, diversi aspetti dell‟azione in questione: lo spazio semanti-

12 BARSALOU & WIEMER-HASTINGS 2005, WIEMER–HASTINGS ET AL. 2001


13 D. BAILEY, 1997
Tra le parole e le cose 21

co di ogni insieme di concetti viene determinato mediante una parametriz-


zazione basata su un insieme di caratteristiche percettivo–motorie.
Questo modello, opportunamente adattato, potrebbe funzionare anche
quando le parole vengono usate in senso metaforico. Chiaramente, com-
prendere l‟utilizzo metaforico della parola afferrare è diverso dall‟afferrare
realmente qualcosa, ma il processo innescato è lo stesso, la produzione di
immagini subconsce. La comprensione14 degli usi metaforici di una parola è
relativa ad una mappatura sui loro significati incarnati sottesi. La capacità di
immaginare situazioni è centrale in questo modello di linguaggio: utilizzan-
do come base i domini principali (quelli relativi al significato concreto) del-
le parole il sistema metaforico proietta su di essi e da essi genera le inferen-
ze caratterizzanti del dominio–target (metaforico) relativo al significato
astratto. Questa ipotesi sarebbe sostenuta dagli studi neuro–scientifici (FA-
DIGA, FOGASSI, PAVESI & RIZZOLATTI, 1995) sui neuroni di azione–locazione
(che si attivano quando i soggetti ascoltano o vedono movimenti di oggetti
nel loro spazio peripersonale), sui neuroni specchio (attivi quando si osser-
vano azioni finalizzate e sui neuroni canonici (interessati sia che si osservino,
si pronuncino silenziosamente o ancora che si immagini di usare oggetti
artefatti sia che questi strumenti vengano effettivamente usati). In tal modo
ci sarebbe una robusta evidenza biologica a sostenere l‟idea che pianifica-
zione, ricognizione e immaginazione condividano un substrato rappresen-
tazionale comune e che i nostri modelli d‟azione e il loro utilizzo nella nar-
razione produca le stesse strutture all‟opera nella comprensione di enun-
ciati relativi a eventi sia concreti che astratti.
Per accorgersi che questa tesi non è così forte come sembra e che piut-
tosto che dirci qualcosa sulla natura dei significati e dei concetti ci dice sol-
tanto qualcosa o sulla loro realizzazione neuronale basta metterla alla prova
con una banale considerazione di buon (?) senso: „Mangiare fa ingrassare‟.
Questo è un enunciato in cui il verbo „mangiare‟ è usato in astratto: una a-
nalisi che ipotizza una correlazione costitutiva 15 tra la comprensione di
questa frase (e quindi di questo uso del concetto) e la rappresentazione cor–
porea dell‟azione „concreta‟ relativa non ne coglie certamente il senso.
Ancora, evidenze per la sostanziale diversificazione delle relazioni tra
informazione sensorio–percettiva e concettualizzazione astratta e concreta
arrivano da un esperimento16 sulla generazione di un effetto Stroop dalle

14 NARAYANAN 1997.
15 COLIVA 2008.
16 BAZZARIN, FREINA, BORGHI, R. NICOLETTI, cit.
22 Ada Biafore

parole concrete, che invece non si verifica con quelle astratte. L‟informa-
zione, in questo caso relativa al colore, viene attivata automaticamente da
parole che non designano un colore ma rimandano a referenti associati for-
temente ad un colore: quindi leggere la parola fragola scritto in rosso faci-
lita fortemente il compito di nominare il colore dell‟inchiostro (viceversa
lo inibisce la parola limone). Nel caso invece della lettura di parole „astrat-
te‟, pur se fortemente correlate ad un colore (quale ad esempio „passione‟)
non si verifica lo stesso effetto, anzi, le coppie incongruenti sono più veloci
di quelle congruenti. Questo risultato viene letto dagli autori dell‟esperi-
mento come una conferma che i concetti astratti, non riferendosi a oggetti,
attivino situazioni che interferiscono con l‟informazione percettiva. I pro-
blemi per le teorie della cognizione situata “continuiste” (ovvero che in-
tendono assimilare le distinzioni tra forme di concettualizzazione concreta
e astratta) aumentano: non soltanto appare poco plausibile una (ri)costru-
zione dei concetti astratti a partire da quelli concreti, ma sembra addirit-
tura che essi non condividano i circuiti di processazione dell‟informazione.
Uno studio recente17 relativo all‟attivazione di popolazioni neurali differen-
ziate nel riconoscimento di caratteri scritti relativi a concetti concreti o a
concetti astratti, Cinese smentisce infatti che le aree attive durante la lettu-
ra e la comprensione di parole “concrete” siano le stesse che “smaltiscono”
la comprensione di parole relative a idee o enti astratti: sembra allora im-
possibile sostenere che gli uni costituiscano il fondamento degli altri.
Più in generale sembra che l‟errore (o il controsenso?) in cui incappa
questa famiglia di teorie relativamente alle forme di organizzazione dell‟es-
perienza non stia soltanto nella grandezza dell‟impresa (ovvero nel tenta-
tivo di proporre una spiegazione “unica” per l‟insieme eterogeneo di forme
di interazione, conoscitiva e non, del soggetto col mondo) ma nell‟ordine
di discendenza e nella natura dei rapporti implicitati: le configurazioni per-
cettivo–motorie non stanno alla base della piramide in quanto più fonda-
mentali, non è necessario (e nemmeno giustificato) qualificarle come più
caratteristiche o fondanti dell‟agire propriamente umano. Di conseguenza i
comportamenti (e le forme di pensiero) che si allontanano da esse (la piani-
ficazione, il fantasticare, le barzellette) non devono essere risolte in forme
sbiadite o annacquate dei processi validi per le prime. Questo è tanto più
vero nell‟uomo che quando inizia a usare il linguaggio accede a forme di
comportamento, prassi, che non sono riducibili a spiegazioni nomologiche

17 K. KANSAKU, I. SHIMOYAMA, Y. NAKAJIMA, Y. HIGUCHI, S. NAKAZAKI, M. KUBOTA, F.

MORITA, T. KUSAKA, K. KATOH E A. YAMAURA, 1998


Tra le parole e le cose 23

dirette. È soltanto all‟interno di un sistema complesso, che tenga in conto


di un rapporto coevolutivo tra gli strumenti messi a disposizione dal siste-
ma linguistico e dall‟ambiente culturale e sociale e i processi psichici che si
istituiscono le condizioni di possibilità della costruzione di un pensiero auto-
cosciente, riflessivo e progettuale e che può essere affrontata l‟argomenta-
zione relativa alle gerarchie e alle relazioni di derivazioni esistenti tra di-
versi tipi di rapporti referenziali.

4. Correggere il tiro
Un buon esempio di “correzione del tiro” rispetto alle osservazioni con-
clusive del paragrafo precedente è offerto da Corballis18: Dalla mano alla
bocca presenta una ipotesi sull‟evoluzione del linguaggio (forse poco ori-
ginale, cf. CONDILLAC, 1746), delineando uno scenario evolutivo in cui i
primi segnali comunicativi volontari sarebbero stati, per varie ragioni, i
movimenti volontari di mani e braccia. Le azioni coinvolte nella costru-
zione di utensili potrebbero essere state utilizzate per rappresentare gli og-
getti stessi , allo stesso modo i gesti potrebbero essere serviti per descri-
vere la forma delle cose. In tal modo si sarebbero potute mimare intere se-
quenze di azioni (quali, ad esempio, battute di caccia) per insegnare ad altri
a fare qualcosa, pianificare una strategia congiunta o semplicemente per
raccontare la novità del giorno. Questo protolinguaggio soddisfa perlome-
no il requisito della composizionalità: è infatti possibile combinarne le uni-
tà in sequenze differenti mantenendo un legame strettissimo coi circuiti
motori propri delle azioni che rappresenta. Non ci soffermeremo né sul-
l‟argomentazione teorica utilizzata per sostenere questa tesi né sugli ulte-
riori passaggi che permettono a Corballis di approdare alle lingue parlate
moderne: sembra più proficuo per il nostro scopo riportare invece l‟analisi
relativa ai segni utilizzati dalle lingue dei segni moderne per rappresentare
concetti astratti.
Nonostante si tratti di sistemi linguistici che utilizzano il canale visuo–
spaziale, sfruttando a fini espressivi i primi strumenti di scoperta, manipo-
lazione e esperienza del mondo (la mano e le braccia) le lingue segnate ma-
nifestano, per quanto riguarda i concetti astratti, le stesse peculiarità di
quelle parlate. Mentre i segni per albero nelle lingue dei segni americana,
cinese e danese, pur differendo tra loro suggeriscono comunque qualcosa

18
CORBALLIS 2008.
24 Ada Biafore

di simile alla forma effettiva dell‟albero, quelli per buono e per vero non
mantengono alcuna relazione di somiglianza con alcunché (ed inoltre lo
stesso segno che sta per qualcosa in una lingua in un‟altra indica qualcosa di
completamente diverso) ed ancora, il segno per casa nella lingua dei segni
americana, all‟inizio era una combinazione di quelli per le azioni di man-
giare e dormire, poi si è trasformato perdendo l‟elemento iconico originale.
Corballis conclude: «la somiglianza iconica può servire a „mettere in moto‟
i segni, per così dire, ma perde la sua importanza una volta che i segni sono
consolidati»19: iconicità e arbitrarietà non sono opposti l‟uno all‟altro e non
possono essere risolti l‟uno nell‟altro, ma rappresentano gli estremi di un
continuo. Nell‟ultima parte di questo scritto vedremo come è impossibile
tentare di rendere conto dei modelli di organizzazione dell‟esperienza
umana senza considerare come esse vengano piegate e potenziate dall‟in-
gresso nella dimensione simbolica propria del linguaggio.

5. Il circolo diventa virtuoso: le forme simboliche dell’esperienza

In conclusione, proporremo un modo diverso da quello proposto dalle


teorie incarnate della cognizione per descrivere il processo di passaggio
dalle regolarità emergenti nell‟interazione soggetto–mondo alla costruzio-
ne mentale di image–schemata e poi di sistemi concettuali complessi. Per
Deacon20 lo specifico dell‟essere umano è la sua forma di pensiero simbolico:
la modalità propriamente linguistica di rappresentare oggetti, eventi e rela-
zioni, infatti, lo ha fornito di una economia del riferimento efficace come
nessun‟altra. Non soltanto è possibile generare una varietà infinita di nuove
rappresentazioni ma anche la capacità di predire eventi, pianificare azioni
ed effettuare inferenze è incomparabilmente maggiore e più efficiente. Ri-
prendendo Peirce21, Deacon sviluppa una gerarchia delle relazioni referen-
ziali senza soluzione di continuità: il riferimento simbolico poggia su quello
indicale che, a sua volta, dipende da quello iconico. Le relazioni iconiche a
loro volta, segnano insieme l‟avvio e l‟interruzione del processo interpre-
tativo (per noia o per disattenzione): si parte ri–conoscendo le cose mentre
quando smettiamo di cercare le differenze queste ci sembrano tutte uguali
tra loro. Man mano che si diventa competenti con un insieme di segni si

19
Ivi, p. 154.
20
DEACON 1997.
21
PEIRCE 1987 (1903).
Tra le parole e le cose 25

sostituiscono le interpretazioni iconiche con interpretazioni di livello su-


periore (indicali o simboliche). Questo processo si muove nel senso con-
trario rispetto a quello delineato all‟inizio del nostro lavoro: quando si ef-
fettua la ricodificazione simbolica di relazioni iconiche o indicali queste ul-
time si comportano come insight che devono essere estinti per eliminare le
risposte associative e separare i tratti astratti dal contesto di associazioni in-
dicali in cui sono inseriti. Le possibilità referenziali non vengono aumen-
tate dall‟incremento delle combinazioni tra occorrenze ma dalla compren-
sione di quali elementi possono essere combinati tra loro: ovvero dall‟indi-
viduazione di tratti semantici, dal loro „fare sistema‟ e, conseguentemente,
dall‟aggiunta continua (e ordinata) di nuovi elementi.
In questo senso l‟introduzione nel simbolico rende possibile la genera-
zione di azioni cognitive che non possono essere attivate dai concetti per-
cettivo–operativi. Si tratta di risposte interpretative di cui è capace soltan-
to l‟uomo: gli animali non umani, che pure sono, si muovono e agiscono
nel proprio ambiente, sono guidati da un tipo di organizzazione cognitiva
(e conseguentemente comunicativa) che li orienta verso reazioni preordi-
nate, le uniche possibili in quel contesto, rigidamente associate con gli og-
getti o le situazioni che le hanno originate. Nel caso dell‟uomo invece oltre
al riferimento indicale della co–occorrenza tra oggetto e segno esistono as-
sociazioni stabili tra le parole: così prende forma un sistema di relazioni di
ordine superiore che consente di implicare (e incorporare gerarchicamente)
relazioni indicali. Questo potere indicale distribuito nelle relazioni tra le
parole permette di potere effettuare associazioni tra parole, ad esempio re-
lative a entità astratte, non meno solide e cogenti di quelle esistenti tra le
parole concrete. Le associazioni, o somiglianze, tra le cose e la capacità di
trasferire relazioni simili da un contesto all‟altro sono, in questa logica, sia
causa che effetto della manipolazione simbolica.
Si apre non soltanto la strada ad una diversa comprensione delle moda-
lità di formazione del sistema concettuale ma anche ad una differente con-
siderazione dell‟azione stessa. Alcune tendenze verso l‟azione (gli abiti)
non sono necessariamente comprese nelle disposizioni naturali, per cui è
impossibile comprenderle appieno e spiegarle in base a relazioni nomo-
logiche con i circuiti neurali che le implementano. Esse possono essere
prodotte soltanto dagli interpretanti, da media simbolici: ma non per que-
sto non partecipano e non costituiscono la nostra esperienza del mondo. In
questo modo non soltanto ci si libera dal giogo della co–occorrenza mec-
canica e della regolarità delle relazioni mente–mondo (quali ad esempio lo
26 Ada Biafore

sono quelle indicali, per cui all‟affievolirsi della relazione scompare il rap-
porto di significazione e allo stesso modo le simulazioni d‟azione associate
alla loro comprensione), ma si guadagna la possibilità di pensare cose mai
fatte, di arricchire e modificare i propri modi di guardare al mondo. Con-
cludiamo con una efficace descrizione di questi vantaggi: «i simboli cresco-
no. Essi vengono all‟esistenza sviluppandosi da altri segni, soprattutto dalle
icone, o, meglio, da segni misti che partecipano della natura di icone e di
simboli. […] Un simbolo, una volta in vita, si diffonde fra la gente. Con
l‟uso e con l‟esperienza il suo significato si arricchisce. Parole quali forza,
legge, benessere, matrimonio, hanno per noi significati molto diversi da
quelli che avevano per i nostri barbari antenati. Il simbolo può, con la Sfin-
ge di Emerson, dire all‟uomo: “Dell‟occhio tuo io sono il raggio”»22 .

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22
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Tra le parole e le cose 27

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ROMEO BUFALO

La base sensibile dell’immaginazione in Kant

1. Lo scopo di queste riflessioni è quello di far emergere, non necessaria-


mente nell‟ordine che segue: a) il radicarsi dell‟immaginazione kantiana nella
sfera della sensibilità, sia nella prima che nella terza Critica; b) il mutamento
quasi radicale che il tema dell‟immagine e dell‟immaginazione subisce tra
prima e terza Critica; c) la novità che la teoria dell‟immaginazione introduce
in una teoria post–cartesiana della soggettività; d) la forte rivalutazione della
sfera dell‟apparire sensibile che essa comporta.
L‟immaginazione, come è noto, viene trattata da Kant sia nella Critica del-
la ragion pura che nella Critica della facoltà di giudizio. Ma quasi tutti gli inter-
preti si sono concentrati sulle pagine tormentate della “Deduzione trascen-
dentale” della prima Critica (nelle sue due edizioni, in cui il tema conosce
mutamenti significativi, come ha rilevato M. Heidegger1), dove all‟immagine
è assegnato un ruolo fondamentale all‟interno del progetto trascendentale.
Alle riflessioni sull‟immaginazione contenute nella terza Critica sono state in-
vece riservate, certo, con le dovute eccezioni, scarse o quasi nulle conside-
razioni. Il caso più eclatante è quello del già citato Heidegger, che in Kant e il
problema della metafisica (di due anni successivo a Essere e tempo) assegna un po-
sto di primo piano alla teoria dell‟immaginazione nel progetto kantiano di ri-
fondazione della metafisica, mentre non fa alcun riferimento alla Critica della
facoltà di giudizio.
Certo, se si guarda al numero delle pagine da Kant dedicate al tema nelle
due Critiche, si sarebbe portati a dare ragione ad Heidegger. Se si guarda in-
vece alla sostanza filosofica, bisogna riconoscere che è nella Critica della facol-
tà di giudizio che il problema dell‟immaginazione acquista un assestamento
teoretico più definito ed originale. Nelle pagine che seguono procederemo
ad una ricognizione delle riflessioni kantiane relative all‟immagine ed all‟im-
maginazione contenute nelle due edizioni della prima Critica. Esamineremo

1 Ci riferiamo, naturalmente, a M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, trad.

it. di M. Reina, riv. da V. Verra, Roma-Bari, Laterza, 1981, il quale, come è noto, sostie-
ne che nella Critica della ragion pura Kant non cerca di congiungere mediante una linea sen-
sibilità e intelletto, ma si propone di mostrare la loro essenza unitaria. L‟immaginazione è
ciò che rivela questa unità originaria (ivi, pp. 24-25).

Bollettino Filosofico 25 (2009): 28-55 28


La base sensibile dell’immaginazione in Kant 29

poi il ruolo teorico svolto dall‟immaginazione nella Critica della facoltà di giu-
dizio, per trarre, infine, alcune considerazioni conclusive.
2. Kant introduce il problema dell‟immaginazione in un luogo cruciale
della prima edizione della Critica della ragion pura, e precisamente nella se-
conda e nella terza Sezione del secondo capitolo dell‟Analitica dei concetti,
meglio nota come “Deduzione trascendentale dei concetti puri dell‟intellet-
to”. Si tratta di un testo cui il filosofo attribuiva un‟importanza decisiva nel-
l‟economia complessiva dell‟opera, giacché queste pagine avrebbero dovuto
risolvere il problema di fondo del progetto trascendentale: quello di assicu-
rare il rapporto tra pensiero e realtà, tra concetti ed intuizioni sensibili, tra
categorie logiche e fenomeni empirici. E si tratta di pagine tormentate, come
si diceva prima, perché Kant, o perchè insoddisfatto del risultato raggiunto,
o per diradare il sospetto di idealismo, che subito qualche critico avanzò nei
confronti dell‟opera, riscrisse completamente il testo della Deduzione nella
seconda edizione di questa prima Critica. Di entrambe le versioni, in cui il
ruolo dell‟immaginazione è centrale, cercheremo di individuare e discutere,
in questo e nei prossimi paragrafi, i passaggi più significativi.
Nel testo della prima edizione dell‟opera, Kant esordisce dicendo che un
concetto a priori che non si riferisca ad oggetti di un‟esperienza possibile è
«soltanto la forma logica per un concetto, ma non il concetto stesso median-
te il quale qualcosa [è] pensato»2 (A 95, p. 1203). Se infatti gli elementi del-
la conoscenza, cioè i concetti, non contengono a priori la possibilità di una
esperienza, ossia il riferimento ad oggetti, non solo con essi non si pensereb-
be nulla, ma essi stessi «non avrebbero mai potuto neppure sorgere nel pen-
siero» (A 96, p. 1205). Qui il problema più importante non è tanto il fatto che
l‟intelletto può svolgere la sua funzione conoscitiva solo in quanto si riferisce
ad un oggetto, quanto il modo attraverso il quale tale riferimento si realizza.
Ora, la conoscenza ha per Kant la sua base nelle rappresentazioni; più in
particolare, nella capacità di connetterle fra loro e di unificarle. Il che non po-
trebbe accadere se ciascuna rappresentazione fosse estranea ed assolutamente
separata rispetto a ciascun‟altra. Per questo è necessario che le rappresenta-
zioni sensibili si dispongano su una sorta di terreno comune che consenta in un
secondo tempo (il tempo della spontaneità dell‟intelletto) di unificarle. Già
nella sfera ricettiva della sensibilità, dunque, è presente, secondo Kant, una
specie di sintesi: la sinossi come capacità di raccogliere, di radunare una mol-
teplicità su cui interviene poi la sintesi vera e propria come spontaneità.

2 Utilizziamo qui, e nei riferimenti che seguiranno, la traduzione della Critica della ra-

gion pura di C. ESPOSITO (I. KANT, Critica della ragion pura, Milano, Bompiani, 2004).
30 Romeo Bufalo

In queste battute iniziali Kant mette bene in chiaro le cose e pone le pre-
messe della deduzione. Il carattere sintetico-unificante viene, per così dire,
allargato ad altri due ambiti, oltre a quello concettuale. Egli infatti sostiene
che la spontaneità è il fondamento non di una, ma di tre sintesi che neces-
sariamente si presentano in ogni conoscenza. Esse sono: «la sintesi dell‟ap-
prensione delle rappresentazioni – in quanto modificazioni dell‟animo – nel-
l‟intuizione; la sintesi della riproduzione di esse nell‟immaginazione e la sin-
tesi della loro ricognizione nel concetto» (A 97, p. 1205). Già da questa enu-
merazione, come si può vedere, il ruolo dell‟immaginazione è centrale nel
senso letterale, e non metaforico, del termine; perché occupa lo spazio in-
termedio tra le intuizioni ed i concetti.
Nelle pagine immediatamente successive Kant chiarisce meglio le moda-
lità e il senso di questa quasi–sintesi in cui consiste l‟immaginazione, e che si
profila come un ibrido (egli parla di una “sintesi intuitiva”, che è, letteral-
mente, un ossimoro, rinviando la sintesi alla spontaneità e l‟intuizione alla
passività). Vediamo.
Il rapporto tra conoscenza ed oggetto, dice Kant, ha un che di necessario,
perché le nostre conoscenze non possono essere determinate a casaccio o
arbitrariamente, ma lo devono essere a priori; devono cioè accordarsi neces-
sariamente l‟una con l‟altra in relazione all‟oggetto. Solo così si può costrui-
re quell‟unità dell‟oggetto che entra nella costituzione del concetto di esso
(A, 104-105, pp. 1213-15). Questa unità, però, non può risiedere nell‟og-
getto stesso, ma nella «unità formale della coscienza» che opera la sintesi
delle rappresentazioni. La conclusione che Kant ricava da queste premesse è
che noi possiamo conoscere l‟oggetto solo se l‟unità sintetica del molteplice
delle rappresentazioni sia stata preceduta e, in un certo senso, anticipata da
una sintesi intuitiva secondo una regola. Si tratta di una regola che, riprodu-
cendo il molteplice intuitivo-sensibile, rende possibile il corrispondente con-
cetto nel quale quel molteplice viene unificato. Come si vede, sembra che ci
siano quasi due momenti sintetici, o meglio, che una forma di pre–sintesi
svolga un lavoro preliminare rispetto alla sintesi vera e propria operata dal-
l‟intelletto. Kant infatti dice che affinchè si formi in me, ad esempio, il con-
cetto di triangolo, è indispensabile (e preliminare) che io intuisca tre linee
rette che si connettono tra loro in un certo modo. Tale „certo modo‟ della
connessione delle rette nello spazio è la regola, la quale viene dunque intuita
assieme alle tre linee rette. Questo vuol dire che in futuro sarà sufficiente
evocare la regola perché venga rappresentata l‟intuizione del triangolo. L‟a-
spetto più interessante di questo discorso (quello che ci può far pensare al
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 31

Wittgenstein delle Ricerche filosofiche), è la possibilità di „vedere‟ la regola già


nel momento stesso in cui intuiamo sensibilmente le tre rette connesse fra
loro che formano quello che , in un secondo tempo, sarà il concetto di trian-
golo. Capiamo insomma, fin da queste prime battute della Deduzione, che il
passaggio dal senso all‟intelletto è mediato da una capacità (l‟immaginazione)
che è, ad un tempo, intuitiva ed intellettiva.

3. Nella Terza Sezione del capitolo che stiamo esaminando, Kant ri-
prende ed approfondisce l‟accenno, fatto nella Sezione precedente, alle tre
fonti soggettive della conoscenza: senso, immaginazione e intelletto (A 115,
p. 1227). E chiarisce anche il significato del lavoro dell‟immaginazione ai fini
della conoscenza.
Il senso, dice Kant, rappresenta empiricamente i fenomeni nella perce-
zione; l‟immaginazione li rappresenta invece nell‟associazione e riproduzione;
infine, l‟appercezione li rappresenta nella ricognizione (=identità delle rap-
presentazioni riproduttive con i fenomeni tramite cui erano date).
Il problema, a questo punto, è per Kant quello di mostrare la connessione
necessaria dell‟intelletto coi fenomeni, non quella casuale. Che tale connes-
sione accada in modo contingente, infatti, è ciò che sperimentiamo ogni
giorno; in una prospettiva trascendentale si tratta invece di accertare se tale
connessione sia anche necessaria, vale a dire, se noi possiamo individuare le
condizioni per cui essa accade. A questo scopo bisogna partire sempre dal fe-
nomeno (che è, dice Kant, «Das erste, was uns gegeben wird», la prima cosa
che ci viene data, A 119, p. 1233). Se il fenomeno è accompagnato da co-
scienza si ha una percezione. Siccome però ogni fenomeno contiene un mol-
teplice, nel nostro animo si incontrano diverse percezioni fra loro slegate e
disperse; ciascuna sta senza alcun rapporto con ciascun‟altra. Per questa ragio-
ne è necessaria una congiunzione dei singoli fenomeni. Naturalmente, tale con-
giunzione non si può trovare nel senso stesso (che è passività). Essa è resa pos-
sibile dalla facoltà di immaginazione, che lavora direttamente sulle percezioni.
In cosa consista tale atività immaginativa ce lo spiega lo stesso Kant in una
nota, in cui dice che gli psicologi non hanno mai pensato che l‟immagina-
zione fosse un ingrediente necessario della percezione perché essa veniva li-
mitata alle sole riproduzioni. Ed anche perché si riteneva che i sensi ci for-
nissero non solo impressioni, ma riuscissero anche a comporle e a darci le
immagini degli oggetti. Ora, la composizione è una funzione sintetica, e non
può, come tale, essere svolta dai sensi (solo recettivi).
32 Romeo Bufalo

Il compito dell‟immaginazione, allora, come si può vedere, non è già


quello di unificare il molteplice secondo modalità categoriali, ma quello, non
meno importante, di disporlo su un terreno omogeneo sul quale interverrà la sin-
tesi categoriale. Senza tale preliminare omogeneizzazione, nessuna sintesi sa-
rebbe possibile. L‟immaginazione svolge, insomma, un lavoro istruttorio che
rende il sensibile intelligibile, trasforma il dato in senso. «La facoltà di im-
maginazione – scrive Kant – deve […] far sì che il molteplice dell‟intuizione
diventi un‟immagine» (A 120, p. 1233); cioè, che venga unificato percettiva-
mente. Solo su questa preliminare unificazione percettiva (o, potremmo an-
che dire, categorizzazione percettiva) si insedia l‟unificazione concettuale (o ca-
tegorizzazione intellettiva).
Il lavoro di omogeneizzazione svolto dall‟immaginazione è fondamentale
ai fini della conoscenza. Prima di giungere ad una conoscenza effettiva, infatti,
c‟è bisogno di un fondamento estetico–soggettivo che consenta di stabilire un col-
legamento tra le percezioni che si succedono nell‟animo. Le percezioni, in-
somma, vanno e vengono, sembra dire Kant. E quando una è andata, come
facciamo a stabilire che è dello stesso tipo di un‟altra che ci colpisce attual-
mente se non possediamo un dispositivo interno, una facoltà in grado non già
di riconoscere, ma di ri–presentificare la prima e di collegarla empiricamente con la
seconda? Questa facoltà esiste, ed è la facoltà riproduttiva dell‟immagina-
zione nel suo uso empirico.
Naturalmente, questo uso empirico dell‟immaginazione non basta. Per-
ché riprodurre singole rappresentazioni sensibili e rilevare, di volta in volta,
collegamenti empirici tra esse, se assicura un fondamento soggettivo alla fa-
coltà riproduttiva–immaginativa, non assicura ancora un fondamento ogget-
tivo, senza il quale «sarebbe qualcosa di totalmente contingente il fatto che i
fenomeni possano ordinarsi in una connessione delle conoscenze umane» (A
121, p. 1235). In altri termini, che due o più percezioni vengano di fatto as-
sociate non è sufficiente a stabilire che esse lo siano anche di diritto. Che si as-
socino di fatto è un conto, che siano associabili lo dobbiamo, in un certo sen-
so, vedere prima. Kant infatti scrive che «anche se avessimo la facoltà di as-
sociare le percezioni, tuttavia rimarrebbe in sé completamente indetermi-
nato e contingente se esse siano anche associabili; e nel caso non lo fossero
sarebbe allora possibile una varietà di percezioni, e addirittura un‟intera sen-
sibilità, nella quale si incontrerebbe nel mio animo una molteplice coscienza
empirica, ma separata e senza che appartenga ad un‟unica coscienza di me
stesso, il che è impossibile» (A 122, p. 1235).
Cosa ci sta dicendo qui Kant? Che la facoltà empirica dell‟immaginazione,
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 33

anche se è indispensabile ai fini della salvaguardia della ricchezza sensibile dei


fenomeni, non basta. Questo fondamento soggettivo dell‟unità delle rappre-
sentazioni deve, a sua volta, rinviare ad un fondamento oggettivo che legit-
timi le singole associazioni empirico–immaginative dei fenomeni. Ma atten-
zione, perché questo superiore fondamento non è quello dell‟intelletto (an-
che se l‟aggettivo „oggettivo‟ in Kant rinvia quasi sempre a „concettuale, „in-
tellettivo‟). Subito dopo, infatti, leggiamo: «Questo fondamento oggettivo di
ogni associazione dei fenomeni lo chiamo la loro affinità», (A 122, p. 1237).
Questa affinità tra i fenomeni, però, non è più una riproduzione, un
richiamo della rappresentazione, ma una produzione della facoltà immagina-
tiva. «L‟immaginazione è quindi – scrive Kant – anche una facoltà di sintesi a
priori, per cui le diamo il nome di facoltà produttiva di immaginazione» (A
123, p. 1237) nel suo uso trascendentale.
Lo stretto legame tra immaginazione e sensibilità emerge proprio nelle
pagine finali di questa densa e complessa Deduzione trascendentale. Ed emer-
ge laddove Kant giustifica l‟intervento della appercezione pura argomentando
che la sintesi immaginativa è, in ogni caso, sensibile. Come all‟immagina-
zione empirica (riproduttiva) è stato allora necessario affiancarne una tra-
scendentale (produttiva), adesso quest‟ultima, per diventare intellettuale (che
è, come si ricorderà, il problema posto da Kant all‟inizio di questa Dedu-
zione) deve unirsi all‟appercezione pura, all‟io stabile e permanente che co-
stituisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni.
Perché c‟è bisogno dell‟aggiunta dell‟appercezione? Perché «in se stessa
la sintesi dell‟immaginazione, seppure esercitata a priori, è pur sempre sensibile,
poiché essa unifica il molteplice soltanto come esso appare nell’intuizione, per
esempio la figura di un triangolo» (A 124, pp. 1238-39, corsivo nostro). I
concetti, però, sono un‟altra cosa; appartengono all‟intelletto. E ad essi po-
tremo pervenire solo se la facoltà dell‟immaginazione trasferisce le intuizioni
sensibili nella loro molteplicità all‟unità dell‟appercezione tramite quel la-
voro istruttorio di omogeneizzazione cui si faceva riferimento prima. «Noi
dunque – conclude Kant – possediamo un‟immaginazione pura la quale, co-
me una facoltà fondamentale dell‟anima umana, sta alla base di ogni cono-
scenza a priori». Per mezzo di essa, infatti, «noi congiungiamo il molteplice
dell‟intuizione, da un lato, con la condizione dell‟unità necessaria dell‟apper-
cezione pura dall‟altro. Entrambi gli estremi – cioè la sensibilità e l‟intellet-
to – devono risultare necessariamente connessi tramite questa funzione tra-
scendentale della facoltà di immaginazione» (A 124, p. 1239), senza la quale
i fenomeni forniti dalla sensibilità non si potrebbero mai trasformare in og-
34 Romeo Bufalo

getto di una conoscenza empirica, cioè in un’esperienza effettiva. È a questo


che probabilmente si riferisce Heidegger quando, in Kant e il problema della
metafisica, dice che ogni ente può essere incontrato all‟interno di un preli-
minare campo in cui l‟intelletto puro e l‟intuizione pura sono già unificati.
Per cui nella Deduzione, che è il cuore della teoria kantiana della conoscenza
ontologica, non viene istituito un collegamento tra sensibilità e intelletto me-
diante una linea, ma viene svelata strutturalmente la loro essenza unitaria me-
diante l‟immaginazione3.

4. Se ora ci spostiamo alla seconda edizione della Critica, la cosa che su-
bito salta agli occhi, relativamente alla teoria dell‟immaginazione, è l‟inver-
sione del percorso rispetto a quello compiuto da Kant nella prima. Mentre lì,
infatti, come abbiamo visto, l‟immagine veniva incrociata a partire dall‟intui-
zione sensibile (nel suo percorso verso l‟intelletto), adesso invece essa viene
incontrata a partire dal concetto. Questa inversione potrebbe apparire in-
spiegabile ed incompatibile con l‟impianto trascendentale dell‟opera. Non
aveva detto Kant che ciò che ci è dato è solo l‟intuizione, il molteplice sensi-
bile, il fenomeno, e non il concetto, la categoria? Sì, ma questo non impe-
disce a Kant di dire, all‟inizio del § 21, che la deduzione che parte dal con-
cetto si rende necessaria «dal momento che le categorie scaturiscono soltanto
nell‟intelletto, indipendentemente dalla sensibilità» (B 144, p. 259). Anche
se si affretta subito a precisare che le categorie nascono sì nell‟intelletto in
modo autonomo, ma con esse, a prescindere dal darsi dell‟intuizione, non si
può conoscere nulla; si può solo pensare.
È la celebre tesi kantiana della distinzione tra pensare e conoscere. Pen-
sare un oggetto e conoscerlo non sono la stessa cosa. Per conoscere sono ne-
cessari sempre due elementi: il concetto (con cui pensiamo un oggetto) e
l‟intuizione (con cui l‟oggetto viene dato). Ora, siccome ogni intuizione, co-
me sappiamo dall‟Estetica trascendentale, è sensibile e non intellettuale, il pen-
siero di un oggetto in generale può diventare per noi una conoscenza solo se
quel concetto viene riferito agli oggetti dei sensi (B 146, p. 261). I concetti,
le categorie, pertanto, ci forniscono una conoscenza delle cose solo se pos-
sono essere applicate ad intuizioni empiriche (B 149, p. 267).
E veniamo, finalmente, al celebre § 24 (intitolato “Dell‟applicazione delle
categorie agli oggetti dei sensi in generale”), in cui Kant si interroga sul mo-
do in cui i concetti puri dell‟intelletto si riferiscono al mondo sensibile–feno-
3 M. HEIDEGGER, op. cit., pp. 24-25.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 35

menico. È in questo contesto che Kant introduce l‟immaginazione come ca-


ratteristica della sintesi del molteplice dell‟intuizione sensibile. Tale sintesi
può infatti essere figurata (synthesis speciosa) o intellettuale (synthesis intellectua-
lis). Quest‟ultima viene pensata nella semplice categoria. Invece la sintesi fi-
gurata, siccome si riferisce all‟unità sintetica originaria dell‟appercezione (os-
sia, non a semplici intuizioni empiriche), deve chiamarsi sintesi trascenden-
tale della facoltà di immaginazione, per distinguerla dalla congiunzione sem-
plicemente intellettuale (B 151, p. 267). Segue la definizione: «La facoltà di
immaginazione è la capacità di rappresentare un oggetto anche senza la sua
presenza nell‟intuizione» (ibid.).
Ma si può intuire in assenza di un oggetto dato? Non aveva detto Kant, in
apertura dell‟Estetica trascendentale, che intuire significa essere affetti dalla pre-
senza di un oggetto e che senza l‟oggetto dei sensi non c‟è intuizione? Sì, se
gli „operatori‟ dell‟esperienza conoscitiva sono solo due: intuizioni da un lato
e concetti dall‟altro. Ma quando entra in gioco l‟immaginazione le cose cam-
biano. Perché l‟immaginazione, riconvocando l‟oggetto in absentia, ne trat-
tiene (ed opera su) le tracce sensibili di esso. Dunque, l‟immaginazione nasce
su un terreno sensibile in vista di un‟apertura verso l‟intelligibile, rende pos-
sibile l‟insediamento dell‟attività dell‟intelletto; è passività ed attività insieme,
come sostiene Maurizio Ferraris4. Che è, più o meno, quello che Kant aveva
detto nella prima edizione dell‟opera. Solo che qui, del doppio statuto dell‟im-
magine e dell‟immaginazione (ricettività e spontaneità), emerge con maggiore
decisione il riconoscimento del suo carattere sintetico, più che di quello figura-
le–sensibile; e di tale funzione attiva Kant sembra preoccupato di mostrare, più
che l‟autonomia, la dipendenza dalla sfera intellettuale. È l‟intelletto, in altri ter-
mini, che, attraverso l‟immaginazione, interviene sul senso interno.
Il riferimento a questo carattere di spontaneità connesso all‟attività sinte-
tica dell‟immaginazione consente a Kant di ritornare sulla distinzione (già in-
trodotta nella prima edizione dell‟opera) tra la facoltà produttiva dell‟im-
maginazione e quella riproduttiva (che è pure sintetica, ma deve però sot-
tostare alle leggi dell‟associazione empirica, e fa quindi parte non della filo-
sofia ma della psicologia). Questo consente anche a noi di soffermarci breve-
mente sul significato dell‟influsso esercitato dall‟intelletto sul senso interno
mediante l‟immaginazione in quanto sintesi figurata.
Kant avverte, in queste pagine (§§ 24 sgg.) l‟esigenza di legare stret-
tamente l‟unità sintetica dell‟apercezione (che ha una portata generale in
quanto fonte di ogni possibile congiunzione) con la concretezza sensibile del-
le esperienze del senso interno (in cui, come è noto, confluiscono anche le

4 M. FERRARIS, L’immaginazione, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 21.


36 Romeo Bufalo

esperienze del senso esterno). Noi abbiamo, infatti, da una parte l‟apperce-
zione, che si riferisce al molteplice dell‟intuizione in generale. Da un altro
lato c‟è invece il senso interno, il quale contiene però solo le forme dell’in-
tuizione, e non è in grado di operare congiunzioni in essa. Per farlo, dovrebbe
essere opportunamente „sollecitata‟, per così dire. E però, nella concretezza
delle nostre esperienze conoscitive, noi abbiamo a che fare con intuizioni
determinate, non con le loro forme. Perciò dobbiamo determinare il senso
interno, dobbiamo „smuoverlo‟, farlo cioè muovere dal suo rapporto con la
semplice forma dell‟intuizione. A questo serve la sintesi figurata, un intrec-
cio, già nella formulazione linguistica, di attività e passività, intellettualità e
sensibilità. Noi non possiamo, scrive Kant, «pensare una linea senza tracciar-
la nel pensiero; non possiamo pensare un circolo senza descriverlo; non pos-
siamo rappresentare le tre dimensioni dello spazio senza porre tre linee che
partano dallo stesso punto e siano perpendicolari tra loro» (B 154, p. 271).
In tutti gli esempi geometrici qui addotti da Kant, si tratta di congiunzioni ef-
fettive del molteplice in una rappresentazione con cui il senso interno viene
determinato. Ora, e questo è l‟aspetto più importante della questione che qui
stiamo discutendo, tutte queste congiunzioni del molteplice (pensare la linea
tracciandola figurativamente, pensare il circolo descrivendolo concretamente,
ecc.) l‟intelletto non le trova già bell‟e fatte come suo „deposito‟ interno, «bensì
[le] produce, esercitando con ciò un‟affezione su di esso» (B 155, p. 273).
Possiamo allora concludere su questo punto (e prima di affrontare il pro-
blema del ruolo delle immagini nello schematismo trascendentale) dicendo
che in queste posizioni kantiane è senz‟altro riconoscibile una traccia di
quanto egli aveva scritto nella prima edizione dell‟opera, e cioè che l‟im-
maginazione svolge un ruolo preliminare rispetto all‟insediamento dell‟intel-
letto. C‟è, insomma, una doppia sintesi: quella immaginativa e quella intel-
lettuale. Kant ritiene, cioè, indispensabile che i fenomeni sensibili, nella loro
contingenza, non possano immediatamente essere unificati dall‟intelletto. De-
vono essere prima connessi sul piano stesso della sensibilità, vale a dire su un
piano estetico, e solo successivamente venire unificati ad opera dei concetti.
Questa opera preliminare di connessione dei fenomeni è svolta dalla facoltà
immaginativa, «la quale dipende dall‟intelletto per quanto riguarda l‟unità del-
la sua sintesi intellettuale, e dalla sensibilità per quanto riguarda la molteplicità
dell‟apprensione» (B 164, p. 285).

5. Con queste considerazioni si chiude la Deduzione trascendentale. Del-


l‟immaginazione, però, Kant torna a parlare nell‟Analitica dei principi, in rela-
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 37

zione al ruolo che essa svolge all‟interno dell‟ schematismo trascendentale.


Dunque, l‟immaginazione entra in gioco in due contesti differenti: a) nel-
l‟Analitica dei concetti come presupposto dell‟unificazione categoriale nel pro-
cesso di formazione dei concetti, e b) nell‟Analitica dei principi attraverso gli
schemi nella formazione dei giudizi.
L‟aspetto che va subito sottolineato è che in questo secondo libro del-
l‟Analitica trascendentale l‟intelletto viene considerato non più come facoltà di
unificazione del molteplice ma come „facoltà delle regole‟. La ragione sta nel
fatto che ora il suo uso, ed il suo campo di applicazione, è mutato: non si
tratta più, infatti, di unificare la molteplicità delle intuizioni nell‟unità del
concetto, ma di applicare la regola con cui un caso singolo può essere sus-
sunto sotto una categoria (la quale è già data), ossia con cui un particolare
viene riconosciuto come caso di una regola generale, di un concetto. Insomma,
è il problema della formazione dei giudizi che qui è al centro dell‟esame di Kant.
Ora, relativamente a questo problema la logica generale non può esserci
di alcun aiuto (perché riguarda le forme logiche, non i contenuti). Se essa,
infatti, ci fornisse una regola per la sussunzione del particolare, avremmo poi
bisogno di una seconda regola che ci spiegasse il funzionamento della prima,
e così via all‟infinito. Se dunque non ci sono regole per la facoltà di giudizio,
allora essa sarà affidata ad una sorta di «ingegno naturale la cui mancanza non
potrà essere colmata da nessuna scuola» (A 133, B 172, p. 295). Segue l‟esem-
pio del medico, che può essere un grande scienziato ed aver scritto saggi e
trattati di patologia generale, ma, di fronte ad un malato, non è poi in grado
di formulare una diagnosi, ossia di costruire un giudizio; o quello del grande
giurista che ha scritto libri di diritto penale, ma non riesce ad emettere una
sentenza (cioè, ancora, un giudizio) relativa ad un caso singolo.
Siccome la logica trascendentale si propone non solo di fornire la regola
in vista del concetto, ma anche di indicare a priori il caso a cui quella regola
può essere applicata (altrimenti i suoi oggetti sarebbero privi di contenuto,
cioè sarebbero delle pure forme logiche), Kant decide di dividere la dottrina
trascendentale della facoltà di giudizio in due capitoli, il primo dei quali si
occupa delle condizioni sensibili sotto cui i concetti dell‟intelletto possono
essere legittimamente usati. Si tratta del capitolo sullo schematismo.
Che lo schema abbia uno statuto particolare; che non sia esclusivamente
un dato, né una sintesi, ma ein Drittes, un „terzo‟ che ha il compito di traghet-
tare il sensibile verso l‟intelligibile, lo capiamo dalle prime battute del capi-
tolo. Lo capiamo quando Kant scrive che, per poter sussumere un oggetto
sotto un concetto, la rappresentazione dell‟oggetto deve essere omogenea a
38 Romeo Bufalo

quella del concetto (A 137, B 176, p. 301). Dunque, il tertium che consente
la sussunzione del sensibile richiede la presenza di due rappresentazioni (rispet-
tivamente, dell‟oggetto e del concetto) tra loro congruenti. Chi „lavora‟ sul-
le rappresentazioni per renderle omogenee e superare l‟eterogeneità fra sen-
so e intelletto è l‟immagine–schema.
Che la relazione si stabilisca tra due rappresentazioni è del tutto com-
prensibile, non essendo possibile ricondurre l‟oggetto in carne ed ossa sotto
un concetto. Ma se ci sono due rappresentazioni, ci saranno, conseguente-
mente, due concetti. Ed infatti, quando Kant fa un esempio di sussunzione di
un oggetto sotto un concetto, si serve di due concetti, uno empirico, l‟altro
puro. Il concetto empirico di „piatto‟ (la rappresentazione che ne ho) è omo-
geneo al concetto geometrico (puro) di „circolo‟ perchè la „rotondità‟ che
pensiamo nel concetto di piatto la intuiamo in quello di circolo.
Se le cose stessero sempre così, il capitolo appena iniziato potrebbe anche
chiudersi. Invece le cose non vanno sempre come nell‟esempio del concetto
di „piatto‟. Spesso infatti noi ci troviamo con i concetti puri da un lato e le
intuizioni empiriche dall‟altro. E concetti puri ed intuizioni empiriche sono
radicalmente eterogenei. Ad esempio, come facciamo ad applicare il concet-
to puro di causa ad un‟intuizione empirica? Ovvero, come facciamo a ricono-
scere che quel particolare fenomeno sensibile che ci colpisce è riconducibile
sotto il concetto di causa? Insomma, le cose sono relativamente semplici in
tutte quelle scienze in cui i concetti con i quali si pensa un oggetto non siano
molto diversi dai concetti con cui ci rappresentiamo concretamente quel-
l‟oggetto. Quando invece le affinità rappresentative (quelle affinità di cui Kant,
come si ricorderà, parlava nella prima edizione della Critica) non si danno,
allora è necessario trovare un terzo elemento, il quale, «da un lato deve es-
sere omogeneo con la categoria, e dall‟altro lato con il fenomeno, per rende-
re possibile l‟applicazione della prima al secondo» (A 138, B 177, p. 301).
Questo terzo che è lo schema deve essere anfibio, bifacciale: da un lato deve
essere intellettuale (omogeneo al concetto); dall‟altro figurato–sensibile (omo-
geneo al fenomeno). «Una rappresentazione di questo tipo – conclude Kant
– è lo schema trascendentale» (ibid.).
Ora, lo schema, essendo terzo, non potrà essere prodotto né dalla facoltà
delle regole (l‟intelletto), né dalla facoltà delle intuizioni (la sensibilità). Sic-
come serve alla facoltà di giudizio (Urteilskraft5) per congiungere il prodotto

5 A proposito del termine Urteilskraft, Silvestro Marcucci ha rilevato che il discorso kan-

tiano sul giudizio come facoltà si ferma qui alla sua semplice enunciazione e non va oltre.
Bisognerà aspettare il 1790 perché lo riprenda e vi costruisca sopra la terza Critica (der Ur-
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 39

della prima con il prodotto della seconda, esso sarà, conseguentemente, pro-
dotto da una terza facoltà: la facoltà di immaginazione (Einbildungskraft). Sareb-
be però sbagliato identificare lo schema con l‟immagine. Cinque punti messi
l‟uno dopo l‟altro nello spazio sono senz‟altro l‟immagine del concetto del
numero 5. Ma questo non è uno schema, è solo la raffigurazione sensibile di
un‟entità concettuale. Lo schema interviene quando devo pensare un nume-
ro in generale, per esempio 93714. Perché qui occorre un metodo che mi
consenta di rappresentarmi, secondo un concetto, una pluralità di cose me-
diante un‟immaginazione. In altri termini, per concepire il numero 93714,
io non posso tradurlo/raffigurarlo in una semplice immagine come accadeva
per il numero 5. Non riuscirò mai, infatti, a „vedere‟, ad abbracciare con una
figurazione mentale, 93714 punti allineati nello spazio. Posso solo rappre-
sentarmelo come „più grande‟ dell‟ordine delle unità, delle decine, delle cen-
tinaia; come una pluralità di migliaia, ecc. Questo metodo per rappresentare
concetti è il modo di procedere della facoltà di immaginazione la quale con-
siste nel procurare ad un concetto la sua immagine adeguata (A 140, B 179,
p. 305), cioè lo schema di tale concetto.

6. Anche se, tra prima e seconda edizione della Critica della ragion pura, sul-
l‟immaginazione Kant si sofferma a sprazzi, cambia spesso idea, come ha rile-
vato Silvestro Marcucci6, prima dell‟assestamento teoretico definitivo nella
terza Critica, non si può tuttavia negare che l‟importanza di tale terza facoltà
per il progetto critico–trascendentale risulti lo stesso notevole in entrambe le
edizioni dell‟opera. Ad essa Kant assegna, nel § 10 del primo Libro dell‟Ana-
litica, un ruolo centrale nel processo di costituzione della sintesi in generale.
Qui infatti Kant, nell‟introdurre il concetto generale di sintesi, scrive che «la
sintesi in generale […] è il semplice effetto della facoltà di immaginazione, di
quella funzione cieca, sebbene indispensabile, dell‟anima, senza la quale non
avremmo in assoluto alcuna conoscenza, ma della quale solo raramente sia-
mo coscienti» (A 78, B 103, p. 203)7.

teilskraft, per l‟appunto). Cf. su questo, e su altre importanti questioni kantiane, S. MARUC-
CI, Guida alla lettura della Critica della ragion pura di Kant, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 96.
6 Ivi, p. 97.
7 Questa «blinden Funktion der Seele» che è l‟immaginazione non è molto diversa da

quella «Grundvermögen der menschlichen Seele» con cui l‟immaginazione era stata carat-
terizzata nella prima edizione della Critica (A 124, p. 1239). Anche Luigi Scaravelli nota
che, per quanto nella seconda edizione il ruolo dell‟immaginazione sia «notevolmente di-
minuito», tuttavia la sua funzione rimane «all‟incirca quella di prima» (L. SCARAVELLI, Scritti
kantiani, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 229).
40 Romeo Bufalo

Nel corso del paragrafo Kant distingue tra immagine e schema. Il suo
discorso si articola, più o meno, nei seguenti termini. Alla base dei nostri con-
cetti sensibili puri, non stanno le immagini dei concetti, ma gli schemi. Nes-
suna immagine empirica di un triangolo può infatti „esaurire‟, per così dire,
cioè essere adeguata, al concetto geometrico di triangolo in generale. D‟altra
parte, non possiamo nemmeno pensare un „triangolo in generale‟. Perché
quando pensiamo un triangolo, sarà sempre un triangolo particolare/figurato
che avremo in testa (e su questo già Berkeley, nel Trattato sui principi della co-
noscenza umana, aveva richiamato l‟attenzione contestando la possibilità del-
l‟esistenza di „idee generali‟). Il concetto di triangolo in generale, essendo
universale, deve valere per ogni triangolo in particolare. Invece l‟immagine
che ogni volta ce ne facciamo è sempre particolare. Ecco perché è necessario
lo schema, il quale non è concetto, ma non è nemmeno esclusivamente im-
magine, perché non raffigura un oggetto, ma è «una regola della sintesi della
facoltà di immaginazione riguardo alle figure nello spazio», nel caso dei trian-
goli (A 141, B 180, p. 305). Che lo schema sia una regola della sintesi im-
maginativa vuol dire che, siccome l‟immaginazione è „anfibia‟, ha un lato
sensibile ed uno intellettuale, qui la regola concerne quest‟ultimo lato, istrui-
sce il lato sensibile–intuitivo sul da farsi.
Senonché, con l‟introduzione dello schema sembra che le difficoltà, inve-
ce di diminuire, aumentino. In questa stessa pagina, infatti, Kant introduce il
noto esempio dello schema del concetto di „cane‟. E nel farlo, sostiene che
l‟immagine di un oggetto dell‟esperienza non potrà mai, da sola, raggiungere
il concetto empirico, perché questo si riferisce sempre non all‟oggetto diret-
tamente, ma allo schema prodotto dall‟immaginazione. Così, il concetto em-
pirico di „cane‟ non si applica direttamente a questo o a quel singolo cane,
ma deve passare prima per lo schema di cane, con cui l‟immaginazione deli-
nea la figura generale di un animale quadrupede senza essere limitata ad una
qualche figura particolare dell‟esperienza (A 141, B 180, p. 305). Già, ma co-
me faremo a distinguere il quadrupede „cane‟ dal quadrupede „cavallo‟ o
„gatto‟ o „tigre‟ ecc.? Forse è sulla base di una tale possibile osservazione che
Kant conclude dicendo che lo schematismo dell‟intelletto, relativamente ai
fenomeni, «è un‟arte nascosta nella profondità dell‟anima umana, e difficil-
mente potremo mai strappare alla natura il vero segreto del suo uso per sve-
larlo davanti ai nostri occhi» (A 141, B 180, p. 307).
E tuttavia, il discorso kantiano non si esaurisce in questa sorta di dichiara-
zione di resa che fa appello al mistero dell‟animo umano. In chiusura di capi-
tolo egli infatti sottolinea un altro aspetto importante; e cioè che gli schemi
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 41

della sensibilità (tutti riducibili al tempo) hanno il compito di limitare le ca-


tegorie, di restringerle al piano fenomenico della sensibilità. Pertanto, uno
schema è il fenomeno di un oggetto, il suo manifestarsi sensibile, in accordo
con la categoria (A 146, B 185-186, p. 313). Se infatti trascurassimo questa
condizione restrittiva salterebbe la delimitazione fenomenica del concetto e
le categorie avrebbero un‟estensione illimitata, nel senso che si potrebbero
applicare anche alle cose come sono in se stesse, «laddove invece gli schemi
delle categorie rappresentano queste cose così come esse ci appaiono» (A
147, B 186, p. 313). Da qui il ruolo centrale della sensibilità, «la quale rea-
lizza l‟intelletto mentre lo restringe» (ibid.).

7. Se ora spostiamo la nostra attenzione sulla terza Critica, la prima con-


siderazione da fare è che qui all‟immaginazione non viene dedicato un para-
grafo o un gruppo di paragrafi specifici (come nella Critica della ragion pura),
ma di essa Kant parla nel corso di tutta la prima parte dell‟opera (dedicata
alla “Critica del giudizio estetico”); sicchè si potrebbe dire, d‟accordo con
Pietro Montani, che essa fornisca le linee generali di una teoria critica del-
l‟immaginazione trascendentale.
Le domande da cui bisogna partire sono le seguenti: qual è, in quest‟ope-
ra, il ruolo dell‟immaginazione? È mutato rispetto a quello delle due edizioni
della prima Critica? E se sì, in che senso è cambiato e con quali conseguenze
sul piano filosofico? Cominciamo intanto col dire che, anche a proposito di
questa Critica della facoltà di giudizio, sembra inevitabile partire dalla teoria
dello schematismo. Solo che qui non solo muta sensibilmente l‟idea di schema,
ma acquista nuovo senso anche il concetto di immaginazione. Kant infatti in-
troduce l‟idea di un «libero schematizzare senza concetti» che ci segnala un ri-
pensamento radicale (e ci costringe a ripensare radicalmente a nostra volta) il
concetto di schema quale era emerso nel corso della prima Critica. Se infatti si
può schematizzare senza concetti, questo vuol dire che lo schematismo non è
un‟operazione esclusivamente intellettuale, o a forte prevalenza dell‟intelletto,
ma è, almeno in questa terza Critica, prevalentemente un fatto della sensibilità in
unione con l‟immaginazione. L‟espressione «libero schematizzare senza con-
cetti», come ha rilevato Claudio La Rocca8, nella sua apparente contraddit-
torietà, solleva un problema di portata generale: quello relativo al ruolo del-
l‟immaginazione nell‟esperienza estetica, vale a dire nella esperienza „ordina-
ria‟, contingente–sensibile dentro la quale siamo costantemente immersi.

8 C. LA ROCCA, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Venezia, Marsilio, 2003, p. 245.


42 Romeo Bufalo

La ripresa del tema dell‟immaginazione nella terza Critica è un ritornare,


da parte di Kant, su un problema che era stato, in un certo senso, accan-
tonato: il problema degli schemi empirici. È il problema di come funziona
concretamente lo schema di cane. Davvero basta solo l‟idea–immagine di
„quadrupede‟ per riconoscere quel certo animale come un cane? Kant, come
si ricorderà, chiudeva, provvisoriamente, la faccenda rinviando ad un‟impre-
cisata arte nascosta nella profondità dell‟animo umano, con quel che seguiva.
Adesso il discorso viene riaperto perché è nel frattempo mutato l‟ambito su
cui si esercita la riflessione kantiana e, conseguentemente, l‟assetto episte-
mologico di tale riflessione. Quell‟ambito non è più costituito, infatti, dalla
esperienza possibile, ma da quella effettiva nella sua singolarità e contingenza.
Per queste ragioni nella terza Critica, come hanno ricordato Emilio Garroni
ed Hansmichael Hohenegger9, a richiedere di essere criticamente fondati so-
no lo schema empirico e la conoscenza empirica, non le conoscenze intellet-
tuali–universali. Di queste ultime si parlava nella prima Critica. Ed è per que-
sto che lì la facoltà di giudizio veniva quasi sbrigativamente assegnata ad un
„talento naturale‟, mentre l‟immaginazione veniva, sostanzialmente, subor-
dinata alla funzione produttiva–costruttiva dell‟intelletto (più costruttiva che
produttiva, per essere precisi). Lo sbilanciamento a favore dell‟aspetto „co-
struttivista‟ degli schemi era motivato dal fatto che lo scopo era costituito dai
concetti e non dai giudizi. Adesso, invece, più che il concetto di „cane‟, di-
venta importante capire in base a che cosa siamo legittimati, in via di prin-
cipio (de iure), a dire «questo è un cane»10. Insomma, nella prima Critica è
come se noi vedessimo già, „a cose fatte‟, i concetti che usano le immagini
come loro base di appoggio materiale. Adesso si vuole, in un certo senso,
„vedere in anticipo‟ la congruenza e la pertinenza del riferimento di un‟intui-
zione ad un concetto, ossia di un soggetto ad un predicato in un giudizio.
Ora, all‟interno di questo «libero schematizzare senza concetti» che, se-
condo Kant, è in opera nella formazione di ogni giudizio di gusto, qual è il
ruolo dell‟immaginazione? Che esso sia di grande rilievo lo capiamo leggen-
do il § 9 dell‟opera, in cui Kant scrive che, ai fini di una conoscenza in gene-
rale, intelletto ed immaginazione si devono unire (anche se tale unione, se-
condo Ernst Cassirer, spiega più l‟uso empirico dell‟immaginazione produt-
tiva emersa nella prima Critica che non il suo uso specificamente estetico11.

9 E. GARRONI, H. HOHENEGGER, Introduzione a I. Kant, Critica della facoltà di giudizio,

trad. it. a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, Einaudi, 1999, p. XLIX.


10 Ivi, p. L.
11 E. CASSIRER, Vita e dottrina di Kant, trad. it. a cura di M. Dal Pra, La Nuova Italia,

1997, pp. 374-375. Ho sottolineato l‟espressione «specificamente estetico» perché l‟im-


pressione che si ricava è che Cassirer usi l‟aggettivo «estetico» (impressione rafforzata dal-
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 43

Il problema è che nella Critica della facoltà di giudizio l‟immaginazione si


inserisce nell‟originale prospettiva analogica che fa da sfondo a tutta l‟opera,
e che forse rappresenta l‟elemento di unificazione tra la parte „estetica‟ e la
parte „teleologica‟ di essa12. Se ne ha un chiaro sentore già nel cap. VII del-
l‟Introduzione, dove si parla della rappresentazione estetica di un oggetto e
della sua conformità a scopi. Il carattere „estetico‟ di tale rappresentazione è
legato al piacere o dispiacere che l‟accompagna (e che non può essere effetto di
una conoscenza). Qui viene convocata, per la prima volta in quest‟opera,
l‟immaginazione. Su quali basi e con quali intenti?
Kant si accorge di muoversi su un terreno per molti versi nuovo, nel qua-
le non ci sono più le garanzie rappresentate dalle categorie dell‟intelletto,
che consentivano di sussumere il particolare sotto un universale che era già
dato. Adesso ci troviamo di fronte all‟imprevedibilità dell‟esperienza, bran-
coliamo nell‟incertezza del contingente dove, per ogni singolare che ci accade
di incontrare, dobbiamo trovare–inventare–costruire noi un universale ad esso
adeguato (non ad una classe di fenomeni). È chiaro, pertanto, che lo scopo di
un oggetto non è più quello di essere ricondotto sotto un concetto determi-
nato, non può essere più quello di venir conosciuto, ma quello di essere senti-
to–percepito in accordo (piacere) o in disaccordo (dispiacere) con le nostre fa-
coltà conoscitive. Dunque, si tratta di un‟esperienza che precede la conoscen-
za effettiva. Si delinea allora una sorta di omologia tra i due piani (rispettiva-
mente, logico–concettuale ed estetico–percettivo). Nel senso che il piacere o
dispiacere connesso alla rappresentazione di un oggetto è un analogon del
concetto; è una conformità a scopi che però non attiene all‟oggetto, ma al
soggetto. Noi sentiamo (e quindi diciamo) che l‟oggetto è conforme a scopi
«perché la sua rappresentazione è immediatamente legata con il sentimento
di piacere»13. Un tale tipo di rappresentazione è una rappresentazione estetica.

l‟impiego dell‟avverbio «specificamente») nella sua accezione moderna di „filosofia specia-


le‟, di ciò che ha esclusivamente a che fare col mondo dell‟arte, ecc. È come se Cassirer
volesse richiamare l‟attenzione sulla radicale diversità di piani in cui le considerazioni kan-
tiane sull‟immaginazione si disporrebbero.
12 «Per comprendere come la questione dell‟analogia – scrivono a tale proposito Gar-

roni e Hohenegger – sia la forma stessa del tema insieme unitario e complesso della terza
Critica, è indispensabile insistere sul nuovo rapporto che si istituisce tra immaginazione e
intelletto in forza dello statuto ora assunto dalla facoltà di giudizio e precisarlo ulterior-
mente. Proprio tale forma costituisce la ragione, frequentemente sottovalutata dagli inter-
preti, della sua unità tematica complessa, che consiste nella considerazione, all‟interno del
medesimo contesto […] del giudizio di gusto, della conoscenza empirica, della quasi–cono-
scenza della vita e infine del pensare in genere, in quanto questi implicano tutti, in modi
analogici diversi, un qualche riferimento al soprasensibile» (op. cit., p. XLVI).
13 I. KANT, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 25.
44 Romeo Bufalo

Ma il piacere cosa esprime se non esprime la conformità di un oggetto ad


un concetto? Esso esprime, come dicevamo sopra, «l‟adeguatezza dell‟ogget-
to rispetto alle facoltà conoscitive che sono in gioco nella facoltà riflettente
del giudizio». Gli scopi, cioè, da oggettivi diventano soggettivi. Hanno una
fisionomia estetica analoga a quella logica. Ed un giudizio estetico sarà co-
struito come se fosse un giudizio logico. Chi garantisce tale corrispondenza
analogica? Fondamentalmente, l‟immaginazione. È l‟immaginazione, infatti,
che consente di istituire una sorta di comparazione, implicita o esplicita, tra
il piacere legato all‟apprensione della forma di un oggetto in un giudizio ri-
flettente e la facoltà di riferire intuizioni a concetti in un giudizio determi-
nante. In altri termini, nel giudizio di gusto l‟immaginazione svolge un ruolo
analogo a quello che l‟intelletto svolge nei giudizi conoscitivi. In tale compa-
razione, se l‟immaginazione, «in quanto facoltà delle intuizioni a priori», vie-
ne messa in accordo, magari anche in modo non intenzionale, con l‟intelletto
in quanto facoltà dei concetti, e viene suscitato un sentimento di piacere, al-
lora «l‟oggetto deve essere riguardato come conforme a scopi per la facoltà
riflettente del giudizio»14.
Questo comporta che la conformità a scopi di un oggetto può anche non
essere fondata, grazie all‟immaginazione, su un concetto già dato dell‟ogget-
to stesso. In questo caso (che è quello di tutti i giudizi estetici) sarà la forma di
quell‟oggetto ad essere giudicata, nella riflessione su di essa, come il fonda-
mento del piacere che se ne prova. Il quale viene percepito come legato in
modo necessario (anche se non si tratta, naturalmente, di una necessità logica,
ma estetica) con la rappresentazione dell‟oggetto. E questo vale, sottolinea Kant,
«non solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni giudicante in
genere» In che senso? Nel senso che «il giudizio di gusto avanza solo l‟esigenza,
come ogni altro giudizio empirico, di valere per ciascuno»15. È l‟idea del gusto
come sensus communis che Kant riprenderà nei §§ 21 e 22 dell‟opera.

8. Prima di passare al § 35 dell‟opera, dedicato al gusto come principio


soggettivo della facoltà di giudizio, e che rappresenta un momento teoretica-
mente decisivo in ordine al problema che stiamo qui discutendo, occorre
soffermarsi proprio sul § 21. Perché qui, discutendo del gusto come modo di
sentire in comune, ossia come regola indeterminata sulla cui base pronuncia-
mo giudizi di gusto, Kant ritorna sulla centralità dell‟immaginazione. Questa
centralità è connessa al fatto che, non essendoci regole determinate che vinco-

14 I. KANT, op. cit., p. 25.


15 Ivi, p. 26.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 45

lino in modo normativo–necessario, è chiaro che, nella sfera del gusto, si giu-
dica in riferimento ad una «libera conformità a leggi dell‟immaginazione»16.
Qui incontriamo il carattere „libero‟ dell‟immaginazione. La quale, per-
tanto, non è riproduttiva, ma produttiva e spontanea, in quanto autrice di
«forme arbitrarie» di intuizioni possibili17. Ma come può l‟immagine essere
„libera‟ e, contemporaneamente, „conforme a leggi‟? Solo l‟intelletto contie-
ne leggi. Sì, però qui le leggi non sono date dall‟intelletto, ma sono prodotte
dall‟immaginazione. E sono prodotte a causa del carattere indeterminante del
terreno libero (nel senso di contingente) in cui ci muoviamo (non è il ter-
reno „solido‟ della scienza, ma quello incerto dell‟esperienza empirica effet-
tiva). Se infatti l‟immaginazione dovesse procedere secondo una legge deter-
minata, il suo prodotto sarebbe anch‟esso determinato mediante concetti; ed
il compiacimento non sarebbe quello del bello, ma quello del buono. Con-
seguentemente, il giudizio che ce ne facciamo non sarebbe un giudizio di gu-
sto. Perché un giudizio di gusto sia possibile è necessario un accordo sogget-
tivo dell‟immaginazione con l‟intelletto, in cui la conformità a leggi senza una
legge determinata (v. la „finalità senza fine‟) che caratterizza l‟immaginazione
coesiste con la conformità a leggi propria dell‟intelletto.
In altri termini, l‟immaginazione si mette qui a lavorare come se fosse in-
telletto. Però non fa esattamente (perché non lo può fare) quello che fa l‟in-
telletto. L‟elemento libero, soggettivo–riflettente prevale su quello non libe-
ro, oggettivo–determinante. E questo si riflette sulla stessa idea di bellezza.
La bellezza di cui parla Kant, infatti, non è quella che si riscontra nelle figure
geometriche come un cerchio, un triangolo, un cubo, ecc. Perché? Perché
esse sono figure „regolari‟, cioè esibizioni di un concetto che prescrive una
regola universale secondo cui quella figura è possibile. È chiaro – prosegue

16 Ivi, p. 76. Quest‟uso filosoficamente rigoroso del termine „immaginazione‟ coesiste

però con un suo uso comune, non filosofico. Si veda, per esempio, il § 26 (p. 89), in cui si
dice che l‟immaginazione, come attività libera da freni, è portata all‟infinito nella composi-
zione delle grandezze, se non intervenisse l‟intelletto a guidarla con concetti numerici; o
che, nell‟esperienza del sublime ogni sforzo della nostra immaginazione nel valutare le gran-
dezze è vano; o che l‟animo “si abbandona” all‟immaginazione (p. 92), ecc.
17 Ibid. L‟aggettivo „arbitrarie‟ usato qui da Kant per qualificare le forme generate dal-

l‟immaginazione non è usato in un senso „arbitraristico‟, nel senso cioè di una libera ed
anarchica soggettività, di arbitrio soggettivistico e simili, ma in un‟accezione che ci sembra
più vicina al concetto saussuriano di arbitrarietà linguistica; ossia come attività che sceglie e
seleziona, di volta in volta, le caratteristiche empiriche pertinenti a stabilire l‟identità sotto
cui si conosce. Un originale sviluppo dell‟arbitrarietà linguistica di Saussure si ha nel con-
cetto di pertinenza elaborato da LUIS PRIETO (di cui si veda almeno Pertinenza e pratica, trad.
it. di D. Gambarara, Milano, Feltrinelli, 1976).
46 Romeo Bufalo

Kant – che per apprezzare un cerchio o un quadrilatero piuttosto che uno


scarabocchio o un poligono sbilenco non è necessario un uomo di gusto.
Basta e avanza il comune intelletto. Perché l‟apprezzamento che esprimiamo
in questo caso riguarda lo scopo–in–vista della conoscenza determinata (una
camera con angoli sbilenchi non sarà soddisfacente o apprezzabile perché non
è come dovrebbe essere una camera degna del nome (o del concetto)). Mentre
nel giudizio di gusto non abbiamo in mente uno scopo determinato, ma «un
intrattenimento delle facoltà dell‟animo, libero e conforme a scopi in modo
indeterminato, con ciò che diciamo bello, laddove l’intelletto è al servizio del-
l’immaginazione, e non questa al servizio di quello»18.
Questo rapporto immaginazione/intelletto (ma sbilanciato a favore del-
l‟immaginazione, secondo la prospettiva enunciata nel testo appena citato)
viene ripreso nel § 35. Qui già il titolo è teoricamente rilevante, perché dice
che il gusto è il giudizio soggettivo della facoltà di giudizio in genere. Il che
significa che ogni giudizio (non solo quelli di gusto) rinvia ad una inelimi-
nabile componente „estetica‟. Kant ribadisce la differenza tra giudizi estetici
e giudizi logici. Ma ora sostiene che c‟è una condizione soggettiva (estetica)
di tutti i giudizi (non solo di quelli di gusto). Questa condizione è la stessa fa-
coltà di giudicare. La quale implica, richiede «l‟armonizzarsi delle due facoltà
rappresentative: vale a dire dell‟immaginazione (per l‟intuizione e la compo-
sizione del suo molteplice) e dell‟intelletto (per il concetto quale rappresen-
tazione dell‟unità di tale composizione)»19.
Ora, siccome i giudizi estetici non hanno come loro base un concetto, ma
solo la libera attività immaginativa, tale attività consisterà «nello schemati-
smo senza concetti»20. Schematizzare senza concetti significa pertanto ripro-
durre il modo con cui generalmente l’intelletto, nei giudizi conoscitivi, passa dall’in-
tuizione al concetto generando uno schema concettuale/determinato. In questo caso
lo schema è immaginativo, perché ha la forma di uno schema concettuale, ma
è indeterminato.
A questo punto rispunta la centralità della sensazione. Perché se non è un
concetto il fondamento del giudizio (di gusto, ma abbiamo visto che questo
tipo di giudizio esemplifica ogni giudizio che ci capita di formulare nella no-
stra esperienza „ordinaria‟), sarà una sensazione. E precisamente, la sensazio-
ne «del reciproco vivificarsi dell‟immaginazione nella sua libertà e dell‟in-
telletto con la sua conformità a leggi»21. Cos‟è questo reciproco vivificarsi di

18 I. KANT, op. cit., p. 78, corsivo nostro.


19 Ivi, p. 123.
20 Ibid.
21 Ivi, pp. 123-124.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 47

immaginazione ed intelletto? È come se l‟intelletto venisse corroborato da


un sentire l’adeguatezza o l‟inadeguatezza rispetto alle cose sensibili che incon-
tra e su cui si deve pronunciare attraverso il giudizio; o ancora: è come se si
verificasse una «agevolazione» delle facoltà conoscitive attraverso la perce-
zione della sensatezza dell’esperienza che stiamo per fare. Percezione che è lega-
ta non ad un concetto, ma ad un sentimento di piacere o dispiacere.

9. Il problema che si apre a questo punto (e ritornando un po‟ indietro


nel testo, precisamente al § 17) è il seguente: che vuol dire che principio di
determinazione del giudizio estetico è il «sentimento del soggetto» e non il
«concetto dell‟oggetto»? Vuol dire, anzitutto, che con queste riflessioni kan-
tiane comincia a mutare la fisionomia della soggettività moderna, la quale,
piuttosto che su un “io–penso”, si delinea a partire da un “io–sento”. Gilles
Deleuze, nelle sue lezioni su Kant, ha notato, giustamente, che la sogget-
tività introdotta nella filosofia moderna da Cartesio non è la soggettività
empirica, ma il suo riflesso logico–sostanziale. «Il cogito cartesiano – egli
scrive – è l‟assegnazione della sostanza come soggetto; il cogito kantiano è
qualcosa di completamente diverso. È come se [in Kant] ci fosse un passo
in più, cioè la forma della soggettività rompe con la sostanza. La sogget-
tività si libera della sostanzialità»22. Ma assumere il «sentimento del sogget-
to» come principio di determinazione vuol dire anche che, siccome si fonda
su un sentire, in tale giudizio di universale c‟è solo la comunicabilità della sen-
sazione (dell‟accordo o del disaccordo). E per questo non c‟è bisogno di un
concetto, giacché non è in questione la concordanza universale «di tutti i
tempi e di tutti i popoli» in occasione del sentimento connesso alla rappre-
sentazione di certi oggetti, ma il consenso di una certa comunità di persone in
un certo tempo (storicità del gusto)23.
Ora, sganciare la rappresentazione estetica dal legame necessario con la sfe-
ra dei concetti determinati, intanto non vuol dire affatto sganciarla dalla con-
cettualità in genere. Inoltre, l‟operazione teorica serve a Kant per assicura-
re/estendere anche alla sfera del contingente la plausibilità dei giudizi cono-
scitivi, rintracciandone la radice estetica (e non logica) nel lavoro dell‟im-
maginazione, cioè in quel suo “libero gioco” con l‟intelletto che, come ha

22 G. DELEUZE, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, tr. it. a cura di S. Palazzo,

Milano, Mimesis, 2004, p. 94.


23 Su questi aspetti, fondamentale rimane il volume di L. AMOROSO, Senso e consenso.

Uno studio kantiano, Napoli, Guida, 1984. Sul carattere storico del „senso comune‟ molto
importanti sono anche le considerazioni di P. MONTANI, Bioestetica, cit., pp. 44-45.
48 Romeo Bufalo

sottolineato Pietro Montani, «è preliminare a ogni gioco non–libero, a ogni


rapporto di immaginazione e intelletto finalizzato al conoscere»24. Quando,
nel già citato § 9 dell‟opera si chiede se il piacere nel giudizio di gusto pre-
ceda o segua il giudicare l‟oggetto, Kant sostiene che la soluzione di tale que-
sito rappresenta «la chiave della critica del gusto»25.
Il piacere per l‟oggetto non è la causa, ma la conseguenza della comunica-
bilità universale dello stato d‟animo, della sensazione, del sentimento. Que-
sto stato d‟animo è il sentimento di piacere che nasce dall‟accordo, dal libero
gioco delle facoltà rappresentative che riferiscono la rappresentazione alla
conoscenza in genere, non ad una conoscenza determinata. La determinatez-
za, infatti, chiuderebbe il „gioco‟ che, da libero, diventerebbe non–libero.
Anzi, non sarebbe più gioco. Che gioco è infatti un gioco in cui il giocatore
non sia libero di fare una mossa piuttosto che un‟altra? Più che un gioco, sareb-
be un‟attività che limita il soggetto ad una particolare regola, ad un concetto.
Nel discorso che qui Kant conduce, invece, la rappresentazione deve po-
ter convocare, nella sua indeterminatezza, una pluralità possibile di cono-
scenze, non una in particolare. Deve, cioè, evocare l‟idea di conoscenza senza
conoscere alcunché di particolare. Ora, una rappresentazione in vista di una
conoscenza in genere presenta, come sue componenti strutturali, l‟immagi-
nazione (che è, riprendendo la definizione della prima Critica, la facoltà di
comporre–omogeneizzare il molteplice delle intuizioni) e l‟intelletto (che è
la facoltà di unificare le rappresentazioni già rese omogenee dall‟immagi-
nazione).
Ciò che nel giudizio estetico si deve dunque comunicare, non è un og-
getto, ma è proprio tale „libero gioco‟, tale equilibrio tra le facoltà. Dunque,
è la comunicabilità universale del modo di sentire che un giudizio di gusto ci
deve assicurare. Il che vuol dire che ciò che ciascuno sente, lo sente come se
fosse un sentire che tutti gli altri giudicanti condividono con lui. Questo
„sentire l‟accordo‟ in genere (che ogni conoscenza deve possedere) precede
il piacere per l‟oggetto e ne è il fondamento26.
Sembra abbastanza evidente, da quello che Kant ha detto fin qui, che se
non ci sono regole oggettive del gusto che determinino il bello mediante
concetti, bisogna rivolgersi a un altro tipo di normatività. L‟unica via prati-
cabile è quella di considerare come norma alcuni prodotti del gusto, i quali

24 «A meno di una indeterminata e autonoma condizione estetica […], in altri termini,

– conclude Montani – nessuna conoscenza determinata sarebbe possibile» (ivi, p. 43).


25 Ivi, p. 52. Sull‟importanza del paragrafo si è soffermato acutamente F. DESIDERI, Il

passaggio estetico. Saggi kantiani, Genova, Il Melangolo, 2003, pp. 101 sgg.
26 I. KANT, op. cit., p. 53.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 49

saranno (in quanto normativi ed empirici ad un tempo) esemplari, cioè modelli


sensibili, l‟equivalente degli schemi dell‟intelletto della prima Critica. Ma,
mentre in quest‟ultima era predominante il lato intellettivo dello schema,
qui invece predomina il lato immaginativo–sensibile. Che è ciò che, come ab-
biamo visto, fa dire a Kant, nel § 35, che la libertà dell‟immaginazione consi-
ste nello schematizzare senza concetti (e che il giudizio di gusto riposa su una
semplice sensazione del reciproco vivificarsi dell‟immaginazione (=libertà) e
della conformità a leggi dell‟intelletto (=necessità).
Il senso di queste considerazioni viene ripreso e chiarito meglio qualche
paragrafo più avanti (il § 40), in cui, parlando del gusto come senso che ab-
biamo in comune, ovvero come «la facoltà di giudicare ciò che, in una rap-
presentazione data, rende il nostro sentimento universalmente comunicabile
senza la mediazione di un concetto»27, Kant ritorna sulla funzione dell‟im-
maginazione come ciò che consente di andare al di là dell‟intelletto (come
attesteranno, da qui a poco, le “idee estetiche”)28.
10. E veniamo, per concludere, al gruppo di paragrafi (43-49) dedicati da
Kant all‟arte. Fin qui egli ha parlato della bellezza come sentimento intersog-
gettivo, normatività ideale; dell‟interesse empirico e intellettuale per il bello,
ecc. Ma il bello, pur non essendo oggettivo, è pur sempre occasionato da fe-
nomeni sensibili sui quali noi proiettiamo (riflettendoci sopra) il nostro senti-
mento e, in seguito a ciò, li definiamo „belli‟ (o „brutti‟). E c‟è, come è noto,
un bello di natura ed un bello artificiale.
È a proposito di quest‟ultimo che l‟immaginazione conosce una nuova di-
slocazione teorica, perché Kant la rimette potentemente in gioco nell‟affron-
tare il problema della produzione artistica in generale, e dell‟autore dell‟opera
d‟arte, ossia del genio, in particolare. Talché, come ha rilevato a suo tempo
Mario Rossi29, l‟estetica kantiana cambia registro; e da teoria della ricettività,

27 Ivi, p. 132.
28 Affinché gli uomini possano agevolmente scambiarsi i loro pensieri è necessario che
l‟intelletto cooperi sempre con l‟immaginazione. Solo così, infatti, i concetti accompagneran-
no le intuizioni (e viceversa) in ogni conoscenza, rendendone possibile la circolazione inter-
soggettiva. In questo caso, però, l‟armonizzarsi delle due facoltà si realizza sotto la „costri-
zione‟ di concetti determinati. Se si vuole andare al di là della determinatezza intellettuale–
causale, bisogna che l‟immaginazione scavalchi, per così dire, l‟intelletto e si metta a costruire
in proprio nuove „regole del gioco‟. Scrive infatti Kant: «Solo là dove l‟immaginazione nella
sua libertà risveglia l‟intelletto e questo, senza concetto, mette l‟immaginazione in un gioco
conforme a regole, là si comunica la rappresentazione, non in quanto pensiero, ma in quanto
interno sentimento di uno stato dell‟animo conforme a scopi» (ivi, p. 132).
29 Cf. M. ROSSI, “Il concetto di finalità trascendentale nella „terza Critica‟”, in ID., Cultura
e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1974, il quale rileva, nella terza Critica, la presenza di un
contrasto tra «il carattere produttivo dell‟arte individuato come differenziante nei confronti
50 Romeo Bufalo

diventa una filosofia dell‟immaginazione produttiva. Da un‟estetica del gusto,


si passa ad un‟estetica del genio30.
Arte, per Kant, è «produzione mediante libertà»31. Ecco perché è immedia-
tamente connessa con il carattere essenzialmente „libero‟ dell‟immaginazione;
e si differenzia dai prodotti più „perfetti‟ dell‟attività istintuale–meccanica degli
animali. Per esempio, differisce dalla perfezione „automatica‟ delle cellette de-
gli alveari costruite dalle api, a cui manca la dimensione riflessiva, libera, pro-
gettuale di qualunque attività poietica umana. Commentando questa definizio-
ne dell‟arte, e la connessa teorizzazione kantiana della sua differenza rispetto ai
prodotti della natura, Pietro Montani ha scritto che «per quanto mirabile nella
sua esecuzione e nel suo schema costruttivo, il prodotto delle api […] è intera-
mente determinato da un fare istintivo (è la rigida esecuzione di un program-
ma genetico innato, diremmo oggi), mentre l‟opera dell‟uomo è intimamente
connessa con una “riflessione razionale”, cioè con una capacità di riflettere sul
fare e di anticiparlo progettualmente, che introduce nella tecnica umana un‟am-
pia e decisiva componente plastica e opzionale»32.
Stabilito dunque che „arte‟ significa „libera attività produttiva‟, Kant di-
stingue un‟arte meccanica ed un‟arte estetica. La prima ha come scopo la cono-
scenza di un oggetto e prescrive le azioni necessarie per realizzarlo. L‟arte
estetica ha invece come intento immediato il sentimento di piacere33. Questa, a
sua volta, può essere arte piacevole (quando mira esclusivamente al godimento
ed all‟attrattiva nella sensazione) oppure arte bella, la quale è un modo di rap-
presentare conforme a scopi, ma senza uno scopo determinato; e «promuove
la cultura delle facoltà dell‟animo in vista della comunicazione socievole»34.
L‟intreccio tra arte bella ed attività immaginativa diventa più stretto nei
paragrafi successivi. Vediamo. Kant scrive: «L‟arte bella è un‟arte in quanto
pare essere, nello stesso tempo, natura»; è il titolo del § 45 dell‟opera, ed in
esso è racchiuso il senso di questa estetica della poiesis kantiana. Cosa vuol dire?
Che di fronte ad una „bella‟ opera, noi dobbiamo essere consapevoli del fatto

della contemplazione del bello naturale» ed «il carattere ricettivo del sentimento e della sen-
sibilità affermato […] nella Critica della ragion pura» (p. 555).
30 Su questo «spostamento dalla facoltà di giudicare alla facoltà di produrre», cioè da

una sfera ricettiva ad una poietica, e sulle conseguenze che ciò produce in ordine alla teoria
kantiana dell‟immaginazione ha richiamato l‟attenzione P. MONTANI, “Kant, Schiller, Fichte.
L‟estetica critica e i suoi sviluppi”, in Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, a
cura di P. Montani, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 208-209.
31 I. KANT, op. cit., p. 139.
32 P. MONTANI, “Arte e tecnica: vecchie e nuove forme di dissidio e di alleanza”, in ID. e M.

CARBONI, Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 6.
33 I. KANT, op. cit., p. 141.
34 Ibid.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 51

che si tratti di qualcosa di „artificiale‟ e di non „naturale‟. Tuttavia, la confor-


mità a scopi della sua forma deve apparire libera da costrizioni e regole deter-
minate come se fosse un prodotto della natura. Come la natura è bella se ap-
pare, cioè se si manifesta, come arte, così l‟arte è bella se sappiamo, sì, che è
arte, «e tuttavia ci appare come natura»35.
Centrale, in entrambi i casi, è, come si può notare, il ruolo dell‟apparire sen-
sibile generato da un’attività poietica. Ma, mentre nel caso della natura la dimen-
sione poietica è in gioco solo di riflesso, nel caso dell‟arte essa emerge, per così
dire, in prima persona. Chi infatti fa apparire l‟arte come natura è l‟artista e l‟at-
tività poietico–immaginativa con cui opera. È, in altri termini, il genio (il § 46
si intitola infatti L’arte bella è l’arte del genio). Il genio è intermedio tra natura ed
arte perché porta la natura nell‟arte; è un talento naturale che produce regole
sulla cui base si formano opere d‟arte. Meglio ancora, è un‟«attitudine innata
dell‟animo (ingenium) mediante la quale la natura dà la regola all‟arte»36.
Ma di che tipo di regole Kant sta qui parlando? Non certo di quelle (de-
terminate) dell‟intelletto, perché queste darebbero vita a giudizi determi-
nanti (logico–conoscitivi), bensì di regole indeterminate, ossia di quelle regole
con cui formiamo non solo i giudizi sull‟arte (del tipo: “Questa cosa è bella”),
ma, più in generale, tutti i giudizi contingenti–singolari che ci capita di for-
mulare nella nostra esperienza (del tipo: “Quel tale è arrogante” o “Il tuo
amico è poco gentile”, ecc.). Si tratta di giudizi costruiti sull’esempio dei giu-
dizi di gusto. Per questo l‟opera del genio è esemplare: perché serve agli altri
membri della comunità di giudicanti in quanto fornisce loro indicazioni non
specifiche su come elaborare un‟esperienza qualunque in un giudizio, su come
elaborare qualcosa che ci viene dato in qualcosa di sensato. Se infatti le indi-
cazioni fossero dettagliate e stringenti, il giudizio sarebbe, in un certo senso,
obbligato, cioè necessario ed universale. Il carattere indeterminato serve in-
vece a garantire al soggetto giudicante un margine di libertà operativa legato
all‟imprevedibilità dell‟esperienza che stiamo per fare.
Ora, la facoltà con cui lavora prevalentemente il genio per rendere „inde-
terminate‟ le regole che produce è l‟immaginazione, la quale, in un gioco li-
bero (non subordinato, come accadeva nella prima Critica) con l‟intelletto
genera una pluralità indeterminata di sensi possibili nessuno dei quali è „quello
giusto‟, ma ciascuno può legittimamente aspirare a diventarlo. L‟immagina-
zione è pertanto una facoltà che si muove tra libertà e necessità, creatività e
regole.
Ecco, in questo statuto mobile, non esattamente delimitabile dell‟im-

35 Ivi, p. 142.
36 Ivi, p. 143.
52 Romeo Bufalo

maginazione37, che si muove continuamente tra il dato e il senso; meglio an-


cora, come dice Montani, che lavora sul dato per trasformarlo in senso, è
forse contenuta la risposta all‟interrogativo di fondo da cui la terza Critica in
fondo è nata, e che Kant formula problematicamente nell‟Introduzione, e cioè:
è possibile colmare quell‟«immenso abisso» che si apre tra il „dominio‟ della
natura ed il „dominio‟ della libertà, cioè, poi, tra il sensibile ed il soprasen-
sibile? In quella sede, come si ricorderà, Kant aveva avanzato una interes-
sante ipotesi teorica. Se i due mondi rimangono reciprocamente estranei ed
impermeabili, l‟attività degli uomini è destinata a rimanere drammaticamen-
te scissa tra un operare meccanico-naturalistico senza fini ed un agire proget-
tuale libero ma senza un fondo materiale-sensibile su cui esplicarsi. E tuttavia,
sostiene Kant, il concetto della libertà (che noi scopriamo su un piano sovra-
sensibile) «deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo assegnato dalle sue
leggi». Di modo che la natura (=l‟universo della necessità causale) possa es-
sere pensata in modo tale che essa si accordi almeno con la possibilità degli
scopi che la nostra ragione progetta liberamente di realizzare in essa. Su que-
sta base Kant formulava l‟ipotesi secondo cui ci deve essere un fondamento,
un Grund che colleghi il soprasensibile che sta alla base della natura (e che noi
non possiamo conoscere) con quell‟altro soprasensibile che il concetto della
libertà contiene praticamente. Questo fondamento non costituisce un nuovo
dominio nel territorio dell‟esperienza (che si aggiungerebbe come terzo agli
altri due, il teoretico ed il pratico, già esistenti). La sua funzione è un‟altra:
quella di rendere possibile «il passaggio dal modo di pensare secondo i prin-
cipi della natura al modo di pensare secondo il principio della libertà»38.
Giunti al termine della prima Parte dell‟opera, capiamo che questo pas-
saggio, questo Übergang dal mondo della necessità a quello della libertà è svol-
to dall‟immaginazione produttiva, cioè dall‟attività del genio che produce
idee estetiche (alle quali è dedicato il § 49). “Idee estetiche” è, come accade di
frequente in Kant, espressione ossimorica, essendo costituita da due termini
che rinviano, rispettivamente, al piano sovrasensibile (si ricordino le “idee del-
la ragione” della Dialettica trascendentale della prima Critica, di cui quelle
estetiche sono, come dice Kant, il pendant) ed al piano sensibile. Un‟idea este-

37 Sullo statuto „nomade‟ dell‟immaginazione kantiana ha richiamato l‟attenzione Gian-

ni Carchia, secondo il quale l‟immaginazione kantiana è come l‟eros del Simposio platonico:
lo spazio dell‟una e dell‟altro non è né sensibile né intelligibile; né umano né divino, coin-
cidendo con quello, metessico, della loro confusione; Cf. G. CARCHIA, Estetica ed erotica.
Saggio sull’immaginazione, Milano, Celuc, 1981, ora in ID., Immagine e verità. Studi sulla tra-
dizione classica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 135-136.
38 I. KANT, op. cit., p. 12.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 53

tica è pertanto, paradossalmente, un „sovrasensibile sensibile‟, o un „sensibile


sovrasensibile‟. Come è possibile? È possibile se si pon mente al fatto che l‟im-
maginazione è un libero schematizzare senza concetti. Schematizzare senza
concetti vuol dire – come abbiamo appena visto, e come hanno sottolineato
Emilio Garroni e Pietro Montani – rendere le rappresentazioni disponibili ad
una pluralità indefinita di concetti di volta in volta determinabili.
L‟idea estetica è infatti «quella rappresentazione dell‟immaginazione che
dà occasione di pensare molto, senza che però un qualche pensiero determi-
nato, cioè un concetto, possa esserle adeguato»39. Qui l‟immaginazione svol-
ge davvero un ruolo decisivo. Per usare le stesse parole di Kant, essa «è mol-
to potente nella creazione, per così dire, di un‟altra natura a partire dalla
materia che le dà la natura reale». Noi facciamo lavorare l‟immaginazione
molto spesso. Per esempio, «quando l‟esperienza ci appare troppo consueta»,
la trasformiamo in termini immaginativi secondo leggi analogiche. Altre vol-
te, però, la trasformiamo anche «secondo principi che stanno molto più in
alto, nella ragione […]; e in ciò sentiamo la nostra libertà dalla legge dell‟as-
sociazione […], secondo la quale ci è, sì, prestata dalla natura la materia, ma
questa può essere elaborata da noi in qualcosa che oltrepassa la natura»40.
Ecco, le i dee estetiche sono «qualcosa che oltrepassa la natura» pur essendo
natura. Tramite esse, ci liberiamo dalla legge dell‟associazione causale–mec-
canica che regola il mondo sensibile e, attraverso il sensibile stesso, intrave-
diamo il soprasensibile. È ciò che fa il poeta (e l‟artista in genere), il quale
presenta, fa apparire sensibilmente, rende figurativamente visibili idee razio-
nali di esseri invisibili (il regno dei beati, l‟inferno, la morte, la gloria,ecc.)
«con una compiutezza di cui non si trova esempio nella natura» Così facendo,
la rappresentazione dell‟immaginazione non solo non si lascia comprendere
sotto un concetto determinato, ma «estende esteticamente il concetto stesso
in modo illimitato»41. È un andare al di là del sensibile, ma sempre attraverso
le forme del sensibile.
Sul ruolo filosoficamente centrale dell‟immaginazione in questa terza Cri-
tica comincia a profilarsi, da un po‟ di tempo, una significativa convergenza di
studiosi kantiani (su alcuni dei quali ci siamo già soffermati nelle pagine prece-
denti), da Hannah Arendt42 a Emilio Garroni, da Paul Ricoeur43 a Pietro Mon-

39 Ivi, p. 149.
40 Ibid.
41 Ivi, p. 150.
42 Cf. H. ARENDT, “Immaginazione”, in EAD., Teoria del giudizio politico, con un saggio

di R. Beiner, tr. it. di P. Portinaro, Genova, Il Melangolo, 1990, pp. 119-127.


54 Romeo Bufalo

tani, da Maurizio Ferraris a Claudio La Rocca a Gianni Carchia a Jean Jaques


Wunenburger44.
L‟idea che, più o meno, li accomuna è che, con la Critica della facoltà di
giudizio, Kant, ponendo l‟immaginazione non più in un quadro gnoseologico
ma estetico, la libera dalla doppia tutela della percezione e del concetto.
Certo, il rapporto con l‟intelletto rimane (la cosa bella presenta pur sempre,
in analogia con l‟intelletto, un ordine, una finalità interna, ecc.), ma il suo
compito principale non è più quello di rinchiudere, per così dire, la natura
dentro forme o leggi generali, bensì di prefigurare/immaginare leggi empi-
riche particolari che stanno alla base di eventi altrettanto empirici e singolari
(v. la “legalità del contingente” di cui Kant parla nell‟Introduzione). Il proble-
ma della Critica della facoltà di giudizio è infatti quello dell‟esperienza effettiva,
ossia dell‟esperienza in carne ed ossa, e non dell‟esperienza semplicemente
possibile. Ed il campo di azione di essa è di gran lunga più esteso di quello
delle altre due Critiche, perché coincide con il territorio dell‟esperienza, den-
tro il quale si sono formati i due dominî (rispettivamente, dei concetti puri
dell‟intelletto e della ragione). Il problema di questa terza Critica, cioè, coin-
cide con quello della conoscenza del particolare della natura (delle sue leggi
empiriche). In vista della quale viene introdotto un principio „estetico‟ (e
non logico, perché per fondare una conoscenza determinata non possiamo
ricorrere ad un‟altra conoscenza determinata): che è quello di pensare la na-
tura nelle sue empiriche particolarità, come se essa si accordasse con i nostri
scopi conoscitivi; come se fosse retta dal principio (finale e non causale) della
conformità a scopi. Insomma, con la terza Critica non ci troviamo più nel
luogo teorico dell‟esperienza possibile, ma nel luogo fisico in cui accadono
effettivamente i fenomeni, rispetto ai quali dobbiamo costruire/inventare
/creare una regola. Più che ricercare la causa di ciò che può accadere, noi ci
interroghiamo sullo scopo, sul senso di ciò che accade effettivamente. E la sensa-

43 Di cui si veda il ciclo di lezioni tenute al Collège de France tra il 1973 ed il 1974 (P.

RICOEUR, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, tr. it. di R. Messori, Palermo, CISE,
2002). L‟aspetto più interessante della lettura di Ricoeur consiste nell‟idea secondo cui
l‟immaginazione kantiana (e le riflessioni sul genio in particolare) contengono i presupposti
per una nuova teoria della soggettività moderna. L‟aspetto più interessante della lettura di
Ricoeur, la cui discussione però ci porterebbe fuori dall‟ambito scelto per questo semi-
nario, è contenuto nelle considerazioni che vedono nell‟immaginazione kantiana (e nelle
riflessioni sul genio in particolare) i presupposti per una nuova teoria della soggettività.
44 Cf. J.J. WUNENBURGER, Filosofia delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Torino, Einaudi,

1999, spec. pp. 86-93. Di MAURIZIO FERRARIS è da vedere anche “L‟immaginazione come
idealizzazione intraestetica nella Critica della ragion pura”, Rivista di estetica 42 (1994), pp.
55-68.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 55

tezza (o l‟insensatezza) di ciò che accade, o sta per accadere, non la cono-
sciamo (logicamente), ma la sentiamo (esteticamente), ossia la anticipiamo in
un giudizio estetico. La intravediamo dentro le maglie dei singoli fenomeni
dell‟esperienza. Opsis tōn adēlon ta phainomena, «visione di cose invisibili sono
i fenomeni» recita un celebre frammento di Anassagora, opportunamente
richiamato da Hannah Arendt45 per sostenere che chi ci fa vedere ciò che non
si vede, chi rende presente ciò che è assente nella percezione è proprio l‟im-
maginazione kantiana.

45 H. ARENDT, Teoria del giudizio politico, cit., p. 120.


FELICE CIMATTI

Il limite tattile dell’io.


Storia naturale della soggettività corporea

1. Nel Trattato delle sensazioni Condillac propone una teoria radical-


mente sensista, e soprattutto tattile, della costituzione del soggetto della
conoscenza: la statua scopre appunto di essere un io grazie al tatto. Per
Condillac il punto decisivo in cui la statua si accorge di esserci, e non
soltanto di agire sul mondo, è quando tocca sé stessa. In questo intervento
proviamo a mostrare come questa operazione, dallo stesso punto di vista di
Condillac, in realtà non sia giustificata: non è sufficiente, cioè, distinguere
«il proprio petto dalla propria mano» (CONDILLAC, 1754, trad. it. 1970, p.
107) perché la statua scopra di essere una soggettività autonoma. Propo-
niamo quindi una integrazione del modello di Condillac, sempre in qualche
modo basata sul tatto, che tuttavia prevede l‟intervento di una soggettività
esterna. Questa estensione verrà quindi concretamente illustrata mediante
alcuni esperimenti etologici che mostrano come una soggettività naturale
possa nascere soltanto grazie ad una mediazione esterna, in particolare una
mediazione sociale. Ma, seguendo Condillac, questa mediazione assume an-
cora la forma di una stimolazione segnica di tipo tattile. Il sensismo mate-
rialista di Condillac, in questo modo, viene preservato, ma allargandolo al-
la sfera sociale.

2. Il presupposto del processo conoscitivo della statua è quello che po-


tremmo definire una sorta di individualismo sensista: «la natura ci dà organi
che ci avvertono per mezzo del piacere di ciò che dobbiamo cercare e per
mezzo del dolore di ciò che dobbiamo fuggire. Ma essa s‟arresta lì, e lascia
all‟esperienza la cura di farci contrarre abitudini e di compiere l‟opera che
ha cominciato» (ivi, p. 7). Sono le esperienze individuali che così permet-
tono alla statua, gradualmente, di sviluppare l‟insieme delle conoscenze
che la sua struttura corporea le consente, naturalmente, di apprendere.
L‟espediente narrativo di aggiungere un senso alla volta alla dotazione sen-
soriale della statua serve a Condillac per introdurre, all‟interno del suo ap-
parato teorico rigidamente sensista, l‟unico presupposto psicologico interno
di cui ha bisogno per la sua teoria dello sviluppo conoscitivo della statua:

Bollettino Filosofico 25 (2009): 56-68 56


Il limite tattile dell’io 57

un presupposto che, in realtà, nel suo sensismo radicale non trova giusti-
ficazione. Condillac sa bene che l‟esperienza, di per sé, non è orientata:
vedere una mela significa, nello stesso momento, vedere una forma, un
colore, sentire un profumo, vedere una azione (RIZZOLATTI, SINIGAGLIA,
2004), e molte altre possibilità ancora: «se una moltitudine di sensazioni si
fa innanzi, tutte in una volta, con lo stesso grado di vivacità, o pressappoco,
l‟uomo è ancora soltanto un animale che sente: basta l‟esperienza per
convincerci che allora la moltitudine delle impressioni impedisce ogni at-
tività dello spirito. Ma lasciamo sussistere una sola sensazione; oppure,
senza sopprimere interamente le altre, se ne diminuisca soltanto la forza;
subito lo spirito è occupato più particolarmente dalla sensazione che con-
serva tutta la sua vivacità, e questa sensazione diventa attenzione, senza che
sia necessario presupporre nulla di più nell‟anima» (ivi, p. 18). Fin dall‟ini-
zio si pone allora il problema di come rendere la sensazione, che per Con-
dillac è l‟unico carburante del motore cognitivo, una attività determinata,
e selettiva. Siccome Condillac non può, e non vuole, perché il suo quadro
teorico glielo impedisce, introdurre un vincolo percettivo interno, ciò che
lo porterebbe pericolosamente vicino ad una sia pur blanda forma di innati-
smo, deve trovare un modo esterno perché si formi l‟attenzione, cioè ap-
punto la capacità di dirigere selettivamente la percezione. Dal momento
infatti che «le impressioni che io provo, possono essere [...] così estese,
così variate e in sì gran numero, ch‟io vedo un‟infinità di cose, senza pre-
stare attenzione a nessuna; ma appena fermo la vista su di un oggetto, ecco,
le sensazioni particolari che ne ricevo, sono l‟attenzione stessa che io gli
presto» (ibid.). Ecco, questo è il problema, che, come vedremo più avanti,
è particolarmente grave nel caso che ci interessa in questo lavoro: una sog-
gettività, infatti, è appunto una attenzione capace di prestare attenzione a
sé stessa. A Condillac serve allora un doppio livello di attenzione, quella
originaria, e poi quella – questa seconda è la coscienza – che si concentra
sulla prima: «la nostra capacità di sentire si divide, dunque, tra la sensa-
zione che abbiamo avuta e quella che ora abbiamo: noi le percepiamo tutte
e due insieme, ma le percepiamo in modo diverso» (ibid.). Questa distin-
zione di grado fra le due sensazioni, però, non è affatto sufficiente a dare a
Condillac quello di cui ha bisogno: il punto è che in realtà non esistono sen-
sazioni come entità atomiche che possano essere confrontate fra loro. E
senza sensazioni già distinte non può nemmeno esserci una coscienza auto-
noma che si concentri ora su una ora sull‟altra sensazione. All‟inizio c‟è un
flusso esperienziale, e quindi il problema sarà come distinguere, all‟interno
58 Felice Cimatti

di questo flusso, delle porzioni unitarie, cioè appunto delle sensazioni di-
stinte. La sensazione, allora, non è il punto di partenza del processo cono-
scitivo, al contrario, è il punto di arrivo: la sensazione è un insieme circo-
scritto del campo sensoriale. La coscienza, allora, presuppone la capacità di
prestare attenzione in modo selettivo a porzioni del campo sensoriale. Non
si può, pertanto, affidare allo stesso campo sensoriale il compito di guidare
l‟attenzione, come invece fa Condillac: «se una nuova sensazione acquista
più vivacità della prima, essa diverrà a sua volta sensazione» (ibid.). Rias-
sumiamo lo stato del problema: si tratta di costruire una teoria tattile della
soggettività, cioè una coscienza in grado di prestare attenzione alla propria
coscienza. Condillac vuole costruire questa entità psicologica senza presup-
porre nessuna capacità interna. Il punto critico è l‟attenzione: come fare a
dirigere l‟attenzione non su un‟altra sensazione, bensì su sé stessa? Con-
dillac di fatto non sa rispondere a questa domanda, se non trasformando il
problema in un presupposto: «in tal modo noi siamo capaci di due atten-
zioni: l‟una si esercita per mezzo della memoria, l‟altra per mezzo dei sen-
si. Ma se c‟è doppia attenzione, c‟è il confronto: perché prestare atten-
zione a due idee o paragonarle è la stessa cosa» (ivi, p. 19). Così ciò che
una teoria sensoriale della cognizione non può sviluppare, cioè una teoria
dell‟attenzione guidata dall‟interno, che appunto non si può costruire per-
ché in questo quadro è ammessa soltanto una stimolazione dall‟esterno, di-
venta un presupposto ingiustificato. Il problema, senza spiegare come, di-
venta così la sua stessa soluzione.
Questo è l‟ostacolo che si pone per una teoria unicamente e integral-
mente sensoriale. In generale è il problema di come sviluppare l‟intero in-
sieme delle capacità cognitive a partire soltanto dalla stimolazione senso-
riale che un individuo isolato può ricevere. Qui ci interessa la nascita e lo
sviluppo della soggettività. Un‟entità del genere ha bisogno di un doppio
piano dell‟esperienza, di una gerarchia dell‟attenzione. Condillac ha chiaro
il problema, è la sua soluzione a non essere convincente. Lui stesso, infatti,
ammette che «l‟occhio vede naturalmente tutte le cose che fanno qualche
impressione su di lui, ma aggiungo che non discerne se non in quanto im-
para a guardare, e [...] per discernere la più semplice figura, non basta ve-
derla» (ivi, p. 23). Il problema è quindi come insegnare al tatto a svilup-
pare questa capacità di discriminazione selettiva: in particolare, questo
processo di insegnamento è affidato all‟esperienza individuale oppure anche
a quella sociale?
Il limite tattile dell’io 59

3. Il punto di sviluppo decisivo, per Condillac, è quando la statua sco-


pre la propria stessa, per dir così, statuità. La proprietà fondamentale attra-
verso la quale la statua scopre sé stessa è la «impenetrabilità» dei corpi, dal
momento che «la sensazione di solidità non è dunque lo stesso come per le
sensazioni di suono, di colore e di odore, le quali l‟anima percepisce natu-
ralmente, non conoscendo ancora il proprio corpo» (ivi, p. 106). Una sen-
sazione come quella del colore, ad esempio, si presenta come tutta esterna,
vedo qualcosa di colorato, senza che questo implichi che veda anche che lo
sto vedendo (in realtà questo punto non è del tutto vero, non ce ne rendia-
mo conto ma, nel vedere quel che stiamo vedendo, vediamo anche il no-
stro stesso naso; cf. GIBSON, 1966). La sensazione della «impenetrabilità»,
invece, per Condillac implica una doppia direzione, oggettiva e soggettiva,
verso l‟oggetto che viene percepito dal tatto e verso il corpo che sta toc-
cando quell‟oggetto: «essendo proprio di quella sensazione [la impenetra-
bilità] di rappresentare due cose insieme che si escludono l‟una fuori dal-
l‟altra, l‟anima non percepirà la solidità come una di quelle modificazioni
in cui non trova due cose che si escludono reciprocamente, e per conse-
guenza la percepirà in queste due cose. Ecco, dunque, una sensazione in
cui l‟anima passa da sé a fuori da sé, e già si comincia a comprendere come
le verrà fatto di scoprire il proprio corpo» (ivi, p. 107). Ancora una volta
Condillac ha bisogno di una sensazione, per dir così, una e bina, oggettiva e
soggettiva nello stesso tempo, esterna ed interna. La statua, finalmente,
scopre d‟essere un io quando toccando qualcosa (il proprio corpo), in real-
tà scopre anche sé stessa che sta toccando qualcos‟altro:
essendo la Statua organizzata in modo che le impressioni prodotte su di lei
producono tosto in lei dei movimenti, noi possiamo supporre che la sua mano
si porti naturalmente su qualche parte del suo corpo, per esempio sul petto: la
sua mano e il suo petto, in tal caso, si distingueranno per la sensazione di soli-
dità che si rimandano a vicenda, e che li mette necessariamente l‟uno fuori
dell‟altro. Intanto, distinguendo il proprio petto dalla propria mano, la Statua
ritroverà il proprio io nell‟una e nell‟altro perché essa si sente ugualmente in
entrambi, e, qualunque altra parte del corpo tocchi, la distinguerà nello stesso
modo e vi si ritroverà ugualmente (ibid.).

Progressivamente, attraverso un processo di esplorazione che si estende a


tutto il proprio corpo formerà, almeno così ritiene Condillac, una immagi-
ne unitaria di sé stessa, come un formato di parti ma continuo: «se le ac-
cade di condurre la mano lungo il braccio, e senza far salti, sul petto, sulla
testa, ecc., sentirà, per dir così, sotto la sua mano una continuità dell‟io, e
60 Felice Cimatti

questa mano unificante in un solo continuo le parti dianzi separate ne


renderà più viva l‟estensione» (ivi, pp. 107-108). Qui è evidente il limite
di un empirismo radicale come quello di Condillac: in effetti che la mano
tocchi il proprio corpo senza staccarsi mai da esso, ammesso che sia anato-
micamente possibile, non implica affatto che da quella esplorazione sorga
una unità complessiva. Un conto è esplorare un oggetto, un altro unificare
tutte quelle esplorazioni di parti corporee diverse (testa, braccia, tronco,
gambe, piedi) in un‟entità unitaria, l‟io della statua. Quando la mano fini-
sce di esplorare il corpo ha semplicemente finito di esplorare un oggetto;
non c‟è nessuna ragione per cui l‟insieme delle esplorazioni diventi un‟uni-
ca entità. C‟è la sensazione della testa, poniamo, poi quella del braccio
sinistro (se la mano che esplora è la destra), e poi quella del petto e così via.
In quanto sensazioni sono tutte ad uno stesso livello: sommandole non ot-
teniamo altro che sensazioni, mentre quella dell‟io non è una sensazione
nello stesso senso. In realtà, come già è successo nel caso dell‟attenzione, è
solo perché presupponiamo l‟esistenza dell‟io che possiamo parlare di parti
del corpo: solo se è dato l‟intero possiamo individuarne delle parti. Se par-
tiamo da dei pezzi sparsi, ognuno preso come entità a sé stante, neanche
verrà in mente che, messi insieme, possano formare un insieme unitario. In
realtà l‟intero, l‟io, non è della stessa specie delle sensazioni (tattili) cor-
rispondenti alle diverse parti del corpo. Condillac, al contrario, è costretto
– per rimanere coerente con il suo approccio – a supporre che si possa co-
struire un io partendo dalle sue parti:
la Statua impara dunque a conoscere il suo corpo, e a riconoscersi in tutte le
parti che lo compongono. Appena porta la mano su una di esse, lo stesso es-
sere senziente par che si risponda dall‟una all‟altra: “sono io”; e se continua a
toccarsi, sempre la sensazione di solidità le rappresenterà due cose che si
escludono e nello stesso tempo sono contigue, e sempre lo stesso essere sen-
ziente si risponderà dall‟una all‟altra: “sono io, sono ancora io!”. Egli si sente
in tutte la parti del corpo, né più gli accade di confondersi con le sue modifi-
cazioni: non è più il caldo o il freddo, ma sente il caldo in una parte e il freddo
in un‟altra (ivi, p. 108).

Non è un caso che nel punto decisivo del suo ragionamento Condillac
ricorra ad una analogia linguistica; «tutte le parti» corporee ricorrono
infatti alla mediazione linguistica per affermare di fare parte di uno stesso
corpo, dicono così «“sono io”». In realtà questa analogia dimostra un pro-
blema teorico, che nel modello di Condillac non trova soluzione. Prendia-
mo sul serio questa analogia. Perché la mano possa dire “sono io” deve ave-
Il limite tattile dell’io 61

re imparato l‟italiano, cioè deve essere stata educata in una particolare


comunità linguistica. Questo significa che qualcuno fuori di sé le ha dato
dei mezzi segnici per comunicare, agli altri e a sé stessa: la mano così po-
trebbe dire, di sé, d‟essere quel che è, d‟essere un io, soltanto perché qual-
cuno, fuori di sé, al suo esterno, le ha fornito i mezzi per compiere questa
operazione. Quando dico “io” lo posso dire perché qualcun altro mi ha in-
segnato il valore d‟uso di “io”: la scoperta della mia soggettività esplicita
non avviene nel chiuso del mio interno, al contrario, richiede di passare
per la soggettività di qualcuno fuori di me. Questo è il limite dell‟empiri-
smo intransigente a cui la statua è costretta da Condillac: se davvero vo-
gliamo che la statua, anche prima di imparare a parlare, possa scoprire
d‟essere un io, occorre che il suo corpo incontri altri corpi. La soggettività
del corpo è un effetto della relazione con degli altri corpi.

4. La posta in gioco è allora quanto la coscienza, a partire da quella tat-


tile, possa essere considerata un fenomeno che si svolge all‟interno di un
individuo, all‟interno della statua, oppure quanto sia in fenomeno che, ol-
tre a richiedere la compresenza, insieme al tatto, anche degli altri sensi
(GALLACE, SPENSE, 2008), richieda una relazione con altri corpi: se la co-
scienza, cioè, sostanzialmente sia un fenomeno psicologico oppure un feno-
meno sociale. Un modo per scoprire quale di queste due ipotesi sia quella
corretta è partire dall‟analisi di alcuni organismi viventi, cioè da delle sta-
tue in carne ed ossa, che tuttavia non usano, né per comunicare né per
pensare, il linguaggio verbale. Come si forma, negli animali non umani,
una prima forma di coscienza di sé? Cioè la coscienza non soltanto di quello
che stanno facendo, ma anche di almeno alcuni dei loro stati d‟animo rela-
tivi a quello che stanno facendo. Un conto infatti è l‟attenzione oggettiva,
che troviamo tanto nella statua di Condillac che in qualunque altro animale,
un‟attenzione rivolta all‟oggetto con cui l‟animale sta interagendo; tutt‟al-
tra l‟attenzione soggettiva, cioè il prestare attenzione, almeno in parte, a
quanto accade dentro un animale mentre è impegnato ad occuparsi dell‟og-
getto. Prendiamo il caso di un orango a cui viene richiesto di prestare at-
tenzione a quello che ricorda di una esperienza precedente (SUDA-KING,
2008). Su un tavolo in piena vista ci sono due piattini: su uno viene messo
un chicco d‟uva, di cui il primate è ghiotto, l‟altro rimane vuoto. Poi i
piattini vengono coperti con delle coppette, e spostate lungo il tavolo ri-
spetto alla posizione iniziale. Il compito dell‟animale non umano è indicare
la coppetta sotto la quale lo sperimentatore ha nascosto il chicco d‟uva: se
62 Felice Cimatti

indica quella giusta il chicco è suo. Fra le due coppette, infine, c‟è una sca-
tola che contiene con sicurezza un bocconcino di cibo per cani, che l‟oran-
go non apprezza in modo particolare. Quando l‟orango è sicuro di ricorda-
re sotto quale coppetta si trovi il chicco d‟uva il compito è facile; l‟esperi-
mento è però congegnato in modo tale da rendere talvolta difficile ricor-
dare quale sia la coppetta giusta (ad esempio cambiando la loro posizione
reciproca sul tavolo). Quando l‟orango non è sicuro della sua memoria
spesso preferisce non provare nemmeno ad indovinare quale sia la coppetta
giusta, e sceglie senza esitazione la scatola con il cibo per cani, che anche se
non è particolarmente gradito ha il pregio indubbio di esserci sempre. Co-
me possiamo descrivere questo esperimento senza ricorrere a termini psi-
cologici? In realtà in questo esperimento occupa una posizione centrale la
scatolina che contiene il cibo per cani. L‟orango può imparare a concen-
trarsi sul suo ricordo proprio perché dispone della scatola: questa funziona
come un segno esterno che gli permette di concentrare la sua attenzione su
un evento interno, il suo ricordo. La vista del chicco d‟uva e della coppetta
che lo ricopre è una esperienza che, come tutte le altre esperienze, ver-
rebbe presto dimenticata, perché altre nuove ne sopraggiungono, e quindi
ne indeboliscono il ricordo. Il problema psicologico dell‟orango è come fis-
sare, in particolare, il ricordo proprio di quella esperienza: la scatola serve
proprio a questo, offre alla scimmia un mezzo esterno che gli „ricorda‟ di
non dimenticare quello che ha appena visto; un po‟ come un nodo al faz-
zoletto (VYGOTSKIJ, 1960) ci „ricorda‟ di ricordare un appuntamento (oggi
facciamo lo stesso con le agende elettroniche, ma il procedimento è lo
stesso). Grazie al segno esterno, cioè alla scatola, l‟orango può mantenere
fissa l‟attenzione sul suo ricordo, cioè appunto su un evento interno; e così
può anche decidere di comportarsi in un modo o in un altro, se si accorge
che quel ricordo – per qualunque ragione – non è affidabile. In quest‟ul-
timo caso prende il cibo per cani, cioè sceglie un premio poco apprezzato
ma sicuramente esistente, rispetto ad uno più apprezzato ma solo probabile.
Quello che ci interessa in questo esperimento è che l‟orango diventa ca-
pace di riferirsi in modo cosciente ed esplicito ad un suo stato interno sol-
tanto perché dispone di uno stato esterno che gli permette di prestare atten-
zione in modo selettivo proprio e soltanto a quello stato interno. In effetti
non è sufficiente essere animali coscienti perché si sia anche animali dotati
di una vita mentale interna. Occorre anche un mezzo per individuare un
particolare stato interno rispetto a tutti gli altri stati mentali che sono
presenti in ogni istante nello spazio mentale interno. Proprio il punto a cui
Il limite tattile dell’io 63

Condillac non riesce a rispondere. In questo esperimento il mezzo esterno


che permette di individuare lo stato interno è una scatola, che qui funziona
come un segno visivo e tattile che seleziona, dentro il mondo mentale
dell‟orango, solo e soltanto il ricordo dell‟esperienza con il chicco d‟uva e
la coppetta che l‟ha coperto. Alla fine l‟orango, come la statua, scopre di
essere un io proprio perché diventa cosciente di essere cosciente: il punto
è che questa scoperta presuppone una mediazione esterna, ed in particolare
una mediazione sociale. È stato lo sperimentatore, infatti, che ha offerto
all‟io in formazione dell‟orango un mezzo per cominciare ad organizzare la
sua vita mentale interiore. In realtà, anzi, si può dire che la vita mentale
dell‟orango comincia dopo aver imparato ad usare internamente dei mezzi
esterni. In questo modo, fra l‟altro, si risponde a quelle critiche che non
concedono agli animali non umani la capacità psicologica della metaco-
gnizione, cioè di essere capaci di pensare al proprio stesso pensiero (CAR-
RUTHERS, 2008). Il punto è che la meta-cognizione non è una capacità psi-
cologica, non è una capacità interna, al contrario, è una pratica sociale me-
diata da segni esterni.
In realtà il potere della mediazione segnica è straordinario, perché sem-
bra capace di trasformare anche la mente di animali molto diversi dai pri-
mati, come ad esempio quella del ratto (FOOTE, CRYSTAL, 2007; CRYSTAL,
2009). L‟esperimento a cui sono stati sottoposti questi animali riprende lo
schema generale che abbiamo appena incontrato in quello con gli oranghi
(SMITH et al., 1997; HAMPTON, 2001; HAMPTON, SCHWARTZ, 2004; SMITH,
WASHBURN, 2005; HAMPTON, HAMPSTEAD, 2006). Il compito percettivo
proposto a questi animali è apparentemente semplice: devono riconoscere
(infilando il naso in due apposite aperture, che chiameremo, per semplicità,
ACCETTO e RIFIUTO; naturalmente il significato di queste etichette non è lo
stesso per il topo. Quello che conta però è il loro valore distintivo) uno sti-
molo sonoro o come BREVE o come LUNGO. Lo stimolo ha una durata va-
riabile che dura fra i 2 e gli 8 secondi. Gli sperimentatori hanno deciso che
fino ad una durata di 3,62 secondi lo stimolo va classificato nella classe
BREVE, mentre da 4,42 secondi in poi rientra in quella LUNGO. La difficoltà
maggiore per il ratto sorge, ovviamente, quando la durata dello stimolo ri-
cade nella zona intermedia fra BREVE e LUNGO. In questa zona grigia il ratto
comprende presto che il compito è molto difficile, se non di fatto impos-
sibile. Qui è decisivo che il ratto disponga di un mezzo che l‟aiuti a concen-
trarsi sul ricordo dello stimolo sonoro: senza questo aiuto il ricordo dello
stimolo, già di per sé poco discriminabile, diventerebbe troppo confuso, e
64 Felice Cimatti

quindi inutilizzabile per l‟esperimento a cui il ratto partecipa. L‟esperi-


mento è così articolato: nel 33% dei casi il ratto deve subito affrontare la
prova di riconoscimento, mentre nell‟altro 67% può scegliere se accettare la
prova oppure no. Quando rifiuta la prova riceve subito una piccola ricom-
pensa di un cibo che però non gradisce particolarmente. Negli altri casi af-
fronta la prova, che consiste nell‟abbassare una di due leve (breve e lungo);
se il ratto abbassa quella giusta (se quindi assegna lo stimolo sonoro alla sua
corretta classe di appartenenza) riceve una generosa e gradita ricompensa,
se abbassa quella sbagliata nessuna ricompensa. Lo schema generale del-
l‟esperimento è mostrato nella figura qui sotto:

Presentazione dello stimolo sonoro

breve lungo accetto rifiuto

O cibo molto gradito o Cibo poco gradito


nessuna ricompensa

Il risultato di questo esperimento è molto interessante, nella direzione di


ampliare le possibilità conoscitive degli animali non umani e della povera e
solitaria statua di Condillac: quando lo stimolo sonoro è facilmente identi-
ficabile come BREVE oppure come LUNGO, in quel 67% di casi in cui deve
scegliere se proseguire l‟esperimento o no, il ratto accetta sempre la prova.
Quando invece lo stimolo sonoro si colloca più o meno a metà fra questi
due estremi il ratto, se ne ha la possibilità, rifiuta la prova. Quando il com-
pito è particolarmente difficile il ratto sceglie, di fatto, la semplice strategia
ma efficace di meglio un uovo oggi anziché una possibile ma anche molto
aleatoria gallina domani. In pratica il ratto, mediante il segno artificiale ester-
no (il mezzo tattile esterno ACCETTO) riesce a prestare attenzione in modo
selettivo ad una esperienza che ha appena vissuto; se è sicuro di quello che
ha da poco ascoltato, se cioè si sente in grado di classificarlo senza difficoltà
come BREVE o LUNGO, accetterà la successiva prova di riconoscimento, altri-
Il limite tattile dell’io 65

menti la rifiuta. Attraverso la mediazione segnica «i ratti sanno quando non


conoscono la risposta al test di discriminazione della durata [dello stimolo
sonoro]» (FOOTE, CRYSTAL, 2007, p. 553).
Va precisato che l‟esperimento non sostiene affatto che la memoria di
un‟esperienza sia un fenomeno segnico; non sostiene, cioè, che per ricor-
dare qualcosa sia necessaria la mediazione di un segno, o in generale del
linguaggio. Sostiene che per trasformare l‟esperienza implicita di un evento
sonoro in un‟esperienza esplicita, che il ratto può adottare come base per
un ulteriore processo cognitivo, l‟animale ha bisogno di appoggiarsi su di
un segno esterno (HAMPTON, 2003). Questo gli permette di prendere co-
scienza di un evento interno, il ricordo dello stimolo sonoro appena ascol-
tato, e quindi di comportarsi di conseguenza. Il segno artificiale esterno
indirizza la sua attenzione verso uno stato interno, che – una volta entrato
nel raggio di ciò che si può pensare in modo esplicito e consapevole – può
pertanto essere usato in un modo oppure in un altro; a questo punto si
manifesta la libera volontà del ratto, perché può scegliere solo chi abbia
delle alternative, che ora infatti esistono. Propriamente lo stato interno si
forma, in quanto stato interno, insieme al mezzo esterno che permette al-
l‟animale di individuarlo, e quindi di pensarlo.
In generale attraverso la mediazione segnica diventa possibile per un
animale fare esperienza del tempo, cioè di collocare il momento che si sta
vivendo rispetto a quelli che si potranno vivere e a quelli che si sono vissuti,
così come probabilmente accade per l‟animale umano (ATANCE, O‟NEILL,
2005). In effetti l‟esperienza del tempo presuppone che chi la stia vivendo
sia in grado di differenziare il presente dagli altri possibili tempi. Ora, co-
m‟è possibile quest‟operazione? Com‟è possibile, cioè, isolare una porzio-
ne della propria esperienza dal flusso inarrestabile multidimensionale e
multisensoriale del tempo e individuarla come presente, o passato, o futu-
ro? In un esperimento si è riusciti ad insegnare a dei delfini un segno arbi-
trario che richiedeva, semplicemente, di ripetere l‟ultima azione che aveva-
no compiuto (MERCADO et al., 1998). Un segno del genere permette di fis-
sare l’attenzione sul proprio stesso comportamento, in particolare sul proprio
comportamento passato. In questo modo può diventare possibile distin-
guere appunto ciò che è stato da ciò che attualmente è. Il segno arbitrario
interrompe l‟indifferenziato (implicito, partecipe ma non consapevole)
fluire del tempo, e di fatto lo articola in porzioni distinte, cosicché rende
l‟esperienza del tempo, e non solo quella inconsapevole che si svolge nel
tempo, qualcosa di esplicitamente praticabile; ancora una volta, non è il se-
66 Felice Cimatti

gno esterno che crea il tempo, però lo rende un fenomeno delimitabile,


permette di distinguere porzioni temporali distinte. Di per sé il tempo non
è diviso in presente passato e futuro: questa distinzione presuppone un
mezzo per introdurre delle differenze all‟interno dello scorrere temporale.
In questo senso la possibilità di individuare un momento passato, nel tem-
po, e quindi anche uno presente (cioè non passato) e uno futuro (come né
presente né non presente = passato), presuppone l‟esistenza di un mezzo
fisico che introduca la possibilità di questa articolazione.
Nello stesso modo si può approntare una situazione sperimentale che
implicitamente permette di articolare diverse esperienze nel tempo: in
questo caso si costruisce un esperimento che permette ad una ghiandaia
(Aphelocoma californica), di prospettare esperienze diverse future. Nella gabbia
in cui si svolge l‟esperimento ci sono tre ambienti, A B e C. Il fondo di A e
C è ricoperto di un materiale che permette di nascondervi del cibo. La
ghiandaia, di sera, può circolare liberamente nei tre ambienti. Nei giorni
passati l‟animale la mattina è stato chiuso, alternativamente, in A o in C, in
uno dei quali non ha mai trovato del cibo. Poi, senza preavviso, una sera gli
viene dato del cibo, più di quello di cui abbia bisogno in quel momento,
più di quanto ne possa mangiare. Dove lo sotterrerà, per poterlo poi ritro-
vare quando ne avrà bisogno? Se ha un qualche senso del tempo lo nascon-
derà nel compartimento in cui, per esperienza passata, sa che l‟indomani
non ne troverà. È quello che fa, appunto. Allo stesso modo, quando gli
vengono dati come cibo contemporaneamente dei pinoli interi ed una pol-
vere di pinoli preferisce nascondere i pinoli nel terriccio del comparti-
mento in cui sa che l‟indomani non troverà cibo e mangiare subito la pol-
vere di pinoli che non può, invece, essere sotterrata. In questo caso è la di-
versità degli scompartimenti A B e C a rappresentare, per la ghiandaia, un
segno esterno a cui agganciare l‟esperienza del tempo, anche di quello che
verrà, del futuro. Come nel caso dei delfini lo scorrere compatto del tempo
viene di fatto suddiviso mediante i segni, e così diventa possibile fare espe-
rienza anche di ciò che al momento non è attuale, ma presto lo sarà. La
divisione in tre scompartimenti della gabbia svolge il ruolo che, nell‟am-
biente umano, ha il calendario, il sistema artificiale per controllare, ricorda-
re e anticipare il tempo (cf. ROBERTS, 2007).

5. Perché la statua di Condillac possa costruire il proprio io, cioè una


soggettività che si rende conto di essere una soggettività, deve passare per
una esperienza che non soltanto la porti fuori di sé, come succede per ogni
Il limite tattile dell’io 67

esperienza sensoriale. Occorre una particolare esperienza sociale, in cui


un‟altra soggettività, una soggettività che l‟aspetta e l‟accoglie, gli fornisca
dei mezzi, qui abbiamo esaminato il caso di mezzi tattili, di particolari
segni che si toccano direttamente con il proprio corpo, attraverso i quali
possa distinguere episodi distinti del proprio mondo interno. Ora, quando
la statua, come effetto interno di una operazione esterna (mediante appun-
to i segni tattili che manipola), scopre di avere ricordi, cioè di avere pen-
sieri, nello stesso momento scopre di essere una soggettività. La statua di-
venta una soggettività quando scopre di poter avere pensieri, in particolare
ricordi: un ricordo è una esperienza che non dipende da quanto sta suc-
cedendo nell‟ambiente esterno. Se mi ricordo qualcosa, allora sono una
soggettività, memŏro ergo sum. La statua, come ogni altro animale, arriva a
questa scoperta soltanto attraverso la mediazione segnica. E i segni esterni
non sono una invenzione individuale. È l‟altro che letteralmente mi inventa
come io: l‟io è la realizzazione del sogno di un noi.

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PIO COLONNELLO

Sensibilità e immaginazione
tra la I e la II edizione della KrV di Kant.
Rileggendo l’interpretazione di Heidegger

I. Prolegomeni al tema. Mi sembra opportuno tornare a riflettere sulle re-


lazioni che intercorrono tra sensibilità e immaginazione nell‟analitica tra-
scendentale di Kant, un tema ampiamente dibattuto dalla letteratura critica,
ma che si presta nondimeno a sempre nuove indagini ermeneutiche1.
Com‟è noto, nella prima edizione della Critica (1781), la capacità tra-
scendentale di immaginazione (Einbildungskraft) risulta essere non ancora
facoltà dell‟intelletto, bensì dell‟anima, ha carattere strutturale, è la radice
della sensibilità e dell‟intelletto e consente quindi la sintesi ontologica. È
appena il caso di richiamare la radicale diversità tra la prima edizione della
Critica e la seconda del 1787. Peraltro, una tradizione ermeneutica, da Ro-
senkranz a Schopenhauer, dunque ancora prima della lettura kantiana di
Heidegger, ha attribuito grande importanza proprio alla prima edizione
della Critica. Viceversa, autori come Ernst Cassirer hanno privilegiato, in
particolare, la seconda edizione. Nel rimarcare la diversità tra la prima e la
seconda edizione, si può fare riferimento, anzitutto, a uno snodo fonda-
mentale, cioè alla diversa concettualizzazione dell‟idea di noumeno. Tra il
1781 e il 1787 Kant passa da un “X” concepito come limite logico del pro-
cesso conoscitivo, orizzonte delle rappresentazioni del processo medesimo
a un “X”, inteso come «oggetto in sé sostanzializzato», «nocciolo opaco» per
noi inconoscibile. È nell‟edizione del 1787 che Kant corregge, in qualche
modo, la confusione tra il concetto di noumeno e il meno definito concet-
to di «oggetto in generale», distinguendo tra il noumeno assunto in senso
positivo come «oggetto di un‟intuizione non sensibile», ovvero della ben
nota intuizione intellettuale, e il noumeno considerato negativamente
come una «cosa» (Ding), in quanto non è oggetto di una nostra intuizione
sensibile. Dunque, solo nell‟edizione del 1787 il noumeno è ammesso co-

1
Cf. tra le mie precedenti ricerche: Heidegger interprete di Kant, Genova, Studio Edito-
riale di Cultura, 1981; Tempo e necessità. Ricerche su Kant, Husserl e Heidegger, Roma-L‟Aqui-
la, Japadre, 1987; “Über den Begriff der Notwendigkeit in Kants Analytik der Grundsätze“,
Kant-Studien 80 (1989) 1, pp. 48-62.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 69-80 69


70 Pio Colonnello

me «un oggetto che per noi», «in senso positivo» (cioè come oggetto di una
intuizione intellettuale che noi non possediamo), è «nulla», ma che in sé
«è», e costituisce il supporto ontologico sul quale si applicano le nostre rap-
presentazioni e le categorie del nostro intelletto.
Ad ogni modo, non tutti gli interpreti considerano univocamente l‟evo-
luzione del concetto di noumeno dalla prima alla seconda edizione della
Critica, da Cassirer2 a De Vleeschauwer3, da Adickes4 a Kemp Smith5, solo
per citare alcune delle interpretazioni ritenute „classiche‟. Tra le letture più
recenti, si può ricordare la proposta di sostituire la coppia «noumeno posi-
tivo-noumeno negativo» con la coppia «possibile-problematico»6. Il nou-
meno è il concetto problematico par excellence: esso non potrebbe essere
colto dalla logica dell‟intuizione – che riconduce al circolo di intuizione sen-
sibile e intuizione intellettuale –, bensì dalla logica del ragionamento. Il
suo concetto può essere mediato, esigito, inferito, a partire dalla realtà da-
ta o percepita. Occorre, però, fare attenzione: non si tratta della introdu-
zione surrettizia del principio di causalità, che tanto infastidiva Schopen-
hauer, ma del principio di ragione sufficiente che richiede per ogni cosa
tutte le condizioni che la costituiscono o che ne scaturiscono.

II. Schema, immagine, immaginazione. Partiamo tuttavia da un luogo pre-


ciso, cioè dal capitolo della Critica Sullo schematismo dei concetti puri dell’intel-
letto, che costituisce, a parere di molti interpreti, il cuore dell‟opera. Co-
m‟è possibile, si chiede Kant, «applicare i concetti puri dell‟intelletto ai fe-
nomeni in generale?»7. Ora è chiaro, egli continua, «che necessita un terzo

2 E. CASSIRER, Kants Leben und Lehre [1918], Darmstad, Wissenschaftliche Buchgesell-

schaft, 1975; tr. it. Vita e dottrina di Kant, Firenze, La Nuova Italia, 1997.
3 H.J. DE VLEESCHAUWER, L’évolution de la pensée kantienne, Paris, 1939; tr. it. L’evolu-

zione del pensiero di Kant, Roma-Bari, Laterza, 1976; ID., “L‟orizzonte nella logica di Kant”,
De Homine 31-32 (1969), pp. 38-68.
4 E. ADICKES, Kant und das Ding an sich, Berlin, Heise, 1924.
5 N. KEMP SMITH, A Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”, London, Macmillan, 1918.
6 I. MANCINI, Guida alla Critica della ragion pura, II. L'Analitica, Urbino, QuattroVenti, 1988.
7 I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, in Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preus-

sischen Akademie der Wissenschaften, Berlin, Reimer (poi W. De Gruyter), 1902-1966 (d‟ora
in poi „GS‟, seguito dall‟indicazione del volume in cifre romane, della pagina e, tra parentesi
quadre, delle righe. Con la sigla GS III si fa riferimento alla seconda edizione dell‟opera [1787],
con la sigla GS IV, il riferimento è alla prima edizione [1781]. Per il passo in questione cf. GS III,
p. 134 [11-12]; tr. it. Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e Lombardo Radice, rive-
duta da V. Mathieu, Roma-Bari, Laterza, 1971, p. 163: «Ma i concetti puri dell‟intelletto,
posti a raffronto con le intuizioni empiriche (anzi, con le intuizioni sensibili in generale),
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 71

termine, il quale deve essere omogeneo da un lato con la categoria e dal-


l‟altro col fenomeno, e che rende possibile l‟applicazione di quella a que-
sto. Tale rappresentazione intermediaria deve essere pura (senza niente di
empirico), e tuttavia da un lato intellettuale, dall‟altro sensibile. Tale è lo
schema trascendentale»8.
Nondimeno, occorre distinguere tra gli schemi trascendentali «deter-
minazioni a priori del tempo»9, nei quali si dispongono i fenomeni, che
perciò sono costretti a conformarsi ad essi – ovvero tra gli schemi dei
«concetti puri dell‟intelletto o categorie», come ad es. lo schema del trian-
golo, e gli schemi dei concetti empirici, ad es. lo schema del cane. Lo sche-
ma, per quanto sia «sempre in se stesso soltanto un prodotto dell‟immagi-
nazione»10, tuttavia va differenziato dall‟immagine. Cinque punti nello spa-
zio rappresentano l‟immagine del numero cinque. La rappresentazione con-
cettuale di un numero in generale, in una immagine, è invece uno schema.
«Possiamo dire soltanto questo», continua Kant, «l‟immagine è un prodotto
della facoltà empirica dell‟immaginazione produttiva; lo schema dei concetti
sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e, per così dire, un
monogramma dell‟immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il
quale le immagini cominciano ad essere possibili»11. Dunque, gli schemi
dei concetti puri dell‟intelletto sono le sole vere condizioni, conclude Kant,
che danno ad essi una relazione con oggetti, e quindi un significato.
D‟altra parte è ben noto come lo schematismo trascendentale assuma
grande importanza soprattutto nella lettura della Critica fatta da Martin Hei-
degger, il quale intende lo schematismo come il fondamento dell‟intrinseca
possibilità della conoscenza ontologica, perché «unicamente nello schema-

risultano del tutto eterogenei e non possono mai essere trovati in qualche intuizione. Com‟è
allora possibile la sussunzione delle intuizioni sotto i concetti dell‟intelletto, quindi l‟applica-
zione della categoria ai fenomeni, visto che nessuno potrà mai dire: questa categoria, ad esem-
pio quella di causalità, può essere anche intuita per mezzo dei sensi ed è compresa nel feno-
meno? Questa domanda, così naturale e importante, è propriamente la causa della indispen-
sabilità di una dottrina trascendentale del giudizio, al fine di chiarire la possibilità, in generale,
dell‟applicazione dei concetti puri dell‟intelletto ai fenomeni».
8 Ivi, tr. it. pp. 163-164. Le pagine sullo schematismo sono riportate senza sostanziali

modifiche dalla prima alla seconda edizione dell‟opera. Saranno invece escluse dalla secon-
da edizione le pagine inerenti alla capacità trascendentale di immaginazione; in particolare,
i capitoli Sulla deduzione dei concetti puri dell’intelletto e Sul rapporto dell’intelletto con gli oggetti
in generale e sulla possibilità di conoscere questi a priori.
9 GS III, p. 135 [37-40], p. 138 [26-27]; tr. it. p. 164.
10 GS III, p. 136 [7-9]; tr. it. p. 165.
11 GS III, p. 136 [23-28]; tr. it. p. 166.
72 Pio Colonnello

tismo trascendentale le categorie si formano come categorie. Ma se queste


sono gli autentici “concetti radicali”, allora lo schematismo trascendentale è
l‟originaria e autentica formazione di concetti in generale» 12 . Dobbiamo,
nondimeno, osservare che Kant si era mostrato più cauto nel giudicare gli
schemi trascendentali, perché essi, sebbene «realizzino principalmente le ca-
tegorie, nello stesso tempo tuttavia anche le restringono, cioè limitano le
condizioni che sono fuori dell‟intelletto (ossia nella sensibilità). Quindi lo
schema è propriamente solo il fenomeno o il concetto sensibile di un oggetto
in accordo con la categoria (Numerus est quantitas phenomenon, sensatio rea-
litas phenomenon, aeternitas necessitas phenomenon, ecc)»13.
Se ammettiamo dunque, seguendo le indicazioni di Martin Heidegger,
che la conoscenza ontologica forma la base della trascendenza, allora l‟uni-
tà essenziale di tale conoscenza altro non è che la capacità trascendentale
d‟immaginazione, in quanto sintesi pura originaria di intuizione pura (tem-
po) e pensiero puro (appercezione). Osserviamo, però, più da vicino la na-
tura, le funzioni e la finalità dell‟immaginazione trascendentale. Essa ha
una duplice funzione. Come facoltà dell‟intuizione è formatrice in quanto

12 M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik [1929], Frankfurt a.M., Kloster-

mann, 1965, p. 103; tr. it. Kant e il problema della metafisica, a cura di M.E. Reina [riveduta da
V. Verra], Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 146. L‟opera sarà successivamente citata con la sigla
KM. In questa sede faccio riferimento sostanzialmente al Kantbuch del 1929, per quanto Hei-
degger sia ritornato più volte su Kant o su temi kantiani (cf. “Kants These über das Sein”, in
Festschrift für Erik Wolf “Existenz und Ordnung”, Frankfurt a.M., Klostermann, 1962; tr. it. “La
tesi kantiana sull‟essere”, Studi Urbinati 42 (1968) 1, pp. 4-67; tra le Vorlesungen, si segnala il
corso del Wintersemester 1935/36: Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzen-
dentalen Grundsãtzen, Tübingen, Niemeyer, 1962, tr. it La questione della cosa, a cura di V. Vi-
tiello, Napoli, Guida, 1989). Sull‟interpretazione heideggeriana di Kant, cf. P. VINCI, Soggetto
e tempo. Heidegger interprete di Kant, Roma, Bagatto, 1988; V. PEREGO, Finitezza e libertà. Hei-
degger interprete di Kant, Milano, Vita e Pensiero, 2001; P. REBERNIK, Heidegger interprete di
Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, Pisa, ETS, 2007.
13 GS III, p. 139 [10-20]; tr. it. p. 169. È opportuno rileggere il passo in questione per

intero: «È tuttavia chiaro che gli schemi della sensibilità, benché | realizzino primieramen-
te le categorie, nel contempo, però, anche le restringono ossia le vincolano a condizioni
che stanno fuori dell‟intelletto (cioè nella sensibilità). Perciò lo schema è propriamente
soltanto il fenomeno o il concetto sensibile di un oggetto in accordo con la categoria (nu-
merus est quantitas phaenomenon, sensatio realitas phaenomenon, constans et perdurabile rerum sub-
stantia phaenomenon – aeternitas necessitas phaenomenon, etc.). Ora, se sospendiamo una condi-
zione limitativa, ampliamo (pare | almeno), il concetto dapprima limitato; e in tal modo le
categorie, nel loro puro significato sottratto a ogni condizionamento della sensibilità, dovreb-
bero esser valide per le cose in generale, quali esse sono, nel mentre i loro schemi si limi-
tano a rappresentare queste cose quali esse appaiono; e pertanto le categorie hanno un si-
gnificato indipendente da qualsiasi schema e assai più ampio».
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 73

procura l‟immagine (Bild). Come facoltà non subordinata all‟intuibile, al-


l‟ente, essa crea (bildet) essa stessa l‟immagine. Qui ha ragione Heidegger
nell‟osservare: «Questa capacità formatrice è insieme un “formare” che ri-
ceve (ricettivo) e un formare che crea (spontaneo). Nella coesistenza di
questi due modi di formazione risiede la vera essenza della sua struttura»14.
Ma cosa intende affermare Heidegger quando scrive «La capacità di im-
maginazione forma in via affatto preliminare la veduta dell‟orizzonte del-
l‟obiettività come tale, anteriormente all‟esperienza dell‟ente», e che essa
«è capacità produttiva pura, che non dipende dall‟esperienza, e anzi rende
possibile in via preliminare l‟esperienza medesima»? In realtà, egli tenta di
identificare tout court la facoltà di immaginazione con l‟apriori, con l‟essenza
stessa del trascendentale. E non solo la capacità di immaginazione è la terza
facoltà fondamentale “accanto” alla sensibilità pura e all‟intelletto puro;
essa è «non solo un legame estrinseco fra due estremi, ma è originaria-
mente unificante; è la facoltà specifica che forma l‟unità delle altre due», è
la radice comune dei due ceppi della sensibilità e dell‟intelletto.
A parere di Heidegger, l‟immaginazione trascendentale è reciprocabile
non solo con l‟intuizione pura, anzi ne è la stessa struttura, ma anche con
l‟intelletto, se definiamo per pensiero la «facoltà delle regole», ovvero «la fa-
coltà di tenere dinanzi a sé fin da principio, rappresentandole, le unità che
fanno da guida a ogni possibile unificazione rappresentativa», ossia le cate-
gorie. Il pensiero è reciprocabile con l‟immaginazione non unicamente per-
ché entrambi rendono possibile organizzare a priori l‟esperibile; soprattutto
perché le categorie risultano concatenate da un‟affinità loro propria; e «que-
sta stessa affinità dev‟essere inglobata fin da principio in un‟unità permanente,
mediante un proporre rappresentativo, che realizza una comprensione anco-
ra più primitiva»15. In altri termini, l‟affinità che collega le categorie si espli-
ca mediante lo schematismo dell‟immaginazione trascendentale: «l‟intelletto
puro è, per conseguenza, un‟attività che preforma “da sé”, rappresentandolo,
l‟orizzonte d‟unità, una spontaneità di formazione rappresentativa, che si
esplica nello “schematismo trascendentale”»16. Heidegger finisce, così, con
l‟identificare lo schematismo puro, che ha il suo fondamento nella facoltà
d‟immaginazione, con l‟essere più originario dell‟intelletto: «il pensare ori-
ginario è immaginazione pura». Pertanto egli insiste particolarmente sull‟es-
senziale carattere intuitivo del pensiero puro e sostiene, d‟altro canto, che il

14 KM, p. 119; tr. it. pp. 172-173.


15 Ivi, p. 137; tr. it. p. 199.
16 Ivi, p. 138; tr. it. p. 200.
74 Pio Colonnello

carattere fondamentale dell‟unità dell‟appercezione fondamentale consiste


nel fatto che essa, unificando fin da principio in base alle regole dello sche-
matismo, si oppone ad ogni determinazione casuale.
Eppure Heidegger non ha tutti i torti quando osserva che Kant «doveva
avere intravisto, quando parlava della “radice a noi sconosciuta”, che la costi-
tuzione essenziale originaria dell‟uomo, “radicata” nella capacità trascenden-
tale di immaginazione, è l‟“ignoto”», e tuttavia «ha indietreggiato di fronte a
questa radice sconosciuta». Laddove l‟ignoto «non è ciò di cui non sappiamo
assolutamente nulla, ma è ciò che, nel noto, ci viene incontro e ci incalza co-
me elemento inquietante»17. Kant, nello svolgimento della sua ricerca sareb-
be giunto dinanzi all‟abisso dell‟ignoto, poiché avrebbe condotto la “possibi-
lità” della metafisica dinanzi a questa intima contraddizione: come può la fa-
coltà inferiore della sensibilità, cioè l‟immaginazione, costituire l‟essenza della
ragione? Perciò avrebbe modificato, nella II edizione, i passi relativi all‟im-
maginazione e allo schematismo trascendentale. Nella II edizione, la sintesi
pura risulta dunque totalmente assegnata all‟intelletto puro. «La nuova posi-
zione di Kant è contraddistinta dalla sostituzione di “funzione dell‟anima”
con “funzione dell‟intelletto”. La capacità trascendentale di immaginazione
non è più “funzione” come facoltà a sé stante, ma lo è ora solo come potere
della facoltà intellettiva»18. Va precisato che non si tratta solo di una tacita
attribuzione della funzione di sintesi all‟intelletto, poiché Kant dice espres-
samente: la sintesi trascendentale della facoltà immaginativa, ora designata
synthesis speciosa è «un effetto che l‟intelletto produce sulla sensibilità». La
vera sintesi è invece la synthesis intellectualis19.

17 Ivi, p. 147; tr. it. p. 213.


18 Ivi, p. 148; tr. it., p. 215.
19 Tra coloro che dissentono dal convincimento che nella seconda edizione della Critica

il ruolo dell‟immaginazione risulta, per così dire „appiattito‟ sul quello dell‟intelletto, cf. F.
FRAISOPI, La teoria dell’immaginazione in Kant. Dalla verità in temporale al mondo storico. III. Dal
soggetto senza tempo all’individuo storico, in www.giornaledifilosofia.net: «È proprio vero che
il ruolo dell‟immaginazione è appiattito su quello dell‟intelletto? Se si considerano le dedu-
zioni e le altre parti varianti nella loro esteriorità, si dovrebbe rispondere in senso afferma-
tivo, perché quell‟immaginazione che incarnava il momento centrale della sintesi scompare
nel quadro della Deduzione. Se, viceversa, si considerano le dinamiche più sottese che con-
ducono dalla prima alla seconda edizione […], la valutazione deve cambiare di segno […].
Nel 1781 il ruolo dell‟immaginazione nella Deduzione è esplicitamente focalizzato sulla co-
stituzione del molteplice nell‟oggettualità dell‟esperito, cioè su un concetto di esperienza co-
me esperienza dell’oggetto, della res. In questo modo quello stesso assetto teoretico non pren-
de in considerazione il problema dell‟intrinseca unità trascendentale dell’esperienza come ogget-
to stesso dell’esperire. Il passaggio chiasmico tra il concetto di esperienza come esperienza dell’og-
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 75

Ciò che costituisce problema è la possibilità per l‟io puro – general-


mente inteso come al di fuori della temporalità – di acquisire o meno, sul
fondamento dell‟immaginazione trascendentale – un carattere intrinseca-
mente temporale. Come si rapporta l‟immaginazione al tempo?
III. Sensibilità, immaginazione, temporalità. Se seguiamo le indicazioni di
Heidegger, dobbiamo dire che è la stessa attività immaginativa pura a forma-
re il tempo in via affatto primaria. Il tempo non deve essere rappresentato
come un campo qualsiasi, nel quale s‟inserisca casualmente la capacità di im-
maginazione. È invece la capacità trascendentale d‟immaginazione, sostiene
Heidegger, «a fare sorgere il tempo come serie di “ora”; essa quindi – in
quanto appunto fa sorgere questa serie – è il tempo originario»20. Ma, più
specificamente, è nella sintesi pura come riproduzione pura che scorgiamo la
capacità d‟immaginazione come formatrice del tempo. L‟animo ha la facoltà
di rappresentarsi l‟ente anche «senza la presenza dell‟oggetto», come ad es.
un ente percepito in precedenza. Questa ripresentazione o, in termini kan-
tiani, “immaginazione” presuppone che l‟«animo abbia la possibilità di ripro-
durre, rappresentandolo, l‟ente già rappresentato, per presentarlo, insieme
con l‟ente percepito attualmente, in reale unità. Il ri-pro-durre (Wieder-bei-
bringen) è dunque un modo di unificazione […] Ma l‟ente esperito in prece-
denza può essere conservato soltanto se l‟animo “distingue il tempo”, e ha,
quindi, sott‟occhio il “prima” e l‟“allora” come tali»21.
La capacità pura d‟immaginazione, relativamente alla sintesi come ri-
produzione pura, è formatrice di tempo: è riproduttiva, cioè, in senso pu-
ro, anche senza tenere conto degli enti esperiti nel passato; essa «apre l‟o-
rizzonte di ogni possibile “riandare posteriore” (Nach-gehen) in generale, e
“forma” così questo post-retrocedente (Nach), in quanto tale» 22 . Anche la
sintesi operata dall‟intuizione come «apprensione pura» e quella del pen-
siero come «ricognizione pura» sono possibili in virtù dell‟immaginazione
tra-scendentale, che deve essere concepita, se seguiamo la tesi heideggeria-
na, come facoltà della «sintesi in generale».
Nel ripercorrere ancora il tracciato di questo percorso ermeneutico, se
si sottolinea l‟importanza della sintesi della riproduzione nell‟immagina-
zione, cioè della facoltà di rappresentare di nuovo l‟ente già rappresentato,

getto e il concetto dell’esperienza come oggetto dell’esperire rappresenta la prima tappa di questo
traguardo antropologico. Qui gioca un ruolo essenziale l‟immaginazione».
20 KM, p. 160; tr. it. p. 231.
21 Ivi, pp. 164-165; tr. it. pp. 238-239.
22 Ivi, p. 166; tr. it. p. 240.
76 Pio Colonnello

in una con l‟ente percepito attualmente, è perché tale sintesi rivelerebbe la


struttura originaria, ovvero il carattere temporale dell‟immaginazione tra-
scendentale. In ultima analisi, è «la capacità trascendentale di immagina-
zione, il tempo originario»23. Solo il tempo, sottolinea fortemente Heideg-
ger, «in quanto formazione originaria della triplice unità di futuro, passato
e presente in generale, rende possibile la “facoltà” della sintesi pura, o me-
glio rende possibile ciò che essa è in grado di effettuare: l‟unificazione dei
tre elementi della conoscenza ontologica, nell‟unità dei quali si fonda la
trascendenza: apprensione pura, riproduzione pura, ricognizione pura»24.
Le tre fonti soggettive di conoscenza, che fondano la possibilità del-
l‟esperienza – senso, immaginazione ed appercezione – possono essere con-
siderate come empiriche solo nell‟applicazione a fenomeni dati. Il senso
rappresenta empiricamente i fenomeni nella percezione, ovvero nella sin-
tesi dell‟apprensione le rappresentazioni risultano come «modificazioni del-
l‟animo nell‟intuizione»; l‟immaginazione rappresenta i fenomeni nell‟as-
sociazione e riproduzione; l‟appercezione nella coscienza empirica e, quin-
di, nella ricognizione delle rappresentazioni nel concetto.
Ora, quale risulta essere, per Kant, la condizione formale a priori alla
quale sono soggette tutte le nostre rappresentazioni? Tale condizione, così
come si presenta il problema nella I edizione della Critica, sembra costituita
dal tempo: «Le nostre rappresentazioni, donde che vengano, e siano effet-
to dell‟influsso di cose esterne o di cause interne, siano derivate a priori, o
empiricamente come fenomeni, appartengono sempre come modificazioni
dello spirito al senso interno e, come tali, tutte le nostre conoscenze infine
sono soggette alla condizione formale del senso interno, il tempo, come
quello in cui tutte quante devono essere ordinate, unificate e messe in rap-
porto. Questa è un‟osservazione generale, che si deve assolutamente met-
tere a fondamento di quel che segue»25.
Anzitutto non dobbiamo trascurare la distinzione kantiana tra immagina-
zione produttiva e riproduttiva, ovvero tra immaginazione empirica e tra-
scendentale, tra sintesi dell‟immaginazione relativa all‟unità dell‟appercezio-
ne – l‟intelletto – e sintesi trascendentale degli stessi elementi – l‟intelletto puro.
L‟immaginazione, sintesi del molteplice fenomenico, in sé disperso, è un
elemento necessario della stessa percezione. L‟immaginazione riduce il mol-
teplice delle intuizioni a immagine, rievoca una percezione passata accanto

23 Ivi, p. 170; tr. it. p. 246.


24 Ivi, p. 178; tr. it. pp. 257-258.
25 GS IV, p. 77 [1-10]; tr. it. pp. 651-652.
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 77

ad una presente e si rappresenta, così, una serie intera di percezioni. L‟immagi-


nazione produttiva o trascendentale è, invece, una facoltà di sintesi a priori,
che mira unicamente all‟unità necessaria nella sintesi del molteplice fenome-
nico. Essa «non si riferisce a priori se non semplicemente alla unione del molte-
plice; e l‟unità di questa sintesi si dice trascendentale, quando essa è rappresen-
tata come a priori necessaria in relazione all‟unità originaria dell‟appercezione»26.
Eppure, nella stessa sintesi riproduttiva nell‟immaginazione è dato rile-
vare alcuni limiti, i quali consistono nel fatto che la facoltà immaginativa,
sia pure trascendentale, resta ad ogni modo ancorata alla sintesi del molte-
plice fenomenico, alla sensibilità, e dunque alla recettività. Occorre che al-
l‟immaginazione si aggiunga la sintesi ricognitiva nel concetto, perché la
sua funzione sia intellettuale. Giacché in se stessa, osserva Kant, «la sintesi
dell‟immaginazione, benché esercitata a priori, è pur sempre sensibile, non
legando il molteplice se non come apparisce nella intuizione, per es. la fi-
gura del triangolo»27. Ma noi «pensiamo il triangolo come oggetto, quando
abbiamo coscienza» – tale la sintesi della ricognizione nel concetto e dun-
que l‟appercezione – «della unione di tre linee rette, secondo una regola
per cui tale intuizione può sempre essere rappresentata»28. Un‟ulteriore
distinzione è tra appercezione empirica, il senso interno, e appercezione
trascendentale. Solo quest‟ultima è il «fondamento trascendentale dell‟uni-
tà della coscienza nella sintesi del molteplice di tutte le nostre intuizioni;
quindi anche dei concetti degli oggetti in generale, e per conseguenza al-
tresì di tutti gli oggetti dell‟esperienza»29. Ora, qual è il principio trascen-
dentale dell‟unità di tutto il molteplice delle nostre rappresentazioni? È la
coscienza a priori «della generale identità di noi stessi rispetto a tutte le rap-
presentazioni che possono mai fare parte della nostra conoscenza»30.
Torniamo ora alla I edizione della Critica, laddove il tema è affrontato
nella sua genesi originaria. I fondamenti della ricognizione del molteplice,
osserva nell‟edizione del 1781 Kant, «in quanto si riferiscono semplice-
mente alla forma di una esperienza in generale, sono le categorie. Su di
esse dunque si fonda ogni unità formale nella sintesi dell‟immaginazione, e
per mezzo di questa anche di ogni uso empirico di essa […], giù fino ai fe-
nomeni». Tuttavia, se sulla base delle categorie si fonda ogni unità formale,

26 Ivi, p. 88 [10-16]; tr. it. p. 664


27 Ivi, p. 91 [23-26]; tr. it. p. 667.
28 Ivi, p. 80 [28-29]; tr. it. p. 656.
29 Ivi, p. 81 [15-18]; tr. it. p. 656.
30 Ivi, p. 87 [8-10]; tr. it. pp- 662-663.
78 Pio Colonnello

come deve intendersi correttamente la citata affermazione kantiana, secon-


do la quale «tutte le nostre conoscenze sono soggette alla condizione for-
male del senso interno, il tempo, come quello in cui tutte quante devono
essere ordinate, unificate e messe in rapporto»? Quale il rapporto tra le
categorie e il tempo? Il tempo è semplicemente il punto di partenza del
processo gnoseologico oppure è un elemento fondamentale non solo per
l‟estetica trascendentale, ma anche per l‟analitica e la dialettica?
Ammettiamo pure che la problematica metafisica nasca dalla natura
finita dell‟uomo, dal suo limite ontologico. Temporalità e recettività ven-
gono ad essere la base della possibilità della metafisica. A questo riguardo,
si può concordare sostanzialmente con la tesi di Giorgio Penzo, secondo la
quale il Sein di Kant si rivela prima come un orizzonte nel quale si rende
possibile l‟„incontro‟ tra essere ed ente. Tale orizzonte si palesa come tem-
poralità pura, la quale, a sua volta, si manifesta come «rivelazione» dell‟es-
sere: in ultima istanza questa si esprime come «linguaggio»31.

IV. Con Heidegger, oltre Heidegger. Ancora un‟osservazione sul divario e insie-
me sulle affinità che collegano Heidegger e Kant, soprattutto per compren-
dere meglio la posizione kantiana. Ciò che è in discussione è soprattutto il
rapporto tra finitezza e infinità o, meglio,tra finitezza e razionalità, quale è
sviluppato dai due pensatori. Nonostante le dichiarazioni dello stesso Heideg-
ger, forse la sua lettura si svolge in una direzione opposta a quella di Kant?32
Effettivamente Kant sembra avere scisso, nel corso delle sue opere la razio-
nalità dalla finitezza, in particolare nel passaggio dalla Critica della ragione pura
alla Critica della ragione pratica. In questo delicato passaggio è dato rilevare
che la legge morale si riferisce agli esseri razionali «in generale». Vero è che
in Kant si divaricano la libertà dell‟essere (o il principio razionale in quanto
tale), la libertà cosmologica che si afferma negando il tempo, e la libertà fini-
ta dell‟uomo, che è definita appunto dalla temporalità33. La tensione tra fini-
tudine e infinitezza, tra ragione e immaginazione intuitiva in Kant resta co-

31 G. PENZO, “La Vor-stellung in Kant e la Vor-stellung in Heidegger”, Studia Patavina 2 (1967), p. 288.
32 Sono ben note, a riguardo, le riserve espresse da non pochi studiosi sull‟interpre-
tazione di Heidegger, a iniziare da E. CASSIRER, “Kant un das Problem der Metaphysik. Be-
merkungen zu Martin Heideggers Kantinterpretation”, Kant-Studien 36 (1931), pp. 1-26.
33 Cf. al riguardo F. FRAISOPI, op. cit.: «È la libertà a fondare l‟aprirsi dell‟orizzonte del-

l‟esperienza tracciato dalla reine Einbildungskraft. È la libertà, come ragione, che costituisce il
protagonista dell‟esperire, anche teoretico […]. Proprio questo scarto – che interviene nel 1787
– sarà quello che riaprirà anche e soprattutto il discorso sulla soggettività, sulla Urteilskraft e
sull‟immaginazione – come sua condizione sensibile e sua componente irrinunciabile».
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 79

stante e, in certo senso, irrisolta: è appunto in questa tensione, nel «tra» (Zwi-
schen) che si qualifica lo spazio etico dell‟uomo.
Ma poi, com‟è possibile cogliere la finitudine in quanto tale, dal mo-
mento che l‟uomo non è solo la parte o il tutto, ma unità dialettica in cui si
manifesta l‟implicanza di limitatezza e di assoluto, di finito e di infinito, e
la stessa finitezza è indice di infinitezza?
Sebbene il tema della finitudine umana abbia interessato buona parte
della filosofia contemporanea, non si può disconoscere proprio la centralità
del pensiero di Kant, che, per primo, ha considerato questo tema sotto il
triplice aspetto della conoscenza, della morale e della facoltà del giudizio
estetico e ha connotato con „finitudine‟ non una mera limitazione spaziale
o temporale, bensì il carattere condizionale di certe possibilità. Dal punto
di vista gnoseologico, l‟uomo è un «essere pensante finito», in quanto le
sue capacità cognitive, sprovviste del divino intuitus originarius, nell‟arco
del processo che va dalla percezione all‟appercezione empirica, all‟immagi-
nazione riproduttiva a quella produttiva, all‟intelletto, alla ragione, risul-
tano limitate dall‟intuizione sensibile, cioè da un‟intuizione dipendente da
oggetti dati. Sotto l‟aspetto morale, com‟è noto, la finitudine è contras-
segnata dal mancato accordo tra volontà e ragione; infine, finanche il fon-
damento della facoltà di giudizio estetico o teleologico risiede nella natura
finita dell‟uomo, nella limitazione delle sue capacità conoscitive, che non de-
terminano interamente il loro oggetto ma semplicemente la forma di esso.
Di pari importanza è, nondimeno, il tema del trascendimento del finito,
tanto nell‟ambito morale, quanto in altri ambiti, come in quello estetico,
ad esempio. Anzi, un motivo assai interessante è il trascendimento della fi-
nitudine umana proprio nell‟esperienza estetica, attraverso il sentimento
del sublime. Nella Critica della facoltà del giudizio, il punto archimedico tra
l‟intelletto, che si rivolge agli oggetti della natura, e la ragione che anela al
noumeno, in definitiva tra necessità e libertà, è individuato appunto nel te-
ma del giudizio, di quel giudizio che riflette su un particolare, ricercando
un universale o generale, a cui collegare il particolare. Questo universale è
il principio della finalità della natura rispetto alle nostre facoltà.
Ma perché l‟apertura al trascendimento del finito attraverso il senti-
mento del sublime? Proprio il sublime, che, a differenza del bello, è indice
d‟illimitatezza, di assenza di vincoli, rappresenta il punto in cui maggior-
mente si vede come il giudizio estetico sia legato alla doppia natura del-
l‟uomo, sensibile e razionale. Infatti, il sublime si fonda non soltanto sulla
simultanea presenza nell‟uomo di sensibilità e ragione, ma addirittura sulla
80 Pio Colonnello

loro drammatica compresenza, cioè sul loro contrasto, e sulla vittoria della
ragione sulla sensibilità. Il sublime rappresenta, per così dire, il „trionfo‟
della ragione sulla sensibilità, ovvero la soluzione morale del conflitto; il
sentimento che si prova di fronte alla superiorità della ragione sulla sensi-
bilità non è forse il sentimento morale? La qualità del sentimento del subli-
me coincide senz‟altro con quella del sentimento morale, consistendo nella
subordinazione della sensibilità alla maestà della legge e del dovere, alla di-
gnità della ragione. Il bene morale, osserva Kant, «per essere giudicato este-
ticamente, dovrebbe essere rappresentato piuttosto come sublime che co-
me bello». Che il sublime sia interiormente costituito dalla moralità, risul-
ta peraltro dal fatto che, in esso, il riferimento al sovrasensibile è interno,
e non il prodotto di una valutazione razionale sopravveniente: il sentimen-
to del sublime – com‟è evidenziato in più luoghi della terza Critica – con-
siste non tanto nel percepire, come nella contemplazione pura della bel-
lezza libera, una predisposizione della natura verso la nostra conoscenza,
quanto piuttosto nell‟attribuire alla natura un significato spirituale, nel per-
cepire la natura come figurazione della nostra stessa moralità.
La successiva speculazione idealistica, con le sue descrizioni fenomeno-
logiche della scienza dell‟esperienza della coscienza, ha tentato di descri-
vere la coscienza come movimento della trascendenza dell‟esistere, in un
conato d‟identità di finito e infinito, d‟individuale e di universale, di natura
e storia, di pensiero ed essere, di razionalità e realtà. Ma alla fine del lungo
e tormentato itinerario della coscienza, il compimento del processo è risul-
tato nel suo soddisfacimento, in una nuova pretesa di compiutezza o in una
proposta di una nuova metafisica positiva. Solo nel clima della dissoluzione
dell‟hegelismo, Kierkegaard ha potuto poi affermare che è un enorme van-
taggio poter essere coscienti della disperazione della coscienza stessa, in
quanto nell‟abissale salto della disperazione l‟uomo affronta l‟infinito che è
altro da lui, prendendo consapevolezza delle remote radici della dispera-
zione. Solo nel salto infinito della disperazione, che è il tentativo dell‟esi-
stere di non volere essere ciò che si è e di volere essere ciò che non si è,
solo nel salto della disperazione di fronte all‟origine infinita dell‟esistenza
umana, la disperazione si lascia riconoscere come colpa. In questa prospet-
tiva, la vera colpa dell‟esistere consisterebbe, allora, nel non accettare la
stessa finitudine dell‟esistere, a partire dall‟infinito. Ma questo, poi, è altro
discorso, su cui è opportuno ritornare in altro contesto.
VALENTINA CUCCIO

La rappresentazione dello spazio e la sua espressione


linguistica: l’invarianza nella variabilità

Decenni di studi di filosofia del linguaggio e di dibattiti sulla questione


dell‟indeterminatezza quineana hanno portato alla conclusione che, nono-
stante la grande variabilità delle lingue storico-naturali, deve pur esserci
qualcosa di universale nella facoltà del linguaggio che ci consenta di passare
da una lingua ad un‟altra attraverso le traduzioni. Se così non fosse, ovvero
se non ci fossero strutture costanti ed universali, allora quella della tradu-
zione sarebbe davvero un‟impresa impossibile ed ogni popolo con la sua
lingua rimarrebbe chiuso nel proprio microcosmo. Addirittura, portando
alle estreme conseguenze l‟ipotesi del relativismo e del determinismo lingui-
stico alla Whorf, ogni popolo avrebbe letteralmente un‟immagine del mon-
do diversa da quella di popoli parlanti idiomi differenti. Sarebbe, insomma,
negata di principio la possibilità di capirsi perché ciascuno disporrebbe di
modalità di rappresentazione del mondo diverse. Tradurre da una lingua ad
un‟altra senza presupporre elementi universali ed invariabili sarebbe come
voler tradurre in italiano l‟abbaiare di un cane. Riteniamo, dunque, utile guar-
dare a ciò che accomuna più che a ciò che distingue e rintracciare in questo
modo quegli elementi costanti e costitutivi della facoltà del linguaggio.
C‟è poi un‟altra questione importante che è stata gettata sul tappeto da
filosofi e linguisti di tradizione chomskiana: che cosa consente ad un bam-
bino alle prese con il compito di acquisizione della prima lingua di estrapo-
lare dagli stimoli linguistici cui è sottoposto le giuste regole grammaticali e
di generalizzare l‟uso dei nomi in modo corretto? Noto come argomento
della povertà dello stimolo, questo ragionamento punta il dito sul fatto che un
bambino nei primi mesi di vita si trova davvero nella posizione del linguista
di Quine. Che cosa gli consente di capire a cosa si riferisca la mamma
quando gli indica un coniglietto e accompagna il gesto con la parola italiana
“coniglio”? Potrebbe trattarsi del colore, di una parte dell‟animale e così
via. Eppure questo problema che teoricamente sembrerebbe insormonta-
bile non desta, invece, alcuna difficoltà nei bambini che nel giro di pochis-
simi anni apprendono quella che è la loro lingua madre. Se non ci fosse qual-
cosa di innato tale impresa sarebbe impossibile, sostengono Chomsky ed i

Bollettino Filosofico 25 (2009): 81-93 81


82 Valentina Cuccio

generativisti. La soluzione a questo problema avanzata all‟interno della scuo-


la chomskiana ci propone l‟idea del linguaggio quale modulo cognitivo, ap-
punto, innato ed autonomo rispetto al resto della nostra cognitività. La pro-
posta che avanzeremo in questa sede è un po‟ diversa. Riteniamo, infatti,
che il linguaggio si evolva a partire da una mente che non è una tabula rasa,
tanto nella filogenesi quanto nell‟ontogenesi. Con ciò vogliamo dire che il
linguaggio si è evoluto in un organismo che disponeva già di alcuni sistemi
cognitivi quali quello visivo o del controllo senso-motorio. Il modo in cui
noi categorizziamo il mondo, ovvero discretizziamo il flusso dell‟espe-
rienza in entità discrete, dipende dalle nostre capacità cognitive organiche,
ovvero legate alla nostra corporeità ed alla strumentazione percettiva di cui
disponiamo. Tornando all‟esempio del sistema visivo, il nostro occhio perce-
pisce determinate lunghezze d‟onda e non altre e quindi può registrare solo
determinati stimoli. Ciò significa che disponiamo in modo innato di abilità
di categorizzazione. Naturalmente non nasciamo disponendo di categorie o
concetti già precostituiti ma con l‟abilità di costituirli. Questa abilità si espri-
me nella possibilità di operare determinate discriminazioni e non altre. Dun-
que, le categorie e rappresentazioni del mondo che siamo in grado di elabo-
rare sono vincolate alle nostre modalità innate di discretizzare l‟esperienza
e che ci contraddistinguono in modo specie-specifico. Riteniamo che la strut-
tura e le categorie del nostro linguaggio siano vincolate a queste capacità e
che se queste ultime fossero ipoteticamente state diverse, allora diverse sa-
rebbero state le categorie e la struttura del linguaggio. Se ad esempio non aves-
simo avuto il sistema visivo sarebbero esistiti i nomi dei colori? Leonard
Talmy in Toward a cognitive semantics (2000) avanza l‟idea che il nostro siste-
ma linguistico tragga struttura e contenuto dal sottostante sistema concet-
tuale. Esisterebbe una gamma limitata (limited inventory) di concetti a parti-
re dalla quale viene a costituirsi la classe chiusa delle regole grammaticali.
Questi concetti o strutture concettuali forniscono la struttura stessa alla
nostra lingua. Un esempio ne sono le preposizioni di spazio. Il modo in cui
codifichiamo le traiettorie possibili di un movimento nello spazio rispec-
chia il modo in cui noi le possiamo concettualizzare. Accanto alla classe
chiusa delle regole grammaticali c‟è poi la classe aperta costituita dalle
semantica che, secondo Talmy, è costituita dai nostri contenuti coscienti.
Mentre la struttura concettuale, alla base delle regole grammaticali, è più
rigida rispetto ai contenuti perché è vincolata ad un bagaglio dato e definito
di abilità cognitive invece i contenuti di coscienza all‟interno di questa ma-
trice sono numerosissimi ed è sempre possibile aggiungere esperienze e
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 83

sfumature nuove così come è sempre possibile introdurre una nuova parola
nella lingua. La presenza di un numero limitato di principi strutturali non
comporta per Talmy che tutti debbano essere universalmente realizzati nel-
le lingue storico-naturali (seppure questi principi siano universalmente acces-
sibili). Alcuni lo sono, altri sono meno diffusi. Ad ogni modo, sono ele-
menti di questo insieme quelli che tendono a subire processi di regolariz-
zazione grammaticale nelle lingue. Sono i componenti della limited inventory
che vanno a costituire la classe chiusa degli elementi della lingua. Potrem-
mo dire, con un eccesso di semplificazione, che alcuni concetti, e sono un
numero limitato ed universalmente accessibile, si prestano a subire una re-
golarizzazione grammaticale mentre altri rappresentano contenuti della co-
scienza la cui regolarizzazione grammaticale non avrebbe alcuna utilità.
Questa ipotesi di carattere generale sul vincolo cognitivo cui la facoltà
del linguaggio sarebbe sottoposta può essere argomentata facendo ricorso
all‟analisi di un caso particolare: quello della rappresentazione dello spazio.
Se quanto detto sopra è vero, allora le modalità di espressione linguistica
dello spazio dovrebbero essere vincolate alle modalità non-linguistiche di
rappresentazione dello spazio. Il punto è se esiste un modo per vagliare
questa ipotesi dato che è innegabile la difficoltà di separare la componente
linguistica dal resto della cognitività in un uomo adulto. In realtà un modo
ci sarebbe e qui torniamo al caso del coniglio e del bambino e proviamo a
darne una soluzione. Vedremo meglio proseguendo che quando un bam-
bino impara un nome che, come nel caso di “coniglio”, si riferisce ad un‟en-
tità concreta e numerabile, il primo e principale parametro utilizzato nel-
l‟acquisizione e nell‟uso del nome è la generalizzazione a partire dalla for-
ma e probabilmente per questo il bambino attribuisce il nome all‟oggetto
nel suo complesso e non ad una sua parte o al suo colore. Che spiegazioni
dare per tale fenomeno? Una è quella che gli occhi di bambini appena nati
sono maggiormente sensibili nel cogliere le aree di contrasto tra gli oggetti,
i chiaroscuri; ed i bordi esterni degli oggetti sono evidentemente zone di
contrasto nello spazio che circonda il bambino1. Ciò porterebbe i bambini
ad osservare maggiormente i contorni degli oggetti e, dunque, a trarne infor-
mazioni sulla forma. In secondo luogo, sembra che il sistema per la visione
dei colori maturi solo dopo i quattro mesi di vita2 e l‟acuità visiva dei bimbi
giunge ad eguagliare quella degli adulti solo dopo i sei mesi3. Ciò significa

1 HAITH, 1980.
2
TELLER e BORNSTEIN, 1987.
3
BANKS, 1983.
84 Valentina Cuccio

che è più semplice per un bambino cogliere aspetti generali della forma
dell‟oggetto che non caratteristiche specifiche della sua superficie quali il
colore o eventuali disegni in essa presenti. Ancora una volta la forma ri-
sulta il tipo di informazione più semplice e immediatamente disponibile. Un‟al-
tra possibile spiegazione risiede nel fatto che le informazioni sulla forma
sono apprese dal bambino non solo attraverso la vista ma anche per via ora-
le. Nei primissimi mesi di vita infatti i bambini sono soliti esplorare gli og-
getti mettendoli in bocca e questa è un‟altra modalità attraverso la quale i
piccoli traggono informazioni sulla forma degli oggetti. Evidentemente tale
modalità non consente loro di trarre conclusioni concernenti il colore o
altre caratteristiche percepibili solo visivamente. La forma è dunque il para-
metro principalmente usato da bambini di pochi mesi alle prese con com-
piti di individuazione di oggetti. Gli oggetti vengono riconosciuti dalla loro
forma e la forma diventa, inoltre, con il procedere dello sviluppo il parame-
tro attraverso il quale operare generalizzazioni e categorizzazioni. Questo
medesimo meccanismo viene mutuato dal sistema linguistico come prova il
fatto che nell‟apprendimento e nella generalizzazione di un nuovo nome
(un count noun) la forma è ciò che ci consente di estendere l‟uso del nome
appreso ad altri oggetti diversi da quello in relazione al quale il nome stesso
è stato appreso. A questo proposito sono stati elaborati numerosi studi spe-
rimentali che non riportiamo per esigenze di brevità. Resta il fatto che,
anche per gli adulti la forma è il principio più immediatamente usato in
compiti di categorizzazione o nel generalizzare l‟uso di un nome. Solo in
un secondo momento si elaborano valutazioni che vertono, ad esempio,
sulla funzione degli oggetti.
Nel 1993 Ray Jackendoff e Barbara Landau pubblicano un articolo nel
quale ad essere preso in analisi è il nostro modo di esprimere linguistica-
mente lo spazio. I due autori registrano il fatto che il linguaggio sembra di-
sporre di due sistemi distinti, l‟uno, utilizzato nella individuazione e deno-
minazione di oggetti, è costituito da tutti i nomi comuni di oggetti o cate-
gorie di oggetti esistenti in una lingua; l‟altro, per l‟individuazione e deno-
minazione di posizioni spaziali, è composto dalle preposizioni di spazio. I
due sistemi, definiti rispettivamente come sistema what e sistema where dif-
feriscono per il fatto di essere il primo una classe aperta e costituita da de-
cine di migliaia di termini, il secondo, invece, una classe chiusa con meno
di cento elementi. Questi due sistemi si avvalgono di modalità di rappre-
sentazione dello spazio differenti. Come in parte anticipato sopra, si è no-
tato attraverso prove sperimentali che l‟acquisizione e l‟uso di un nuovo
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 85

nome comune comporta il riferimento ad informazioni spaziali che vertono


sulla forma dell‟oggetto. Ovvero si generalizza l‟uso di un nome comune
sulla base della forma mentre l‟acquisizione e l‟uso delle preposizioni non
richiede informazioni di questo tipo, se non minimali ed in pochissimi casi,
ed esige invece una rappresentazione dello spazio di tipo assiale.
Il modello di organizzazione del sistema visivo a cui Barbara Landau e
Ray Jackendoff fanno riferimento è quello elaborato da Ungerleider e Mish-
kin (1982). Questo modello di organizzazione della visione è stato in parte
messo in discussione nei primi anni novanta da Goodale e Milner (1992).
Nel modello elaborato da Goodale e Milner permane la distinzione nel siste-
ma visivo di due aree che corrispondono alla via dorsale e a quella ventrale.
Ma, mentre nel modello precedente, quello di Ungerleider e Mishkin, il
sistema dorsale era responsabile della localizzazione (il where) e quello ven-
trale dell‟individuazione attraverso la forma (il what), Goodale e Milner at-
tribuiscono ruoli parzialmente differenti ai due sistemi neurali di trasporto
dell‟informazione. Il sistema ventrale conserva una funzione sostanzial-
mente percettiva, quello dorsale viene invece descritto come svolgente un
compito di tipo pragmatico: all‟etichetta where potremmo sostituire quella
how. Il sistema dorsale trasporta, infatti, secondo questo modello, le infor-
mazioni visive necessarie per il controllo delle azioni. Sia il modello di
Ungerleider e Mishkin sia quello di Goodale e Milner sono poi stati criti-
cati e considerati poco esplicativi da Rizzolatti e Sinigaglia (2006) a cui si
rimanda per un approfondimento della questione. Ad ogni modo, a pre-
scindere dal livello di implementazione neurale dell‟elaborazione delle infor-
mazioni visive, sembra che a livello rappresentazionale, e, dunque, cogniti-
vo invece che neurobiologico, le rappresentazioni what e where conservino
un ruolo importante nel descrivere il modo in cui ci rappresentiamo lo
spazio4. Constatato che esiste questa asimmetria nell‟uso e nell‟acquisizione
della lingua, come attestato da Landau e Jackendoff (1993), il punto è quello
di stabilire se tale asimmetria è qualcosa che riguarda esclusivamente il
linguaggio o se non si dia il caso che è il linguaggio ad essere vincolato ad
un sottostante sistema di codifica delle informazioni spaziali che si presenta
articolato in queste due componenti. In altri termini, il linguaggio veicola e

4
Si pensi che un testo fondamentale negli studi concernenti la questione dello spazio
quale è EILAN, MCCARTHY, BREWER, 1993, conserva un‟intera sezione dedicata ai sistemi
what e where. Dunque, nelle pagine che seguono prenderemo come buona questa distin-
zione, quanto meno per l‟analisi del livello rappresentazionale lasciando in sospeso, in quan-
to ancora controversa, un‟analisi di tipo anatomico-funzionale.
86 Valentina Cuccio

determina le nostre rappresentazioni dello spazio o, invece, sono queste


ultime a guidare le nostre modalità di acquisizione ed uso della lingua? Gli
autori avanzano due ipotesi. La prima, detta Design of Language Hypothesis,
avanza l‟idea che l‟asimmetria notata nella codifica linguistica delle informa-
zioni spaziali sia qualcosa che concerne il linguaggio. Esso costituirebbe una
sorta di filtro al sottostante e più ricco sistema rappresentazionale. Ed in
effetti è vero che il livello della rappresentazione non-linguistica è più ricco
ed il linguaggio è costretto, seguendo un principio di economia, ad operare
una sorta di filtro. Ciò è evidente, ad esempio, nella percezione delle di-
mensioni. Fatta eccezione per i sistemi culturalmente stabiliti per la misu-
razione, solitamente le lingue esprimono le grandezze attraverso coppie di
aggettivi quali grande/piccolo e via dicendo mentre i nostri sistemi percet-
tivi sono in grado di cogliere una ben più vasta gamma di grandezze. Anche
il nostro sistema senso-motorio si avvale di una quantità di informazioni ta-
le che sarebbe impossibile riversare nella lingua. Posto, dunque, che il lin-
guaggio funzioni da filtro, ciò comunque, non spiega il perché un certo ti-
po di rappresentazione dello spazio, quella che verte sulla individuazione
della forma, sia preclusa, o quasi, quando si vanno a localizzare posizioni
nello spazio mentre sia accessibile in altri compiti. Il filtro operato dal lin-
guaggio non è una spiegazione sufficiente di tale asimmetria e del perché
essa si riscontri in tutte le lingue. La seconda ipotesi, detta Design of Spatial
Representation Hypothesis, avanza invece l‟idea che non solo il sistema di rap-
presentazione non-linguistica dello spazio sia più ricco della sua formu-
lazione linguistica ma che la disparità che si è notata a livello linguistico sia
qualcosa che inerisce direttamente al livello rappresentazionale. Effettiva-
mente sembra che ci avvaliamo di due sistemi distinti per la rappresen-
tazione dello spazio a seconda di quello che è il compito che ci è richiesto
di svolgere. La necessità di individuare un oggetto chiama in causa la nostra
abilità nell‟utilizzare informazioni che vertono essenzialmente sul ricono-
scimento della forma mentre quando dobbiamo localizzare una posizione
nello spazio ci avvaliamo di un sistema minimale che si limita a rappre-
sentare lo spazio e gli enti in esso presenti secondo una struttura assiale.
Questi due sistemi di rappresentazione sembrerebbero guidare il nostro
modo di parlare di oggetti e di posizioni nello spazio.
Molti dati provenienti da studi sulla prima infanzia testimoniano il fatto
che si possono trovare riscontri dell‟operatività di questi due sistemi in te-
nerissima età. Già a tre mesi di vita i neonati categorizzano lo spazio se-
condo un sistema assiale ed utilizzano la forma per discriminare gli oggetti.
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 87

Diversi sono, ad esempio, gli studi condotti da Paul Quinn sulla struttura
assiale nella categorizzazione dello spazio 5 . Questi dati sono importanti
perché allontanano l‟ipotesi che sia il linguaggio a determinare le categorie
percettive dello spazio dal momento che i bambini dispongono di queste
distinte modalità di categorizzazione dello spazio abbondantemente prima
di apprendere la lingua e dunque esse non sono indotte dalla lingua. Te-
stimonianze a supporto di questa tesi vengono anche dallo studio di pato-
logie dove ad essere intaccata è l‟operatività di uno solo dei due sistemi a
fronte della buona funzionalità dell‟altro. Un esempio a tal proposito pro-
viene dalla sindrome di Williams. La sindrome di Williams è una rara pato-
logia genetica che ha cominciato a suscitare l‟interesse di studiosi e ricer-
catori di linguaggio in occasione di un lavoro realizzato nel 1988 da Ursula
Bellugi e collaboratori6. In quel testo si poneva in risalto l‟atipicità del pro-
filo cognitivo che contraddistingue i soggetti affetti da tale malattia e li si
additava come prova vivente della teoria modulare della mente. Ma andia-
mo con ordine. Cosa è, intanto, la sindrome di Williams? Si tratta di una
patologia genetica davvero molto rara la cui incidenza si calcola essere di
un individuo malato ogni 10.000 o 20.000 nati. L‟origine della malattia è,
appunto, genetica ed è dovuta alla microdelezione del gene dell‟elastina
nel cromosoma 7q11.23. La sindrome è diagnosticata attraverso un prelie-
vo di sangue che viene sottoposto allo studio citogenetico-molecolare di ibrida-
zione in situ fluorescente (FISH)7. Il quadro clinico dei soggetti Williams è
caratterizzato dalla disfunzione, più o meno grave, di diversi apparati ed or-
gani. Si registrano, ad esempio, anomalie, spesso congenite, del sistema car-
diovascolare, o anomalie dell‟udito quali l‟iperacusia. Un‟altra caratteri-
stica pressoché costante è quella del dismorfismo facciale che, associato alla
bassa statura che solitamente contraddistingue i pazienti Williams, rende il
loro aspetto simile a quello di folletti. Ma come già anticipato sopra, è pro-
prio il profilo cognitivo atipico che ha attirato su tale patologia l‟interesse
di linguisti, filosofi del linguaggio e studiosi di scienze cognitive. I Williams
hanno, infatti, un fenotipo cognitivo alquanto insolito con deficit gravi in
compiti richiedenti abilità visuo-spaziali ed un linguaggio che sembra, di
primo acchito, preservato e, dunque, perfettamente funzionante. Si disse,

5
Cf. QUINN, 2004 e 2005. Per quanto riguarda la forma quale parametro primo e più
elementare per discriminare gli oggetti si possono guardare gli esperimenti condotti da
WILCOX E BAILLARGEON (1998) o da NEEDHAM (1999).
6 BELLUGI, SABO, VAID, 1988.
7 GIANNOTTI e VICARI, 2004, p. 13.
88 Valentina Cuccio

appunto, che tali deficit selettivi costituivano la prova dell‟autonomia del


linguaggio dal resto delle nostre abilità cognitive e, più in generale, del
funzionamento della nostra mente attraverso moduli cognitivi autonomi. I
Williams sembravano essere dei gran conversatori in possesso di buone
abilità grammaticali e di un lessico particolarmente ricco e ricercato a fron-
te di deficit nello svolgimento di compiti di tipo visuo-motorio. Oggi lo
stato dell‟arte su questi argomenti è alquanto cambiato e difficilmente ri-
cercatori e studiosi si lascerebbero andare a cuor leggero ad affermazioni
sulla presunta natura intatta e preservata del linguaggio nei soggetti con
sindrome di Williams. Studi più attenti, realizzati negli ultimi anni, hanno
messo in luce una serie di deficit del linguaggio che allontanano l‟idea del
suo perfetto funzionamento. Il linguaggio, così come tutte le abilità cogni-
tive dei Williams, presenta un andamento a picchi e valli. Ci sono aree in-
tegre ed altre compromesse o del tutto deficitarie. Il giudizio un po‟ avven-
tato dei primi studi sembra dipendere da una serie di fattori. Innanzitutto
tali studi erano realizzati su soggetti di madrelingua inglese e l‟inglese è no-
toriamente una lingua dalla sintassi molto semplificata. I primi nodi al pet-
tine sono sorti quando si sono analizzate le abilità linguistiche di Williams
parlanti lingue quali il francese, l‟ungherese o l‟italiano dalla sintassi al-
quanto più complessa. In secondo luogo, le valutazioni sulle buone presta-
zioni linguistiche dei Williams venivano realizzate mettendole a confronto
con quelle di soggetti affetti da sindrome di Down. Questa patologia com-
porta un ritardo mentale grave a fronte di quello medio-lieve che carat-
terizza i Williams. Che il linguaggio di questi ultimi fosse, dunque, miglio-
re rispetto a quello dei Down non era certo una prova della sua perfetta
integrità considerato, poi, che le prestazioni linguistiche dei Williams si
ponevano molto al di sotto di quelle di individui con sviluppo tipico sia, ed
ovviamente, di pari età cronologica ma anche di pari età mentale. Inoltre,
studi condotti in due laboratori distinti (quello guidato dal neurologo ita-
liano Stefano Vicari e quello della statunitense Carolyn Mervis) hanno pun-
tato l‟attenzione sul fatto che l‟impressione di un linguaggio preservato che
i Williams hanno suscitato negli studiosi che per primi se ne sono occupati
sembra dipenda dal buon funzionamento della componente fonologica del-
la loro memoria di lavoro. I Williams disporrebbero di buone abilità mnemo-
niche di tipo verbale mentre non avrebbero una vera padronanza né di re-
gole grammaticali né, tanto meno, della componente semantica del lessico
in loro possesso.
Ma veniamo, adesso, a ciò che concerne lo spazio, la sua rappresen-
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 89

tazione e la sua espressione linguistica. Questo è, infatti, l‟argomento che


in questa sede ci interessa focalizzare. Anche in questo caso utilizzeremo
l‟esempio dei Williams come prova di una teoria del linguaggio. La teoria
che ci auguriamo di comprovare concerne il vincolo cognitivo al quale il
linguaggio ci sembra essere sottoposto. I Williams hanno, come già detto,
deficit gravi di tipo visuo-spaziale. Vediamo di capire in che cosa con-
sistano questi deficit e se questi abbiano una ricaduta di tipo linguistico.
Essenzialmente i Williams riescono molto bene in compiti che richiedono
abilità nella percezione di forme e colori. Le loro performances sono sempre
al di sopra di quello che ci si aspetterebbe per l‟età mentale, ed addirittura
eguagliano i risultati dei pari età cronologica con sviluppo tipico, nel rico-
noscimento dei volti così come nel riconoscimento di oggetti. Ciò che per
loro risulta difficile se non impossibile sono i compiti di tipo visuo-costrut-
tivo. Compiti di questo tipo comportano la manipolazione di informazioni
spaziali sia in termini di rappresentazione mentale che di esecuzione ma-
nuale di un compito. Esempi di compito visuo-costruttivo sono la ripro-
duzione di un disegno a matita o il disegno con i cubi. I Williams riescono
a percepire le singole componenti del disegno ma non sono in grado di ri-
produrle integrandole in una configurazione unitaria. Ciò che per loro co-
stituisce un problema non è la percezione delle singole componenti ma la
capacità di rappresentare e di ritenere nella memoria di lavoro infor-
mazioni relative alle posizioni e relazioni spaziali reciproche di queste com-
ponenti. Deficitaria è, dunque, la rappresentazione dello spazio e la capa-
cità di localizzare in esso posizioni e relazioni. Ciò si traduce in una forte
difficoltà ad operare con tutte le rappresentazioni mentali che comportano
informazioni di tipo spaziale: i Williams non riescono o, comunque, non
riescono bene a svolgere compiti che richiedono rotazioni mentali o com-
parazioni tra oggetti che implichino valutazioni del tipo più lungo di/più
corto di e così via. Si pensi, tornando al caso del disegno coi cubi, che tale
test era in passato utilizzato all‟interno di test più ampi condotti per valu-
tare le abilità non-verbali dei soggetti con ritardo mentale. Le prestazioni
dei Williams in tale prova erano, però, talmente basse che il test fu scelto
quale parametro autonomo nell‟individuazione del profilo cognitivo che
caratterizza i pazienti affetti da tale malattia. E questa stessa asimmetria tra
compiti che richiedono la percezione di forme e colori, svolti molto bene,
e, di contro, compiti di tipo costruttivo, ovvero richiedenti la manipola-
zione di informazioni spaziali concernenti la localizzazione di oggetti nello
spazio e le loro relazioni reciproche, svolti in modo gravemente deficita-
90 Valentina Cuccio

rio, si riscontra anche nelle prove di memoria. Sia nella memoria a lungo
termine che comporta apprendimento, sia nella memoria di lavoro. Foca-
lizzando per un attimo l‟attenzione sulla working memory possiamo consta-
tare che il cosiddetto taccuino visuo-spaziale funziona bene nella sua compo-
nente visiva e con ciò si intende quella legata alla percezione di forme e
colori. I Williams non solo percepiscono bene questi aspetti ma li ricor-
dano anche con una certa facilità. È la componente spaziale che, invece, è
compromessa. I soggetti Williams hanno difficoltà serie nel trattenere in me-
moria informazioni concernenti la localizzazione di un oggetto nello spazio o
la relazione tra quest‟ultimo ed altri oggetti. A questo proposito sono stati
condotti molti studi tra i quali meritano rilievo quelli condotti dall‟equipe
italiana guidata da Stefano Vicari. Di recente, inoltre, si è concentrata
l‟attenzione sul fatto che le aree deficitarie sembrano tutte potersi ricondur-
re ad uno sviluppo anomalo o precocemente interrotto della funzionalità
del sistema dorsale mentre, invece, le abilità preservate sembrano essere le-
gate alla funzionalità, conservata, del sistema ventrale. Quanto detto sulle
abilità visuo-motorie dei Williams lascia grossomodo concorde la comu-
nità scientifica. Il terreno spinoso è, invece, quello nel quale ci addentria-
mo adesso. Ancora oggi, infatti, non c‟è una posizione unanime sulla consi-
derazione delle abilità di linguaggio nei soggetti affetti da sindrome di Wil-
liams. Il nostro compito, in quanto segue, sarà, però, quello di andare ad
analizzare non il linguaggio dei Williams tout court ma il loro linguaggio
spaziale, ovvero il modo in cui esprimono linguisticamente lo spazio. L‟ipo-
tesi, come già detto, è che ogni qual volta l‟acquisizione o l‟uso della lingua
chiami in causa proprio quelle competenze spaziali nelle quali i Williams
risultano essere deficitarii, allora la corrispondente performance linguistica
dovrebbe risultare compromessa. Proprio questa ipotesi è stata testata in
uno studio di Philips, Jarrold, Baddeley, Grant e Karmiloff-Smith (2004).
Questi ricercatori, al cui studio si rimanda per un approfondimento della
questione, hanno testato le abilità di soggetti Williams nell‟uso di espres-
sioni linguistiche di tipo spaziale ed hanno trovato che questo dominio ri-
sulta decisamente debilitato rispetto ad altre aree semantiche. Gli autori,
nella prima fase del loro lavoro, hanno sottoposto ai soggetti dell‟esperi-
mento il Test For Reception of Grammar8. Questa prova consiste nel presen-
tare ai soggetti quattro figure e nel chiedere loro di indicare quale di queste
rappresenti la parola o la proposizione che lo sperimentatore pronunzia. Le

8
BISHOP, 1983.
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 91

immagini sono scelte in modo da avere, oltre a quella giusta, un‟immagine


sbagliata ma alla prima speculare ed altri due distrattori. Inoltre, il test è
suddiviso in sezioni ciascuna delle quali valuta una particolare costruzione
grammaticale. C‟è, ad esempio, la sezione dedicata alle proposizioni relati-
ve, all‟uso del passivo o dei pronomi personali singolari e plurali. Tre di
queste sezioni sono dedicate all‟analisi di componenti grammaticali di
natura spaziale: i comparativi (assoluti o relativi) di aggettivi spaziali quali
lungo, corto, etc…; le preposizioni inglesi in e on; ed, infine le preposizioni
above e below.
La previsione avanzata a partire dall‟ipotesi sopra esposta era che i Wil-
liams avrebbero dovuto commettere un numero maggiore di errori nelle
tre sezioni spaziali del TROG e così, in effetti, si è verificato. Infatti i sog-
getti Williams e i gruppi di controllo dell‟esperimento presentavano perfor-
mances analoghe o molto vicine in tutte le sezioni fatta accezione per le tre
dedicate a componenti spaziali dove, come già detto, i Williams commet-
tevano un numero di errori sensibilmente più alto. Considerato che il
TROG è un test che nasce per valutare abilità grammaticali in senso ampio e
non solo in relazione alle componenti spaziali gli sperimentatori hanno
deciso, al fine di vagliare la bontà dell‟ipotesi iniziale dello studio, di con-
durre un‟altra prova nella quale la valutazione degli elementi spaziali fosse
centrale (e non limitata a 3 sole prove in un test composto di ben 20 se-
zioni). Si è, dunque, messo a punto un test costruito con le stesse modali-
tà del TROG. Il test, denominato Test For Receptive Understanding of Spatial
Terms (TRUST), comprendeva 8 sezioni per i termini spaziali ed altre 8 per
prove su strutture grammaticali non spaziali. Le 8 sezioni spaziali com-
prendevano una ben più vasta serie di preposizioni spaziali di quella testata
attraverso il TROG così come un più alto numero di aggettivi comparativi di
tipo spaziale. I risultati di questa seconda prova hanno confermato quelli
già ottenuti attraverso il TROG. I Williams offrivano prove peggiori in tutte
le categorie spaziali mentre nelle 8 categorie che valutavano aspetti non-
spaziali i loro risultati non si discostavano di molto da quelli dei gruppi di
controllo. Dunque, il caso dei Williams sembra costituire un‟ottima prova
di come un deficit nelle abilità visuo-spaziali possa comportare difficoltà
nell‟espressione linguistica dello spazio.
Tornando, dunque, ad un‟analisi di tipo teorico, il modo in cui acqui-
siamo il linguaggio, nello specifico il linguaggio per esprimere lo spazio,
pare essere guidato da sistemi sottostanti di tipo non linguistico. Nono-
stante le lingue presentino una elevata variabilità ci sono strutture che si
92 Valentina Cuccio

mantengono costanti anche quando possono essere formulate in vesti dif-


ferenti. Si pensi, di nuovo, all‟analisi di Leonard Talmy sulla formulazione
linguistica di movimenti nello spazio. Talmy individuò alcune componenti
chiave che si riscontrano in tutte le lingue. Questi elementi sono l‟oggetto-
figura che compie il movimento, la traiettoria attraverso la quale il movi-
mento si svolge, il tipo di movimento e l‟oggetto-sfondo, ovvero quello in
relazione al quale il movimento si svolge. Questi elementi sono costanti
seppure possono essere espressi in maniera diversa. Nonostante le dif-
ferenze esistenti nei sistemi di codifica dello spazio nei vari idiomi parlati
nel mondo, tuttavia le caratteristiche di cui sopra sembrano costituire un
elemento di invariabilità. Anche gli studi di Levinson, ad esempio, tesi a
sottolineare i fattori culturali e dunque variabili più che quelli universali e
dunque costanti nella espressione linguistica dello spazio nelle diverse lin-
gue, sembrano fare riferimento a variabili secondarie in un quadro di rife-
rimento ricorrente. Alla luce di quanto detto sembra, dunque, plausibile
ritenere che il linguaggio presenti delle strutture costanti che sono ri-
conducibili non ad un modulo specifico ed autonomo come sostengono i
chomskiani ma, invece, a strutture cognitive di natura non linguistica e che
tutti gli esseri umani condividono come tratti specie-specifici. Il linguaggio
è vincolato a ciò che noi possiamo percepire e rappresentare. Non pos-
siamo parlare di ciò che si pone al di fuori delle nostre capacità cognitive
perché non possiamo nemmeno concepirlo.

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MARIA CHIARA GIANOLLA

Nudità e rivelazione

L‘essere è in quanto generato e la sua generazione è nuda. Egli si rivela co-


me nudità venuta alla luce e nella luce prende visione di sé come indivi-
duo sorto da un‘origine a lui sconosciuta. Le riflessioni di Giorgio Agam-
ben sull‘essere dell‘uomo, nei suoi testi più recenti, sono comprese tra
questi due estremi. La vita è geniale, in quanto generata (da Genius, il dio
cui i latini affidavano l‘uomo al momento della nascita), e nuda, in quanto
rivelata nella sua essenzialità originaria della quale non ha coscienza. Nel
venire alla vita c‘è la rivelazione di ciò che non era e si presenta nella sua
essenziale nudità, e questo processo implica una sottrazione al buio pri-
mordiale e la rivelazione di una presenza.
«Geniale è la vita che allontana lo sguardo dalla morte e risponde senza
esitare alla spinta del genio che lo ha generato»1. La morte da cui si allon-
tana lo sguardo è lo spazio vuoto dell‘essere che non c‘era e ora c‘è. L‘atto
generativo risiede nello sguardo che guarda alla vita e non alla morte, al-
l‘essere e non all‘oblio.
Ma la generazione è però qualcosa che crea l‘essere e lo attraversa:
l‘origine fa–essere, senza che l‘essere coincida con essa. Pertanto l‘essere
deve restituire lo sguardo e dirigerlo verso il punto generante, il posto
vuoto da cui ha preso vita e che gli ha aperto gli occhi.
Essere significa «vivere nell‘intimità di un essere estraneo, tenersi co-
stantemente in relazione con una zona di non–conoscenza»2. L‘essere ge-
nerati ci porta a guardare alla vita in quanto non ci appartiene e dunque la
teniamo costantemente sotto gli occhi, ci riflettiamo e riconosciamo in essa.
Noi siamo in lei senza che lei ci appartenga.
Guardiamo a noi stessi come immagine della vita e quell‘immagine è
ciò che di noi offriamo agli altri. Ed è proprio il vuoto tra noi e la nostra
generazione, tra l‘essere soggetto e la vita, a spingerci all‘incontro con l‘al-
tro, per cercare in lui di colmare la nostra mancanza.
Sulla soglia della zona di non–conoscenza, Io deve deporre le sue proprietà,
deve commuoversi. E la passione è la corda tra noi e Genius, su cui cammina

1 AGAMBEN (2005, p. 9).


2 Ivi, p.11.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 95-109 95


96 Maria Chiara Gianolla

la funambola vita. Prima ancora del mondo fuori di noi, ciò che meraviglia e
stupisce è la presenza in noi di questa parte per sempre immatura […] che
esita sulla soglia di ogni individuazione. Ed è questo elusivo fanciullo […] a
spingerci verso gli altri, nei quali cerchiamo soltanto l‘emozione rimasta in noi
incomprensibile, sperando che nel miracolo dello specchio dell‘altro si chiari-
sca e delucidi. […] ciò è perché nell‘altro cerchiamo quella relazione con Ge-
nius di cui da soli non riusciamo a venire a capo3.

Ma anche tra noi e ciò che diamo di noi c‘è una non–coincidenza, tra il sé
generato, cioè definito nella sua forma più propria, autentica e essenziale
che come tale ha un nucleo originario inconoscibile e non–appartenente, e
il sé che viene dato: l‘immagine esteriore che si dà in tutta la sua intelligi-
bilità. Nella relazione è ancora più evidente che l‘essere del soggetto è un
essere non–coincidente perché è qui che la sua non–coincidenza, la frattura
tra il sé che è, originariamente inconoscibile, e il sé che si rivela, esterior-
mente intelligibile, si dà.
La sua natura non aderente aleggia su di lui come una sorta di aura, una
maschera che lo rende attore di una vita propria, ma che non gli appartiene,
che lo possiede, ma sulla quale egli non ha alcun potere. L‘impossibile ade-
sione lo porta ad una tensione verso l‘altro, verso il quale si pone come ap-
parenza, manifestazione vivente di una vita che gli sfugge.
Ciò che è in un soggetto ha la forma di una specie, di un uso, di un gesto. Non
è mai cosa, ma sempre e soltanto una ―specie di cosa‖. […] Il termine species,
che significa ―parvenza‖, ―aspetto‖, ―visione‖ deriva da una radice che significa
―guardare, vedere‖ e che si ritrova in speculum, specchio, spectrum, immagine
[…] L‘immagine è un essere la cui essenza è di essere una specie, una visibilità
o una parvenza. Speciale è l‘essere, la cui essenza coincide col suo darsi a ve-
dere, con la sua specie.
L‘essere speciale è assolutamente insostanziale. Esso non ha luogo proprio, ma
accade a un soggetto, ed è in esso come habitus o modo d‘ essere, come l‘im-
magine nello specchio.
La specie di ciascuna cosa è la sua visibilità, cioè la sua pura intelligibilità. Spe-
ciale è l‘essere che coincide col suo rendersi visibile, con la propria rivelazione4.

Guardiamo a noi stessi come separazione e la ferita originaria è costante-


mente oggetto di cura, attenzione, passione. Ma dato che è impossibile pren-
dersi cura di noi attraverso di noi (non si può essere contemporaneamente
sé e strumento del sé), affidiamo tale cura al prossimo. Se fossimo in grado
di curarci dalla mancanza, sapremmo anche individuare il punto della ferita,
3 Ivi, pp. 14-15.
4 Ivi, pp. 60-61.
Nudità e rivelazione 97

ma il paradosso è proprio questo: sappiamo di essere originati, senza sapere


dove collocare l‘origine, di essere feriti, senza avere l‘antidoto. Ci arrendia-
mo all‘impalpabilità della nostra essenza sfuggente e diamo all‘altro il pote-
re di afferrarla, chiudiamo gli occhi davanti all‘invisibile essenza e ci affidia-
mo allo sguardo dell‘altro, in modo da non percepire il nostro essere sepa-
rati come un‘inevitabile mancanza, ma come un essere interrotti che nell‘al-
tro trova completezza. Deleghiamo la cura all‘altro, offrendo a lui l‘immagi-
ne migliore di noi, potendo avere sotto gli occhi solo la nostra esteriorità, la
immagine che dal sé si separa, ma che di quel sé, inconoscibile, parla.
Lo specchio è il luogo in cui scopriamo di avere un‘immagine e, insieme, che
essa può essere separata da noi, che la nostra ―specie‖ o imago non ci appar-
tiene. […] La specie non è altro, in questo senso, che la tensione, l‘amore con
cui ciascun essere desidera se stesso, desidera di perseverare nel proprio essere,
di comunicare se stesso. […] Amare un altro essere significa: desiderare la sua
specie, cioè il desiderio con cui egli desidera di perseverare nel suo essere 5.

Perseverare nel proprio essere significa permanere nella propria identità


separata, che però non basta a se stessa, ma inevitabilmente si apre all‘a-
more. Il tema dell‘amore viene già affrontato da Agamben. Ne La comunità
che viene, l‘Amabile è l‘essere «tale qual è», «l‘essere tale che comunque im-
porta»6, che non sa di sé più di quanto non appaia. Esso coincide con la pro-
pria apparenza, con la propria visibilità e intelligibilità. Non è in altro che in
se stesso, come creatura fragile, originata e separata, dall‘essenza inafferrabi-
le che si dà solo come forma, apparenza, specie. È un essere esposto, nudo e
privato della propria origine e così si rivela, viene alla luce.
Così, l‘esser–tale, che resta costantemente nascosto nella condizione di
appartenenza […] viene esso stesso alla luce: la singolarità esposta come tale è
qual–si–voglia, cioè amabile. Poiché l‘amore non si dirige mai verso questa o
quella proprietà dell‘amato […], ma nemmeno ne prescinde in nome
dell‘insipida genericità (l‘amore universale): esso vuole la cosa con tutti i suoi
predicati, il suo essere tale qual è. Esso desidera il quale solo in quanto è tale
[…]. Così la singolarità qualunque (l‘Amabile) non è mai intel-ligenza di
qualcosa, di questa o quella qualità o essenza, ma solo intelligenza di una in-
telligibilità 7.

«L‘essere qualunque è desiderabile»8, scrive Agamben in Profanazioni, ri-

5 Ivi, p. 62.
6 AGAMBEN (2001, p. 9).
7 Ivi, p. 10.
8 AGAMBEN (2005, p. 63).
98 Maria Chiara Gianolla

prendendo il filo interrotto in La comunità che viene, dove il desiderio è la


tensione del soggetto che va da se stesso all‘altro in quanto in lui riconosce
la propria genericità e la possibilità di una consolazione. Nell‘altro si rico-
nosce la propria ferita originaria e in lui, e attraverso di lui, amandone la
fragilità che è anche la nostra, ci si riconcilia con la nostra parte separata,
sapendo che come è fugace la nostra essenza e l‘incontro con l‘altro, così è
anche la possibilità di tale conciliazione. Da questa deriva la meraviglia del-
l‘amore che non è altro che la meraviglia per la sua ingenua (e quasi inat-
tuabile) semplicità. Ci si meraviglia della presenza in noi di quella parte
mancante che tende irrefrenabilmente verso il proprio completamento. La
bellezza di tale tensione sta nel suo non–compimento, nell‘emozione di es-
sere un essere–aperto dalle cui aperture entra costantemente nuova luce.
La redenzione non è un evento in cui ciò che era profano diventa sacro e ciò
che era stato perduto viene ritrovato. La redenzione è, al contrario, la perdita
irreparabile del perduto, la definitiva profanità del profano. Ma proprio per
questo, essi toccano ora il loro fine — un limite avviene9.

La bellezza (e la rarità) dell‘amore è l‘avvenimento del non–accadimento.


L‘uomo si arrende di fronte al proprio essere–così, alla propria natura co-
sale, rivelazione di un‘apparenza che irrimediabilmente tende verso la non–
cosalità dell‘amore che rappresenta la tensione verso ciò che invece resta
non–rivelato. La sua impotenza è costantemente rivelata dalla propria spe-
cie e messa a nudo dal suo essere–così come tale–qual è. «Così sia. In ogni
cosa affermare semplicemente il così, sic, al di là del bene e del male» 10 .
«Vedere semplicemente qualcosa nel suo essere–così: irreparabile, ma non
per questo necessario; così, ma non per questo contingente – è l‘amore»11.
Queste intense riflessioni sono preliminari all‘ultimo lavoro di Giorgio
Agamben che, in Nudità, approfondisce la controversa questione del sogget-
to, analizzando tutte le sfaccettature del suo essere, partendo proprio dalla
consapevolezza dell‘inafferrabilità della sua essenza: «e come è soltanto la
bruciante consapevolezza di ciò che non possiamo essere a garantire la veri-
tà di ciò che siamo, così è solo la lucida visione di ciò che non possiamo o pos-
siamo non fare a dar consistenza al nostro agire»12. E per indagare tale mar-
gine di possibilità, c‘è solo un elemento insindacabile che caratterizza l‘es-
sere umano. Un elemento tanto certo quanto effimero «che gli appartiene

9 AGAMBEN (2001, p. 85).


10 Ivi, p. 86.
11 Ivi, p.88.
12 AGAMBEN (2009, pp. 69-70).
Nudità e rivelazione 99

in modo intimo ed esclusivo, ma con cui non può in alcun modo identificarsi.
[…] né prendere le distanze: la nuda vita, un dato puramente biologico»13.
La nudità è la rivelazione dell‘umano, è il punto dove poter spingere
l‘indagine al di là di ogni superficie. È l‘abito con cui ogni individuo viene al
mondo, è l‘apparire originario che si indossa durante tutto il corso della vita.
La nudità è il nostro primo abito e dunque ogni volta che la scopriamo, ci
si sente vicini al nostro primo giorno, quello in cui abbiamo visto la luce in
quanto generati, separati e sottratti alla nostra origine.
La nudità è dunque la nostra intimità, ma anche lo strato più esteriore
di noi, la nostra superficie che anche quando viene coperta da vesti, rimane
ciò che ci disegna in un contorno, in una forma e, in base a questa forma,
ci esponiamo allo sguardo dell‘altro.
La nudità è la forma della nostra apparizione. E anche qui torna il tema
dell‘amore, come apertura ed esposizione di sé allo sguardo dell‘altro. Il
corpo nudo si offre all‘amato. L‘incontro tra due soggetti nudi è ciò che
contraddistingue una relazione amorosa da una qualsiasi altra relazione.
Dunque offriamo all‘amato ciò che di noi si avvicina di più alla nostra ori-
gine, pur non essendo completamente coincidente con essa.
L‘unione al corpo dell‘altro è un tentativo di ricongiungerci con la nos-
tra parte separata. Tentativo che fallisce (perché ci si congiunge ad un altro,
non certo a noi stessi), ma che trova conforto nell‘amplesso. Un incontro
tanto bello, quanto doloroso, è la vita che non si ferma a se stessa, ma che
si serve di nuovi corpi per continuare a scorrere, sempre carica di nuove
ferite, foriere di nuovi incontri e nuove generazioni.
Il corpo finito e separato tenta l‘impresa dell‘infinito penetrando l‘altro.
Il corpo ferito accoglie l‘altro in tutte le proprie aperture, per sentirsi col-
mo. La pienezza si tocca, ma non si raggiunge. L‘infinito si respira, ma non
si trattiene. Ci si lascia attraversare, lo si afferra per un fugace attimo e poi
lo si lascia andar via, appagati dal piacere e svuotati dal desiderio che sap-
piamo pronto a rinascere in noi.
Il corpo nudo è l‘immagine di noi che più ci rende vicini all‘origine, ma è
anche la manifestazione della perdita dell‘origine stessa. L‘uomo nel momen-
to in cui viene generato, si separa dalla sua essenza originaria e nel vedersi
nudo si percepisce come creatura spoglia, privata di qualcosa di essenziale. Ep-
pure la nostra essenza è tutta lì, segnata fin dall‘origine da una mancanza.
Nudità è la condizione dell‘uomo che sa di essere mancante, esposto all‘ester-
no e insondabile all‘interno: ridotto al minimo di se stesso, oltre quel limi-
13 Ivi, p. 77.
100 Maria Chiara Gianolla

te non è più possibile proseguire, è rivelato per quel che è, nella sua forma
più propria, autentica e originaria.
Ma se invece di percepire la nudità come la manifestazione dell‘inte-
grità e della completezza dell‘individuo umano appena venuto al mondo,
come il risultato finale di un lavoro compiuto, se così si può dire, la si per-
cepisce come immagine di ciò che manca, come privazione e debolezza, e
ciò porta a una concezione negativa anche l‘incontro con l‘altro, in quanto
macchiato dalla sconcezza del corpo svestito, ciò deriva dalla tradizione bi-
blica: «Adamo ed Eva, dopo il peccato si accorgono per la prima volta di
essere nudi […] Prima della caduta, essi, pur non essendo ricoperti di al-
cuna veste umana, non erano nudi: erano coperti di una veste di grazia, che
aderiva loro come un abito glorioso»14.
Tale privazione di grazia rappresenta proprio la privazione dell‘origine,
di quell‘elemento primo che ci rende vivi, ma non coincidenti con la nostra
stessa vita. La nudità pertanto viene vissuta con soggezione e vergogna. Ep-
pure, teologicamente, la percezione della nudità, coincide con la prima per-
cezione di noi stessi, con l‘apertura degli occhi su di noi e la nostra condi-
zione («Allora si aprirono gli occhi di entrambi e videro che erano nudi»15).
Non c‘è menzogna, né illusione, c‘è l‘esatta e inquietante percezione di sé
come creatura nuda, priva di qualsiasi veste, artificio, rivestimento. In fondo
l‘unica esatta consapevolezza di sé è a partire da noi come generati, spo-
gliati, non si può cogliere il pre–originario e neppure l‘originario, la co-
scienza si accende (‗apertura degli occhi‘) immediatamente dopo l‘origine,
qui inizia e da qui procede.
Prima della caduta l‘uomo viveva nella luce, ma non nella coscienza. Ora,
in penombra, riesce a scrutare se stesso e la propria condizione. Egli passa
dalla luce divina alla visibilità umana, dove finalmente «nella sua natura di-
venta ora visibile un corpo senza gloria: il nudo della pura corporeità, il de-
nudamento della pura funzionalità, un corpo a cui manca ogni nobiltà, per-
ché la dignità ultima del corpo era racchiusa nella perduta gloria divina»16.
Senza dignità, senza gloria, senza luce, l‘uomo appare per quel che è.
Finalmente vede la propria natura rivelarsi.
Nudità è rivelazione di sé a se stessi e così come ci si vede, ci si rivela
all‘altro. A lui si offre tutta la nostra inafferrabile essenza, la nostra natura
spoglia. Il corpo si rende visibile e come tale si lascia afferrare (l‘amore è il

14 Ivi, p. 85.
15 Gen. 3,7.
16 AGAMBEN (2009, p. 88).
Nudità e rivelazione 101

tentativo di afferrare l‘inafferrabile nell‘abbraccio, nella penetrazione e nel-


l‘accoglienza del corpo dell‘altro) e ciò è possibile proprio perché è priva-
to della sua grazia, della veste sacra che rendeva l‘uomo inconoscibile.
L‘inconoscibilità è la condizione della rivelazione. Senza tale privazione
non sarebbe possibile il disvelamento.
L‘intelligibilità dipende dall‘insondabile origine. Nel momento del suo
accadere essa si nega, ma nella sua negazione porta ad essere l‘uomo in
quanto generato e pertanto nudo. Se esiste una parte dell‘uomo che si ri-
vela e si rende comunicabile è proprio perché esiste una parte di sé che re-
sta nell‘ombra, non rivelata e non rivelabile, che non si dà alla coscienza.
L‘umano comincia esattamente al momento della perdita. Non esiste pri-
ma e non potrebbe esistere senza questa rinuncia. Il segreto originario non ac-
cade nell‘uomo, ma lo segna in quanto ciò che immediatamente lo precede.
Il segreto non è nell‘uomo, ma prima dell‘uomo. Se la vita non gli appartie-
ne mentre la vive, ancora meno la può possedere prima del suo inizio.
Sia nella tradizione pagana (Genius), sia in quella biblica (la caduta), il
principio vitale è fuori di noi: accade con noi e si dilegua al momento del
nostro cominciamento, si ritira alle nostre spalle durante l‘inizio della no-
stra vita che ci appartiene solo come apparenza dell‘inconoscibile, come
una vita di cui noi siamo artefici, ma non creatori e possessori.
L‘uomo è una singolarità qualunque: rivelazione della vita che lo tra-
scende. L‘inquietudine consiste nel avvertire la presenza di un segreto che
ci riguarda, ma che non ci appartiene e la bellezza dunque sta nel cogliere
che non c‘è alcun segreto da svelare. La pienezza dell‘umano è tutta lì, nel-
l‘immagine di sé che si dà alla conoscenza: «l‘immagine non è la cosa, ma
la sua conoscibilità (la sua nudità), essa […] non è che il donarsi della cosa
alla conoscenza, il suo spogliarsi dalle vesti che la ricoprono, la nudità non
è altro dalla cosa, è la cosa stessa»17. L‘affanno di procedere altrove ci al-
lontana dall‘origine la quale può essere colta solo come mancante.
E tuttavia, è proprio questo disincanto della bellezza nella nudità, questa su-
blime e miserabile esibizione dell‘apparenza oltre ogni mistero e ogni signifi-
cato, a disinnescare in qualche modo il dispositivo teologico per lasciar vedere,
al di là del prestigio della grazia e delle lusinghe della natura corrotta, il sem-
plice, inapparente corpo umano18.

Nelle parti conclusive del libro, Agamben estende la riflessione filosofica al

17 Ivi, p. 119.
18 Ivi, p. 127.
102 Maria Chiara Gianolla

dibattito teologico, chiedendosi cosa resti di tale ‗inapparenza‘, ovvero di


quell‘essere nudo che, tra le trasparenze della propria nudità, lascia intra-
vedere un mistero indisvelabile, che si lascia cogliere solo nel suo semplice
accadere. L‘immagine inapparente corrisponde a ciò che siamo, ma è an-
che ciò che trascende il nostro essere: è ciò che di noi perdura da qui, dal
punto individuale della nostra vita, all‘eternità.
Il corpo nudo e sgraziato, spogliato della luce originaria, ha una propria
specie e con quella si consacra all‘eternità: come corpo glorioso che solo
dopo la fine della vita (come una vita), raggiunge la pienezza e torna a splen-
dere nella luce. Nella prospettiva teologica, il paradiso è il luogo dove
l‘uomo torna a splendere nella luce e nella luce ritrova se stesso come esal-
tazione di sé. Qui l‘umano è glorificato ma del tutto snaturato. Esso non è
più corpo in movimento, destinato alla corruzione, ma essere immobile,
cristallizzato in quell‘immagine di sé che nella vita l‘ha accompagnato nel-
l‘impresa della conciliazione che ora trova il suo compimento.
La nudità che in vita rappresentava la spoliazione della grazia, la di-
smissione degli abiti originari, l‘esposizione di una vita mancante e sog-
gezione rispetto alla maestosità della vita, rivelazione del sé perduto, di-
viene ora l‘immagine della glorificazione dell‘uomo stesso. E dunque anche
il suo agire, l‘operosità con cui l‘uomo interagisce con sé e le cose fuori di
sé, nell‘affannosa ricerca di un proprio completamento, nel tentativo di
supplire alla propria inadeguatezza, diviene qui semplice esaltazione della
potenza divina e della gloria dell‘uomo che, liberato dai vincoli corporei e
naturali, si esibisce in tutto il suo splendore. L‘uomo è ridotto all‘inope-
rosità, è pura esibizione di sé. «Il corpo glorioso è un corpo ostensivo, le
cui funzioni non sono eseguite, ma mostrate»19.
Dunque, nel dibattito teologico–filosofico, l‘uomo risulta compreso in
uno spazio breve dove si esprime in quanto tale (come corpo, carne, nudità,
corruttibilità, degenerazione, coscienza), tra una luce originaria che lo il-
lumina per poi abbandonarlo e una luce gloriosa in cui risorge. Vive tra la
perdita della grazia e la promessa della gloria. Ma se la condizione umana è
segnata irrimediabilmente dalla perdita che porta l‘uomo ad una condi-
zione di non pacificazione con la propria essenza, in costante tensione ver-
so qualcosa d‘altro, si può dire che nella gloria divina, egli finalmente si ri-
congiunge a se stesso.
Il nudo, semplice corpo umano non è qui spostato in una realtà superiore e più

19 Ivi, p. 139.
Nudità e rivelazione 103

nobile: piuttosto, è come se, liberato dal sortilegio che lo separava da se stesso,
accedesse ora per la prima volta alla sua verità. […] così il corpo che contempla
ed esibisce nei gesti la sua potenza accede a una seconda e ultima natura, che non
è che la verità della prima. Il corpo glorioso non è un altro corpo, più agile e
bello, più luminoso e spirituale: è lo stesso corpo, nell‘atto in cui l‘inoperosità lo
scioglie dall‘incanto e lo apre a un nuovo possibile uso comune20.

Ma è possibile considerare l‘umano senza la sua operosità, senza la sua ca-


pacita creativa, di azione e interazione con il mondo e dunque come sem-
plice esposizione di un corpo ridotto all‘impotenza? È davvero questa la
verità dell‘uomo? Ovviamente, al di là della prospettiva teologica, quella
cioè che crede nella promessa di un ritrovamento, di un ricongiungimento
e di una conciliazione, è difficile considerare l‘uomo se non come creatura
spoglia, la cui condizione esistenziale è data solo dalla propria disarmante
nudità e al di là di quella non può che perdersi e disintegrarsi. Oltre lo
strato nudo le carni si disgregano, il corpo soccombe, l‘uomo scompare.
Ma a questo inesorabile declino l‘uomo si oppone proprio tenendo viva la
sua operosità, spingendo la propria azione, limitata, finita e condizionata,
sempre più in là, travalicando i propri limiti, mettendosi in opera. Privarlo
dunque di questa sua capacità è come spogliarlo delle vesti tipicamente
umane, è come se venisse denudato due volte. È come dunque se il para-
digma della profanazione venisse capovolto: è l‘umano ad essere profanato
dalla veste religiosa della gloria. L‘uomo dunque non è riducibile né alla
sua mera funzionalità, né tantomeno all‘immagine simulacrale della sua
gloria. L‘uomo è la tensione dall‘umano al non–umano, dal sostanziale al-
l‘insostanziale, dal carnale allo spirituale è non è possibile coglierlo se non
in questa tensione costantemente attiva.
L‘arte è forse l‘espressione più alta dell‘irriducibilità dell‘uomo ad una
sua completezza ed è forse ciò che, seguendo il pensiero di Agamben, me-
glio riesce a mettere la creatività al servizio dell‘inoperosità, riesce cioè a
realizzare prodotti non funzionali, che semplicemente esibiscono la propria
potenza. L‘arte è il luogo dove la natura corporea (materia, forma, stru-
mento, azione) si mette in opera la quale a sua volta diviene rappresenta-
zione contemporaneamente della potenza umana e della sua tensione verso
ciò che travalica l‘umano stesso. La verità non viene raggiunta né da una
parte né dall‘altra, ma nella tensione costante tra l‘una e l‘altra.
La 53a esposizione internazionale d‘arte della Biennale di Venezia ha vi-
sto premiata come migliore giovane artista, la svedese Nathalie Djurberg.
20 Ivi, p. 146.
104 Maria Chiara Gianolla

La sua istallazione propone una riflessione molto vicina ai temi fin qui esa-
minati. L‘opera si intitola Experiment, ma già il titolo dell‘intera esposizione,
Fare mondi, mette in relazione il fare, l‘operosità, la creatività, l‘azione, con
il mondo, l‘essere dell‘uomo nel suo contesto che è plurale (mondi) e dun-
que aperto. Il primo posto della creazione del mondo è il giardino del-
l‘Eden. L‘istallazione dell‘artista consiste proprio nella ricostruzione di un
surrealistico giardino dell‘Eden, dove gigantesche sculture floreali, realiz-
zate con tecnica mista, costituiscono un percorso labirintico all‘interno di
una stanza, poco illuminata e dalle pareti scure. Al suo interno vengono an-
che proiettati dei video dove personaggi di plastilina (realizzati e animati
dalla stessa artista in stop-motion), al contempo teneri e inquietanti, si agita-
no affannosamente in situazioni grottesche, sulle note del musicista Hans
Berg. Lo spettatore si addentra nell‘improbabile foresta e si muove tra le
colorate sculture rendendosi conto che esse non sono immobili, ma, se ur-
tate (e nei casi in cui la ‗vegetazione‘ si fa più fitta, il contatto è inevitabile)
possono oscillare, dando l‘impressione di essere vive e minacciose, essendo,
per la maggior parte, simili a piante carnivore. Ci si aspetta che da un mo-
mento all‘altro possano spalancare le fauci e divorare lo spettatore. Questo
non accade, in compenso si assiste ad una sorta di antropofago rito sessuale
all‘interno dei video. Inoltre le sculture, in alcuni casi, sono colorate gros-
solanamente, con macchie di colore addensate sul pavimento, che danno
l‘impressione di accumuli di sangue. In uno dei video, in particolare, è
presente il tema dell‘eros in rapporto alle sue componenti di potere e di
violenza. Delle giovani bamboline nude, dagli occhi grandi e i corpi formo-
si e un po‘ sgraziati, si osservano, si toccano, si accarezzano, si baciano, si
avvolgono, si amano fino a divorarsi. Si avvinghiano l‘una sull‘altra e l‘in-
contro amoroso si fa talmente intenso e appassionato che in alcuni casi si
tolgono addirittura la pelle: i corpi individuali si disgregano e poi ripren-
dono forma, come unico corpo mostruoso. Frammenti di sé si perdono
nell‘altro e a volte si perdono entrambi e sotto gli occhi dello spettatore ri-
mane un cumulo di plastilina rosa, dai contorni indistinguibili e che conti-
nua a mutare forma. Le pupazzette danzano in un rito orgiastico dove i
corpi individuali si fondono, i contorni si sfumano e si passa affannosamen-
te dal singolare al plurale per tornare di nuovo al singolare o per finire
nella reciproca dissoluzione. Ad un tratto appaiono sulla scena degli uomi-
ni in abiti talari. Le loro vesti sono pesanti e risaltano accanto ai corpi nudi
delle ingenue bamboline. Gli uomini, per quanto rappresentino alte cari-
che religiose, guardano le giovani con lo sguardo del desiderio, seppure
Nudità e rivelazione 105

tentino di camuffare le proprie intenzioni con un intervento moralizzatore.


Essi infatti si avvicinano ai corpi nudi delle ragazze e li avvolgono sotto i
propri mantelli dove scompaiono. È difficile ricostruire una logica narrati-
va. I video non raccontano storie, ma mostrano situazioni a metà tra il naif,
il grottesco, il comico e l‘inquietante.
Questa passeggiata nel regno dell‘origine è vissuta certamente con di-
vertimento, ma anche con un certo turbamento. È palpabile l‘idea della
violenza della nascita e dell‘esistenza e ci si riconosce in quelle creature fra-
gili che nude affrontano il proprio venire alla luce, la paura per la propria
condizione di solitudine e l‘ansia di protezione che le conduce alla ricerca
dell‘incontro con l‘altro, che avviene come un vero e proprio scontro, al-
l‘interno di relazioni agitate, fatte di abbracci divoranti dove si finisce per
perdere il confine tra sé e l‘altro e la percezione della distinzione dei ruoli.
Le creature spoglie si incontrano, le nudità si toccano, si abbracciano, fino
a dissolversi tra le mani dell‘altra. I corpi si possiedono fino a scarnificarsi
reciprocamente. Ci si spoglia persino della pelle e tra gesti affannosi, espres-
sioni agitate, occhi sgranati e fiotti di sangue, le delicate figurette si sfor-
mano, si scompongono e si ricompongono, andando persino al di là della
nudità, svelando lo scheletro e le interiora. Ma grattando via il confine ulti-
mo tra sé e l‘altro, si finisce inevitabilmente per perdere sia il sé che l‘altro.
La malleabilità della plastilina rende il processo di deformazione ancora più
evidente ed inquietante, sebbene la prima impressione sia quella di assiste-
re ad un gioco infantile.
Anche la rappresentazione caricaturale degli uomini in abiti talari,
esprime in realtà riflessioni profonde, che possono essere affiancate a quel-
le di Agamben fin qui esaminate. L‘abbraccio ultimo nel quale le giovani
fanciulle scompaiono, è quello in cui vengono avvolte dai mantelli degli
uomini religiosi. Che si tratti di ricoprire la nudità con la veste di grazia
perduta dopo la caduta nel giardino dell‘Eden? Di certo si tratta di una gra-
zia illusoria e del tutto artificiale in quanto i portatori della grazia sono an-
ch‘essi esseri umani e in questo caso, la grazia che indossano è propria-
mente un abito, un vestito, una copertura apparente, non si tratta certo
della condizione di grazia e di gloria divina che conduce l‘uomo nel regno
della vita per poi riaccoglierlo dopo la morte. La loro presenza viene per-
cepita dunque come l‘imposizione di un potere dell‘uomo sull‘uomo e le
loro vesti sontuose marcano la differenza tra le creature nude, fragili e as-
soggettabili e le creature vestite di abiti culturali attraverso i quali stabili-
scono gerarchie. L‘istallazione dunque ci consente di ampliare la riflessione
106 Maria Chiara Gianolla

di Agamben sulla fragilità umana, portandola sul piano della critica sociale
rispetto ad equilibri dove il paradigma della nudità diviene strumento per
stabilire rapporti di dominio. La nudità è tabù, colpa, peccato e viene co-
stantemente usata per rimarcare l‘inferiorità di chi la esibisce. Sebbene
ognuno di noi venga al mondo nudo e per tutta la vita conviva con la pro-
pria nudità originaria, attualmente le strutture sociali, politiche e culturali
si basano sull‘idea che qualcuno rimanga ‗più nudo di altri‘. La nudità (fisi-
ca o psicologica) è un elemento con cui evidenziare l‘inferiorità di alcuni
uomini (ma soprattutto donne: si pensi alla cultura maschilista fondata pro-
prio sulla costante esibizione di donne più o meno spogliate) rispetto ad
altri. La nudità dunque non è una condizione esistenziale condivisa che ac-
comuna tutti gli uomini, poiché tutti sono segnati dalla perdita originaria, e
dunque è l‘immagine più pura e autentica di noi, ma una discriminante con
cui stabilire rapporti di potere. Non è un caso dunque che spesso venga uti-
lizzata in maniera strumentale, come dimostrazione di libertà (dai pacifisti,
ai figli dei fiori, agli animalisti, fino agli esibizionisti in genere) o come pri-
ma forma di tortura nelle strutture di detenzione e concentramento (da
Auschwitz a Guantanamo). La visione ironica e inquietante, ma comunque
lucida e profonda della giovane Nathalie Djurberg, si pone dunque come
un interessante completamento (o come nuova problematizzazione) della
riflessione di Agamben.

Nathalie Djurberg, Experiment, 2009


Particolari, istallazione Claymation, video digitale e tecnica mista, dimensioni
variabili*. Musica Hans Berg.

*
Immagini tratte da www.designboom.com – www.youtube.com.
Nudità e rivelazione 107

4
108 Maria Chiara Gianolla

8
Nudità e rivelazione 109

Bibliografia

GIORGIO AGAMBEN (2001), La comunità che viene, Torino, Bollati Boringhieri.


GIORGIO AGAMBEN (2005), Profanazioni, Roma, Nottetempo.
GIORGIO AGAMBEN (2009), Nudità, Roma, Nottetempo.
DANIEL BIRNBAUM, JOCHEN VOLTZ (eds., 2009), Fare mondi, Catalogo della 53a espo-
sizione internazionale d‘arte, Biennale di Venezia, Marsilio.
ALFREDO GIVIGLIANO

L’immaginazione sociologica.
Tra scienza, soggetto e strutture sociali

0. Scienza, soggetti e strutture tra descrizione e biografia

Cosa possiamo descrivere con il termine immaginazione sociologica? Il per-


corso che seguiremo, all‟interno di queste riflessioni, è una discussione-ana-
lisi di cosa potrebbe essere identificato come immaginazione sociologica, all‟in-
terno di una sociologia, di un approccio sociologico cha da relazionale diventa
processuale. Il punto di partenza sarà la descrizione di C.W. Mills, all‟interno
della quale individueremo quattro componenti che, problematizzate, ci por-
teranno ad una descrizione differente.
Quella che Mills ci propone non è una semplice categoria concettuale, un
modo di fare ricerca, un oggetto proprio del bagaglio di ogni singolo socio-
logo che, confrontandosi con il mondo della vita quotidiana, cerca di appli-
care alla realtà unica e sola che si trova davanti. La realtà non è un qualcosa di
unitario ed unico. Una delle descrizioni che verrà problematizzata, discussa
ed analizzata, è quella secondo la quale è possibile individuare, leggere, rela-
zionarsi (ognuna di queste modalità indica uno stile di ricerca proprio) con la
realtà come se fosse un oggetto ontologicamente unitario. Le dimensioni del
reale non sono semplici dimensioni, ma vere e proprie ontologie che sfumano le
une nelle altre, non costituiscono una somma, ma un tutto complesso.
Altra considerazione, il sociologo non è davanti alla realtà; è egli stesso
parte della realtà che studia ed indaga, parte dello stesso processo (uno dei vari
processi in gioco) che contribuiscono a determinare la complessità ontolo-
gica stessa del reale. La realtà sociale, in questi termini processuale, non è la con-
troparte della realtà fisica espressa in termini sociali, quindi, una dimensione,
meglio una rilettura operata secondo le stesse modalità della realtà fisica.
Che cosa è la immaginazione sociologica secondo Mills? È essa stessa una
processualità complessa. Ovviamente si deve prendere in considerazione la
posizione sociologica espressa nei lavori dell‟autore americano per com-
prendere come viene descritta questa processualità. Quello che faremo, al-
l‟interno di queste riflessioni, è di intendere la traccia dettata secondo la no-
stra posizione, la nostra traiettoria sociale e scientifica.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 110-134 110


L’immaginazione sociologica 111

1. Immaginazione sociologica e Sociologia Processuale

Nel momento in cui si prendono in considerazione gli oggetti immagine e


sensazione, si tende a considerarli come oggetti individuali. Il problema stesso
del loro essere oggetti è un qualcosa che ha a che fare con l‟individualità,
meglio, con il loro essere riferiti all‟uso che ne fanno gli individui. Uso, per-
ché tramite e per mezzo loro gli individui (non ancora attori sociali, o meglio,
soggetti sociali) si rapportano con le loro stesse esperienze.
Partendo da quello che è per Mills la sociologia, il suo compito, il suo og-
getto, la sua metodologia (sia da un punto di vista epistemologico che scienti-
fico), si può vedere come la sua definizione di immaginazione sociologica cor-
risponda ad una ben precisa idea del sociale, del soggetto sociale e del socio-
logo stesso.
Come può essere descritta l’immaginazione sociologica tra scienza, indivi-
duo e strutture sociali? Perché dovrebbe essere un qualcosa che si pone al-
l‟interno di una tensione relazionale tra la scienza, nella sua declinazione so-
ciologica, l‟individuo, inteso come soggetto sociale, e le strutture sociali?
Descrivere il perché del nostro punto di partenza vuol dire entrare diret-
tamente all‟interno di quello che sarà il percorso che seguiremo in queste ri-
flessioni. Percorso inteso sia nel senso di limite (forma) che in quello di mec-
canismo che contribuisce alla continua genesi e modifica dei nostri costrutti
teorici (contenuto); è un percorso interno a, strutturato e strutturante ciò che
possiamo identificare come un modello particolare di sociologia processuale.
Sociologia processuale, espressione che R. Van Krieken utilizza 1 nel mo-
mento in cui descrive la posizione teorica di N. Elias. La sociologia all‟inter-
no della quale ci muoveremo, in un certo senso delineeremo, è una costru-
zione che ha tra i suoi punti di partenza questo approccio sociologico, nello
specifico una modalità di studio della dinamica tra SoggettiSociali–Strutture
Sociali–RelazioniSociali2 intesa come una dinamica processuale.
La stessa analisi è un processo multidimensionale; siamo di fronte, quindi, ad
una serie di dimensioni. Al centro della nostra riflessione risulteranno essere
quelle della immaginazione e della sensazione: immaginazione e sensazione come
dimensioni (tra le altre) della dinamica che abbiamo introdotto; dimensioni
nello stesso tempo costitutive la processualità di ricerca sociale come processo e
come analisi. Qual è la relazione tra queste due dimensioni? In maniera preli-
minare possiamo affermare che sono in tensione tra loro all‟interno di un

1 KRIEKEN VAN (2001).


2 Cf. GIVIGLIANO (2008).
112 Alfredo Givigliano

terzo processo, sono contestualmente dimensioni processuali e processi; so-


no in tensione, nel momento in cui identifichiamo questa tensione con un
terzo processo.

2. Immaginazione sociologica 1: Le dimensioni dell’immaginazione sociologica di C.W. Mills


Il nostro punto di partenza, la descrizione di immaginazione sociologica di
Mills, è
L‟immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il
grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul compor-
tamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire
perché, nel caos dell‟esperienza quotidiana, gli individui si formino un‟idea falsa
della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le
grandi linee, l‟ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psi-
cologica di tutta una gamma di uomini e di donne. Riconduce in tal modo il disa-
gio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pub-
blica indifferenza in interesse per i problemi pubblici3.

Questa è una caratterizzazione di immaginazione sociologica ben precisa nel suo


complesso, ma nello stesso tempo, al suo interno, possiamo individuare una
componente euristica, una componente metodologica, una componente pras-
siologica ed una componente inferenziale. Sono quattro modalità attraverso
cui viene descritta e che permettono a questa declinazione dell‟immaginazione
sociologica di avere un proprio ruolo ed una propria operatività all‟interno
della costruzione teorica di Mills.
In che modo si concretizzano ruolo e operatività? Semplicemente nel
mettere in grado il sociologo di conoscere ciò che è il sociale. Questa descri-
zione occupa un suo posto ben preciso all‟interno della storia e dello svilup-
po del pensiero sociologico; vedremo in seguito in che modo sia possibile ar-
rivare alla nostra ridescrizione in funzione dei problemi che il nostro punto
di partenza apre, attraverso un percorso teoretico ed epistemologico.

2.1. La componente euristica

Iniziamo ad analizzare le quattro componenti che abbiamo individuato al-


l‟interno della descrizione di Mills della immaginazione sociologica, la prima
delle quali possiamo descrivere come dimensione euristica.

3 MILLS (1959, p. 15).


L’immaginazione sociologica 113

L‟immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il


grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul com-
portamento esteriore di tutta una serie di categorie umane4.

Questa dimensione presenta, nel momento in cui la prendiamo in conside-


razione alla luce del nostro approccio processuale, una serie di nodi da scio-
gliere (che aprono analoghi problemi sia di ordine teorico che di ordine euri-
stico) e che possono essere, in prima istanza, individuati come
1. Portata empirica
2. Definizione della situazione 1 (prima caratterizzazione/applicazione del con-
cetto di strutture)
3. Soggetti come posizione sociali (posizioni sociali come insiemi di significati)
4. Tensione tra relazioni e strutture
La tabella 1 permette di vedere come questi nodi siano in relazione con i ca-
ratteri della dimensione euristica che abbiamo individuato nella descrizione
di immaginazione sociologica di Mills.
Tabella 1: La dimensione euristica dell’immaginazione sociologica
Descrizione di C.W. Mills Nodi
Permette Portata empirica: osservabile per noi
a chi la possiede
Vedere
Valutare
il grande contesto dei fatti storici nei suoi Definizione della situazione 1: Strutture
riflessi
sulla vita interiore Soggetti come posizioni sociali – significati
sul comportamento esteriore
di tutta una serie di categorie umane Relazioni – Strutture

Il primo nodo, la portata empirica, si articola in più aspetti: per valutare bi-
sogna prima vedere, ma vedere vuol dire avere uno schema inferenziale che
fornisca come risultato una immagine. È l‟immagine stessa lo schema inferen-
ziale che applicato permette di vedere: fornisce le coordinate da utilizzare ed
identifica le dimensioni lungo le quali muoversi all‟interno e nella costruzio-
ne del processo di ricerca. Portata empirica che può essere descritta, quindi,
come ciò che è osservabile per noi.
Contestualizziamo, nel momento in cui B.C. van Fraassen dichiara la sua
posizione e l‟intento del suo studio The Scientific Image propone tre differenti
tesi interrelate le une alle altre, in modo tale da costituire un unico approc-

4 MILLS (1959, p. 15).


114 Alfredo Givigliano

cio5. La prima di queste tesi riguarda «la relazione fra una teoria ed il mondo,
e in special modo quella che possiamo chiamare la sua portata empirica»6. Lo
stesso van Fraassen specifica che la portata empirica è ciò che è osservabile per noi.
La seconda «è una concezione della spiegazione scientifica, nella quale si so-
stiene che il potere esplicativo di una teoria è un aspetto che va, in realtà, ol-
tre la sua portata empirica, e, nel contempo, è radicalmente dipendente dal
contesto»7. La terza «è un‟esplicitazione della probabilità come essa ricorre
all‟interno delle teorie fisiche (in opposizione a: entro la valutazione del loro
sostegno evidenziale)»8.
The Scientific Image di van Fraassen è un testo di epistemologia e come ac-
cade nella maggior parte dei testi epistemologici (dove non specificato in ma-
niera esplicita diversamente) quando si parla di scienza si parla di scienze del-
la natura. Non è detto che sia necessariamente così, che sia necessaria una
equivalenza così sostanziale tra l‟oggetto scienza dei testi epistemologici e l‟og-
getto scienza inteso come scienze cosiddette hard. Vedremo come questa con-
siderazione sia un elemento importante all‟interno delle nostre riflessioni.
Ritornando alla tabella nella quale abbiamo inserito il rapporto tra la de-
scrizione di Mills e i nodi che sono emersi possiamo descrivere «il grande
contesto dei fatti storici nei suoi riflessi» come una prima definizione della
situazione. Il concetto di situazione è un concetto che ritornerà spesso all‟in-
terno di queste riflessioni. Perché il concetto di struttura come una prima de-
finizione della situazione? L‟oggetto complesso SoggettiSociali–StruttureSociali–
RelazioniSociali è stato di volta in volta scomposto, è stato individuato, dai va-
ri approcci sociologici, in maniera univoca il soggetto sociale, le strutture sociali,
le relazioni sociali come oggetto proprio della sociologia. In questa sede, invece,
lo possiamo considerare (è) un oggetto unico; oggetto unico che non ha biso-
gno di tre differenti definizioni della situazione, ma di una sola ed unica.
In questo senso vediamo come la descrizione di Mills, della immaginazione
sociologica, sia un buon punto di partenza, contenga e presenti elementi di ana-
lisi interessanti, apra prospettive e possibilità di approfondimenti, ma non sia
il punto di arrivo (anche se lo è di partenza) delle nostre riflessioni.
Ancora, «il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi» è una defi-
nizione classica di situazione che vede nelle strutture sociali l‟oggetto proprio
della sociologia.

5 «Il fine di questo libro è quello di sviluppare un‟alternativa costruttiva al realismo


scientifico, una posizione che, ultimamente, è stata molto discussa e sostenuta in filosofia
della scienza. A questo scopo presenterò tre tesi, ciascuna delle quali abbisogna del soste-
gno dell‟altra» (FRAASSEN VAN 1980, p. 23).
6 Ibid.
7 Ibid.
8 Ibid.
L’immaginazione sociologica 115

Il quarto nodo è quello che riguarda i soggetti sociali come insiemi di posi-
zioni sociali, come insiemi di significati. Mills, nel momento in cui introduce
l‟elemento della soggettività e quello del rapporto (della soggettività stessa)
con ciò che possiamo identificare come sociale, ci permette di individuare i
soggetti sociali come insiemi di posizioni sociali, come insiemi di significati so-
ciali; vedremo in seguito cosa questo voglia dire.
Arriviamo, quindi, all‟ultimo nodo, quello della tensione tra le strutture
sociali e le relazioni sociali, tensione che si può ritrovare nella espressione «di
tutta una serie di categorie umane».

2.2. La componente metodologica


La seconda dimensione che dobbiamo prendere in considerazione è quel-
la metodologica. Nella espressione di Mills, essa «permette di capire perché,
nel caos dell‟esperienza quotidiana, gli individui si formino un‟idea falsa della
loro posizione sociale»9. Anche per questa dimensione, individuiamo una se-
rie di nodi da affrontare partendo dalle considerazioni del sociologo americano.
Tabella 2: La dimensione metodologica dell’immaginazione sociologica
Descrizione di C.W. Mills Nodi
Capire Altro sia da Scienza naturale che da Scienza
Perché dello spirito
nel caos Formalizzazione modellistica
dell‟esperienza quotidiana Definizione della situazione 2: Soggetti
gli individui
si formino Dipende dalla definizione della situazione 1
un‟idea falsa Prima ipotesi errata di sensazione
della loro posizione sociale Traiettoria sociale
Riprendendo la considerazione precedente secondo cui la Scienza non è ne-
cessariamente equivalente alle scienze della natura, possiamo comprendere
come non si possa avere una identità tra questi due oggetti. Lo si può vedere
anche sotto questo rispetto: nel momento in cui siamo impegnati nel co-
struire una formalizzazione modellistica della sociologia spesso lo facciamo
per darle una dignità (quindi una scientificità) pari a quella delle scienze della
natura, questo passaggio poggia, tuttavia, sull‟assunzione di un‟ontologia uni-
ca per il reale. Una delle questioni che avanziamo all‟interno di queste
riflessioni è di segno opposto: l‟ontologia del reale non è unica, ma si declina
in una serie di dimensioni partendo dal rapporto del soggetto con il reale per la

9 MILLS (1959, p. 15).


116 Alfredo Givigliano

costruzione di differenti dimensioni reali, ognuna con una propria determina-


zione ontologica (nel momento in cui la nostra domanda di conoscenza è
sempre e comunque una domanda scientifica).
Il problema della formalizzazione modellistica può essere descritto anche
partendo dalle considerazioni seguenti. Mills all‟interno di The Sociological
Imagination affronta tre differenti tendenze nella storia della costruzione e
dello sviluppo del pensiero sociologico: storica, delle grandi teorizzazioni,
empirismo astratto. La risposta che lui fornisce di fronte a queste tre ten-
denze è quella della cosiddetta analisi classica. Abbiamo, quindi, tre modalità
di analisi dello stesso oggetto che dovrebbero identificare, ognuna, una scien-
za. La situazione è abbastanza strana, visto che non esiste una scienza che ab-
bia più di una modalità metodologica: anche nel momento in cui proviamo a
vedere ciò che avviene in economia, la metodologia può differire nei metodi
che traducono la metodologia in tecniche, ma la metodologia rimane unica.
La dimensione che stiamo affrontando è quella metodologica, non quella teo-
rica (per quanto le due siano necessariamente intrecciate).
La sociologia dovrebbe avere più metodologie, quindi, necessariamente
tutte sbagliate tranne una, oppure, potrebbero anche essere tutte sbagliate,
infatti, riprendendo il passaggio che abbiamo utilizzato di van Fraassen all‟in-
terno della analisi della dimensione euristica, ciò che è empiricamente adeguato
è ciò che è osservabile per noi. Il passo successivo dello stesso van Fraassen è quello
di sostenere che è tutto determinato dal grado di credenza che noi abbiamo nel-
l‟adeguatezza tra la teoria ed il mondo empirico, ciò che è osservabile per noi.
Continua sostenendo che non è uno scandalo dire che non c‟è credenza o che
la credenza sia sbagliata, quindi, nessuna metodologia potrebbe essere corretta.
In che modo ci può essere utile il concetto e lo strumento della formalizzazio-
ne modellistica è un altro debito che contraiamo e che salderemo quanto prima.
Ritornando alla tabella 2 vediamo che emerge anche una seconda risolu-
zione della problematica dell‟oggetto proprio della sociologia, quindi, della
definizione della situazione prendendo in considerazione come punto di par-
tenza dell‟intero discorso sociologico i soggetti. Inizia a delinearsi una pos-
sibile interrelazione tra le varie modalità di definizione della situazione in ra-
gione del loro essere collegate di volta in volta con i soggetti sociali, le rela-
zioni sociali o le strutture sociali. Può essere utile prendere in considerazione
alcune proposizioni di H. Blumer, proposizioni che costituiscono la sua stes-
sa definizione di interazionismo simbolico
L‟interazionismo simbolico poggia in sostanza su tre semplici premesse. La pri-
ma è che gli individui agiscono verso le cose in base al significato che esse hanno
L’immaginazione sociologica 117

per loro. Tra queste si può includere tutto quello che gli individui notano tra gli
oggetti del loro mondo fisico, come alberi o sedie, altri individui, come una ma-
dre o un impiegato di un negozio, categorie di individui, come amici o nemici,
istituzioni, una scuola e un governo, ideali guida, come l‟indipendenza indivi-
duale o l‟onestà, l‟attività degli altri, come i loro ordini o le loro richieste, e si-
tuazioni come quelle che un individuo incontra nella sua vita quotidiana. La se-
conda è che il loro significato è derivato da, o sorge, dall‟interazione sociale di
ciascuno con i suoi simili. La terza è che questi significati sono trattati e modifi-
cati lungo un processo interpretativo usato dalla persona nel rapporto con le co-
se che incontra10.
Una prima considerazione che possiamo fare è che, quindi, visto che «gli in-
dividui agiscono verso le cose in base al significato che esse hanno per loro»
una idea può essere falsa, ma questa è una prima ipotesi errata di sensazione
all‟interno del contesto di descrizione del sociale che stiamo qui tracciando.
Questa stessa proposizione chiarisce il contesto teorico all‟interno del quale
si muove Blumer, ovvero, il suo porre sotto giudizio critico (negativo) due
differenti approcci: il primo è quello che vede i significati negli oggetti; il se-
condo è quello in base al quale i significati non servono. Stiamo parlando di
significati sociali, stiamo usando Blumer all‟interno della nostra cornice, quel-
lo che lui identifica come significato noi lo leggiamo come significato sociale,
anche perché all‟interno di una analisi del campo proprio della sociologia
necessariamente i significati sono significati sociali.
La seconda caratteristica «è che il significato è derivato da, o sorge, dall‟in-
terazione sociale di ciascuno con i suoi simili». Questa è quella che tecnica-
mente Blumer descrive come joint action, qui identificata come azione congiunta.
Mentre la terza «è che questi significati sono trattati e modificati lungo un
processo interpretativo usato dalla persona nel rapporto con le cose che in-
contra» ed è qui che possiamo rintracciare il significato più profondo di inte-
razionismo simbolico per Blumer. I significati non nascono dall‟oggi al domani,
non si stabilisce di punto in bianco che “questa determinata situazione sociale
per me significa questo”, “a me interessa agire all‟interno di questa situazione
in questo modo per questi motivi, per questi scopi etc.”. È un qualcosa che
viene dal passato, e che proietta sostanzialmente nel futuro. Ma è una attività
interpretativa: c‟è comunque una ricezione ed una interpretazione. In questo
senso una idea può essere falsa (ritornando e intrecciando così le modalità che
abbiamo individuato nella descrizione di immaginazione sociologica di Mills).
Questa descrizione di Blumer dell‟interazionismo simbolico risulta, tuttavia,
contestualmente, estremamente interessante e problematica. Nel momento
10 BLUMER (1969, p. 34).
118 Alfredo Givigliano

in cui cerchiamo di rintracciare e delineare una possibile modellizzazione (ri-


torna il problema della modellizzazione) ci accorgiamo che Mills utilizza il ter-
mine caos, ma il termine caos rimanda ad un qualcosa di ben preciso all‟inter-
no dell‟universo di discorso della scienza. Il testo di Mills è del 1959, quindi,
necessariamente non poteva conoscere un articolo uscito nel 1963, articolo
che contiene l‟espressione «Solutions of these equations can be identified with
trajectories in phase space»11. Ovviamente non possiamo affermare che i sog-
getti sono all‟interno di queste equazioni, tuttavia, questo è un modello che
potrebbe fornire alcuni spunti di riflessione. Nel momento in cui noi identi-
fichiamo lo spazio sociale come l‟insieme delle traiettorie sociali, come potreb-
be essere descritto uno spazio di fasi? All‟interno delle scienze della natura è
uno spazio cartesiano che identifica lo spostamento degli oggetti in termini di
posizione e di quantità di moto: esattamente ciò che Heisenberg sostiene non
essere possibile contemporaneamente (Principio di incertezza).
Ancora, «with trajectories in phase space», l‟affermazione di Mills che
abbiamo descritto come dimensione metodologica apre la seguente questio-
ne: se noi ci aspettassimo che i fenomeni sociali seguissero una qualsiasi for-
ma di meccanicismo, seguissero una qualsiasi modalità esprimibile in termini
di causalità lineare, diretta, ci formeremmo un‟idea falsa?

2.3. La componente prassiologica


Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l‟ordito della
società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma
di uomini e di donne12.
Anche in questo caso possiamo descrivere una corrispondenza tra le afferma-
zioni di Mills e la nostra descrizione, la descrizione che stiamo costruendo di
immaginazione sociologica
Tabella 3: La dimensione prassiologica dell’immaginazione sociologica
Descrizione di C.S. Mills Nodi
Gli offre la possibilità Definizione delle condizioni di possibilità
di districare Formalizzazione modellistica
in questo caos
le grandi linee Definizione della situazione 3: Relazioni
l‟ordito della società moderna
e di seguire su di esso la trama psicologica di Determinazione dello spazio sociale
tutta una gamma di uomini e di donne

11 LORENZ (1963, p. 130).


12 MILLS (1959, p. 15).
L’immaginazione sociologica 119

«Gli offre la possibilità», emerge il problema della definizione delle condizioni


di possibilità. Perché abbiamo utilizzato il termine prassiologica per identificare
questa dimensione? La conoscenza prassiologica è una delle tre forme di co-
noscenza che individua P. Bourdieu: conoscenza oggettivista, conoscenza fe-
nomenologica e conoscenza prassiologica. Che cosa Bourdieu rimprovera al-
la conoscenza oggettivista? Di non porsi il problema delle condizioni di pos-
sibilità. Che cos‟è che rimprovera alla conoscenza fenomenologica? Di non
chiedersi da dove vengono queste condizioni di possibilità. Problemi che tro-
vano la loro ricomposizione e soluzione all‟interno della conoscenza prassio-
logica, che non trascura, tuttavia, gli aspetti positivi di quella oggettivista e di
quella fenomenologica.
Questa dimensione ci permette anche di contestualizzare le considera-
zioni che abbiamo sviluppato in precedenza per quanto riguarda il problema
della modellizzazione: «di districare, in questo caos» ovvero il problema del-
la formalizzazione modellistica. Il concetto di possibilità descritto da Bour-
dieu è un concetto per lui (e per noi) estremamente importante, concetto
che qui ritorna come punto di partenza di una possibile formalizzazione mo-
dellistica. Per Bourdieu analizzare il tutto in termini di condizioni di possibilità
vuol dire fare un doppio movimento di interiorizzazione dell’esteriorità e di este-
riorizzazione dell’interiorità in termini esclusivamente sociali13, fino ad arrivare
alla determinazione dello spazio sociale, cioè all‟intrecciarsi, allo sfumare del-
le singole traiettorie sociali l‟una nell‟altra.
Prendiamo ancora in considerazione alcune affermazioni di Lorenz «For
those systems with bounded solutions, it is found that nonperiodic solutions
are ordinarily unstable with respect to small modifications, so that slightly dif-
fering initial states can evolve into considerably different states»14. Se ci fosse
un meccanicismo non ci sarebbe questa possibilità. Ma lo spazio sociale è un caos.
Arriviamo, quindi, al problema della descrizione dello spazio sociale: «di
seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di

13 «la conoscenza che potremmo chiamare prassiologica ha come oggetto non solo il siste-

ma delle relazioni oggettive che costituisce il mondo della conoscenza oggettivista, ma anche
le relazioni dialettiche tra tali strutture oggettive e le disposizioni strutturate all‟interno delle
quali esse si attualizzano e che tendono a riprodurle, cioè il duplice processo di interioriz-
zazione dell‟esteriorità e di esteriorizzazione dell‟interiorità. Tale conoscenza presuppone una
rottura con il modo di conoscenza oggettivista, vale a dire un‟interrogazione sulle condizioni
di possibilità e quindi sui limiti del punto di vista oggettivo e oggettivante, che coglie le pra-
tiche dall‟esterno, come un fatto compiuto, al posto di costruirne il principio generatore col-
locandosi nel movimento esteso della loro effettuazione», BOURDIEU (1972 [2000], pp. 185-186).
14 LORENZ (1963, p. 130).
120 Alfredo Givigliano

donne». Lo spazio sociale non è lo spazio fisico, se fosse (solo ed esclusiva-


mente) lo spazio fisico, ovvero quello nel quale ci muoviamo calpestando il
pavimento, non ci sarebbe bisogno di caratterizzare la sociologia come un
qualcosa di diverso dalle altre scienze. Siamo all‟interno di una ontologia
complessa. Primo spunto di riflessione: ogni singola scienza è costruita per
descrivere ed analizzare (partendo dalla sua costruzione) una dimensione di
questa ontologia complessa, dove non necessariamente una è in contrasto
con un‟altra.

2.4. La componente inferenziale

Rimane da analizzare la quarta componente che abbiamo identificato nel


nostro processo di (ri)descrizione della immaginazione sociologica partendo
dalla declinazione che ne da C.W. Mills.
Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi del-
la società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pub-
blici15.

Anche per quanto riguarda questa componente possiamo identificare alcuni


nodi partendo dalle affermazioni di Mills che ci possono condurre alla nostra
descrizione
1. Ricomposizione delle dimensioni euristica, metodologica, prassiologica
2. Posizioni sociali come insiemi di significati
3. Tensione tra SoggettiSociali–StruttureSociali–RelazioniSociali
Tabella 4: La dimensione inferenziale dell’immaginazione sociologica
Descrizione di C.W. Mills Nodi
Riconduce in tal modo Ricompone le dimensioni euristica, meto-
dologica, prassiologica
il disagio personale Emergono le posizioni sociali come insie-
mi di significati
dei singoli All‟interno della tensione
a turbamenti oggettivi della società SoggettiSociali–StruttureSociali–
e trasforma la pubblica indifferenza RelazioniSociali
in interesse per i problemi pubblici

La sociologia è una scienza, quindi, deve essere oggettiva. Si ricompongono le


componenti che abbiamo discusso in precedenza, quella euristica, quella me-

15 MILLS (1959, p. 15).


L’immaginazione sociologica 121

todologica e quella prassiologica anche nel momento in cui si descrive «il di-
sagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la
pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici». «Oggettivi» come
modifiche, modificazioni oggettive della società, tramite gli strumenti del-
l‟empiricamente adeguato e dell‟osservabile per noi.
Possiamo a questo punto saldare uno dei debiti che abbiamo contratto,
quello riguardante le posizioni sociali come insiemi di significati. Cosa vuol dire
«disagio personale»? All‟interno del nostro percorso, non lo si può descri-
vere come una questione psicologica: i significati sociali devono essere analiz-
zati in termini di inferenze sociali, in questo modo i significati sociali stessi pos-
sono essere costruiti come insiemi di significati all’interno della tensione SoggettiSocia-
li–StruttureSociali–RelazioniSociali.
Ancora van Fraassen «anche se l‟osservabilità non ha nulla a che vedere
con l‟esistenza (è, infatti, troppo antropocentrica per questo), essa può anco-
ra avere molto a che fare con l‟atteggiamento epistemico tipico della scien-
za»16, alla luce del fatto che «Uso l‟aggettivo „costruttivo‟ per indicare la mia
opinione che l‟attività scientifica sia un‟attività di costruzione piuttosto che di
scoperta: costruzione di modelli che devono essere adeguati ai fenomeni, e
non scoperta della verità concernente l‟inosservabile»17. Attività scientifica
come costruzione, quindi, è una prassi, prassi che si concretizza nel momento
in cui (ma ha anche come proprio fondamento il fatto che)
La scienza mira a fornirci teorie che sono empiricamente adeguate; e l’accettazione di una
teoria implica soltanto la credenza che essa sia empiricamente adeguata. Questa è l‟e-
nunciazione della posizione antirealista che io difendo e che chiamerò empirismo
costruttivo18.
Per arrivare a concludere che
Si ricordi che ho definito il realismo scientifico in termini del fine della scienza e
degli atteggiamenti epistemici. Il problema è quello di sapere quale fine abbia
l‟attività scientifica, e quanto dovremo credere quando accettiamo una teoria
scientifica. Qual è la corretta forma di accettazione: la credenza che la teoria,
considerata come un intero, sia vera; o qualcos‟altro? Rispetto a questa domanda,
ciò che risulta osservabile da parte nostra viene ad assumere particolare rilevanza.
Invero, possiamo a questo punto azzardare una risposta: accettare una teoria è
(per noi) credere che essa sia empiricamente adeguata – che quel che la teoria
dice intorno a ciò che è osservabile (da noi) sia vero19.

16 FRAASSEN VAN (1980, p. 44).


17 Ivi, p. 29.
18 Ivi, p. 37.
19 Ivi, p. 43.
122 Alfredo Givigliano

Qual è il fine della sociologia, della teoria sociologica? Risolvere i problemi


sociali, se accettiamo la posizione espressa da Mills nella sua descrizione di
immaginazione sociologica.
Tuttavia il considerare i problemi, alcuni dei problemi, sollevati dalla
messa a confronto di Mills e van Fraassen, ci porta ad approfondire alcune
considerazioni. Il problema dell‟«accettare una teoria (per noi)» inscindibile da
quello del «osservabile per noi» nei termini dell‟adeguatezza empirica può an-
che essere affrontato con l‟aiuto di L.J. Prieto: «Il punto di vista da cui risulta
la pertinenza del modo in cui si concepisce un oggetto è sempre introdotto
dal soggetto. Ma, bisogna aggiungere immediatamente, da un soggetto fa-
cente parte di un gruppo sociale, in cui ciò che si può chiamare “potere sim-
bolico” conferisce una certa legittimità a determinati punti di vista»20. Non
solo possiamo rintracciare all‟interno della prima parte dell‟affermazione di
Prieto una caratterizzazione del concetto di epistemologia costruttiva che
abbiamo introdotto e presentato per mezzo di van Fraassen, ma possiamo
comprendere ancora meglio come la dimensione del sociale sia imprescindi-
bile, fondamento, strumento e oggetto nel momento in cui sottolineiamo
che «siccome il soggetto è sempre un soggetto sociale, ogni conoscenza della
realtà materiale comporta, al livello stesso della costruzione dell‟identità che
essa riconosce al suo oggetto, una componente, la pertinenza, che, essendo
non “data” (cioè imposta dall‟oggetto) ma al contrario introdotta dal soggetto,
è per questo fatto anch‟essa sociale»21.
Per mezzo di altre considerazioni di Prieto, possiamo anche ulteriormen-
te contestualizzare le affermazioni di Blumer nel momento in cui «Per il fatto
che la pertinenza non viene mai dall‟oggetto si può già concludere che non
c‟è mai conoscenza della realtà materiale che sia “oggettiva” nel senso che es-
sa starebbe passivamente di fronte all‟oggetto rispecchiandolo “così com‟è” o,
in ogni caso, in un modo che non dovrebbe niente se non all‟oggetto stes-
so»22. Infatti, uno dei tre assunti di partenza di Blumer era quello di deter-
minare il significato come diverso da ciò che è nell‟oggetto.

20 PRIETO (1975, pp. 125-126). Nella nota 8 al testo aggiunge: «Sociologi come P. Bour-
dieu e J.C. Passeron hanno giustamente utilizzato questo concetto di “potere simbolico”
per spiegare il modo in cui viene imposta in una società data la cultura dominante, insisten-
do in particolare sul ruolo dell‟istituzione scolastica nell‟imposizione ad un largo pubblico
delle pertinenze socialmente legittime» (ivi, p. 126). Quella del potere simbolico è solo una
delle dimensioni che Bourdieu e Passeron prendono in considerazione.
21 Ivi, p. 126.
22 Ibid.
L’immaginazione sociologica 123

Ancora, «Alla base quindi del modo in cui si conosce una realtà materiale
si trova sempre una prassi, vale a dire che non c‟è mai una conoscenza di tale
realtà che sia soltanto conoscenza. Siccome d‟altra parte ogni prassi implica
tanto la conoscenza della realtà su di cui essa si esercita quanto della realtà
per mezzo della quale essa si esercita, si giunge alla conclusione che cono-
scenza e prassi sono inseparabili»23.
Quante realtà ci sono? Ontologicamente dovrebbe essere la stessa se fos-
simo all‟interno di una ontologia unica. Tuttavia, la conoscenza di un fisico
non è la conoscenza di un sociologo, la conoscenza di un filosofo non è la cono-
scenza di un economista: sono dimensioni differenti, sono modalità di costru-
zione, di determinazione, di studio ed analisi dell‟oggetto differenti, che sfu-
mano le une nelle altre, che possono sfumare le une nelle altre. In questo
modo possiamo anche comprendere come per Prieto
Così dunque come abbiamo detto che ogni conoscenza della realtà materiale
presuppone una struttura semiotica e abbiamo definito le scienze dell‟uomo dal
fatto che il loro oggetto è sempre una conoscenza della realtà materiale, potrem-
mo anche dire, e ciò sarebbe esattamente lo stesso, che ogni prassi che si esercita
sulla realtà materiale presuppone una struttura semiotica e che le scienze del-
l‟uomo hanno per oggetto le diverse forme di prassi esercitate dall‟uomo sulla
realtà materiale24.

Ultimo passaggio
Errore dell‟oggettivismo, che omette di includere nella definizione completa del-
l‟oggetto la rappresentazione di questo oggetto, che ha dovuto distruggere per
raggiungere la sua definizione «oggettiva»; che dimentica di sottoporre ad un‟ul-
tima riduzione quella riduzione indispensabile per cogliere la verità oggettiva dei
fatti sociali, che sono oggetti il cui essere consiste anche nel loro essere percepiti22. 25

L‟oggettivismo non può che avere una definizione completa del proprio ogget-
to, quindi, non vi possono essere omissioni. La rappresentazione dell‟ogget-
to che nella sua lettura Bourdieu rileva come mancante è una tensione tra im-
maginazione e sensazione. Nel momento in cui sottolinea anche la mancanza di
una ulteriore riduzione, l‟autore francese usa egli stesso il linguaggio dell‟og-
gettivismo: non è una riduzione, non possiamo parlare di riduzione, è una co–
costruzione, dobbiamo usare il termine co–costruzione. Identificando la defini-
zione «oggettiva» come caratteristica della componente oggettivista della co-

23 Ivi, p. 129.
24 Ibid.
25 BOURDIEU (1979, p. 266).
124 Alfredo Givigliano

noscenza prassiologica, emerge il problema della «verità oggettiva» che non


è la verità di un mondo esterno all‟osservatore, completamente indipenden-
te da esso e sul quale non è possibile intervenire. La «verità oggettiva» è la
verità dell‟oggetto, osservabile per noi, empiricamente adeguato, che noi rendiamo
oggetto (nella nota al testo Bourdieu affronta, all‟interno di questa ottica, uno
degli elementi fondamentali del pensiero di E. Durkheim iscrivendolo come
esempio di questo errore dell‟oggettivismo26).

3. Immaginazione sociologica 2

Alla luce del percorso che abbiamo seguito possiamo tirare i vari fili del
discorso che abbiamo tessuto nell‟analisi e nella discussione della descrizione
di partenza di immaginazione sociologica di Mills, attraverso e per mezzo delle
costruzioni teoriche di van Fraassen, Blumer, Prieto e Bourdieu, per arrivare
ad una sua riformulazione nei termini dell‟approccio di sociologia processuale
che stiamo usando all‟interno di queste riflessioni.
L‟immaginazione sociologica è la modalità inferenziale che mettendo in rela-
zione tra loro metateoricamente la dimensione euristica, quella metodologica,
quella prassiologica permette di descrivere l‟intrecciarsi delle traiettorie sociali
che determinano lo spazio sociale come insieme di posizioni che altro non sono
che significati. All‟interno di questa modalità, emergono i significati sociali dal-
l‟interazione tra ciò che succede nel mondo della vita di tutti i giorni e ciò che
costruisce il sociologo. Il passaggio al limite di questo processo è dato dalla sen-
sazione, che partendo dalla e rientrando all‟interno della modalità inferenziale,
contribuisce a determinare una dimensione dell‟oggetto della sociologia.
Se la nostra attenzione si rivolgesse solo ed esclusivamente a ciò che suc-
cede nel mondo della vita di tutti i giorni cadremmo in quella che possiamo
descrivere come fallacia oggettivista. Mentre se prendessimo in considerazio-
ne, come nostro oggetto, solo ed esclusivamente ciò che costruisce il sociolo-
go cadremmo in quella che possiamo descrivere come fallacia fenomenologica.
Nel momento in cui descriviamo la modalità prassiologica descriviamo invece
la interazione–tensione tra ciò che succede nel mondo della vita di tutti i
giorni e ciò che sono i costrutti del sociologo.

26 «Il famoso precetto di Durkheim, „bisogna trattare i fatti sociali come cose‟, racchiu-

de in sé la propria negazione: si vede subito che sarebbe inutile enunciare con tanto fra-
casso un simile manifesto metodologico, se la percezione ordinaria, che è un fatto sociale,
e che contribuisce anch‟essa a costituire il fatto sociale, trattasse i fatti sociali come la
scienza pretende che vengano trattati», Ibid.
L’immaginazione sociologica 125

Da tutto questo consegue che possiamo descrivere l‟immagine come un


processo di costruzione attraverso il quale emergono significati: punto di par-
tenza per la descrizione di ciò che può essere identificato come sensazione.
Una forma dinamica dalla quale il contenuto prende le proprie determinazioni
nel momento in cui dispiega, lungo le dimensioni di questa forma, le pro-
prietà che lo costituiscono. Costruzione nello stesso tempo logica ed episte-
mologica: dinamica inferenziale che pone una tensione tra forma e contenuto.
Entrambi si codeterminano senza soluzione di continuità, sono nello stesso
tempo il punto di partenza e di arrivo del processo di conoscenza. Non si
parla di immagini mentali, ma di inferenze.
Mentre la sensazione è il risultato del processo di inferenza dato dall‟immagi-
ne attraverso cui noi conosciamo il mondo sociale nel quale viviamo. Non ne
siamo esterni, non lo possiamo vedere dal di fuori come se fosse un oggetto
della dimensione naturale della realtà. La realtà stessa nel suo complesso non è
altro che l‟insieme delle sensazioni che derivano inferenzialmente dal processo
dell‟immagine nel momento in cui focalizziamo lo sguardo verso una partico-
lare dimensione del nostro essere nel mondo.

4. Uno sguardo al passato


Il nostro passo successivo sarà quello di analizzare ricorsivamente la no-
stra analisi alla luce del pensiero di alcuni autori senza i quali le nostre consi-
derazioni sarebbero state differenti. Il discorso ruoterà attorno ai problemi
della relazione tra conoscenza oggettivista, conoscenza fenomenologica e co-
noscenza prassiologica; definizione della situazione; problema dell‟oggetto.
Abbiamo concluso il nostro percorso utilizzando un passaggio di Bour-
dieu nel quale (alla nota 22) viene chiamato in causa Durkheim. Il tutto può
essere visto partendo da
Il nostro metodo non ha dunque nulla di rivoluzionario; ed è anzi – in un certo
senso – essenzialmente conservatore, dal momento che considera i fatti sociali
come cose la cui natura, per quanto duttile e malleabile possa essere, non è tut-
tavia modificabile a piacere27.

Questa descrizione è ciò a cui si riferiva Bourdieu nel momento in cui pro-
blematizzava la posizione e l‟errore (secondo lui e noi) oggettivista. Posi-
zione oggettivista che determina ciò che dovrebbe essere la sociologia come
scienza forte, infatti Durkheim continua «Analogamente, dal momento che

27 DURKHEIM (1895 [1901], p. 6).


126 Alfredo Givigliano

si è abituati a rappresentarsi la vita sociale come lo sviluppo logico di concetti


ideali, si giudicherà forse grossolano un metodo che fa dipendere l‟evolu-
zione collettiva da condizioni oggettive, definite nello spazio; e non è impos-
sibile che qualcuno ci qualifichi come materialisti»28.
Molti dei termini utilizzati da Durkheim all‟interno di questo passaggio
(rappresentarsi, vita sociale come sviluppo logico, concetti ideali, metodo,
condizioni oggettive, spazio) ci fanno comprendere anche qual è il posto che
la sociologia dovrebbe occupare nei confronti delle altre scienze: deve essere
una scienza della natura, non può che essere una scienza della natura (onto-
logia unica).
Al contrario per noi lo spazio è spazio sociale. Dall‟altra parte, Bourdieu
nota anche che
Se, per sottrarsi all‟illusione soggettivista che riduce lo spazio sociale allo spazio
congiunturale delle interazioni, cioè ad una successione discontinua di situazioni
astratte, occorre costruire, come si è fatto, lo spazio sociale come spazio oggettivo,
struttura di rapporti oggettivi che determina la forma che possono assumere le intera-
zioni e l’immagine che possono farsene coloro che vi si trovano impegnati, resta però il
fatto che occorre superare questo oggettivismo provvisorio, il quale, per il fatto
stesso che tratta i fatti sociali come cose, finisce per reificare quello che descrive:
le posizioni sociali che si presentano all‟osservatore come posti giustapposti,
partes extra partes, in un ordine statico, ponendo la questione tutta teorica dei limiti
tra i diversi gruppi che le occupano, rappresentano inevitabilmente delle posizio-
ni strategiche, dei posti da difendere e da conquistare in un campo di lotte29.

L‟oggettivismo presenta determinazioni problematiche, ma anche punti di


forza. Il soggettivismo presenta costruzioni problematiche, ma anche punti
di forza. Se si determina una cornice logica di tipo classico-aristotelico pos-
siamo seguire l‟uno o l‟altro; il problema (o il punto di forza) è che l‟inferen-
za che abbiamo identificato come immaginazione sociologica non segue questa
modalità logica.
Secondo Bourdieu lo spazio sociale come spazio oggettivo, nel senso che
abbiamo specificato (non quello proprio dell‟oggettivismo esclusivo) in quan-
to struttura di rapporti oggettivi non solo ne determina la forma, ma anche l‟im-
magine di coloro che lo vivono. Possiamo introdurre, quindi, l’immagine lun-
go questa dimensione come processo inferenziale per quanto riguarda la com-
ponente del soggetto sociale.
Aspetto ulteriore è quello riguardante la definizione della situazione. Ab-

28 DURKHEIM (1895 [1901], p. 6).


29 BOURDIEU (1979, pp. 250-251).
L’immaginazione sociologica 127

biamo visto in precedenza tre diverse occorrenze del termine situazione, tre
differenti aspetti, modalità, dimensioni di ciò che possiamo identificare come
definizione della situazione, ognuna di esse caratteristica di un preciso approc-
cio sociologico che pone come proprio fondamento il soggetto sociale, le
strutture sociali, le relazioni sociali. Secondo Bourdieu, il problema per
quanto riguarda l‟interazionismo simbolico può essere descritto nei seguenti
termini nella nota 15 dove specifica cosa intende con «successione disconti-
nua di situazioni astratte»:
Il concetto di situazione, che sta al cuore dell‟errore interazionistica, consente di
ridurre all‟ordine puntuale, locale, labile (come negli incontri casuali tra scono-
sciuti) e, spesso, artificiale (come negli esperimenti di psicologia sociale), che si
realizza nelle interazioni, la struttura oggettiva e duratura dei rapporti tra le
posizioni ufficialmente costituite e garantite, organizzate da qualsiasi interazione
reale: gli individui in interazione riportano nelle interazioni più circostanziate tut-
te le loro proprietà, e la relativa posizione occupata nella struttura sociale (o in un
campo specialistico) decide della posizione nell‟interazione30.

Ancora una volta compare in questa descrizione il termine reale dove leg-
giamo osservabile per noi. L‟oggetto che viene qui descritto da Bourdieu come
situazione all‟interno dell‟approccio dell‟interazionismo simbolico è fonte di
errore, secondo lui (ma anche secondo noi in questi termini), in quanto non
è l‟identificazione di una traiettoria sociale, ma l‟identificazione di un insieme di
punti. Posizioni identificate e descritte come significati singoli, non come in-
siemi di significati, sono strutture strutturate, ma non strutturanti. La defini-
zione di pratica di Bourdieu è una struttura strutturata strutturante. Ecco l‟er-
rore interazionista espresso nei termini di Blumer
La capacità dell‟individuo di darsi indicazioni assegna un carattere specifico al-
l‟azione umana. Significa che l‟individuo per agire affronta un mondo da inter-
pretare invece che un ambiente con la cui organizzazione interagire. Deve rap-
portarsi alle situazioni nelle quali è chiamato ad agire accertando il significato
delle azioni degli altri e determinando la propria linea di comportamento alla
luce di quella interpretazione. Invece di reagire solo in risposta ai fattori che agi-
scono su o operano attraverso di lui, deve costruire e guidare la propria azione:
può essere un lavoro poco piacevole, ma deve farlo31.

Il perché risulta essere chiaro nel momento in cui Blumer rivolge la propria
attenzione sull‟interpretazione del mondo esterno: deve accertare, costruire
e guidare; non sulla co-costruzione, quindi, su insiemi vaghi di significati so-
30 BOURDIEU (1979, p. 251).
31 BLUMER(1969, p. 47).
128 Alfredo Givigliano

ciali che identificano le posizioni dei singoli soggetti sociali lungo le proprie
traiettorie sociali che (intersecandosi le une con le altre) determinano lo sfu-
mare dei significati all‟interno di ogni singola posizione, determinano lo (e
nello stesso tempo sono determinate dallo) spazio sociale. Se i termini della
lettura di Blumer fossero corretti (in maniera esclusiva e totale) ci troverem-
mo all‟interno di un approccio che esclude la modalità prassiologica.
Dopo aver analizzato l‟errore oggettivistico e l‟errore soggettivistico ve-
diamo la posizione proposta da Mills, posizione che fonda e sostiene la sua
descrizione di immaginazione sociologica
credo che quella che può essere chiamata analisi sociale classica sia un insieme di
tradizioni che si lascia definire ed impiegare; che la sua caratteristica essenziale
sia l‟interesse per le strutture sociali storiche; che i suoi problemi corrispondono
in modo diretto e importante a urgenti problemi pubblici e a persistenti difficol-
tà individuali. Credo anche che oggi seri ostacoli si oppongano alla continuazione
di questa tradizione – sia in seno alle scienze sociali sia nelle loro istituzioni ac-
cademiche e politiche –, ma che le qualità mentali che la formano stiano tuttavia
diventando un denominatore comune della nostra vita culturale generale e che si
cominci a sentirle come una necessità, per quanto vagamente e nonostante la
confusione creata dai loro travestimenti32.

Caratteristica essenziale è, quindi, l‟interesse per le strutture sociali storiche,


ecco perché la prima definizione della situazione che ritroviamo, che ritrove-
remo, è quella che riguarda l‟asse delle strutture sociali. Nello stesso tempo
l‟attenzione è rivolta alle qualità mentali, nella nostra descrizione, meccanismi
inferenziali. Infatti «L‟uomo del nostro tempo ha sovente la sensazione che la
sua vita privata sia tutta una serie di trabocchetti e che i suoi problemi, le sue
difficoltà, trascendano la ristretta cerchia in cui vive»33. Da questo Mills in-
troduce una possibilità compatibile con quella che abbiamo identificato come
definizione della situazione per il soggetto (in maniera analoga, quindi, a Blu-
mer) nel momento in cui afferma «Sensazione il più delle volte esatta: l‟espe-
rienza e l‟azione dell‟uomo ordinario sono circoscritte alla sua orbita perso-
nale; la sua visuale e i suoi poteri non oltrepassano i limiti dell‟impiego, della
famiglia, del vicinato; in ambienti diversi dal proprio si muove male, rimane
spettatore»34; sì da poter sostenere che «alla base di questa sensazione vi sono
i mutamenti di struttura delle grandi società continentali, i cui singoli uomini
sono immersi […] Non si può comprendere la vita dei singoli se non si com-

32 MILLS (1959, pp. 29-30).


33 Ivi, p. 13.
34 Ibid.
L’immaginazione sociologica 129

prende quella della società, e viceversa»35. Due considerazioni: la prima, se


poniamo come oggetto per la sociologia solo ed esclusivamente la struttura so-
ciale allora necessariamente questa descrizione è corretta, ma, all‟interno del
nostro approccio, oggetto della sociologia è l‟unità complessa SoggettoSocia-
le–StrutturaSociale–RelazioneSociale. Seconda considerazione, il problema del-
la definizione dell‟oggetto o delle sue dimensioni trova nell‟ultima parte del-
l‟affermazione di Mills una possibile apertura. Lo possiamo vedere anche nel
momento in cui apriamo un confronto con alcune proposizioni di G. Simmel:
Il concetto di società copre due significati che devono essere tenuti rigorosa-
mente distinti nella trattazione scientifica. Essa è da un lato il complesso degli in-
dividui associati, il materiale umano formato socialmente, che costituisce l‟intera
realtà storica. Ma d‟altro lato la «società» è anche la somma di quelle forme di
relazione, in virtù delle quali dagli individui sorge appunto la società nel primo
senso36.
I significati di cui parla Simmel sono significati sociali? Sono significati eu-
ristici? Chi determina, individua, costruisce questi significati? Le risposte a
queste domande possono essere date in maniera indipendente se si ha un ap-
proccio oggettivista, uno fenomenologico o un prassiologico (per utilizzare
le categorie proposte da Bourdieu). Contestualmente, all‟interno di questa
proposizione di Simmel compare il termine forma, termine del quale Mills
imputa un uso negativo ed una prassi negativa allo stesso Simmel. L‟accusa è
quella di una sociologia puramente formale, priva di contenuto, che non può
interessare il sociologo. Rigettiamo questa accusa sia per quanto Simmel scri-
ve, sia per quanto vedremo tra poco attraverso le parole di L. von Wiese.
Per quanto attiene a Simmel, forma e contenuto coesistono e si codeterminano
nel momento in cui afferma «la «società» è anche la somma di quelle forme
di relazione, in virtù delle quali dagli individui sorge appunto la società nel
primo senso»; modellizzazione37 che emerge anche nel momento in cui de-
scrive il concetto di sfera38. Sempre in questo autore troviamo un possibile
punto di partenza per la nostra declinazione di sociologia come sociologia pro-
cessuale nel momento in cui evidenzia il percorso di co-determinazione tra
forma e contenuto riprendendo le due descrizioni che ha dato di società:

35 Ibid.
36 SIMMEL (1908, p. 12).
37 Nel senso che abbiamo costruito nella prima parte di queste riflessioni.
38 «Così si definisce „sfera‟ sia una materia formata in un determinato modo, sia anche,

in senso matematico, la pura e semplice figura o forma in virtù della quale dalla semplice
materia sorge la sfera nel primo senso» (ivi, p. 13).
130 Alfredo Givigliano

Quando si parla di scienze della società in quel primo significato, il loro oggetto
è tutto ciò che accade nella e con la società; mentre la scienza della società nel
secondo senso ha per oggetto le forze, le relazioni e le forme mediante le quali
gli uomini si associano, e che costituiscono quindi, nella loro configurazione auto-
noma, la «società» sensu strictissimo – il che evidentemente non viene alterato dal
fatto che il contenuto dell‟associazione, le modificazioni specifiche del suo scopo
e interesse materiale decidono spesso o sempre della sua formazione specifica39.
È la tensione tra le due descrizioni, la prima che pone l‟accento sull‟associa-
zione di individui, la seconda sulla somma di forme di relazioni (approccio feno-
menologico ed approccio oggettivista), che permette l‟emergere, passo ulte-
riore rispetto a Simmel stesso, dell‟approccio prassiologico.
Riguardo all‟accusa mossa da Mills di esclusivo formalismo, attraverso le
riflessioni di von Wiese vediamo che non è una accusa nuova, ma un qual-
cosa che accompagna la cosiddetta sociologia relazionale40 fin dalla sua nascita
Credo che tutti coloro che sono disposti a giudicare senza prevenzioni, tro-
veranno in questo libro di fatto, e non soltanto con una enunciazione program-
matica, la prova che certe affermazioni messe in circolazione sulla dottrina rela-
zionale sono false: in primo luogo, l‟affermazione che, come sistema di socio-
logia generale, essa sarebbe incompleta e puramente «formale», che rappresen-
terebbe non una scienza della realtà, bensì una scienza logica, e, in terzo luogo,
che rimarrebbe estranea alla realtà41.
Leggiamo, quindi, la posizione di von Wiese alla luce del fatto che una teoria
formale non è necessariamente incompleta, in base a ciò che la scienza ri-
tiene essere il comportamento di una teoria formale questa non può essere
incompleta; la teoria relazionale è incompleta oppure è una teoria formale,
cadere sotto entrambi i rispetti è una contraddizione. Questa descrizione è
corretta in base a ciò che la scienza ritiene essere il comportamento di una
teoria formale, ma se assumiamo che questa sia una teoria logica, allora vale
il Primo Teorema di incompletezza di Gödel del 1931 e si aprono scenari
nuovi che portano alla nostra sociologia processuale. Queste stesse critiche si
concludono con un rimando alla realtà. Se la realtà fosse unica, potremmo
anche trovare spunti di riflessione e confronto, ma nel momento in cui ve-
diamo che l‟ontologia del reale è una ontologia complessa che si declina su
ed in dimensioni ontologiche specifiche per ogni singolo campo disciplinare,
l‟accusa di rimanere fuori dalla realtà si determina come una accusa mossa da
una posizione fortemente oggettivista.

39 SIMMEL (1908, pp. 13-14).


40 Da qui, dalla sua semplice identificazione, si comprende anche il come ed il perché
si possa assumerla come uno dei punti di partenza di una sociologia processuale.
41 WIESE VON (1933, p. 124).
L’immaginazione sociologica 131

Von Wiese ci è d‟aiuto, anche su altri due versanti. In primo luogo quello
della posizione del campo della sociologia rispetto ai campi delle scienze na-
turali ed a quelli delle scienze che questo autore (all‟interno di una tradizione
di pensiero consolidata) definisce come scienze spirituali, una posizione che
non è di inclusione all‟interno di uno dei due insiemi, ma di differenza e di-
stinzione rispetto ad entrambi. In questo modo si risolve anche la tensione
tra capire e spiegare che ci ha spinto, nella analisi della dimensione metodo-
logica della descrizione di immaginazione sociologica, a proporre questa posi-
zione. In secondo luogo emerge la descrizione di questa terza modalità della
scienza, la sociologia, come una scienza di processi che si concretizzano (ma
nello stesso tempo ne sono la ragione) nella sfera sociale42. Sfera sociale che è
il luogo stesso delle relazioni sociali
Quindi alla domanda «che cos‟è una relazione sociale?» si può rispondere: essa è
uno stato labile, cagionato da un processo sociale o (più spesso) da più processi
sociali, in cui gli uomini sono reciprocamente collegati o separati. Per dirla in
modo breve (e perciò in modo facilmente equivocabile), una relazione sociale è
una determinata distanza fra essi43.
Anche questo, risulta essere un buon punto di partenza per una caratteriz-
zazione processuale dei concetti di relazione e sociale all‟interno di una
cornice logica che non sia vincolata ai tre principi della logica classico-aristo-
telica. Ulteriore spunto a conferma di questo lo troviamo nel momento in
cui von Wiese definisce relazione sociale come uno stato labile, in modo tale da
permetterci di introdurre all‟interno del nostro approccio e del nostro di-
scorso ancora una volta la modellizzazione di Lorenz.
Ritornando a Mills, estremamente interessanti risultano essere alcune sue
affermazioni, nel momento in cui sostiene
Raramente consapevole degli intricati rapporti fra il suo modo di vita e il corso
della storia universale, l‟uomo ordinario ignora, di solito, come questi rapporti
incidano sul tipo d‟umanità che va formandosi, sugli eventi storici che maturano
e ai quali dovrà forse partecipare. Non possiede la qualità mentale indispensabile
per afferrare l‟interdipendenza fra uomo e società, biografia e storia, individuo e
mondo. Non sa affrontare i suoi problemi personali in modo tale da giungere a
controllare le trasformazioni strutturali che generalmente sono alla loro base44.

All‟interno di questo passaggio possiamo, infatti, ritrovare sia elementi utili

42 «la dottrina delle relazioni e delle formazioni non presenta la sociologia, ripeto, né

come scienza naturale né come scienza spirituale, ma come una terza scienza, appunto
come scienza sociale, che intende la sfera sociale interamente come una catena di processi,
non come una sostanza» (ivi, p. 147).
43 Ivi, p. 276.
44 MILLS (1959, pp. 13-14).
132 Alfredo Givigliano

per una analisi in termini di e sulla processualità del sociale, sia una possibile de-
scrizione della tensione SoggettiSociali–StruttureSociali–RelazioniSociali, anche
se, ancora una volta, con un forte accento sul ruolo e la funzione delle strut-
ture sociali. Inoltre, nel momento in cui leggiamo meccanismi inferenziali nel
termine capacità mentali, ci ritroviamo all‟interno della ridescrizione del con-
cetto di immaginazione sociologica di Mills. Nello specifico
L‟uomo ha bisogno, e sente di aver bisogno, di una qualità della mente che lo aiuti
a servirsi dell‟informazione e a sviluppare la ragione fino ad arrivare ad una luci-
da sintesi di quel che accade e può accadere nel mondo e in lui. È appunto tale
qualità che giornalisti e studiosi, artisti e uomini pubblici, scienziati ed editori fi-
niranno col chiedere a quella che chiameremo la «immaginazione sociologica».
Ed è ciò che voglio dimostrare45.
Due punti da analizzare, il primo: Mills usa l‟espressione «nel mondo e in
lui», ma l‟oggetto della sociologia è l‟unità complessa SoggettiSociali–Strut-
tureSociali–RelazioniSociali, quindi, il «mondo» e «lui» non sono due oggetti se-
parati. Fanno parte dell‟unità complessa, meglio non ne sono staccabili e non
sono staccabili tra loro. Il secondo: «giornalisti e studiosi, artisti e uomini
pubblici, scienziati ed editori», se le categorie di questi soggetti sociali fossero
le stesse allora l‟immaginazione sociologica sarebbe esattamente quella che
descrive Mills. Il problema è che queste sono dimensioni ontologiche differen-
ti46, sono modalità di conoscenza di realtà materiali differenti, sono prassi dif-
ferenti. Sono questi i motivi e le ragioni che ci spingono a problematizzare la
descrizione di immaginazione sociologica di Mills dalle quale siamo partiti.

5. Conclusione
L‟intero percorso proposto da Mills e le problematiche che abbiamo ana-
lizzato le possiamo ritrovare nella descrizione
Imparerai i vari metodi d‟integrazione dei dati non appena inizierai il passo suc-
cessivo della tua istruzione mentat. L‟integrazione è una funzione–gestalt che si
sovrapporrà al puro e semplice accoglimento dei dati nella tua coscienza e ti con-
sentirà di districare e ricombinare il più grande numero di informazioni etero-
genee, servendoti delle varie tecniche mentat del catalogo/indice di cui ti sei già
impadronito. Il tuo problema, all‟inizio, sarà costituito dalla difficoltà di padro-
neggiare la tendenza dispersiva che nasce da tanti piccoli particolari in apparenza
privi di relazione, su argomenti specifici. Stai in guardia. Senza le tecniche men-
tat d‟integrazione tu potrai sprofondare senza rimedio nel problema di Babele,

45 MILLS (1959, p. 15).


46 Per come abbiamo delineato la dimensionalità ontologica.
L’immaginazione sociologica 133

l‟etichetta con cui noi indichiamo il pericolo sempre presente di ottenere combi-
nazioni sbagliate partendo da informazioni corrette47.

In modo tale per cui «Sai» riprese Idaho,


Un mentat impara a considerare ogni essere umano come un insieme di rela-
zioni48.

Il problema è che un mentat è solo un computer, un sociologo deve identifi-


care le relazioni dell‟ultima proposizione all‟interno, in funzione e ragione
della tensione complessa SoggettiSociali–StruttureSociali–RelazioniSociali: l‟unità
complessa oggetto della sociologia, in termini processuali.

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47 HERBERT (1976, p. 222).


48 Ivi, p. 109.
134 Alfredo Givigliano

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MARCO MAZZEO

Contro l’universale: immaginare il comune

a Ponyo,
che nella
nostra immaginazione
parla, gioca e cammina.

1. L’eredità di Platone: due modelli immaginativi

Una tradizione consolidata diffida dell’immaginazione. Già nel Teeteto


Platone propone un’equazione, immaginativo uguale sofistico, che è tutta
un programma (PALUMBO, 1999). Chi fa appello all’immaginazione si ri-
volge a una rappresentazione inaccessibile del mondo poiché «immagina-
zione e sensazione [...] sono la stessa cosa» (Teeteto, 152c) e si impegna in
una disgregazione del concetto di verità condivisa poiché propone di sop-
piatto un relativismo solipsitico (ognuno è chiuso nel proprio mondo di
immagini private) e autoritario (poiché un criterio di scelta è necessario, il
mondo che prevale è quello del più forte).
Duemilacinquecento anni dopo, il quadro non appare così mutato. Un
filosofo attento alle varietà delle pratiche linguistiche e delle forme di vita
come Ludwig Wittgenstein verso l’immaginazione ha ancora parole di con-
danna. Il motivo ricorda quello platonico: immaginare (in tedesco, il sich
vorstellen) mostra una parentela troppo stretta con le Vorstellungen, cioè con
le rappresentazioni individuali (il torpore che in questo momento atta-
naglia il mio polso destro o il ricordo visivo del volto di mio padre, l’ac-
cezione personale della parola della lingua italiana “abete”). L’immagina-
zione incarna lo spettro del linguaggio privato1. In entrambi i casi la dif-
fidenza per l’immaginazione si accompagna alla difficoltà nel gestire il cam-
biamento delle forme di vita, il divenire storico della nostra esistenza: per
Platone si tratta di forme di decadenza; per Wittgenstein costituiscono un
punto cieco da dissimulare per mezzo di qualche concessione sporadica e

1 Non a caso, anche uno dei maestri di Wittgenstein, il logico tedesco Gottlob Frege è

tormentato da una vera e propria ossessione per le Vorstellungen: come esorcismo (contro
le immagini individuali e contro le denotazioni singole), Frege ricorre al noto «terzo re-
gno» dall’intenso sapore platonico.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 135-148 135


136 Marco Mazzeo

lapidaria2 (si pensi al § 256 di Della Certezza, dal carattere talmente laconico
da risultare liquidatorio: «d’altra parte, il gioco linguistico cambia nel tempo»).
Un modo di reagire a questa idea è concepire l’immaginazione come una
facoltà universale, una capacità che appartiene a tutti gli individui di una spe-
cie, ad esempio quella dei sapiens. Questa mossa ha il vantaggio di salvare
l’immaginazione dal relativismo: è un’arma che tutti gli individui possiedono,
per questa ragione è uno strumento non solitario. Ognuno di noi nasce con
in mano un cannocchiale chiamato immaginazione. Tutti ne hanno lo stesso
modello e dunque non può essere strumento di isolamento e separazione.
Questa opzione teorica, che negli ultimi decenni è stata incarnata con
una certa vivacità dalle cosiddette scienze cognitive, è nobile negli intenti
ma vive di una difficoltà di ordine, potremmo dire, reattivo. Si oppone a
un’idea sbagliata (l’immaginazione come fuga solipstica) per mezzo di un’af-
fermazione opposta e simmetrica:
a) modello platonico: l’immaginazione è una pratica individuale, dunque è
anti-universale.
b) modello anti-platonico (cognitivo): l’immaginazione non è una pratica indi-
viduale, dunque è universale.
Tre tesi riassumono quel che vorrei sostenere, in modo provvisorio e
sperimentale, in questo saggio:
1. La prima affermazione del modello antiplatonico (ad esempio cognitivo)
è corretta e condivisibile: immaginazione non vuol dire solipsismo, fuga dalla
realtà, esercizio sofistico delle capacità linguistiche e mentali umane.
2. La conseguenza che il modello antiplatonico ne trae è debole perché
mantiene un assunto fondamentale del modello avversario, l’idea che gli
individui siano entità sostanzialmente preformate.
3. È necessario cercare di comprendere quale sia il potere individuante del-
l’immaginazione, cioè in che modo contribuisca (nel bene e nel male) alla
delineazione di una singola esistenza. Si tratta non di una struttura univer-
sale ma di una facoltà comune.

2. Il lavoro dell’immaginazione

Per capire forza e debolezza dell’impostazione antiplatonica, è utile


procedere a un’azione di carotaggio, analizzarne un campione. Il libro del-

2 Per un approfondimento del rapporto tra Wittgenstein e l’immaginazione, rimando a

MAZZEO, 2007.
Contro l’universale: immaginare il comune 137

lo psicologo Paul Harris, The Work of the Immagination, può fare al caso nos-
tro. Il testo propone un attacco frontale a una concezione dell’immagina-
zione ritenuta troppo rigida. Sia Piaget che Freud avrebbero proposto un
ritratto di questa facoltà negativo, sostanzialmente autistico (in linea con il
Teeteto, insomma). Per entrambi, l’immaginazione allontanerebbe dalle re-
lazioni sociali, soddisferebbe desideri non realizzati, sospenderebbe l’ana-
lisi oggettiva della realtà. A prescindere da quanto la sua ricostruzione sto-
rica sia fedele, è interessante vedere cosa propone Harris per superarne le
storture. A suo giudizio (HARRIS, 2000, p. 269):
1. l’immaginazione appare in particolare sintonia con le relazioni sociali;
2. non è governata da desideri frustrati;
3. integra l’analisi della realtà nel bambino e nell’adulto.
A prima vista, si tratta di affermazioni condivisibili, quasi ovvie. La pa-
rentela tra gioco e immaginazione suggerisce, ad esempio, il carattere condi-
viso del “facciamo finta che” (io sono il gatto e tu il cane, io il principe e tu la
principessa), una serie di attività non necessariamente legate a desideri re-
pressi, quanto alla produzione di desideri nuovi e più articolati. Uno sguardo
più attento alla proposta rivela però crepe profonde. Tralasciamo il punto 2
(legato sopratutto alla polemica con Freud) e concentriamoci sui punti 1 e 3.
La prima tesi rischia di non essere perspicua. Cosa vuol dire che l’im-
maginazione è in particolare sintonia con i rapporti sociali? Probabilmente
Harris intende sostenere che l’immaginazione ha particolare importanza nel-
la socializzazione del bambino grazie ai giochi di ruolo e di finzione. A tal
proposito, egli cita una serie di studi particolarmente interessanti circa il
compagno immaginario che spesso anima le fantasie dei bambini. Si tratta di
un fenomeno diffusissimo: nei primi sette anni di vita, circa due bambini
americani su tre hanno un doppio del quale impersonare atteggiamenti, frasi
e azioni. Harris si affretta a dire che fenomeni del genere non indicano una
confusione tra realtà e immaginazione: i bambini saprebbero distinguere ciò
che immaginano da quello che può essere percepito dagli altri. Lo spettro del
sofista platonico aleggia inquietante. L’immaginazione, si ribadisce, non è ne-
gazione della realtà3: tanto il bambino che gioca con il suo doppio che l’adulto

3 Almeno in origine le ricerche sull’immaginazione di orientamento cognitivista hanno

molto insistito sul suo carattere percettivo, più vicino alla sensazione che al pensiero (si veda
ad es. FERRETTI, 1998). Il conflitto interno al testo di Harris risente forse proprio di questo
contrasto: per un verso il paradigma cui appartiene lo psicologo inglese insiste sulla comunan-
za delle vie neuropsicologiche tra percezione e immaginazione (il dato riemerge in HARRIS,
2000, pp. 112-113), per un altro si ribadisce la necessità teorica di individuare una netta se-
parazione tra le due aree epistemiche.
138 Marco Mazzeo

spaventato da un film dell’orrore reagiscono emotivamente a una situazione


pur riconoscendola, «senza ombra di dubbio» (ivi, p. 85), come non reale.
La rassicurazione lascia con l’amaro in bocca perché non sembra pren-
dere sul serio almeno due problemi. Il primo riguarda i bambini più piccoli:
a loro giudizio i compagni immaginari possono essere visti e toccati da chiun-
que. Il secondo riguarda gli adulti: se noi tutti quando vediamo un film sap-
piamo che è solo un’opera di finzione, come facciamo ad emozionarci tan-
to? Secondo lo psicologo inglese, la risposta sarebbe da ritrovare nei pro-
cessi di identificazione: poiché ci immedesimiamo nel protagonista, tendia-
mo a sentirne le paure o le gioie. Questa immedesimazione non è sempli-
cemente di superficie: alcuni esperimenti confermano che di fronte a scene
raccapriccianti (l’amputazione di un arto) anche le persone che sostengo-
no di aver osservato l’immagine con distacco mostrano livelli di attività fi-
siologica (la frequenza del battito cardiaco, ad esempio) simili a coloro i
quali riconoscono di esserne stati coinvolti. Se si sceglie di utilizzare stra-
tegie esplicite di estraneazione (ricordare a se stessi che si trattava solo di un
film), il risultato non cambia. Ne consegue (Harris lo riconosce, ma in nota)
che «non è facile controbilanciare la reazione di default, ossia la valutazione
cognitiva del filmato alla stregua di un evento reale» (ivi, nota 13, p. 113).
In questo modo però, cioè ricorrendo alla immedesimazione come op-
zione preimpostata del nostro sistema cognitivo ed emotivo, invece di ri-
solvere le due questioni se ne fa nascere una terza: che senso ha questa ca-
pacità spontanea di immedesimazione? Quale può essere il suo senso bio-
logico (ivi, p. 122)? La domanda è urgente perché, ricordiamolo, Harris
non può concedere che l’immaginazione non abbia un ruolo adattivo, di
sintonizzazione con l’ambiente e i conspecifici: a suo giudizio, fare questo
significherebbe farne uno strumento autistico, l’errore di Freud, Piaget e
del sofista platonico. Per uscire dall’impasse, Harris elabora una proposta che
vale la pena riportare per esteso (ivi, p. 132):
il coinvolgimento che proviamo verso le opere d’arte e quelle teatrali potreb-
be, quindi, essere, nel quadro dell’evoluzione, un piccolo “scotto” da pagare
per la nostra sensibilità emotiva nei confronti della testimonianza di chi ha vis-
suto un’esperienza in prima persona.

L’immaginazione sarebbe, in ultima analisi, il modo nel quale «acquisire


informazioni in modo indiretto» (ivi, p. 131), una capacità decisiva per una
specie come la nostra culturale e linguistica. La mossa ha un aspetto vaga-
mente ad hoc; soprattutto è controproducente. Se immaginare significa es-
Contro l’universale: immaginare il comune 139

sere creduloni, ciò vuol dire che l’immaginazione porta non solo a fidarsi
degli altri ma anche ad aderire a informazioni e resoconti non veritieri. Un
consigliere della regina di Spagna mi assicura che la terra è piatta ed evito
di precipitare dallo stretto di Gibilterra restandomene a casa mia a Genova.
Per rimanere nel capoluogo ligure: il capo della polizia afferma che nella
caserma di Bolzaneto non è successo nulla di strano e io gli credo. Se di de-
fault tendo a considerare vero quel che mi viene raccontato, a prescindere
da come stiano le cose, l’immaginazione ridiviene ineluttabilmente l’arma
prediletta del sofista che dice tutto e il suo contrario per mezzo di un lavo-
rio puramente persuasivo.
Comincia a emergere il carattere reattivo della proposta cognitiva: se
per la tradizione platonica immaginare significa allontanarsi dalla verità,
per Harris immaginare significa trasmetterla. Questo tratto reattivo emer-
ge ancora di più quando si considera lo statuto ontologico dell’immagina-
zione. Che valore hanno i variopinti frutti della facoltà immaginativa? Se-
condo Harris, costituiscono una «quasi realtà» (ivi, p. 86), una «nicchia»
(ivi, p. 236), un «mondo impossibile» (ivi, p. 231). L’immaginazione co-
struirebbe una realtà di riserva: quando il bambino non riesce a spiegarsi
quel che accade con i principi che regolano il comportamento dei corpi
materiali (causalità, inerzia, costanza, ecc.) ricorre alla fantasia. Per questa
ragione, l’immaginazione costituirebbe uno spazio della mente circoscritto
con regole specifiche, una stanza del cervello nella quale riporre tutte le
anomalie, le circostanze inspiegate e gli oggetti insoliti. L’immaginazione
darebbe luogo a una «realtà2», una serie di giocatori in panchina pronti a
entrare in campo. Per questa ragione, svolgerebbe sostanzialmente tre fun-
zioni: farci immergere in un mondo inventato, confrontarlo con quello
reale, esplorare l’impossibile e il magico (ibid.).
L’ipotesi difficilmente può rendere giustizia alla struttura dell’immagi-
nazione umana. Harris fonda le sue tesi, infatti, su due idee di fondo: per il
bambino e per l’adulto la distinzione tra reale e immaginativo è netta; la
struttura dei due mondi è simile per forma ma opposta per orientamento.
Entrambe le affermazioni sono però difficili da sostenere anche solo alla
luce dei dati empirici presi in considerazione dallo stesso Harris. Alcuni test han-
no cercato di verificare, ad esempio, in quali circostanze i bambini di 4 e 6
anni giudicano magico un fenomeno. Rispettivamente nel 60% e nel 75%
dei casi, i bambini considerano magici fenomeni che non seguono i vincoli
fisici: oggetti inanimati che appaiono dal nulla o che cambiano forma da so-
li (ivi, p. 241). Secondo l’autore questo dato confermerebbe l’ipotesi che
140 Marco Mazzeo

«è solamente quando un fenomeno misterioso viola i normali principi cau-


sali di cui sono a conoscenza che i bambini lo classificano come magico» (ivi,
p. 239). Tanto che Harris afferma poco prima: se si accende il televisore i
bambini non considerano questo fenomeno magico anche se non sanno co-
me è generata l’immagine sullo schermo.
Quelli proposti sembrano però dei controesempi alla teoria. Le percen-
tuali che riguardano i bambini di quattro anni sono clamorose. In quasi la
metà dei casi, il magico riguarda anche l’ordinario: ciò vuol dire che non
alleviamo organismi deliranti (la percentuale non è al 50%, quindi la di-
stinzione c’è), ma che la linea di confine tra immaginazione e realtà appare
particolarmente labile. Da questo punto di vista, il riferimento alla televi-
sione costituisce un autogol clamoroso. In una casa dell’occidente contem-
poraneo, il bambino solitamente incontra sin da subito apparecchi tv che
cominciano a mostrare le loro funzioni ben prima di quando egli sia in gra-
do di rendersene conto. È letteralmente un oggetto dell’arredo quotidia-
no, un fenomeno di fondo dell’esperienza. Perché il bambino dovrebbe
stupirsene? Al contrario, basta porre di fronte a un adulto di una popola-
zione a basso sviluppo tecnologico non un apparecchio sofisticato come la
televisione ma una semplice fotografia o una registrazione audio per creare
un effetto che facilmente viene reputato, per l’appunto, magico. Anche nel-
la civilissima Europa la comparsa dei primi apparecchi fotografici è stata
spesso giudicata a fine Ottocento come una forma magica di sdoppiamento
della presenza (KRAUSS, 1990, p. 10). L’immaginazione sembra tutto tran-
ne che una camera di compensazione a tenuta stagna.

3. Immaginazione e individuazione

Harris si carica sulle spalle un compito lodevole: mostrare che tra l’e-
sperienza immaginativa del bambino e dell’adulto esiste una forte continui-
tà. Il problema è la direzione lungo la quale individuare questa linea di pro-
secuzione. Secondo lo psicologo inglese, l’immaginazione infantile non è
bizzarra, confusa o autistica perché già organizzata, cioè già adulta. Come
abbiamo visto, sono i suoi stessi esempi a costringerlo a correggere il tiro e
a fargli affermare che tra realtà e immaginazione invece di una «barriera
impenetrabile» (ivi, p. 249) esiste un «confine parzialmente penetrabile»
(ibid.). Se la penetrabilità dei due spazi costituisce l’elemento di continuità
tra immaginazione infantile e adulta, il grado stretto di parentela che le
unisce non consiste nella loro organizzazione razionale quanto nella plasti-
Contro l’universale: immaginare il comune 141

cità rappresentativa tipica dell’infanzia. Harris ha ragione, c’è «un notevo-


le grado di continuità» tra i due stadi evolutivi dell’immaginazione (ivi, p.
113): non perché i bambini siano già dei piccoli adulti (una falsa rappre-
sentazione del mondo infantile che già Piaget condannava senza appello)
ma, al contrario, perché sono gli adulti umani a mantenere vive le poten-
zialità emotive, rappresentative e pratiche dell’immaginazione infantile. È
un nodo teorico che non deve essere considerato una nota a margine o un
elemento correttivo della teoria dell’immaginazione di Harris, ma il fulcro
sul quale far leva per proporre un rovesciamento di vedute.
Al riguardo, nel suo corso sull’immaginazione da poco pubblicato po-
stumo, il filosofo francese Gilbert Simondon è molto chiaro: la modalità
propria dell’immaginazione non è l’impossibile ma il possibile (SIMONDON,
1965-1966, p. 56). Ciò vuol dire che immaginare non significa accedere a
uno scantinato della mente ben distinto pieno di fenomeni implausibili,
quanto esperire le circostanze senza ancora aver segnato in modo preciso
alcuni fattori di distinzione. È vero: l’attività immaginativa, come del resto
quella onirica, è una attività non caotica, nella quale esistono immagini,
oggetti, eventi distinti gli uni dagli altri. Altrimenti, invece di immaginare,
vivremmo uno stato d’esperienza simile al rumore bianco del televisore
che perde il segnale. Ciò non vuol dire però che sia una dimensione del vi-
vere coerente e delineata in tutti i suoi contorni.
Quando un bambino gioca, ricorda Simondon, quel bambino non è sola-
mente un automobilista o un cavaliere ma «allo stesso tempo automobile e
cavallo» (ivi, p. 42). Proprio perché portatrice di possibili innovazioni, l’at-
tività immaginativa è un’esperienza contraddittoria che non segue «la logica del
terzo escluso» (ivi, p. 72) e dalla quale possono emergere nuovi contenuti.
Questo stato è definito da Simondon «metastabile», una stabilità relativa che
può produrre cambiamenti irreversibili e portare a nuove strutture a loro volta
trasformabili. Mentre uno stato in decadenza (si pensi al modello platonico) è
pura dispersione energetica e conduce il sistema al livello minimo di energia,
uno stato metastabile è una possibilità dissipativa non completa, simile a quel
che per un organismo è il processo di crescita e maturazione (ivi, p. 57).
Quella della maturazione è però un’analogia che va presa con cautela4.

4 In realtà, Simondon parla di maturazione solo come forma di «differenziazione e di

supplemento d’essere» (ivi, p. 57). Questo supplemento ha però un costo organico, l’in-
vecchiamento: è l’aspetto per il quale la visione organicistica dell’immaginazione di Simon-
don non funziona. Se per Harris l’immaginazione corrisponde a una quasi realtà, per Si-
mondon è un «quasi-organismo» (ivi, p. 9). In entrambi i casi, la definizione per appros-
simazione risulta fuorviante. Sembra piuttosto che l’immaginazione abbia l’effetto contra-
rio: una possibilità che dall’atto non riceve realizzazione e svuotamento, quanto un’ampli-
142 Marco Mazzeo

Mentre in una forma di vita il processo di maturazione corrisponde a un per-


corso di invecchiamento e specializzazione, l’esperienza immaginativa non
conosce un acme, un punto culminante dal quale poi inevitabilmente ri-
discendere verso il basso. L’immaginazione non costituisce una nicchia, ma
l’analogo di un ambiente continuamente in trasformazione (ivi, pp. 185-186).
Le immagini formano un termine medio tra l’animale umano e i suoi dintor-
ni: per un verso sembrano poter saturare quel che ci circonda, per un altro
questa saturazione ha un carattere eccessivo e sovrabbondante. Dell’ambien-
te l’immaginazione ha il volto pervasivo e totalizzante; a distinguerla è il suo
rappresentare un termine medio. Questa espressione non deve far pensare a
una entità definita di calcolo, come il fulcro di un sillogismo. Si tratta di un
termine non definitivo. Mentre per un organismo un ambiente è una realtà
pervasiva e ultima, l’immaginazione è pervasiva ma prima. Esalta un’area pri-
migenia dell’esperienza che, in quanto tale, è sfocata poiché precede distin-
zioni categoriali: è la radice comune di azione e percezione, rappresentazio-
ne e ricordo, schema corporeo e facoltà del linguaggio. Per questo motivo, si
tratta di una facoltà decisiva per i processi di individuazione: è il luogo della
possibile distinzione (e dunque anche della possibile indistinzione) tra sé e gli
altri, sogno e veglia, percezioni e immagini.
L’unico modo per costruire una teoria dell’immaginazione non reattiva,
né platonica né antiplatonica, è provare a non considerarla una struttura uni-
versale (scatola appartenente a tutti gli organismi e contente accadimenti im-
possibili), ma una facoltà comune. L’immaginazione riguarda tutti i mem-
bri della specie, ma la sua particolarità, cioè il suo essere immaginazione
umana, è che riguarda ognuno di noi in quanto esseri non ancora individuati.
È una facoltà infantile non perché costituisca una sfera che si presume sia
inaccessibile perché innocente e pura (questo è solo un mitologema, inte-
ressante e oggi molto diffuso, che porta il nome di infantilismo) ma perché
è lo sfondo sul quale lavorano tutti i fattori dell’individuazione umana (din-
torni ambientali, processi produttivi, rito, tecnica e cosi via).
È una facoltà che parte da una forma di indistinzione «noicentrica», il
contrario dell’autismo. La visione noicentrica, è bene ribadirlo, non è cer-
to altruista: non è benevola sintonizzazione col gruppo, semplicemente per-
ché gli altri (cioè quel gruppo di individui che mi sono intorno quando
nasco) ancora non sono distinguibili.

ficazione estensiva (in questo senso l’immagine di Simondon del surplus di essere coglie
qualcosa di decisivo). Di questo aspetto qui non parlerò. Ringrazio Luca Parisoli e Daniele
Gambarara per i loro commenti e indicazioni su un punto per me ancora poco chiaro.
Contro l’universale: immaginare il comune 143

L’immaginazione non è appello alla vita interiore, né accordo automa-


tico: non è l’arma che porta alla guerra civile dell’«ognuno per sé e Dio
contro tutti» (per citare la frase di chiusura del Kaspar Hauser di Werner
Herzog), ma neanche lo strumento di armonia tra le genti. L’immaginazio-
ne non è senso interno (il privato o l’idiosincratico), né senso esterno (ma-
teriale di riserva per la spiegazione della realtà). È piuttosto il movimento
che dall’indistinzione tra esterno e interno porta alla loro articolazione. Se
questa idea è corretta, l’immaginazione umana pone due problemi di fondo.
Il primo è di ordine genetico e politico poiché coincide con la questione
della distinzione, del rapporto e della focalizzazione di ogni singolo essere
umano. Il secondo è epistemico: la distinzione tra stati immaginativi e stati
di realtà è precaria e labile. Prima di concludere, vorrei cercare di appro-
fondire almeno questo secondo aspetto della questione.

4. Apparizione, sfarzo e inganno: l’immaginazione comune

A tal proposito può essere d’aiuto analizzare il significato originario del


termine con il quale aveva a che fare Platone e impiegato dalla tradizione
greca. Alla lettera phantasìa significa «mostra, vista, spettacolo, fasto, splen-
dore, ostentazione, immaginazione, fantasia, apparenza, l’esterno, facoltà
immaginativa» (ROCCI, 1943, p. 1941). L’accezione filosofica che insiste
sul carattere rappresentativo della facoltà è preceduta da un’accezione me-
no specialistica che sottolinea il carattere clamoroso dell’immaginazione.
La phantasia è presenza che desta clamore, che suscita inquieta attenzio-
ne. Il verbo corrispondente, phantazo, significa innanzitutto «mostrare, in-
dicare». Come ribadisce a più riprese il Teeteto l’immaginativo è legato al
verbo phaino, è qualcosa che appare. L’apparizione può prendere la piega
del fasto esibizionista (del pavoneggiarsi, altro significato di phantazo, di
qualcosa che esiste e che viene sottolineato fino alla esasperazione) ma an-
che della parvenza e dell’inganno, dell’illusione e dell’opinione personale.
Mentre questa seconda linea semantica è presa spesso in carico dal sostan-
tivo phantasma (visione, spettro, immagine), la phantasia si giova soprattut-
to della prima. I due termini non sembrano simmetrici: mentre phantasma
è un punto terminale, un capolinea semantico, phantasia è sostantivo il cui
destino è ancora aperto tanto che può declinarsi in un verbo specifico e fo-
sco, phantasiazo (inganno, illudo).
Una ricerca più approfondita potrebbe mostrare, sono in grado di formu-
lare questa idea solo come ipotesi di lavoro, che la nozione greca di phantasia
144 Marco Mazzeo

è molto utile per comprendere le fattezze dell’immaginazione umana perché


ne mette in luce un aspetto decisivo, una caratteristica epistemica di fondo,
forse la stessa che rendeva così suscettibile Platone. La phantasia è definibile
come un’apparizione sub iudice (Aristofane impiega il verbo phantazo al pas-
sivo col significato di «esser denunciato», ibid.) il cui status, veritiero o illuso-
rio, rimane da stabilire almeno per un certo lasso di tempo5. Questo lasso di
tempo indeterminato, che può durare una notte (come quando si è immersi
nel sonno) o una vita (nel caso di un ideale improvvisamente tradito), è par-
ticolarmente significativo perché incarna il carattere comune dell’immagina-
zione. Costituisce la finestra cronologica entro la quale può avvenire il pro-
cesso di individuazione. È apparizione di un fenomeno in una zona primige-
nia che ha la caratteristica di essere contemporaneamente vivace per intensità
e incerta per statuto. È vivace perché è un’esperienza e non un semplice
pensiero: quando immagino di essere ai Caraibi, comincio ad assaporare la
sensazione del sale sulla pelle, del vento fresco sul volto e dell’azzurro del
mare. È incerta perché il grado di realtà dell’attività immaginativa è tutto da
scoprire. Immagino un’anatra mentre manipolo la creta ed ecco che questa
appare tra le mie mani al lavoro. Immagino mio padre che non c’è più e la
figura resta sfocata, imprecisa, tendenzialmente assente. Tra i due estremi,
l’immagine–invenzione e l’immagine–ricordo, esiste una serie infinita di
gradi intermedi il cui status di volta in volta va stabilito.
Per constatare la presenza di questi temi nella concezione greca del-
l’immaginazione, può essere utile analizzare non il testo platonico, ma uno
dei luoghi classici nel quale vengono discusse le sue proprietà. Come è no-
to, nel terzo paragrafo del libro gamma del De anima, Aristotele tratta del
rapporto tra immaginazione, pensiero e sensazione. Si tratta di pagine ric-
chissime, non sempre chiare, della cui autenticità si è addirittura dubitato
(LAURENTI, 1983, p. 170, nota 26): è come se Aristotele fosse più tran-
quillo del suo maestro nella gestione teorica di questa nozione ma, con-
temporaneamente, stesse cercando di mettere insieme le tessere di un mo-
saico non ancora definito. Naturalmente mia intenzione non è fornire una
lettura esauriente del brano. Lo scopo è più modesto o comunque dif-
ferente: mostrare che nelle pieghe del testo, qualunque sia la corretta ese-
gesi della posizione di Aristotele, emergono almeno alcune caratteristiche

5 Un primo conforto che sia questa la direzione giusta per interpretare questo gruppo

concettuale arriva, ad esempio, da FERRARIS, 1996, pp. 7-8. La sfida è naturalmente ardua:
l’ideale sarebbe testare questa idea sui testi di Platone e Aristotele che impiegano il termi-
ne in modo difficile da decifrare (cf. ad es. ILLUMINATI, 1999; ROTONDARO, 1999).
Contro l’universale: immaginare il comune 145

dell’immaginazione convergenti con l’idea che si tratti di una facoltà co-


mune. L’obiettivo, se centrato, non proporrebbe un argomento che faccia
appello a un principio di autorità (poiché l’ha detto Aristotele, allora Pla-
tone ha torto) ma renderebbe più plausibile un’ipotesi di ordine antropo-
logico: nella Grecia classica, la phantasia ancora risente di uno statuto epi-
stemico incerto, considerato proprio, di solito, del cosiddetto pensiero pri-
mitivo e che invece incarna una delle caratteristiche distintive dell’immagi-
nazione umana6.
Vediamo allora, seppur in modo schematico, quali sono le caratteristi-
che dell’immaginazione secondo questo paragrafo del De anima. L’immagi-
nazione è «movimento» (De anima, III, 428b 10-11; ivi, 429a 1-2): a diffe-
renza della sensazione e del pensiero che sono statici (ivi, 434a 17-18), nel-
la phantasia non c’è distinzione netta tra potenza e atto (ivi, 428a 7). Se
dunque l’immaginazione può coincidere con la produzione di quel che oggi
chiameremmo «immagini mentali» (LO PIPARO, 2003, p. 23), il fulcro
strutturale dell’immaginazione è prossimo all’azione e di ordine motorio–
pulsionale. Per molti animali, infatti, immaginare è fondamentale per il lo-
ro agire pratico (De anima, III, 428b 6). La phantasia non è solo una forma
di rappresentazione sensoriale ma anche e soprattutto di intervento. Men-
tre la memoria è un movimento temporale verso il passato e l’intelletto
può agire in vista del futuro (ivi, 433b 8), quello immaginativo ha uno
stretto legame con la funzione locomotoria, con il movimento «secondo il
luogo» (ivi, 427a 18; ivi, 428b 11-12). Per questa ragione, si tratta di una
capacità volontaria: possiamo raffigurarci delle scene davanti agli occhi non
più presenti in modo simile a quel che accade quando si ricorda (ivi, 427b
18-20). Secondo Aristotele, è possibile definire l’immaginazione come «ciò
mediante cui diciamo che si produce in noi un’apparenza [phantasma]» (ivi,
428a 1-2). Si tratta di un «apparire» (ivi, 428b 1; 428a 14; 428a 17) dallo
status ambiguo. Quel che appare, infatti, è qualcosa di autoconsistente ma
non indipendente dalla realtà perché occorre ancora dire quale sia la sua a-
rea di appartenenza: in questo paragrafo del De anima, Aristotele non ha
ancora distinto tra immaginazione linguistica e sensoriale, ma il linguaggio

6 Tanto per esser chiari: questo non vuol dire che con il tempo la cultura occidentale si

sia allontanata dalla “vera natura dell’immaginazione”. Il problema della labilità di distin-
zione tra immaginativo e reale è sempre presente sulla scena della vita umana e ogni perio-
do storico (o assetto culturale) cerca di elaborare una risposta adeguata. Da questo punto
di vista, il pensiero magico si contraddistingue non per la propria ingenuità ma perché
mette in risalto i casi di indistinzione, il carattere comune dell’immaginazione, invece di
nasconderli sotto il tappeto.
146 Marco Mazzeo

è già attore principale. È qualcosa di cui «diciamo [legomen]» con quale tipo
di apparire abbiamo a che fare. Il phainomai della phantasia non consiste in
un puro e disambiguo apparire: in questo caso si tratterebbe di qualcosa di
sempre vero (nel caso concepissimo questa espressione come sola «appari-
zione» cioè come sinonimo di percezione) o sempre falso (come mera «il-
lusione»). Spesso, invece, quel che si immagina è falso. La fantasia è dispo-
sta al fantasmatico, è composta da phantasmata, immagini che tendono a di-
stanziarsi dalla realtà. Mentre però l’opinione (la doxa) segue una logica bi-
naria (è vera o falsa), il movimento immaginativo può essere contemporanea-
mente (ama: ivi, 428b 3) vero e falso. Quando ad esempio il sole mi appare
grande come un piede nel cielo resta tale anche se so che si tratta di un og-
getto di dimensioni differenti (ivi, 428b 3-5). Questo punto è particolar-
mente importante perché il libro gamma del De anima entra in cortocir-
cuito con un altro libro gamma, quello della Metafisica. C’è contraddizione
solo se allo stesso tempo (ama), ripete più volte Aristotele, si dà una cosa e
il suo opposto.
L’ambivalenza logica dell’immaginazione emerge ancora di più se si
prende in considerazione il rapporto con la percezione. Per un verso l’im-
maginazione è simile alla luce, l’etimo proverrebbe il legame (phaos = luce;
phantasia = immaginazione: ivi, 429a 3-4). Per un altro, l’immaginazione è
luogo dei sensibili comuni: dunque non di un solo senso (tanto meno della
vista) ma della matrice comune alle diverse modalità sensoriali. Come mai
questa oscillazione? In più di una circostanza Aristotele sembra prediligere
la vista («è il senso per eccellenza»: ivi, 429a 3-4) e questa predilezione
può aver influito sul carattere unilaterale degli esempi che propone («crea-
re immagini davanti agli occhi», ivi, 427b 18-19; «vedere cose temibili o
rassicuranti in un dipinto», ivi, 428a 23-24). Può esserci, però, una ragio-
ne teorica più profonda. È opportuno riportare per esteso un passo molto
noto ma sorprendente (ivi, 429a 3-4): «E poiché la vista è il senso per
eccellenza, l’immaginazione ha preso il nome dalla luce, giacché senza la
luce non è possibile vedere». Quel che sorprende non è la prima ma la se-
conda parte del passo. A guardar bene, infatti, l’immaginazione non è para-
gonata, come ci si potrebbe aspettare, al vedere (guardare immagini con
l’occhio della mente) ma alla luce. La phantasia non è considerata termine
analogo al mettere a fuoco figure tipico della vista, quanto invece a una con-
dizione di fondo, la presenza di illuminazione. L’immaginazione non è vista
ma luce, è ciò che rende visibile, quel che crea le condizioni dell’apparire.
Questa affermazione ribadisce il carattere di apparenza della phantasia, un
Contro l’universale: immaginare il comune 147

esser presente che sicuramente c’è ma il cui statuto va stabilito. Ho una im-
magine: è apparenza o realtà? Compio un’azione spinto da un movimento
immaginativo: è appropriata o meno?7
Il carattere di verità epistemica o di appropriatezza pratica dell’immagi-
nazione è un dato a posteriori; a priori c’è un movimento spaziale incerto
che consiste non nel porre qualcosa sulla scena (ciò presupporrebbe la di-
stinzione netta tra figura e sfondo) ma nel solo comparire di una scena, il cui
senso è tutto da gestire. Per questa ragione, l’immaginazione può essere
anche quel che copre (ivi, 429a 8), nasconde, oscura la mente rendendola
confusa (l’espressione è mé enargòs, «senza evidenza», un termine impiega-
to spesso per riferirsi alla chiarezza di visioni, dei e sogni: ROCCI, 1943, p.
626; De anima, III, 428a 15-16). L’apparizione di una scena non comporta
che questa sia ben definita, così come la presenza di una fonte luminosa
non assicura la distinguibilità dei contorni degli oggetti. Si pensi al caso nel
quale si guarda la luce di una lampadina o quando la luce filtra attraverso la
nebbia: a causa dell’abbagliamento o della scarsa trasparenza dell’aria ci
troviamo in condizioni percettive precarie segnate da un alto grado di con-
fusione. Come la luce può nascondere un oggetto, così l’immaginazione
può provocare un’apparizione che ottunde la mente.
Ciò spiega perché la phantasia sia legata ai sensibili comuni e non a quel-
li propri. I sensibili propri (cioè di proprietà, individuali, personali: idia)
sono certi, non esposti all’errore. La koiné aisthesis è incerta perché mette
in scena le dimensioni condivise tra i sensi (numero, estensione, grandezza,
per l’appunto il movimento, ecc.: cf. MAZZEO, 2009, pp. 170-171). Que-
sta condivisione è comune e incerta perché non consiste in precise aree di
sovrapposizione tra sensi già individuati ma nello sfondo originario dal qua-
le queste distinzioni possono emergere. Il carattere sensorialmente sfocato
dei sensibili comuni è brodo di coltura del carattere sfocato del movimento
immaginativo. Tale mancanza di focalità non riguarda, dunque, la vividezza
della rappresentazione, dello schema corporeo o del desiderio immaginati-
vo: concerne il suo tipo di realtà, la sua collocazione tra i fatti degli umani,
il grado della sua individuazione. È forse proprio questo a mettere in ansia
Platone: il carattere comune dell’immaginazione non solo può consentire
ai sofisti di pescare nel torbido ma anche di rimettere in discussione il ca-
rattere separato e universale delle idee facendole diventare un elemento
non più distinguibile, almeno a priori, dai fenomeni percettivi. Parados-

7 L’immaginazione, infatti, oltre a poter esser falsa può essere più o meno «retta» (ivi,

433a 28).
148 Marco Mazzeo

salmente, certezza epistemica e pace civile sono minacciati proprio dal suo
strumento privilegiato: immagini al limite, non ancora universali né indivi-
duali, in grado di suggerire passaggi di livello e nuove realtà.

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LUCA PARISOLI

Concetti universali senza rappresentazione

1. Delimitazione dell’oggetto: la logica paraconsistente al servizio dell’iper-realismo


in Duns Scoto

Platone presenta un grande problema, anche se non è il solo, nella sua


difesa della realtà delle Forme, quelle Idee contro cui Aristotele lancerà il
suo argomento del Terzo Uomo: nella sua produzione dialogica non scio-
glie l‟alternativa tra un rapporto mimetico – quindi rappresentazionale –
tra le Forme e gli oggetti individuali di cui si predicano oppure un rapporto
metetico – quindi partecipativo – tra le stesse e gli stessi oggetti. Come
Armstrong ha ripetuto nel XX secolo, solo contro il realismo platonizzante
rappresentazionale vale l‟argomento del Terzo Uomo, che perde persuasi-
vità se il realismo platonizzante sceglie come sua strada esclusiva la via par-
tecipativa. La Giustizia, anziché essere giusta, non è giusta: la Bianchezza
non è bianca. Con un problema: evitare che la strategia partecipativa violi
il principio di contraddizione (l‟universale verrebbe ad essere nell‟indivi-
duo e fuori dall‟individuo). Un filosofo medievale, Giovanni Duns Scoto,
sceglie la via più radicale per risolvere il problema: piuttosto di conciliare
l‟iper-realismo con la logica classica, rinuncia alla logica classica, produ-
cendo un sistema paraconsistente. In particolare, sotto la validità universa-
le della logica classica, la questione della partecipazione dell‟universale al-
l‟individuale mi parrebbe in Scoto aporetica oppure non-persuasiva oppure
pickwickiana (meramente verbale). A partire dalle mie analisi nel volume
La contraddizione vera (Roma, 2005), voglio qui proporre una tavola gene-
rale della strategia scotista letta alla luce di questa pur ardita ipotesi sto-
riografica1, per la quale esiste una logica universale – paraconsistente – in
cui si danno contraddizioni a volte vere, a volte false, e come sottoinsieme
si dà la logica classica, in cui tutte le contraddizioni sono false. La logica pa-
raconsistente declassa il principio di contraddizione a legge di contrad-

1 Ringrazio Daniele Gambarara per avermi invitato a due riprese nel 2008 e nel 2009 al-
l‟interno dei „seminari del mercoledì‟ ad esporre l‟approccio scotista, con una particolare at-
tenzione nel secondo intervento al problema degli universali reali e non-rappresentazionali. Il
testo è frutto del rimaneggiamento del lavoro complessivo: un frutto che ho colto grazie a chi
cura il mio viridiarum secretum, ad Antonella, Francesco–Flavio, Rita.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 149-173 149


150 Luca Parisoli

dizione a validità locale, non già universale: la delimitazione del sottoin-


sieme in cui tale legge vale può farsi solo per ragioni ontologiche, quindi la
logica paraconsistente rifiuta la svolta linguistica del XX secolo, e pone un
legame strettissimo e biunivoco tra linguaggio e mondo (il meta–linguag-
gio è un puro concetto metodologico).

1.1. Premesse sullo strumento paraconsistente

Si dicono paraconsistenti i sistemi logici che non assumono come tau-


tologia la negazione di una qualunque contraddizione, e si dicono para-
completi i sistemi logici che non assumono come tautologia la formula
aa (o si dà a, oppure si dà la sua negazione). Mi pare che proprio le ra-
gioni metafisiche (ontologiche e epistemologiche) possano spingere in que-
sta direzione. Nella riflessione di Duns Scoto, vi sono anche ragioni per
una scelta paracompleta, in particolare nella riflessione morale: l‟analisi del
linguaggio e della fenomenologia morali lo inducono a escludere che la
doppia negazione equivalga all‟affermazione (chi non è mio nemico non
per questo è mio amico), a formulare quindi una semantica che distingue
tra due sensi di negazione, a negare insomma in certi domini il principio di
bivalenza. Gli esponenti della concezione intuizionistica della matematica
(detta anche costruttivismo) negavano che la doppia negazione affermasse,
e questo li conduceva a escludere la dimostrazione per assurdo dall‟insieme
delle dimostrazioni valide (dibattito sui fondamenti dell‟aritmetica dell‟ini-
zio XX secolo). Tuttavia, essi accettavano la formulazione classica del prin-
cipio di contraddizione e di bivalenza: restavano fedeli ad una concezione
monista della negazione. Invece, nella storia della logica indiana si ritrova-
no due concetti di negazione, non già alternativi, bensì contemporanea-
mente presenti e validi nel discorso logico: anche questo conduce a negare
che la doppia negazione affermi, dato che occorre prima saper di quale fra i
due tipi di negazione si tratti.
Anche nell‟analisi dei futuri contingenti Scoto esclude l‟applicabilità del
principio di bivalenza, e la ragione fondamentale è morale, dato che la per-
sona umana è agente produttore di contingenza, quindi capace di atti su-
scettibili di semantizzazione morale. Quindi, due opzioni in assoluto capaci
di essere indipendenti, la paraconsistenza e la paracompletezza, si unificano
nel pensiero di Scoto e producono quella che si definisce una logica non-
aletica (si prenda questo nome convenzionale come una metafora efficace
del fatto che la verità degli uomini non è la Verità di Dio, dato che gli uo-
Concetti universali senza rappresentazione 151

mini possono illudersi che il nostro mondo attuale sia la totalità del reale, e
che sebbene Dio mostri cose nascoste dall‟origine dei tempi gli uomini
continuano a non vederle).
Ma in Scoto si delinea anche una logica rilevante, ossia un sistema che
rifiuta la nozione di implicazione logica classica, schematizzata nelle tavole
di verità di Wittgenstein: si deve sottolineare che la stessa distinzione tra
inferenza (legata alle tavole di verità) e di implicazione materiale (non for-
malizzabile con le tavole di verità, quindi con un legame semantico tra pre-
messa e conseguenza) è rifiutata in una prospettiva che rifiuta la separa-
zione rigida tra linguaggio e mondo, come è quella scotista. Linguaggio
formale e linguaggio naturale obbediscono – devono obbedire – alle stesse
regole di deduzione, di inferenza, di implicazione (i nominalisti logici del
XX secolo affermano il contrario). La validità dell‟implicazione logica non
dipende solo dal valore di verità della premessa e della conseguenza.

1.1.1. L’argomento principe scotista per la logica rilevante

Si tratta dell‟argomento assai discusso tra i logici formali „Dio esiste,


quindi questo argomento non è valido‟ (una versione laica sarebbe „4 è di-
visibile per 2, quindi questo argomento non è valido‟): ovviamente, la
mossa standard per ignorarlo è non tanto sottolinearne l‟auto–referenzialità,
quanto catalogarlo tra le stranezze, anzi le mostruosità. Dato che ci siamo
proposti di fornire argomenti in positivo in favore di una scelta paracon-
sistente, di cui la logica rilevante – verso cui ci spinge questo argomento –
è un mattone essenziale, non prenderemo in esame tali sedicenti confu-
tazioni. Si deve notare che sebbene questo argomento sia contenuto in un
testo non attribuibile direttamente a Scoto – per ragioni di critica esterna,
resta il fatto che si deve trattare di un discepolo di Scoto, che ne sviluppa
l‟attitudine paraconsistente. L‟autore de In librum primum analyticorum è
sconosciuto, ed è detto tradizionalmente lo Pseudo-Scoto – ma io lo dirò
lo Scotista, il passaggio è alla q. 10 «Utrum in omni bona consequentia ex
opposito consequentis inferatur oppositum antecedentis» (ed. Vivès, II,
103s), n. 3 (=104), una questione altrimenti famosa per contenere il prin-
cipio ex falso sequitur quodlibet (e vedremo le ragioni per cui io non vi leggo
quello che la tradizione classicista vi legge).
La premessa è necessariamente vera (l‟esistenza di Dio è uno speciale
fatto di esperienza per un metafisico cristiano, il fatto che 4 sia divisibile
per 2 è uno speciale fatto di costituzione della realtà per il matematico), la
152 Luca Parisoli

conclusione è necessariamente vera (se fosse falsa, sarebbe vero che l‟argo-
mento è valido e si dedurrebbe il falso – la conclusione recita che l‟argo-
mento non è valido – dal vero tramite un argomento valido – per ipotesi;
ma questa nozione di validità è pickwickiana, il che dimostra che la con-
clusione è vera – resta che l‟unico significato della conclusione è la sua
non-validità), ed infine l‟argomento non è valido sebbene dal vero si passi
al vero. Priest e Routley hanno formalizzato secondo i criteri contempo-
ranei questo argomento2; soprattutto hanno rifiutato le strategie dirette ad
analizzarlo come una antinomia «mostruosa». È quindi fondamentale la
loro considerazione secondo cui «Scotus‟ argument must be taken serious-
ly», non già messo da parte come un eccentrico controesempio da catalo-
gare come «mostruosità».
Ne risulta che un argomento è valido sse la sua premessa  è incompati-
bile con la negazione della sua conclusione  (secondo l‟idea stoica di Cri-
sippo) e la compatibilità non è la possibilità di 3, bensì di () – n.
6, «impossibile est, antecedente et consequente simul formatis, quod antece-
dens sit verum, et consequens falsum, excepto uno caso scilicet ubi significa-
tum consequentis repugnat significationi notae consequentiae sicut coniun-
ctionis quae denotat consequentiam esse» – n. 12, «ad oppositum contradi-
ctorium consequentis sequitur (i.e., diviene premessa) oppositum contradi-
ctorium antecedentis (i.e., diviene conclusione)». Per lo Scotista la defini-
zione di implicazione valida rinvia al fatto che dalla premessa vera non segue
mai una conseguenza falsa, con due precisazioni capitali, ossia che devono es-
sere simul formatis, e che il significato della conseguenza non deve ripugnare
alla significazione della congiunzione che denota la realtà della conseguenza
stessa. Come si vede, quello che è passato come il principio ex falso sequitur
quodlibet non è enunciato veramente in questo passo, anzi qui si enuncia una
vera e propria logica rilevante: difatti, non mi pare che simul formatis possa
essere un mero omaggio al lessico aristotelico, mi pare che esso instauri una
relazione di rilevanza tra la premessa e la conseguenza, tale che la validità di
un argomento non può essere ridotta al fatto che la premessa sia vera e la
conseguenza pure, senza riguardo al contenuto di entrambe.
Lo Scotista argomenta, per meglio persuadere della sua proposta, con-

2 G. PRIEST, R. ROUTLEY, «Lessons from Pseudo Scotus», Philosophical Studies 42 (1982),


pp. 189-199. Si veda pure M. BENSON, “Pseudo-Scotus on the soundness of consequentiae”, in
A.T. TYMIENIECKA (ed.), Contributions to logic and methodology in honor of J.M. Bochenski, Am-
sterdam, North-Holland Publishing Company, 1965, pp. 132-141.
3 Questo varrebbe se e solo se vi fosse solo un segno di negazione, quella classica: nei si-
stemi paraconsistenti questa condizione è negata per ragioni filosofiche.
Concetti universali senza rappresentazione 153

tro una prima nozione di validità (l‟impossibilità che  sia vera,  sia falsa e
 sia valida, e questa corrisponde veramente al principio ex falso sequitur
quodlibet) e una seconda nozione di validità (impossibilità che il significato
della premessa e della conseguenza non possano essere insieme, senza rife-
rimento all‟esistenza – mondi possibili, quindi, e non riferimento diretto al
mondo attuale). Si noti, per meglio comprendere la successiva confuta-
zione proposta, che in un sistema rilevante paraconsistente  può essere
falsa (i.e., negata) in almeno due modi, secondo la negazione debole (che
non genera necessariamente contraddizione falsa) e secondo la negazione
forte (che genera necessariamente contraddizione falsa, ossia la Super–Con-
traddizione). Se  è negata in maniera debole, essa è tale da poter produrre
una contraddizione vera, quindi l‟inferenza resta valida. Quanto al secondo
punto, si noti che tale nozione annulla ontologicamente la specificità del
mondo attuale, che è quello di contenere solo oggetti esistenti: l‟ontologia
scotista riconosce al mondo attuale uno statuto privilegiato (sebbene non
un primato assoluto per ogni oggetti che contiene, altrimenti l‟ontologia
dei mondi possibili non avrebbe senso realista4), quindi non può accettare
una nozione di inferenza logica che prescinda da tale struttura ontologica.
Contro la prima nozione, lo Scotista oppone che il seguente argomento
è valido: ogni proposizione è affermativa, allora nessuna proposizione è ne-
gativa. Si noti che la fondatezza prima facie di questo argomento è che se
tutte le proposizioni hanno una forma lessicale affermativa (da non con-
fondere ovviamente con la verità, proprietà semantica), allora nessuna pro-
posizione dovrebbe avere forma lessicale negativa (se per qualunque A, A è
B, allora non si dà un A che sia non–B). Ora, si può dare il caso che la pre-
messa sia vera, tuttavia la conclusione non può mai essere vera (dato che
essa stessa è negativa, in quanto la sua formulazione è appunto negativa) –
infatti, la conclusione è vera se e solo se la conclusione „esiste‟, ossia se
essa denota un esistente possibile, che sarebbe una proposizione negativa
reale. Si noti che questa risposta di Scoto richiede l‟adesione ad una logica
realista, altrimenti non risulta persuasiva nella prospettiva di una ontologia
misera associata al discorso logico.
Contro la seconda nozione, si oppone che il seguente argomento è
prima facie valido per la definizione in esame, ma in realtà non lo è affatto –

4 Per un rifiuto del realismo modale, senza per questo considerare inutile la teoria del-
l‟argomentazione relativa ai mondi possibili, rinvio a N. RESCHER, Imagining Irreality. A Study
of Unreal Possibilities, Chicago–La Salle, Open Court, 2003, cap. 4, in cui si esclude che si dia-
no oggetti genuini nei mondi possibili.
154 Luca Parisoli

nessuna chimera (i.e., nessun cerchio quadrato) è un hircocervus (i.e., un


pezzo di legno quadrato dalla linea rotonda), quindi un uomo è una scim-
mia. I significati delle due proposizioni possono stare insieme – si tratta
della differenza di due cose irreali associata all‟identità eventuale di due
esistenti, ma la premessa è vera (non si dà istanziazione del concetto di
chimera che la possa falsificare), mentre la conclusione è falsa (non solo
nell‟esperienza, ma già nell‟uso linguistico – e nella struttura delle forma-
litates che lo informano – l‟uomo non è una scimmia). Si afferma così una
prospettiva di logica rilevante nel discorso scotiano.

1.2. Ancora premesse sullo strumento paraconsistente

Richard Routley ha strenuamente difeso la logica rilevante nel nostro


secolo, e l‟ha associata alla costruzione della logica paraconsistente: egli ha
stigmatizzato la truth–copulation fallacy, un altro caso in cui il classicista vor-
rebbe farci credere nell‟insensatezza (dato che la premessa è vera e la cons-
eguenza pure, l‟inferenza è valida); ha messo in luce la circolarità della
presunta virtù dell‟implicazione logica di non permettere di passare valida-
mente da una proposizione vera ad una falsa; ha sottolineato come il con-
cetto di negazione della logica classica sia non solo riduttivo, negando la
duplicità prima facie di questo concetto, ma pure secondario e contro-
intuitivo rispetto alla negazione rilevante, tanto da produrre una nozione
distorta di implicazione logica. La negazione classica non rispetta le qualità
del linguaggio naturale. In effetti, a parte le costrizioni normative delle
grammatiche scolastiche, basta leggere della letteratura di vario tipo o con-
versare su ogni registro linguistico per rendersi conto che le tavole di ve-
rità logiche disegnano un concetto di negazione che non è quello del di-
scorso umano corrente.
Routley indica poi nel connessionismo (l‟idea secondo cui A non può
mai implicare la sua negazione) una lettura boeziana di Aristotele che ha se-
parato tragicamente la logica classica dai fatti del linguaggio naturale: anche
qui la formazione del dogma classicista implicherebbe un impoverimento
della ricchezza dialettica di Aristotele. Se può essere persuasivo dire che se
A, allora non è vero che non–A, il connessionismo pretende anche che se A
e C, allora non è vero che non–A. Ma se io sono buono, non è vero che sia
cattivo, anche se la realtà non è mai così dicotomica (e spesso le persone
sono buone e cattive): tuttavia, se io sono buono (A) e qualcuno ha ucciso
mio figlio, non sembra proprio assurdo concludere che lo spirito di ven-
Concetti universali senza rappresentazione 155

detta mi rende non–buono (non–A). Rinunciando ad una prospettiva ridu-


zionistica, il connessionismo mi pare ovviamente falso.
La concezione non–classica della negazione (la negazione di A non è sot-
trazione o cancellazione effettuata su A), il non–connessionismo e la rile-
vanza dell‟inferenza logica mostrano un‟unità razionale che sfocia sulla pa-
raconsistenza. Una razionalità che mi sembra preferibile all‟attribuzione di
una razionalità classicista a Scoto per poi attribuirgli anche aporie, ambigui-
tà, oscurità, incomprensioni di quella stessa fede cattolica che vorrebbe
spiegare minuziosamente con la sua impresa filosofica. E che richiama con-
quiste della scienza contemporanea, difficilmente assimilabili nel contesto
classicista: la fisica quantistica, che ben più che probabilistica, descrive gli
stati di cose come veri–e–falsi, secondo il famoso esempio del gatto di
Schröndiger, che in un certo istante spazio–temporale non è già forse vivo,
forse morto al 50 per cento, bensì mezzo vivo e mezzo morto in senso
paraconsistente, essendo una delle due con un valore non scioglibile per
cui è vero–e–falso che è vivo ed è vero–e–falso che è morto, ossia essere vi-
vo o morto è una unica proprietà disgiuntiva5.

1.3. Concezione dualistica della negazione

La natura duale della negazione è essenziale per argomentare il rifiuto


della logica classica: la doppia negazione non sempre afferma, e dico sem-
pre perché la negazione della validità di «non–non–A implica A» produce la
cosiddetta logica intuizionistica, che resta però una logica non-paraconsi-
stente, che determina piuttosto il rifiuto della validità dell'argomentazione
per assurdo. In una prospettiva più larga, anche nella logica paraconsistente
la doppia negazione non afferma, ma questo poiché vi sono due operatori
di negazione che si possono combinare in modo omogeneo oppure no.
Ammettere due negazioni come operatori primitivi differenti significa am-
mettere più di due valori di verità; significa la falsità del principio ex falso
sequitur quodlibet a meno che non si usi solo la negazione assoluta – il pre-

5 Non è il caso qui di addentrarsi nella filosofia della fisica, in cui comunque l‟interpre-
tazione paraconsistente resta controversa (si pensi alla soluzione ad hoc delle variabili nascoste
che una volta conosciute ci farebbero confezionare di nuovo un quadro conforme alla logica
classica): mi limito a rinviare a J.M. JAUCH, Sulla realtà dei quanti. Un dialogo galileano, Milano,
Adelphi, 1980 (ed. ingl. 1973). Ma per un‟analisi più specialistica rinvio a J. BAGGOT, Beyond
Measure: Modern Physics, Philosophy, and the Meaning of Quantum Theory, Oxford, OUP, 2004, e a
R. OMNÈS, Comprendre la mécanique quantique, Paris, EDP Sciences, 2000, e ad un protagonista
della ricerca J.S. BELL, Speakable and Unspeakable in Quantum Mechanics, Cambridge, CUP, 2004.
156 Luca Parisoli

dicato negato non si dà e non si dà neppure alcun oggetto. La negazione


assoluta produce la Super–Contraddizione, l‟unica ad essere sempre falsa,
come la logica classica attribuisce invece a tutte le contraddizioni in forza
di una tavola di verità a due valori6: quelle contraddizioni formate da una
negazione non–assoluta possono per un paraconsistente essere a volte vere,
a volte false, dipende dal contenuto semantico delle proposizioni in gioco.
Mi scuso se certi dettagli tecnici potranno apparire ovvi ad alcuni, e pe-
danti ad altri, ma il fraintendimento che appare rispetto ad una storia della
filosofia che si vuole nutrire di logica formale mi spinge ad essere più pe-
dante di quanto vorrei, quanto meno per mettere in chiaro su quale punto
diverge una lettura non–classica da una lettura classica della logica formale.
La tabella di verità della negazione classica è ovvia e ragionevole: Se A è
vero, ~A è falso; Se A è falso, ~A è vero. La tesi si caratterizza sostenendo che
esiste un solo operatore di negazione, come del resto appare che in genere nel-
le lingue umane, almeno come segno lessicale, esiste un solo operatore di nega-
zione per ogni rispettiva lingua. La tesi si basa anche sull‟idea che i valori di
verità sono solo due, ossia il Vero e il Falso. A partire da queste due tesi filo-
sofiche, che poggiano su una certa visione ontologica del mondo, si deduce
facilmente che la contraddizione, definita come la formula sintattica A~A,
sarà sempre la congiunzione di una proposizione falsa e di una proposizione
vera: per una definizione abbastanza ovvia di congiunzione, una congiunzio-
ne è falsa quando almeno uno dei suoi termini è falso, quindi l‟interpreta-
zione semantica della contraddizione sarà sempre il Falso. L‟approccio para-
consistente dovrà quindi rifiutare la tesi che esiste un solo operatore di nega-
zione, e combinarla con la tesi per cui esistono almeno tre valori di verità
(un rifiuto non combinato delle due tesi porterebbe a logiche non–classiche,
ma non–paraconsistenti, dato che non farebbe saltare il principio di contrad-
dizione). Vediamo una prospettiva paraconsistente semplice, dato che la stes-
sa logica formale medievale non era simbolica, ma svolta nella trama del lin-
guaggio naturale.

6 Mi pare un‟analisi degna di nota del PDC in Aristotele quella fornita dall‟amico e collega
MARCO MAZZEO, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Roma, Quodlibet, 2009,
pp. 15-45: appoggiandosi su una classica letteratura secondaria, Mazzeo, che poi proporrà una
ontologia paraconsistente del mondo, mette in luce che Aristotele usa una versione rigida del
PDC contro i suoi avversari filosofici, ma lui stesso prospetta l‟esistenza di autori che ricono-
scessero che solo alcune proposizioni contraddittorie sono false, altre no, e contro di essi non di-
ce nessuna parola conclusiva. Non ne emerge un Aristotele paraconsistente (gli manca almeno,
direi io, una concezione ontologica lussureggiante), ma un Aristotele che in quanto logico for-
male è proto–paraconsistente nel senso di non negare la possibilità di una logica paraconsistente,
quindi molto più liberale dei classicisti che lo seguirono e lo seguono con fede cieca.
Concetti universali senza rappresentazione 157

Resta la negazione classica, che varrà in certi ambiti ontologici, ma non


in qualunque ambito ontologico: Se A è vero, ~A è falso; Se A è falso, ~A è
vero. Ad essa si affianca un‟altra negazione, diciamola , che varrà in certi
ambiti ontologici, ma non in qualunque ambito ontologico: Se A è vero, A
è ; Se A è falso, A è  (dove  è il terzo valore di verità, che per essere
interpretato in una chiave paraconsistente potremmo definire come il Ve-
ro–e–Falso, unico valore di verità, oppure potrebbe essere definito come
un grado degli infiniti valori di verità tra il Vero e il Falso, in una logica
gradualista della verità, oppure in un senso formale contemporaneo una lo-
gica fuzzy con ontologia paraconsistente).
In questa nuova prospettiva, che combina la negazione della natura dua-
le dei valori di verità e la natura monistica dell‟operatore di negazione, vi
saranno contraddizioni A~A sempre false, assieme a contraddizioni AA a
volte vere, a volte false, secondo l'interpretazione ontologica associata. È
chiaro che occorre una serie di buone ragioni ontologiche e metafisiche per
accettare questa nuova struttura formale, ma è altrettanto chiaro che que-
sta struttura formale si propone come un‟alternativa alla logica classica: la
logica buddhista, quella di Lorenzo Peña, e tante altre si propongono su
questa falsariga.

2. Il problema degli universali: iper-realismo e rifiuto del Terzo Uomo

Propongo di chiamare iper–realismo quel realismo che argomenta con-


tro il Terzo Uomo aristotelico, mentre chiamo realismo moderato quello
che accetta la persuasività del Terzo Uomo senza ridurre gli universali ad
essere dipendenti dalla mente umana. Platone, Proclo, sant‟Anselmo, Gio-
vanni Duns Scoto sono iper–realisti; i dialoghi platonici del Parmenide e Sofi-
sta, il commento al Parmenide di Proclo, l‟ontologia anselmiana che è rias-
sunta in passi emblematici del Monologion mi paiono anche paraconsistenti
nel loro iper-realismo, in cui gli universali sono oggetti reali.
Scoto argomenta contro il regresso all‟infinito che si instaurerebbe tra
la relazionex e il suo fondamento richiedendo successivamente una nuova
(sempre nuova) relazionen. Sarebbe il Terzo Uomo manipolato da Aristo-
tele contro Platone, o meglio una versione di esso. In una prima tappa
(Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 262, ex n. 21; Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 242),
Scoto argomenta su un campo di variabili oggettuali che includono le res,
ossia nel caso indifferentemente degli oggetti o delle relazioni:
158 Luca Parisoli

I) se a non può esistere senza b, allora o 1) b è naturalmente precedente


ad a, oppure 2) a è naturalmente simultaneo a b, o ancora 3) b e a sono
realmente identici (Scoto usa qui „identico‟ nel senso che a si riduce com-
pletamente a b sotto gli aspetti della realtà, ma resta che a ha una modalità
ontologica negata a b in quanto a esiste, tanto che la definizione formalitas
rispettiva dei due a e b mantiene un differenza formale – Scoto esclude
esplicitamente che vi sia identità formale – che è strettamente ontologica –
oppure identità adeguata, che è perfetta sinonimia);
II) ma se b è una relazione, e b inerisce in a, allora 1) e 2) non sono pos-
sibili (l‟inerenza richiede una posteriorità naturale (ossia concettuale nell‟or-
dine degli agenti inanimati), che non è però necessariamente una dipendenza);
III) se b inerisce in a, ed a non può esistere senza b, allora b è identico ad
a („essere pietra‟ si identifica nel nostro mondo – e in altri mondi possibili
– con l‟„essere creatura‟, ma non nel senso che tutte le creature sono iden-
tiche – tuttavia, la creaturalità non implica l‟essere–pietra).
La nozione di posteriorità concettuale ci introduce alle formalità, senza
le quali l‟argomento precedente è incomprensibile – in particolare, l‟iden-
tità non si comporta nello stesso considerando il fatto reale oppure il fatto
formale: le cose e le formalità sono separabili mentalmente, ma solo le co-
se sono separabili nella realtà spazio-temporale. Le formalitates introducono
la paraconsistenza nella strategia scotiana, affermare che si dà una non-
identità formale o una distinzione formale equivale ad affermare che si dà
una contraddizione vera. La nozione formale di una relazione implica quel-
la di un fondamento, mentre la nozione formale di una fondazione non im-
plica la nozione di un fondamento. Scoto afferma in molti luoghi che si può
dare identità reale e insieme non–identità formale: è il nerbo della sua di-
mostrazione della possibilità razionale della Trinità, percorre tutta la sua
opera ogni volta che si tratta di rimuovere una presunta contraddizione
fatale nell‟interpretazione classicista, che grazie alla formalitas diviene una
contraddizione vera. Per quanto riguarda le relazioni, Scoto pone la dif-
ferenza tra l‟identità reale e la non–identità formale in Ordinatio, I, d. 33-34,
q. unica, 1-3, ex n. 1 – «proprietas personalis non est eadem formaliter
cum essentia», rispetto alla quale pone una precisione fondamentale sin da
Ordinatio, I, d. 2, pars 2, q. 1-4, 405-406, ex n. 44: parlando dell‟identità
formale, non è immediatamente equivalente affermare la non–identità ri-
spetto alla distinzione, tanto che insiste di preferire parlare nella sfera divi-
na di non–identità formale piuttosto che di distinzione formale. Si potrebbe
dire meglio il rifiuto della logica classica, in un discorso in cui la rappresen-
Concetti universali senza rappresentazione 159

tazione pare non giocare ruolo alcuno? La sola alternativa a questo rifiuto
mi pare interpretare Scoto nel senso di una verbosa e relativamente sterile
parafrasi del mistero della Trinità, tanto più sterile se paragonata alla ric-
chezza retorica dei Padri della Chiesa. Ma questa alternativa mi pare del
tutto insoddisfacente e „avaramente misera‟.
La relazione reale, infatti, è tale se sussiste tra due correlati senza l‟inter-
vento ricognitivo dell‟intelletto. Scoto esemplifica con la relazione di simili-
tudine tra due cose bianche (Ordinatio, I, d. 30, q. 1-2, 69, ex n. 19), che so-
no simili solo perché questo bianco qui è bianco e quel bianco là è bianco,
oppure con la relazione di maggiore/minore che si instaura tra l‟ordinale
due (binarius) e l‟ordinale tre (ternarius), che sono così correlati in quanto due
è due e tre è tre. L‟atteggiamento anti–riduzionistico è qui radicale, ed è la
chiave di volta del rifiuto scotiano di una ontologia misera: le cose sono quel-
lo che sono, non già un‟altra cosa, e le formalitates sono il necessario scheletro
ontologico di questa visione (qui, la Forma della bianchezza).
Se ne ricava che una creatura è identica alla sua relazione con Dio (ma
non assolutamente, altrimenti non vi sarebbero cose assolute), che può es-
sere considerata un attributo specifico (aristotelico), non identificabile al
soggetto, ma neppure separabile (assolutamente simultanee, sono però for-
malmente distinte: la fondazione eccede la relazione in perfezione, la rela-
zione eccede la fondazione nella sua predicabilità [di tutte le creature]).
Nel mondo vi sono cose e formalità–realtà: la creatura è realmente identica
alla sua relazione con Dio, ma formalmente ne è distinta. Su questo punto,
si può vedere la definizione dell‟inclusione formale contenuta in Ordinatio,
I, d. 8, p. 1, q. 4, 193, ex n. 18: x e y sono formalmente non–identici o
distinti se 1) x e y sono – o sono inclusi in – una res; e 2) se possono essere
definiti, la definizione di x non include quella di y e viceversa; oppure non
possono essere definiti, allora se lo fossero, la definizione di x non inclu-
derebbe quella di y e viceversa. La ratio formalis dell‟oggetto precede sem-
pre l‟atto con cui l‟oggetto passa dalla quiete al movimento: questo per di-
re che la relazione formale è altro dall‟oggetto e dalla sua attività (Quae-
stiones Metaphysicorum V, q. 11, 85-90, ex n. 12-13). Si osservi, prima di
passare al momento successivo della difesa di Scoto contro il regresso al-
l‟infinito, che le sue formalità richiamano almeno in parte la strategia reali-
stica di Roderick Chisholm7.
Il tutto si concretizza nella seconda tappa dell‟argomento in sospeso
(Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 269, ex n. 24 – anche in Quodlibet, q. 3, n. 15-

7 R.M. CHISHOLM, A Realistic Theory of Categories, Cambridge, CUP, 1996.


160 Luca Parisoli

16: se un fondamento può esistere senza la relazione che si fonda su di esso,


la relazione è identica a quella di inerenza, ma realmente distinta dal suo
fondamento; una proprietà assoluta può essere realmente distinta sia dalla
sostanza, sia dalla relazione di inerenza – come nel caso della transustanzia-
zione (Opus oxoniense, IV, d. 12, q. 1, n. 5 e q. 2, n. 18), in cui l‟inerenza è
potenziale. Ma per le proprietà relative, non vale lo stesso discorso: la pro-
prietà accidentale della similitudine non è distinta dalla similitudine. La
realtà di una relazione dipende dall‟esistenza di due correlati realmente di-
stinti e da una base reale della relazione stessa):
I) non è possibile senza contraddizione che R esista senza il suo fondamento F;
II) se R e F esistono, allora una relazione di alterità R´ verso F esiste per R (R´ ine-
risce a R come suo fondamento – è formalmente posteriore);
III) in tale modo non è possibile senza contraddizione che R esista senza R´.
IV) R e R´ sono identiche.

Il Terzo Uomo è rimosso: rifiutata la premessa dell‟auto–predicazione (la


forma trascendentale che rende conto del fatto che un individuo possiede
una certa proprietà deve possedere a sua volta quella proprietà), il regres-
so all‟infinito sparisce. Nulla obbliga, anzi si deve escludere, che la bianchez-
za sia bianca.
Scoto propone sin dalle sue primissime opere una versione sintetica del-
l‟argomento anti–Terzo Uomo che voglio qui commentare. La riprendo dal-
le Quaestiones super libros Metaphysicorum, V, q. 11, cod. K, 328, come em-
blematica dell‟agenda filosofica scotiana. Ogni volta che Scoto parla di iden-
tità, si deve comprendere identità reale, come del resto scrive esplicita-
mente in altre riprese dello stesso argomento, per esempio nella Lectura, II,
d. 1, q. 4-5, n. 241: si tratta di dimostrare che la relazione (la proprietà bi-
naria) non può essere sempre ridotta agli oggetti di cui si predica.
«Si prendano due oggetti, e siano π e , tali che tra loro vi sia identità
reciproca» – nella coppia π e  tra i quali si dà una relazione di identità, vi
sarà un oggetto di cui si predica l‟identità, ossia „π è identico a‟, e un og-
getto correlato rispetto al quale il primo è identico, ossia  tale che „π è
8 «Accipiantur prima fundamenta, scilicet Socrates et Plato, inter quae est identitas mu-
tua, et dicatur illa in Socrate a et in Platone b; identitas autem a et b sit c, et identitas b ad a sit
d. Dico quod a differt a Socrate, quia Socrates potest esse sine illa (quia potest esse sine ter-
mino illius), quamvis a sine suo termino non possit esse. Dico ultra quod a non differt a c, im-
mo c est idem ipsi a, quia a non potest esse absque c (cum sint simul natura); et per conse-
quens est contradictio a esse sine c et nisi fundamentum c et terminus eius sint. Sed funda-
mento c et terminus eius exsistentibus, necessario erit c – ergo contradictio est a esse sine c;
et cum c insit formaliter a, quia a dicitur idem ipsa eadem identitate quae est c, ergo c est idem
ipsi a, et per consequens ibi erat status» (in appendice a Opera philosophica, Saint Bonaventure
NY, 1997, III, 695).
Concetti universali senza rappresentazione 161

identico a ‟, inteso che a sua volta  è un oggetto di cui si predica l‟iden-
tità rispetto al suo oggetto correlato π.
«Questa identità sia detta a in π e b in : si dica poi c l‟identità tra a e b,
mentre l‟identità tra b ed a si dica d. L‟identità a differisce da π, dato che
l‟oggetto π può essere senza quel rapporto d‟identità (dato che può essere
senza alcun altro oggetto identico), mentre a non può essere senza π». –
dato che è l‟identità inerente a (proprietà di) π e soprattutto – «dico poi
che a non differisce da c». – ossia il Terzo Uomo è inoperante, non si dà re-
gresso all‟infinito e moltiplicazione degli enti.
«c è proprio identico ad a, poiché a non può essere senza c, in quanto
sono connaturali». – ossia, se si può parlare di una relazione di identità a, si
può anche parlare della sua simmetrica b, e si può anche parlare della rela-
zione tra le due che abbiamo detto c, ossia dalla ricognizione dell‟oggetto a
segue analiticamente pure la ricognizione di b e c. Scoto nella Lectura, II, d. 1,
q. 4-5 lo esplicita nel contesto di un‟argomentazione meno sintetica dicendo
che «relatio non potest non esse nisi propter non–esse fundamenti vel termi-
ni» (n. 243); non si tratta di un rapporto causale, bensì di una simultaneità
ontologica – «relatio non consequitur in quantum requirit aliud, sed simul
oriuntur ex fundamentis» (n. 249), come due raggi del sole sono connaturali
senza dipendere l‟uno dall‟altro e con una comune sorgente. Prosegue l‟ar-
gomento delle Quaestiones super libros Metaphysicorum,
ne segue che è contraddittorio che 1) a sia senza c e 2) c e il suo oggetto cor-
relato non siano. Ma se l‟oggetto di cui si predica c e il suo correlato esistono,
allora c è necessario, ovvero è contraddittorio che a sia e c non sia. Dato che c
inerisce formalmente in a.
Ecco che fa capolino la relazione formale, caposaldo del realismo scotista
come bene comprese Ockham che contro di essa si accanì per approdare al
suo nominalismo logico, e che Platone non seppe opporre ad Aristotele
(per banali ragioni cronologiche o forse non solo). L‟inerenza formale è
legata all‟incompossibilità che la proprietà inerente sia senza l‟oggetto cui
inerisce (lessico della Lectura, n. 241), idea che evoca certo una concezione
della modalità legata alla teoria dei mondi possibili, ma più semplicemente
il fatto che un‟autovettura può essere verde o rossa (proprietà non inerente
formalmente) ma senza motore cessa di essere una autovettura, oppure più
teologicamente che una creatura non può essere senza il suo creatore,
quindi la relazione di creazione inerisce formalmente nella creatura. In as-
senza di una inerenza formale, non vi è necessariamente identità reale (in-
fatti, il tutto non può essere senza la sua parte, ma il tutto non è identico
162 Luca Parisoli

alla sua parte), ma se c‟è inerenza formale (che in un linguaggio non–sco-


tista potrebbe pure dirsi «proprietà essenziale») c‟è pure identità reale, os-
sia dipendenza ontologica «quaecumque realitas non dependet ab alia reali-
tate, potest esse aliam non exsistente» (n. 242).
«Poiché a si dice identico grazie alla proprietà di identità detta c». – a e
c sono relazioni di identità connesse alla stessa coppia, e sebbene siano defi-
nite diversamente sono formalmente inerenti (altrimenti non sarebbero
connesse alla stessa coppia di oggetti), e detto in altri termini c è Forma
della Forma i, ma non significa che i sia un‟identità identica (così come la
bianchezza non è bianca).
«Quindi c è identico ad a, come si voleva dimostrare». La dimostrazio-
ne si completa ovviamente dimostrando che c è identico a b sostituendo
nell‟argomentazione precedente b ad a: infine, si dimostra egualmente per
d con la stessa semplice sostituzione. Esistono relazioni che sono res, altre
che non lo sono: il fatto che alcune lo siano implica un‟ontologia più ricca
di quella voluta da Aristotele, e a maggior ragione da ogni nominalista, e
tuttavia questo non comporta un‟esplosione di entità ontologiche. La vera
ontologia del mondo è lussureggiante, e tuttavia non ridotta ad essere
composta di infiniti oggetti.

3.1 Lo statuto di verità delle proposizioni relative al futuro: per Scoto, ogni previ-
sione è falsa
Se la verità di una proposizione dipendesse da ciò che essa rappresenta,
come potrebbe mai darsi che una proposizione e la sua negazione siano sem-
pre ambedue false? Eppure è quello che accade per le proposizioni relative al
futuro, secondo la mia interpretazione di Scoto: questo significa che le pro-
posizioni hanno un rapporto di identità con il mondo, con la totalità degli
oggetti che lo costituiscono, non già un rapporto rappresentativo.
Discutendo un luogo classico del De interpretatione aristotelico (cap. 9,
18a), Scoto mostra in maniera sintetica eppure decisa i motivi per cui il
principio di bivalenza non ha validità universale, assumendo una posizione
che va ben al di là di quella più classica secondo cui esistono delle eccezioni,
non già delle vere aree di non applicazione del principio. Si tratta di
un‟idea che ricorre non solo nei suoi lavori logici giovanili, ma che percor-
re tutta la sua opera, dalle analisi teologiche a quelle della filosofia pratica9.

9 È interessante, anche se non la condivido, la lettura di A.J. BECK (“„Divine Psichology‟


and Modalities: Scotus‟ Theory of Neutral Proposition”, in E.P. BOS (ed.), John Duns Scotus
Concetti universali senza rappresentazione 163

Si tratta quindi di esaminare dei passaggi dell‟opera In duo libros periherme-


nias, operis secundi, q. 8: si badi che in questo contesto non si parla dei fu-
turi contingenti rispetto a Dio, di cui si discute nella Lectura I, d. 39, bensì
dei futuri contingenti rispetto agli uomini. All‟esordio (n. 1), Scoto enun-
cia un argomento che assume il principio di bivalenza per poi confutare la
presunta conclusione dello stesso argomento, ossia «in A erunt duo contra-
dictoria vera» (la quale si ricava a partire dall‟ipotesi che una proposizione
relativa al futuro possa essere determinate falsa, dove il significato di que-
sta parola latina si chiarirà nel seguito, ma che si capisce equivalere all‟idea
«ora essa è già certamente vera o falsa, e se sarà falsa, ora lo è già» – in-
somma, un significato causale) – si tratta di considerare che se c‟è libertà di
scelta, allora oggi – per il momento A di domani – si può affermare che
uno stato di cose e il suo opposto sono veri, singolarmente indeterminati ;
così Scoto argomenta operando sulle singole alternative per il momento fu-

(1265/6-1308). Renewal of Philosophy, Amsterdam, Rodopi, 1998), per cui Scoto non rinuncia
all‟applicabilità del principio di bivalenza quando parla delle proposizione „neutre‟ apprese da
Dio prima della creazione (la conoscenza veicolata da questo carattere „neutro‟ della proposi-
zioni non può essere mai ridotta a conoscenza „metaforica‟, stiamo parlando di un Dio conce-
pito nella pienezza assoluta del suo Essere necessario). Interessante perché Beck mostra quale
sia la strategia filosofica tesa a recuperare Scoto all‟interno della logica classica: tuttavia, credo
che avesse visto giusto Gregorio da Rimini (Lectura I, d. 38, q. 2, a. 2, ed. Trapp–Marcolino,
III, Berlin, De Gruyter, 1984; citato da Beck, 136) quando accusava Scoto di porre con l‟idea
di una proposizione neutra un medio nella contraddizione (ivi, III, 281) e per questo motivo
respingeva la sua soluzione dell‟apprensione divina dei futuri contingenti. Gregorio parte dal-
l‟idea che se la «complexio de futuris sit neuter» (che ricava dalla d. 38 del commento al pri-
mo libro delle Sentenze, che è ora in appendice A all‟Ordinatio come I, d. 38, pars 2, e I, d. 39,
q. 1-5, oppure in Lectura, I, d. 39), allora si dà il medium nella contraddizione.
Contro Scoto, Gregorio avanza anche l‟accusa di porre un prima ed un dopo in Dio, cosa
che gli pare in nessun senso ammissibile (per cui si veda quanto aveva già detto in I, d. 9, q. 1,
a. 2, Lectura, II, 151-155): se da una parte riprende l‟argomento avanzato da Ockham (Ordina-
tio, I, d. 38, q. 1, in Opera theologica, IV, 582-583) contro Scoto, ossia se la volontà dell‟uomo
determina la conoscenza dei futuri contingenti da parte di Dio, ne segue un assurdo, se non lo
fa, allora Dio non li conosce «certam notitiam», dall‟altro lo ritiene non probante perché «si
per impossibile deus non esset volens, esset autem intelligens sicut est» (Lectura, III, 281-282).
Soprattutto, Gregorio conclude che l‟onniscenza divina è per noi incomprensibile e inesplica-
bile (ivi, III, 283).
Mi pare che Gregorio da Rimini subodorasse nella posizione di Scoto non tanto una affer-
mazione dell‟esistenza di proposizioni né–vere–né–false, quanto l‟affermazione dell‟esistenza
di proposizioni vere–e–false. Per i suoi gusti filosofici, la rifiutava, cogliendo che la forza (e la
debolezza) della posizione scotiana è nell‟approccio paraconsistente: ma si costringeva così a
catalogare nel mistero la conoscenza divina dei futuri contingenti. L‟alternativa è limpida: o
gettare alle ortiche la logica classica e spiegare come Dio conosce i futuri contingenti, oppure
conservare la fede nella logica classica e consegnare all‟inspiegabile la conoscenza divina dei
futuri contingenti (con la possibilità per un filosofo laico di accusare quello cristiano di irrazio-
nalismo, peraltro apertamente ammesso).
164 Luca Parisoli

turo (n. 4), «Tu eris albus in A, absolute enuntiata, si illa significat nunc
rem sic se habere ad esse ut in A tu debeas esse albus: haec propositio est
determinate falsa» – ciò che viene rifiutato è il determinismo, nella sua ac-
cezione più radicale. Con radicale anti–riduzionismo fondato nella credenza
dell‟esistenza di variabili assolutamente contingenti, invece, per Scoto ogni
predizione formulata da un uomo riguardo al futuro è falsa: attribuire oggi
la proprietà x ad un oggetto in un momento futuro, per qualunque x, si-
gnifica formulare sempre, per x e per non–x, una proposizione falsa. È im-
portante sottolineare che Scoto non parla di incertezza, meno che mai di
probabilità, nozione del tutto confusa nel Medioevo: avrebbe potuto co-
munque parlare su un registro epistemologico, ma sceglie di non farlo e
parla della previsione nella sua struttura più elementare e intuitiva, quella
per cui una previsione è vera se il fatto previsto si realizzerà (con supposi-
zione implicita di un nesso causale). Questo rende conto dell‟apparente contro-
intuitività di questa tesi per cui tutte le proposizioni che pretendono esprimere
delle previsioni per un momento futuro sono false: Scoto non si lancia in una
implausibile fenomenologia dell‟esperienza umana – gli uomini effettuano
previsioni da sempre per ottenere dei vantaggi (esempio standard, le tecni-
che agricole) –, egli sta invece asserendo intorno al reame ontologico10.
Importante è che una proposizione relativa al futuro non sia detta sem-
plicemente né–vera–né–falsa, ossia indeterminata (il che è opinione piut-
tosto diffusa e conforme al De interpretatione aristotelico: priva di valore di
verità oggi, per esempio perché non denotante); essa non è neppure vera–
e–falsa, perché solo Dio onnisciente può conoscere così la verità formaliter,
prima che gli stati di cose accadono dopo il suo atto creatore e le azioni de-
gli agenti liberi nel mondo attuale; essa è invece falsa per noi esseri umani,
che non abbiamo conoscenza della verità formaliter, perché indeterminato è
il fatto che accada o meno lo stato di cose che la rende vera, ossia non può
esistere ora lo stato di cose rispetto al quale essa sia identica, quindi vera, e
perciò è falsa. Parimenti, per la stessa ragione ontologica, essa è vera–e–
falsa per Dio, perché si dà in qualche mondo possibile come reale il conte-
nuto A della previsione, mentre in qualche altro mondo possibile si dà co-
me reale la negazione del contenuto A della previsione, da cui la verità–e–
falsità della previsione per tutti i mondi possibili. Quando il contenuto della

10 Per una penetrante analisi epistemica del fenomeno della previsione (e della teoria della
previsione che ammette la predeterminazione, con riduzione del mondo a rete di nessi causali)
rimando a N. RESCHER, Predicting the Future, New York, State University of New York Press,
1998, pp. 69-82, 113-156.
Concetti universali senza rappresentazione 165

previsione si dà nel mondo attuale, per intervento della volontà divina e/o
per intervento della volontà di un agente libero e/o per successive regola-
rità naturali, constatare che lo stato di cose A si dà o non si dà non sarà più
una previsione, bensì una constatazione. Allora si potrà dire che in un mo-
mento preciso del mondo attuale si dà C (esistente) e in altri mondi pos-
sibili la sua negazione non-C (reale). Per ogni proposizione che enuncia una
predizione che pretende di essere descrittiva – oggi, al momento della sua
enunciazione – dei fatti denotati, quindi di possedere una qualità che non
sia meramente ipotetica, ebbene essa è falsa. In forza della radicale contin-
genza del Mondo Creato (si badi, tale contingenza vi è immessa da Dio e
da ogni essere umano tramite la sua libertà della volontà), e in forza del-
l‟idea che le proposizioni linguistiche sono strettamente collegate all‟onto-
logia del mondo, la verofunzionalità deve essere compatibile con l‟idea che
quando Q sta avvenendo, ¬Q è completamente possibile – dunque, la pre-
visione „Io sarò bianco in A‟ è falsa, ed anche la previsione a contenuto con-
trario „Io sarò non-bianco in A‟ è falsa: le due messe insieme, a formare una
contraddizione lessicale, sono banalmente false per la congiunzione di due
falsità (e non perché la congiunzione di vero e falso produce la falsità: il
punto è di rilievo, e segue dalla limitazione della bivalenza). Neppure Dio
può sapere, prima che la sua volontà, anzi che la sua volizione, determini Q,
che Q esisterà (può solo sapere che è compossibile con altri R); ma questo è
moltissimo, perché Dio accede alla totalità dei mondi possibili reali, dotati
della proprietà relazionale della compossibilità, e perché la Sua volontà è ge-
rarchicamente sovraordinata ad ogni volontà libera creata, e se Dio vuole A,
A è, a dispetto di qualunque legge e principio che l‟uomo possa inventarsi (se
Dio ha un limite, non può essere A, ma solo A e assolutamente non–A).
Ecco che al n. 5 Scoto considera che, se invece la proposizione relativa al
futuro si predica solo relativamente allo stato di cose futuro e indeterminato,
senza nessuna predicazione intorno a ciò che esiste ora (in quanto principio
di esistenza attuale per A, altrimenti detto in quanto premessa causale),
allora il principio di bivalenza ritorna per noi esseri umani ed è indeterminate
vero o falso che A (un solo stato di cose esisterà nel nostro mondo attuale,
rispetto alla presenza o assenza di A). Se si depone ogni impegno ontologico,
se si rinuncia ad ogni funzione di rappresentazione della proposizione, la bi-
valenza resta un puro ente di ragione a contenuto predittivo nullo, dato che
la si può rendere con la banalità „o c‟è qualcosa oppure niente‟: il principio è
valido ma da esso non si può dedurre nulla, in forza della nozione di impli-
cazione rilevante, dato che il suo contenuto ontologico è nullo.
166 Luca Parisoli

3.2. Il paradosso del mentitore: per Scoto, simpliciter falso, secundum quid vero,
quindi vero-e-falso

Passiamo ora alle analisi scotiane intorno all‟Antinomia del Mentitore,


per cui riprendiamo il Super Libros Elenchorum. L‟analisi dell‟antinomia del
mentitore ci fornisce altri elementi in direzione di una scelta paraconsiste-
nte: non solo l‟analisi scotiana è interessante in sé, essa si esercita pure su
un‟antinomia, quella del mentitore, che era il paradigma stesso del para-
dosso semantico nel medioevo. Sarà interessante constatare che se la pro-
posizione rappresenta qualcosa, essa rappresenta sotto un valore di verità
che può essere distinto dal vero e dal falso, eppure rappresenta un valore di
verità che ha un legame di identità ontologico, ossia il vero-e-falso: in ogni
caso, non è una rappresentazione nel senso pittografico.
Vediamo quindi la q. 53, dove al n. 2, la proposizione «Ego dico
falsum» è così analizzata con una biforcazione classicamente aristotelica (tra
„simpliciter‟ e „secundum quid‟):
a) come «simpliciter falso in dicendo» – l‟idea è che il falso è «signum
falsi», ma qui non si denota nulla – «falso» non è un oggetto, quindi l‟enun-
ciazione è una falsità in quanto vuota. Se «falsum» fosse sostituito da «homi-
nem esse asinum», «Ego dico hominem esse asinum», la proposizione, in
quanto enunciazione, sarebbe vera, dato che effettivamente io dico che l‟uo-
mo è un asino e questo rapporto denota uno stato di cose possibile. Scoto
non dice altro, ma mi pare si debba completare osservando che se la sosti-
tuzione avvenisse con «hominem non esse asinum», la frase finale continue-
rebbe ad essere vera, dato che effettivamente io dico che l‟uomo non è un
asino e questo rapporto denota uno stato di cose possibile. Del resto, la
frase «Ego dico verum» sarebbe sempre falsa nella prospettiva «simpliciter in
dicendo»: infatti anche «verum», parimenti a «falsum», non denota nessun
oggetto;
b) come «verum tamen secundum quid» – se lo consideriamo in quanto
«actum dicendi circa falsum», ossia in quanto oggetto proposizionale intor-
no alla falsità, allora «in re est verum», dato che qui l‟oggetto di cui si parla
non è il denotato proposizionale, bensì una qualità della proposizione stessa.
In questo senso, aggiungiamo ancora noi, «Io dico il vero» è una proposi-
zione vera, per lo stesso motivo per cui «Io dico il falso» è una proposi-
zione vera. Mentre «Io dico che l‟uomo è un asino» sarebbe falsa (l‟uomo
non è un asino), e «Io dico che l‟uomo non è un asino» sarebbe vera (anco-
ra, l‟uomo non è un asino).
Concetti universali senza rappresentazione 167

Per riprendere le parole di Scoto, «circa hoc enunciabile, ego dico fal-
sum, est veritas et falsitas, sed veritas secundum quid, et falsitas simpli-
citer» (n. 2, =76). Ora, quello che è cruciale è comprendere il rapporto
tra questi due livelli, che possono essere banalizzati facendoli collassare sul-
la distinzione tra uso e menzione, oppure intesi in una prospettiva para-
consistente. In questa direzione può essere utile rammentare una passaggio
dei Reportata parisiensia11 dove Scoto replica all‟osservazione secondo cui
ciò che è causato, prima di esserlo, è in atto o in potenza, quindi ha una
modalità di essere in qualche misura co-eterna a Dio: emerge qui un‟onto-
logia delle espressioni secundum quid e simpliciter che le caratterizza come
segni concorrenti degli stati di cose, e non già meri punti di vista sul reale.
Il successivo n. 3 della risoluzione del paradosso del Mentitore intro-
duce una precisazione fondamentale tramite la sottolineatura della rilevan-
za dell‟implicazione – «Ego dico falsum; ergo verum est me dicere falsum,
dico quod consequentia non valet formaliter. Sicut non sequitur Homo est
animal, ergo verum est dicere hominem esse animal, et tamen in actu exer-
cito in antecedente includitur consequens» – ricompare l‟espressione «for-
maliter», che sembra proprio essere una nozione unitaria rispetto alle due
precedenti prospettive, «simpliciter» e «secundum quid» messe insieme,
dato che la verità «secundum quid» già asserita poco sopra (per la quale
premessa e conseguenza parrebbero essere vere) non può essere asserita
«formaliter». L‟esempio mostra che l‟ego di «ego dico falsum» che Scoto
considera non è l‟Io contingente che enuncia la proposizione, bensì l‟Io co-
me indicatore autoreferenziale dell‟enunciante. Ciò che si può asserire è
solo che qualcuno dice il falso, che qualcuno dice che l‟uomo è un animale,
a meno che non si sia escluso un valore esistenziale delle proposizioni in
esame. Sebbene sia vero che «l‟uomo è un animale», e sebbene sia vero che
«è vero dire che l‟uomo è un animale», non c‟è implicazione dal primo al
secondo, nonostante che si possa affermare che la conseguenza è contenuta
nella premessa. Ecco che la nozione di implicazione rilevante gioca il suo
ruolo di sbarrare il passo all‟antinomia: è vero secundum quid «Io dico il
falso», ma non ne segue che sia vero «è vero che io dico il falso» – infatti,
simpliciter «è falso che io dico il falso». I due aspetti secondo cui predicare il
valore di verità sono tali che devono essere contemporaneamente sod-
disfatti per parlare di implicazione valida, e nel caso in esame non possono
esserlo. L‟enunciato «Io dico il falso, quindi è [valore di verità] che dico il
falso» rinvia a un concetto che non è mai soddisfacibile formaliter, semmai
11 Reportata parisiensia, II, d. 1, q. 2, n. 14.
168 Luca Parisoli

solo da punti di vista parziali, quali «simpliciter» o «secundum quid». Il


punto è che limitandosi ad uno solo di questi punti di vista non si può par-
lare di inferenza logica valida: essi sono entrambi necessari per l‟inferenza
logica. Dunque, la proposizione è falsa nel denotare che «falsitas est in actu
signato», dato che come già detto è priva di denotazione, e la stessa propo-
sizione è vera nell‟enunciazione «veritas est in actu exercitu», ossia è vero
che sto parlando sul falso, dato che l‟oggetto del mio parlare è falso.
Le attribuzioni di verità secondo la prospettiva «simpliciter» e secondo
la prospettiva «secundum quid» non possono mai assurgere separate al li-
vello della verità logica, a meno che la verità «simpliciter» e quella «se-
cundum quid» non coincidano, ed allora si parla di verità tout court, nel les-
sico scotiano formaliter: si noti che come il principio di contraddizione è
valido formaliter in quanto relativo alla Super-Contraddizione, ossia relativo
à ciò che esula da ogni mondo possibile e quindi impossibile anche per Dio,
similmente la verità formaliter è quella che tiene conto della completezza
dei mondi, sia il mondo attuale, sia i mondi possibili. Il punto è che per
Scoto la verità è un fatto oggettivo, ed un universo di discorso parziale, per
esempio solo quello «secundum quid», predicherà la verità in modo parzia-
le. Questo significa impedire la validità delle inferenze logiche in cui la pre-
dicazione di verità è inclusa nella conseguenza – dato che tale predicazione
di verità è necessariamente parziale. La verità secondo un punto di vista è
una verità pickwickiana, la verità stricto sensu è solo una verità oggettiva
(ossia, unica): qui, mi pare chiaro come la soluzione scotiana sia radical-
mente anti-aristotelica, dato che rigetta lo spirito dell‟insolubile che è vero
secondo un punto di vista, falso secondo un altro. L‟insolubile, invece, è
vero-e-falso secundum quid oppure simpliciter, oppure non-vero-e-non-falso
per la verità assoluta.
Scoto asserisce chiaramente, e si tratta del passaggio centrale che non
può essere relegato a mero inciso: «propter convenientiam in re inter dictum
secundum quid, et simpliciter, quandoque nescimus distinguere inter falsum
secundum quid et simpliciter» (n. 2, c.m.). Non si tratta di un‟osserva-
zione psicologica, si tratta di una tesi ontologica rapportata alla conoscenza
umana. Nel nostro mondo attuale, nel mondo degli oggetti esterni al no-
stro corpo per esempio, i due criteri di verità coincidono ; tuttavia nel caso
di una proposizione autoreferenziale – il cui oggetto proposizionale è il suo
valore di verità – si può verificare una non-coincidenza. Il punto è che qui,
come nel caso dell‟argomento „Dio esiste, quindi questo argomento non è
valido‟, siamo di fronte ad un controesempio rispetto ad una presunta re-
Concetti universali senza rappresentazione 169

golarità troppo affrettatamente affermata. La proposizione „Io dico il falso‟


ha la particolarità di possedere un oggetto che non è spazio-temporale (la
sua denotazione è inesistente), bensì un oggetto proposizionale (il valore di
verità): Scoto, realista metafisico, li considera entrambi oggetti reali. Ma a
differenza del realista logico Russel che ricorre alla teoria dei tipi per risol-
vere l‟antinomia del mentitore, per Scoto la proposizione „Io dico il falso‟
è ben formata (per Russel, è invece, mal formata: Russel è un formalista
logico, Scoto, come tutti i medievali, opera con la sua logica formale sul
linguaggio naturale, quindi non può negare che „io dico il falso‟ sia una
proposizione). Due criteri di verità, la cui coincidenza assicura l‟identifica-
zione del valore di verità logico: per „Io dico il falso‟, avremo che in un
senso essa è vera-e-falsa, e in un senso essa non è né-vera-né-falsa, se il
valore di verità è inteso universalmente (ma dirla indifferente sarebbe si-
stematicamente fuorviante).

3.3. Il principio di Esplosione è falso: per lo Scotista, vale solo per le proposizioni
relativi alle formalitates, altrimenti dal falso non segue qualunque cosa

Nella stessa questione che abbiamo già citato per una teoria rilevante del-
la logica nello Pseudo-Scoto, è illustrato quello che è passato nella storia del pen-
siero logico come il principio ex falso sequitur quodlibet, rinominato da Priest
principio di Esplosione – il principio fa esplodere la verità dalla contrad-
dizione, dato che ammessa una contraddizione ogni proposizione diventa ve-
ra (incluse tutte le contraddizioni). E qui si cela quella che io considero un tra-
visamento radicale, ripetuto dagli stessi partigiani della paraconsistenza; il pun-
to è che lo Pseudo-Scoto – lo Scotista –, passato alla storia quale partigiano
del principio di Esplosione, ne è in realtà uno dei più sottili critici. Basta pren-
dere sul serio quello che scrive: l‟aggettivo „formale‟ spesso al declino della Sco-
lastica è stato considerato come un inutile pleonasmo e opposto alla realtà,
ma non è così a meno che non si voglia liquidare i formalisantes. Le formalitates,
oggetto metafisico di non agevole interpretazione, mi pare che non appar-
tengono affatto al dominio della psicologia, anzi: esse denotano un livello di
realtà, mi azzarderei a pensarle come un universale ante rem.
Può essere utile ricordare per comprendere quest‟ultima idea che si dà
una particolare strategia scotiana che consiste nel distinguere tra ordini di
unità, tali che la pluralità di un ordine rinvia all‟unità di un altro ordine.
L‟unità dell‟oggetto universale è tale che la somma dell'oggetto universale
presente in questo individuo-qui e dell‟oggetto universale presente in quel-
170 Luca Parisoli

l‟oggetto-là fornisce sempre un valore unitario, un poco come infinito più


infinito dà infinito. Gli oggetti universali sono unità meno-che-numeriche,
quindi possono trovarsi in una pluralità di individui tali che la somma degli
individui sia un numero molto grande, mentre la somma degli universali da
sempre un‟unità meno-che-numerica.
Siamo di fronte ad un concetto chiave, che deve interrogare i difensori
della logica classica, se sia compatibile con il principio di contraddizione o
se sia privo di senso. Per la differenza tra quiditates (sostanze del mondo at-
tuale dotate di unità numerica) e formalitates (essenze con unità meno-che-
numerica), il rinvio scotiano è a Ordinatio, II, d. 3, p. 1, q. 5-6, 169-175,
ex q. 6, n. 9-10; Lectura, eod. loc., §§ 164-177; Reportata parisiensia, II, d.
12, q. 8, n. 8 – le quiditates non possono essere separate dall‟individualità
(che sarebbe poi la tesi platonica delle sostanze separate), il che significa
che le essenze non sono una diluizione della ricchezza di individui del mon-
do attuale. In sintesi, la strategia argomentativa – che pure richiederebbe
una discussione a parte – è la seguente:
1) La similitudine, l‟identità, l‟eguaglianza, secondo Aristotele, si fon-
dano sull'unità: la similitudine, però, è una relazione reale, e il suo fonda-
mento reale non può essere l‟unità numerica, dato che nulla identico è si-
mile a se stesso, ossia l‟identità che è una relazione di ragione esclude la si-
militudine. Devono esistere unità meno-che-numeriche.
2) Se vi fosse solo unità numerica, l‟intelletto apprenderebbe un ogget-
to bianco in quanto questo-oggetto-qui-bianco, e se Dio facesse due soli
oggetti bianchi identici null‟altro esistente, l‟intelletto dovrebbe distinguerli,
il che è falso.
3) Il fuoco produce fiamme senza che li si possa distinguere numerica-
mente, eppure il fuoco genera le fiamme, e sono realmente distinti. Meta-
fisicamente, va negato che ogni differenza sia esattamente numerica, altri-
menti tutto diviene finzione (per i nominalisti radicali è così).
4) Conclusione dell‟analisi – Non solo gli universali non sono sostanze
separate, non sono neppure sostanze, essi sono piuttosto essenze, formalita-
tes. Questa delle sostanze separate è invece la tesi che Aristotele attribuisce
a Platone.
Ricordiamo ancora che la distinzione formale, perfezionata da Scoto
con approccio analitico, implica che due cose possono essere identiche e
diverse al tempo stesso: non è in gioco una questione epistemica („le pren-
do per identiche, ma sono diverse‟, oppure „noi non possiamo distinguerle,
ma in realtà lo sono‟, tipo noumeno kantiano), bensì una questione onto-
Concetti universali senza rappresentazione 171

logica. Mentre nel nostro mondo attuale le cose che possiamo distinguere
possono essere dette più o meno simili, ma non identiche, nella totalità dei
mondi possibili si danno cose identiche e distinguibili. In questa prospettiva,
la leibniziana indiscernibilità degli identici è prima facie rifiutata (si danno
cose identiche – realmente – che sono distinguibili in quanto diverse – for-
malmente), a meno che non si introduca nella formulazione di questa legge
leibniziana una distinzione capitale.
Si tratta della distinzione tra una identità formale, per cui essa conti-
nuerebbe ad essere valida (due cose formalmente identiche saranno anche
non-distinguibili, dato che sono una sola), e una identità reale, per cui in-
vece essa non sarebbe più valida. È importante tenere a mente che per Sco-
to l‟astratto e il concreto differiscono solo nel modo di significare, tanto
che può formulare l‟esempio di paragone tra „Socrate correrà‟, che potreb-
be essere vera sebbene in questo momento Socrate non corre, e „la bian-
chezza è‟, che è vera anche se in questo momento nessun oggetto è bianco.
Lo stesso ragionamento vale per l‟altra legge di Leibniz, il cosiddetto
principio dell‟identità degli indiscernibili12, e che valeva nel quadro leibni-
ziano di una concezione dei mondi possibili che oscilla tra nominalismo e
concettualismo, ma è stata criticata nel quadro della filosofia contempo-
ranea13: se questa identità degli indiscernibili la si limita alle proprietà reali,
allora si lasciano da parte le proprietà formali, ossia una fetta consistente
del mondo ontologico e la distinzione formale perderebbe il suo senso (ciò
che non è distinguibile reciprocamente è identico, e viceversa). Dall‟indi-
scernibilità delle proprietà reali, ossia per ogni proprietà del primo oggetto
essa inerisce anche al secondo, si può concludere la loro identità reale, ma
non la loro identità tout court o in senso stretto. La prospettiva di Scoto
concepisce l‟haecceitas come una speciale proprietà disgiuntiva, che fa par-
tecipare l‟universale nell‟individuo senza ridurre l‟individualità ad un fascio
di universali.

12 Come nota D. WIGGINS (Sameness and Substance Renewed, Cambridge, CUP, 2001, p. 27)
si danno due leggi di Leibniz, la prima nota come la Legge di Leibniz per eccellenza, ossia
l‟indiscernibilità degli identici (peraltro già nota ad ARISTOTELE, Elenchi Sofistici I, 79 a37), e la
sua reciproca, ossia l‟identità degli indiscernibili. Entrambe sembrano procedere, e questo
giustifica l‟uso per cui le si considerano quasi-equivalenti, dalla formulazione leibniziana eadem
sunt quorum unum alteri substitui potest.
13 Nel XX secolo l‟argomento più noto è quello di M. BLACK, “The Identity of Indiscerni-
bles”, Mind 61 (1952), pp. 153-164; in seguito hanno rifiutato l‟identità degli indiscernibili e
la corrispettiva (ma non equivalente) indiscernibilità degli identici P. GEACH, Logic Matters,
Berkeley, University of California Press, 1972, e Reference and Generality, Ithaca, Cornell Uni-
versity Press, 19803 (seconda edizione corretta 1968), e P. GRICE, Studies in the Way of Words,
Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1981; ID., Aspects of Reason, Oxford, OUP, 2001.
172 Luca Parisoli

In questa prospettiva, del resto, anche la discernibilità delle proprietà


reali non esclude l‟identità reale: si badi, quando si parla di realtà si parla di
mondi possibili, e quindi si deve distinguere tra proprietà reali esistenti (mon-
do attuale) e proprietà reali non–esistenti (altri mondi), una distinzione che
non può essere trascurata dato che spesso pensiamo alle proprietà soggette
alla nostra percezione fenomenologica, che sono proprietà esistenti e a vol-
te irreali (costituite dalla nostra mente e non–indipendenti da essa). Ma se
invece si concepisce l‟identità degli indiscernibili come proprietà formale –
formaliter, allora è possibile dire il principio di Leibniz vale anche per Scoto,
dato che esso non si predica più considerando le proprietà meramente reali,
ma anche quelle formali. Tuttavia, l‟identità formale non include banal-
mente l‟identità reale: infatti, dobbiamo tenere a mente che le proprietà
reali sono legate alla modalità della haecceitas che concretizza in un certo
mondo possibile quella formalitas di cui abbiamo potuto constatare essere
una, dato che tutte le proprietà formali di x inerivano anche ad y, così x e y
sono in realtà un solo K. Ma la formalitas si può manifestare in molti modi in
diversi mondi possibili ed essere una: la mia identità personale dopo la
morte biofisica sarà garantita dalla quidditas, e la mia haecceitas sarà un‟altra.
Insomma, la tesi che lo Pseudo–Scoto abbia affermato per la prima volta
il principio ex falso sequitur quodlibet ignora la possibilità che vi sia una dif-
ferenza tra una „contraddizione formale‟ e una „contraddizione‟, ossia postu-
la indebitamente che ogni contraddizione sia formale. Non si tratta di un‟in-
terpretazione priva di forza persuasiva, del resto è stata largamente accolta
nel corso dei secoli. E non è certo in forza di un mero argomento lessicale
che intendo contestarla, ossia non voglio farle valere contro il fatto che nel
testo si parla di „contraddizione formale‟, e che „formale‟ non può avere un
significato vuoto. Quello che voglio fare valere è che l‟enunciazione del
principio secondo cui dalla contraddizione formale segue quodlibet, avviene
nel contesto di una affermazione esplicita della rilevanza dell‟implicazione
logica, primo passo per affermare una logica paraconsistente. Insistere sulla
nozione di „contraddizione formale‟ è il secondo passo naturale in questa
stessa direzione.
Lo Scotista sottolinea che il principio da lui enunciato vale solo per le con-
traddizioni formali (ossia,  è un oggetto senza riferimento all‟esistenza, e
), e le conclusioni che seguono a piacimento sono a loro volta for-
mali (ossia,  è un oggetto, e , allora per qualunque  che è un og-
getto, ). Una proposizione formale A diviene una proposizione mate-
riale tramite l‟assunzione di una proposizione con denotato contingente
Concetti universali senza rappresentazione 173

(relativo a ciò che esiste, relativo alla creazione divina): nulla si dice in me-
rito al fatto che per le proposizioni materiali valga il principio ex falso sequi-
tur quodlibet (ossia, non è vero che se  è un oggetto,  esiste, e , al-
lora per qualunque  che è un oggetto e  esiste, ). Detto principio
vale solo per le proposizioni formali, quindi si può affermare che dalla Su-
per–Contraddizione discende qualunque proposizione, dalla piccola–con-
traddizione no. Il principio di Esplosione nella sua interpretazione standard
non è un principio dello Scotista, dato che egli si limita ad asserire che se a)
è necessario che  (in ogni mondo possibile), e b) è necessario che  (in
ogni mondo possibile), allora c) tutto è necessario. Si tratta di una strategia
logica per affermare che Dio non può creare una Super–Contraddizione
(Egli non può creare un cerchio quadrato, mentre può pensare un cerchio
quadrato), dato che si arriverebbe alla triviale situazione in cui „tutto è ve-
ro‟, che è connesso all‟idea che tutto sia identico a tutto, perché il dato on-
tologico che pone una differenza tra reale e irreale verrebbe ad essere vani-
ficato. Saremmo quindi di fronte ad una vera e propria catastrofe ontolo-
gica, in cui non solo l‟insieme dell‟esistente sarebbe indeterminato, ma an-
che l‟inseme del reale, tanto che la stessa idea per cui Dio è un essere ne-
cessariamente reale e presente in ogni mondo possibile (quindi, reale–e–
esistente) collasserebbe nella sua super–contraddittoria per cui l‟assenza as-
soluta di Dio si dà necessariamente in ogni mondo possibile.
SANDRA PLASTINA
La sospensione delle differenze.
Scetticismo, immaginazione e questioni di genere a partire dai
Saggi di Montaigne

Tra la fine del ‟500 e i primi decenni del ‟600 il tentativo di dare una diver-
sa definizione della donna e della natura delle differenze di genere rappre-
senta, pur tra molti ostacoli e contraddizioni, una componente non trascu-
rabile della riforma del sapere, promossa dalla stagione rinascimentale. Il di-
battito sui meriti morali e sulle capacità intellettuali delle donne, noto come
Querelle des sexes, che animò la vita intellettuale, soprattutto in Francia, op-
pose detrattori ed apologeti del sesso femminile, generando per tutto il Cin-
quecento una abbondante fioritura di invettive e panegirici. Attaccare le don-
ne o difenderle in nome del merito e delle qualità diventò in quegli anni una
sorta di luogo comune1. Le opere che si occupano della questione e discuto-
no argomenti filoginici si presentano spesso con i caratteri propri della pole-
mica, esemplificando generalmente le strategie e le tecniche argomentative
raccomandate nei manuali di retorica. Per alcuni aspetti, infatti, i testi fem-
ministi del Rinascimento rappresentano una estensione e un‟amplificazione
della tardomedievale querelle des femmes2, la cui pratica politica «fu uno sforzo
enorme da parte di uomini e di donne colte per rendere dicibile le relazioni
tra i sessi […] e per questo enorme sforzo nel mettere in parole, per dire
qualcosa di nuovo, la Querelle è stata a volte definita un dibattito letterario»3.
La nozione di Querelle porta alla luce la rilevanza dei temi affrontati nella
„questione femminile‟, e pur tenendo comunque conto che «early modern
feminism was a literary genre rather than a definite philosophical current»4,
essa evoca il conflitto e la polemica e in tal modo è stata interpretata dalla
storiografia femminista e non, durante il XX secolo5. Molte delle opere sul-

1Cf. M. LAZARD, Images littéraries de la femme à la Renaissance, Paris, PUF, 1985, pp. 12-13.
2C. JORDAN in Renaissance Feminism. Literary Texts and Political Models, Ithaca, Cornell Uni-
versity Press, 1990, p. 122, utilizza il termine «femminismo» in relazione al pensiero del Ri-
nascimento affiancandogli l‟uso dell‟espressione pro-woman argument, meno connotata storica-
mente: «I use the term „feminism‟ very broadly to refer to any theoretical writing aimed at
advancing the cause of women with or without a call for radical social change».
3 C. DE PIZAN, Una città per sé, a cura di P. Caraffi, Roma, Carocci, 2003, pp. 88-90.
4 Cf. S. STUURMAN, François Poulain de la Barre and the Invention of Modern Equality, Cam-
bridge (Ma), Harvard University Press, 2004, p. 53.
5 La tesi sostenuta negli anni ‟80 da J. KELLY-GADOL in Did Women Have a Renaissance?

Bollettino Filosofico 25 (2009): 174-192 174


La sospensione delle differenze 175

l‟argomento, come è stato ampiamente analizzato, si presentano come difese,


più o meno sincere, della causa femminile, altre più semplicemente sono la-
vori di natura didascalica, che esaltano e nello stesso tempo circoscrivono la
natura della donna, e un certo numero di trattati più problematici, sono del-
le autentiche diatribe con repertorio misogino annesso. Nel complesso il di-
battito sulla donna può risultare abbastanza convenzionale, caratterizzato dal-
la ripetizione di temi, figure, tropi e motivi, in cui non mancano quasi mai
riferimenti alle opinioni espresse nel passato dai filosofi più autorevoli e il ri-
corso alle fonti accreditate dalla tradizione. Ma anche queste costruzioni let-
terarie, spesso scontate e prevedibili nel loro impianto, rivelano, ad una let-
tura più avvertita, attraverso aperture impreviste, l‟ingresso di nuove idee
che approfondiscono la questione della donna, dimostrando una maggiore
sensibilità nei confronti della sua posizione nella società. Il tema della subor-
dinazione femminile all‟autorità esercitata dagli uomini, e le domande sul-
l‟origine di questo controllo, entrano in queste opere con una certa prepo-
tenza, come diretta conseguenza della presunta superiorità di un sesso nei
confronti dell‟altro 6 . Tra gli aspetti più importanti considerati da alcuni
esponenti della cultura umanistica il problema dell‟educazione femminile si
impone all‟attenzione degli uomini che intervengono nel dibattito e delle

(Women, History and Theory: The Essays of Joan Kelly), Chicago, University of Chicago Press,
1986 (ripubblicato in L. HUTSON (ed.), Feminism and Renaissance Studies, Oxford, OUP, 1999,
pp. 21-47), che le donne non ebbero un Rinascimento, ha un‟indubbia evidenza storica. Il
saggio si pone criticamente nei confronti dell‟interpretazione di J. Burckhardt che ne La civiltà
del Rinascimento in Italia scriveva che, tra ‟400 e ‟500, lo stesso sviluppo intellettuale ed emo-
tivo teso al perfezionamento dell‟uomo avrebbe riguardato anche la donna, la cui emancipa-
zione non si poneva come questione dal momento che sarebbe scaturita come naturale conse-
guenza dalla nuova idea di individuo che si andava affermando. Nel ‟900 gli studiosi del Rina-
scimento hanno continuato, nella maggior parte, a seguire la visione di Burckhardt, nono-
stante che Virginia Woolf in una Stanza tutta per se (1928), scrivendo a proposito del Rinasci-
mento inglese, non avesse mancato di notare che la donna, così presente nella letteratura
dell‟età di Shakespeare – tanto che «some of the most inspired words, some of the most
profound thoughts in literature fall from her lips» –, era assente dalla storia, e nella vita reale
molto difficilmente poteva imparare a leggere, tantomeno studiare e possedere beni.
6 Il collegamento tra recupero del diritto romano e sviluppo della Querelle, ad esempio, è
stato giustamente messo in rilievo da Patrizia Caraffi dal momento che segna l‟ingresso del
linguaggio del diritto nel vocabolario della politica e della storia delle donne in Europa. Sulla
maggiore consapevolezza acquisita dalle donne riguardo alla loro condizione tra ‟500 e ‟600 si
leggano le pagine di I. MACLEAN, The Renaissance Concept of Woman. A study in the fortunes of
scholasticism and medical science in European intellectual life, Cambridge, CUP, 1987, p. 91: «in
France, in England, in Itay, in Germany, in Holland, anti-femminist texts provoke vigorous
replies which often reflect the new aspects of the notion of woman discussed above. The
writers of these replies are not only men, women also defend their own cause. In many of
their works may be detected an awareness of their subjection which previously had not re-
ceived anything more than sporadic literary expression».
176 Sandra Plastina

donne che prendono la parola per difendere la loro causa. Le qualità e i me-
riti che le si riconoscono, e a partire dai quali si tenta di riconsiderarne la
funzione sociale e culturale (non solo dentro la famiglia), aprono alla donna
porte che finora le erano rimaste sbarrate o scarsamente accessibili, innanzi-
tutto quelle delle biblioteche. L‟istruzione diventa il tema centrale, si det-
tano per lei le «instituzioni», vengono scelti e consigliati quegli auctores con-
facenti alla sua natura e ai compiti che è chiamata a svolgere. Le «instituzio-
ni» come genere hanno il loro insigne iniziatore in Erasmo da Rotterdam,
nei cui scritti l‟apologia della donna procede di pari passo con la riconsidera-
zione dell‟istituto del matrimonio, come leggiamo nei Colloquia e nell’Institu-
tio Cristiani matrimonii (1526)7. Ad Agrippa di Nettesheim va riconosciuto il
merito di considerare il problema dell‟inferiorità della donna non sul piano
della natura ma su quello delle sovrastrutture culturali, di individuare i limiti
nella consuetudine e nelle leggi: «contra la divina giustizia e contra gli ordini
della natura, essendo superiore la licentiosa tirannia de gli uomini, la libertà
data alle donne è loro dalle inique leggi interdetta, dalla consuetudine e dal-
l‟uso impedita e dalla educazione totalmente estinta»8.
Proprio in virtù di queste considerazioni generali ci pare interessante sof-
fermarci sulle forme di reazione e di protesta ai modelli tradizionalmente ac-
cettati che si sviluppano nell‟ambito del dibattito culturale del Cinquecento.
Interventi che si possono leggere come proteste nei confronti del diffuso pre-
giudizio misogino, basato sull‟inferiorità della donna secondo la legge natura-
le e divina e contro la pratica sociale che riguarda soprattutto l‟educazione,
l‟istituto del matrimonio, il diritto ad ereditare. Il queste pagine proveremo
ad analizzare il rapporto tra la discussione di argomenti a favore della donna
e l‟affermarsi di posizioni scettiche nel dibattito tardo cinquecentesco. Non è
certo un caso che due dei più quotati protagonisti della Querelle ebbero forti
legami con lo scetticismo. Il rifiuto da parte di Cornelio Agrippa degli assunti
aristotelici riguardo alla superiorità morale e intellettuale degli uomini nei
confronti delle donne espresso con vigore nel De nobilitate et praecellentia
foeminei sexus (1529), anticipa la dura condanna delle pretese conoscitive della
scolastica contenuta nel suo De incertitudine et vanitate scientiarum (1530) 9 .
7 Le «institutioni» che riguardano le donne trovano un illustre prototipo nel Dialogo del-
l’Institution delle donne di Lodovico Dolce (Venetia, 1545). Su questo tema cf. A.D. COUSINS,
“Humanism, Female Education, and Myth: Erasmus, Vives, and More‟s To Candidus”, Jour-
nal of the History of Ideas 65 (2004) 2, pp. 213-230.
8 C. AGRIPPA, Della nobiltà et eccellenza delle donne dalla lingua francese nella italiana tradotto,
con una oratione di M. Alessandro Piccolomini in lode delle medesime, Vinegia, appresso Giolito,
1549, 27r.
9 A. RABIL JR., Agrippa and the Feminist Tradition, Introduction to H.C. AGRIPPA, Declama-
La sospensione delle differenze 177

Marie de Gournay, nell‟opera De l’égalité des hommes et des femmes, da parte


sua, riprende gli argomenti scettici usati da Montaigne, sviluppandoli a van-
taggio dell‟affermazione dell‟uguaglianza tra i sessi. Il livellamento delle ge-
rarchie di genere e la sospensione delle differenze, entrambi espressione del-
lo scetticismo dell‟autore dei Saggi, sono alla base delle successive riflessioni
della sua fille d’alliance10.

Scetticismo e demistificazione

Cornelio Agrippa riscosse una grande fortuna all‟interno del dibattito sul-
la donna: sull‟importanza della sua opera che celebra la nobiltà e l‟eccellenza
del sesso femminile (pubblicata nel 1529 e nel 1532 a cura dell‟autore, a cui
seguirono numerose edizioni e traduzioni in francese, inglese, italiano ed
olandese), hanno insistito recentemente molti studiosi. Pur riconoscendo gli
aspetti retorici e letterari del De nobilitate, gli interpreti hanno messo in luce
la serietà delle intenzioni dell‟autore, arrivando a considerarlo un trattato
teologico in cui l‟autore offre la sua personale interpretazione del libro della
Genesi. Agrippa individua la radice dell‟«occasione tirannica», che sta alla
base del modello istituzionale che ha escluso le donne, nella interpretazione
gerarchica e autoritaria del messaggio cristiano. «Nell‟intricato meccanismo
di ricomposizione e riscrittura dei motivi più tradizionali, l‟apologia della
donna diventa occasionalmente lo strumento per mettere in discussione il
modello culturale contemporaneo e demistificarne i fondamenti gerarchici e
autoritari»11. Il filosofo colloca l‟eulogia del sesso femminile nell‟ambito del-
la ininterrotta battaglia contro la teologia scolastica che egli condusse per la
fondazione di una nuova teologia erasmiana, un modello di vita che pone al
proprio centro il principio rivoluzionario dell‟ideologia cristiana, quello del-
l‟uguaglianza. In ciò risiede il messaggio sovversivo, eretico del De nobilitate.
Si presentavano al dibattito cinquecentesco sull‟argomento antiche questioni
teologiche. Profondamente radicata nel pensiero religioso, la misoginia aveva
trovato nella riscoperta del pensiero antico un‟autorevole conferma, una vi-

tion on the Nobility and Preeminence of the female Sex, Chicago and London, University of Chica-
go Press, 1996.
10 Nella Histoire du féminisme francais du moyen age à nos jours, Paris, Des Femmes, 1977, p.
118, M. ALBISTUR e D. ARMOGATHE includono i Saggi di Montaigne tra i capisaldi letterari
della Querelle des femmes. Di recente l‟attenzione delle studiose e degli studiosi si è focalizzata
sulla figura di de Gournay, considerata nella sua complessità e autonomia, e non solo ricor-
data come curatrice dell‟edizione degli Essais del 1595 e delle successive fino al 1635.
11 V. PERRONE COMPAGNI, “Retorica e teologia nel “De nobilitate foeminei sexus” di
Agrippa”, Bruniana & Campanelliana 12 (2006) 1, pp. 59-80, spec. 62.
178 Sandra Plastina

sione scientifica e filosofica della donna che si rivelava perfettamente coeren-


te con l‟antifemminismo teologico cristiano. Le figlie di Eva non distoglieva-
no l‟uomo solo dall‟ordine razionale, ma anche da quello divino della grazia
e «avevano la forza del diavolo nei lombi», secondo l‟espressione di San Gi-
rolamo citata da Montaigne nel terzo libro dei Saggi 12 . Per meglio com-
prendere come lo scetticismo abbia contribuito a trasformare la questione
della donna è certamente utile distinguere il moderno scetticismo di Montai-
gne dagli esiti fideistici della critica scettica della conoscenza, rimandando a-
gli studi più recenti e completi sull‟argomento13. Laboratorio della moderni-
tà, lo scetticismo del rinascimento, con la sua critica permanente dei dogmi,
e il carattere di antidottrina, accelera la crisi del paradigma aristotelico e sco-
lastico spingendo ad un rinnovamento critico del sapere. Nell‟Apologia di Ray-
mond Sebond, vera introduzione allo scetticismo dell‟honnête homme, il filo-
sofo francese fa sue le posizioni pirroniane esposte da Sesto Empirico nelle
Hypotyposes, tradotte da nel 1562 da Henri Estienne14. Larga parte dell‟Apo-
logie consiste in una critica all‟uso illegittimo e alle vane pretese della ragione
e dell‟immaginazione. Al “desreglement de pensées”, agli insieme di errori
che ne derivano, Montaigne oppone la sospensione del giudizio, esercitando
il dubbio scettico. L‟inversione dei valori che altri filosofi avevano tradizio-
nalmente attribuito ai concetti di mascolinità e femminilità è tra le espres-
sioni più significative dell‟atteggiamento scettico del filosofo francese che
contribuisce a corrodere l‟etica stoica, rendendo più instabili le basi della fi-
losofia morale dominante. Per ricordare quanto l‟organizzazione della mo-
rale stoica ruoti intorno ai poli della mascolinità e della effeminatezza sono

12 M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. Garavini, 2 voll., Milano, Adelphi, 2005, vol. 2,


III, V, p. 1144.
13 Sullo scetticismo nel Rinascimento e nell‟età moderna si rinvia agli studi di G. PAGANI-
NI, e in particolare al recentissimo Skepsis. Le débat des modernes sur le scepticisme, Paris, Vrin,
2008 e ancora ID. e J.R. MAIA NETO (eds.), Renaissance Scepticism, Dordrecht, Springer, 2009.
14 Nei lavori di Popkin, come è ben noto, la riscoperta della corrente pirroniana dello
scetticismo riveste un ruolo centrale insieme allo studio della presenza degli scritti di Sesto
Empirico, stampati in latino nel 1562 e nel 1569, nel panorama culturale europeo, che ren-
dono il pirronismo – piuttosto che lo scetticismo accademico o ciceroniano – la forza-guida
della filosofia della prima modernità. In The History of Scepticism Popkin commenta l‟efficacia
della presentazione dello scetticismo ad opera di Montaigne nella Apologie de Raimond Sebond,
«che rappresenta il sorprendente prodotto della sua personale crise pyrrhonienne» (R.H. POPKIN,
La storia dello scetticismo. Da Erasmo a Spinoza, Milano, Anabasi, 1995, p. 68). Sulla diffusione del-
l‟opera di Sesto Empirico cf. inoltre L. FLORIDI, Sextus Empiricus. The Transmission and the Recovery
of Pyrrhonism, Oxford, OUP, 2002. Sulle posizioni di Montaigne, che abbandona il criterio della
verosimiglianza adottato dai neo-accademici per seguire l‟épochè di Sesto e la norma pratica della
conformità alla tradizione, si legga quanto scrive J.R. MAIA NETO, Epoche as Perfection, Montai-
gne’s view of Ancient Skepticism, in R.H. POPKIN, J.R. MAIA NETO (eds.), Skepticism in Renaissance
and Post–Renaissance Thought, Amherst, Humanity Books, 2004, pp. 13-42.
La sospensione delle differenze 179

sufficienti le parole di Seneca che in apertura del De Constantia paragona la


grande differenza che intercorre tra gli Stoici e le altre scuole filosofiche a
quella che separa gli uomini dalle donne: entrambi necessari alla società uma-
na, con diverso titolo, i primi nati per comandare, le seconde per obbedi-
re15. All‟equazione senecana tra superiorità stoica e predominio maschile,
Montaigne risponde con un controesempio scettico. Riflettendo, ad esem-
pio, sulla tristezza, «quella qualità sempre nociva, sempre folle e in quanto
vile e bassa»,16 vietata dagli stoici, e soprattutto sui suoi effetti provocati sul-
le donne e sugli uomini. Da una parte il lettore è colpito dall‟incontenibile
dolore di Niobe, la misera madre che, sopraffatta dalla perdita prima dei set-
te figli e poi anche delle restanti sette figlie, nel racconto delle Metamorfosi di
Ovidio, si trasformò in pietra, dall‟altra dall‟inconsolabile capitano tedesco
Raisciac, che alla morte del figlio, non versò neanche una lacrima, e rag-
gelato dalla sua inespressa tristezza, cadde a terra morto stecchito. Soffocare
le emozioni dunque non conduce alla tranquillità d‟animo ma all‟estinzione
della vita. Sottolineando abilmente il punto in cui gli stoici sovrappongono
controllo di sé, tranquillità d‟animo e mascolinità, Montaigne scopre che una
mascolinità fragile sta alla base del valore tanto agognato dell‟imperturbabi-
lità. Nel saggio Con mezzi differenti si arriva allo stesso fine, che apre la raccolta,
il filosofo inverte il sistema dell‟etica stoica, mettendo in discussione il valore
di virtù tradizionalmente maschili, quali la spavalderia e la fermezza, valoriz-
zando al contrario la compassione e la pietà, ritenute in quest‟ottica proprie
di animi deboli e femminili, dal momento che «la pietà, secondo gli stoici, è
una passione viziosa». Si può dire che sciogliere il cuore a compassione è ef-
fetto di debolezza, benignità e mollezza, per cui accade che le nature più de-
boli, come quelle delle donne, dei fanciulli e del popolo, vi siano più sogget-
te, ma il vigore maschio e tenace, accompagnato spesso da orgoglio e ostina-
zione, negli esempi riportati, risulta più una causa che una soluzione alla vio-
lenza. In queste pagine Montaigne elenca una serie di aneddoti storici e con-
fronta gli effetti dei diversi atteggiamenti dei nemici sconfitti sui loro conqui-
statori vittoriosi. Un grande uomo come Alessandro non sempre compì gran-
di azioni: non ci fu perdono e considerazione per il valoroso e fiero Beti, i
soldati del tiranno Dionigi al contrario furono mossi a pietà dal coraggio di
Fitone, e la nobiltà e forza d‟animo mostrate dalle gentildonne bavaresi, du-
rante l‟assedio di Weinsberg, smorzò del tutto l‟inimicizia e il rancore del-
15 SENECA, De constantia, 1: «Tantum inter Stoicos, Serene, et ceteros sapientiam profes-
sos interesse quantum inter feminas et mares non inmerito dixerim, cum utraque turba ad
vitae societatem tantundem conferat, sed altera pars ad obsequendum, altera imperio nata sit».
16 M. DE MONTAIGNE, Saggi, cit., vol. 1, I, II, p. 12.
180 Sandra Plastina

l‟imperatore Corrado III. «L‟uomo è invero un soggetto meravigliosamente


vano, vario e ondeggiante. È difficile farsene un giudizio costante e unifor-
me». A differenza di Dio che non subisce alcuna modificazione nel tempo,
l‟uomo, al contrario, è, intus et in cute, mutazione e cambiamento: anzi, si
può dire che movimento e metamorfosi connotano la sua esistenza17. Il filo-
sofo francese seguendo le tracce pirroniane si chiede che cosa egli avrebbe
fatto se si fosse trovato al posto di Dionigi o di Alessandro, ammettendo la
sua «straordinaria debolezza per la misericordia e la mansuetudine». Immagi-
nandosi come un vincitore di fronte al nemico battuto, riconosce di essere
più naturalmente portato a cedere alla „femminile‟ compassione piuttosto
che alla „virile‟ stima. Montaigne individua nell‟immaginazione l‟originaria e
unica possibilità, più della parola stessa, di accedere all‟alterità, il veicolo che
permette di entrare in rapporto con l‟altro – in quanto gli permette di met-
tersi al posto dell‟altro, di diventare l‟altro18.

Immaginazione e questioni di genere

Nel ben noto capitolo dedicato alla forza dell‟immaginazione (I, XXI),
Montaigne presenta l‟imagination nel suo legame con la volontà, accentuan-
done i nessi con le potenzialità dell‟uomo: proprio per le caratteristiche che
tradizionalmente le sono attribuite di facoltà intermedia tra sensibilità e in-
telletto, oggetto e soggetto, particolare e universale, se ne pongono in risalto
la sua capacità di azione e il suo carattere anticipatorio e materializzante19.
Per il filosofo francese la vis immaginativa, come dimostra per lunghi tratti
l‟Apologie, deve trovare e adottare un metodo che solo potrà consentire un
uso legittimo e quindi costruttivo dell‟immaginazione, eliminando i danni pro-
dotti dal suo abuso o anche dal non uso di una facoltà che, se abbandonata a
se stessa, dà luogo a molteplici errori che vanno a confondersi con quelli pro-
dotti dall‟uso erroneo dell‟intelletto. Montaigne istituisce un gioco continuo
di rimandi speculari tra i prodotti dell‟immaginazione e i prodotti dell‟intel-
letto, tra l‟immaginazione e la costruzione della ragione. Gli atti interni sono

17 Molte recenti ricerche hanno contribuito a chiarire le posizioni scettiche del filosofo
francese, tra gli altri si rinvia a S. GIOCANTI, Penser l’irrésolution: Montaigne, Pascal, La Mother le
Vayer. Trois itinéraires sceptiques, Paris, Champion, 2001; V. CARRAUD, J.L. MARION (eds.),
Montaigne: scepticism, métaphysique, théologie, Paris, PUF, 2004, M.-L. DEMONET, A. LEGROS
(eds.), L’écriture du scepticisme chez Montaigne, Genève, Droz, 2004.
18 Cf. M. DE MONTAIGNE, L’immaginazione, a cura di N. Panichi, Firenze, Olschki, 2000,
pp. XV-XVI.
19 Cf. ROBERT KLEIN, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bru-
no, in ID., La forma e l’intellegibile, Torino, Einaudi, 1970, p. 45.
La sospensione delle differenze 181

al tempo stesso, immagini della fantasia e procedimenti della ragione 20 .


Fantasticheria «cheval eschappé» (I, 8), ma anche produzione delle cogitatio-
nes21, l‟immaginazione produttiva non è solo vis ma anche virtus imaginationis:
con la sua forza esercita un forte influsso sulla vita psichica, sulla salute del
corpo, produce miracoli, pratiche magiche e profezie. La vis imaginandi gene-
ra l‟evento, è action imaginative (II, 12), causa efficiente e azione materializ-
zante, essa diviene, nell‟epilogo del saggio, funzione della progettualità co-
sciente di cui è messaggera, perché porta sensi, significati, eventi, capaci di
incidere sul reale e di anticiparne le movenze. Gli esempi addotti in I, 21 per
dimostrare la ben nota tesi: Fortis imaginatio generat casum, posta all‟inizio del
saggio, sono in gran parte tratti da Agrippa e Paracelso. Tutto il saggio, teso
a esplicitare la forma materializzante dell‟immaginazione e in definitiva il suo
desiderio del reale, mette in discussione ancora una volta i presupposti stoici,
evidenziando l‟incapacità della volontà di controllare la facoltà immaginativa.
Disciplinare la forza dell‟immaginazione rappresenta senz‟altro per gli stoici
un momento indispensabile nella costruzione della virtù maschile e della tran-
quillità d‟animo che da essa proviene. Al quadro stoico Montaigne propone
un‟alternativa scettica: la mollesse dell‟immaginazione e in particolare la cre-
dulità che ne deriva, prepara la strada ad una forma di tranquillità molto più
accessibile dell‟imperturbabilità prescritta dagli stoici. L‟immaginazione ave-
va fatto irruzione con la sua potenza già nell‟incipit del saggio che precede il
XXI, dedicato alla filosofia come preparazione alla morte, d‟argomento deci-
samente stoico. L‟inizio del saggio XX e le affinità tematiche con il saggio d‟aper-
tura dell‟intera raccolta (Con mezzi differenti si arriva allo stesso fine) contribui-
scono ad alimentare un dialogo obliquo con lo stoicismo. Il filosofo comincia
con il richiamare la sua mollesse, che in queste pagine si presenta come una ca-
ratteristica della vis imaginationis: «Io sono di quelli che sentono moltissimo la
forza dell‟immaginazione». Se in I, 1 la mollesse riveste un valore terapeutico
in una società atrofizzata dall‟iper-mascolinità, nel Della forza dell’immagina-
zione, l‟impressionabilità che deriva da un eccesso di immaginazione appare
inizialmente come una minaccia alla salute e all‟integrità dell‟individuo. Co-
me in I, 1 e in I, 2, Montaigne comincia con il riportare la tesi stoica: un‟im-
maginazione indisciplinata compromette la sana e salda condizione psicolo-
gica a cui gli stoici aspirano, perché quando la volontà fallisce nel controllo
dell‟immaginazione, è impossibile raggiungere la tranquillità. In ultima ana-

20M. DE MONTAIGNE, L’immaginazione, cit., p. XI.


21Cf. J. STAROBINSKI, En guise de conclusion, in M. FATTORI, M. BIANCHI (eds.), Phantasia –
Imaginatio, Roma, Edizioni dell‟Ateneo, 1988, p. 566.
182 Sandra Plastina

lisi il filosofo insiste sul fallimento della volontà e mette in risalto quanto sia-
no vulnerabili i presupposti da cui la ricerca stoica prende le mosse per la
realizzazione di un maschile virtuoso. L‟erotizzazione del contagio («son im-
pression me perce», «je le couche en moy») anticipa il tema centrale di I, 21:
la sessualità. Montaigne dedica la maggior parte del saggio al racconto degli
aneddoti che concernono l‟impotenza della volontà messa a confronto con le
impotenze della sessualità. Non tutti gli effetti dell‟immaginazione, comun-
que, sono indesiderati. Il filosofo evoca gli effetti, non voluti, ma fortunati di
una immaginazione indomita, incluse le esplosioni notturne e i cambiamenti
di sesso. Grazie alla vis imaginativa Lucio Cossinzio, secondo la testimonianza
di Plinio (Historia naturalis, 7, 36) si trasforma in un uomo il giorno delle
nozze e grazie al veemente desiderio suo e della madre, Iphis appaga i voti
segretamente espressi. Il filosofo riferisce la ben nota storia raccontata da
Ovidio (Metamorfosi, IX, 794) di Iphis, la ragazza travestita dalla madre da uo-
mo, per sfuggire alla violenza del padre, che nel giorno del suo matrimonio
diventa effettivamente un uomo grazie al forte desiderio provato per la sua
promessa sposa. Dopo parecchi altri tributi alla forza dell‟immaginazione il
filosofo affronta l‟unico argomento che venga svolto con una certa ampiezza
in tutto il saggio: l‟impotenza e il potere che l‟immaginazione e le donne
hanno di provocarla. L‟angoscia maschile circa i rischi della femminilizzazio-
ne, o l‟acquisizione di tratti virili da parte delle donne, trovava di che ali-
mentarsi nella storia di Marie Germain e della sua metamorfosi: ex ragazza
di nome Marie, per sua stessa ammissione, saltando con troppo sforzo si pro-
cura la nascita del membro. Un desiderio ardente e ossessivo, commenta Mon-
taigne, ha spinto l‟immaginazione a incorporare, una volta per tutte, la parte
virile nel gentil sesso. I comportamenti impropri paiono capaci di causare un
vero e proprio cambiamento di sesso. Come lo stesso Montaigne aveva potu-
to leggere nei resoconti Ambroise Paré, il chirurgo di Carlo IX, Marie, era
stata condotta dai «movimenti bruschi e violenti», o da altre attività virili, al
cambiamento di sesso. Nella storia di Paré, ripresa da Montaigne, i movi-
menti violenti hanno un ruolo causale: il medico offre una spiegazione, inte-
ramente naturalistica, della trasformazione di Marie: il fatto è che «le donne
hanno celato nel corpo tutto ciò che gli uomini hanno esposto all‟esterno,
eccettuato soltanto che le donne non hanno altrettanto calore, né la capacità
di spingere al di fuori ciò che la freddezza del loro temperamento trattiene
all‟interno»22. Qualunque cosa il filosofo pensi sia realmente avvenuta alla
ragazza che aveva saltato la siepe, la sua esposizione decisamente non ce lo
22 T. LAQUER, L’identità sessuale dai Greci a Freud, Bari, Laterza, 1992, p. 169.
La sospensione delle differenze 183

dice, rifiutandosi di decidere la questione di che cosa appartenga all‟immagi-


nazione e che cosa alla realtà. La forza dell‟immaginazione è anche forza di
trasformazione. Non è chiaro come il lettore debba intendere la seguente
straordinaria affermazione, che sembra conferire un‟aria di normalità a quel
che avvenuto a Iphis e Marie, in base all‟argomento che noi uomini possiamo
ben concedere un pene a tutte le donne, giacché esse se lo procurerebbero
comunque. Il filosofo allude che passi più lunghi delle loro gambe possono
portare le ragazze a diventare ragazzi? È anche evidente che nell‟economia
generale del saggio è privilegiato il cambiamento di sesso nella direzione fem-
mina-maschio: il tropo dominante è la donna che recita la parte dell‟uomo o
che diventa uomo. «È verosimile che il principale credito che si dà ai mira-
coli, alle visioni, agli incantesimi e a simili fatti straordinari derivi dalla po-
tenza dell‟immaginazione che agisce principalmente sugli animi del popolo,
più malleabili. Si è colpita la loro credulità a tal punto che pensano di vedere
quello che non vedono»23. Marie Germain può non avere cambiato sesso, ma
chi può affermare che un tale cambiamento non può aver luogo? Che è inve-
rosimile? Il saggio d‟apertura dell‟opera non comincia forse con il sottolinea-
re la malleabilità che Montaigne stesso dice di condividere con la gente co-
mune e con le donne? Come le facce di una stessa medaglia, la mascolinità
spinge da un lato a compiere atti di clemenza e dall‟altro a commettere atti
di crudeltà e sadismo; chi può escludere che anche l‟effeminata „malleabilità‟
offra almeno due aspetti? La mollesse rende vulnerabili alla potenza dell‟im-
maginazione altrui e lascia penetrare in noi l‟impotenza, la malattia, e persi-
no la morte. Ma dall‟altro lato apre il varco al dubbio che permette la so-
spensione del giudizio. E quando lo scettico sospende il giudizio, la tranquil-
lità segue, come un ombra segue il corpo24. Il filosofo francese evoca la mu-
tabilità del genere come misura del potenziale dell‟immaginazione umana, la
cui vastità e impredicabilità è oggetto di meraviglia. Dopo parecchi altri tri-
buti alla forza dell‟immaginazione egli affronta l‟unico argomento che venga
svolto con una certa ampiezza in tutto il saggio: l‟impotenza e il potere che
l‟immaginazione e le donne hanno di provocarla. L‟angoscia maschile circa i
rischi di femminilizzazione, o l‟acquisizione di tratti virili da parte delle don-
ne, trovava di che alimentarsi nella storia di Marie-Germain, ma non può es-
sere stata causata, né rafforzata dal tipo di vicende che essa rappresenta. In
altre parole i cambiamenti di sesso reali non sono i correlati oggettivi dei
cambiamenti di sesso immaginari. Il problema è che nel mondo immaginario

23 M. DE MONTAIGNE, Saggi, cit., vol. 1, I, XXI p. 128.


24 SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, a cura di A. Russo, Bari, Laterza, p. 9-10
184 Sandra Plastina

che Laquer descrive non esiste nessun sesso „reale‟ che fondi e distingua su
un terreno di principio, in maniera riduzionistica, due generi. Il genere è
parte dell‟ordine delle cose e il sesso, seppure non interamente convenzio-
nale, non ha neppure la solidità di una realtà fisico-corporea25. Le differenze
sessuali non possono essere considerate delle entità garantite e individuate
indubitabilmente. Nel saggio Degli zoppi (III, 11), Montaigne applica diret-
tamente il modo scettico di ragionamento circolare, o rinvio ad infinitum26,
per decostruire l‟identità di genere. Il genere svuotato di essenza, l‟operazio-
ne, che, seguendo le riflessioni di Rebecca Wilkin, abbiamo indicato come la
sospensione delle differenze27, offre un‟occasione per la sospensione del giu-
dizio. Tra i saggi che si occupano dell‟immaginazione il Des boyteux ribadisce
la condizione per natura zoppicante dell‟intelletto: zoppa per eccellenza è la
ragione umana nella sua funzione claudicante di strumento giudicante. Il sag-
gio è un‟imponente costruzione retorica che, al di là del riferimento erotico
finale («lo zoppo lo fa meglio», ripreso dagli Adagia di Erasmo, che a sua
volta lo trae da uno dei Problemata aristotelici) che Montaigne registra come
pregiudizio in cui lui stesso dice di essere caduto, ribadisce la natura clau-
dicante dell‟intelletto. Tralasciano spesso i fatti ma esaminano attentamente
le conseguenze: «Si comincia di solito così: „Come avviene questo?‟ – „Ma
avviene? Bisognerebbe dire»28. Per illustrare la predilezione degli uomini per
la ricerca delle cause, il filosofo glossa un proverbio italiano: non conosce
Venere nella sua perfetta dolcezza chi non è andato a letto con la zoppa. Mon-
taigne enumera varie spiegazioni fisiologiche fornite dagli specialisti: questi
esempi servono la causa di ciò che si diceva all‟inizio: che i nostri ragiona-
menti anticipano spesso i fatti, e l‟estensione della loro giurisdizione è così
infinita che giudicano e si esercitano sulla vacuità stessa e sul non-essere. Ol-
tre alla duttilità della nostra capacità inventiva nel trovare giustificazioni a
ogni sorta di sogni, la nostra immaginazione si trova nelle condizioni favo-
revoli di ricevere idee da apparenze fallaci. Commentando un proverbio po-
polare come una verità supportata da un assenso universale, Montaigne col-
pisce al cuore il dogmatismo di Bodin, molto probabilmente non solo riguar-

25 T. LAQUER, L’identità sessuale, cit., pp. 7-13.


26 SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, cit., p. 37: «Il modo per il quale si cade all‟infinito,
è quello in cui ciò che si reca a prova della cosa proposta, noi diciamo che ha bisogno, a sua
volta di prova, e questo, a sua volta, di un‟altra prova, all‟infinito; talché non avendo noi on-
de cominciare un‟argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio».
27 R.M. WILKIN, Women, Imagination and the Search for Truth in Early Modern France, Alder-

shot, Ashagate, 2008.


28 M. DE MONTAIGNE, Saggi, cit., vol. 2, III, XI, p. 1370.
La sospensione delle differenze 185

do alla dura condanna della stregoneria nella Demonomanie des sorciers («le
streghe dei miei dintorni corrono il rischio di morire per l‟opinione di
qualche nuovo autore che vuol dar corpo alle loro fantasie»29), ma anche per
le opinioni espresse ne Les Six livres de la République, riguardo alla sottomis-
sione della donna, iscritta nella natura delle cose e riaffermata a garanzia del-
l‟ordine sociale e politico, nel rispetto dei rapporti di forza. L‟assunto della
naturale subordinazione della donna all‟uomo maschera la circolarità di un
sistema di pensiero auto referenziale che si vede ribaltato nella storia delle
Amazzoni raccontata nel saggio Degli Zoppi. Montaigne riporta dagli Adagia
di Erasmo (III, 9, 49) il proverbio «lo zoppo lo fa meglio», e precisa che lo si
dice tanto dei maschi che delle femmine. Infatti l‟affermazione ha a che fare
con la risposta data dalla regina delle Amazzoni allo Scita che la invitava al-
l‟amore: «lo zoppo lo fa meglio di tutti». In quello stato al femminile, le
donne, per sottrarsi al loro dominio, storpiavano i maschi sin dall‟infanzia,
braccia, gambe e altre membra che davano loro superiorità su di esse. E si
servivano di loro unicamente per quello di cui noi ce ne serviamo qui. Sesto
Empirico negli Hipotyposeon libri III, rifacendosi ad Erodoto (IV, 114), raccon-
ta che le Amazzoni azzoppavano i loro maschi, affinché non potessero fare
nulla di virile, e delle guerre si occupavano esse stesse, «mentre presso di noi
si crede che stia bene il contrario»30. Non si tratta dunque di stigmatizzare la
barbarie delle Amazzoni ma piuttosto di focalizzare l‟attenzione sul fatto che
«qui, presso di noi» si adopera la stessa violenza istituzionalizzata, eccetto
che i termini della gerarchia sono invertiti. All‟apice del matriarcato, come
nella società patriarcale, il dominio di un sesso sull‟altro è una questione di
forza e di potere. In un‟ottica di decostruzione del genere la „virilità‟ è sem-
plicemente la posizione dominante che si occupa in società, e grazie all‟uso
della violenza anche le donne possono essere maschili se provviste di suf-
ficiente potere per mantenere il loro predominio.

Scetticismo e uguaglianza
Il segreto di un pensatore come Montaigne, pensatore di un epoca di
passaggio, è quello di far posto, nel vuoto aperto dal dubbio e dalla critica,
non a nuovi fondamenti per nuove costruzioni come farà Cartesio, ma al
fiorire di una libertà spirituale che si alimenta del senso della fragilità senza
rimedio della «natura umana»31. La grande forza degli Essais è provata dalla
29 Ivi, pp. 1376-1377.
30 SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, cit., p. 172-173.
31 L. MURARO, Il dio delle donne, Milano, Mondadori, 2003, p. 45. Le considerazioni di
186 Sandra Plastina

notevole ricezione femminile, studiata da Benedetta Craveri32. Il brano più


citato a sostegno di un Montaigne fautore dell‟uguaglianza tra i sessi è una
parte del cap. V del terzo libro, in cui si parla del matrimonio. A proposito
della regola della continenza, gli uomini impongono alle donne comporta-
menti contraddittori, le vogliono contemporaneamente «chaudes et froides»,
colpendo l‟ipocrisia nei comportamenti umani e soprattutto nell‟educazione
femminile. Tutto nella società tende all‟accoppiamento e la natura impone
certi comportamenti che invece vengono condannati e repressi nella società.
Ancora nel saggio Su alcuni versi di Virgilio, Montaigne pone il problema del
rapporto tra i due sessi e il piacere in termini nuovi, auspicando uno scambio
basato sull‟intesa e l‟uguaglianza33. Come leggiamo nell‟introduzione di Bar-
sella all‟edizione italiana dell‟opera di Marie de Gournay34, queste considera-
zioni del filosofo francese vengono spesso alla memoria pensando al sodalizio
con la giovane scrittrice, che nella sua opera approfondisce e radicalizza le ri-
flessioni contenute nei Saggi35. Per l‟autrice dell‟Egalité la disuguaglianza tra
gli uomini e le donne è un atto di usurpazione, ed è culturale dal momento
che le donne non ricevono un‟educazione che possa considerarsi tale36. Mlle
de Gournay impugna la cultura come forma di ribellione nel Grief des dames
(apparso nell‟edizione completa delle sue opere del 1626) e soprattutto in
alcune pagine contenute nella lunga digressione della prima edizione del

Montaigne sulla fragile natura umana, frutto dell‟insegnamento scettico, sono al centro del
contributo di C. LAMORE, “Montaigne. Uno scettico inquieto”, La società degli individui 33
(2008), pp. 142-158.
32 BENEDETTA CRAVERI, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.
33 M. DE MONTAIGNE, Saggi, cit., vol. 2, III, V, pp. 1133: «Le donne non hanno affatto
torto quando rifiutano le norme di vita che sono adottate nel mondo, tanto più che sono gli
uomini che le hanno fatte senza di loro» e ancora p. 1194: «dico che maschi e femmine sono
modellati nello stesso stampo: a parte l‟educazione e il costume, la differenza non è grande».
34 M. DE GOURNAY, Dell’uguaglianza degli uomini e delle donne, a cura di A.M. Barsella,
Genova, ECIG, 1996.
35 Sui rapporti tra Montaigne e de Gournay si veda Montaigne et Marie de Gournay, Actes
du Colloque international de Duke réunis et présentés par Marcel Tele, Paris, Champion,
1997, pp. 126 sgg. in cui si discute delle idee libertine dell‟autrice dell‟Apologia, grande amica
di La Mothe Le Vayer, che, secondo Pintard, teneva nel suo salotto «ècole de libertinage». Ed
inoltre su questi temi cf. G. CONTI ODORISIO, “Montaigne et M. de Gournay”, Il pensiero poli-
tico 22 (1989), pp. 227-247.
36 M. DE GOURNAY, Dell’uguaglianza, cit., p. 59: «Non c‟è maggior differenza tra gli uo-
mini e le donne, che tra loro e loro stesse, a seconda dell‟educazione che hanno avuta, del-
l‟esser state allevate in città o in campagna, o della Nazione di appartenenza? E perché la loro
istruzione o educazione alla vita attiva e alle Lettere al pari degli uomini non dovrebbe colma-
re il vuoto che appare solitamente tra le teste degli uomini e le loro, poiché l‟educazione è di
importanza tale che una sola delle sue branche, cioè il commercio del mondo, frequente per
le Francesi e le Inglesi, e scarso per le Italiane, fa sì che queste siano in generale di tanto supe-
rate da quelle?».
La sospensione delle differenze 187

Proumenoir de Monsieur de Montaigne del 1594. Sono pagine sull‟educazione


trascurata delle donne a cui più tardi si mescolerà, nei saggi femministi, il
tema della virtù e della dignitas, il tema della cultura e della libertà, premesse
delle qualità positive. Questi scritti testimoniano quanto la questione della
donna acquisti un vigore nuovo e una carica autobiografica che conferisce lo-
ro una grande intensità. In The Blackwell Guide to Feminist Philosophy (a cura di
L.M. Alcoff e E. Feder Kittay, Oxford, Blackwell, 2007), E. O‟Neill dedica
un interessante saggio al caso de Gournay, prendendo le mosse dal mancato
riconoscimento filosofico dell‟opera della curatrice degli Essais di Montaigne.
La difficoltà ad inquadrare l‟Egalité e a comprenderne appieno lo stile argo-
mentativo sono individuati dalla studiosa come alcuni dei motivi alla base
dell‟assenza della de Gournay dalle storie della filosofia. Il metodo usato
dalla filosofa, che si ispira al pirronismo fideistico, è stato infatti sostanzial-
mente incompreso: le sue affermazioni a favore delle donne, che in apparen-
za risultano inconsistenti e non supportate da argomentazioni razionali con-
vincenti, sono in realtà l‟espressione del suo scetticismo teso ad evidenziare
le vane pretese della ragione. Quando infatti la scrittrice afferma che non ad-
durrà prove a favore della sua tesi dell‟uguaglianza tra i sessi, preferendo in-
vece far ricorso da una parte all‟autorità di Dio stesso e ai pilastri della sua
Chiesa, e dall‟altra ad una serie di autorevoli testimonianze del passato, ren-
de evidente la sua opzione scettica. La vera natura della donna non può es-
sere conosciuta dalla ragione, ma soltanto dalla divina rivelazione. Le prime
parole dell‟Egalité che si rivolgono alla «maggior parte di coloro che difendo-
no la causa delle donne contro la superiorità dettata dall‟orgoglio che gli uo-
mini si attribuiscono», entrano in medias res, affrontando una questione d‟at-
tualità in cui le donne stesse diventano campionesse della loro causa. Ma se
molte delle prese di posizione a favore delle donne ribaltano l‟assunto inizia-
le: «quant à moy – afferma de Gournay – qui fuis toutes extrememitez, je
me contente de les esgaler aux hommes: la Nature s‟opposant aussi pour a
regard, autant à la superiorité qu‟à l‟inferiorité»37. L‟autrice rivendica l‟ori-
ginalità della sua opera, rifiuta le regole di un gioco dove tutto è reversibile
all‟interno di una concezione monovalente e sempre gerarchica, per propor-
re, invece, un vero dibattito sulla natura e sul ruolo delle donne. Dopo que-
sta audace proposta, che annuncia una rottura con le forme tradizionali
dell‟apologia del sesso femminile, l‟autrice opera una sorta di marcia indie-
tro, non facilmente comprensibile. L‟invocazione iniziale alla Natura, che
pare richiamare alla mente il concetto di „eguaglianza naturale‟ e potrebbe
37 M. DE GOURNAY, Ouvres complètes, 2 voll., Paris, Honoré Champion, I, p. 965.
188 Sandra Plastina

far pensare alla questione filosofica che riguarda la legge di natura, non viene
sviluppata e la de Gournay non solo non inserisce le sue argomentazioni in
questa cornice teorica di riferimento, ma pare smentire l‟assunto di partenza.
È vero che la Natura si oppone sia alla superiorità che alla inferiorità: essa
non ci fornisce nessuna risposta e da essa dunque non possiamo trarre nes-
suna verità; per questo motivo il ricorso al tesoro di „sentenze‟ e l‟enumera-
zione di esempi illustri si sostituiscono all‟argomentazione razionale. Le au-
torità sacre e profane sono convocate per attestare una verità che fonda la sua
legittimità all‟interno di una lunga tradizione culturale. La filosofa rilegge
Platone, Aristotele, Cicerone, i Padri della Chiesa e riscopre l‟eredità cultu-
rale trasmessa dai compilatori e da commentatori come Pausania, Suida, Dio-
gene Laerzio, per riflettere sul posto occupato dalle donne nella vita attiva,
sulle loro attitudini intellettuali, sulle loro virtù morali e religiose. Più che
l‟elenco di donne illustri, che ritroviamo in tutte le opere di apologetica fem-
minile, la nuova esegesi, proposta nell‟Egalité, degli exempla più famosi, può
essere definita come una illustrazione e una conseguente difesa della ragione
femminile. La diversa interpretazione da parte dell‟autrice del passo delle
Scritture che riguarda la genesi dell‟uomo e della donna è di grande audacia,
non solo perché entra nel campo minato delle controversie teologiche, noto-
riamente interdetto alle donne, ma soprattutto perché trova un fondamento
„forte‟ alla nozione di uguaglianza, che sta alla base della sua opera. L‟Egalité,
al di là della sua forma retorica di stampo convenzionale, propone il ripensa-
mento radicale di un concetto essenziale del pensiero del Rinascimento e
contiene una originale riflessione filosofica. L‟interpretazione della Scrittura
che giustifica l‟esistenza di un ordine gerarchico tra i sessi, in nome della di-
gnitas hominis, è certamente da considerarsi «le plus grief des blasphèmes».
Le parole della Egalité devono tutta la loro forza e il loro senso all‟attacco
frontale sferrato contro coloro che «trompettent par les rues que les femmes
manquent de dignité». La novità più sorprendente sta proprio nell‟affrontare
il rapporto donna-religione, in cui con la massima semplicità de Gournay so-
stiene tesi rivoluzionarie. L‟uomo fu creato maschio e femmina e non la don-
na dalla costola di Adamo: nella tradizione cattolica dai Vangeli alle lettere di
Paolo, alle varie interpretazioni dei Padri della Chiesa esistono profonde di-
vergenze sull‟idea di donna. Coerentemente la filosofa, evita il riferimento al-
la tradizione aristotelico-tomista per andare alle fonti di un cristianesimo pri-
mitivo: rifacendosi ad esempio alle Omelie di San Basilio sostiene l‟uguaglian-
za della natura maschile e femminile, e il possesso per i due sessi delle stesse
virtù. La femmina nella stessa guisa che il maschio è stata fatta dal Creatore
La sospensione delle differenze 189

capace di virtù. Non siamo forse in tutto e per tutto costituite d‟una medesi-
ma stirpe, d‟una medesima materia che gli uomini? Le tesi più radicali sul-
l‟uguaglianza tra i sessi si trovano proprio nella discussione sulla predicazione
e sul sacerdozio Gournay infatti si confronta con due fatti indubitabili: l‟in-
giunzione che San Paolo rivolge alle donne di rimanere in silenzio in Chiesa e
la mascolinità di Cristo. Ma Marie ricorda che in molte comunità dell‟anti-
chità il sacerdozio era aperto ad entrambi i sessi: a tale proposito menziona la
maggiore autorità accordata alle donne nella Chiesa delle origini, in partico-
lare il loro ruolo nella somministrazione del sacramento del battesimo 38 .
Citando San Gerolamo, si può concludere che per ciò che attiene al servizio
divino, sono da tenere in conto la mente e la fede e non certo il sesso. L‟af-
fermazione non si presenta direttamente come una critica a San Paolo, ma
certo ne ha l‟apparenza: i suoi comandamenti alle donne sono da intendersi
come mere concessioni ai costumi e alle abitudini dell‟epoca39. Un uso fem-
minista e piuttosto audace della dottrina dell‟adattamento storico di alcuni
principi, che più tardi sarà radicalizzato e applicato da Poulain de la Barre.
Marie de Gournay assume una posizione molto decisa quando affronta il te-
ma dell‟autorità maschile: l‟inferiorità non è solo frutto della mancata istru-
zione o il risultato di un pregiudizio, ma nasce dal proposito di conservare
l‟autorità e di mantenere la pace tra i sessi, ponendo quello femminile in una
condizione di subordinazione. Si tratta cioè dell‟inizio della tesi dell‟oppres-
sione femminile. Anche l‟esclusione delle donne dalla somministrazione dei
sacramenti da parte dei Padri della Chiesa è spiegata dal loro pregiudizio ma-
schile e dal desiderio di assicurare al ruolo maschile “sempre di più” indiscus-
se prerogative. Come Montaigne nell‟Apologia, de Gournay ci invita a rive-
dere il concetto di dignità che non designa un valore assoluto ma la possibi-
lità che ciascun essere umano ha di andare verso la piena realizzazione di sé.
Le giuste azioni sono il frutto della stima e della considerazione di sé. Al cuo-
re del dibattito si trova naturalmente ancora la questione dell‟educazione
delle donne. Nella prima edizione del Proumenoir, la narrazione della morte
di Alinda è interrotta da una lunga digressione che affronta una questione
molto dibattuta dopo Christine de Pizan e durante tutto il XVI secolo: il rap-

38 M. DE GOURNAY, Œuvres, cit., I, pp. 982-983.


39 Non è facile determinare il peso di queste affermazioni nel complesso delle idee filo-
sofiche e religiose di de Gournay. I suoi espliciti riferimenti alla religione sono aperti a dif-
ferenti interpretazioni. M. ILSLEY, A Daughter of the Renaissance, Marie le Jars de Gournay: Her Li-
fe and Works, L‟Aja, Nijhoff, 1963, la considera una proto-giansenista, e G. DOTOLI, “Montai-
gne et les libertins via Mlle de Gournay”, Journal of Medieval and Renaissance Studies 25 (1995),
pp. 381-405 la ritrae come una cauta libera pensatrice.
190 Sandra Plastina

porto tra donne e sapere. Con un chiaro riferimento a quanto affermato nei
Saggi (III, 5), Marie, la figlia adottiva di Montaigne, vuole dimostrare che la
prudenza e le altre virtù si acquisiscono con l‟esercizio del sapere e appren-
dendo la filosofia. La continenza, ad esempio, non è certo una virtù per na-
tura, ma si deve alla legge civile che conviene rispettare. Tutta la strategia ar-
gomentativa di de Gournay mette in luce l‟incoerenza della „barbarie del se-
colo‟: si pretende che le donne esercitino tutte quelle virtù da „guardiane dei
valori domestici‟, e nello stesso tempo sono interdette loro «le scienze, lo
studio della morale e della storia che solo permettono la vera prudenza e la
vera saggezza». È vero che l‟ideologia del Rinascimento si compiace delle
donne erudite e le considera come l‟ornamento e la testimonianza di una gran-
de cultura, come attesta l‟eulogia. La filosofa conduce un‟analisi lucida: ella
sa bene che la sua parola è una parola di donna e di donna colta, due buone
ragioni per non essere ascoltata. In un‟epoca in cui la cultura, l‟educazione,
l‟onestà non trovano più il loro posto, soppiantate dalla pedanteria dei sa-
vants e l‟ignoranza del bel mondo, l‟autrice dell‟Egalité misura tutta la singo-
larità della sua posizione: ben al di là della querelles des sexes, alla fine con lu-
cidità affronta la questione della legge e delle istituzioni. Il problema della edu-
cazione e le ragioni storiche della mancata istruzione delle donne sono alle ori-
gini di tutte le ingiustizie. Lo studio comparato delle differenti condizioni del-
le donne nelle varie nazioni europee e nelle diverse società civili permette di
rifiutare il concetto stesso di ineguaglianza naturale. L‟impegno di de Gour-
nay verso la causa delle donne va bene al di là delle dichiarazioni contenute
nell‟Egalité o del suo Grief des dames. L‟autrice contesta il principio di un mo-
dello normativo, l‟uomo superiore, la donna onesta, ecc., mettendo in discus-
sione le fondamenta stessa dell‟ideologia. Alla nozione di nobiltà naturale,
quella del sesso o del rango, sostituisce l‟idea di una dignità individuale che
spesso si conquista contro il costume e l‟opinione corrente. La differenza
non sarà più il marchio di una inferiorità e de Gournay, con i suoi temi, pro-
voca volontariamente il lettore. Sul piano delle idee il discorso femminista
non conosce mutazioni rilevanti: ancora alla fine del ‟600 gli argomenti so-
stanzialmente non cambiano, e gli autori continuano a sentire il bisogno di
dimostrare i meriti del sesso femminile, ma i problemi delle donne legati al-
l‟educazione e alla cultura sono considerati in un contesto più ampio e il ca-
rattere della discussione diventa più filosofico che polemico. L‟evoluzione
del genere si fa sentire soprattutto al livello delle voci che lo esprimono. Nei
primi decenni il discorso femminista si coglie nei trattati scolastici, pedanti e
metodici, che prendono la forma di discorsi, arringhe e apologie. Alla fine
La sospensione delle differenze 191

del ‟600, al contrario, si introducono nel genere riflessioni morali, raccolte


di ritratti, di caratteri, elogi che fioriscono in quegli anni. Adottando le prati-
che letterarie in voga, il discorso femminista contribuisce a favorire un rin-
novamento e un‟espansione del genere oratorio. Le donne non sono inferiori
agli uomini né per quanto riguarda le qualità fisiche né per le capacità intel-
lettuali. La pretesa inferiorità intellettuale ha come causa principale l‟iniquo
costume che le mantiene in una condizione di ignoranza. Le donne non sono
dotate di quelle qualità tradizionalmente attribuite al loro sesso (la pietà, la
dolcezza, la compassione, la sottigliezza, la risorsa dell‟immaginazione e del-
la facilità di parola), ma anche un certo numero di qualità mascoline: il co-
raggio, ad esempio, e la costanza. I motivi che sono alla base di questo dise-
gno di assoggettamento e di esclusione delle donne sono chiari: la gelosia,
l‟invidia e soprattutto il timore che l‟emancipazione intellettuale della donna
possa provocare un cambiamento dei ruoli tradizionali assegnati ai due sessi.
Combattendo per potersi esprimere e rivendicando il diritto a conoscere,
queste donne provano su se stesse le discriminazioni che esistono in pratica
frutto della mentalità del tempo. Nella società patriarcale dell‟Ancien Régime,
le parole dette dalle donne non sono prese sul serio («C‟est une femme qui
parle»), come lamenta Marie de Gournay nel suo Grief des Dames (1626), tan-
to orgogliosa da non temere di confessare che lo sa per esperienza personale:
«Avessero le Donne le potenti argomentazioni di Carneade, non c‟è nessuno
per quanto mediocre, che non le rimbecchi con l‟approvazione della maggio-
ranza degli astanti, quando con un sorriso soltanto, o qualche scotimento di
testa, la sua muta eloquenza avrà detto: è una donna a parlare»40. Le donne
che scrivono scelgono modi indiretti e talvolta mascherati per trattare que-
stioni vitali, cercando di conciliarle con lo spirito del loro tempo, con un ap-
proccio che agli occhi di un lettore moderno può apparire conservatore. Per
esempio enumerando i vantaggi che l‟emancipazione femminile comporta
per l‟uomo, o sottolineando che il sapere favorisce l‟esercizio delle virtù in-
dispensabili per un buon matrimonio (fedeltà, obbedienza, sottomissione).
Nel Seicento il discorso femminista è un discorso che dietro un‟apparente e
talvolta disarmante innocenza lascia scoprire i pensieri più innovativi e le
questioni più radicali. Nel corso del secolo la nozione di uguaglianza dei sessi
divenne parte del vocabolario di molti europei colti, specialmente in Francia.
Mentre l‟opinione comune continuava ad affermare la superiorità del ma-
schio in tutti i campi della vita, aumentava il numero di coloro che comincia-
rono a non accettare il dato della superiorità maschile come un‟espressione
40 M. DE GOURNAY, Dell’uguaglianza degli uomini e delle donne, cit., p. 81.
192 Sandra Plastina

dell‟ordine naturale o divino del mondo. È importante notare che le istanze


femministe si fecero sentire ben prima dell‟affermarsi della cultura illumini-
sta e come afferma Siep Stuurman: «Early-modern feminism cannot, there-
fore, be explained as a belated application of Enlightenment philosophy to
gender: it should rather be regarded as one of the critical discourses that
went into the making of the Enlightenment»41. Il femminismo del XVII secolo
fornì due importanti contributi al primo Illuminismo: l‟invenzione di un con-
cetto moderno e universale di uguaglianza, e la problematizzazione del gene-
re. Con la loro „decostruzione‟ della nozione di gerarchia dei sessi, ritenuta
senza tempo e indiscutibilmente naturale, alcune posizioni filosofiche spiana-
rono la strada all‟idea illuministica che il genere fosse un prodotto dell‟am-
biente sociale, e potesse essere discusso in termini di teoria politica, ricono-
scendo il potere di trasformazione della cultura.

41 S. STUURMAN, The Deconstruction of Gender: Seventeenth-Century Feminism and Modern Equality,


in S. KNOTT, B. TAYLOR (eds.), Women Gender and Enlightenment, Basingstoke, Palgrave Mac-
millan, 2005, pp. 371-388.
ROCCO SACCONAGHI

Merleau-Ponty e il rendersi visibile


dell’inizio delle cose

«Dirò subito che la grande e altisonante massima: Conosci te stesso! mi è sem-


pre parsa sospetta, come un‟astuzia di preti segretamente in combutta per
confondere l‟uomo con pretese irrealizzabili e deviarlo dall‟attività nel mon-
do esterno verso una falsa contemplazione interna. L‟uomo conosce se stesso
nella sola misura in cui conosce il mondo, di cui ha coscienza soltanto in sé,
come ha coscienza di sé soltanto in esso»1: in questa affermazione di Goethe
è vividamente espressa una prospettiva che caratterizza una buona parte della
filosofia degli ultimi due secoli, secondo cui il realizzarsi di una piena autoco-
scienza – lungi dal configurarsi nei termini di una riflessione introspettiva che
assume come tema una presunta “interiorità” opposta all‟“esteriorità” – pre-
senta come propria condizione l‟attuazione e l‟approfondimento del proprio
rapporto con il mondo. Non solo non si oppongono la conoscenza di sé e la
conoscenza del mondo, ma nemmeno possono essere considerate parallele o
alternative la conoscenza come tale e l‟azione: è l‟«attività nel mondo» che ci
permette una reale autoconoscenza, poiché l‟azione costituisce un carattere
ineliminabile del rapporto con il mondo, cioè dell‟esperienza. A sua volta,
l‟azione presenta una caratteristica essenziale: una peculiare produttività, che
perciò accompagnerà sempre, come sua inevitabile implicazione, ogni forma
di conoscenza.
Il capitolo 5 di Quando il verbo si fa carne2 di Paolo Virno, dedicato ad un
“Elogio della reificazione”, ospita un‟originale riabilitazione di questa catego-
ria e, tramite un suo radicale ripensamento, giunge a identificarvi la condi-
zione stessa dell‟autocoscienza: in questo modo, a nostro parere, eredita
l‟istanza goethiana radicalizzandola. Virno infatti propone una griglia concet-
tuale tripartita secondo cui alla reificazione, intesa come il rendersi concreta-

1 J.W. GOETHE, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, tr. it. di

S. Zecchi, Milano, Guanda, 2008, p. 146. Il presente lavoro nasce come rielaborazione di
una mia relazione di approfondimento del Seminario Dottorale “Feticismo e reificazione:
una indagine su due parole-chiave del pensiero critico moderno”, tenuto dal Prof. Virno
presso l‟Università della Calabria dal 28 al 30 maggio 2008.
2 P. VIRNO, Quando il verbo si fa carne, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 193-209 193


194 Rocco Sacconaghi

mente esperibile delle condizioni di possibilità dell‟esperienza stessa, si op-


pongono l‟alienazione e il feticismo, solitamente pensati invece come sue de-
terminazioni interne o suoi inevitabili esiti3. «La reificazione – scrive Virno –
colloca il trascendentale fuori dell‟Io e, proprio per questo, consente all‟Io di
farne esperienza diretta, evitandogli così di precipitare in quello stato di alie-
nazione nel quale si alternano senza posa ascetismo venato di malinconia e
ironico disincanto»4; il feticismo, d‟altro canto, lungi dal riconoscere un «te-
nore cosale alle condizioni di possibilità dell‟esperienza»5, «spaccia l‟empiri-
co per trascendentale», mentre la reificazione «culmina nella rivelazione em-
pirica del trascendentale», svelando «l‟aspetto cosale della mente»6.
Nella filosofia di Merleau-Ponty ci pare di ravvisare alcuni “movimenti”
che chiarificano l‟istanza di Virno, e a loro volta sono da essa illuminati. In
particolare, tramite l‟analisi fenomenologica dell‟opera pittorica di Cézanne
(che, come vedremo, funge da tema e al contempo da paradigma dell‟analisi
stessa), individuata come luogo di emergenza ed esplicitazione (che giunge sino
ad una reificazione) dello strato originario-trascendentale dell‟esperienza,
Merleau-Ponty descrive lo svolgimento dell‟autoconoscenza come piena at-
tuazione di quel commercio con il mondo già da sempre in atto, fedele in
questo al „programma‟ di Virno: «È il “partito preso delle cose” (per usare
l‟ammirevole espressione del poeta francese Francis Ponge) a far sì che il
dialogo dell‟anima con se stessa non si riduca a un brontolio smozzicato e

3 «L‟alienazione e il feticismo sono possibilità derivate, che articolano negativamente,

sul piano storico e sociale, il basilare modo di essere della reificazione. Possibilità privativa,
l‟alienazione; possibilità distorsiva, il feticismo» (ivi, p. 137). La reificazione, infatti, prima
e più che essere qualcosa “da realizzare”, costituisce la struttura dinamica stessa del sogget-
to umano in quanto autocosciente. Come figure filosofiche dell‟alienazione Virno indica
l‟ineffabilità dell‟io in Kant e l‟ironia teorizzata dai romantici (Schlegel e Solger), mentre
nella categoria di “oggetto semplice” di Russell vede un caso eclatante di feticismo.
4 Ivi, p. 136. Tramite un‟originale interpretazione del carattere proposizionale dell‟«Io

penso» kantiano, Virno giunge a identificare la radice dell‟autocoscienza nella natura perfor-
mativa dell‟atto linguistico: «l‟autocoscienza ha la forma e le prerogative di un enunciato
performativo. L‟Io puro, sottostante alle categorie a priori che organizzano il pensiero, non
è certamente una sostanza, ma neanche un presupposto ineffabile: esso consiste piuttosto
in un atto linguistico», che non può che essere «estrinseco, fenomenico, percettibile» (ivi,
132). Il tentativo del presente lavoro consiste invece nel proporre come principio dell‟at-
tuazione dell‟autocoscienza il carattere performativo (nel senso forte di creativo) della perce-
zione stessa – in quanto espressione primordiale –, prima ancora che dell‟atto linguistico, e
il carattere essenzialmente rivelativo (produttivo di conoscenza) di ogni gesto – carattere
che si rivela eminentemente nel gesto artistico della pittura.
5 Ivi, p. 136.
6 Ivi, p. 114.
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 195

privo di senso. Da questo rovesciamento della consueta gerarchia tra realtà


cosale e intimi trambusti dell‟Io si può ricavare, forse, un principio cardinale
della reificazione»7. Il proponimento di questa nota è perciò quello di rileg-
gere, tramite le categorie elaborate da Virno, l‟analisi di Cézanne operata da
Merleau-Ponty, senza alcuna pretesa di offrirne un‟ipotesi interpretativa
esaustiva, cercando piuttosto di attuare un esercizio ermeneutico che ne
illumini alcuni aspetti.

1. La fenomenologia della genesi

La particolare curvatura che Merleau-Ponty imprime al discorso fenome-


nologico8 può essere interpretata come una radicalizzazione di ciò che Hus-
serl afferma in Esperienza e giudizio parlando del «diritto proprio degli strati
inferiori»9 dell‟esperienza, i quali ad ogni livello del suo sviluppo continuano

7 Ivi, p. 138.
8 Sulla questione del rapporto del discorso merleau-pontyano con la fenomenologia
husserliana, e in generale sull‟opera di Merleau-Ponty, si vedano: A. DE WAEHLENS, Une
philosophie de l’ambiguïté. L’existentialisme de Maurice Merleau-Ponty, Louvain, Publications
Universitaires de Louvain, 1951; T.F. GERAETS, Vers une nouvelle philosophie trascendentale.
La genèse de la philosophie de Maurice Merleau-Ponty jusqu’à la Phenomenologie de la percep-
tion, Nijhoff, La Haye, 1971; G.B. MADISON, La phénoménologie de Merleau-Ponty. Une re-
cherche des limites de la conscience, Klincksieck, Paris, 1973; M.C. DILLON, Merleau-Ponty’s
ontology, Bloomington, Indiana University Press, 1988; M. CARBONE, Ai confini dell'esprimi-
bile. Merleau-Ponty a partire da Cèzanne e da Proust, Milano, Guerini, 1990; R. BARBARAS, De
l’être du phénomène. Sur l’ontologie de Merleau-Ponty, Grenoble, Millon, 1991; ID. Le tournant
de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Paris, Vrin, 1998; S. COSTANTI-
NO, La testimonianza del linguaggio. Saggio su Merleau-Ponty, Milano, Franco Angeli, 1999; S.
MANCINI, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Milano, Mimesis,
2001; E. de SAINT AUBERT, Du lien des être aux elements de l’être. Merleau-Ponty au tournant des
annés 1945-1951, Paris, Vrin, 2004; ID., Le scénario cartésien: Recherches sur la formation et la
cohérence de l’intention philosophique de Merleau-Ponty, Paris, Vrin, 2005; T. TOADVINE, L.
EMBREE (eds.), Merleau-Ponty’s reading of Husserl, Dordrecht, Kluwer, 2002; R. KIRCHMAYR,
Merleau-Ponty. Una sintesi, Milano, Marinotti, 2008.
9 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, Hamburg,

Klaassen, 1954 (tr. it. di F. Costa e L. Samonà, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia
della logica, Milano, Bompiani, 1995, p. 42): «il dominio della doxa non è dominio di evi-
denze di ordine inferiore a quello dell‟episteme, [...] ma è propriamente il dominio dell‟ul-
tima originarietà al quale si riferisce per il suo senso la conoscenza esatta il cui carattere
dev‟essere scrutato come quello di un puro metodo e non di una via verso la conoscenza
atta a procurare una cosa in sé». Perciò, anche se il cammino della conoscenza «consiste
essenzialmente nell‟elevarsi dalla doxa all‟episteme, [...] non ci si deve dimenticare dello
scopo ultimo, dell‟origine e del diritto proprio degli strati inferiori».
196 Rocco Sacconaghi

a costituirne la base fungente. L‟inizio dell‟esperienza continua a valere co-


me tale e non è mai superato, poiché non è cronologico-fattuale, bensì tra-
scendentale10: per questo Merleau-Ponty afferma che «la riflessione radicale
è coscienza della propria dipendenza nei confronti di una vita irriflessa la
quale è la sua situazione iniziale, costante e finale 11. Merleau-Ponty giunge ad
una «nozione allargata dell‟intenzionalità» tramite l‟accentuazione del suo
duplice carattere anonimo e fungente12, grazie a cui «la “comprensione” feno-
menologica si distingue dall‟“intellezione” classica, che è limitata alle “vere e
immutabili nature”, e la fenomenologia può divenire una fenomenologia della
genesi» (FP, 27). In cosa consiste e come si attua questa fenomenologia della
genesi?
Eugen Fink, che Merleau-Ponty conosceva bene, aveva affermato che «il
problema fondamentale della fenomenologia si può formulare come la que-
stione dell’origine del mondo»13, la quale non può più essere intesa né metafisi-

10 Per un approfondimento del tema della natura trascendentale dell‟inizio nella feno-

menologia husserliana e delle sue implicazioni a livello di filosofia della storia ci permet-
tiamo di rinviare a R. SACCONAGHI, “Teleologia e questione degli inizi in Edmund Husserl”,
Rivista di Filosofia Neoscolastica (2008) 4, pp. 537-561.
11 M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945 (tr. it.

di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2003, p. 23). Da qui in poi
questo testo sarà indicato con la sigla FP.
12 FP, 27. Cf. anche E. HUSSERL, Formale und traszendentale Logik, Den Haag, Nijhoff,

1974 (tr. it. di G.D. Neri, Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza, 1966, p. 291); ID.,
Die krisis der europäischen Wissenschaften und die traszendentale Phänomenologie. Eine Einleitung
in die phänomenologische Philosophie, Den Haag, Nijhoff, 1959 (tr. it. di E. Filippini, La crisi
delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 482); ID.,
Erste Philosophie (1923-1924), I: Kritische Ideengeschichte, Den Haag, Nijhoff, 1956 (tr. it. di
G. Piana, Storia critica delle idee, Milano 1989, Guerini, 1989, p. 99); G. BRAND, Welt, Ich
und Zeit: nach veröffentlichen Manuskripten Edmund Husserls, Den Haag, Nijhoff, 1955 (tr. it.
di E. Filippini, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Milano 1960, Bompiani,
1960, pp. 71-73).
13 E. FINK, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik,

in Studien zur Phänomenologie 1930-1939, Den Haag, Nijhoff, 1966, p. 101. Su questo tema
si vedano R. GUILEAD, Il mondo nel pensiero contemporaneo, Milano, Spirali, 1984 (cf. in par-
ticolare i paragrafi dedicati a Fink e Merleau-Ponty, pp. 262-315) e V. COSTA, «La feno-
menologia tra soggettività e mondo», Leitmotiv 3 (2003), disponibile sul sito http://
www.ledonline.it/leitmotiv/allegati/leitmotiv030301.pdf. Sull‟opera di Fink nel suo rap-
porto con la filosofia di Husserl rimandiamo a G. VAN KERCKHOVEN, Mondanizzazione e In-
dividuazione. La posta in gioco nella Sesta Meditazione Cartesiana di Husserl e Fink, tr. it. di M.
Mezzanzanica, Genova, Il Melangolo, 1998; S. LUFT, Phänomenologie der Phänomenologie. Sy-
stematik und Methodologie der Phänomenologie in der Auseinandersetzung zwischen Husserl und Fink,
Dordrecht, Kluwer, 2002; R. BRUZINA, Edmund Husserl & Eugen Fink. Beginnings and ends in
phenomenology (1928 – 1938), New Haven, London, Yale University Press, 2004; A. STAITI,
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 197

camente né tantomeno naturalisticamente, bensì come l‟orizzonte ultimo e


radicale a cui conduce l‟indagine husserliana, interpretando la dimensione
trascendentale in modo tale da non pensarla in opposizione alla prospettiva
genetica, giungendo al concetto di genesi trascendentale14. Ora, con Merleau-

«Fragments de radicalité», Methodos 9 (2009), disponibile in formato elettronico sul sito


http://methodos.revues.org/document2249.html.
14 In particolare Jacques Derrida – la cui traiettoria, com‟è noto, parte da un serrato e

articolato confronto con l‟opera di Edmund Husserl (cf. J. DERRIDA, Le problème de la genèse
dans la philosophie de Husserl, Paris, PUF, 1990 [tr. it. di V. Costa, Il problema della genesi nel-
la filosofia di Husserl, Milano, Jaca Book, 1992]; ID., «Genèse et structure» et la phénoménologie,
in Id., L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967 [tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la dif-
ferenza, Torino, Einaudi, 1990]; ID., Introduction e traduction à L’origine de la Géométrie de
Husserl, Paris, PUF, 1962 [tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a Husserl “L’origine della geo-
metria”, Milano, Jaca Book, 1987]; ID., La voix et le phénomène, Paris, PUF, 1967 [tr. it. di G.
Dalmasso, La voce e il fenomeno, Milano, Jaca Book, 1997] – ha mostrato questa possibile di-
rezione della fenomenologia. Sul rapporto tra Derrida e la fenomenologia, rimandiamo a V.
COSTA, La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Der-
rida, Milano, Jaca Book, 1996; C. DI MARTINO, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’im-
possibile, Milano, Franco Angeli, 2001; ID., Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida,
Milano, Guerini, 2009; R. BERNET, La vie du sujet: recherches sur l'interprétation de Husserl
dans la phénoménologie, Paris, PUF, 1994; J.C. EVANS, W.R. McKENNA (eds.), Derrida and
phenomenology, Dordrecht, Kluwer, 1995. Come nota Mario Vergani, nella fenomenologia
Derrida «intravede la possibilità di una revisione della coppia concettuale metafisica em-
pirico/trascendentale, in direzione di una complicazione originaria dei due»: in questo
modo si imbatte nel paradosso «della genesi trascendentale; ovvero, lo stesso fondamento,
la coscienza trascendentale, dev‟essere presentato nella sua insorgenza genetica, senza che
per questo la filosofia ripieghi in direzione di una forma di psicologismo o di storicismo
assoluti» (M. VERGANI, Jacques Derrida, Milano, Mondadori, 2000, p. 27). Proprio in que-
sto, secondo Vincenzo Costa, consiste «la motivazione di fondo che lega Derrida alla feno-
menologia»: voler «rispettare da un lato l‟autonomia dei significati, evitando la loro ridu-
zione storicistica, sociologica o psicologica, e dall‟altro il loro radicamento storico» (V.
COSTA, La generazione della forma, cit., p. 57). Ma questa “nascita trascendentale”, intesa
derridianamente come l‟orlo trascendentale del possibile, è proprio ciò che non può essere
colto dall‟intuizione e perciò nemmeno descritto “positivamente” ed esibito. Può (e deve)
essere pensato, ma non conosciuto (cf. J. DERRIDA, Politiques de l’amitié, Paris, Galilée, 1994
[tr. it. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Milano, Cortina, 1995, p. 54]; ID., On the
Gift: A Discussion between Jacques Derrida and Jean-Luc Marion, in J.D. CAPUTO, M.J. SCAN-
LON [eds.], God, The Gift and Postmodernism, Bloomington and Indianapolis, Indiana Univer-
sity Press, 1999, p. 60; ID., Donner le temps, Paris, Galilée, 1991 [tr. it. di G. Berto, Donare
il tempo. La moneta falsa, Milano, Cortina, 1996, p. 32]): si tratta dell‟impossibile come con-
dizione del possibile. Riprendendo la distinzione kantiana tra pensare e conoscere, Derrida
di fatto recupera il concetto di noumeno (che Husserl aveva in un certo senso superato tra-
mite la categoria dell‟intenzionalità, concependo il fenomeno come il modo di darsi della co-
sa stessa, e non come sua rappresentazione soggettiva – cf. V. COSTA, Il cerchio e l’ellisse. Hus-
serl e il darsi delle cose, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007), ancorché ripensato non più in
termini sostanzialistici bensì evenemenziali. In questo senso si può arditamente parlare di
198 Rocco Sacconaghi

Ponty l‟origine del mondo diviene qualcosa di esperibile e descrivibile: que-


sto passaggio è reso possibile da un‟idea di soggettività e di esperienza ben
sintetizzate da un concetto che Merleau-Ponty riprende da Paul Claudel, il
quale aveva descritto il rapporto soggetto–oggetto nei termini di una co–
nascita15, giocando con l‟ambiguità dei termini francesi: connaître è co–naître,
conoscere è nascere–con, nascere insieme a ciò che vedo. È questo concetto
che permette a Merleau-Ponty di pensare l‟origine del mondo come qual-
cosa di percepibile e, addirittura, raffigurabile: il sorgere continuo del mondo
è radice e contenuto della nostra coscienza, che “nasce” con esso. Nella visio-
ne, intesa come partecipazione di vedente e visto, sorgono il soggetto e l‟og-
getto come tali: «il soggetto della sensazione non è né un pensatore che an-
nota una qualità, né un ambito inerte che sarebbe colpito o modificato da es-
sa, bensì una potenza che co–nasce a un certo contesto d‟esistenza o si sin-
cronizza con esso»16 (FP, 288). In questo senso, per il filosofo francese «la

una sorta di iconoclastia filosofica derridiana, di contro all‟iconofilia merleau-pontyana (su


quest‟ultima, cf. E. FRANZINI, “La pittura e la differenza”, Chiasmi International [1998] 1, pp.
187-198): esiti differenti di due percorsi partiti entrambi dalla valorizzazione di quei luoghi
di confine della fenomenologia, in cui empirico e trascendentale giungono a confondersi e
intrecciarsi (cf. L. LAWLOR, “L‟héritage de L’origine de la géometrie: les limites de la phéno-
ménologie chez Merleau-Ponty et Derrida”, Chiasmi International 2 (2000), pp. 337-349;
W.J. FROMAN, At the limits of phenomenology: Merleau-Ponty and Derrida, in V.M. FÓTI [ed.],
Merleau-Ponty. Difference, materiality, painting, New Jersey, Humanities, 1996, pp. 16-26).
15 P. CLAUDEL, Traité de la Co-naissance au monde et de soi-méme, in ID., Art poétique, Paris,

Mercure de France, 1951, pp. 47-149. Cf. anche P. CLAUDEL, Présence et prophétie, Paris,
Gallimard, 1959 (tr. it. di S. Penna, Presenza e profezia, Milano, SE, 1992, p. 205): «noi qui
disponiamo, oltre ai mezzi di studio oggettivo, di quel prezioso strumento che è la co-
scienza intima, quella che Bergson chiama intuizione o simpatia. Tutto ciò che esiste intor-
no a noi, abbiamo la facoltà non solo di conoscerlo esteriormente, ma di co-nascervi, di re-
citarvi, come un attore, in noi stessi, una particolare attività». Si può riconoscere qui una
eco del pascaliano esprit de finesse, che trova una sua peculiare „traduzione‟ nella categoria
bergsoniana dell‟intuition. Tuttavia, mentre per Bergson questo moto simpatetico nei con-
fronti del darsi delle cose è un atto filosofico innaturale, di contro a una percezione che,
regolata da motivi pratici, definisce gli oggetti nella loro utilizzabilità (cf. H. BERGSON, La
pensée et le mouvant, Paris, PUF, 1938 [tr. it. di F. Sforza, Pensiero e movimento, Milano, Bom-
piani, 2000]), in Merleau-Ponty questo assetto partecipativo rappresenta l‟essenza della
percezione stessa. Emerge qui il debito merleau-pontyano nei confronti di Max Scheler,
fenomenologo sui generis che per primo portò la filosofia di Bergson in Germania, e al quale
Merleau-Ponty dedicò uno dei suoi primi articoli nel 1935 (Christianisme et ressentiment, ora
in M. MERLEAU-PONTY, Parcours. 1935-1951, Lagrasse, Verdier, 1997, pp. 9-33). Per un
confronto tra Bergson e Scheler sul tema della percezione come partecipazione si veda M.
AVERCHI, Le immagini della percezione sensibile in Scheler e Bergson, in G. CUSINATO (ed.), Esi-
stenza della persona e radicalizzazione della fenomenologia, Milano, Franco Angeli, 2007.
16 Cf. anche M. MERLEAU-PONTY, La structure du comportement, Paris, PUF, 1942 (tr. it.
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 199

più importante acquisizione della fenomenologia consiste certo nell‟aver con-


giunto l‟estremo soggettivismo e l‟estremo oggettivismo nella sua nozione del
mondo o della razionalità» (FP, 29), nell‟urgenza di «ritrovare, al di qua del-
l‟idea dell‟oggetto, il fatto della mia soggettività e l‟oggetto allo stato nascente,
il sostrato primordiale dal quale nascono sia le idee che le cose» (FP, 297).
La questione dell’origine del mondo si libera di ogni connotato «gnoseologi-
co–speculativo», assumendo il carattere di uno «spettacolo da mostrare». Per
questo motivo la fenomenologia viene definita «laboriosa come l‟opera di
Balzac, quella di Proust, quella di Valery o quella di Cézanne – per lo stesso
genere d‟attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la
stessa volontà di cogliere il senso del mondo o della storia allo stato na-
scente» (FP, 31). L‟origine del mondo non è più una «questione», bensì
un‟esperienza che continuamente si rinnova e che la filosofia è chiamata ad
«esibire»: per questo Merleau-Ponty afferma che «la vera filosofia consiste
nel reimparare a vedere il mondo» (FP, 30), e che «il rapporto al mondo, co-
sì come si pronuncia instancabilmente in noi, non è qualcosa che possa essere
reso più chiaro da un‟analisi: la filosofia può solo ricollocarlo sotto il nostro
sguardo, offrirlo alla nostra constatazione» (FP, 27). Egli caratterizza il pro-
cedere dell‟indagine filosofica come descrizione, riprendendo così la «prima
consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente» (FP, 16). La
descrizione è il tentativo di cogliere il «mondo vissuto» a partire dalla «mia
veduta» (FP, 17), e non il mondo «in terza persona» (FP, 128) tipico della
prospettiva scientifica: «una buona parte della filosofia fenomenologica o
esistenziale consiste nello stupirsi di questa inerenza dell‟io al mondo e del-
l‟io agli altri, nel descriverci tale paradosso e tale confusione, nel fare vedere il
rapporto tra soggetto e mondo, fra soggetto e altri, anziché spiegarlo, come
facevano i classici ricorrendo allo spirito assoluto»17.

2. La percezione come espressione

Si può dunque incominciare a comprendere l‟operazione filosofica mer-


leau-pontyana: l‟intenzionalità “allargata” consiste proprio in quell‟«inerenza

di G.D. Neri, La struttura del comportamento, Milano, Bompiani, 1963, p. 318), dove si par-
la del «nascere insieme» a un oggetto come «partecipazione alla sua esistenza». Sull‟uso di que-
sta categoria in Merleau-Ponty, si veda E. DE SAINT AUBERT, Du lien des être aux elements de
l’être, cit., pp. 234-255.
17 M. MERLEAU-PONTY, Sens et non-sens, Paris, Nagel, 1948 (tr. it. di P. Caruso, Senso e non

senso, Milano, Il Saggiatore, 2004, p. 80). D‟ora in poi il testo sarà indicato con la sigla SNS.
200 Rocco Sacconaghi

dell‟io al mondo e dell‟io agli altri» di cui si è appena parlato – definita al-
trove come «prossimità vertiginosa»18 –, inerenza che la fenomenologia deve
assumere come proprio tema. Questa relazione è al contempo luogo di ma-
nifestazione e frutto della co-nascenza (la genesi stessa dell‟esperienza), ed è
qualcosa che può (e deve poter) essere visto. In questo senso, «la “compren-
sione” fenomenologica si distingue dall‟“intellezione” classica, che è limitata
alle “vere e immutabili nature”»: con l‟assunzione di uno sguardo fenomeno-
logico si può cogliere l‟atto di nascita del mondo, che – così come non è re-
legabile in un momento puntuale del passato, ché altrimenti non sarebbe co-
glibile da alcuna descrizione –, non consiste né in un‟attività produttiva del
soggetto, né in un fatto in sé svincolato da esso.
Merleau-Ponty descrive la percezione nei termini di comunicazione reci-
proca: «ogni percezione è una comunicazione o una comunione, la ripresa o
il compimento da parte nostra di una intenzione estranea, o viceversa è la
realizzazione all‟esterno delle nostre potenze percettive e come un accop-
piamento del nostro corpo con le cose» (FP, 418). Le analisi sulla percezione
mostrano questa relazione comunicativa, partecipativa prima che intellettuale
o sensibile in senso “meccanico”: «se la mia mano conosce il duro e il molle,
se il mio sguardo conosce la luce lunare, si tratta, per così dire, di un certo
modo di unirmi al fenomeno e di comunicare con esso […] come un certo
tipo di simbiosi, una certa maniera di penetrarci propria dell‟esterno, una
certa maniera che noi abbiamo di accoglierlo» (FP, 47). La cosa sensibile «è
ciò che viene ripreso dal nostro sguardo, o dal nostro movimento, un quesito
cui essi rispondono positivamente» (ibid.), e per questo si può dire che il «sog-
getto senziente» non pone le cose «come oggetti, ma simpatizza con esse, le
fa sue e trova in esse la sua legge momentanea» (FP, 291): «Io che contemplo
l‟azzurro del cielo non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto acosmico,
non lo possiedo nel pensiero [...], ma mi abbandono a esso, [...] esso “si pen-
sa in me”, io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esi-
stere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato» (ibid.).
Ora, questo rapporto di co-nascenza non si attua come polarità “statica”
tra due termini, costituendo una sorta di “circolo” chiuso, bensì presenta sin
da subito una peculiare “fecondità”, configurandosi come una espressione ori-
ginale: «ogni percezione – dice infatti Merleau-Ponty –, ogni azione che la
postula, in breve ogni uso del corpo è già espressione primordiale»19. L‟espres-

18 M. MERLEAU-PONTY, Causeries 1948, Paris, Seuil, 2002 (tr. it. di F. Ferrari, Conver-

sazioni, Milano, SE, 2002, p. 39).


19 M. MERLEAU-PONTY, Signes, Paris, Gallimard, 1960 (tr. it. di G. Alfieri, Segni, Mi-
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 201

sione, già a livello percettivo, rappresenta l‟«operazione prima che origina-


riamente costituisce i segni come segni, fa abitare in essi ciò che è espresso»,
introducendo «un senso in ciò che non ne aveva»: «invece di esaurirsi nel-
l‟istante in cui ha luogo, inaugura un ordine, fonda un‟istituzione o una tradi-
zione» (S, 96). L‟espressione è tutto fuorché la mera ripresentazione
dell‟esistente: non si configura né come una sua trasformazione temporanea,
destinata a scomparire nelle successive metamorfosi, né come creatio ex nihilo,
invenzione a-storica e assoluta, poiché nasce in “dialogo” con la tradizione da
cui proviene: essa «non è solamente metamorfosi nel senso delle fiabe -
miracolo, magia, creazione assoluta in una solitudine aggressiva -, è anche
risposta a quello che il mondo, il passato, le opere fatte richiedevano,
adempimento, fraternità» (S, 86). Ogni espressione si configura come una
sorta di «eternità provvisoria» (S, 86), e in questo si avvicina a ciò che
Husserl chiamava fondazione, un inizio che riconfigura tutto e si pone come
irreversibile: «Husserl ha adoperato la bella parola Stiftung – fondazione –
per indicare, in primo luogo, l‟illimitata fecondità di ogni presente che,
proprio perché è singolare e passa, non potrà mai cessare di esser stato e
quindi di essere universalmente – ma soprattutto quella dei prodotti della
cultura che continuano a valere dopo la loro apparizione e aprono un campo
di ricerche in cui rivivono perpetuamente»20 (S, 86).

lano, Il Saggiatore, 2001, p. 96). Da qui in avanti questo testo sarà indicato con la sigla S.
Come osserva Di Martino, è ne La prosa del mondo – opera rimasta incompiuta scritta intor-
no al 1951 (M. MERLEAU-PONTY, La prose du monde, Paris, Gallimard, 1969 [tr. it. di M.
Sanlorenzo, La prosa del mondo, Roma, Ed. Riuniti, 1984]) – che Merleau-Ponty elabora
«una nuova teoria dell‟“espressione”» fondata sul «nesso pittura-percezione-linguaggio»,
giungendo ad «equiparare percezione ed espressione» e spogliando «il riferimento al corpo
di ogni residuo naturalistico»; si tratta di «un‟inedita generalizzazione del concetto di
espressione: esso giunge a coprire tutto il campo del movimento e del gesto, sicché perce-
zione e linguaggio, natura e cultura, vengono ad essere differenze interne all‟evento espres-
sivo» (C. DI MARTINO, Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e Merleau-Ponty, Pisa, ETS,
2005, pp. 92-93).
20 Dal concetto husserliano di Stiftung (sulla funzione di questa categoria nel pensiero

di Husserl, cf. J. DODD, Crisis and reflection, Dordrecht, Kluwer, 2004 – in particolare il
capitolo 2, The manifold sense of foundation), Merleau-Ponty trae quello di institution, che
può essere interpretato come un‟estensione (anche a livello storico, e perciò sociale e poli-
tico) del concetto di espressione: a partire da questo legame essenziale tra percezione e storia
egli giunge ad affermare che «il problema di sapere qual è il soggetto della Stato, della
guerra ecc. [è] esattamente dello stesso tipo che il problema di sapere qual è il soggetto
della percezione: non si risolverà filosofia della storia se non risolvendo il problema della
percezione» (M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, Paris, Gallimard, 1964 [tr. it. di
A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 2003, p. 212]). Si tratta, a nostro pa-
rere, di un‟ulteriore possibile realizzazione della prospettiva condensata nell‟interpreta-
202 Rocco Sacconaghi

3. La filosofia come realizzazione di una verità

Se la percezione implica l‟inevitabile sorgere di un‟espressione, ogni atto


conoscitivo, lungi dal presentarsi come il coglimento di un‟«immutabile na-
tura», determina un “mutamento” dell‟esistente: si tratta di un incontro tra
due elementi da cui ne scaturisce un terzo. Nemmeno quella peculiare forma
di autoconoscenza che è l‟atto riflessivo filosofico, che spesso nella storia ha
preteso costituirsi come uno sguardo panoramico capace di piena trasparenza,
si sottrae a questa legge: vediamo dunque in che termini Merleau-Ponty con-
cepisce la fenomenologia, intesa come l‟esercizio filosofico cosciente di que-
sta legge e perciò capace di rispettarne la natura e coglierne i frutti.
Come osserva Brand, permanendo nell‟atteggiamento naturale «noi espe-
riamo ciò che si rivela», ovvero la “cosa”, «ma non il suo rivelarsi»21. Com-
pito del filosofo è rendere intuibile questo stesso darsi, il continuo sorgere
del mondo, sospendendo l‟abitualità con cui noi percepiamo le cose: «per
vedere il mondo e coglierlo come paradosso, occorre rompere la nostra
familiarità con esso, e questa rottura non può insegnarci altro che lo scaturire
immotivato del mondo» (FP, 23); e ancora: «Proprio per il fatto che siamo
da parte a parte rapporto al mondo, per noi la sola maniera di rendercene
conto è di sospendere questo movimento, di negargli la nostra complicità»

zione di Virno del concetto di reificazione. Al concetto di istituzione Merleau-Ponty dedica


nel 1955 al Collège de France un corso intitolato L’«institution» dans l’histoire personelle et
publique (ora in M. MERLEAU-PONTY, L’institution. La passivité. Notes de cours au Collège de
France (1954-1955), Paris, Belin, 2003). Tramite questo concetto, Merleau-Ponty indica
«quegli eventi di un‟esperienza che la dotano di dimensioni durevoli, in rapporto alle quali
tutta una serie di altre esperienze avrà senso, formerà un proseguimento pensabile o una
storia – ovvero gli eventi che depositano in me un senso, non a titolo di sopravvivenza e di
residuo, ma come appello a un proseguimento, come esigenza di un avvenire» (M. MER-
LEAU-PONTY, Résumés de cours. Collège de France 1952-1960, Paris, Gallimard, 1968 [tr. it.
di M. Carbone, Linguaggio, storia, natura. Corsi al Collège de France 1952-1960, Milano,
Bompiani, 1995, pp. 55-56]). Come osserva Barbaras, «faisant écho à la Stiftung husser-
lienne, ce concept apparaît chez Merleau-Ponty lorsque s‟affirme sa critique de la philo-
sophie de la conscience. A l‟opposé de la constitution, l‟institution permet de penser l‟émer-
gence d‟un sens qui puisse se concilier avec la passivité du sujet et soit ainsi partageable
avec d‟autres consciences. Elle permet par là même de fonder le caractère essentiellement
temporel ou historique de toute expérience» (R. BARBARAS, Merleau-Ponty, Paris, Ellipses,
1997, p. 57). Sullo stesso tema si vedano anche F. ROBERT, Phenomenologie et ontologie. Mer-
leau-Ponty lecteur de Husserl et Heidegger, Paris, L‟Harmattan, 2005, pp. 165-183; Id., Fonde-
ment et fondation, Chiasmi International (2000) 2, pp. 351-372; K. HIROSE, “L‟institution
spatio-temporelle du corps chez Merleau-Ponty. Violence et fécondité de l‟événement”,
Alter 16 (2008), pp. 171-186.
21 G. BRAND, op. cit., p. 73.
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 203

(FP, 22). In questo consiste la riduzione fenomenologica, e per questo Merleau-


Ponty afferma che «la migliore formula della riduzione è certo quella che
forniva Eugen Fink, l‟assistente di Husserl, quando parlava di uno “stupore”
di fronte al mondo» (ibid.). Tuttavia, la riduzione, seppur necessaria, non
può mai compiersi definitivamente, poiché non potrà mai portare l‟espe-
rienza ad una piena trasparenza: «il più grande insegnamento della riduzione
è l‟impossibilità di una riduzione completa» (FP, 23). Quel che la riduzione
mostra, e che solo essa può mostrare, è proprio ciò che ne rende possibile
l‟iniziale istituirsi e al contempo la condanna all‟incompiutezza: quell‟origi-
nario e radicale coinvolgimento tra soggetto e mondo, tale per cui la sospen-
sione dell‟abituale percezione delle cose non fa altro che mostrare un più
profondo rapporto che ci lega ad esse. Si tratta di un legame che precede e
fonda il rapporto pratico e quello teorico, e si configura come ontologico.
Emerge così la fisionomia di una soggettività che, lungi dal configurarsi
come autonoma rispetto al mondo, è essenzialmente “votata” ad esso: «quan-
do ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmati-
smo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un sog-
getto votato al mondo» (FP, 19). Per questo si può dire che «la verità non
“abita” soltanto l‟“uomo interiore”, o meglio, non v‟è uomo interiore: l‟uo-
mo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce» (ibid.). L‟atto conoscitivo del-
la fenomenologia, perciò, si distingue radicalmente «dal ritorno idealistico
alla coscienza, e l‟esigenza di una descrizione pura esclude sia il procedimen-
to dell‟analisi riflessiva che quello della spiegazione scientifica» (FP, 17),
superando così il rischio dell‟alienazione insito nel ritorno ad una coscienza
pura slegata dal mondo e il feticismo proprio dell‟oggettivazione scientifica.
Come nella prospettiva husserliana, la riduzione non ha come fine lo svin-
colarsi dal mondo, e «ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo
mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei
confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e di-
pendente» (ibid.). Per Merleau-Ponty, l‟impossibilità della riflessione di
giungere a una coincidenza con l‟esperienza irriflessa portandola a piena tra-
sparenza non costituisce uno „scacco‟ se non per le pretese del pensiero ri-
flessivo, il quale «crede di seguire a ritroso il cammino di una costituzione
preliminare e di raggiungere “nell‟uomo interiore” [...] un potere costituente
identico a se stesso» (FP, 18). In questo modo, però, «la riflessione rimuove
se stessa e si ricolloca in una soggettività invulnerabile, al di qua dell‟essere e
del tempo», perdendo «coscienza del proprio cominciamento». In realtà, nel
momento in cui inizio a riflettere, «la mia riflessione è riflessione su un ir-
204 Rocco Sacconaghi

riflesso e non può ignorare se stessa come evento, quindi essa appare ai suoi
stessi occhi come una autentica creazione, come un mutamento di struttura
della coscienza» (ibid.). Lungi dall‟essere motivo di fallimento dell‟indagine,
questo scarto strutturale tra la riflessione e lo strato irriflesso ha come frutto
una peculiare “creazione”; non si tratta dunque di una ricostruzione, opera-
zione sempre tentata dal pensiero riflessivo, bensì di una realizzazione, di
un‟istituzione.
Per questo Merleau-Ponty afferma che «il mondo fenomenologico non è
l‟esplicitazione di un mondo preliminare, ma la fondazione dell‟essere», e
«la filosofia non è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come
l‟arte, la realizzazione di una verità» (FP, 30). In quanto «soggetto votato al
mondo», posso conoscermi solo nel mondo; l‟atto conoscitivo della fenome-
nologia merleau-pontyana non è una riflessione che si configura come un ri-
torno in sé, ma come ulteriore approfondimento di quella comunicazione con
il mondo già da sempre in atto: «La filosofia è sempre rottura con l‟ogget-
tivismo, ritorno dai constructa al vissuto [...]. Soltanto, questo processo [...]
non la trasporta più nell‟atmosfera rarefatta dell‟introspezione [...], dacché si è
riconosciuto che l‟“interiorità” su cui essa si riconduce non è una “vita privata”,
ma una intersoggettività che via via ci connette alla storia intera» (S, 152).

4. Cézanne: il rendersi visibile dell’origine dell’esperienza

Se la percezione si attua come co-nascita, «la visione del pittore è una na-
scita prolungata»22, poiché nella pittura si attua il fedele svolgimento del rap-
porto aurorale in cui e da cui sorgono il soggetto e il mondo: «l‟espressione
pittorica riprende e oltrepassa la messa in forma del mondo che è iniziata
nella percezione»23. In questo senso, l‟arte pittorica non assume soltanto uno
statuto conoscitivo in senso lato, bensì un vero e proprio valore filosofico,
poiché permette alla dimensione trascendentale (in quanto originaria e sor-
giva) dell‟esperienza di rendersi esperibile. Nel saggio intitolato Il dubbio di
Cézanne24, il pittore francese è presentato come colui che rende esperibile ciò

22 M. MERLEAU-PONTY, L’oeil et l’esprit, Paris, Gallimard, 1964 (tr. it. di A. Sordini,

L’occhio e lo spirito, Milano 1989, SE, p. 26). D‟ora in poi il testo sarà indicato con la sigla OS.
23 M. MERLEAU-PONTY, La prosa del mondo, cit., p. 78.
24 Si tratta dell‟articolo Le doute de Cézanne, pubblicato nel 1945 e poi confluito in SNS

(pp. 27-44). Sull‟importanza di questo saggio, che non può certo essere ridotto ad una
estemporanea „riflessione filosofica‟ sull‟arte di Cézanne, si esprime lo stesso autore in un
testo presentato nel 1952 per la propria candidatura al Collège de France, in cui afferma
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 205

che ogni uomo vive senza avvedersene: «il pittore riprende e converte ap-
punto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata
da ogni coscienza» 25 (SNS, 36). Egli infatti «è colui che fissa e rende
accessibile ai più “umani” fra gli uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza
vederlo» (SNS, 37). Tanto l‟oggettivazione scientifica quanto l‟introspezione
riflessiva, avendo come presupposto la separazione di soggetto e oggetto, si
precludono la possibilità di questa visione. Cosa rivela dunque l‟opera cézan-
niana? A partire dal riconoscimento dell‟inerenza al mondo, si offre lo spet-
tacolo paradossale della sua profonda alterità, della sua estraneità: «la cosa ci
ignora, riposa in sé» (FP, 420).
Nel capitolo di Fenomenologia della percezione intitolato La cosa e il mondo
naturale, Merleau-Ponty descrive questa esperienza al livello della percezione.

che con Le doute de Cézanne si è iniziata l‟elaborazione di una «teoria della verità» (M. MER-
LEAU-PONTY, Un inédit de Maurice Merleau-Ponty, in ID., Parcours deux. 1951-1961, Lagrasse,
Verdier, 2000, pp. 37-48 [tr. it. di G.D. Neri, “Autopresentazione”, in Aut aut 232-233
(1989), p. 8]). Come ha osservato Kirchmayr, «la pittura di Cézanne è un esercizio feno-
menologico in atto»: Merleau-Ponty mostra come il pittore e Proust «istituiscano con la lo-
ro opera un senso che diventa forma ideale perchè porta alla luce una faccia viva della ve-
rità» (R. KIRCHMAYR, op. cit., p. 133). In quest‟opera, scrive Mancini, «la pittura si pre-
senta come la forma muta dell‟espressione artistica che manifesta l‟esperienza percettiva
originaria quale perenne ricreazione del mondo vissuto dispiegato a partire dalla sogget-
tività del corpo proprio. [...] Soltanto perché l‟espressione pittorica si radica nella dimen-
sione corporea del gesto e della percezione, essa ha la capacità di dischiudere il mondo del-
la vita, facendoci assistere dall‟interno alla genesi del senso grezzo che avviene in esso» (S.
MANCINI, Sempre di nuovo, cit., pp. 109-110). «Il privilegiamento merleau-pontyano del-
l‟esperienza pittorica e della ricerca cézanniana – spiega Carbone – trova la sua più espli-
cita motivazione nella convinzione che nella pittura moderna (di cui Cézanne è il profeta
riconosciuto) il modo di vedere del pittore attinga alla vita percettiva, alla esperienza vis-
suta della corporeità, in modo più diretto e consapevole di quanto non accadesse in quella
classica. […] È dunque in primo luogo questo sforzo di adesione alla vita percettiva e di
espressione della stessa ad interessare Merleau-Ponty» (M. CARBONE, Ai confini dell’esprimi-
bile, cit., pp. 25-27). Sul tema dell‟interpretazione merleau-pontyana dell‟opera di Cézan-
ne, ed in generale dell‟arte, oltre alle opere citate in questa nota rimandiamo a X. TILLIET-
TE, “L‟esthétique de Merleau-Ponty”, Rivista di Estetica 14 (1969) 1, pp. 102-124; P. KAUF-
MANN, Invention d’un genre: la méditation esthétique, in A. SAUZEAU BOETTI (ed.), La prosa del
mondo. Omaggio a Merleau-Ponty, Urbino, Quattroventi, 1990, pp. 57-62; E. LISCIANI-PE-
TRINI, “L‟invisibile di Cézanne”, Il pensiero 36 (1997) 1, pp. 23-34; M. CARBONE, Il sensibile
e l'eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Milano, Guerini, 1996; S. MENASÈ, Passivité et crea-
tion. Merleau-Ponty et l’art moderne, Paris, PUF, 2003; S. VITALE (ed.), Il dubbio di Merleau-
Ponty. L’arte e l’invisibile, Firenze, Clinamen, 2005.
25 In questo stesso senso, Virno afferma che «una facoltà o un modo di essere, se op-

portunamente reificati, acquisiscono una incontrovertibile appariscenza: la res è, sempre e


comunque, una res publica» (P. VIRNO, op. cit., p. 112).
206 Rocco Sacconaghi

Come abbiamo già visto, egli descrive il fenomeno percettivo nei termini di
una comunione originaria tra il soggetto e l‟oggetto: «La percezione naturale
non è una scienza, non pone le cose che percepisce, non le allontana per
osservarle, ma vive con esse, è l‟“opinione” o la “fede originaria” che ci lega a
un mondo come alla nostra patria, l‟essere del percepito è l‟essere antepre-
dicativo verso il quale è polarizzata la nostra esistenza totale» (FP, 419-420).
Ma il senso della cosa non è definito interamente dalla sua familiarità con il
soggetto; essa infatti non è solamente «il correlato del nostro corpo e della
nostra vita» (FP, 420). Non solo, cioè, essa si costituisce in unità in relazione
a noi che ne facciamo esperienza, ma noi stessi, come soggetti corporei, ci
costituiamo come tali solamente nel prendere rapporto con la cosa: in qual-
che modo, perciò, l‟unità della cosa è già da sempre costituita. Così come
una cosa non può essere concepita come tale se non in quanto riferita a una
esperienza, noi «non cogliamo l‟unità del nostro corpo se non in quella della
cosa, ed è a partire dalle cose che le nostre mani, i nostri occhi, tutti i nostri
organi di senso ci appaiono come altrettanti elementi sostituibili» (ibid.). In
questo senso, «la cosa si presenta, a colui stesso che la percepisce, come cosa
in sé», e perciò «essa pone il problema di un autentico in-sé-per-noi» (ibid.).
Nell‟ingenuità dell‟atteggiamento naturale, l‟alterità delle cose è ridotta ad
uno statico essere-in-sé, e non viene colta come quel loro sorgere continuo e
“immotivato” da un fondo primordiale in cui consiste la “paradossalità” del
reale, il suo essere «un tessuto solido» che «non attende i nostri giudizi per
annettersi i fenomeni più sorprendenti e per respingere le nostre immagina-
zioni più verosimili» (FP, 19).
La grandezza dell‟opera pittorica di Cézanne consiste nel mostrare questa
dimensione dell‟essere, risalendo allo strato dell‟esperienza che precede e
fonda l‟ordine razionale che noi abitualmente frequentiamo come qualcosa di
assoluto, e a cui opponiamo l‟irrazionale come possibilità da “scongiurare” o
il sensibile come livello da superare: non avendo «creduto di dover scegliere
tra sensazione e pensiero come tra caos e ordine», Cézanne supera «la frat-
tura tra i “sensi” e l‟“intelligenza”» (SNS, 32). Egli non separa «le cose fisse
che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera d‟apparire»,
poiché «vuole dipingere la materia che si sta dando una forma, l‟ordine na-
scente attraverso un‟organizzazione spontanea» (ibid.). È l‟assunzione di quel-
la “attenzione metafisica e disinteressata” che permette l‟istituzione di uno
sguardo capace di cogliere le cose nel loro stesso “farsi”: «Cézanne ha voluto
dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno
l‟impressione della natura alla sua origine, mentre le fotografie dei medesimi
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 207

paesaggi suggeriscono i lavori degli uomini, le loro comodità e la loro pre-


senza imminente» (ibid.). Nell‟opera del pittore francese ogni scelta tecnica,
dalle deformazioni prospettiche ai molteplici contorni degli oggetti, contri-
buisce a «dar l‟impressione di un ordine nascente, d‟un oggetto che sta com-
parendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi» (SNS, 34), in una “dimen-
sione spaziale” che «si costituisce vibrando» (SNS, 33). Nei suoi dipinti gli
oggetti figurano «esitanti come all‟origine della terra» (SNS, 35). Nasce, dal-
le mani del pittore, la visibilità del sorgere del mondo: quella «vibrazione
delle apparenze che è la genesi delle cose» (ibid.). L‟arte, perciò, «non è
un‟imitazione, né peraltro una costruzione che segua i dettami dell‟istinto o
del buon gusto», bensì «un‟operazione d‟espressione» (ibid.), e «l‟espres-
sione di ciò che esiste è un compito infinito» (SNS, 34). L‟espressione è altro
dalla semplice rappresentazione di un significato preesistente, poiché «il sen-
so di quanto l‟artista sta per dire non c’è in nessun luogo, né nelle cose, che
non sono ancora senso, né in lui stesso, nella sua vita informulata» (SNS, 38)
e nemmeno può ridursi a mera decorazione estetica, «non esiste [...] arte di-
lettevole» (SNS, 37): «prima dell‟espressione non c‟è nient‟altro che una
febbre vaga», e «l‟espressione non può essere […] la traduzione di un pen-
siero già chiaro, perché i pensieri chiari sono quelli che sono già stati detti in
noi stessi o da altri» (ibid.).
L‟opera d‟arte è tale perché costituisce una novità, una “verità che si rea-
lizza”: percepire è esprimere, svelare è realizzare, descrivere è istituire, tro-
vare è fondare, conoscere è (co-)nascere. In questo senso, così come ogni
percezione è già espressione, occorre affermare che «la “concezione” non
può precedere l‟“esecuzione”» (ibid.), ma si attua in essa. Se, riprendendo
Virno, si ha alienazione quando il soggetto cerca di ritrovarsi ripiegandosi in
un‟interiorità “trasparente” in quanto vuota di determinazioni effettive, op-
posta di principio a una presunta opaca esteriorità, suscitando l‟inevitabile
corrispondente feticizzazione di quest‟ultima e condannandosi a un regresso
all‟infinito, la possibilità di una piena autocoscienza si fonda su un‟esecuzione
che, estroflettendo le condizioni trascendentali della coscienza, le rende pub-
blicamente esperibili. È per la “dimensione cosale della mente”, così emersa,
che “concezione” indica tanto il sorgere di un pensiero quanto quello di una
nuova vita: si può interpretare in questi termini l‟idea merleau-pontyana per
cui la filosofia, al pari dell‟arte, è la realizzazione di una verità.
Tutto ciò non porta con sé, come ospite gradito o meno, l‟inesorabile
relativismo implicato nell‟idea dell‟arte e del pensiero come artificio, cioè co-
me una creazione del nuovo arbitraria in quanto avulsa da relazioni di ogni
208 Rocco Sacconaghi

sorta26. È proprio perché siamo costitutivamente aperti a un mondo e in


rapporto con esso sin dall‟origine, in quanto nasciamo-con esso, che ogni ri-
flessione su questo rapporto si configura come una sua nuova e irripetibile at-
tuazione, la quale porta con sé frutti altrettanto nuovi e irripetibili. Il sorgere
delle cose costituisce il soggetto nel suo inscindibile rapporto al senso, inteso
come un ordine già dato – come un suggerimento – che può però trovare
piena realizzazione solo tramite l‟azione creativa del soggetto: «poiché siamo
nel mondo, noi siamo condannati al senso e non possiamo fare nulla né dire
nulla che non assuma un nome nella storia»27 (FP, 30). Si tratta di ciò che
Merleau-Ponty chiama «le dimensioni della storia», ineludibile orizzonte entro
cui «non vi è una parola, né un gesto umano, anche abituali o distratti, che
siano privi di significato» (FP, 28).
«C‟è, come dice Husserl, una “genesi del senso”» (FP, 29), a cui noi par-
tecipiamo attivamente e passivamente. Analogamente a come descrive il fe-
nomeno della co-nascenza, Merleau-Ponty dice di Cézanne che «“germina-
va” con il paesaggio»28 per poterne cogliere «la costituzione [...] come orga-

26 Come osserva Taminiaux, «visto dagli altri, il pittore può talvolta apparire come il
creatore di un contro-mondo, ma per il pittore al lavoro c‟è un solo mondo ed è il mondo
che gli lancia un appello al quale egli non finirà mai di rispondere» (J. TAMINIAUX, Il pensa-
tore e il pittore. Su Merleau-Ponty, in M. CARBONE, C. FONTANA (eds.), Negli specchi dell’es-
sere. Saggi sulla filosofia di Merleau-Ponty, Cernusco sul Naviglio, Hestia, 1993, p. 148). Ad
ogni livello, e perciò anche a quello artistico, l‟espressione «si delinea come la ripresa crea-
trice dei significati acquisiti, congiuntamente all‟eredità dell‟inespresso, nella produzione
di un senso nuovo» (S. MANCINI, L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty,
Paci, Milano, Mimesis, 2005, p. 220).
27 A proposito della dimensione storica come costitutivo “orizzonte di senso”, risultano

interessanti le pagine che Mancini dedica alla relazione tra essere-al-mondo ed essere-alla-
verità (ivi, pp. 220-226): se a prima vista nel pensiero merleau-pontyano l‟orizzonte della
verità pare «fondersi e confondersi con l‟orizzonte del mondo, e il senso autoctono del
mondo della vita confermarsi come l‟unica e perenne fonte della teleologia della coscienza,
di tutti i percorsi intersoggettivi e di tutte le strategie del senso», a ben guardare la verità
«immette nella correlazione originaria dell‟io e del mondo un‟intenzionalità verticale, che
se per un verso riprende la corrente del senso spontaneo, per un altro verso non ne costi-
tuisce un lineare svolgimento, perché oltre che dalla teleologia naturale, muove anche dal-
la libertà». Non può esservi piena coincidenza tra le due “dimensioni”, poiché «la radice
dell‟essere-al-mondo è prepersonale, mentre quella dell‟essere-alla-verità è personale: l‟attiva
costruzione progettuale del senso può essere condotta solo in prima persona».
28 Merleau-Ponty si esprime in modo analogo ne L’occhio e lo spirito: «Il pittore “si dà

con il suo corpo”, dice Valéry. [...] È prestando il suo corpo al mondo che il pittore tra-
sforma il mondo in pittura. Per comprendere tali transustanziazioni, bisogna ritrovare il
corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni, che è
un intreccio di visione e di movimento» (OS, 17).
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 209

nismo nascente»: «l‟immagine si saturava, si amalgamava, si disegnava, s‟e-


quilibrava e maturava tutta in una volta. Il paesaggio, diceva, si pensa in me
ed io ne sono la coscienza» (SNS, 36). Il pittore «nasce nelle cose come per
concentrazione e venuta a sé del visibile» (OS, 49). Frutto di questo è la
“creazione della verità”, che si attua «perforando “la pelle delle cose” per mo-
strare come le cose si fanno cose, e il mondo mondo» (ibid.): «giacché d‟ora
in poi, come dice Klee, la linea non imita più il visibile, ma “rende visibile”, è
lo schizzo tridimensionale di una genesi delle cose» (OS, 52).
STEFANO SANTASILIA

Della comunità del sentire.


Evidenza e sensus communis in Eduardo Nicol

«Se mi domandassero qual è, di tutti i misteri,


quel che resta per sempre impenetrabile,
risponderei senza esitare: l‟evidenza»
E. JABÈS

Ne Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, pubblicato nel 1992, Antonio


Livi afferma che «con il marxismo è morto l‟ultimo tentativo di costruire,
al di fuori del realismo classico e cristiano, un pensiero “forte”; e così ades-
so sembra che la cultura contemporanea conosca solo il pensiero “debole”,
che è una forma di scetticismo nella quale confluiscono, oltre alla scuola ita-
liana così denominata e capeggiata da Gianni Vattimo, varie correnti euro-
pee e americane: la filosofia analitica, l‟ermeneutica, la fenomenologia, lo
strutturalismo, il pensiero dialogico»1. È trascorso più di un decennio dalla
pubblicazione di tali affermazioni, ed è possibile affermare che, eccetto al-
cune correnti filosofiche citate da Livi (in effetti non so fino a che punto sia
possibile considerare la fenomenologia come una forma di scetticismo dato
che, almeno nella sua fondazione, «fare filosofia» secondo il metodo feno-
menologico avrebbe dovuto rispondere, o per lo meno tendere, all‟ideale
di «scienza rigorosa»2), il senso delle sue parole ha un valore estremamente
profondo e importante ancora oggi. Lo scetticismo di cui parla Livi è quel-
lo che mette in dubbio qualsiasi possibilità che si diano eventi o valori co-
munemente percepiti, un „senso comune‟ della realtà. La questione, ap-
punto, del sensus communis non inteso come semplicistico «buon senso»3, né

1 A. LIVI,Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, Milano, Massimo, 1992, p. 5.


2 Cf. a tal proposito lo stesso scritto di EDMUND HUSSERL, Philosophie als strenge Wis-
senschaft, pubblicato nel 1911 nella rivista Logos e successivamente ripubblicato in Husserliana.
Aufsätze und Vorträge (1911-1921), vol. XXV, Nijhoff, Dodrecht 1987 (nel nostro caso ci av-
valiamo della traduzione di Corrado Sinigaglia, La filosofia come scienza rigorosa, Roma-Bari,
Laterza, 2005). In fine a quella che possiamo definire come l‟introduzione al suo breve sag-
gio, lo stesso Husserl afferma: «se una svolta filosofica deve avere legittimità nel nostro tem-
po, è necessario che essa sia in ogni caso animata dall‟intenzione di una rifondazione della filo-
sofia nel senso di una scienza rigorosa» (ivi, p. 11).
3 Riguardo alla „confusione‟ spesso realizzatasi tra i due termini, in particolare nell‟uso

Bollettino Filosofico 25 (2009): 210-221 210


La comunità del sentire 211

come conformità al pensiero di massa, rappresenta la „croce e delizia‟ di


qualsivoglia pensiero filosofico: „croce‟ perché il semplice fatto che vi sia
un‟evidenza che non necessita di alcuna dimostrazione, né di un iter specu-
lativo che a questa conduca, rappresenta un reale problema per un pensie-
ro che voglia mostrarsi come fondamento e spiegazione di tutto il reale;
„delizia‟ perché permette al pensatore di cogliere l‟ombra di mistero che si
cela alle sue spalle e che mostra, attraverso una sorta di „chiaroscuro‟, la
sua origine. Tutto ciò indica che il sensus communis ha a che fare con ciò che
è più importante e problematico per l‟uomo: l‟evidenza. L‟evidenza di per
sé si mostra come chiarezza e mistero: la chiarezza è legata al contenuto
dell‟evidenza stessa, a ciò che in tale esperienza si mostra come evidente; il
mistero, invece, giace al fondo della stessa esperienza di evidenza, nel fatto
che qualcosa si mostri come chiaro e venga automaticamente assunto come
punto di partenza del ragionamento. L‟evidenza, dunque, è un‟esperienza
che non verifica alcuna ipotesi, bensì è verifica e assunzione, al tempo stes-
so, di un dato che diamo per assodato. L‟essere evidente, però, non si gio-
ca solo nell‟ambito dell‟individualità, non è un‟esperienza solipsistica, ben-
sì pretende il riconoscimento del suo valore nell‟ambito intersoggettivo.
Che qualcosa sia evidente solo ad una persona pone già di per sé dubbi sulla
sua stessa evidenza (eccetto nel caso di alcune esperienze particolari quali,
ad esempio, l‟esperienza mistica)4. Come esempio esplicativo, vale la pena
di riferirsi all‟iter speculativo che conduce all‟elaborazione–riconoscimento
del cogito ergo sum cartesiano e alla sua validità come punto di partenza del
conoscere, se non altro per il grande valore che il pensatore francese rico-
nosce alla caratteristica della chiarezza come conditio sine qua non perchè si
dia una conoscenza certa ed autentica.
La riflessione di Cartesio parte dalla ricerca di un‟evidenza che non pos-

quotidiano del linguaggio, è estremamente interessante l‟analisi storico–etimologica svolta


da A. LIVI nell‟Introduzione al suo Filosofia del senso comune (Milano, Ares, 1990, pp. 10-
30); nello specifico, si guardi il primo paragrafo che reca appunto il titolo “Senso comune”
e “buon senso”. Di A. LIVI cf. anche Senso comune e logica aletica, Roma, Leonardo da Vinci,
2005 e Metafisica e senso comune, Roma, Leonardo da Vinci, 2007. Sulle riflessioni elaborate
da Livi cf. AA.VV., Per una filosofia del senso comune. Studi in onore di Antonio Livi, Milano, Ita-
lianova Publishing Company, 2009.
4 Cf. a tal proposito J. BEAUDE, La mistica, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1992 e i due

interessanti studi effettuati dal teologo madrileno JUAN MARTÍN VELASCO, Il fenomeno
mistico. Antropologia, culture e religioni, Milano, Jaca Book, 2001 e Il fenomeno mistico. Strut-
tura del fenomeno e contemporaneità, Milano, Jaca Book, 2003. Riguardo differenze e affinità
tra esperienza filosofica ed esperienza mistica cf. A. MOLINARO, E. SALMANN (eds.), Filo-
sofia e mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Roma, Studia Anselmiana, 1997.
212 Stefano Santasilia

sa essere confutata e sulla quale poggiare tutto l‟edificio del sapere. Tale ri-
cerca, che tutto pone al vaglio di quello che chiama “dubbio metodico”,
permette a Cartesio di risalire la china fino ad un punto che sembra incon-
futabile, una certezza che non può essere messa in discussione. Tale certez-
za è quella del cogito: «considerate adeguatamente tutte queste cose, biso-
gna alla fine stabilire che questa proposizione, Io sono, io esisto, è neces-
sariamente vera ogni volta che la pronuncio e ogni volta che la mente la
concepisce»5. Tale base d‟appoggio, però, non riesce ad uscire dal „picco-
lo‟ recinto in cui è stata concepita: quello di una certezza soggettiva che,
sebbene chiunque possa provare, non ci permette di comunicare perché
non riesce a dare conto del mondo che la circonda. Si può obiettare che
Cartesio su tale certezza sia riuscito a fondare tutto l‟edificio del conosce-
re, soprattutto di un conoscere scientifico che si è rivelato essere verace.
Tutto ciò è vero, come, però, lo è allo stesso modo il fatto che tale fonda-
zione avvenga attraverso due passaggi emblematici: in primis per parlare di
evidenza bisogna fare riferimento sempre a due caratteristiche, la chiarezza
e la distinzione; in secundis, perchè si dia una conoscenza verace, è neces-
sario affrontare la questione dell‟esistenza di Dio.
Il fatto che ciò che si mostra come chiaro abbia un determinato valore,
superiore a ciò che si mostra oscuro, che si riferisca cioè ad un‟evidenza
che già di per sé ne dà certezza di esistenza, mostra come, in realtà, tale
chiarezza sia strumento metodologico che già precede l‟assunzione del cogi-
to come punto di partenza. Il cogito si mostra già nella sua evidenza, nella
sua chiarezza, e questo permette che esso possa essere assunto senza dub-
bi6. Ma se il cogito ergo sum è evidente, allo stesso tempo si fa misura del-
l‟evidenza: l‟evidenza, dunque, ancora una volta non si lascia enucleare in
maniera concettuale ma solo esperienziale e in tal modo fa sì che l‟espe-
rienza dell‟evidenza, ritenuta di massimo livello, sia il parametro al quale si
debbano riferire tutte le altre conoscenze affinché siano considerate auten-
tiche. Siamo così giunti al centro della questione: solo il cogito viene perce-
pito con tale chiarezza o esistono altre esperienze che hanno come carat-
teristica, se non la stessa, per lo meno una forma di evidenza che le renda
non confutabili? «Quando però mi rivolgo alle cose che ritengo di perce-
pire in modo molto chiaro, sono a tal punto persuaso da esse che spon-

5 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Milano, Mursia, 1994, p. 59.


6 Cf. a tal proposito l‟interessante saggio di PIERRE THEVENAZ, «La question du point
de départ radical chez Descartes et Husserl», in AA.VV., Problèmes actuels de la Phénoméno-
logie, Paris, Desclée de Brouwer, 1952, pp. 9-31.
La comunità del sentire 213

taneamente do sfogo a queste parole: mi inganni pure chi può, non potrà
però far sì che io sia niente per tutto il tempo che penserò di essere qual-
cosa; né potrà far sì che un giorno sia vero che io non sono mai esistito,
poiché ormai è vero che io sono; e nemmeno potrà far sì che due più tre
facciano più o meno di cinque, o simili cose nelle quali riconosco una ma-
nifesta contraddizione»7. Le ultime parole pronunciate in questa frase dal
matematico e filosofo francese ci permettono di andare più a fondo in
quanto mostrano come, oltre al cogito, via siano altre cose chiare a tal pun-
to che il metterle in dubbio creerebbe una situazione contraddittoria in-
concepibile per lo stesso Cartesio. Tali cose riguardano, in questo caso, la
matematica ma ciò che a noi interessa è che esse possano mostrare un gra-
do di evidenza che le pone al riparo da qualunque possibilità di essere solo
delle allucinazioni e questo perché, anche se stessimo sognando, secondo
Cartesio il fatto che due più tre faccia cinque rimarrebbe valido.
Tali nozioni si manifestano come delle crepe in quello che potremmo
definire come il solipsismo del cogito, costringendolo a guardare al di là di
se stesso e allo stesso tempo a riconoscere che, sebbene parta da sé, deve
riconoscere delle evidenze anche al di fuori della sua stessa esistenza. In più,
proprio in quanto fuori dalla sua evidenza d‟esistere, tali evidenze si con-
notano come patrimonio comune e, allo stesso tempo, come possibilità di
comunicazione con gli altri uomini e quindi all‟interno della comunità (da
quella specifica di appartenenza a quella generalmente umana). Infatti, tali
nozioni non sono evidenti se non in quanto relazione del pensiero a ciò che
è fuori di esso, quindi a qualcosa di evidente che deve essere tale anche per
gli altri uomini, e questo in ragione del fatto che ogni uomo è dotato di
pensiero, quindi di tale evidenza, così come di quella del cogito. Già, dun-
que, possiamo notare come il solipsismo cartesiano riconosca, e con questo
riconoscimento inizi già di per sé a sfrangiarsi, la possibilità di un‟evidenza
che non sia più chiusa nell‟ambito del proprio pensiero, bensì apra alla pos-
sibilità dell‟extra, forse intuendo i rischi della tentazione idealistica. Non va,
poi, dimenticato che l‟intento cartesiano è quello di individuare una cer-
tezza universale e, soprattutto di ispirarsi alla matematica e di seguire il suo
metodo8. L‟unica possibilità di mettere ancora in dubbio l‟evidenza dell‟al-
7 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, cit., p. 71.
8 A conferma di ciò basti il solo riferimento alla seconda parte del Discorso sul metodo:
«Difatti, in fin dei conti, il metodo che insegna a seguire il vero ordine, e ad analizzare
esattamente tutte le circostanze di quel che si cerca, contiene tutto ciò che conferisce
certezza alle regole dell‟aritmetica» (R. DESCARTES, Discorso sul metodo, Milano, Rizzoli,
1996, p. 66).
214 Stefano Santasilia

gebra consiste nel pensare che tutto ciò che mi circonda sia frutto di un
creatore malvagio che con intenzione mi inganna. Cartesio si pone questo
dubbio al fine di giungere alla possibilità di una certezza completa e si in-
terroga sull‟esistenza di Dio, nella terza meditazione sulla filosofia prima.
La soluzione, ben nota, che dà a tale questione, riguarda l‟innatismo di al-
cune idee, ed in particolare quello dell‟idea di infinito, cioè di un‟idea il
cui ideatum (il contenuto) supera il contenitore facendolo, in qualche modo,
esplodere sotto la sua portata9. Riconoscendo ciò, Cartesio è spinto ad af-
fermare che non potendo essere desunta dall‟esperienza tale idea deve es-
sermi stata posta nella mente da Dio stesso10. Se da un lato ciò può sembra-
re dare ragione agli „avversari del sensus communis‟, in quanto tale idea non
può essere desunta dall‟esperienza, è pur vero che da un altro punto di vi-
sta rafforza proprio la convinzione che esista qualcosa di innato che possa
essere focalizzato dall‟uomo nel momento stesso in cui si rapporta al mon-
do. Non si parla infatti di un‟esperienza di stampo scientifico, ma di un‟e-
sperienza primaria, un‟esperire se stessi, di cui, quindi, anche il cogito di-
viene espressione. Se la certezza della propria esistenza rimanda alla certez-
za del mondo e viceversa, e la ricerca cartesiana lo mostra nel momento in
cui dal cogito è necessario uscire per cercare un fondamento di tutto, allora si
può intendere come il valore del sensus communis «sta tutto nell‟essere un si-
stema organico di certezze primarie, dove i primi principi […] sono intima-
mente connessi all‟esperienza»11. Tale connessione all‟esperienza va intesa in
una duplice maniera: sia nel senso di principi che la stessa esperienza insegna
mostrandoli; sia nel senso di principi che emergono nel momento in cui fac-
ciamo esperienza di qualcosa, ma che possiamo conoscere anche riferendoci
a noi stessi. Tale seconda maniera attraverso la quale intendo la connessione
che, secondo Antonio Livi, si dà tra senso comune e principi primi, non mira
a chiudere l‟uomo nella sua interiorità ma mostra come in esso vi sia già una
predisposizione a cogliere tali punti stabili della realtà. Potremmo dire, sem-
plificando, che senso comune e principi primi sono intimamente connessi e
l‟uomo giunge a tali principi proprio attraverso il senso comune.
Il riferirci alla riflessione cartesiana ha come motivazione il fatto di mo-
strare come è possibile individuare anche in un autore che mette in dubbio, e
fa del dubbio il suo metodo, il valore dell‟esperienza quotidiana, la traccia
ineludibile del sensus communis. Tale traccia mostra come, sebbene l‟intento

9 Cf. a tal proposito E. LÉVINAS, Dio, la morte e il tempo, Milano, Jaca Book, 1996.
10 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, cit., pp. 79-80.
11 A. LIVI, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, cit., p. 6.
La comunità del sentire 215

cartesiano fosse quello di elaborare una teoria che potesse dare ragione del
mondo, il punto di partenza si manifesti come qualcosa di pienamente evi-
dente che elucida gli effetti più che entrare nel merito della spiegazione cau-
sale. A tal proposito Pascal afferma: «sarebbe […] irragionevole negare la
verità o, per lo meno, la possibilità, con il pretesto che è assolutamente in-
comprensibile: giacché “l‟uomo è più incomprensibile senza questo mistero
che questo mistero non sia inconcepibile per l‟uomo”»12. L‟ammonimento
pascaliano, che parte proprio dalla riflessione sulla razionalità cartesiana, è
estremamente radicale e riconosce da subito che l‟evidenza primaria non ne-
cessita di essere intelligibile bensì, proprio in quanto evidenza, ciò che per-
mette di accettarla è la sua capacità di dar ragione dei fatti. I principi primi,
le evidenze, sono alla portata di tutti ma proprio per questo bisogna «avere
buona vista (ma buona davvero, perché tali principi sono così sfuggenti e così
diversi che è pressoché impossibile che talvolta non ne sfugga uno: ora, basta
ometterne uno che subito si cade in errore, e occorre dunque avere una vista
ben chiara per contemplarli tutti insieme, e una mente rigorosa per non de-
rivare conclusioni erronee da questi principi evidenti)»13.
Il sensus communis, dunque, si connota come la „buona vista‟, la capacità
di cogliere tali principi che, in quanto evidenti, sono „alla vista‟ ma, pro-
prio perché evidenti, sfuggono ad uno sguardo ingenuo. Tale sfuggire non
significa, però, che essi non siano validi e che non siano anche ciò su cui si
fonda, in maniera automatica, la nostra esperienza quotidiana. Infatti, le
conclusioni erronee di cui parla Pascal sarebbero proprio quei tentativi di
spiegazione che, ignorando i principi primi, tentano di adottarne altri, non
rendendosi conto che in tal modo non riescono a dare ragione dei fatti. Il
sensus communis, secondo ciò che abbiamo detto finora, si mostra come ca-
pacità di cogliere quei principi primi, evidenti, che però non sono conosci-
bili attraverso un atteggiamento ingenuo, né attraverso una prospettiva ra-
zionalista che tenti di spiegare la realtà in una maniera che potremmo de-
finire „totalitaria‟, intesa come tentativo di piegare la realtà alla ragione
senza tenere conto delle resistenze della realtà stessa. Una ragione, dunque,
che conosce i propri limiti, «“limiti della ragione” [che] contengono già la
conoscenza metafisica della “cosa in sé”, perché presuppongono il “senso
comune”, vera conoscenza del mondo, di sé e di Dio, anche se con tanta o-
scurità e tante incertezze dovute alla condizione umana»14.

12 P. SERINI, Introduzione a B. PASCAL, Pensieri, Milano, Mondadori, 1984, p. 51.


13 Ivi , p. 58.
14 A. LIVI, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, cit., p. 64.
216 Stefano Santasilia

Il sensus communis è, dunque, comunicazione dell'evidenza: riconosci-


mento che, a partire dal proprio rapportarsi col mondo, si attua e verifica
all‟interno della comunità umana. È questo l‟assunto fondamentale sul qua-
le poggia la propria riflessione Eduardo Nicol15. Nel primo capitolo della
sua opera maggiore, la Metafísica de la expresión, Nicol afferma che «l‟evi-
denza apodittica, in effetti non è un contenuto né una forma, né tanto me-
no è una norma o assioma: è un atto, e un atto comunicativo. L’apoditticità
è inerente alla primaria dichiarazione della presenza dell’essere»16. L‟essere delle
cose si manifesta in maniera evidente solo perchè tale evidenza è comuni-
cativa. Se, come afferma anche Cartesio, è necessario individuare un punto

15 Eduardo Nicol (1907-1990) nacque in Spagna, per la precisione in Catalunya, e si


formò a Barcelona studiando filosofia presso la Universitat de Barcelona sotto la guida di
Jaime Serra Hunter (1878-1911) e Joaquín Xirau (1895-1946). Nel 1939, all‟indomani
della sconfitta repubblicana da parte delle forze franchiste, dopo aver combattuto per la re-
pubblica sul fronte catalano, fugge in Francia dove si imbarcherà per giungere in Messico.
A Città del Messico porterà a compimento i suoi studi conseguendo il dottorato di ricerca
e iniziando la sua carriera di docente universitario presso la Universidad Nacional Autóno-
ma de México. Per ciò che concerne la vita e il pensiero di Nicol cf. “Eduardo Nicol. La fi-
losofía como razón simbólica”, Anthropos 3 (1998), numero monografico dedicato ad Eduar-
do Nicol; J.L. ABELLÁN, El exilio filosófico en America: los transterrados de 1939, Madrid, FCE,
1998; ID., Historia crítica del pensamiento español, 5 voll., Madrid, Espasa-Calpe, 1979-1991;
M. GONZÁLEZ GARCÍA, El hombre y la historia en Eduardo Nicol, Salamanca, Universidad
Pontificia de Salamanca, 1988; P. COLONNELLO, Itinerari di filosofia ispanoamericana, Roma,
Armando, 2007; A. CASTIÑEIRA (ed.), Eduard Nicol: Semblança d’un filosòf, Barcelona, 1991;
J. GONZÁLEZ, La metafísica dialéctica de Eduardo Nicol, México, UNAM, 1981; ID., L. SAGOLS
(eds.), El ser y la expresión, México, UNAM, 1990. Nicol appartiene a quella grande cerchia
di intellettuali che lasciarono la Spagna a causa della dittatura franchista e decisero di rifu-
giarsi in America Latina considerando l‟identità linguistica un dato fondamentale al fine di
“ristrutturare la propria vita al di là dell‟oceano”. Riguardo a tale esilio v‟è una vasta let-
teratura; qui ci limitiamo a segnalare alcuni testi, riguardanti per lo più l‟ambito degli studi
filosofici: J.L. ABELLÁN, Filosofía española en America (1936-1955), Madrid, Guadarrama,
1966; ID., El exilio filosófico en America: los transterrados de 1939, cit.; J. IZQUIERDO ORTEGA,
“Pensadores españoles fuera de España”, Cuadernos Americanos, enero-febrero 1965; J.L.
ABELLÁN, Panorama de la filosofía española actual. Una situación escandalosa, Madrid, Espasa-
Calpe, 1978; AA.VV., El exilio español en México 1932-1982, México, FCE, 1983; ID., A.
MONCLÚS, El pensamiento español contemporáneo y la idea de America, 2 voll., Barcelona, An-
thropos, 1985; G. VARGAS LOZANO (ed.), Cincuenta años de exilio español en México, México,
Universidad Autónoma de Tlaxcala, 1991; L. DE LLERA, I. BUONAFALCE, “L‟esilio repub-
blicano del 1936 in Messico: filosofia e identità del pensiero in lingua spagnola”, Cultura
Latinoamericana. Annali dell’ISLA 1-2 (1999-2000), pp. 399-437. Per uno sguardo più ampio
sulla questione dell‟esilio “repubblicano” rinviamo a L. DE LLERA, El último exilio español en
América, Madrid, Mapfre, 1996.
16 E. NICOL, Metafisica dell’espressione, Napoli, La Città del Sole, 2007, p. 73.
La comunità del sentire 217

di partenza apodittico, e se l‟apoditticità è data solo nella comunicazione


dell‟evidenza, allora la ragione che riconosce tale evidenza deve svolgere
un ruolo particolare nella costruzione del sapere. Secondo Nicol, infatti, la
ragione opera non solo nell‟ambito concettuale, bensì in tutte le dimen-
sioni della nostra esistenza17, ed è per questo motivo che non v‟è ragione
che non sia, allo stesso tempo, comunicazione. L‟uomo, infatti, al di là del-
l‟epoca storica in cui è situato, può essere definito sempre in base alla sua
capacità di comunicare: «l’uomo è l’essere che esprime»18. La ragione, in quan-
to umana, sarà allora senza alcun dubbio „ragione comunicativa‟. Cosa ab-
bia a che fare, con il sensus communis, la riflessione nicoliana sull‟essere e
l‟agire della ragione, lo si può comprendere solo se si fa un passo indietro
rivolgendo l‟attenzione alla radice culturale nella quale lo stesso autore va a
collocarsi. Senza mezzi termini, Nicol si ascrive a quella tradizione di studi
sviluppatasi in Catalunya che viene generalmente riconosciuta con il nome
di Escuela de Barcelona19 e ne assume anche tutta l‟elaborazione della „pro-
blematica del senso comune‟ elaborata dagli altri autori appartenenti a tale
„scuola‟20. Un brevissimo sguardo alle riflessioni elaborate da alcuni degli
esponenti di tale tradizione può permetterci di leggere in maniera più chia-
ra le affermazioni del pensatore in questione.
Rivolgendo la nostra attenzione ad alcuni pensatori che lo stesso Eduar-
do Nicol annovera tra i maestri appartenenti alla tradizione catalana, quali
Jaime Balmes (1810-1848)21 e Llorens i Barba (1820-1872)22, da subito ci

17 ID., Historicismo y existencialismo, México, FCE, 1950, p. 268.


18 ID., Metafisica dell’espressione, cit., p. 189.
19 In realtà sembra essere Nicol il primo ad aver proposto la definizione Escuela de Bar-

celona e non sapremmo davvero riportare scritti precedenti al suo nel quale si ipotizzi l‟esi-
stenza di un tale nucleo di pensatori; va aggiunto, inoltre, che ogni testo di storia della filo-
sofia spagnola (basta confrontare i testi di José Luis Abellán, Alain Guy, Eusebio Colomer)
riporta come punto di partenza del dibattito su tale questione le affermazioni che Nicol scri-
ve ne El problema de la filosofía hispánica (E. NICOL, Il problema della filosofia ispanica, Napoli,
La Città del Sole, 2007, p. 171).
20 Id., Il problema della filosofia ispanica, cit., p. 192.
21 Personaggio chiave della storia del pensiero spagnolo, filosofo al quale fu dato il so-

prannome, in stile medievale, di doctor humanus, visse negli stessi anni di Llorens i Barba. Si
dedicò allo studio della filosofia scolastica, in particolare del tomismo, tentando una conci-
liazione fra questo e la moderna gnoseologia. Tra le sue opere più importanti possiamo ri-
cordare la sua Filosofía fundamental (Barcelona, 1846), il Curso de filosofía fundamental (Ma-
drid, 1847), che tanto colpì l‟altro noto filosofo dell‟esilio José Gaos, e l‟opera che gli do-
nò più fama vale a dire El Criterio (Madrid, 1845), un insieme di norme da utilizzare per
condurre bene il proprio intelletto, una sorta di discours de la méthode.
22 Tale pensatore, professore della Universitat de Barcelona, fa parte di una genera-
218 Stefano Santasilia

ritroviamo dinanzi a delle interessanti elaborazioni dell‟idea di senso co-


mune influenzate in parte dalla lezione della scuola scozzese (in particolare
dalle riflessioni di Thomas Reid). Llorens i Barba definisce il suo pensiero
proprio come una «dottrina del senso comune», nella quale la coscienza si
comporta come lumen naturalis al quale è attribuito il compito di individua-
re le condizioni basiche dell'esperienza; condizioni che la stessa esperienza
non può né spiegare né fondare. Il senso comune, allora, si connota come
capacità di riconoscere il dato originario che costituisce la possibilità stessa
della conoscenza e fornisce, in tal modo, il discrimine tra vero e falso per
ciò che concerne i «principi primi»23. In maniera alquanto simile, Jaime
Balmes, nella sua Filosofía fundamental, parla del senso comune come di una
legge dello spirito che si manifesta come inclinazione naturale e che ci per-
mette di dar credito ad alcune verità fondamentali che non possono essere
né fondate né giustificate dalla ragione. Verità che, però, sono necessarie
per lo sviluppo della vita intellettuale e morale24. Si può affermare che per
i su citati autori, riconosciuti dallo stesso Nicol come fondamentali nel-
l‟ambito della propria formazione, il problema dell‟apoditticità, intesa co-
me esperienza basica che costituisce il punto di partenza di qualsiasi rifles-
sione filosofica, è un problema di estrema importanza. L‟individuazione
dell‟evidenza fondamentale e condivisa costituisce, per tali autori, la positi-
vità dell‟io che si riscopre come punto di partenza già in relazione con il
mondo e con gli „altri io‟, unico punto di avvio dell‟autentica conoscenza25.
Questa concezione del senso comune è, per Nicol, più che una vera e pro-
pria dottrina, un orientamento di base nel quale anch‟egli si riconosce26. Si
tratterebbe della capacità di riconoscere i principi comuni già condivisi che
precedono e rendono possibile il nostro essere consapevoli di ciò che siamo

zione di studiosi catalani ai quali appartengono anche i nomi di Jaime Balmes e Ramon
Martí d‟Eixalà, tutti legati da una concezione spiritualista che, pur aprendosi alla tradizione
moderna, non respingeva il legato della tradizione, di una tradizione che si può far rimon-
tare fino alla figura di Ramon Llull, e che cercava nella filosofia dello spirito un accordo tra
quel carattere particolare tipicamente catalano che è il seny e la dottrina del senso comune
(Cf. N. BILBENY, Filosofia contemporaina a Catalunya, Barcelona, Edhasa, 1985, p. 177). Ri-
guardo al seny, inteso come forma di saggezza pratica riconosciuta come carattere peculiare
della tradizione catalana, cf. J. FERRATER MORA, Las formas de vida catalana, Madrid, Alianza
Editorial, 1987.
23 N. BILBENY, Filosofía contemporaina a Catalunya, cit., pp. 192-194.
24 J. BALMES, Filosofía fundamental, in Obras completas, vol. XVI, Barcelona, Bibliotéca

Balmes, 1927, p. 316.


25 Cf. A. GUY, Historia de la filosofía española, Barcelona, Anthropos, 1985, pp. 233-234.
26 E. NICOL, Il problema della filosofia ispanica, cit., p. 194.
La comunità del sentire 219

e facciamo: «i principi possono appartenere solo al dominio comune, e per


questo è necessario che esista un senso, comune a tutti noi, che ci permetta
di riconoscere la loro evidenza primaria e fondamentale»27. Tutti coloro
che hanno parlato di senso comune, sottolinea il pensatore ispanico, hanno
sempre voluto mostrare che «questo giudizio non è la nostra facoltà che ab-
biamo di intendere le cose, ma quella di intenderci rispetto alle cose»28.
Ciò indica che i principi di base costituiscono il „luogo comune‟ nel quale si
incontrano „le ragioni di tutti‟: «in questo implicita l‟idea secondo la quale
i principi supremi devono essere un patrimonio comune, anche se le scien-
ze stesse che si formano sui principi non sono, per l‟intrinseca difficoltà del
loro sviluppo, cosa di dominio pubblico»29.
In Historicismo y existencialismo, considerato da Nicol come i prolegome-
ni alla Metafisica de la expresión, si afferma che la ragione opera prima ancora
di formulare concetti a partire dalle percezioni, ossia che l‟agire razionale
sia in atto già in una fase che potremmo definire „preconcettuale‟; fase nel-
la quale avviene una selezione delle percezioni, momento in cui la ragione
«forma il mondo comprendendolo»30. Per comprendere bene la questione
dell‟evidenza comunicativa, così come viene posta da Eduardo Nicol, è ne-
cessario soffermarsi un attimo su tale «formare il mondo comprendendolo».
Con tale affermazione, Nicol non intende dire che la ragione costruisca il
mondo a partire da se stessa, senza alcun riferimento alla realtà. Questo so-
prattutto perché non esiste ragione alcuna che non sia parte integrante del
reale. Il „formare‟ di cui parla il pensatore ispanico è già di per sé il ricono-
scimento di un ordine, di una trama di relazioni: parlare di logos equivale,
allora, al parlare della ragione immanente al reale31. Pensare è sempre pen-
sare un ordine32, inteso come insieme di relazioni che costituiscono la tra-
ma del reale, ri–conosciuta comunemente. Questa la condizione che per-
mette a Nicol di affermare che dinanzi all‟evidenza del reale non v‟è pos-
sibilità alcuna di assumere una posizione personale. La realtà «è una verità
apodittica proprio perché non è scienza. Né scienza né opinione»33. Dal mo-
mento stesso in cui prende l‟avvio il nostro ragionare, e concettualizzare,

27 Ivi, p. 195.
28 Ibid.
29 Ivi, p. 196.
30 E. NICOL, Historicismo y existencialismo, México, FCE, 1950, p. 280.
31 ID., Los principios de la ciencia, México, FCE, 1965, p. 497.
32 ID., Crítica de la razón simbólica, México, FCE, 2001², p. 185.
33 ID., Metafisica dell'espressione, cit., p. 159. È emblematico che il capitolo dell‟opera in

cui Nicol tratta di questo problema abbia come titolo Il controdiscorso sul metodo.
220 Stefano Santasilia

ci sembra indubitabile il fatto che non si dia altra possibilità al di fuori del
binomio scienza–opinione, la conoscenza certificata o il giudizio soggettivo,
e che l‟apoditticità sia pertinente solo al conoscere scientifico. Tale cono-
scere, però, è per Nicol pertinente all‟essenza e non alla presenza, que-
st‟ultima infatti, data la percezione, non può essere messa in dubbio; la
presenza è già di per sé comunicazione, comunità che converge nell‟unica e
indubitabile affermazione della presenza stessa: «l‟autentica apprensione
degli oggetti sensibili la si ricava con i sensi, con il logos, che è pensiero e
parola»34. La presenza del reale è già comunicata nel nostro dire ed agire,
pertanto percepita in maniera pre–concettuale proprio perché pre–scienti-
fica. Tale apoditticità è indubitabile e inconfutabile ma solo perché sempre
comune, ossia comunicata. La ragione che percepisce sulla base di una già
ri–conosciuta presenza è, perciò, anch'essa comune e lo è perché possibili-
tà stessa della comunità che riconosce la presenza, ovvero la realtà. L'apo-
ditticità della presenza è, dunque, fondamento sia della scienza che del-
l‟opinione, ma fondamento di carattere fenomeno–logico in quanto già
dia–logico. Il dia–logos, infatti, altro non è che il logos condiviso, comune, e,
per questo, è già da sempre parola comunicata, parola comune.
Ciò che Eduardo Nicol ravvisa in maniera chiara è che se vi sono prin-
cipi comuni basici, allora v‟è anche una ragione comune, luogo condiviso e
manifestazione della comunità del senso. È, infatti, il comune sentire che,
come per un gioco di parole, è alla base del sensus communis. Il sentire co-
mune è, però, evidente solo nel momento stesso della comunicazione, mo-
mento in cui la ragione mostra la sua essenza simbolica. Il senso comune è
qui trasfigurato in una comune ragione comunicativa che è un sentire pri-
ma ancora d‟essere un concettualizzare. Un sentire che non esiste se non
nella duplice relazione col mondo e con l‟altro: „comunione‟ che costitui-
sce la stessa consapevolezza di sé mostrando come nel fondo di qualsiasi
„io‟ si manifesti un „tu‟ costitutivo35. La ragione comune è espressione e
fondamento della stessa comunità, di un solo sentire che è sempre manife-
sto e in dialogo, appunto dia–logos. „Scienza‟ e „opinione‟ non sono altro
che le due possibilità che si aprono a partire dal „sentire comune‟, dalla ra-
gione condivisa, dall‟apoditticità della presenza36. La comunità del sentire è

34 Ivi, p. 160.
35 È interessante, riguardo tale momento del pensiero nicoliano, sottolineare l‟affinità
tra l‟esisto dell‟indagine del pensatore ispanico e quelli delle riflessioni di EMMANUEL LÉVI-
NAS (Totalité et infini, L‟Aja, Nijhoff, 1961) e di PIETRO PIOVANI (Principi di una filosofia
della morale, Napoli, Morano, 1972).
36 E. NICOL, Metafisica dell’espressione, cit., p. 215.
La comunità del sentire 221

la possibilità stessa della conoscenza, della concettualizzazione, perché per-


mette appunto che il sapere abbia una ratio, ossia un senso fondativo. Seco-
ndo Nicol ciò è comune e primario perché l‟uomo stesso non è che l‟essere
del senso, l‟essere che costituisce la sua esistenza in perenne dialogo tra-
sformante con il mondo e con l‟altro uomo37. La verità si costituisce, dun-
que, come comunitaria, condivisa, sentita, ma solo attraverso una dimen-
sione relazionale. Secondo Nicol, la verità è già apertura in quanto co-
scienza e manifestazione della condivisione: «la ricerca si intraprende a ma-
ni aperte, simbolo di penuria e speranza; e osservate con quale frequenza
colui che possiede o crede di possedere la verità chiude questa mano per
assicurarsene il possesso. La mano chiusa la si chiama pugno, e questo è già
simbolo di aggressione»38. Chiaramente, quel che è chiuso non è condiviso
e ciò impedisce il suo essere evidente. Se l‟uomo è l'essere del dialogo, al-
lora il nostro comunicare, come sentire comunemente, è la piena realizza-
zione dell‟essere uomini, ossia della nostra verità: «ci esprimiamo per no-
stalgia e speranza. Nostalgia del nostro stesso essere, di quella parte di noi
che non abbiamo; e speranza di recuperarlo nel dialogo con l‟altro»39.
Nostalgia e speranza precedono ogni possibile chiarificazione dell‟esi-
stenza e si mostrano attive in quel sentire che costituisce la comunità e in
essa si manifesta. Sentire che è ragione comune, dialogo, comunità del sen-
so. Ci piace allora concludere ammettendo, con le parole di Nicolas Gó-
mez Dávila, che «la ragione è un atto dello spirito che analizza un atto spi-
rituale previo. La ragione non genera ma educa ciò che è generato»40.

37 Ivi,p. 243 e sgg.


38 E. NICOL, Il problema della filosofia ispanica, cit., p. 57.
39 ID., Metafisica dell’espressione, cit., p. 78.
40 N. GÓMEZ DÁVILA, Escolios a un texto implícito, vol. I, Bogotá, Villegas, 2005, p. 20.
CARLO SERRA

Mahler lettore di Nietzsche

Introduzione: fuor di metafora?

Il rapporto che stringe la musica di Mahler alla visione schopenhaueria-


na della natura può sembrare l‟apertura di una deriva di idee, che conduco-
no verso l‟ovvio e l‟indimostrabile.
L‟ovvio sembra ineludibile, gli studi degli ultimi venti anni hanno por-
tato alla luce una serie di referenti culturali mahleriani, in cui la rivaluta-
zione della formazione filosofica del compositore è andata via via consoli-
dandosi in modo sempre più approfondito: Mahler era un avido lettore di
Lotze, di Goethe, di Kant, di Schopenhauer, a suo avviso il filosofo che più
aveva visto in profondità nell‟elaborazione di una metafisica della musica,
che collegasse la materia incorporea del suono alla bivalenza dell‟immagine
della natura.
L‟accentuazione per una rilettura in termini simbolici del naturalistico,
già presente nelle elaborazioni mitologiche di Wagner, guadagna nell‟ope-
ra di Mahler uno spessore ancora più forte, sviluppando l‟idea di una ri-
costruzione cosmogonica del mondo, a partire dall‟essenza della musica,
una musica che parli direttamente degli elementi, e che non si caratterizzi
nella ricerca di calchi mitici dell‟esperienza, ma che possa ricostruire i suo-
ni del mondo, catturare e rappresentare i loro caratteri rumoristico–espres-
sivi, per tradurli in voci della natura.
Una semantica del suono, che funga da cerniera fra il mondo visibile dei
fenomeni, ed il piano metafisico, che li sostiene nell‟oscurità, una musica
esemplaristica, che parli, attraverso i suoni, del significato della cose, lascian-
do avvertire l‟idea che nel suono musicale vi sia un calco del mondo, della
totalità dei suoni, costituendo un insieme di rimandi, che muova da una let-
tura metafisica della nozione di carattere. La musica ha carattere ontologico,
parla del divenire del mondo della natura, lasciando che i suoni si facciano
narrazione. Vi è quindi la necessità di una traduzione dal rumore all‟infles-
sione musicale, e dall‟inflessione musicale in concetto, e dal concetto ad un
ordine cosmogonico, che mira ad una ricostituzione del piano morale e poli-
tico, in un intreccio di temi che guidano dall‟interno la riappropriazione

Bollettino Filosofico 25 (2009): 222-255 222


Mahler lettore di Nietzsche 223

mahleriana della filosofia di Schopenhauer1. Per questo motivo, lo studio di


questi problemi sembra preliminare all‟analisi dei modi in cui un composi-
tore rivendichi la propria appartenenza ad una poetica, o la propria vicinanza
ad uno stile filosofico, lavorando sui suoni e sulla drammaturgia della parola.
Per sostenere questa via, è necessaria una riformulazione concettuale
del concetto di suono, e delle sue possibilità metaforiche: visto il taglio
simbolico a cui quest‟operazione si lega, saldata com‟è ad un immaginario
d‟epoca, ad una concezione culturale che cerca, in fondo, un‟ipotesi di la-
voro non lontana da un orientamento storicista, e forse sociologizzante, le
equivocità devono trovare, per quanto possibile, una soluzione sul piano
concettuale, ed immaginativo.
Un‟ineludibile equivocità lambisce ogni discorso sull‟immaginario di una
epoca, mettendo in questione una serie di atteggiamenti che definiscono uno
stile culturale. Vi, è, tuttavia, una via dell‟analisi dei materiali compositivi,
delle loro configurazioni interne, rispetto ad un precipitato simbolico che
precipita nel suono, e che trova nel suono stesso la propria ragion d‟essere:
d‟altra parte, è innegabile che, uscendo dall‟ambito sempre meritorio degli
studi di sociologia della cultura, si rischia comunque la via dell‟indimostrabi-
le, l‟apertura vaga ad una poetica dell‟ispirazione, che precipita immediata-
mente su un territorio scivoloso perché i suoni musicali non parlano, non
sono solo segni di cose, ma assumono tutto il loro potenziale allusivo attra-
verso una fisiognomica, che trova la propria radice solo all‟interno del pro-
cesso sonoro stesso, della sua costituzione materiale. Le tesi che dovrebbero
prender consistenza sono legate al peso concettuale, che prendono le im-
magini evocate in musica, ma sembra che questa via sia, per molti versi,
l‟unica percorribile: nella poetica del suono elaborata da Mahler, nel suo
modo di intendere le forme compositive, dovremmo trovare un riflesso dei

1 Ricordiamo il dibattito mosso dagli studi di WILLIAM J. MCGRATH, Arte dionisiaca e poli-
tica nell’Austria di fine ottocento, Torino, Einaudi, 1986, incentrati sui rapporti fra dionisismo e
politica nella formazione della classe dirigente austriaca. Nel quinto capitolo di quel testo, che
adombra una lettura cosmogonico-politica della Terza Sinfonia, giustamente diventata un
classico, si ricostruisce un tessuto di testimonianze attorno alla profonda vicinanza del compo-
sitore boemo alla riflessione dell‟austromarxismo, sulla sua convinzione che la musica abbia
una natura politica, nel senso più alto del termine, come strumento demiurgico che media la
vita della comunità, portando a consapevolezza universale la posizione dell‟uomo nel mondo,
a partire dalla sua stessa fragilità. Tale convinzione, come ha recentemente mostrato Violante
nel suo studio sulla vita culturale delle associazioni operaie austriache, si trasmetterà anche a
Schoenberg, e alla sfera di compositori che ruotano attorno all‟eredita del classicismo vien-
nese (PIERO VIOLANTE, Eredità della musica. David J. Bach e i concerti sinfonici dei lavoratori vien-
nesi (1905-1934), Palermo, Sellerio Editore, 2007).
224 Carlo Serra

contenuti presenti nella filosofia schopenhaueriana, una sorta di forma im-


manente al piano espressivo, che funge da calco dell‟opera.
Cosa accade, ponendo la questione in questi termini? Dovremmo risa-
lire dal suono al concetto, in una lettura impegnativa, ma possibile, in cui
la filosofia di Schopenhauer diventerebbe un contenitore di idee musicali,
una pratica trasversale alla dimensione compositiva, quasi una forma di ap-
poggio all‟elaborazione di un modo di tenere assieme suoni e forme, in
un‟architettura che già fatica a riconoscersi nel calco della struttura sona-
tistica. Rileggere Mahler, ricercando la suggestione schopenhaueriana non
si riduce così ad un questione di sociologia della cultura, ma alla messa in
questione di una scelta consapevole, di un rischiaramento dei presupposti
opachi che orientano uno stile compositivo, che vuol essere letto nel pen-
siero che costruisce la forma sonora stessa.
Tale direzione, rischiosa quanto si vuole, ma in grado di agitare in mo-
do meno ovvio una riflessione sul rapporto suono simbolo, implica chiari-
menti preliminari, perché sottende che si apra, immediatamente, un dop-
pio piano dell‟ascolto, e un compito specifico per l‟analisi musicale: cerca-
re delle figure musicali, che alludano a contenuti esterni, muoversi dalla
traccia al referente, ritrovare il rapporto che lega il suono al mondo. Sem-
bra così che ci apra la via ad una domanda, imbarazzante ed insidiosa: è
davvero possibile muovere un‟analisi musicale, appoggiandosi ad un piano
metaforico? Il ricorso al piano della metafora è così debole, come una parte
consistente del formalismo coevo rimproverava a compositori come Mahler,
Wagner, Bruckner o Strauss? Siamo ancora così ingenuamente pre-moderni?
A tali domande, vorremmo rispondere così: l‟istanza di una musica pu-
ra, pensata in termini di descrittive meramente formali, non è anch‟essa
un‟immagine di una poetica della musica? Come parlare dei suoni, senza
scivolare, prima o poi, in termini metaforici, che vanno a tradurre, sul pia-
no linguistico, relazioni che vengono pensate attraverso il velo di un‟im-
magine? Per questo motivo, prima di iniziare a discolparci, tenteremo di
rispondere a quelle domande che mirano solo a chiudere l‟orizzonte pro-
blematico di un‟autentica questione filosofica, chiedendo anzitutto cosa si-
gnifichi metafora, quale sia il suo portato segnico, o, meglio ancora, che
rapporto la leghi alla cosa percepita: solo delineando bene i contorni di
questo problema, potremmo cercare di tracciare i limiti di una questione
che intreccia ogni discorso sul suono, indissolubilmente.
Mahler lettore di Nietzsche 225

1. Suoni che pungono


L‟idea che la forma metaforica traduca il piano della percezione po-
trebbe esser intesa in quel senso pieno, ed arcaico, come viene giocata da
Aristotele nel capitolo Ventiduesimo della Poetica, per far chiarezza, illumi-
nando dall‟esterno il senso interno di qualcosa che chiama per essere espli-
citato, come accade per il significato del discorso tragico.
Fare buone metafore non lo si impara dagli altri, perché fare buone me-
tafore significa vedere ciò che è simile, illuminare il pensiero per un breve
tratto con un‟immagine, lasciar emergere una direzione, verso cui cercare
uno sviluppo del significato di un‟incognita. Lo ricordate? Si tratta di in-
quadrare un‟incognita attraverso un‟uguaglianza di rapporti, di una conge-
nericità, per cui la vecchiaia va riportata alla paglia, perché la paglia ha con
l‟erba verde una relazione simile a quella che la vecchiaia ha con la giovi-
nezza. Il problema della Retorica trova in quel passo un chiarimento essen-
ziale. Veniamo proiettati verso un rapporto fra le cose, meglio ancora, fra
le cose e i modi del loro agire, le forme del loro carattere: solo all‟interno
di una simile tensione dinamica fra processi e forme, fra contorni e figura-
zioni, che appoggia tutto il processo di costruzione analogica. Si punta al
concetto, ma per arrivare al concetto ho bisogno di una tensione dinamica
che colga le giuste immagini, che sono, in fondo, concettualizzazioni di
rapporti, se non necessari, almeno possibili, quasi forme proporzionali, te-
se a tradurre gradienti qualitativi d‟esperienza.
Nel secondo Libro del De Anima, Aristotele ci mette di fronte al rap-
porto fra suono e corpo, e al piano delle tensioni immaginative, che lo so-
stengono2:
Quanto alle differenze fra i corpi sonori (ψοφούντων), esse si manifestano nel
suono in atto (ἐν τῶ κατ᾿ἐνέργειαν ψοφῳ). Come infatti senza luce non si
vedono i colori, così senza il suono non si distinguono l‟acuto e il grave.
Questi termini sono assunti per metafora dagli oggetti del tatto, giacché l‟acu-
to muove il senso molto in poco tempo e il grave poco in molto tempo. Non è
però che l‟acuto s‟identifichi con il veloce e il grave con il lento, ma nel primo
caso il movimento si effettua nel modo descritto a causa della velocità, nel
secondo a causa della lentezza. [420 B] Tali qualità del suono sembrano avere

2 Su questo tema, e sulle difficoltà di lettura legate a questi passi vedi il provocatorio e

stimolante saggio di MYLES BURNYEAT, “Aristote voit un rouge et entend un „Do‟: combien
se passe-t-il de choses? Remarques sur „de Anima‟, II, 7-8”, Revue Philosophique de la France
et de l’Étranger 2 (1993), pp. 262-280, oggi reperibile sull‟Annuario on line De Musica XIII,
2009 (http://users.unimi.it/~gpiana/dm13/burnyeat/burnyeat.pdf).
226 Carlo Serra

un‟analogia con l‟acuto e l‟ottuso percepiti dal tatto. L‟acuto, infatti, per così
dire, punge, mentre l‟ottuso spinge (opprime ὠθέω), poiché l‟uno muove il
senso in poco tempo e l‟altro in molto, sicché ne consegue che l‟uno è veloce
e l‟altro è lento3.

Come in tutta la trattazione del fenomeno acustico, l‟accento4 cade tanto

3 ARISTOTELE, Anima, a cura di G. Movia, Milano, Rusconi, 1996, pp. 160-161.


4 Fin dall‟avvio, la psicologia aristotelica del suono si muove con passi cauti, ponendo
come oggetto dell‟udito, la differenza qualitativa fra i corpi sonori: vi è una trasformazione
di risonanza potenziale fra lana, spugna, bronzo, legata alla testualità del corpo, alla sua
forma, e vi è un movimento che agita lo spazio, che si articola fra queste gradazioni, che
trovano la loro ragion d‟essere nella costituzione materiale del suono, che abbandona il
corpo sonoro scosso. La descrittiva della trasformazione del suono in movimento trova il
proprio modello nel campo visivo, dove il colore si rende visibile attraverso un mezzo, il
diafano: la riflessione sul mezzo di diffusione si intreccia alla qualità corporea del movi-
mento perché, se il colore ha come riferimento la superficie della cosa, il suono si espande
attraverso una sorta di movimento che scuote la materialità della cosa stessa. È proprio
all‟interno della definizione della qualità del movimento, delle sue differenti tipologie, che
vediamo riemergere il tema dell‟immagine. Il suono nasce dall‟attrito fra corpi, è processo
che accade fra ciò che risuona, e chi ascolta. Se la differenza potenziale fra la costituzione
materica dei corpi determina la possibilità della loro risonanza, come una condizione stati-
ca, essa si deve intrecciare subito al dinamismo del tema dello spazio che il suono attra-
versa nella risonanza. Il processo sonoro passa attraverso l‟attrito fra corpi e un mezzo,
come l‟aria e l‟acqua, che lo trasporta, un vuoto che è un mezzo di trasmissione per un
movimento che è già metafora, cogliendo una dialettica fra la continuità di un‟aria che tra-
sporta l‟effetto sonoro e la concavità dell‟interno dell‟orecchio, dove l‟aria accoglie quel
movimento, lasciando che imprima la sua forma. Siamo di fronte ad un intreccio fra movi-
mento, trasformazione, che ha come esito uno spostamento virtuale della forma di enorme
finezza concettuale, che evita riferimenti fisiologici troppo marcati. Il vuoto che trasporta
il suono, un vuoto che vive per essere riempito, è il luogo di una trasformazione, i cui
margini vengono delineati soltanto attraverso immagini, e riusciamo a cogliere l‟essenza
del sonoro solo mediante continue analogie fra il lavoro dei sensi: in altri termini, lo spazio
della risonanza, che esplode nel soffio, nella raffica di vento o nel tintinnare del bronzo,
mette in questione gli altri sensi, in un irreversibile processo di implicazione fra vista e
tatto, che entrano in continua dialettica con il suono. Non potremmo pensarli separati dal
prender forma del processo sonoro, in forma diretta o in forma indiretta, anche se ogni
sensibile ha il proprio organo di senso corrispondente. La stessa distinzione fra suono e
mezzo in cui si diffonde, che riecheggia la distinzione fra colore e trasparenza, la stessa idea
che il trasparente sia condizione di possibilità per la visione del colore, come l‟aria è il pun-
to di apertura dello spazio dell‟ascolto, trova una propria specificità nel fatto che, anche se
il suono è un movimento che porta dall’esterno all’interno, diventando un quasi movimento,
una quasi alterazione, e anche se l‟aria è il mezzo principale per l‟organo di ascolto, siamo
di fronte a due cose che, come scrive Aristotele, crescono assieme, perché è la continuità
che permette questa trasformazione parziale, questo parallelismo fra processi. Ciò non
equivale a dire semplicemente che è l‟aria che si muove, e non il suono, adombrando l‟idea
Mahler lettore di Nietzsche 227

sull‟immagine, che su processo sonoro: la metafora traduce aspetti qualita-


tivi del processo sonoro, che altrimenti non sarebbero pensabili in modo
pregnante. In questa prospettiva, passare da un corpo, significa diffondere la
presenza fonica della cosa nello spazio: il grave e l‟acuto sono all‟interno del
processo sonoro, li puoi trovare quando la risonanza si diffonde, quando il
suono è in movimento, in quell‟ἐν τῶ κατ᾿ἐνέργειαν ψοφῳ, nel suono in
atto. Il piano si sfrangia, proprio quando si fanno avanti le azioni che acuto e
ottuso producono, sul senso: vi è un carattere che determina il colore delle
differenti sensazioni, e tale carattere, osserva Aristotele, non dipende dalla
velocità di propagazione del suono, ma dalla forza dell‟impatto sull‟orecchio.
Il corpo sonoro è la condizione di attivazione del processo, non una semplice
traccia della cosa, neppure un semplice medium, ma si muove nell‟intrecciarsi
di queste componenti, nella traduzione del movimento in suono, nella tradu-
zione del suono in figurazione, in immagine che si fa cogliere attraverso il
piano attributivo giocato da un giudizio, che usa l‟immagine per articolare al
meglio le proprie potenzialità: in altre parole, il suono concreto mette in

di una vibratilità, attraverso cui si stacca la forma acustica, che muove il sensibile, ma, ari-
stotelicamente che movimento e trasformazione fanno tutt‟uno, e che il piano del senso è
il deposito di questo continuo lavorio. Movimento e quasi trasformazione sono forme sino-
nime, che cercano di aggirare l‟ampiezza semantica del concetto di κίνησις, oscillante fra
movimento, trasformazione, variazione di stato in una percezione: se da psicologi aristo-
telici sappiamo che il suono non si muove, ma è l‟aria che risuona, prima fuori dall‟orec-
chio, poi al suo interno, portandovi le forme sensibili, dentro a questo processo i gradienti
qualitativi saranno illustrati attraverso analogie legate al mondo della visione, della trasfor-
mazione fisica, della mutazione di stato, come accade per l‟acqua del lago, che gela pro-
gressivamente, mutando l‟assetto materico della propria superficie, nel momento della sua
massima concrezione materica, facendosi sigillo d‟una immagine del movimento. Tali cen-
ni, nella loro incompletezza, mostrano non solo l‟ambigua ricchezza del rapporto fra movi-
mento e alterazione, ma anche i nessi immaginativi mossi dalla dimensione analogica fra
sensi, che pervade tutti i piani della riflessione sull‟ascolto, prendendo forma anche nelle
relazioni fra eco e riflessione ottica, che varia a seconda della capacità riflettente dei corpi,
o ancora, nei rapporti di intensità e precisione, fra senso ed oggetto. Il tatto è un senso
particolarmente preciso perché ha un rapporto diretto con l‟oggetto, ed è solo a partire da
questa precisione diretta che possiamo giungere alla comprensione del senso del fenomeno
uditivo. La difficoltà di quest‟impostazione, ed il suo fascino, sta proprio nell‟evitare quei
dualismi che turberanno Cartesio, nel non sostare su una relazione fisiologica, ma nel muo-
vere una dialettica fra piani dell‟esperienza, fra contenuti logici, immagine, e forme della
percezione. L‟esito della straordinaria mobilità fra concetti sarà la costruzione di distin-
zione qualitativa fra grave e acuto che non avrà a che fare con la velocità del suono, ma con
la forza dell‟impatto sull‟organo di senso, producendo una trasformazione nel modo di
intendere il suono, testimoniato appunto dall‟analogia fra puntura ed oppressione.
228 Carlo Serra

movimento un processo la cui trasposizione si rivela complessa proprio sul


piano del senso. Vi è un piano qualitativo, che possiamo chiarire solo in ter-
mini metaforici, ma la metafora traduce bene l‟intreccio delle relazioni fra
organi di senso e valore dei loro rapporti5.
Una psicologia in cui la percezione è assimilata ad un‟assunzione della
forma sensibile degli oggetti da parte degli organi di senso, attraverso l‟esi-
stenza di un mezzo (in questo caso l‟aria), promette un riferimento all‟im-
maginazione, ed al senso, che mette in movimento un gioco concettuale
assai ricco.
La trasposizione immaginativa è costruzione analogica, perché traduce
un‟azione del processo sonoro, un‟azione che ha rapporti di pensabilità con
un altro quadro dell‟esperienza: il suono, che si stacca dalla cosa, solleci-
tato dalla cosa, punge e opprime, in una relazione che è dinamica, trovan-
do nel fenomeno sonoro la propria radice, che porta con sé un marchio
qualitativo del corpo sonoro che l‟ha prodotta, ma la relazione rimane tut-
ta da determinare: in altri termini, quanto Aristotele ci dice, ha a che fare
con il senso interno del fenomeno, con un precipitato concettuale che può
coinvolgere in modo traslato gli altri sensi, ma che rimane legato ai nessi
messi in gioco dal fenomeno percettivo, dalle potenzialità legate al lasciar
apparire delle immagini, che focalizzino il significato interno del processo,
le sue possibili ricadute espressive. Se vuoi pensare il grave e l‟acuto, il co-
lore delle loro relazioni qualitative, potrai pensare anzitutto che quei suoni
hanno un carattere espressivo, oltre che un rapporto quantitativo: grave e
acuto sono estremi di un intervallo musicale, che ha proprietà fenomeno-
logiche ben determinate. In questo senso6, sono relazioni qualitative, la cui
azione viene illustrata attraverso la valorizzazione immaginativa dell‟effetto:
opprimere o pungere sono azioni che vanno aldilà del rapporto quantita-
tivo fra vibrazioni, vengono pensati all‟interno di un piano che tocca la psi-
cologia dell‟ascolto, che ma che esce dal relativismo di una pura sogget-
tività empirica. Vorrei dire che sono proprietà che vengono pensate così, a
partire dal compositore, che lavorerà sulle elementari relazioni grammati-
cali, che stringono i suoni tra loro.

5 Cf. RONALD POLANSKY, Aristotle’s De Anima, Cambridge, CUP, 2007, pp. 296-297.
6 Tali aspetti vengono esemplarmente sviluppati nelle lezioni husserliane sulla logica
trascendentale, in particolare nelle sezioni sull‟oggettivazione attiva e sulla stratificazione
dell‟oggettivazione: cf. E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi attiva. Estratto dalle lezioni sulla logica
trascendentale (1920/1921), a cura di L. Pastore, Milano, Mimesis, pp. 61-71 e 113-127.
Mahler lettore di Nietzsche 229

2. Suoni che cadono

I suoni acuti e gravi pungono, opprimono, sono pesanti o sono leggeri,


stringono fin dall‟inizio una serie di legami con l‟immaginazione, con le
capacità di mostrare qualcosa in analogia o in metafora per qualcos‟altro,
ma il piano della percezione affronta una serie di sensi che emergono dal-
l‟interno del processo sonoro stesso, si parte da una fenomenologia della
percezione, che si confronta immediatamente con le proprietà materiali
del processo sonoro, e con le sintesi immaginative, che ci permettono di il-
lustrare la gravità del suono come oppressione del grave o l‟acutezza come
puntura. Per noi è molto più importante comprendere meglio le strutture
analogiche che collegano il suono all‟immagine, strutture che ci permet-
tono di pensare, articolare relazioni descrittive, che altrimenti non po-
tremmo, in alcun modo, sviluppare.
È un percorso possibile, e nel suo essere possibile e ancora sufficiente-
mente indeterminato, trova risonanza, come scrive Giovanni Piana, «nei nessi
di solidarietà e opposizione fra lo spazio e la cosa, tra il vuoto e il pieno: taluni suoni
si dicono profondi, o anche gravi. Nella gravità, tuttavia, il richiamo sembra essere a
cose come sono le pietre, con il loro peso, solidità, e pienezza. La gravità ci riporta ad
una corporeità piena, pesante, e ci rammenta la possibilità della caduta»7.
La cosa è pesante, la pesantezza inclina immaginativamente verso il
pensiero della caduta, del tonfo sordo, del precipitare, o dello scivola-
mento: il sovrapporsi delle articolazioni di senso si appoggia al carattere di
un processo sonoro, ne esplicita le tensioni dinamiche, riducendone, volta
per volta, i contesti, facendoli esplodere, lambendo un‟immagine. Una fi-
gurazione, più che una figura, qualcosa che preme sul piano del senso del-
la rappresentazione, facendo emergere delle profilature indeterminate, la
cui piena esplicitazione deve rimanere però sottotraccia.
È la direzione del senso, che disambigua l‟idea di pesantezza e di inerzia,
che si lega ai caratteri espressivi messi in gioco dal piano sensibile, timbrica,
che determina l‟aspetto testurale di un processo sonoro: che si tratti delle
risonanze gravi di un timpano o di una grancassa, del suono deformato di
un basso elettrico o del timbro della tessitura di un fagotto, la figurazione
completa il senso dell‟evento sonoro, senza esaurirlo. Per un compositore,
una sintesi attiva, che cerca un effetto producendo una determinata sono-

7 GIOVANNI PIANA, Barlumi per una Filosofia della Musica (2007), p. 63. Del testo esiste

solo un‟edizione digitale scaricabile presso l‟archivio dei testi di Giovanni Piana, nel sito
Spazio filosofico: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/barlumi/barlumi_idx.htm.
230 Carlo Serra

rità, per un ascoltatore un nesso passivo, che prende forma non appena
cerca di tradurre il flusso sonoro in una possibilità espressiva, in un pen-
siero, e viceversa. La saturazione totale, il cucirsi totale di questa margina-
tura possibile, è fuori dal contesto della nostra esperienza, non ci interessa,
né ci interessa l‟adeguazione totale dell‟immagine al suono, il senso prende
consistenza in un adombramento che è, per sua natura, pervasivo.
La questione assume un andamento tormentato: da un lato sembra che
sia impossibile saturare il senso di una valenza interna ad un oggetto che è,
per sua natura, oggetto temporale, anche quando parliamo di dinamiche,
di suoni lontani e vicini all‟ascoltatore, dall‟altro non comprendiamo bene
cosa significhi saturare da questo punto di vista, perché, in realtà, il pro-
cesso sonoro sembra rimandare a se stesso, senza necessariamente moltipli-
care il piano del riferimento: «occorre riconoscere che in queste variazioni d’in-
tensità rimane appreso, anche nel puro fenomeno sonoro, il senso del vicino e del
lontano, dell’allontanamento e dell’avvicinamento. Pianissimo, molto lontano, pia-
no, più vicino, mezzo piano, sempre più vicino, mezzo forte quasi vicino, forte vici-
nissimo, fortissimo, mi sta venendo addosso. Non sappiamo che cosa, né ci interes-
sa saperlo»8.
Non abbiamo bisogno di una totale esplicitazione del gioco che si apre
con le attese dell‟ascoltatore, né di una traduzione di quell‟avvicinarsi e
quell‟allontanarsi del processo, che va sviluppandosi verso un‟immagine ine-
splosa, per usare un‟altra bella espressione di Piana. Ma cosa intendiamo,
allora, con immagine? Proviamo a rispondere, delineando i rapporti fra per-
cezione ed immaginazione, in un luogo notevole, qual‟è la Terza Sinfonia di
Gustav Mahler (1893-1896). La centralità di queste relazioni emerge già dal-
le parole che Mahler sceglie per illustrare il proprio programma musicale:
Che la natura celi in sé tutto ciò che vi è di tremendo (schauerlich), di grandioso e
anche di amabile […] questo evidentemente nessuno lo sa. Mi ha sempre colpito il fatto
che la maggior parte delle persone, quando parlano della «natura», pensino solo ai fiori,
alla fragranza dei boschi, ecc. nessuno conosce il dio Dioniso, il grande Pan 9.

Nella lettera del 1896, inviata al Dottor Batka, che fa parte di un episto-
lario in cui il compositore spiega, passo dopo passo, la genesi della compo-
sizione, incontriamo un aggettivo che ci attrae molto, schauerlich, che indi-
ca la gradazione qualitativa attraverso cui dobbiamo pensare l‟aspetto tre-

8 Ivi, p. 40.
9 WILLIAM J. MCGRATH, op. cit., p. 118. Il passo è tratto da GUSTAV MAHLER, Briefe,
1879-1911, a cura di A. Mahler, Berlin, 1925, pp. 214-215.
Mahler lettore di Nietzsche 231

mendo della natura: il suo portato rimanda alla fenomenologia dell‟orribile,


all‟evento che fa sobbalzare, e trova radice nel termine Schauer, suono ono-
matopeico, che indica lo scroscio dell‟acqua, la grandinata, e, in senso poe-
tico e traslato, il brivido.
Vi è un piano dell‟orrore, che si intreccia immediatamente ad un fatto
acustico: rimanda all‟irrompere di qualcosa che si rovescia su di noi, che ci
bagna, che ci fa rabbrividire attraverso il contatto vivo con la nostra pelle.
L‟orrore della natura si coagula immediatamente su un piano fisiologico,
nella reazione di fronte all‟irrompere dell‟acqua sulla pelle, ma il gioco di
trasposizioni espande il piano psicologico-corporeo, verso una dimensione
dell‟espressivo, in un ripensamento analogico delle categorie d‟esperienza:
come il brivido è il prodotto di un‟esposizione ad una continuità che tocca
e sensibilizza, trasformandoci, così siamo costantemente esposti al suono,
alla sua crudezza, ed al dilagare del suo carattere diffusivo. Sotto forma di
rumore, o di nota musicale, il suono si diffonde nell‟aria, definisce i carat-
teri qualitativi di un‟atmosfera, e incombe con tale forza, che neppure il
coprirsi delle orecchie dà tregua alla violenza delle sue dinamiche.
Il suono e la sua terribilità attraente, rimandano così ad una natura che ci
circonda, e che nasconde la sua essenza: il suono ci scava, ci trasforma, passa
dal piano di un‟immediatezza corporea incontrollabile (il lettore di Schopen-
hauer pensa immediatamente ai modi di manifestazione della volontà, che
trovano il proprio carattere esplicativo nel corpo), alla manifestazione di un
significato, che in quella forma processuale esplode con pienezza.
L‟immagine contiene il precipitato di tutte le pratiche compositive del-
la sinfonia, creando un programma interno, che si sovrappone alle cesure
formali delle varie sezioni, che ne articolano i movimenti: l‟immagine
contiene una forma, e si imprime in tutte le componenti costitutive del
brano, creando una continuità espressiva, che emerge anche dalla qualità
dell‟orchestrazione, dalla disposizione spaziale dei corpi sonori da cui il
suono dovrà raggiungere l‟ascoltatore, circondato da un esercito di stru-
menti a percussione, sostenuto da quattro strumentisti. Le scelte organo-
logiche di Mahler lo pongono al centro di uno scontro direzionale fra suoni,
di un conflitto che inizia nel palcoscenico, fuori dalla buca dell‟orchestra, o
meglio ancora, a distanza dall‟organico, dove verranno posti un flicorno ed
un gruppo di piccoli tamburi, trasparente riferimento alla dimensione me-
taforica della battaglia, che si stacchino nettamente dal fondo sonoro delle
sezioni orchestrali.
Lo stesso etimo del nome flicorno rimanda alla funzione della tromba
232 Carlo Serra

nel campo di battaglia, quando veniva usata per raccogliere le ali dell‟eser-
cito ed indirizzarle verso il centro in un attacco frontale: la sintesi immagi-
nativa ha un suo significato perché l‟ascoltatore dovrà avvertire questo con-
flitto frontalmente, lacerando l‟unità prospettica della direzione del suono.
Il senso di una rappresentazione del mondo, all‟interno della Sinfonia, si
accende attraverso un riferimento ad una messa in scena della dispersione
delle fonti nello spazio, dei rumori nel mondo, che riesplodono nei portati
immaginativi del suono. La drammaturgia della rappresentazione dello schauer-
lich è l‟immagine di un caos sonoro, la messa in mora della neutralità della
posizione d‟ascolto: il disgregarsi del mondo dei suoni rovina sull‟ascolta-
tore: ma la natura bifronte di questa rappresentazione del carattere del
mondo, della sua essenza ludica e crudele, si espande anche al piano della
beatitudine, che corre lungo l‟articolazione della sinfonia, e che avrà come
momento apicale il commosso congedo dell‟ultimo movimento. Prima di
quel grande momento di meditazione pietosa sul mondo, che verrà cantato
da tutta l‟orchestra, cinque o sei campane andranno poste in alto, in gal-
leria, assieme al Coro dei fanciulli che canterà nel V movimento, aprendo
una dialettica profonda fra i due gruppi posti fuori dal palcoscenico, in evi-
dente opposizione semantica, anche se non debbono suonare assieme, ri-
mandando così all‟idea di un conflitto fra idee extramusicali.
L‟orchestra mahleriana si colloca così all‟interno di uno scontro spaziale
per nulla banale, per una rappresentazione di un conflitto, che è l‟immagi-
ne del divenire di tutte le cose, di una natura che costruisce per distrug-
gere, seduce per ferire. L‟insistenza sul carattere diveniente trova il pro-
prio aspetto più impressionante in una raccomandazione che tocca il tim-
bro e l‟alterarsi del suono dal suo interno: gli abbellimenti, i trilli di questa
enorme partitura andranno eseguiti senza trovare la soluzione su una delle
due note, tutti i trilli non si chiudono, rimandando all‟idea di una altera-
zione che non si risolve, pura messa in scena della trasformazione plastica
del suono orchestrale. Se nel trillo, come scrive bene Giovanni Piana10,
dovremmo vedere un riferimento al trasformarsi di una nota in un‟altra, di
una alterazione del suono come modificazione processuale che lo accende
dall‟interno, in questa sinfonia la tensione dell‟abbellimento non si deve
risolvere mai, mentre ogni suono deve rimanere sul piano del flusso, della
pura metamorfosi, senza che quel processo prenda una direzione.

10 GIOVANNI PIANA, Il cromatismo, 2004. Del testo non esiste un formato a stampa, ma

la versione digitale (con esempi musicali) è scaricabile nel sito di Giovanni Piana: http://
filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/cromatismo/cromatismoidx.htm.
Mahler lettore di Nietzsche 233

Tutto il suono trema dall‟interno, secondo un‟indicazione poetica che


forse sarebbe piaciuta ad Hegel, arrivando però a toccare nel gioco seman-
tico della metamorfosi la stessa identità organologica dello strumento,
cavandone fuori un timbro mutante, che è suono di natura. Il suono perde
la propria identità, si fa magma, e forse potremmo descrivere il processo
che ci espone al suono di natura solo così: lontano, struggente, forte,
vicino, fortissimo, mi precipita addosso. Ma cosa mi precipita addosso, in
questo modello ristretto? Solo l‟immagine, che rimanda ad una concet-
tualizzazione della natura, permette di dar ragione di questa poetica del
suono e, almeno in questo senso l‟immagine è il precipitato di un concetto,
di una stilizzazione, che trova nell‟involucro sonoro, le caratteristiche pre-
gnanti della propria capacità rappresentativa: timbro, ritmo, armonia, sono
configurazioni mobili, che ora trasportano un valore, sigillato nel pensiero
compositivo dell‟opera, attribuendole uno statuto ambiguo, oscillante fra
mille varianti, all‟interno però di un riferimento di senso ben scandito.
L‟incipit della Sinfonia è caratterizza dal conflitto fra due marce, tra cui
una Marcia Funebre: l‟idea di una materia bloccata nella staticità, che impe-
disce lo sviluppo della forma, per farla ricadere all‟indietro è suggerita magi-
stralmente dal disegno delle trombe, dal ricadere dei fagotti, dagli accenti
delle viole, dalle risalite rabbiose degli archi gravi, che creano una tensione
figurale, e timbrica, delineata in modo non ambiguo. Sono suoni pesanti, che
si scuotono disperatamente, ma riprecipitano in un‟inerzia dolente. McGrath
definisce questa situazione sonora una figurazione di massiccia gravità, ma
l‟esplicito riferimento al grave, all‟inerte, è presente nelle stesso Mahler, che,
nelle sue conversazioni con la Bauer–Lechner osserva11:

In realtà non si tratta quasi più di musica, ma, per così dire, di voci della natura, ed è
terribile vedere come dalla materia inanimata (avrei potuto intitolare questo movimento
Ciò che mi racconta la montagna rocciosa) la vita lotti per aprirsi, a poco a poco,
un varco.

Voce della natura: suoni musicali che raccontano, attraverso la loro sintassi,
e l‟articolazione del timbro, il messaggio cifrato del rumore, il doloroso
farsi avanti della forma, che si ritaglia dentro al suono stesso, in un paral-
lelismo istantaneo, che fa parte integrante di un ragionamento non ingenuo
sulle potenzialità semantiche dell‟iconicità sonora, nell‟inerenza stretta che
lega la mobilità del suono al profilo inerte della cosa evocata. Il suono si fa

11 WILLIAM MCGRATH, op. cit., p. 120.


234 Carlo Serra

voce di una natura che parla, in quel legarsi di voce, significato ed im-
magine, che corre nei testi aristotelici, si disambigua solo muovendosi ver-
so il concetto, verso un sistema di valori, che lo decodifica: è una natura
profondamente pensata, concettualizzata, che può dar luogo a forme mi-
metiche intese secondo la ricchezza di questa direzione, dove l‟immagine è
ossificazione di un concetto, e il piano simbolico trova fondamento in una
meta musica, che parla della totalità espressiva del mondo dei suoni. Il tea-
tro dell‟udito è un mondo che si rivolge immediatamente all‟ascoltatore,
ma il messaggio è interno all‟articolazione formale del brano, che, come
uno specchio, intercetta il movimento dell‟immagine, la sua intermittenza:
il vuoto che trasportava il suono, si è fatto scena, i suoni, mondo, la mera
risonanza si traduce come espressività.
Il tema della meta-musica, così essenziale per comprendere la filosofia di
Schopenhauer, nel rimandare ad una musica che, esibendo le regole della
propria grammaticalità, illustra l‟immagine del mondo, come accade per la
grande rassegna di bocche che popolano l‟immaginario de Il Mondo come Vo-
lontà e Rappresentazione, bocche spalancate dalla fame, che fremono nel sesso
o che cercano aria nel soffocamento della morte, colte in gesti che illustrano
l‟azione diretta della volontà sul preriflessivo del corpo, ora deve trova una
rappresentazione nella costruzione specifica del modello fonico, che tiene in-
sieme la capacità dei processi sonori di dar voce all‟essere. La logica com-
positiva che sostiene, ad esempio, la melodia della tromba, che non riesce a
svilupparsi e che si arrampica faticosamente all‟interno del proprio disegno,
facendo avvertire uno sforzo di risalita, appena prima della caduta, enfatiz-
zanndone la rovinosa implacabilità troverà una piena esplicitazione nel tema
della vita, che incontriamo nel quarto movimento, composto prima del vasto
movimento iniziale che apre la sinfonia. Abbiamo così una sorta di cifratura
interna, una struttura narrativa che trova il proprio motore nella torsione di
una melodia12, che trova risonanza in un‟immagine, e che emergerà ancora,
deformata e in forma di lamento, prima di essere assorbita nel flusso di tra-
sformazioni incessanti, messo in gioco da Mahler negli sviluppi del primo

12 La logica compositiva che opera sul piano melodico, nel continuo rimando alla for-
ma scalare, che prende forma nello sviluppo del tema che apre la sinfonia, nel canto dei
corni, nell‟insistito rimando grammaticale alla terza ascendente, e anche nella caduta per
gradi congiunti del tema dei corni e della tromba, determina l‟individuazione di una serie
di fattori stilistici che puntano ostinatamente in una sola direzione. Si plasma la melodia in
modo che non riesca a volare, che l‟articolarsi del suo disegno non riesca a sottrarsi ad una
serie di relazioni di ordine scalare, che la riportano sempre al tono d‟origine, in un moto di
caduta su se stessa, che non dà requie.
Mahler lettore di Nietzsche 235

tempo. Contrapposta ai lamenti di una vita che vuol nascere, un‟altra im-
magine schopenhaueriana, quel dorso brullo della montagna, rappresen-
tazione schiacciante dell‟eterno e del desolato che popola le inquietudini dei
Supplementi al Mondo, ora atterrisce, ma è tutto il piano di violente trasforma-
zioni del suono, che in molte sezioni sembrano rimandare ad una rappresen-
tazione del rumore, che è suono di natura.
Si crea una drammaturgia circolare: la vita che cerca un varco e l‟im-
possibilità delle melodie di poter durare e svilupparsi in modo pieno, van-
no stringendosi fra di loro, per fissare gli estremi di uno spettacolo violen-
to, in cui il suono è torturato, i caratteri degli strumenti portati al limite, e,
così, svelati nella loro essenza.
Ma dietro al denso costrutto musicale, si pone il problema più delicato,
che rimanda ad una tensione demiurgica interna all‟ascolto. Il compositore è
decifratore del rumore della natura, di un traduttore in musica del rumore
degli elementi, un rumore che chiama un ascoltatore, per esprimere fino in
fondo il gioco metafisico della rappresentazione di un caos originario, che na-
sconde l‟inerzia del funebre, il falso movimento, una cineticità senza speran-
za, da cui emerge la potenza della vita, e sue infinite trasformazioni: è il con-
cetto di volontà schopenhaueriano, ambiguo e pieno di tesori.
Siamo così di fronte ad uno schema: la musica riproduce i rumori della
natura, meglio li porta con i propri mezzi a rappresentazione, crea delle
sintesi fra i caratteri messi in gioco dal timbro forzato degli strumenti, e le
possibili sintesi immaginative determinate dall‟espressività del suono. La
percezione cade sotto la presa di oggetti sonori allusivi, in strutture dove
regole fenomenologiche e procedimenti musicali si fondono (cancellazione
del motto iniziale, passaggio poliritmico della stessa cellula che inizia ad
oscillare, sovrapporsi cupo delle vibrazioni di timpano e grancassa, come
epifania del suono musicale dal materico, ricostituirsi poliritmico del suo-
no musicale come marcia funebre, irresistibile tendenza alla caduta delle
linee melodiche, la cancellazione dei fondali, attraverso una neutralizzazio-
ne delle concatenazioni armoniche, il colore scuro dell‟orchestrazione, la
tecnica di sintesi del suono dei corni, il lasciar emergere la tromba, risuc-
chiandogli attorno tutto il fondale sonoro, i movimenti ascensionali di con-
trabbassi e violoncelli che continuano a ricadere indietro, e così via), per
dar luogo a delle immagini, che trovano la loro traduzione nel concetto di
voce della natura, di rappresentazione mitologica dei portati espressivi del
rumore in una sintesi di valore. Per dar forza allo schema, i caratteri orga-
nologici degli strumenti verranno portati al limite, i violoncelli vibreranno
torturando le corde oltre i limiti del consentito.
236 Carlo Serra

Se le cose stessero così, il ritorno all‟immagine dell‟eco o alla valoriz-


zazione del suono di natura come emerge dal mito di Pan e Siringa, dove il
frusciare del vento si trasforma in voce della Nereide, grazie alla dimensione
demiurgica della musica e dell‟organologia diventa una forma simbolica: del
resto, tale aspetto rimanda a quella nozione metafisica di carattere rimeditata
da Wagner e Schopenhauer, in cui l‟impronta noumenica del carattere, del-
la sua marca originaria, esprime, al tempo stesso, un destino, ed una fisio-
gnomica dell‟essenza, come accade per il leone, che ha i denti perché è fero-
ce, e non viceversa. Il carattere è la forma espressiva originaria, che giace nel
suono, ed il compositore deve estrarlo.
Viene così in gioco una polifonia, in grado di rimettere assieme il senso
della voce della natura con la musica e la relazione trova una traduzione nel
famoso aneddoto che vede Mahler e suoi amici sorpresi in un pomeriggio di
festa, su un sentiero, vicino ad un paese. Nella piazza gruppi e bande diverse
si trovano a suonare contemporaneamente musiche completamente diverse
tra loro: organetti, corali, musica da banda creano un‟enorme confusione,
strati sonori che si sovrappongono, rievocando rumori, forme di vita lon-
tane, incrociandosi in un paesaggio sonoro che fa esclamare a Mahler13:
Sentite? È questa la polifonia a cui mi ispiro […] Fa lo stesso se un fracasso del genere
venga dal canto di una moltitudine di uccelli, o dal mugghiare di un uragano, dallo
scrosciare delle onde o dal crepitio del fuoco. I temi devono provenire proprio così, da parti
del tutto diverse e il loro ritmo e la loro melodia devono essere completamente differenti
[…], e all’artista spetta solo il compito di ordinarli in un tutto concorde ed armonioso.

Le immagini omeriche della voce della natura (la citazione risale proprio ad
un‟immagine dell‟Iliade, analizzata da Patrizia Laspia14), sono in risonanza
con una musica che ora vuole orchestrare la massa di fonti sonore, per fon-
derne tra loro i portati simbolici. Il montaggio deve partire dal caos, dal
confondersi delle diverse matrici: il rapporto suono-rumore è una masche-
ra della dimensione di un richiamo alla forma di vita, al sistema di valori, in
cui il compositore si fa medium, ricompattatore dell‟unità dell‟esperienza.
La polifonia trova nel rumore l‟eco del mondo, e i suoi concetti, le im-
magini della vita e della volontà, creando una nozione di mondo ambiente15.

13 NATHALIE BAUER LECHNER, Erinnerungen an Gustav Mahler, a cura di J. Killian, intro-

duzione di P. Stefan, Leipzig, p. 147. Cf. anche il commento che ne offre Eggebrecht (v.
infra, nota 19) a p. 157.
14 Iliade, Q, 394-401. Cf. PATRIZIA LASPIA, Omero linguista. Voce e voce articolata nel-

l’enciclopedia omerica, Palermo, Edizioni Novecento, 1996, pp. 54 sgg.


15 È stato Eggebrecht ad indicare la nozione di polifonia, come interpretante di questo
Mahler lettore di Nietzsche 237

La musica mette in relazione due modi intendere lo spazio, una spazialità af-
fettiva, atmosferica, e un‟architettura: l‟armonia fra suono e rumore è un‟uto-
pia, l‟eco di una fusione fra materiali e forme di vita, che intrecciano un dia-
logo fra loro, nel momento in cui il contenitore stesso del concetto di Sin-
fonia s‟è dissolto.

3. Suoni della mezzanotte


Avviciniamoci al quarto movimento della Sinfonia, per chiarire il senso
della rappresentazione della natura in Mahler, guardando al modo in cui
egli cerca di creare una drammaturgia sonora, un commento musicale, ad
un passo nietzscheano.
O uomo, fa’ attenzione
Che cosa dice la profonda (tiefe) mezzanotte?
“Io dormivo, dormivo –
Da un sonno profondo mi sono svegliato
Il mondo è profondo
Più profondo di quel che il giorno ha pensato
O Uomo(Aggiunta di Mahler) Profondo è il suo dolore

passo. In filigrana, dovremmo leggere in questa concezione uno straordinario elogio delle
tendenze di organizzazione del materiale, che vuol contrapporsi al formalismo che tanto peso
assume nelle opere di un critico come Hanslick. L‟osservazione è penetrante, ma merita di
essere rafforzata anche in una direzione più attenta al rapporto suono-mondo. In Mahler i ma-
teriali, i suoni provengono da contesti spesso irriducibili tra loro, coprendo ogni registro, dal
volgare al sublime, dalla marcia funebre alla canzone da osteria. La cosa è talmente vera che
una marcia funebre può trasformarsi in canto da osteria, come accade nella Prima Sinfonia:
queste fusioni narrative, che trovano il loro senso nell‟immagine che sostiene quella dram-
maturgia, stanno sulla superficie della musica, premono per uscirne. La musica cerca il mon-
do, trova nella nozione di mondo il suo significato estetico, e politico. La sinfonia è il terreno
dove l‟eterogeneo acquista organicità, ma il compositore vedere nell‟eterogeneità l‟emergere
del canto del mondo, che, è, nella sostanza cacofonia e lacerazione, gioco di registri sublimi e
triviali. Essi portano dentro di sé latenze immaginative che si confrontano con la qualità della
stilizzazione. L‟uso di materiali eteronomi ha un preciso significato compositivo: la polifonia è
contaminazione che propone una sonosfera, che ritrova unità nella narrazione, che fonde i di-
versi punti di vista nell‟articolarsi di un racconto sonoro. L‟istanza costruttivista che sta dietro
a questo discorso rimanda ancora alla categoria dell‟identico, perché l‟insieme di questi ele-
mento originariamente si coappartiene, e costituisce il mondo, la bolla acustica che ci avvol-
ge. Il problema del simbolico, giocato in questi termini, spiega bene perché Mahler guardasse
con sospetto all‟idea di una musica a programma: egli ne teme la definizione rappresentativa,
la vocazione ad un realismo metaforico, che si perda sul piano della rappresentazione, mentre
l‟articolazione del mondo della volontà si lega all‟eterogeneo, allo zampillare di immagini che
entrino in una dialettica concettuale, che vada aldilà della cosa stessa.
238 Carlo Serra

Il piacere, più profondo ancora della sofferenza:


il dolore dice: passa! (va’ via!)
Ma ogni piacere vuole eternità –
Vuole profonda, profonda (tiefe) eternità”16.

Ci vengono incontro parole misteriose, ed ambigue: narrano assieme una


visione notturna, e la storia di un risveglio: nell‟ultima parte di Così parlo
Zarathustra (1884), notte, la voce che parla nella notte è quella della natu-
ra, rivelando il significato umano dell‟esistenza.
Mahler sceglie il Canto del nottambulo17, che prepara alla chiusura del-
l‟opera, punto apicale del messaggio di Nietzsche: il testo era già apparso
in chiusura della terza sezione dell‟opera, La seconda canzone di danza, dove
ogni verso 18 , veniva contrappuntato dal rintocco della campana, che ne
scandiva i versi, ritualizzandone il contenuto. Nella profondità metafisica
del sonno, l‟unico luogo in cui si può rivelare l‟essenza del mondo per il
Beethoven di Wagner e per l‟ultimo Schopenhauer, il mondo appare pro-
fondo, ed ambiguo: di giorno, non riusciamo a coglierne fino in fondo la
natura, il pensiero non riesce a circoscriverlo, di notte si manifesta, sol-
lecitando urlo e incubo. L‟enigma che arresta il pensiero è semplice: il
mondo è invaso da un dolore profondo mentre cerca piacere, e il para-
dosso trasforma la logica del godimento in un gioco fra strutture tempo-
rali, fra senso complessivo di un‟esperienza e condensazione del suo signi-
ficato. Sul piano semantico ricorre ossessivamente l‟aggettivo profondo
(tiefe), che tocca notte, mondo, sonno, dolore eternità del piacere: ad esso
sembrano contrapporsi, con intensità inferiore, il giorno, la sofferenza,
meno profonda del piacere, ed il pensiero, che non sa riconoscere le rela-
zioni che legano fra loro tutti questi concetti.
Abbiamo appena osservato che l‟area toccata dall‟aggettivo ha forti ine-
renze con un‟oscurità che invita ad entrare dentro di sé, all‟ebbrezza del
farsi inghiottire nella tenebra, per trovare un rifugio o la risposta ad un
problema: la profondità assume la valenza di un abisso che accoglie, e di
un‟illimitata permanenza, di una disponibilità senza fine, ma questo implica
che il dolore, dimensione predominante della nostra vita, cerchi di ridurre
il piacere alla puntualità dell‟istante, proprio quando è lo stesso piacere a

16 Ho in parte revisionato la traduzione del passo presente in F. NIETZSCHE, Così parlò

Zarathustra, tr. it. di S. Giammetta, Milano, BUR, 1985, p. 339.


17 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, II, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano,

Adelphi, 1976, pp. 393.


18 Ivi, p. 277.
Mahler lettore di Nietzsche 239

disporsi nella dimensione lineare della permanenza, ad aspirare ad un‟eter-


nità. Ma cosa può mai significare l‟espressione eternità profonda? L‟eter-
nità profonda sembra nascondersi dietro all‟orrore del dolore, che si fa ap-
parenza. La rivelazione mostra come tutto il tessuto connettivo su cui pla-
smiamo i valori della nostra esistenza sia, nella sostanza, illusorio, e quanto
sia fuorviante la nozione di dolore, intesa come riscatto morale del mondo
o come rinuncia. Riandare alla chiarezza come maschera dell‟oscurità, o al
dolore come autentica dimensione della vita ci raggela in una contrapposi-
zione che coglie solo la superficie del partecipare al mondo.
Il dolore è una maschera, dietro alla quale vi è l‟idea di potersi distaccare
da quello spettacolo, proprio perché si è in sua balia: immersi nell‟orrore del
paesaggio della natura, impariamo a rispettarci come creature consapevoli
della propria caducità, e della bellezza del gioco di forze, di cui siamo vittime
e complici. Potremmo chiederci se il testo ci parli di una posizione edonista,
ma un edonismo che cerca dietro al dolore, il significato di un piacere eter-
no, è molto strano, ma forse è lo stesso Nietzsche a suggerirci il significato
profondo di questo passo, che mette in gioco il concetto opposto a quello
d‟eternità, il concetto di attimo e di concatenazione temporale:
Avete mai detto Si ad un piacere? Allora, amici miei, avete detto Sì anche a tutta la sof-
ferenza. Tutte le cose sono concatenate, intrecciate, innamorate Se avete mai voluto l’u-
na volta due volte, se avete mai detto “Tu mi piaci, felicità, soffio, attimo, allora avete
voluto che tutto ritornasse! Tutto di nuovo, tutto in eterno, tutto concatenato, intrec-
ciato, innamorato, oh, allora voi avete amato il mondo”19.

Nelle parole tese verso l‟arduo mito dell‟Eterno Ritorno, dovremmo raccoglie-
re l‟idea di un ordine sotterraneo, che unisce tutte le cose, tutte le nostre rap-
presentazioni, e ancora una volta vediamo la forza della volontà che tutto
scuo-te nel desiderio. Il tema diventa così quello, ambiguo, della rivela-
zione: alla fine di un viaggio iniziatico, Zarathustra annuncia il significato del-
l‟esistenza ed annuncia che piacere, dolore, vita, morte, sono indissolubil-
mente legate tra loro, e che questo legame è il nostro destino: nel campo di
forze che sostiene tutte le interpretazioni del mondo, piacere e dolore si com-
penetrano, perché aver detto si, aver pensato che un attimo fosse degno di es-
sere vissuto, significa accettare il senso di un gioco che ci distrugge, ma a cui

19 Ivi, p. 392. Un commento alla drammaturgia musicale del passo è offerto da HANS
HEINRICH EGGEBRECHT, Die Musik Gustav Mahlers, München, R. Riper GmbH & Co, 1982,
trad. it. La musica di Gustav Mahler, a cura di L. Dallapiccola, Firenze, La Nuova Italia, 1994,
p. 136: esso si stacca sensibilmente dal nostro approccio a questo problema.
240 Carlo Serra

non possiamo non partecipare. È certamente un‟elaborazione insidiosa della


concezione della natura di Schopenhauer, che viene ora proiettata, genialmen-
te, in una dialettica del valore, e dell‟interpretazione, che ne rovescia il senso,
staticizzandola: in Schopenhauer l‟ambiguità è degna di essere vissuta, perché
ancora legata ad una fragilità che è un valore, in Nietzsche quella fragilità è il
luogo dell‟abbraccio metafisico di un sistema di valori fallaci.
Vi è poi un altro gradiente che entra in gioco: il buio copre la luce, ma
è come se fosse sempre notte: il profondo ed il buio sono una chiave per la
comprensione della superficie del mondo, ma sono anche un tema caro al-
l‟orfismo, che Nietzsche e Mahler conoscono assai bene. Per comprende-
re il portato della relazione, entriamo nell‟evocazione di una dimensione
orfica, dove la notte è madre saggia del giorno: la profondità (τό βάθος)
della notte non tramonta come la luce, ma, in se stessa, viene raggiunta dai
raggi della luce e rivela, nel giorno, il suo significato; ma se la notte non
tramonta mai, viene solo illuminata dal giorno, ma essa permane sempre lì, è
il tacito presupposto βάθος, profondo. L‟aggettivo, nella lingua greca, ha
immediata designazione di tipo spaziale, ed indica una profondità che so-
stiene qualcosa, come il portante che sostiene un ponte: affonda nella ter-
ra, per mantenere alla luce qualcosa, ma non è visibile, sostiene per porta-
re alla luce, il presupposto invisibile di qualcosa che urge, per venire alla
luce. La notte genera e sostiene il giorno, ma è lì per essere trafitta, da un
raggio, che penetra nella sua tenebra: quel raggio irrompe, ha il carattere
di un punto mobile, che ne mette in luce le profondità, le articolazioni che
lo accolgono, ma mentre il raggio è destinato a tramontare, mentre la not-
te rimane, sostrato permanente, immagine di una continuità impenetra-
bile, che continua ad offrirsi allo sguardo, che lo sostiene non uscendo mai
da una latenza necessaria come la gioia che è il lato oscuro del dolore.
Fissando questa relazione implicita, il βάθος diventa categoria estetica,
profondità malinconica dell‟anima, pronta ad accogliere il piano del subli-
me. La notte che accoglie e sostiene secondo la concezione orfica mostra
sorprendenti affinità con il Tiefe di cui vanno parlando Nietzsche e Mahler
in una relazione che non è contenutistica (il concetto di gioia nietzscheano
non sembra riconducibile all‟orfismo), ma funzionale: lo splendore assume
senso perché si attende il ritorno della tenebra, quella tenebra in cui tutti si
rivela il disegno che tiene assieme i nessi del mondo, cogliendo le modalità
per cui ogni cosa si fonda nell‟altra, così come la verità attende il ritorno
della menzogna, ma è nel gioco chiaroscurale di questo gioco di maschere,
nell‟incorcio dei riferimenti coperti da quel piano profondo che emergono
Mahler lettore di Nietzsche 241

le forme eterne di una dialettica che ripresenta sempre la stessa cosa, lo


stesso conflitto apparente, nascosto dal baluginio del giorno.
I riferimenti orfici sostengono la concezione della notte cui si appoggia la
lettura nietzscheana di Mahler: secondo Henry-Louis de La Grange 20, il te-
sto del Lied lo attirerebbe proprio perché mette in questione la luce, il sole,
la chiarezza, tutti elementi caratteristici dell‟arte tradizionale, assieme alla ri-
cerca della verità: l‟uomo dovrebbe trovare un nuovo modo per percepire il
mondo: a mezzanotte si affaccerebbe la rivelazione di un nuovo modo di in-
tendere il mondo. Mahler, a sua volta decide di intitolare il movimento Ciò
che la notte mi dice (L’umanità): nella lettera, parallela alla composizione della
Terza, Mahler scrive: “qui tutta la natura riceve una voce e ci racconta di segreti
così profondi, che possiamo intuire solo nei nostri sogni”. Quella che per Nietzsche
è una dialettica, per Mahler è una rivelazione dell‟ambiguità della natura, che
ora si svela: i due piani sembrano profondamente lontani fra loro.
Il destino dell‟uomo è tutto nel gioco di lettura e decifrazione del signi-
ficato del mondo, ma quel significato non il luogo della maschera dell‟i-
dentico, ma l‟orizzonte di un mondo di valori legato all‟ambiguità della
natura: la cosa è tanto vera, che lo stesso compositore accentua tale aspet-
to, attraverso un‟interpolazione diretta sul testo21 di Nietzsche, aggiungen-
do a Die Welt ist tief / Und tiefer als der Tag gedacht, / Tief ist ihr Weh (il Mon-
do è profondo, e più profondo di quanto il giorno non abbia pensato. Pro-
fondo è il suo dolore), quell‟esclamazione Oh, Mensch! Oh, Mensch, che crea
un‟ambiguità lessicale importantissima. Il dolore è compartecipato, prende
una sfumatura affettiva molto più forte, perché è come se Mahler pren-
desse per mano l‟ascoltatore, facendo identificare il suo destino con l‟ir-
resistibile dimensione ludica, e crudele, della natura, aprendo la via ad un
piano che metacompositivo, in cui tonalità affettiva e la visione partecipata
al mondo, vengono a coincidere.
Nel Lied, datato 24 giugno 1895, Mahler mette alla prova quell‟idea di
polifonia, di suono-mondo, creando figurazioni musicali che si fanno for-
ma, personaggi che, muovendo da materiale compositivo molto semplice,
riescano a dialogare fra loro, effettuando una cesura tra le varie situazioni
espressive. Siamo di fronte ad una straordinaria drammaturgia dello stati-
co, dell‟inerte, dell‟assenza di movimento, che si riempirà, progressiva-

20 HENRY-LOUIS DE LA GRANGE, Gustav Mahler: chronique d’une vie, préface de Pierre


Boulez, Paris, Fayard, 1984.
21 MORTEN SOLVIK OLSEN, Culture and the creative imagination: The genesis of Gustav

Mahler’s Third Symphony, vols I and II, 1992, p. 26 (Dissertations available from ProQuest, Paper
AAI9308641: http://repository.upenn.edu/dissertations/AAI93086419).
242 Carlo Serra

mente di eventi, addensandosi, per spegnersi ancora. Il gioco con la qualità


timbrica del suono interagisce immediatamente con i fatti percettivi,
creando una vettorialità di senso, che rafforza la semantica del testo, in una
rilettura della poetica nietzscheana molto vicina alla tematica del sogno
pensata da Schopenhauer e da Wagner, con la significativa differenza che
l‟urlo suggerito dalle immagini della volontà qui si fa parola, in un clima
sommesso.
Il gioco passa attraverso una rivisitazione dei materiali compositivi, del-
le cellule tematiche del primo tempo, composte dopo il Lied ma rielabora-
te a partire dal testo del canto: il pesantissmo rimando alla natura, dalla na-
tura alla musica, per ricadere nella natura, in un circolo che il Goethe del
Viaggio in Italia, perso nell‟ascolto dei canti dei gondolieri di Venezia e lo
Schopenhauer del Secondo Libro del Mondo hanno tratteggiato in modo
irreversibile, neutralizzano il riferimento alla volontà di potenza, o al nuo-
vo infinito ermeneutico che non trova spazio nella cosmologia di questa
musica, scolpita nella metamorfosi delle forme, più che della ripetizione.
Nel gioco delle forme, non vi è alcun messaggio che sviluppi il senso della
redenzione, o che rimandi alla rotondità dell‟anello del tempo.
L‟introduzione, assai lenta è di diciassette battute: siamo raggiunti da
un annuncio che viene da una regione sonora profonda evocata dall‟uniso-
no di violoncelli e contrabbassi che eseguono, in sordina un tono discen-
dente, in pianissimo. Va rilevato l‟uso raffinatissimo dell‟arpa, che manda
un suono tagliente, donando luminescenza al disegno delle regioni scure
degli archi dell‟orchestra. Si tratta del tipico rapporto fra luce ed oscurità,
determinato da un accostamento timbrico. Nulla accade in queste prime
sette battute, se non il fremere della natura nella transizione ritmica. Infine
viene enunciato, due volte, il tono discendente Si La. Sembra che Mahler
voglia imprimere questo disegno elementare nella coscienza dell‟ascoltato-
re. Il canto notturno, quarto movimento della Sinfonia, è breve. La sua to-
nalità è il Re maggiore, e effettua continue transizioni in Re minore, in una
statica pateticità. Il ritmo di partenza è 2/2, ma il brano passa immediata-
mente a 3/2, per poi tornare sulla pulsazione di base. La statica animazione
determinata dal passaggio ritmico a tre quarti, sollecita l‟impressione di un
dondolamento, dell‟affacciarsi di qualcosa, dell‟accadere di un mondo, di
un venire alla luce che si trattiene in una penombra. Tutto sta fremendo
lentamente, e l‟espediente narrativo, nella sua elementarità, è potente: il
chiaroscuro, suggerito con questa leggerezza attrae verso lo scuotersi di
una pesantezza che cerca se stessa, che si muove verso una forma. Il gioco
della transizione fra le scansioni ritmiche è insistito come il lavoro di of-
Mahler lettore di Nietzsche 243

fuscamento del suono, di evocazione di un lontano profondo, attraverso un


uso delle dinamiche che gioca con gli spessori del suono attraverso il piano
e pianissimo. L‟evocazione di uno spazio lontano, che si fa avvertire, fa par-
te del gioco percettivo, che questa scrittura rimodella consapevolmente:
aspetto spaziale e temporalità si confondono irreversibilmente, lasciando
emergere l‟immagine del tempo come ruota e come teatro, secondo le li-
nee tracciate del Mondo.
L‟incipit è circolare, il disegno basato su tono discendente, che inizia nelle
regioni gravi da parte di violoncelli e contrabbassi, torna, dopo un lungo La
tenuto: il ripetersi tocca la corda dell‟estatico, trattenendosi nell‟intervallo
ma lasciando accadere tutto sottovoce, in una sovrapposizione testurale, in
cui la voce emergerà dal borbottare del La tenuto da violoncelli e contrab-
bassi. Nell‟apertura testurale determinata dal cauto farsi avanti della voce
umana, che si fa avanti nella sollecitazione ritmica legata alla transizione dal
2/2 a 3/2, centrata sullo stesso elemento, il La intonato dal contralto, mima
un‟animazione, ma il movimento rimane volutamente opacizzato dall‟uso
della sordina, in un ovattamento che intorpidisce l‟emissione del suono: con
buona ragione, Solvik rileva che, da questo momento, il monotono oscillare
dell‟intervallo da parte dei violoncelli, secondo dei raggruppamenti ritmici
in sette, determinerà una singolare ambiguità percettiva, perché la suddivi-
sione in tempi dispari effettuata da Mahler crea uno strato temporale sospeso
e sognante (il tempo è battuto in due e così vi è un‟oscillazione interna di
tipo irrazionale), che entra in rapporto con la staticità dell‟intervallo di quin-
ta che lo sostiene. La voce così prende lo spessore di un filo di luce, tenue,
che rompe il buio della scena, tratteggiando timidamente qualcosa, nell‟o-
scillare ritmico di tutto l‟insieme. È come se riuscissimo a mettere bene a
fuoco solo quell‟elemento, mentre tutto il resto ci sfugge.
La drammaturgia di Mahler ha una propria motivazione interna: la prima
impressione che si vuol suggerire è l‟evocazione di un ri-cominciare ad ascol-
tare una musica iniziata prima, secondo un espediente retorico che viene uti-
lizzato per dare la prima ambientazione del brano: l‟ancora più lontano, l‟a-
pertura sul remoto, si fa così bruscamente vigile, nella mente dell‟ascoltato-
re. Il trasognato lirismo, giocato sul movimento di caduta attorno al La,
sembra rievocare le immagini con cui Schopenhauer tratteggia il lento movi-
mento della volontà negli stati elementari, la sua pesante staticità, il suo
muoversi, ricadendo in basso, prima di avviare il proprio percorso ascensio-
nale. La stessa variazione del pulsare ritmico ricorda l‟alternarsi di sbocciare
e chiudersi, che caratterizza tante immagini della natura schopenhaueriana.
244 Carlo Serra

Del resto, lo stesso Mahler raccomanda sull‟autografo della partitura di con-


servare la più stretta continuità temporale, malgrado le modificazioni oc-
casionali, in un movimento circolare di dondolamento evocante una ninna-
nanna. Lentamente, la prima cellula tematica sembra mettersi in moto dal-
l‟oscillazione ritmica: come da convenzione, il La è la nota su cui si scarica il
peso della frase ed è anche la prima nota su cui si articola in pianissimo il can-
to del contralto (Oh Mensch), anch‟essa sul registro grave.
In questo modo l‟attacco della voce tende a confondersi sullo sfondo
orchestrale, ed all‟inizio fatichiamo a riconoscerne con nettezza il profilo,
e la scelta di quest‟attacco del suono è essenziale, perché il calmarsi della
tensione nel movimento di caduta sarà immediatamente risollecitato, attra-
verso l‟articolarsi della linea melodica del canto. L‟articolazione ritmica
deforma la medesima sequenza, la plasma secondo articolazioni diverse,
che scorrono una sull‟altra: avendo il valore di una cesura, su cui si chiudo-
no, in generale, tutti gli andamenti melodici, essa può essere impiegato in
moti modi, mettendo in relazione diverse forme del materiale musicale:
identità e stratificazione ora si muovono assieme.
La linea melodica del canto si innalza, si articolano i disegni melodici dei
legni che, su una terza minore ascendente, cantano come un suono di natura,
scrive Mahler in partitura, dove si legge l‟uccello della notte. Il disegno verrà
ripreso da un corno inglese e terminerà con un arpeggio discendente. Su O
Mensch la voce, che deve cantare con espressione misteriosa e assolutamente
sottovoce, indugia sul La, e vi si trattiene a lungo, per un‟intera battuta,
mentre vengono immediatamente in primo piano gli accordi dei corni e delle
viole, che sostengono un tono discendente, creando un tappeto da cui emer-
gono di colpo le regioni medio alte dell‟orchestra. I due eventi sono pensati
in modo da creare una sorta di complementarità luminosa.

Il filo della voce, che inizia a farsi avvertire, disegna un proprio sfondo,
comincia a dare una profondità al suono, e il gesto dei corni amplifica quel
fondale, gli dà spessore. In questa sezione, dalla battuta 11 alla battuta 16,
Mahler lettore di Nietzsche 245

assieme all‟entrata della voce, si coglie, da parte dei corni, il farsi avanti
del motivo basato sulla terza ascendente, che avevamo già avvertito nel pri-
mo tempo. Dalla battuta 18 il disegno che abbiamo ascoltato, attaccando,
in settimine, un lieve accelerarsi del tempo che crea un‟atmosfera sospesa,
profondamente onirica22 : ancora una volta, si torna allo stesso, insistito
gioco espressivo, per cui il disegno ritmico si forma su un pedale di quinta,
che accentua la staticità della situazione, ma crea anche una continuità con
il disegno iniziale, riportando ad un clima di sospensione l‟insieme di even-
ti musicale, che avevano iniziato a muovere una forma narrativa. L‟idea che
il tempo si fermi dinnanzi al concetto, per riproporre un‟identità della cosa
che torna, è forse l‟unico elemento realmente nietzscheano in questa dram-
maturgia. La voce canta Gibt Acht, ed immediatamente si fa ancora avanti la
terza ascendente Fa diesis La, Do diesis–Mi, nel trombone, nel flauto pic-
colo e negli archi: nel frattempo emerge un‟altra figura importante, un piz-
zicato degli archi che mira direttamente al coglimento degli armonici, che
rievoca certamente il rintocco della campana, che contrappunta il discorso
di Zarathustra, ma, osserva mirabilmente Solvik, l‟effetto rimanda ad una
identificazione con la mente della cantante, che si identifica con il risveglio
a mezzanotte di Zarathustra, in una ammirevole evocazione di un filtro
acustico, di un‟atmosfera interiore, che va dall‟interno verso l‟esterno. Re-
spiriamo attraverso il filtro di questa presenza, solo da qui cogliamo le riso-
nanze del significato del canto, e le sue empatie.
Vi sono molti aspetti interessanti in questa scrittura: il flauto piccolo,
ad esempio, è usato nel registro più basso, assieme all‟attacco dell‟arpa in
unisono e alla scrittura dei corni, creando l‟illusione di un suono di natura
che arriva da lontano, da un‟area remotissima, in una nuova spazializzazio-
ne del suono.
L‟uso degli armonici da parte delle due arpe in unisono, dei violini, che
rieccheggia proprio sul Mi su cui viene intonata la parola Acht! rimanda an-
che alla dialettica fra luce ed oscurità, che sostiene il momento della rivela-
zione del significato della natura: l‟armonico, messo in evidenza dall‟or-
chestrazione mahleriana, illumina la parola come un raggio di luce, e ri-
manda all‟idea di un disvelamento di quanto prima giaceva nella profonda
oscurità, ma in questo gioco, in questa sottolineatura indicale del testo, vi
è un altro aspetto, ancora più sottile: gli armonici, infatti, sono, nella filo-
sofia di Schopenhauer, l‟immagine dei rapporti che legano i regni della na-
tura fra di loro, mondo organico, inorganico, regno vegetale, animale ed
22 Ivi, p. 271.
246 Carlo Serra

infine umano, sono collegati fra loro, perché germinano uno dall‟altro. Il
Lied parla del mondo, del modo in cui l‟uomo guarda all‟intrecciarsi dei
regni del mondo, rispetto al principio metafisico della volontà, mentre
Mahler sta leggendo il testo di Nietzsche attraverso Schopenhauer. La luce
degli armonici è un riflesso della logica di costituzione del mondo, e fa
tutt‟uno con la parola, la tallona come un‟ombra. Alla battuta 24 emerge
un tema dei corni, che già conosciamo, come modificazione di un disegno
ferale del primo tempo: in questa occorrenza, il tema viene armonizzato in
terze, e crea l‟impressione di un ampio anfiteatro sonoro, che evoca, natu-
ralmente, un riequilibrarsi della tessitura orchestrale, che aveva oscillato
fra ombra e luce. La funzione strutturale del tema è importante, non sol-
tanto per le osservazioni semantiche che abbiamo rilevato prima, ma per-
ché rappresenta il vero collante assieme al disegno ritmico sull‟intervallo e
alla linea vocale, che tiene unita tutta la sezione.
Tornerà a battuta 29-30, contrappuntando la voce che intona Was spricht
die tiefe Mitternacht?, ed è proprio alla fine di questa frase che emerge di nuo-
vo il disegno ascendente della terza da parte dell‟oboe, che deve emergere
come un suono di natura, e che Mahler aveva indicato, nelle prime stesure,
come l‟uccello della notte. La notte divora dentro di sé ogni luce, ma è an-
che l‟unica occasione per comprendere il significato della propria vita, il
valore della propria esperienza. La voce così dovrà commuoversi, fremere
di tenerezza per le debolezze del mondo, ma mantenere un suo profondo
distacco, che è quello dell‟estrinsecazione del momento esemplare. Il dif-
ficile connubio fra regole poetiche di tipo aristotelico e interpretazione
schopenhueriana della natura ha qui del miracoloso: Mahler non ha la forza
del sorriso transvalutante, ma la finezza del cultura delle dialettiche bipo-
lari fra natura e morte. La voce quindi rimane il vero personaggio simpate-
tico di questo canto, il suo incresparsi nel tragitto tonale suggerisce un‟em-
patia che la musica commenta, evidenziando le debolezze umane e l‟intol-
lerabilità della situazione perché se il piacere aspira all‟eternità, il suo de-
stino resta per sempre la profondità della notte, la vertigine di fronte ad
una natura che schiaccia. Al movimento per tono discendente, corrisponde
ora la terza minore ascendente, che caratterizza il suono di natura.
Dovremmo riflettere sul fatto che una progressione per terze indichi
per Mahler il suono di natura, la cosa ha aspetti solo apparentemente mi-
steriosi: tale aspetto ci interessa molto, perché da un lato si avvicina molto
all‟idea di rappresentazione della natura pensata da Schopenhauer, che rac-
comanda di usare andamenti lenti, a grandi passi. Il compositore ha usato
un andamento lento, ed un piccolo passo per rappresentare la natura che
Mahler lettore di Nietzsche 247

lentamente si risveglia: quando entra la voce umana, ricorre all‟intervallo


di terza, che Schopenhauer raccomandava per rappresentare il movimento
ascendente fra i regni della natura, per mettere in mostra una tensione
verso l‟alto che è nella voce, ma che nasce anch‟essa dal ventre della natu-
ra. La voce va così sullo sfondo, mentre i corni indicano la direzione dello
sviluppo della curvatura melodica, e del suo moto armonico. Al canto cul-
lante, immagine di una transizione che eternamente tormenta e consola
l‟uomo, rispondono le invocazione dell‟uccello della notte, i suoi disegni
discendenti, dopo la salita sulla terza: il suo canto sommesso è la testimo-
nianza , partecipe e commossa, di tutta la natura, all‟illuminarsi del destino
dell‟uomo: se ammettiamo che dietro alle passione, all‟avidità, ed alla ca-
duta, vi sia solo la seduttività della vita, l‟appagamento inevitabile del desi-
derio, e il suo altrettanto inevitabile languire, allora dovremmo ricono-
scere che nel teatro del mondo, nel grande pasto che la natura imbandisce,
l‟uomo partecipi, con tutto il suo carattere volitivo e con la capacità di
comprendere che il senso del gioco, che intreccia vita e morte, si renda
noto solo a lui. L‟uccello che canta, l‟uccello della notte, risponde e crea
un ponte fra la tragicità del destino umano ed il rasserenamento della
natura: la figura arriva dal mondo poetico di Hölderlin, da una lirica del
1798, Die Kürze (La brevità), dove il canto ci parla ancora del dolore del
mondo, di cui l‟uccello della notte è simbolo:
«„Warum bist du so kurz? Liebst du, wie vormals, denn
Nun nicht mehr den Gesang? Fandst du, als Jüngling , doch,
In den Tagen der Hoffnung,
Wenn du sangest, das Ende nie!‟
Wie mein Glück, ist mein Lied. – Willst du im Abendroth
Froh dich baden? Hinweg ists! Und die Erd is kalt,
Und der Vogel der Nacht schwirrt
Unbequem vor das Auge dir».
«„Perché sei così breve? Non ami più il canto
come una volta? Nella giovinezza,
nei giorni di speranza,
il tuo canto non aveva fine‟.
Il mio canto è come la mia gioia
Vuoi bagnarti in letizia nel rosso del tramonto?
E dilegua. La terra è fredda. Agli occhi
stride tristo l‟uccello della notte»23.

23 FRIEDERICH HÖLDERLIN, Le Liriche, a cura di E. Madruzzato, 1977, Milano, Adelphi,

pp. 236-237.
248 Carlo Serra

Fine del canto, morte della speranza, sterilità: il canto dell‟uccello della not-
te, un‟onomatopea, si dà agli occhi, come l‟immagine di un tramonto che
prepara la morte. La brevità del canto è brevità della giovinezza e della vita:
ma in Mahler la rappresentazione non ha colori così tragici, perché il canto è,
schopenhauerianamente, immagine di una vita, che riecheggia assorta il pro-
prio destino, al tramonto. Se nel poeta tedesco il canto è immagine di una
sterilità interno al cerchio della vita, per Mahler quel canto è immagine di un
messaggio da condividere, è l‟effetto della risonanza di una rivelazione tra-
gica, che prepara alla sua risoluzione, la sterilità è feconda, perché il canto è
finito. Ancora una volta, Mahler fa parlare Nietzsche, o le figure di Hölderlin
come figure di Schopenhauer: gioia e disperazione, sono la risonanza, l‟una
dell‟altra, in un‟interpretazione rassegnata del mondo della natura, che di-
venta splendido elogio della sua bivalenza La scelta del registro grave per il
flauto piccolo rimanda ad un‟immediatezza d‟attacco, ad una naturalezza
d‟emissione, che contrasta con la natura aerea dello strumento: si cerca un
carattere nascosto, che esce da una manipolazione della fonte sonora. Tutto
il gioco ritmico della sezione degli archi gravi, l‟emergere della voce e degli
strumenti da dinamiche che stanno sempre fra il piano ed il pianissimo,
opacizzano tutte le relazioni metriche: sembra che il tempo si stia perdendo,
che non vi sia più una direzionalità di scansione ben individuata24. Il mondo si
ferma ad ascoltare, mentre per quanto riguarda le note eseguite dall‟oboe,
che rievoca l‟uccello della notte, non viene indicato se vanno eseguite in glis-
sando, accentuando l‟evocazione del suono di natura.

Segue un interludio orchestrale dove l‟atmosfera sembra scuotersi, mentre


quell‟ostinato tonica dominante viene sostituito dal tremolo delle viole. Il
fremere ha un significato narrativo molto forte: comincia la spiegazione del
testo, il contenuto che parla della profondità del piacere, del suo voler per-

24 Per queste osservazioni, rimando alla breve e densa analisi che accompagna l‟esecu-

zione della Terza da parte di Benjamin Zander, con la Philharmonia Orchestra ed il Sopra-
no Lilli Paasikivi pubblicata dalla Telarc con il numero di catalogo 80599.
Mahler lettore di Nietzsche 249

manere e tutto si mette ad oscillare con più forza, evocando l‟immagine di


un palpitare.

Sull‟espressione Tief ist ihr Weh (profondo è il suo dolore, dove si parla del
dolore del mondo) emerge, trasfigurato, un tema di tre note (Fa Sol La), che
rimanda al blocco ella marcia con cui si apre il primo tempo, ma qui essa è
completamente trasfigurata. Tutto il brano è profondamente statico e si
chiude pesantemente sulla dominante. Infine quell‟intervallo viene tenuto, e
quindi messo in evidenza. L‟evocazione della notte, dell‟incresparsi della sua
attività, prima che venga in luce la voce, è delineata in modo magistrale.

4. Suoni della luce

Dalla battuta 57 alla battuta 67, la melodia dei corni sostiene un interlu-
dio orchestrale, e viene sviluppata nei disegni del violini solista, cui abbiamo
già fatto cenno. Ancora, sulle parole Die Welt ist Tief ascoltiamo l‟armonico
staccato dagli archi: non è una coincidenza, l‟armonico degli archi contrap-
punta l‟immagine del mondo, ed anche questo aspetto ha un riferimento con
l‟idea che il mondo della natura, con i suoi regni, presenti la stessa gerarchiz-
zazione che lega fra di loro gli armonici, rispetto alla fondamentale.
Sulle parole Tief ist ihr whe (profondo è il suo dolore), compare un di-
segno prima in Fa maggiore e poi in Sol minore. Lo stesso disegno che ab-
biamo ascoltato nel primo tempo, viene contrappuntato dal trattamento
melodico del tema della tromba, che abbiamo ascoltato nel primo tempo.
Ora si apre la rivelazione: ogni gioia o meglio tutta la gioia vuole eternità,
profonda eternità. Ancora una volta, su tiefe, precipitano le luminescenze
degli armonici e dell‟arpa, scuotendo con riflessi di luce quella profondità
che sa accoglierla, in una raffinatissima forma di retorica del sublime, piena
di componenti velatamente erotiche. La corda scuote, il suo suono taglia,
ma ora muove verso la luce. Il buio s‟è lasciato fecondare.
250 Carlo Serra

In questo modo il disegno comincia ad espandersi nella tessitura orche-


strale, in un movimento di ascesa che ha valore essenzialmente timbrico,
che comincia a salire ed a porre in relazione fra di loro le regioni gravi e
medio alte dello spazio musicale. Dalla battuta 27 attacca un nuovo tema
da parte dei corni, che si estende in orizzontale, ed in verticale, valoriz-
zando l‟intervallo di terza. Il canto ora ha preso una direzione, e la voce
raccoglie il canto dei corni, ripetendolo sulle parole Was spricht die tiefe mit-
ternacht? Il canto dell‟uccello della notte, con la sua indicazione, come un
suono di natura, inizia qui e la linea melodica, che oscilla fra minore e mag-
giore, innalzandosi su una terza scendente e che assume articolazione cre-
scente nelle tre occorrenze dell‟oboe e del corno inglese, è un‟eco, un‟eco
espressiva del significato del testo, un modo per punteggiare una risonanza
affettiva del mondo sensibile, del mondo della vita, al significato del testo.
La drammaturgia del commento, meglio ancora del lamento, è la risposta
della natura la pensiero che la va illuminando: emerge così la funzione del-
l‟uomo, la creatura capace di illustrare il senso di una cosmogonia, attra-
verso la melodia dell‟uccello della notte, immagine di una natura che ascol-
ta commossa il proprio destino La transizione da maggiore a minore mima
così il tessuto affettivo, che il racconto dell‟essenza del mondo sollecita.
Il senso della drammaturgia di Mahler è implacabile: mentre il testo del
Lied viene progressivamente disambiguato dalla musica, l‟articolazione dei
disegni melodici, dei commenti dell‟animale immaginario prendono consi-
stenza sempre più ricca, come se la natura stessa facesse proprio il senso di
quel testo per l‟uomo, secondo un disegno interno di totale umanizzazione
del naturale, un procedimento che Schopenhauer usa spesso nelle forma re-
toriche del proprio linguaggio, e che Nietzsche, al contrario, considerereb-
be una proiezione culturale sul mondo della vita. Il senso del testo, valoriz-
zato dalla musica, è ormai sempre più lontana dalla lettera nietzscheana. La
melodia, che usa la terza in senso orizzontale e verticale, viene raccolta pri-
ma dalla voce, che intona Aus Tiefem Traum bin ich erwacht, e poi ripresa dal
corno inglese, e il disegno può riverberarsi dappertutto. I particolari hanno
significato drammaturgico, perché lo stendersi ed il differenziarsi del tessuto
accordale, crea un animarsi, un differenziarsi dello sfondo rispetto al canto.
Mahler lettore di Nietzsche 251

A questo punto, dopo la prima enunciazione del richiamo agli uomini, i


corni possono mettere capo agli accordi in posizione fondamentale, in so-
vrapposizione di terze, che creano l‟ambientazione armonica del brano (Fa
maggiore, La minore-Fa diesis minore, La maggiore). L‟uso delle terze crea
un‟ambientazione più stabile, ma l‟inquadramento armonico, il costituirsi
delle coordinate del linguaggio tonale, è aereo, soffuso, si appoggia ancora al
pianissimo messo in gioco dalla linea di canto. In questa staticità, la compo-
nente armonica diventa essenzialmente colore, tendenza allo schiarimento.

Nel frattempo la natura canta, e si racconta, mettendoci di fronte ad


una visione terribile ed oggettiva: il mondo soffre, il suo dolore è profon-
do, certamente, ma nel dolore, che permane e dice passa, va via, mostran-
do la caducità di tutte le cose è l‟ultima maschera del piacere. Il piacere è
permanenza, appetito, movimento verticale, il piacere è ciò che permette
alla natura di sopravvivere a se stessa. La morale può molto poco rispetto
alla sua forza, mentre i piacere è durezza oggettivizzante. L‟immagine più
calzante del significato del messaggio, che porta infinita lacerazione, ma
anche infinita speranza, è l‟illuminarsi della notte perché se il piacere vuol
durare, ogni attribuzione di significato all‟esperienza, che si muove tra la
morsa di dolore e piacere, tra vita e morte, coglie il fondo metafisico del
gioco della volontà di potenza. Il compositore boemo elabora in diverso il
materiale tematico che trova un primo assetto nel quarto movimento della
Terza, composto nel giugno del 1895, un anno prima del brano verso cui
stiamo tornando. Nel notturno incontriamo le linee melodiche, che, stiliz-
zate, sostengono la rappresentazione del suono di natura dell‟inizio della
Terza: non ci stupiremo se il disegno su cui si blocca la melodia dei corni,
la famosa terza ascendente, derivi dalla linea di un canto che parla del dolo-
re del mondo, e proprio sulle parole Tief ist ihr whe (profondo è il suo dolo-
re), presenta quel disegno prima in Fa maggiore e poi in Sol minore. Quel-
l‟insistenza crea una gradazione drammatica, che la modulazione rafforza
con efficacia. Il disegno che tornava ossessivamente nel primo tempo, sot-
tolineando, come un segnale, l‟impossibilità della melodia di salire, sostie-
ne una frase, che racconta il peso del dolore nel mondo. Lo stesso materia-
le prende consistenza sonora diversa, ma esprime un significato, che ri-
manda, in entrambe i contesti, ad una poetica della natura ed alla posizione
252 Carlo Serra

dell‟uomo nel cosmo. Leggere queste configurazioni come semplici cita-


zioni, non ci permette di entrare nella logica costruttiva che sostiene il loro
inserirsi nell‟architettura del movimento.
Il materiale musicale va plasmando, secondo modalità diverse, la medesi-
ma idea, lo stesso travaglio della natura e basta davvero poco, anticipare la
nota di chiusura della frase all‟inizio della frase, evocando la terza minore,
prima dell‟ascesa ed un piccolo artificio ritmico, facendo oscillare per la
prima volta la chiusa della frase nella transizione da due a tre, e poi ripro-
ponendola, per dare a quel disegno una straordinaria morbidezza espres-
siva. Guardando alle somiglianze di famiglia, alla relazione morfologica,
che unisce il tematismo mahleriano, e che sembra rimandare alla poetica dei
caratteri cosmologici wagneriani, facciamo altre scoperte, che illuminano
dall‟interno le relazioni interne alle idee che sostengono la grammatica com-
positiva: quelle parole, che parlano del dolore del mondo, vengono im-
mediatamente commentate da una intensa melodia, eseguita dal primo vio-
lino, che si sviluppa sulla sestina, nella transizione cullante da tre a due, che
caratterizza l‟ipnotico onirismo del contesto. L‟avvolgente disegno melodi-
co, emergerà intonato dagli archi, e sosterrà le parole Tutto il piacere vuole
eternità, profonda eternità, con una lieve increspatura espressiva, giocata su
un tenue espandersi del disegno melodico sulla altezze attrattive dei gradi
deboli della scala, che fa cadere l‟accento sull‟idea che la gioia sia eterna,
ma profonda, nascosta, come una maschera del dolore: ma questa linea,
ritmicamente voluttuosa, è proprio quella scandita nel tema della tromba,
che abbiamo visto venire ingollato nel suono di natura. La famosa citazione
della Paloma, che costituisce uno dei calchi di questo gruppo tematico,
prende forma in un contesto che ne modifica dall‟interno l‟assetto melodi-
co, dilatandone i limiti, fino alla concreta modificazione del materiale tema-
tico: Mahler gonfia quel tema, ne rilegge le potenzialità in senso armonico,
melodico, ne deforma i tratti, attraverso la pratica antica della diminuzione.
Comporre seguendo le linee di un‟idea, impone una singolare traspa-
renza grammaticale, che deforma tratti linguistici, li corrode dall‟interno,
permettendo che si colga a fatica la loro identità: è questa logica del masche-
ramento che spinge Mahler ad usare lo stesso frammento melodico, disegna-
to dai corni, sostiene l‟immagine dell‟aprirsi del significato della natura,
dopo che la voce ci ha invitato a fare attenzione al messaggio che ci rivelerà
l‟essenza del mondo. Infine, il famoso disegno delle trombe in Fa con sor-
dina, quel disegno arpeggiato Re Fa La, che andava a contrarsi sul Do die-
sis, sul punto in cui la struttura melodica chiama la propria risoluzione sul
Mahler lettore di Nietzsche 253

Re, deriva anch‟esso dal tema che ci parla del rapporto fra vita, piacere e
dolore. Vi sono anche significative differenze, legate allo sviluppo delle pos-
sibilità interne al materiale compositivo: quando le melodie appaiono nel
primo tempo, esso sono ridotte, attraverso contrazione melodica, ed accen-
tuazioni ritmiche che ne enfatizzino la regolarità, a tronconi melodici delle
strutture che qui prendono colore nel canto, e questo rientra nel progetto
di una metafisica musicale dell‟evocazione delle forze della natura, che han-
no natura schematica, e cercano ora una sonorità brulla, elementare, e for-
se dovremmo chiamare questo gioco con la metamorfosi delle forme del
suono, che evoca un mondo, un grande gioco linguistico, che trova le pro-
prie regole in una metafisica della musica, che sostiene la struttura concet-
tuale del brano, il pensiero musicale che lo abita. Non è certo un caso che
Mahler, nel primo movimento, presenti in modo prosciugato lo stesso mate-
riale, che emergerà nel quarto, dove sarà ancora il suono di natura a rac-
contare se stesso, attraverso le parole trasfigurate del Lied nietzscheano. Il
compositore opera così un gioco, che vorremmo definire linguistico, ed
espressivo, nel senso più pieno, per dar trasparenza ai contenuti extramusi-
cali, del proprio credo filosofico; d‟altra parte, il gioco fisiognomico della
melodia è una dei precipitati più profondi della riflessioni sulla musica, che
si inseguono nel Terzo Libro del Mondo, creando un modello di tra sva-
lutazione del materiale musicale, che qui vediamo finalmente all‟opera in
una scrittura lontanissima dai modelli schopenhaueriani.
Il lavoro sul materiale melodico ci mette così di fronte ad un piano se-
mantico, e simbolico, che illustra i pensieri, ed i contenuti nascosti, che in-
formano l‟opera. Mahler sta usando un elemento, uno solo, e, per molti ver-
si una sola figura, che riappare sotto molte forme, per parlarci del mondo
attraverso le smozzicature di una melodia: l‟intervallo di terza minore, il
modo discendente, le risalite e le cadute a picco del suono incarnano tutte
la stessa drammaturgia, o meglio la stessa funzione rappresentativa, di una
vita che si cerca e non si trova, di una natura che vuol differenziarsi, ma
che cade implacabilmente nell‟indistinto. Nel disegno melodico proposto
nel quarto movimento, Mahler ricorre alla salita voluttuosa determinata
dalla figura ritmica della sestina, che trova sfogo, e rafforzamento, nel suo
appoggiarsi sul mi: questo fremere della curva melodica, determinato dai
rapporti ritmici, questo ridursi della curva melodica a filo, per prendere la
consistenza di un punto, di un nucleo permanente, da cui poi discenderà la
chiusura della curva melodica, sembra rimandare ad un‟immagine volut-
tuosa, ad una sorta di esuberanza della figurazione melodica, che racconta
254 Carlo Serra

come il dolore non sia che un prodotto interno di un piacere, che cerca di
espandersi, di animare tutto il mondo della natura. La natura stessa so-
stiene il mondo del desiderio, ma quel mondo la distrugge: dobbiam far pa-
ce con questo pensiero, rassegnarci alla mancanza di una teleologia che ci
salvi. Ragione e intelletto non si perdono nel Sublime, non ci riscattano: la
Critica del Giudizio è ormai lontana, nessuna idea estetica può muoverci. Il
buio ha accolto la luce, per mostrare meglio il senso delle proprie articola-
zioni, in un senso ormai lontano dal tono del frammento orfico.
Cosa mette in mostra questo intreccio simbolico? Una sedimentazione
interna ad una pratica compositiva. La tensione verso l‟aspetto materico del
suono, verso quel piano timbrico, fisiognomico, che agita gli aspetti sonori
delle immagini può essere pienamente esplicitato: non si tratta solo di
riprendere i fili di un improbabile neoaristotelismo della percezione, sulla
linee di tante affascinanti psicologie prefenomenologiche, che caratteriz-
zano il panorama su cui irrompe la ricchezza del pensiero husserliano, ma
di accettare fino in fondo le risorse linguistiche che il rapporto suono-
immagine mette in movimento.
Se il nostro lettore ci chiedesse di indicare una poetica del suono grave o
del suono luminoso, non basterebbe certo il riferimento al binomio Mahler-
Schopenhauer, alla ricca poetica di quelle cosmogonie, ma certo non sarem-
mo disposti a far cadere completamente il senso del discorso, puntando sul
piano esplicitamente non metaforico, che trova nel materiale musicale la sua
più potente esplicitazione. In termini più espliciti, che i suoni possano essere
caratterizzati attraverso delle immagini, che sgorgano dalla loro natura di
corpi sonori, o dalla linea fisiognomica della loro caratterizzazione, è, sem-
plicemente un nesso che prende forma nella scelta stessi dei materiali com-
positivi: si pensi al gioco ritmico che anima l‟incipit del Quarto movimento
della Terza Sinfonia, a quel ridestarsi torbido, a quell‟animazione lentissima,
in cui il movimento si impasta su se stesso, proprio per la scelta di quella
particolarissima configurazione timbrica, al contrasto con l‟attacco luminoso
degli armonici, a tutti gli artifici musicali non descrittivi, che mettono in mo-
vimento il senso immaginativo di quelle configurazioni.
Il peso delle scelte compositive passa attraverso il soppesare timbrico,
formale, gestuale, dei materiali sonori, e questo tessuto di scelte anima dal-
l‟interno tutta la pratica compositiva. Il sorgere della figura è così interna alla
pratica compositiva, spesso così interna, da non trovare altra forma esplica-
tiva se non il ricorso all‟autoevidenza delle figurazione stessa. Se i nessi sono
esterni, la configurazione è interna alla stessa logica compositiva, al gioco dei
Mahler lettore di Nietzsche 255

rapporti testurali che ogni poetica del suono, anche la più monocromatica,
mette in gioco nell‟articolarsi delle sue forme compositive. La metafora è la
via d‟entrata per comprendere come i suoni si correlano tra loro, e la logica
interna della loro organizzazione: essa ci accompagna, per quello che può in
una pratica compositiva, dando carne alle architetture sonore, che spesso leg-
giamo solo in termini formali, e, nel farlo, attribuisce alla musica quella con-
cretezza sonora, da cui prendono forma i giochi immaginativi, che costitui-
scono l‟aspetto meno ludico, e più contenutistico, del suono stesso: in que-
sto ogni approccio formalistico ritrova nel corpo sonoro quel completamen-
to di senso, che mette in gioco gli orizzonti precategoriali del suono, e la sua
capacità di giocare con il piano pre-linguistico della percezione, ove il pre-
linguistico non è solo una finzione metodologica, ma la molla da cui scatu-
risce quel piano del movimento simbolico, che ancora oggi ci rende vicine le
indagini di Wittgenstein e Cassirer.
SONIA VAZZANO

Tra senso e visione: la riflessione sulle passioni


in Lady Damaris Masham

Le Passioni quando sono forti, ragionano secondo


una Logica loro propria, non quella della Ragione,
che spesso e abbastanza significativamente, capovol-
gono per soddisfare il loro Scopo. E quando la Reli-
gione si trova in questo stato […] esse possono facil-
mente prendere occasione da quella, per formare un
Sistema completo, solo intelligibile per mezzo del
Sentimento, ma non dalla Ragione; del quale, alcuni
Teologi Mistici sono forse un esempio1.

Lady Damaris Masham è stata per lungo tempo misconosciuta dalla critica
storiografica2. Eppure ella rimane una voce non trascurabile nel dibattito
tardoseicentesco intorno al rapporto fra senso e visione, e sulla problema-
tica delle passioni. Secondo Lady Masham non esiste una conoscenza
filosofica e una conoscenza religiosa, ma solo una Useful Knowledge3 e cioè

1 D. CUDWORTH MASHAM, A Discourse Concerning the Love of God, London, Awnsham & J.

Churchil, 1696, p. 28 (d‟ora in poi „D‟). Tale discorso si inserisce in un percorso teorico che
nasce in risposta ad uno scritto di John Norris pubblicato nel 1693, Practical Discourses upon
several divine subjects (1691-1693), e allo scambio epistolare, risalente al 1695, che Norris in-
treccia con Mary Astell sul tema dell‟amore di Dio (M. ASTELL, J. NORRIS, Letters concerning
the Love of God, a cura di E. Derek Taylor e M. New, Ashgate, Aldershot, 2005). Il dibattito
tra Lady Masham e la Astell continuerà anche in ambito pedagogico con A Serious Proposal to
the Ladies for the Advancement of their True and Greatest Interest (1697) e The Christian Religion as
Professed by a Daughter of the Church of England (1705) della Astell e gli Occasional Thoughts In
reference to a Vertuous or Christian Life (London, Awnsham & J. Churchil, London 1705; d‟ora
in poi „OT‟) di Lady Masham. Per un approfondimento del rapporto tra la Astell e Lady Ma-
sham, cf. J. BROAD, «Adversaries or Allies? Occasional Thoughts on the Masham-Astell Exchan-
ge», Eighteenth-Century Thought 1 (2003), pp. 123-149, e C. WILSON, «Love of God and love
of creatures: the Masham-Astell debate», History of philosophy quarterly 21 (2004), pp. 281-298.
2 Una suggestione presa in prestito da S. HUTTON, «Damaris Cudworth, Lady Masham:

between platonism and Enlightenment», The British journal for the History of Philosophy 1 (1993)
1, pp. 29-30.
3 Cf. Lady Masham to Locke, 14 August [1685], in E.S. DE BEER (ed.), The correspondence of

John Locke, Oxford, Clarendon Press, II, p. 727. Cf. anche Lady Masham to Locke, 7 April
[1688], ivi, III, p. 431. Il senso di questa „conoscenza utile‟ poteva essere ricompreso a partire
dalla riflessione lockeana. Nel Saggio sull’intelligenza umana la conoscenza dell‟uomo risulta
condizionata dalla sensibilità proprio perché deve orientarlo nelle relazioni con gli altri uomi-
ni e con le cose affinché non ne risulti danneggiato. È il tema della differenza tra l‟infinità

Bollettino Filosofico 25 (2009): 256-267 256


Tra senso e visione 257

un genere di conoscenza teoretica e allo stesso tempo pratico-pedagogica,


che si accorda appieno con la natura spirituale dell‟uomo. La ricchezza del-
la riflessione di Lady Masham nasce dal suo rappresentare un crocevia di
due diverse tensioni: da un lato quella dei neoplatonici e dall‟altro quella di
Locke e della tradizione dell‟empirismo e del meccanicismo britannici.
Nel neoplatonismo il problema della conoscenza si coniuga con la rifles-
sione etico-religiosa. Contro il meccanicismo di Descartes e il materiali-
smo di Hobbes, la ragione viene concepita non più come facoltà calcolante
o modello di deduzione, ma in quanto luce interiore. Contro la riduzione
della conoscenza e della origine delle idee alle categorie della sensibilità, la
corrente neoplatonica tenta di dare valore alle aspirazioni morali e reli-
giose dell‟uomo attraverso una concezione della natura umana che esalta
l‟elemento spirituale e la componente innatistica della conoscenza. L‟esi-
genza di stabilire una origine non (esclusivamente) empirica della cono-
scenza porta in qualche modo a postulare l‟esistenza di facoltà che prece-
dono il concetto di esperienza.
Nell‟empirismo di Locke il fatto che non esistano idee innate – perché
è dall‟esperienza che noi riceviamo qualsiasi idea – viene ad essere spiegato
solo dalla confusione generata da un diverso modo di presentarsi dell‟espe-
rienza stessa: ora come sensazione – e in questo caso il riferimento è alle
idee che provengono dai nostri cinque sensi –, ora come riflessione – per
mezzo di quelle che derivano dalla mente (modalità cui appartengono an-
che gli stati d‟animo e le passioni). Ciò sta a significare che non solo la co-
noscenza, per Locke, non è conoscenza di cose, ma di idee, o meglio il suo
oggetto non risiede tanto nelle prime quanto nelle seconde; ma anche che
non c‟è motivo di separare la ragione dalle passioni se si risale all‟unità del-
l‟esperienza. Nello sforzo di unire, a partire da tali premesse, filosofia e
religione per mezzo della riflessione morale, Lady Masham utilizza come
termine medio una particolare nozione di anima, la cui condizione viene
paragonata a quella di un musicista dormiente, che non possiede sogni o

divina e la finitudine umana cui Locke dà un‟interpretazione nel senso della qualità, sostenen-
do che il sapere umano è sempre e radicalmente diverso dalla conoscenza divina proprio per il
suo carattere pragmatico-operativo e il suo interesse a fornire indicazioni per l‟azione. Si trat-
ta di una valutazione della conoscenza che si fonda sulla tematizzazione del condizionamento
della sensibilità sull‟intelligenza. La sensibilità diviene dunque il complesso delle condizioni che
costituiscono il carattere utilitario del sapere e ciò le permette di svincolarsi da quel carattere sog-
gettivo che aveva conservato nel cartesianesimo (J. LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana, a cura
di C.A. Viano e C. Pellizzi, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 2006, IV, III, 22, p. 624 e VII, 11, p. 680, e
C.A. VIANO, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Torino, Einaudi, 1960, pp. 569-570).
258 Sonia Vazzano

alcuna rappresentazione musicale in sé finché, sveglio e pervaso dal deside-


rio di suonare, ascolti qualcuno ripetergli due o tre accordi di una qualche
musica: a questo punto egli la suonerà per intero nel medesimo istante in
cui l‟ascolta. Si tratta di ciò che Lady Masham definisce «oggetti del senso
all‟anima»; attraverso i quali si nota come quest‟ultima possieda una facoltà
al di sopra di quella del senso, tale da poterlo giudicare e da smascherarne
le imposture4.
Il ritorno dell‟io al proprio sé, e quindi ad una conoscenza che richiama
il „conosci te stesso‟ di tipo socratico, diviene quindi possibile solo grazie
alla nozione di anima; il che tradotto in ambito religioso significa che il ri-
torno all‟io si identifica con la scoperta di Dio, in un percorso in cui fede
filosofica e religiosa cedono il passo alla via mistica. A questo punto la ra-
gione diviene per Lady Masham senso, mentre la fede si fa visione.
Una tale concezione gnoseologica esclude ovviamente la passività, per-
ché mette in campo la consapevolezza dell‟io più intimo, che da un lato
fugge alla completa oggettivazione e dall‟altro svela il ruolo primario del-
l‟uomo: quello cioè di essere una causa sui, per mezzo di un potere di de-
terminazione che nasce dalla partecipazione del divino. L‟accento posto da
Lady Masham sulla nozione di anima permette di articolare la riflessione
tra filosofia, morale e religione in rapporto ad una particolare concezione
della passione, o meglio dell‟amore, che è allo stesso tempo senso e visione,
motore della ratio e dell‟esperienza, della filosofia intesa come conoscenza
e della fede anch‟essa paragonata ad un percorso di tipo gnoseologico.
Si tratta dell‟attenzione particolare conferita al tema di quell‟amore di sé
che viene fuori dalla consapevolezza dell‟esistenza del cogito5 e che implica
per questo un confronto con la categoria della scelta e la nozione del libero
arbitrio. In Francia i termini di un tale percorso di pensiero risentivano
molto dei romanzi cinquecenteschi di ispirazione cortese e di una sorta di
“immoralismo galante”6 che prendeva le mosse dalla riflessione di La Ro-
chefoucauld, Descartes e Pascal. In Inghilterra, la lezione francese veniva
recepita soprattutto grazie al contributo di Malebranche, ma l‟attenzione,

4 Lady Masham to Locke, 7 April [1688], Correspondence, III, 1040, pp. 431-435.
5 Si vedano in proposito due studi che più di altri esplicitano tale tensione: G. MOCCHI,
«L‟amore di sé tra passione e virtù», in F. BONICALZI, C. STANCATI (eds.), Passioni e linguaggio
nel XVII secolo, Lecce, Milella, 2001, pp. 123-131; e E. PULCINI, «La passione del Moderno:
l‟amore di sé», in S. VEGETTI-FINZI (ed.), Storia delle passioni, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp.
133-180.
6 Cf. A. VIALA, «Le naturel galant», in C. DELMAS, F. GEVREY (eds.), Nature et culture à

l’âge classique, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 1997, p. 61.


Tra senso e visione 259

specie nella seconda metà del XVII secolo, si spostava su questioni pret-
tamente confessionali. Così, dopo essere stata considerata solo una tra le
passioni, l‟amore diventava il soggetto prediletto perfino dell‟indagine ra-
zionale: come a dire che la qualità dell‟amore faceva la qualità delle pas-
sioni7. L‟amore in questione era quello che si divideva tra Corneille e Racine,
che dalla mistica passava alla psicologia e quindi alla gnoseologia e poi alla
morale. Quello diviso in antinomie precise: l‟amore onesto e l‟amore bestia-
le, l‟amore perfetto e quello crudele, l‟amore cortese e l‟amore volgare, il
sacro e il profano, il mutevole e il semplice, l‟amore per gli altri e l‟amor
proprio, l‟amore coniugale e quello lascivo, il vero amore e il falso amore.
Una sorta di medium che tentava di ridurre la complessità dell‟ambiente ga-
rantendone un ordine di tipo sociale; che ricostruiva il tramite tra io e altro
attraverso un tipo di comunicazione paradossale che rendeva stabile l‟instabi-
le. Una sorta di „codice simbolico‟ che legittimava un eccesso in quanto pas-
sione, divenuto ora attivo rispetto a tutto l‟orizzonte antico e medievale8.
Il primo passo della riflessione del XVII secolo è rappresentato così dalla
ricerca di una possibilità: giustificare l‟amore a prescindere dal suo essere
semplicemente una passione, proprio al fine di un recupero di quell‟amore di
sé che solo può aprire all‟amore di Dio. Vale la pena precisare che all‟interno
dell‟amore di sé, è operata una distinzione precisa: da un lato ci sono le pas-
sioni naturali, prodotto proprio dell‟amore di sé; dall‟altro, quelle sociali,
frutto dell‟amor proprio. Nel primo caso, l‟amore si presenta come un istin-
to di conservazione regolatore della vita umana, secondo dettami che seguo-
no una legge naturale; nel secondo, esso diviene principio emblematico di
tutto quel processo storico di corruzione della società9. L‟uomo portato ad
amare se stesso – quello per intenderci che comprende con Montaigne che
conoscersi vuol dire amarsi sopra ogni altra cosa e per la sua irripetibile origina-
lità, ma anche riconoscendo i propri limiti e trovando il giusto equilibrio tra
il sé e le passioni – non è lo stesso individuo che perde ogni grandezza quan-
do, per il troppo amore di sé, diviene vittima dei movimenti inconsci che lo
portano ad essere sottomesso alla forza delle passioni 10. La denuncia del-

7 Cf. in proposito quanto esplicitato sul pensiero di Agostino in R. BODEI, Ordo amoris. Con-

flitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 93: «L‟amore è un fuoco inestinguibi-
le, che ciascuno sviluppa attratto dalle proprie inclinazioni, un dono raro da coltivarsi con cura».
8 Cf. E. PULCINI (ed.), Teorie delle passioni, Supplemento di Topoi, 1989, pp. 6-7.
9 Ivi, p. 12. E ancora basta confrontare i sensi diversi dati da Descartes e da Pascal al moi,

che per il primo risulta estimable mentre per il secondo haïssable (per tali suggestioni si veda V.
CARRAUD, «Les deux infinis moraux et le bon usage des passions. Pascal et les Passions de
l’âme», XVIIe siècle 185 (1994) 4, pp. 676-678).
10 Cf. E. PULCINI, «La passione del Moderno: l‟amore di sé», cit., p. 135. Della stessa au-

trice si veda quanto espresso ne L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del le-
260 Sonia Vazzano

l‟amor proprio da parte di Pascal e di La Rochefoucauld, e che già preceden-


temente si era espressa nella riflessione di Bossuet, si scaglia allora contro un
amore di sé che non è più quello di Descartes, ma è diventato, anche con
Hobbes, l‟amore di tutte le cose per sé11: ecco il nemico capitale dell‟amore
di Dio; perché è l‟amor proprio che „colora‟ tutte le cose in noi e allo stesso
tempo il „demone‟ che le mette in opera12. È insomma la sola passione che
agita davvero l‟uomo e la sorgente di tutte le affezioni dell‟anima. Perciò o-
gni condanna relativa all‟amor proprio spesso non tiene conto di ciò che l‟a-
more era prima di diventare „proprio‟ e cioè amore di sé13: il «conosci te
stesso» socratico che con la riflessione di Montaigne diverrà sintomo di un
legittimo amor sui che denuncia e disvela la vanità umana14.
Dalla philautía all‟oikeíosis (la conciliatio ciceroniana), fino all‟ormé (il cona-
tus latino) all‟amor sui e all‟amor proprius, ma soprattutto fino all‟amour de soi,
l‟amour de soi même e l‟amour-propre si sviluppa tutta una riflessione che dalla
Francia all‟Inghilterra cerca drammaticamente di mettere insieme l‟amore
per il sé e l‟amore per Dio o comunque di creare tra i due un „ponte‟.
Siamo di fronte a una distinzione che non rimane mai tale nel dispiegarsi
del percorso riflessivo e che finisce per affondare le sue radici soprattutto nel
pensiero di Agostino e di Tommaso. Per il primo, viene quasi a crearsi un
meccanismo di coincidenza tra voler bene, carità e amore. E allo stesso tem-
po la distinzione tra caritas e cupiditas: l‟origine di tutte le virtù e la radice di
tutti i mali, Per il secondo, nell‟amore di Dio, inteso come amore di tutti gli
esseri, è implicato l‟amore di sé; anche se esiste un amore per il sé „vero‟ e
uno „falso‟: quest‟ultimo risulta disordinato e si trasforma nell‟origine di tut-
ti i vizi, mentre il primo è un naturale istinto di autoconservazione15.

game sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 24 e in Teorie delle passioni, cit., p. 9.
11 «Cade cioè con Hobbes ogni illusione di un percorso soggettivo e separato dell‟Io che

educa, controlla, perfeziona se stesso, restando osservatore distaccato delle vicende del mon-
do» (EAD., L’individuo senza passioni, cit., p. 51). E tuttavia anche in Hobbes dove questa pas-
sione ha degli effetti fortemente distruttivi essa appare legittima e ciò da cui non si può pre-
scindere per fondare un ordine che non tradisca gli interessi individuali (EAD., Il potere di unire.
Femminile, desiderio, cura, Torino, Bollati Boringhieri, p. 152). Una tale distinzione sembra già
adombrata in R. DESCARTES, Passioni dell’anima, in Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono,
Torino, UTET, 1994, p. 678.
12 È la riflessione, ad esempio, di Nicole, per cui l‟uomo diviene un essere sconosciuto a

se stesso e che si muove solo in base all‟esteriorità del suo essere (P. BÉNICHOU, Morali del
«Grand Siècle». Cultura e società nel Seicento francese, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 86).
13 Non è l‟amore di sé ad essere cattivo al suo interno, ma è la qualità di chi lo attua a

renderlo buono o cattivo (R. BODEI, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e
uso politico, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 347).
14 E. PULCINI, L’individuo senza passioni, cit., p. 24.
15 Cf. AGOSTINO, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano, Bompiani, 2001, XI, 28, pp.
Tra senso e visione 261

La discussione che occupa le pagine de La Città di Dio e della Summa vie-


ne abilmente ripresa dai pensatori del XVII secolo. Così da un lato la trat-
tazione moralistica si impegna a rivalutare una virtù che necessariamente
deve fare i conti con la visione ottimistica dell‟amore di sé prospettata da
Montaigne e dall‟altro le disquisizioni confessionali oppongono una rifles-
sione che passa per quel particolare amore di Dio, riletto tanto in chiave
mistica, quanto del tutto laica.
Pensiamo per un momento ad alcune riflessioni, tese tra Francia ed In-
ghilterra, che precisino meglio i termini di tale discorso e ci aprano così al-
la riflessione di Lady Masham che più ci sta a cuore.
Prima del suo Trattato del 1649, Descartes scriveva a Chanut riguardo
tre specifiche questioni: «1) Che cos’è l’amore; 2) Se il solo lume naturale ci in-
segna ad amare Dio; 3) Quale dei due eccessi e cattivi usi è peggiore quello del-
l’amore o quello dell’odio?»16. Nel rispondere alla domanda relativa all‟essen-
za dell‟amore, Descartes distingue un amore puramente intellettuale o ra-
gionevole e uno che è una passione. Il primo consiste in una sorta di unione
dell‟anima con qualche bene – presente o assente che sia – e che essa stessa
giudica conveniente oppure no, attraverso un atto di volontà; un amore in-
teso come «pensiero ragionevole» che, qualora sia in presenza, assenza o
possibilità di acquisizione di un bene, prova rispettivamente gioia, tristezza
e desiderio. Ecco perché Descartes parla in proposito di «pensieri ragione-
voli» e non di «passioni», che al contrario potrebbero trovarsi nell‟anima
anche se quest‟ultima fosse priva del corpo. Tuttavia finché una tale unione
permane, questo tipo di amore si accompagna a un altro, sensuale o sensiti-
vo, una sorta di pensiero confuso eccitato nell‟anima da qualche movimen-
to dei nervi che la dispone a quell‟altro pensiero più chiaro in cui consiste
l‟amore ragionevole, il quale può trovarsi in noi anche senza che la nostra
volontà si disponga ad amare qualcosa. È in questa descrizione che Des-
cartes si avvicina a quella che poi sarà la trattazione de Le Passioni dell’anima.
In realtà, sembra trattarsi solo di una distinzione fittizia, perché appare da
subito chiaro come non sia possibile separare del tutto tali amori.
La distinzione di cui si parla non è quindi relativa all‟essenza – che poi è
l‟assunto delle Passioni –, ma solo a soggetti e oggetti. È la distinzione tra un
amore „finito‟, proprio dell‟intelletto finito, e uno „infinito‟, proprio di una

551-552; XIV, 7, 28, pp. 652-653, 691-692; T. D‟AQUINO, La Somma Teologica, a cura dei
Domenicani Italiani, testo lat. dell‟ed. Leonina, Città di Castello (Perugia), Adriano Salani,
1958, I, q. 20, art. 2, pp. 206-208.
16 Descartes a Chanut, 1 feb. 1647, in R. DESCARTES, Opere filosofiche, cit., II, pp. 466-477.
262 Sonia Vazzano

volontà infinita. Insomma tra l‟amore di sé e l‟amore di Dio; dove nel primo
caso, siamo di fronte a un sentimento, una passione e un modo di pensare
che rimanendo nell‟uomo e soprattutto legato alla sua contingenza, cioè al
corpo, si connota come apparentemente negativo; mentre nel secondo, sia-
mo di fronte a un sentimento, una passione, un modo di pensare che dall‟uo-
mo a Dio (ma anche da Dio all‟uomo) si muove dall‟immanenza all‟essenza,
dal corpo all‟anima, secondo un‟ascensione del tutto positiva verso la ragio-
ne. Dall‟altro lato invece va tenuto in considerazione che la distinzione men-
te-corpo non dà modo di assolutizzare l‟amore in quanto positivo oppure
negativo, anche se c‟è sempre un tipo di amore che va preferito agli altri.
Il pensiero di Descartes è destinato a gettare un ponte tra la Francia e l‟In-
ghilterra dove la riflessione più rilevante sull‟argomento ci viene proposta nel-
le opere di John Norris, sulle quali ci soffermeremo a breve, che risentono
però fortemente del pensiero di Malebranche. Da La Ricerca della verità (1674-
1675) alle Conversazioni cristiane (1677), ma soprattutto nel Trattato sull’amore
di Dio (1697), la necessità della ragione viene intesa da Malebranche come co-
stitutiva del Creatore che si identifica con essa. In tal modo l‟ordine del mon-
do non risulta, alla maniera di Descartes, l‟espressione di una volontà arbitra-
ria, ma corrisponde a una ragione universale e infinita. Siamo di fronte a una
riflessione dagli esiti mistico-religiosi attenta a una nozione di piacere come
piena unione con Dio e, proprio secondo la mistica, ostacolo per tale unione.
Il tutto si riconduce alla distinzione tra anima e corpo per la quale Dio
diviene non solo causa di ogni evento, ma anche di ogni idea. Così la nostra
conoscenza degli oggetti non avviene per mezzo della percezione sensibile,
ma in virtù del nostro vedere in Dio tutte le cose, come se il Creatore comu-
nicasse in modo diretto le idee alla nostra mente. Il dubbio di Descartes vie-
ne risolto da Malebranche considerando Dio non come il semplice garante
della conoscenza dell‟uomo, ma come l‟autore del contenuto stesso della co-
noscenza, grazie a una particolare illuminazione interiore le cui dinamiche si
rifanno essenzialmente alla riflessione di Agostino. È proprio in tale ottica
che va ricompresa la distinzione di Malebranche sulle tre inclinazioni specifi-
che dell‟uomo: per il bene in generale, per la conservazione del nostro es-
sere, per tutte le altre creature, utili a noi o a chi amiamo: l‟amore per il be-
ne (Dio?), quello per il proprio sé e quello per il prossimo17.
Il punto di partenza del Trattato sull’amore di Dio di Malebranche è la con-
sapevolezza della conoscenza perfetta da parte del Creatore sia di se stesso

17 N. MALEBRANCHE, La ricerca della verità, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1983,


IV, I, pp. 367-368.
Tra senso e visione 263

che dei suoi attributi e delle sue perfezioni; in una parola, della sua intera So-
stanza che ama compiacendosi di sé: amore che consiste nella sua stessa vo-
lontà18. E poiché per il Creatore niente è giusto se non segue l‟ordine delle sue
perfezioni, al di là della distinzione agostiniana tra carità o amore di Dio e
amore per la giustizia e per l‟Ordine, Malebranche preferisce identificare l‟amo-
re dell‟Ordine con quello di Dio e di tutte le cose in relazione a Dio19. Que-
sto vuol dire che, agendo per sé, Dio ha dato alle creature la capacità di co-
noscere e amare solo per „conoscerlo‟ e „amarlo‟, di quell‟amore dell‟Ordi-
ne, appunto, che è insieme giustizia e verità; in una parola: ragione. Così non è
il piacere a risultare cattivo in sé, né a procurarci niente di male e lo scacco si
produce nella scelta che segue quella che dovrebbe essere la nostra „norma‟
principale: „quello che Dio vuole che noi vogliamo‟20. Il puro amore sarà al-
lora quello in cui la nostra volontà si conforma a quella di Dio e ciò è pos-
sibile se lo amiamo, se vogliamo che Egli sia come è e se i movimenti della
nostra volontà si regolano sull‟Ordine. Non si deve amare se non ciò che è
amabile e niente è amabile se non è buono. Buono è, d‟altra parte, ciò che
risulta per noi benefico e in grado di renderci felici e perfetti, ma nulla può
produrre ciò se non è al contempo capace di agire in noi e non resta in qual-
che modo a noi superiore: è solo Dio che ama soprattutto ciò che è più de-
gno di amare e cioè Se stesso sopra qualunque altra cosa. Per questo ogni azio-
ne si rapporta a Lui, fine della creazione e della conservazione del nostro es-
sere, spirito e facoltà di conoscenza e di capacità di amare e di uniformare la
nostra volontà in virtù della sua conoscenza e del suo amore21.
In A Discourse concerning the Love of God (1696) Lady Masham combatte
proprio contro la posizione di John Norris, veicolata a partire da quella di
Malebranche, secondo cui è Dio, e non la creatura, la Causa immediata ed
efficiente delle nostre sensazioni. Il che significa che poiché tutto ciò che ci
dona piacere ha diritto al nostro amore, e dato che solo Dio ce ne dona
realmente, allora solo Egli ha diritto di essere amato da noi22. L‟intera ar-
gomentazione di Norris si gioca su un versetto di Matteo che recita:
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la
tua mente»23. Poiché secondo Norris, e secondo Malebranche prima di lui,

18ID., Conversazioni cristiane, a cura di A. Ingegno, Firenze, Olschki, 1999, II, p. 31.
19ID., Trattato sull’amore di Dio. Lettere e Risposta al R.P. Lamy, a cura di A. Stile, Napoli,
Guida, 1999, p. 58.
20 ID., Conversazioni cristiane, cit., II, p. 26. E ancora Trattato sull’amore di Dio, cit., p. 67.
21 Ivi, III, p. 45.
22 Cf. D, p. 7.
23 Mt 22,37.
264 Sonia Vazzano

le creature non hanno alcuna efficacia per agire su di noi essendo le sole
cause occasionali delle sensazioni che il Creatore produce in noi stessi24, da
ciò deriva che ogni atto che ci spinge a provare un qualunque tipo di
desiderio indirizzato verso la creatura è considerato criminale in se stesso
poiché rischia di introdurre in noi il fanatismo. A ciò si aggiunge la pretesa
di Norris di mostrare che i due comandamenti espressi nella Sacra Scrittura,
quello di amare Dio e quello di amare il prossimo, sono la prova che esi-
stono due diversi tipi di amore: un amore di desiderio con cui dobbiamo
amare Dio e un amore di benevolenza con cui si amano le creature25.
Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare
per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?
Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il
prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa‟ questo e vivrai”26.
In questo versetto Lady Masham non trova la distinzione relativa ai „tipi‟ di
amore di cui parla Norris; questa, infatti, non ha a suo avviso ragion d‟essere
e per un motivo su tutti: poiché di qualunque specie esso sia «l‟Amore attira
naturalmente dietro sé il Desiderio»27. L‟opinione di Norris, secondo la
quale gli oggetti dei nostri sensi risultano rispetto alle nostre sensazioni
piacevoli non cause efficienti ma occasionali, non ci dice per nulla come
dobbiamo amare le creature. È necessario dunque intenderci prima di tutto
sull‟amore, perché secondo Lady Masham
i Sapienti hanno parlato come se ci fossero due specie di Amore: Mentre l‟A-
more è tuttavia un semplice atto della Mente, sempre accompagnato dal Desi-
derio e anche dalla Benevolenza, quando l‟Oggetto è capace di ciò 28.
Perciò sapere se i corpi sono cause efficienti delle nostre sensazioni piace-
voli, oppure occasionali, non ha alcun rapporto con il nostro amore, per-
ché niente può essere ricercato senza essere amato e niente può essere
amato che non ci produca piacere29. Bisogna, è vero, distinguere tra un
amore di sé, un amore per le creature e l‟amore di Dio, che si erge al di sopra di
tutti gli altri amori; ma la cosa essenziale è nuovamente che

24 Cf. D, pp. 8-9.


25 Ivi, p. 12.
26 Lc 10,25-28.
27 D, p. 16.
28 Ivi, pp. 18-19.
29 Cf. R. ACWORTH, La philosophie de John Norris (1657-1712), Paris, Honoré Champion,

1975, I, pp. 453-454.


Tra senso e visione 265

L‟Amore è tuttavia un semplice Atto della Mente: Ma che in conseguenza di


questo Atto noi desideriamo ciò che amiamo, o solo ci auguriamo del bene per
esso, o entrambe le cose, segue questo atto di Amore; la natura dell‟Oggetto
lo determina soltanto. […] La Distinzione che si fa tra un amore di Benevo-
lenza, e Concupiscenza (nascendo solo dalle differenti Nature degli Oggetti
del nostro Amore), è solo l‟uso della parola Amore a proposito dei differenti at-
ti che seguono l‟Amore, benché distinti da esso, e dipendenti dalla differente
natura dell‟Oggetto30.
Secondo Lady Masham le creature si amano con entrambi gli amori perché
l‟amore in sé non rappresenta un movimento dell‟anima verso il bene, ma
è dovuto ad una disposizione della mente che segue il piacere31. Ecco per-
ché nell‟amore stanno tanto il desiderio, quanto la benevolenza; e la diffe-
renza tra amore per Dio e amore per le creature consiste solo nel fatto che
il primo sta al di sopra di ogni altra cosa e deriva dall‟amore per gli altri,
cioè da altre sensazioni di piacere: è insomma una verità autoevidente, se-
condo una traccia dell‟anti-innatismo lockeano32. Norris potrà anche soste-

30 D, pp. 24-25.
31 Anche Leibniz si sarebbe soffermato su una tale distinzione ricollegandosi al Saggio di Locke
che aveva dedicato il capitolo ventesimo del suo secondo libro proprio ai modi del piacere e del
dolore. Leibniz risponde in tali termini nel capitolo XX della seconda parte dei Nuovi saggi sull’in-
telletto umano: «amare è esser portato a provare piacere per la perfezione, il bene o la felicità del-
l‟oggetto amato. In forza di ciò, non si prende in considerazione e non si cerca altro piacere se
non quello che si trova nel bene e nel piacere della persona amata ed in questo senso è impos-
sibile amare le cose che sono incapaci di piacere e di felicità, e di esse prendiamo piacere senza
amarle, a meno che non le personifichiamo, immaginando che esse stesse godano della loro per-
fezione. […] I filosofi e i teologi distinguono due specie di amore: l‟amore di concupiscenza, che è
il desiderio o il sentimento per ciò che ci procura piacere, senza interessarsi se esso lo riceva a
sua volta, e l‟amore di benevolenza, che è l‟affetto che si prova verso chi ci procura piacere o felici-
tà per mezzo del suo piacere o della sua felicità. Il primo pone in vista il nostro piacere, il se-
condo il piacere altrui, ma come costitutivo del nostro, perché se non si ripercuotesse in qualche
modo su di noi, non potremmo interessarcene non essendo possibile essere indifferenti al pro-
prio bene. Ecco come deve essere inteso l‟amore disinteressato o non mercenario, se si vuole
comprenderne la nobiltà, senza cadere nel chimerico» (G.W. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto
umano dell’autore del sistema dell’armonia prestabilita, in Scritti filosofici, 2 voll., a cura di D.O. Bian-
ca, Torino, UTET, 1968, II, XX, 4-5, pp. 292-293).
32 Cf. G. MOCCHI, Individuo bene fundatum. Controversie religiose moderne e idee per Leibniz,

Roma, Carocci, 2003, p. 173. Le pagine del Discourse rappresentano, allora, proprio la posi-
zione completa di Lady Masham nella controversia principale del suo tempo e la rivelano, in tal
senso, come una chiara ed ardente esponente della riflessione di Locke (cf. A. WALLAS, «Locke‟s
friend, Lady Masham», in Before the Bluestockings, London, George Allen & Unwin, 1929, p.
95). È possibile, altresì, che in entrambi i trattati Lady Masham si riveli una discepola di Lo-
cke; mentre al contrario la differenza si noterebbe in relazione alla corrispondenza, che mani-
festa un attaccamento maggiore al platonismo di Cambridge e al cartesianesimo (cf. S. HUT-
TON, op. cit., pp. 34-41).
266 Sonia Vazzano

nere che nessuna creatura sia capace di procurarci del bene; la verità è che
ogni giorno la nostra esperienza ci convince del contrario. E amare le crea-
ture conduce in realtà gli uomini, nel modo più naturale possibile, a cono-
scere Dio, ad amarlo e a servirlo.
E le passioni? Lady Masham si dice convinta del fatto che
Le Passioni quando sono forti, ragionano secondo una Logica loro propria,
non quella della Ragione, che spesso e abbastanza significativamente, capo-
volgono per soddisfare il loro Scopo. E quando la Religione si trova in questo
stato […] esse possono facilmente prendere occasione da quella, per formare
un Sistema completo, solo intelligibile per mezzo del Sentimento, ma non dal-
la Ragione; del quale, alcuni Teologi Mistici sono forse un esempio33.
È vero che spesso l‟uomo insensato ama con ardore, senza considerare se
l‟oggetto del suo amore meriti oppure no una tale considerazione; tuttavia,
amare ardentemente, con la mente, con l‟anima e con il cuore, significa
amare giudiziosamente e ragionevolmente così bene tanto quanto farlo con
passione34. La ratio non resta dunque esclusa dall‟amore perché ne è parte in-
tegrante; e amare Dio si configura come un dovere che la stessa religione ci
prescrive e che è allo stesso tempo il medesimo impostoci dalla nostra ragio-
ne. Ecco perché l‟errore e la miseria degli uomini non stanno tanto nell‟atto
del desiderare, ma nella mancata regolazione del desiderio. L‟amore di Dio è
sì da preferirsi, ma non richiede l‟esclusività, dato che non è non desideran-
do che si è felici, ma regolando i nostri desideri in relazione ai vari oggetti.
In definitiva, non l‟amore in sé va condannato, perché è da coloro che
amano che bisogna imparare, ma l‟identificazione tra soggetto e oggetto. È
il tema di una soggettività che entra prepotentemente nella scena della pas-
sione amorosa. Ed è l‟amore che si connota come un‟ulteriore soggettività,
perché dà la possibilità di dire io e di indicare l‟interiorità nel movimento
dell‟amore. Così se «Virtù morale e scelta religiosa richiedono entrambe
un preciso (e responsabile) impiego di intelligenza»35, allora siamo di fron-
te ad un percorso gnoseologico che si muove da uno stato naturale ad un
passaggio al senso e alla riflessione, gradini intermedi di quella conoscenza su-
prema della prima Causa rappresentata da un Essere intelligente, sapiente e
onnipotente, anche se impossibile da concepire. È il tema della conoscenza
del Creatore per mezzo dei suoi attributi: potenza, sapienza e amore36, il

33 D, p. 28.
34 Cf. ivi, p. 44.
35 OT, p. 96.
36 Cf. ivi, pp. 61-62.
Tra senso e visione 267

cui risultato è una forma di conoscenza data all‟uomo da Dio, dipendente


dalla volontà divina e pretendente un‟analisi della natura di tutte quelle
cose che si pongono in stretta relazione con le nostre azioni; che utilizza,
insomma, tanto i termini di sensazione e riflessione di lockeana memoria,
quanto quella che Lady Masham definisce «percezione di remote o distanti
verità»37. «La vera felicità che tutti gli uomini cercano di trovare invano è solo
nella mente»38; ma in realtà gli uomini la cercano «lontano da casa […] ora
qui ora là»39, non comprendendo che è solo nel loro sé che possono tro-
varla. C‟è stato un tempo in cui, secondo Lady Masham, «La vera ragione
muoveva le sue azioni e obbediva al Governo della Ragione delle Passio-
ni»40; ma nello stato attuale l‟uomo sembra confezionarsi ogni giorno un
abito su misura che lo vede per forza di cosa essere sempre infelice, «im-
merso nelle ragioni della Materia Resistendo alla Tirannia del senso»41.
Ma quale fede ci può essere mostrata se noi crediamo solo a ciò che ve-
diamo e pensiamo alle cose come appaiono? L‟inganno dei sensi e delle ap-
parenze diviene l‟errore principale dell‟umanità. Così a metà tra la ragione e
i sensi l‟uomo può trovare una via d‟uscita solo nel ripristino di quella con-
dizione originaria, in quello stato di «Governo della Ragione delle Passioni»
che diviene presente e non più passato se si comprende che le due radici,
quella della ragione e quella della passione appunto, risultano inscindibili.
Perché l‟anima non è più separata dal corpo e la razionalità non si distacca
ormai dal sentimento religioso, ma la moralità si fa religio. Il tutto grazie a
quella nozione di anima, in cui entra in gioco tanto la componente materiale,
quanto quella spirituale; grazie al senso della vita, in cui lo spirituale si fa
sempre più presente e ciò non tanto in un‟accezione prettamente fideistica,
quanto „umana‟; grazie al potere conferito all‟amore, che diviene quasi una
sorta di sesto senso. Per questo la trattazione sulle passioni diviene centrale al-
l‟interno della tematica etico-religiosa, che per Lady Masham è legata in-
scindibilmente all‟ambito filosofico e soprattutto gnoseologico.

37 Ivi, pp. 63-65.


38 EAD., Oxford, Bodleian Library, ms Locke C 32, cc. 15r-16v, in L. SIMONUTTI, «Dalla
poesia metafisica alla filosofia lockiana. Damaris Cudworth, Lady Masham», in P. TOTARO
(ed.), Donne filosofia e cultura nel Seicento, Roma, CNR, 1999, p. 199 (si tratta del primo dei tre
componimenti poetici di Lady Masham raccolti dalla Simonutti; anche altrove Lady Masham
aveva sostenuto che la felicità non deve essere vista in altra cosa se non in noi, cf. DC to Locke,
28 November [1682], II, 744, p. 562).
39 Ivi, p. 200.
40 LADY MASHAM, Oxford, Bodleian Library, ms Locke C 32, cc. 18r-v (recante il titolo

Upon the former and present state of the Soule), in L. SIMONUTTI, op. cit., p. 207.
41 Ivi, p. 209.
Sezione II

Varia e discussioni
INES ADORNETTI
Fondamenti cognitivi della trasmissione culturale.
Il caso della credenza religiosa

Gli esseri umani sono creature culturali. Sin dalla nascita la cultura è un
elemento fondamentale che caratterizza il nostro modo di essere e di rela-
zionarci con gli altri. Gli umani sono anche creature biologiche e questa na-
tura biologica è un elemento altrettanto importante per chiarire le pecu-
liarità della natura umana. Considerazioni, queste, assai scontate: chi può
negare che tutto il nostro comportamento è frutto di una complessa influen-
za reciproca tra eredità ed ambiente? Tuttavia, ricongiungere questi fatti e
farli stare insieme è impresa molto complessa: il dibattito tra chi sostiene
una comprensione esclusivamente culturale dell’uomo e chi, invece, ap-
poggia una comprensione biologica è lungo e assai acceso. In che modo, al-
lora, conciliare queste problematiche? Dal nostro punto di vista, per gua-
dagnare una prospettiva unitaria sull’essere umano è necessario analizzare
le condizioni di possibilità dei fenomeni culturali, è necessario chiedersi qua-
li possano essere gli effetti della biologia sul carattere e sul contenuto della
cultura. E proprio per chiarire la natura di tali effetti prendiamo in esame il
tema della trasmissione delle rappresentazioni culturali.
Seguendo Sperber (1996) quando parliamo di cultura ci riferiamo a idee
largamente distribuite e di lunga durata, alle loro rappresentazioni1 nelle
menti delle persone, e alle loro espressioni nei comportamenti e nelle inte-
razioni. In questa prospettiva, studiare la cultura significa studiare la distri-
buzione delle rappresentazioni, significa chiedersi perché alcune rappresen-
tazioni hanno più successo di altre in una popolazione umana. Le idee cul-
turali possono essere viste come dei virus contagiosi: la diffusione delle idee
è paragonabile a delle epidemie infettive. Quello che in questo lavoro cer-
cheremo di chiarire è perché alcune idee risultano più contagiose di altre.
Per rispondere a tale questione analizzeremo un caso specifico di trasmis-
sione culturale, quello della credenza religiosa. L’obiettivo è di mostrare
che ciò che rende più facile per gli esseri umani interiorizzare, ricordare e
trasmettere alcune rappresentazioni è l’organizzazione della capacità cogni-

1 Utilizziamo il termine “rappresentazione” nel senso di rappresentazione mentale, vale a

dire quel prodotto del funzionamento del cervello definibile nei termini del suo rapporto cau-
sale con stati ed eventi del mondo e con le rappresentazioni che seguono da questo processo.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 271-290 271


272 Ines Adornetti

tive e comunicative umane e che, pertanto, per comprendere i fenomeni


culturali bisogna ricorre (anche) a spiegazioni psicologiche.

Autonomia dei fenomeni culturali

Nel 1895 Emile Durkheim sosteneva l’impossibilità di dare conto dei fat-
ti sociali attraverso spiegazioni psicologiche perché la cultura costituisce
una «realtà sui generis del tutto distinta dai fatti individuali che la manife-
stano»2. Secondo il sociologo francese fatti culturali e fatti psichici hanno
proprietà differenti e proprio in virtù di ciò i primi sono irriducibili e auto-
nomi rispetto ai secondi. In particolare, Durkheim attribuisce ai fatti sociali
due peculiarità, quella di esistere al di fuori delle coscienze degli individui
e di imporsi ad esse in maniera coercitiva ed imperativa. Essi sono
modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di
esistere al di fuori delle coscienze individuali. Questi tipi di condotta e di pen-
siero non soltanto sono esterni all’individuo, ma sono anche dotati di un pote-
re imperativo e coercitivo in virtù del quale si impongono a lui, con o senza il
suo consenso3.

Ma come deve essere fatto l’individuo affinché un fenomeno culturale lo


possa invadere, affinché possa essere plasmato da eventi che sono fuori di
lui? L’idea di Durkheim è che le nature individuali
costituiscono soltanto la materia indeterminata che il fattore sociale determina
e trasforma. Il loro contributo consiste esclusivamente in stati generalissimi, in
predisposizioni vaghe e quindi plastiche4.

Possiamo dunque notare come il primato dei fattori esterni all’individuo


porti con sé l’idea che l’essere umano sia indeterminato, plasmabile, che
sia pura potenza.
Come sostenuto da gran parte dell’antropologia culturale del Nove-
cento5, la cultura è un organismo che vive di vita propria che va a riempire

2 DURKHEIM, 1895, trad. it. 1979, p. 29.


3 Ivi, pp. 25-26.
4 Ivi, p. 103.
5 Anche autori che professano l’unificazione tra i fattori biologici e quelli culturali in

realtà sostengono una visione esclusivamente culturalista dell’essere umano. Ad esempio,


GEERTZ (1973) ritiene che per avere un’immagine più corretta dell’uomo sia necessaria
una concezione in cui «i fattori biologici, psicologici, sociologici e culturali possono essere
trattati come variabili entro sistemi di analisi unitari» (trad. it., p. 87). Tuttavia, nonostan-
Il caso della credenza religiosa 273

individui che la natura consegna vuoti e che sono sottoposti passivamente a


questo riempimento. Alla nascita l’uomo ha certe potenzialità generiche
che, proprio in quanto generiche, fanno sì, ad esempio, che una persona
possa imparare una determinata lingua piuttosto che un’altra. Il modo in
cui queste facoltà saranno realizzate dipende esclusivamente dalla cultura in
cui si nasce.
L’eredità ci dà alla nascita alcune capacità umane generiche: come le useremo, e
quindi in che modo vivremo, lo decide la cultura nella quale veniamo a trovarci6.

L’essere umano diventa così un prodotto culturale: ciò che gli uomini sono
è interamente dovuto alla loro cultura d’appartenenza. Posizioni teoriche
del genere, fondate sul primato dei fattori esterni, che sostengono cioè
l’idea per cui l’organizzazione mentale che si osserva negli adulti sia social-
mente determinata, sono state definite da John Tooby e Leda Cosmides
(1992) Modello Standard delle Scienze Sociali7. Secondo i due autori, il
modello psicologico che fonda il MSSS non è plausibile da un punto di vista
empirico: l’idea di una mente plastica e indeterminata non regge alla prova
dei fatti. Nella teoria psicologica che sta dietro MSSS il concetto centrale è
quello d’apprendimento, «la finestra attraverso cui la complessa e preesi-
stente organizzazione prodotta culturalmente all’esterno riesce a insinuarsi
nell’individuo»8. Questo apprendimento avviene attraverso processi cogni-
tivi che sono generali per dominio (o indipendenti dal contenuto) che «de-
vono essere fatti in modo tale da poter assorbire ogni tipo di messaggio
culturale o input ambientale in modo ugualmente bene»9. Tuttavia, come
fanno notare Tooby e Cosmides, il MSSS si fonda su una psicologia implausi-
bile perché una struttura indeterminata non ha alcuna competenza, né è in
grado di rispondere in maniera contingente all’ambiente.
[U]n’architettura psicologica composta solo da meccanismi equipotenziali, ge-
neral purpose, indipendenti , o non vincolati, dal contenuto, non è in grado di

te questa dichiarazione d’intenti, secondo Geertz l’idea di una natura umana costante e
universale è un’illusione perché «le nostre idee, i nostri valori, le nostre emozioni sono,
come lo stesso nostro sistema nervoso, prodotti culturali fabbricati usando tendenze, capa-
cità e disposizioni con cui siamo nati, ma ciò non di meno fabbricati» (ivi, p. 95).
6 KROEBER 1948, trad. it. 1983, p. 271.
7 MALLON E STICH (2000, trad. it. 2006) usano l’espressione, di significato analogo ma

più sintetica, di «costruttivismo sociale».


8 Ivi, p. 30.
9 Ivi, p. 29.
274 Ines Adornetti

eseguire con successo quei compiti che la mente umana è in grado di eseguire
o risolvere […] essa non può dar conto del comportamento osservabile, e non
è un tipo di progetto che si sarebbe potuto evolvere10.

Una mente concepita in questi termini non può dar conto di come avven-
ga l’apprendimento, vale a dire non è in grado di spiegare il processo fon-
damentale che, secondo le ipotesi fondate sui primato dei fattori esterni,
farebbe dell’uomo un prodotto culturale. Quale è, allora, una possibile al-
ternativa (empiricamente fondata) a questo modello di architettura mentale?

Evoluzione dell’organizzazione funzionale

Secondo Cosmides e Tooby (1994) per capire come funziona la mente è


necessario non solo studiare i meccanismi d’elaborazione delle informazioni,
la struttura del mentale, ma occorre anche adottare una prospettiva evoluzio-
nistica e chiedersi quali sono i problemi per la cui risoluzione è stato confi-
gurato il nostro cervello e perché esso è stato configurato per risolvere quei
problemi e non altri. Secondo i due autori, infatti, «la conoscenza del che cosa
e del perché impone vincoli decisivi alle teorie del come»11. Il programma di ri-
cerca che studia la mente da questa prospettiva è la psicologia evoluzionistica.
La psicologia evoluzionistica si basa sull’idea che l’architettura cognitiva
umana sia il prodotto dei processi evolutivi e che, dunque, per comprende-
re la mente occorra studiare i processi che nella filogenesi le hanno dato
forma. Le teorie delle pressioni selettive12 sono usate per produrre ipotesi
sulle caratteristiche della mente e la conoscenza dei fenomeni psicologici e
comportamentali è collocata all’interno di un contesto funzionale13. Quella
della psicologia evoluzionistica è un’operazione d’ingegneria inversa: si
parte con un problema e si progettano dispositivi in grado di risolverlo in

10 Ivi, p. 34.
11 Ivi, p. 10.
12 Le pressioni selettive possono essere viste come dei problemi a cui nel corso del-

l’evoluzione i nostri antenati hanno dovuto far fronte. Le condizioni ricorrenti e durevoli
nel mondo che creano od ostacolano le opportunità riproduttive, come la presenza di pre-
datori, la scelta dei cibi, la vulnerabilità dei bambini, costituiscono dei problemi adattivi.
Un problema adattivo ricorrente seleziona in maniera costante le caratteristiche che, in un
determinato progetto, permettono la risoluzione di un problema. Durante il tempo evolu-
zionistico molte caratteristiche si accumulano e contribuiscono insieme a formare una
struttura integrata, un meccanismo ben progettato per risolvere i “suoi” problemi. Tale
struttura o dispositivo si definisce “adattamento”.
13 TOOBY & COSMIDES, 1992.
Il caso della credenza religiosa 275

modo efficiente. Come risultato, la struttura del dispositivo riflette la sua


funzione: esso ha certe proprietà e non altre, certe componenti e non altre
perché queste strutture risolvono un problema meglio delle altre alter-
native. Detto in altri termini, quest’operazione permette di individuare
quei meccanismi mentali (struttura) che si sono evoluti per risolvere i pro-
blemi adattativi (funzione) che i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene han-
no dovuto affrontare14. Tali meccanismi sono pertanto definiti anche adat-
tamenti psicologici15. Il punto importante da sottolineare ai fini del nostro
discorso è che se la selezione naturale tende a produrre meccanismi ben
progettati per la risoluzione di problemi adattivi, allora è plausibile ipotiz-
zare che la mente umana sia in prevalenza composta di strutture computa-
zionali dedicate alla risoluzione di particolari problemi, strutture che sono
specializzate funzionalmente e, dunque, dominio-specifiche: l’idea di una
mente indeterminata, di un dispositivo general purpose non è evolutivamente
concepibile. Infatti, quanto più importante è il problema adattivo, tanto
più intensamente la selezione naturale potrebbe aver specializzato e miglio-
rato le performances del meccanismo per la sua risoluzione16.
Gli umani devo aver sviluppato degli “algoritmi darwiniani” – meccanismi di
apprendimento specializzati che organizzano l’esperienza in schemi o frames
significativi da un punto di vista adattivo. Quando vengono attivati da un pro-
blema di contenuto appropriato, questi “costruttori di frames” specifici e in-
nati focalizzarebbero l’attenzione, organizzerebbero percezione e memoria, e
mobiliterebbero conoscenza procedurale specializzata che condurrà ad infe-
renze, giudizi e scelte specifiche per dominio17.

14 Il rapporto tra problemi adattivi e meccanismi psicologici deve essere chiarito in ri-

ferimento all’ambiente di adattamento evoluzionistico. Tale concetto può essere concepito


come l’ambiente a cui la specie si è adattata, ambiente inteso non in senso fisico e tem-
porale, ma come l’insieme delle pressioni selettive che gli individui della specie hanno in-
contrato in modo ricorrente nel corso dell’evoluzione. Per la nostra specie, l’ambiente di
adattamento evoluzionistico viene spesso identificato col l’era del Pleistocene, iniziata 1,8
milioni di anni fa e terminata 11000 anni fa circa (Cf. ADENZATO e MEINI, 2006).
15 Secondo COSMIDES E TOOBY (2003) le caratteristiche dell’architettura mentale pos-

sono essere suddivise in: adattamenti, presenti in quanto “selezionati per” (ad esempio, un
sistema di riconoscimento dei serpenti collegato a regole per la presa di decisione che
danno una motivazione per evitarli); “sottoprodotti”, presenti perché causalmente uniti ai
tratti che sono stati selezionati (ad esempio, l’evitare serpenti innocui); rumore, introdotti
da componenti stocastiche dell’evoluzione (ad esempio il fatto che una piccola percentuale
degli umani starnutisce quando è esposta alla luce del sole).
16 Cf. DARWIN, 1859 e WILLIAMS, 1966.
17 COSMIDES, 1989, p. 195.
276 Ines Adornetti

Diversi studi oggi depongono a favore dell’idea che la mente umana sia in ef-
fetti costituita da una vasta gamma di meccanismi che sono specializzati funzio-
nalmente, dipendenti dal contenuto, specifici per dominio18. L’architettura
mentale a cui dobbiamo dunque pensare è quella di un sistema formato da
diversi moduli cognitivi creati in riposta a problemi ambientali specifici.

Cultura e modularità

La nozione originale di modularità è quella di Fodor (1983), secondo


cui i moduli sono sistemi di elaborazione specifici per dominio, ovvero so-
no vincolati al tipo di contenuto che possono assumere come input. Que-
sto contenuto costituisce il dominio del modulo. Oltre a ciò, i moduli sono
innati, la loro crescita e il loro sviluppo sono controllati geneticamente,
sono localizzati in specifiche strutture del cervello e dunque possono an-
dare incontro a disfunzionamenti specifici. Essi sono anche obbligati e ra-
pidi nelle elaborazioni: le operazioni dei moduli non sono sotto il controllo
volontario e possono generare gli output in modo estremamente veloce in
confronto agli altri sistemi non modulari. Altra caratteristica importante è
che i moduli sono incapsulati informazionalmente, cioè sono isolati dal re-
sto della cognizione: nel loro funzionamento utilizzano solo l’informazione
che fa parte della loro base di dati e non sono influenzabili da altri tipi di
conoscenza. Nell’opinione di Fodor sono modulari solo i sistemi periferici,
quelli che cioè ricevono in input l’informazione fornita dai recettori senso-
riali, come ad esempio i sistemi percettivi. Non sono modulari invece i si-
stemi concettuali («cognizione centrale»). I moduli producono quindi in-
formazione che non ha che fare con i pensieri o le credenze. Al contrario,
la fissazione delle credenze avviene attraverso processi non modulari (oli-
stici). Infine, secondo Fodor (1998) l’architettura cognitiva non può essere
spiegata attraverso argomenti evoluzionistici.
La concezione della modularità di Fodor è stata criticata da diversi au-
tori. In primo luogo, nello studio della mente non pare possibile fare a me-
no di considerazioni evoluzionistiche. Come mette in evidenza Carruthers
(2003), se la mente è causalmente e esplicativamente rilevante nella deter-
minazione del comportamento, allora essa è una causa determinante della
fitness evolutiva, e dunque è assai probabile che sia stata formata dalla sele-
zione naturale. Inoltre, poiché la mente ha una struttura complessa e poi-

18 Cf. HIRSCHFELD & GELLMAN, 1994.


Il caso della credenza religiosa 277

ché la selezione naturale è la migliore spiegazione che abbiamo per la com-


plessità funzionale nel mondo biologico, ci sono buone ragioni per suppor-
re che anche l’architettura cognitiva sia stata sottoposta ad un processo di
selezione nel corso dell’evoluzione. In secondo luogo, vi sono buone ragio-
ni per ipotizzare che anche la cognizione centrale possa essere modulare19.
I moduli concettuali possono essere visti come meccanismi cognitivi distin-
ti caratterizzati funzionalmente. Si può parlare in questo caso di moduli
darwiniani20, cioè moduli innati, formati dalla selezione naturale, sistemi di
elaborazione specifici per dominio che possono aver accesso a domini spe-
cifici di conoscenza. Sottolineando gli aspetti di conoscenza, alcuni autori
hanno una concezione più debole di modulo: esaltano la competenza, senza
occuparsi dei meccanismi che la istanziano21. Si può parlare in questo caso
di moduli chomskiani22 o epistemici.
Al di là delle varie posizioni teoriche sul concetto di modulo, quello
che ci pare importante sottolineare è che diverse ricerche sperimentali mo-
strano in effetti che il bambino acquisisce conoscenze e abilità guidato da
disposizioni cognitive innate per i diversi domini di conoscenza, secondo
schemi differenti per ogni dominio23. Per esempio, vi sono prove che i
bambini hanno delle teorie ingenue 24 – sistemi di principi rappresentati
mentalmente – per domini quali la fisica, la psicologia e la biologia25.

Fisica, psicologia biologia ingenue

Con l’espressione fisica ingenua ci si riferisce alla credenze di senso


comune che le persone hanno riguardo al modo in cui funziona il mondo,
in particolare riguardo al comportamento dei corpi fisici. Le ricerche in
questo campo si concentrano sull’idea di oggetto che hanno bambini molto
piccoli26 e mostrano come la percezione dell’oggetto dipenda da meccani-

19 Cf. SPERBER, 1996 e CARRUTHERS, 2003, 2006.


20 SAMUELS, 2000.
21 Cf. CAREY e SPELKE, 1994; BARON-COHEN, 1995; GOPNOK e MELTZOFF, 1997.
22 SAMUELS, 2000.
23 HIRSCHFELD e GELMAN, 1994.
24 Sono definite ingenue perché si tratta di domini di conoscenza in possesso di chiunque.
25 Cf. rispettivamente SPELKE, 1990, 1994; LESLIE, 1994; BARON-COHEN, 1995; KEIL,

1989; ATRAN, 1990, 1998.


26 Gli esperimenti del genere vengono condotti di solito su bambini che non hanno più

di tre-quattro mesi perché, oltre a comportarsi meglio di quelli più piccoli, non hanno an-
cora pienamente maturato la visione stereoscopica, la percezione del moto, l’attenzione e
278 Ines Adornetti

smi amodali che dividono le superfici in corpi secondo alcuni principi:


principio di coesione, principio di continuità, principio di contatto27. Ognu-
no di questi riflette dei vincoli sul movimento degli oggetti.
Secondo il principio di coesione due superfici appartengono ad un unico
oggetto se e solo se sono connesse: due oggetti spazialmente separati o due
oggetti adiacenti che scorrono in direzioni opposte sono percepite come uni-
tà distinte, mentre due oggetti fermi e adiacenti vengono percepiti come una
superficie unica. Il principio di contatto stabilisce invece che un corpo si
mette in movimento se e solo se su di esso viene esercitata una forza. In altre
parole, gli oggetti si spostano tra loro solo per contatto: non c’è azione a
distanza. Quando i bambini ripetutamente vedono un oggetto A, che si muo-
ve di moto rettilineo uniforme in una direzione, che scompare dietro uno
schermo e, poco dopo, un oggetto B che, con moto rettilineo uniforme, esce
dalla parte opposta dello schermo, si aspettano che l’oggetto A abbia causato
la messa in moto di B. Infatti, una volta tolto lo schermo, mostrano sorpresa
se vedono che A si ferma immediatamente prima di toccare B, che così si
muove per conto suo. Ciò dimostra che fin da piccolissimi i bambini hanno
una conoscenza della causalità fisica: perché ci sia una relazione causale deve
esserci contatto tra i due oggetti in essa implicati28. Oltre al principio di con-
tatto, la percezione della persistenza degli oggetti o del loro essere distinti è
regolata dal principio di continuità secondo il quale un oggetto si muove
lungo una traiettoria continua nel tempo e nello spazio. Quando un bambino
vede passare un oggetto dietro il bordo sinistro di uno schermo a sinistra e
poi lo vede riapparire dietro il bordo destro di uno schermo a destra senza
che sia passato per lo spazio vuoto tra i due schermi, presume di vedere due
oggetti. Se invece vede l’oggetto passare dietro lo schermo di sinistra, riap-
parire dall’altro lato, attraversare lo spazio vuoto e passare poi dietro lo
schermo di destra, presume di vedere un oggetto solo29. Ci si aspetta quindi
che gli oggetti si muovano lungo traiettorie continue e non possano sparire in
un posto e materializzarsi in un altro.
Non sempre però il movimento dei corpi viene interpretato secondo i
principi della fisica ingenua: alcuni oggetti sono visti come agenti animati in
grado di violare la fisica intuitiva mettendosi in movimento, fermandosi, de-

l’acuità visiva. Sebbene i test non possano di per sé stabilire cosa sia innato e cosa no, mo-
strando che cosa sanno i bambini a questa età si riducono le alternative.
27 Cf. SPELKE, 1990; CAREY E SPELKE, 1994.
28 BALL, 1973.
29 SPELKE & KESTENBAUM, 1986.
Il caso della credenza religiosa 279

viando o accelerando senza spinte esterne. I bambini sembrano infatti divide-


re molto precocemente il mondo in due tipi di oggetti sulla base del cambia-
mento nel movimento: da un parte gli oggetti auto-propellenti, dall’altra gli
oggetti che non possono muoversi da soli30. I bambini mostrano dunque di
avere aspettative opposte su ciò che fa muovere gli oggetti e ciò che fa muo-
vere le persone: i primi si mettono in movimento entrando in contatto gli
uni con gli altri; le persone si muovono e si fermano ognuna per conto pro-
prio. Alla base di questa distinzione vi è il fatto che il cambiamento nel movi-
mento degli oggetti auto-propellenti viene percepito come intenzionale. Se
due oggetti auto-propellenti – due persone – sono in qualche modo in rela-
zione, il bambino percepisce non solo il movimento intenzionale, ma anche
il fatto che uno dei due ha come fine quello di influenzare l’altro e che que-
st’ultimo ha intenzione di ricambiare: gli agenti che possono muoversi da soli
vengono interpretati come guidati da scopi e desideri, mentre questa inter-
pretazione non viene applicata agli oggetti inanimati. La presenza di tratti
umani sospende così il funzionamento del ragionamento fisico e attiva una
analisi psicologica31. Accanto al dominio della fisica ingenua esiste così un al-
tro dominio di conoscenza fondamentale, quello della psicologia ingenua –
definita anche teoria della mente32 o capacità di mentalizzazione33.
Con l’espressione capacità di mentalizzare ci si riferisce alla tendenza uni-
versale ed innata ad attribuire stati mentali agli esseri umani per interpre-
tarne i comportamenti. Siamo tutti un po’ psicologici: analizziamo le altre
menti per capire i più fondamentali comportamenti umani. Baron-Cohen
(1995) esemplifica la questione ricorrendo ad un esempio. Immaginiamo di
assistere alla seguente scena: nostra mamma entra in camera da letto, gira un
po’ per la stanza e poi esce. Come interpretiamo tale azione? Potremmo dire
che nostra mamma stesse cercando qualcosa che voleva trovare e pensava che
fosse in camera da letto. Oppure possiamo ipotizzare che avesse sentito un
rumore provenire dalla camera da letto e quindi voleva verificare quale fosse
la causa. Oppure, potremmo pensare che quando è entrata in camera da let-
to era un po’ distratta e in realtà intendeva entrare in un’altra stanza. Quello
che invece non pensiamo è che nostra mamma tutti i giorni entri a quell’ora
in camera da letto, che gironzoli un po’ e poi esca. La nostra mente spiega il
comportamento dell’altra persona in base alle sue credenze e desideri, per-

30 PREMACK, 1990.
31 BARON-COHEN, 1995.
32 PREMACK & WOODROFF, 1978.
33 FRITH, 1989.
280 Ines Adornetti

ché il comportamento è in effetti causato da credenze e desideri.


Oltre alla psicologia ingenua sembra esistere un altro dominio di cono-
scenza relativo al mondo animato, la biologia ingenua (folkbiology)34 ossia le
conoscenze – indipendenti rispetto alla biologia scientifica – riguardanti i
regni animale e vegetale che gli individui di tutte le culture possiedono. Le
persone hanno delle intuizioni di base su piante e animali diverse da quelle
che hanno su altri oggetti, come ad esempio gli artefatti: la mente tratta
piante e animali in maniera differente rispetto alle rocce, alle case o alle
sedie perché in effetti il mondo biologico ha alcune proprietà specifiche35:
1. le cose biologiche si riproducono, preservando importanti proprietà
del loro genere sia a livello dell’individuo che a livello della specie;
2. i tipi biologici hanno una struttura interna complessa e eterogenea;
3. i tipi biologici crescono e sono sottoposti a modelli canonici e irrever-
sibili di cambiamento;
4. qualcosa di intrinseco ai tipi biologici produce la maggior parte delle
loro proprietà fenomeniche stabili;
5. le proprietà fenomeniche sono generalmente viste come dipendenti
da quelle non fenomeniche: si assume l’esistenza di un’essenza nascosta che
si conserva anche quando gli organismi crescono, cambiano forma e si ri-
producono;
6. le proprietà hanno un fine per gli organismi (ad esempio, i conigli
hanno un pelo morbido per mantenersi caldi);
7. i tipi biologici hanno parti che funzionano insieme per supportarsi
l’un l’altro in un modo complementare.
Ulteriori studi nel campo della biologia ingenua mettono in evidenza
l’esistenza di regolarità transculturali nella tassonomie di flora e fauna for-
nite dai vari popoli. Gli antropologi Berlin (1973) e Atran (1990, 1998)
mostrano come universalmente i popoli raggruppino in modo simile le
piante e gli animali secondo tipologie che seguono gli stessi principi della
classificazione di Linneo (specie – genere – famiglia – ordine – classe –
phylum – regno). Le strutture tassonomiche non vanno considerate sem-
plicemente come delle somiglianze formali nella categorizzazione degli enti.

34 Il termine folkbiology indica sia la disciplina sia il proprio oggetto di studio. Questa

indagine è stata condotta soprattutto dagli antropologi e ha dato origine ad una sottodisci-
plina dell’antropologia cognitiva: l’etnobiologia. Tuttavia i due termini sono intercambia-
bili dal momento che anche alcuni psicologi cognitivi si occupano di tali conoscenze, del
loro sviluppo durante l’infanzia, studiando la biologia ingenua (ACERBI, 2006).
35 KEIL, 1994.
Il caso della credenza religiosa 281

Tali tassonomie non solo organizzano e riassumono l’informazione biologica,


ma forniscono anche una potente cornice induttiva per compiere inferenze si-
stematiche riguardo alla probabile distribuzione delle proprietà organiche ed
ecologiche tra gli organismi36.

Le tassonomie sono quindi degli strumenti inferenziali che forniscono ai


concetti biologici intuitivi una struttura logica che è diversa da quella che
organizza gli altri concetti.
Ciò che è importante sottolineare ai fini del nostro discorso è che questi
domini intuitivi di conoscenza costituiscono i fondamenti dello sviluppo
concettuale che si può concepire come un processo di arricchimento delle
conoscenze di base. Secondo la core thesis knowledge proposta da Carey e
Spelke37, in effetti, le conoscenze intuitive sono i mattoni della cognizione
umana, inclusa l’acquisizione del linguaggio e di altri sistemi simbolici, del-
lo sviluppo delle capacità che avviene attraverso l’istruzione formale e del-
l’emergenza e della crescita delle reti sociali cooperative.

Trasmissione culturale e ontologie intuitive


Fino ad ora abbiamo delineato il modello di architettura mentale a cui,
dal nostro punto di vista, è fondamentale far riferimento per dar conto delle
condizioni di possibilità della cultura. È importante a questo punto chiarire la
natura della relazione tra capacità cognitive e trasmissione culturale.
Secondo l’antropologo cognitivo Pascal Boyer (1998) per sviluppare un
approccio evoluzionistico alla trasmissione culturale occorre stabilire un
collegamento cognitivamente plausibile tra due serie di fatti: storia evolu-
tiva e rappresentazioni culturali attuali. L’ipotesi di Boyer è che la connes-
sione tra storia evolutiva e cultura risieda nelle ontologie intuitive che sono
alla base dello sviluppo concettuale: le predisposizioni cognitive frutto del-
l’evoluzione danno luogo ad una serie di ontologie che governano le infe-
renze a partire dalle credenze di cui si dispone. Un’ontologia intuitiva,
quale può essere quella relativa al mondo fisico, è un sistema inferenziale
specifico per dominio caratterizzata da un insieme di assunzioni (spesso im-
plicite perché non prodotte da una riflessione intenzionale e consapevole)
sulle proprietà sottostanti delle entità del mondo e da determinate aspet-
tative relative alle loro caratteristiche osservabili. Detto in altri termini,
l’identificazione di una entità del mondo come membro di una categoria

36 ATRAN, 1998, p. 548.


37 Cf. SPELKE, 1996; SPELKE 2000, 2004.
282 Ines Adornetti

ontologica genera l’attivazione di una serie di risposte spontanee e automa-


tiche. Ad esempio, come già precedentemente sottolineato, c’è una dif-
ferenza funzionale tra le aspettative intuitive associate alla categoria PERSO-
NA e quelle associate alla categoria ARTEFATTO: mentre ci si aspetta che gli
oggetti inanimati non possano muoversi se non in seguito al contatto, le
persone invece hanno la capacità di muoversi autonomamente senza che
intervenga una spinta esterna. Allo stesso modo, c’è una differenza tra le
aspettative associate alla categoria PERSONA e quelle associate alla categoria
PIANTA: ci si aspetta che la prima possa pensare, soffrire, credere qualcosa
(avere uno stato mentale), a differenza invece della seconda.
L’ipotesi di Boyer38 è che le proprietà delle categorie ontologiche co-
stituiscano dei vincoli per la trasmissione culturale perché stabilizzano la
diffusione delle informazioni che soddisfano le loro condizioni di input.
Pertanto, un’«ontologia intuitiva costituisce una spiegazione prossima per i
trends ricorrenti che si osservano nei vari domini della cultura trasmessa»39
perché tra i molti concetti che gli individui possono immaginare e combi-
nare, quelli che sono in connessione con le ontologie intuitive avranno mag-
giore possibilità, rispetto ad altri concetti che non presentano tale legame,
di essere trasmesse con successo. L’idea è che gli input culturali che non fan-
no parte di rappresentazioni che arricchiscono i principi intuitivi delle on-
tologie vengono o distorti o ignorati. Al contrario, l’informazione che è con-
forme alle aspettative dei principi intuitivi, o che ne costituisce un arricchi-
mento, avrà un vantaggio selettivo nella trasmissione culturale.

Rappresentazioni controintuitive: il caso della religione


Non sempre gli input culturali soddisfano e arricchiscono i principi di
una teoria psicologica ingenua. Vi sono casi in cui essi evocano piuttosto rap-
presentazioni che sembrano violare le aspettative intuitive. L’esempio più
evidente a tale proposito è quello delle rappresentazioni religiose in cui la
violazione è preminente e ampiamente diffusa. Pensiamo ad esempio al alcu-
ne delle caratteristiche che abitualmente vengono attribuite alle divinità o
agli spiriti, quali l’onniscenza o l’onnipresenza. Come dare conto di questi fat-
ti alla luce di quanto detto in precedenza a proposito delle aspettative in-
tuitive come vincolo cognitivo sulle rappresentazioni culturali? L’ipotesi di
Boyer è che per spiegare la trasmissione culturale di fenomeni di questo

38 BOYER, 1994a, 1994b, 1998.


39 BOYER, 1999, p. 878.
Il caso della credenza religiosa 283

tipo occorra prestare attenzione ad alcuni aspetti fondamentali delle strut-


ture concettuali implicate nelle rappresentazioni religiose40.
Boyer (2000a) mette in evidenza come le rappresentazioni mentali dei
concetti religiosi condividano tre caratteristiche generali. In primo luogo,
le idee religiose attivano i principi relativi alle categorie ontologiche intui-
tive quali, ad esempio, quelle di PERSONA, ANIMALE, PIANTA, ARTEFATTO,
OGGETTO NATURALE ecc. In generale nella rappresentazione mentale della
conoscenza concettuale si distingue tra due livelli di organizzazione: il li-
vello basico dei «concetti tipo» (kind-concepts), quali ad esempio albero, se-
dia, leone, nonna, e il livello dei concetti dominio (domain-concepts), rispet-
tivamente PIANTA, ARTEFATTO, ANIMALE. La rappresentazione dei concetti
tipo attiva le categorie di livello superiore relative ai generi fondamentali
delle cose nel mondo (persona, animale, pianta, artefatto, oggetto natura-
le). I concetti domino producono, a loro volta, delle aspettative che sono
intuitivamente applicate a nuovi oggetti se questi vengono identificati come
membri di un determinato dominio ontologico. Così, per quanto riguarda
le rappresentazioni religiose, i concetti di oggetti e esseri immaginari sono
intuitivamente associati a una particolare categoria ontologica. Per esempio,
il concetto di spirito attiva la categoria di PERSONA, mentre quello della
statua di una divinità attiva la categoria ARTEFATTO.
La seconda caratteristica delle rappresentazioni religiose è la violazione
delle aspettative associate ad una delle particolari ontologie intuitive. In mol-
te culture vi è, ad esempio, l’idea che gli spiriti dei morti possano passare
attraverso gli ostacoli e diventare invisibili: violazione del principio di con-
tinuità e del principio di contatto. Altre violazioni caratteristiche riguarda-
no il dominio della biologia ingenua, dal momento che spiriti, dei e fanta-
smi non subiscono i normali processi di crescita, invecchiamento e morte
che caratterizzano gli esseri umani. Ma elementi controintuitivi si riscon-
trano anche nel dominio della psicologia ingenua. In varie religioni vi è
infatti la credenza che alcune statue e artefatti possano ascoltare e com-
prendere coloro che vi si rivolgono. Tuttavia, l’interpretazione del com-
portamento attraverso l’attribuzione di credenze, desideri e intenzioni si
applica spontaneamente a persone e animali e non agli artefatti.
Terzo elemento caratteristico dei concetti religiosi è l’attivazione delle
aspettative intuitive non violate tra quelle associate al dominio ontologico
rilevante. A differenza delle violazioni controintuitive, questi aspetti gene-

40 BOYER, 2000a, 2000b.


284 Ines Adornetti

ralmente rimangono a un livello implicito e non devono essere acquisiti at-


traverso la trasmissione sociale. Per esempio, le persone tacitamente rappre-
sentano spiriti, dei e fantasmi come dotati di una mente: i processi mentali
di queste entità sono simili a quelle degli esseri umani.
Riassumendo, i concetti religiosi combinano due elementi: un insieme di
assunzioni controintuitive (violazioni del senso comune di pensare) e uno di
assunzioni non controintuitive (uso implicito dei principi intuitivi della co-
noscenza del senso comune). Le prime sono una diretta conseguenza degli
input culturali; le seconde sono prodotte automaticamente, per “default”,
dall’attivazione dei principi intuitivi rilevanti che non sono esplicitamente
violati. È possibile pertanto tracciare dei templates per i concetti religiosi che
diano conto del modo in cui viene trattata l’informazione proveniente da un
dominio ontologico e che permettano di spiegare non solo gli aspetti ricor-
renti di queste rappresentazioni, ma anche la loro variabilità.

Templates per i concetti religiosi


L’ipotesi di Boyer (2000a) è che il successo culturale delle rappresen-
tazioni religiose dipenda dal modo in cui viene trattata l’informazione pro-
veniente dal dominio ontologico, non tanto dalle caratteristiche partico-
lari delle rappresentazioni. I templates per i concetti religiosi hanno la se-
guente struttura:
Template generale Template del concetto “fantasma”
[0] etichetta lessicale; [0] etichetta lessicale: fantasma;
[1] indicatore di una categoria onto- [1] categoria ontologica: PERSONA;
logica; [2] violazione della fisica ingenua: i
[2] violazione delle aspettative, l’uno fantasmi passano attraverso gli oggetti;
o l’altro tra: sono invisibili;
[2a] infrazione delle aspettative per [3] attivazione di un’aspettativa non
quella particolare categoria, o violata:”teoria della mente”. I fantasmi
[2b] trasferimento delle aspettative da possono percepire eventi, formare cre-
un’altra categoria; denze, avere intenzioni, ecc.
[3] attivazione di aspettative non vio- [4] dettagli aggiuntivi: i fantasmi ri-
late per la categoria; tornano nei luoghi dove hanno vissuto
[4] dettagli enciclopedici aggiuntivi quando erano in vita.
variabili da contesto a contesto.

Poiché le categorie ontologiche e i loro principi sono parte del normale


sviluppo della mente, è possibile ipotizzare che la maggior parte dei
concetti religiosi sia basata su questa piccola lista di templates. Nonostante
Il caso della credenza religiosa 285

l’evidente diversità culturale, i modelli religiosi risultano così vincolati da


un piccolo numero di principi che non sono specificatamente religiosi. Na-
turalmente non è sufficiente mettere insieme qualcosa di intuitivo e qual-
cosa di controintuititvo per ottenere una rappresentazione religiosa che ab-
bia successo culturale. La fitness culturale di un concetto religioso dipende
infatti da alcuni elementi essenziali: tutti gli elementi controintuitivi (le
violazioni) relativi al dominio delle categorie ontologiche devono rendere
le rappresentazioni sufficientemente salienti, cioè in grado di attirare l’at-
tenzione41; le assunzioni intuitive devono fornire ai concetti religiosi suf-
ficiente potere inferenziale (non devono bloccare le inferenze del dominio
ontologico non violato).
Il successo culturale di una rappresentazione religiosa, vale a dire la pos-
sibilità che questa venga acquisita, memorizzata e trasmessa, si fonda sulla rea-
lizzazione di un compromesso tra «le esigenze dell’immaginazione (poten-
ziale di richiesta di attenzione) e delle possibilità di apprendimento (poten-
ziale inferenziale)»42. Un concetto religioso che è costituito solo da assunzio-
ni controintuitive non ha abbastanza potenziale inferenziale; mentre uno che
conferma solo le ontologie intuitive non è per definizione un concetto reli-
gioso e non risulta particolarmente attraente. Come ha sostenuto Sperber
(1996), sono proprio le caratteristiche controintuitive che rendono un con-
cetto religioso saliente: quanto più un rappresentazione è saliente, tanto più
aumentano le probabilità che venga ricordata e trasmessa. Così, i concetti
religiosi che fondono, secondo le modalità che abbiamo visto, queste condi-
zioni costituiscono un optimum cognitivo e sono quelle più diffuse perché
essendo più facili da apprendere e memorizzare, avranno un maggiore “valore di
sopravvivenza”, in termini di trasmissione, rispetto ad altre rappresentazioni43.

41 Qui la distinzione è tra elementi controintuitivi e informazione inusuale o bizzarra.

Per esempio, un gatto con cinque zampe costituisce una violazione del livello basico per-
ché si tratta di un’informazione specifica relativa al gatto; mentre un gatto nato da un cane
viola il principio della biologia ingenua associato alla categoria ontologica di ANIMALE se-
condo cui le cose viventi si riproducono all’interno della loro specie. Lo stesso vale per i
seguenti concetti: [1a] Esistono statue che ci ascoltano; [1b] Esistono statue così alte da
toccare le nuvole. Il primo concetto [1a] costituisce una violazione delle categoria onto-
logica ARTEFATTO; il secondo [1b] fornisce informazione inusuale sul concetto del livello di
base. Nonostante nelle rappresentazioni religiose vi siano stranezze di questi tipo, secondo
Boyer i dati antropologici suggeriscono che le violazioni a questo livello non costituiscono
le caratteristiche essenziali nella rappresentazione del concetto.
42 BOYER, 1994a, p. 407.
43 Ivi, p. 406.
286 Ines Adornetti

Il ruolo delle strutture concettuali intuitive nella memoria e nella trasmissione cul-
turale
Una ricerca condotta da Barrett e Keil (1996) sulla concettualizzazione
delle entità non naturali mostra come le inferenze sulle entità religiose so-
no governate dalla assunzioni intuitive relative alle categorie ontologiche,
le quali costituiscono dei vincoli sul modo in cui Dio viene rappresentato.
I due autori hanno esaminato il concetto di Dio di studenti universitari
statunitensi sottoponendo ad analisi sia le loro credenze teologiche, sia i
concetti utilizzati dai soggetti nella comprensione delle storie. A dispetto
delle descrizioni teologiche che rappresentano Dio come un essere infinito,
illimitato, perfetto, immateriale, immutabile, onnisciente, eterno, le per-
sone sembrano invece includere nei loro concetti intuitivi della divinità
delle caratteristiche antropomorfiche e naturalistiche. È possibile che gli
individui che esplicitamente abbracciano una descrizione teologica di Dio,
implicitamente nei loro pensieri quotidiani facciano ricorso a una versione
radicalmente differente?
Nella ricerca ai soggetti è stato prima chiesto di leggere delle brevi sto-
rie in cui Dio veniva presentato come una persona che agisce e, in un se-
condo momento, di ricordare se, nelle storie lette, vi fossero o meno dei
particolari tipi di informazione. Dai risultati è emerso che quando i sogget-
ti riflettevano sulle loro credenze teologiche relative a Dio producevano
descrizioni astratte della divinità: Dio non aveva proprietà fisiche o spaziali,
poteva sapere e occuparsi di tutto allo stesso tempo e per acquisire infor-
mazioni non aveva bisogno degli input sensoriali. I partecipanti fornivano
in questo caso una descrizione di Dio che Barrett e Keil hanno definito teo-
logicamente corretta. Quando invece era in gioco la comprensione delle
storie, i soggetti ricordavano in modo errato il Dio presentato nella nar-
razione: la divinità aveva ora una localizzazione spaziale, non era in grado
di occuparsi di più cose contemporaneamente ed era costretto a vedere e
sentire per acquisire conoscenza. In altre parole, mentre il Dio della rifles-
sione teologica conteneva molte violazioni delle assunzioni intuitive per
quanto riguarda gli agenti intenzionali, il concetto di Dio a cui i soggetti
ricorrevano nei compiti di comprensione sembrava invece molto più simile
agli agenti intenzionali ordinari – alle persone. Questo effetto, che Barrett
e Keil hanno definito «scorrettezza teologica», è stato replicato anche in
India44.

44 Cf. BARRETT, 1998. Secondo BARRETT (1999) è possibile ipotizzare per i concetti
Il caso della credenza religiosa 287

Boyer e Ramble (2001) hanno invece esaminato le modalità di ricordo


degli elementi controintuitivi nei concetti religiosi. I risultati ottenuti con-
fermano l’ipotesi secondo cui le violazioni, intese sia come infrazioni delle
aspettative intuitive, che come trasferimento da un dominio all’altro, pro-
ducono un “effetto distintivo” nel ricordo: le situazioni contenenti viola-
zioni delle aspettative, o il trasferimento delle aspettative tra domini, ven-
gono ricordate significativamente meglio rispetto a situazioni standard.
Una ulteriore conferma all’idea che i concetti controintuitivi godono di un
vantaggio nella trasmissione viene anche uno studio di Barrett e Nyhof
(2001) che mostra come questa caratteristica sia alla base della ricorrenza e
della facilità di comunicazione di molti concetti culturali non-naturali.

Conclusione

Tra i diversi elementi coinvolti nella formazione delle cultura – psi-


cologici ed ecologici – abbiamo analizzato il ruolo dei meccanismi cognitivi
specifici per dominio mostrando come questi siano dei fattori stabilizzanti
nella trasmissione delle catene culturali. Il rapporto tra cultura e cogni-
zione non è un rapporto unilaterale: non è solo la prima che influenza la
seconda, anche la cognizione ha degli effetti sulla cultura perché riveste un
ruolo importante nella formazione dei suoi contenuti. Lo studio delle on-
tologie religiose è a tale proposito emblematico perché mostra l’impor-
tanza che le strutture ontologiche intuitive hanno nel modellare e vincolare
la diffusione dei materiali culturali.
La considerazione di ordine più generale che un’attenta analisi di questi
studi permette di fare è la necessità di sviluppare una ricerca sui fonda-
menti biocognitivi dei fenomeni culturali perché questi non si collocano in
un universo differente e distaccato da quello della natura, ma sono essi
stessi fenomeni naturali e vanno indagati in quanto tali. Un approccio na-
turalistico alla cultura non solo è possibile, ma anche fortemente auspicabile.

religiosi un continuum di astrattezza o complessità cognitiva. Sull’estremo più astratto si


collocano i dogmi teologici ortodossi; sull’estremo opposto, più semplice e concreto, si
colloca invece la conoscenza intuitiva relativa alle entità del mondo e alle relazioni causali
che li governano. I concetti teologici sono quelli utilizzati quando c’è maggiore tempo a di-
sposizione per l’elaborazione cognitiva. I concetti basici invece sono quelli utilizzati per ri-
solvere i problemi velocemente e efficientemente.
288 Ines Adornetti

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GRAZIA BASILE
Dire le cose con ironia.
Nota a Le peripezie dell’ironia. Sull’arte del rovesciamento discorsivo
di Tommaso Russo Cardona.

... e poi l‟ironia che s‟insinua così facilmente nel-


le menti degli uomini, che significa cose diverse
da quanto esprimono le parole e che è così piace-
vole quando è trattata non in un discorso dal tono
serio, ma in un linguaggio familiare e privo di pre-
tese (QUINTILIANO, Inst. or., IX, 1, 29; ed. it.,
1983, p. 135).

Le parole di Quintiliano riportate in esergo ci forniscono una prima im-


magine del fenomeno dell‟ironia, termine derivato dal latino ironīa(m), a
sua volta derivato dal greco εἰρωνεία «dissimulazione», che si rifà a εἴρων,
ossia «colui che interroga (fingendo di non sapere)». La figura più emble-
matica a questo proposito è quella di Socrate, come ci racconta Cicerone
nel De oratore, II, 270: «Ma, come riferiscono quelli, che in questa materia
la sanno lunga, credo che fu Socrate ad eccellere in questa ironia [corsivo
nel testo] o dissimulazione, facendone un uso leggiadro e garbato. È un
modo di scherzare elegantissimo e pieno di spirito, non disgiunto da un to-
no solenne ed adatto sia al discorso oratorio sia alla conversazione arguta»
(trad. it., 1975, p. 207)1.
Sia nelle parole di Cicerone che in quelle di Quintiliano l‟ironia si ca-
ratterizza come un uso piacevole, leggiadro, accattivante della lingua, con
differenza che, mentre Quintiliano considera l‟ironia adatta per lo più alla
conversazione quotidiana, Cicerone non esita a riconoscere ad essa una fun-
zione anche all‟interno del più strutturato discorso oratorio.
Di solito noi facciamo ricorso all‟ironia quando vogliamo intendere
l‟opposto di ciò che certe strutture linguistiche „normalmente‟ significano
in una determinata comunità linguistica e in una determinata epoca, per lo
più quando diamo valore a ciò che invece si intende svalorizzare e non
nell‟opposto, ossia quando, per esempio, diciamo “Bella giornata!” quando

1 Originale latino: «sed uti ei ferunt qui melius haec norunt Socraten opinior in haec
εἰρωνεία dissimulantiaque longe lepore et humanitate omnibus praestitisse. Genus est pe-
relegans et cum gravitate salsum cumque oratoriis dictionibus tum urbanis sermonibus ac-
comodatum».

Bollettino Filosofico 25 (2009): 291-299 291


292 Grazia Basile

il tempo è tutt‟altro che bello (e in questo atto linguistico riconosciamo un


uso normale dell‟ironia), mentre il caso inverso, ad esempio quando di-
ciamo “Che tempaccio!” in una splendida giornata di sole, ci sembra sen-
z‟ombra di equivoco un‟«ironia sbagliata» (MIZZAU, 1984, p. 19).
Per riprendere le parole di Heinrich Lausberg, l‟ironia può essere con-
siderata da un punto di vista, per dir così, „etico‟ come un vitium contro la
veracità (LAUSBERG, 1960, p. 446) o, per esprimerci nei termini di Paul
Grice, come la violazione della massima della qualità, o veridicità («Non
dire ciò che ritieni falso», GRICE, 1967, trad. it., 1993, p. 61), in quanto
induce il destinatario del messaggio a cercare un significato opposto a quel-
lo dell‟enunciato letterale (cf. BASILE, 1996, p. 73).
Sul modo in cui tutto ciò si verifica Tommaso Russo Cardona (amico e
compagno di studi prematuramente scomparso il 13 settembre 2007) in Le
peripezie dell’ironia. Sull’arte del rovesciamento discorsivo (Meltemi, 2009) ci dà
un quadro esauriente e scientificamente originale da un punto di vista
filosofico, linguistico, antropologico non senza arguti spunti letterari che
contribuiscono a delineare la varietà e complessità degli elementi in gioco
nel fenomeno dell‟ironia.
Tommaso Russo Cardona ci ha lasciato quasi del tutto ultimata questa
monografia (che costituisce il suo ultimo lavoro scientifico), che è sì uno
studio sistematico dell‟ironia, ma è anche qualcosa di più, ossia uno sguardo
d‟insieme, lucido, ambizioso e teoricamente fecondo, sul funzionamento
della nostra facoltà di linguaggio e sulle nostre pratiche comunicative. È un
dono prezioso, da un punto di vista scientifico, quello che Tommaso Russo
Cardona ci ha lasciato, è un dono che ci fa capire, con rimpianto e con
dolore, quanti altri lavori importanti sarebbero potuti scaturire dalla sua
penna se le cose non fossero andate come invece, purtroppo, sono andate.
Il titolo che Tommaso Russo Cardona aveva scelto per questo libro era
L’ombra illuminata. Studio sul rovesciamento ironico, che poi – su proposta del-
l‟editore che suggeriva di mettere la parola „ironia‟ nel titolo – è diventato
Le peripezie dell’ironia. Sull’arte del rovesciamento discorsivo, per rendere ap-
punto l‟idea del trasformarsi di una situazione nel suo contrario, spesso in
maniera imprevista, proprio come ci ricorda Aristotele nella Poetica:

Il riconoscimento, come indica la parola stessa, è il passaggio […] dalla non co-
noscenza alla conoscenza, e quindi alla reciproca amicizia o inimicizia tra i perso-
naggi dell‟azione drammatica destinati alla buona o alla cattiva fortuna. La più
bella forma di riconoscimento si ha quando intervengono contemporaneamente
casi di peripezia, come nell‟esempio […] dell‟Edipo (ARIST., Poet., 1452a, 30-35).
Dire le cose con ironia 293

Tommaso Russo Cardona nell‟Introduzione parte dalla tragedia greca, per


l‟appunto dall‟Edipo re, e alla fine del quinto e ultimo capitolo torna di
nuovo al mito di Edipo. L‟Edipo re è un esempio paradigmatico in cui il ro-
vesciamento ironico si manifesta in tutta la sua radicalità, dove gli spet-
tatori della tragedia, guidati dalla conoscenza del mito e dai suggerimenti
del coro, sono in grado di leggere le azioni del protagonista in un modo a
lui opposto (ivi, p. 7).
Gli anni che Tommaso Russo Cardona ha dedicato allo studio dell‟iro-
nia – a partire, grosso modo, da un seminario dottorale su “Negazione e
ironia” tenuto nel maggio 2001 presso l‟Università della Calabria – sono
stati anni in cui egli, nonostante le difficoltà legate alle varie tappe della sua
malattia, si è molto impegnato a tessere dei fili di condivisione di pensieri e
di interessi scientifici con gli amici e i colleghi a lui più affini. Tante sono
state le occasioni in questo senso, ma sicuramente una tappa importante è
stata la pubblicazione, nel 2002, degli Ecrits de linguistique générale di Ferdi-
nand de Saussure (SAUSSURE, 2002; trad. it. 2005). Si tratta di scritti inedi-
ti di Saussure, scoperti dagli eredi nel 1996 durante i lavori di sgombero
dell‟antica casa della famiglia Saussure a Ginevra e poi pubblicati a cura di
Simon Bouquet e Rudolf Engler presso l‟editore francese Gallimard (il sag-
gio De l’essence double du langage è stato successivamente tradotto in italiano
e commentato da Tullio De Mauro presso l‟editore Laterza nel 2005).
Tommaso Russo Cardona aveva intuito subito la portata teorica di que-
sti scritti saussuriani2 e aveva proposto e organizzato dei pomeriggi a casa
sua dedicati alla lettura e al commento di tali scritti nell‟edizione francese,
prima che fosse disponibile la traduzione in italiano. C‟è uno stretto lega-
me, a mio parere, tra alcuni spunti presenti in questi scritti saussuriani che
da pochi anni hanno visto la luce e le riflessioni teoriche che fanno da sfon-
do a questo lavoro di Tommaso Russo Cardona sull‟ironia e, più in genera-
le, sul funzionamento del linguaggio.
La prima considerazione da fare riguarda la natura peculiare di codici se-

2 Prova ne è il denso saggio sulla formatività del segno linguistico (tradizionalmente intesa

come la proprietà dei segni linguistici di stabilire tra loro delle relazioni fondate sulla
oppositività tra elementi significanti e elementi significati) nello scritto di Saussure De l’es-
sence double du langage, in cui Tommaso Russo Cardona affronta tale tema, ravvisando nelle
pagine saussuriane un‟interpretazione di carattere innovativo. La formatività non sarebbe una
conseguenza della nozione di sistema di differenze, quanto piuttosto sarebbe la nozione di
sistema a costituire un correlato della formatività linguistica, recuperando così una con-
notazione dinamica (di vera e propria ἐνέργεια in senso humboldtiano) di questa nozione (cf.
RUSSO CARDONA, 2007: 179). Cf. pure il saggio sui quaternioni (RUSSO CARDONA, 2008).
294 Grazia Basile

miologici quali le lingue storico-naturali, in particolare il fatto che le lingue


sono fortemente contraddistinte dalla creatività, intesa come disponibilità
alla manipolazione, all‟innovazione di forme già codificate (cf. DE MAURO,
1982, p. 53). Posta questa dimensione della creatività, il significato dei se-
gni linguistici si configura come indeterminato (e perciò pluridetermina-
bile), nel senso che tale indeterminatezza del significato dei segni è la con-
dizione che consente agli utenti di una determinata lingua di estendere i li-
miti dei contenuti dicibili di una parola o di un segno linguistico fino a co-
gliere sensi nuovi e diversi rispetto a quelli già in uso. L‟illimitatezza del
piano del contenuto è una proprietà di carattere semantico che caratterizza
le lingue storico-naturali, e che fa sì che le accezioni di una stessa parola
possano divaricarsi in una pluralità di direzioni non decidibili a priori. In
particolare, grazie a tale proprietà, siamo in grado di esprimere linguistica-
mente, di rendere dicibile ogni possibile senso, ponendo dei limiti all‟in-
terno di quella che – volendo usare un termine hjelmsleviano – può essere
definita la sostanza del contenuto della lingua (HJELMSLEV, 1943, trad. it.,
1968, pp. 56 sgg.).
È proprio in virtù di tale dicibilità illimitata che è possibile, usando le
stesse identiche parole, attribuire, suggerire o evocare sensi diversi, così
come – per usare una metafora culinaria – cucinando diversamente il me-
desimo uovo si possono ottenere non solo numerose ricette dolci o salate,
ma anche deliziosi manicaretti oppure intrugli ripugnanti (cf. TESTA, 2004,
p. 22). In termini più tecnici possiamo dire che all‟interno del significato
lessicale di un segno linguistico si possono sviluppare accezioni che sono
avvertite non solo come diverse, ma anche come esprimenti un senso in
qualche modo contrastante, come accade nel caso dell‟ironia (ma anche
negli usi antifrastici ed enantiosemici – cf. BASILE, 1996).
Il volume di Tommaso Russo Cardona ha ben presente questo sfondo
teorico, al punto che la citazione posta in esergo al volume, tratta dal ro-
manzo di Sándor Márai L’isola, è: «Il senso delle parole non è solo quel che
significano in se stesse, bensì lo spazio sul quale gettano luce» (MÁRAI, 2007,
p. 191), a conferma del fatto che i singoli sensi, le singole significazioni di cui
ciascun vocabolo può farsi portatore in se stessi non significano nulla, ma
vanno messi in relazione con il loro spazio linguistico, con l‟orizzonte all‟in-
terno del quale si collocano i segni e gli enunciati che ciascun locutore pro-
duce o riceve, pena l‟incomprensibilità tra gli utenti di una lingua.
Come ci ha insegnato Saussure, «il valore di un qualunque termine è
determinato da ciò che lo circonda» (in francese «la valeur de n‟importe
Dire le cose con ironia 295

quel terme est déterminé par ce qui l‟entoure» – SAUSSURE, 1916; trad. it.,
1996, p. 141), non solo per quanto riguarda le relazioni che esso intrat-
tiene con gli altri elementi all‟interno di una lingua, ma anche in virtù delle
sue relazioni con i saperi, le esperienze, le pratiche di vita dei parlanti al-
l‟interno di una comunità. Le nostre parole, i nostri discorsi, i nostri pen-
sieri, emozioni, passioni ecc. non esistono – per riprendere le parole di
Saussure – «fuori della coscienza che noi ne abbiamo o che vogliamo pren-
derne a ogni momento. […] Una parola non esiste veramente, da qualun-
que punto di vista ci si collochi, che grazie alla sanzione che riceve di mo-
mento in momento da parte di quelli che la impiegano» (SAUSSURE, 2002,
trad. it., 2005, § 29b, p. 94).
Ciascun segno linguistico vive, insomma, all‟interno delle esperienze di
volta in volta diverse dei parlanti, delle diverse situazioni d‟uso, insomma dei
vari e variabili jeux de(s) signes (SAUSSURE, 2005, p. XXII). Sono parole che
richiamano la nozione wittgensteiniana di gioco linguistico, per cui, per
capire il significato di una qualsivoglia parola, è necessario far riferimento al
modo in cui tale parola è impiegata all‟interno dei diversi giochi linguistici
(WITTGENSTEIN, 1953, trad. it., 1974, § 43, p. 33), laddove «la parola “gioco
linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un lin-
guaggio fa parte di una attività o di una forma di vita» (ivi, § 23, p. 21).
Sullo sfondo dei jeux des signes (che poi sono anche e necessariamente
jeux de vie) si snodano i due principali fili conduttori di questo libro di
Tommaso Russo Cardona e l‟originalità della sua interpretazione: il primo
parte dalla riflessione filosofico-linguistica sull‟ironia come atto discorsivo
per approdare alle sue precondizioni nella dimensione ontogenetica e in
quelle forme di rituale studiate dagli antropologi che fanno emergere la
capacità degli esseri umani di rovesciare i punti di riferimento cognitivi e
affettivi abituali; il secondo riguarda la nozione di intenzionalità intesa co-
me prerequisito del discorso ironico, dell‟abitudine dei parlanti ad aspet-
tarsi che il nostro interlocutore intenda ciò che noi sottintendiamo.
Tommaso Russo Cardona va oltre la nozione classica di intenzionalità
quale viene proposta nella filosofia analitica (per esempio nella formula-
zione di Paul Grice – cf. GRICE, 1989, trad. it., 1993 – per cui non basta
che l‟ascoltatore comprenda qual è il desiderio del parlante a partire dalle
parole da questi proferite, ma anche che egli comprenda che il parlante sa
che lui riconosce questo suo desiderio) nel senso di un rimando a un con-
cetto psichico preesistente, intendendo l‟intenzionalità come «una nozione
ombrello, che include in sé il riferimento a quell‟insieme di segnali, lingui-
296 Grazia Basile

stici e non, che servono a determinare se il locutore aderisce o meno a una


serie di assunti; ciò molte volte avviene sulla base di una valutazione degli
indici contestuali» (RUSSO CARDONA, 2009, p. 71).
I due fili conduttori cui abbiamo accennato si snodano e si definiscono
sullo sfondo dei forti legami che l‟ironia intrattiene con alcune proprietà
centrali della facoltà di linguaggio, che quali a loro volta sono strettamente
connesse ad alcune caratteristiche intrinseche della natura umana, così che
la riflessione sull‟ironia giunge a configurarsi come una sorta di osserva-
torio privilegiato per discutere sulla natura del linguaggio e sulla natura
umana più in generale. In particolare, nei processi di produzione e com-
prensione del discorso ironico emerge la capacità degli esseri umani di agi-
re metalinguisticamente, nel senso di capacità «di rileggere il senso delle
proprie parole, di dar loro nuovi significati, di assumerle come citazioni da
rianalizzare» (RUSSO CARDONA, 2009, p. 13). Tale capacità si manifesta sin
dalla più tenera infanzia quando un bambino si interroga sul significato o la
forma delle parole della propria lingua (ad esempio quando chiede Cosa
significa ‘trafelato’? o ‘ammanettare’ si scrive con una o con due ‘t’?) e, in gene-
rale, in tutte le occasioni in cui „riflettiamo‟ sulla nostra lingua o su qualsia-
si altro tipo di codice; oltre a ciò, si tratta di una capacità che non si può
sviluppare se non in stretto congiungimento con un‟altra capacità tipica-
mente umana detta metapragmatica (SILVERSTEIN, 1985) che riguarda i mec-
canismi, i ruoli, e i contesti in cui i parlanti si muovono e che, già dalle
prime fasi di acquisizione della lingua materna, è alla base della categoriz-
zazione delle azioni umane.
L‟ironia intesa ora più compiutamente come «complessa abilità di ge-
stione e di coordinazione delle competenze linguistiche con altre compe-
tenze legate all‟interazione» (RUSSO CARDONA, 2009, p. 104) si sviluppa
piuttosto tardi nel processo di acquisizione del linguaggio (non prima dei 5
anni di età – cf., tra gli altri, WINNER, 1988 e DEMOREST et al., 1984), pro-
babilmente perché «per usarla e capirla è necessaria una comprensione del-
le potenzialità dello strumento linguistico nel creare e gestire sfondi per
l‟interazione, nell‟assegnare e ridefinire i ruoli per l‟azione» (RUSSO CAR-
DONA, 2009, p. 104).
Il discorso ironico si inserisce quindi con tutta la sua potenzialità nelle
attività o forme di vita degli esseri umani, così che il significato delle nostre
parole e dei nostri discorsi è collegato indissolubilmente al loro ruolo nel
tessuto di queste attività e non al loro riferirsi a immagini mentali o a valori
lessicali codificati in astratto nel sistema della langue.
Dire le cose con ironia 297

La competenza ironica, dunque, si configura come una sorta di grimaldello


teorico-esperienziale per penetrare nei meccanismi costitutivi del linguag-
gio umano e per farne emergere le sue potenzialità e specificità sullo sfon-
do di un‟euristica interazionale in cui le esperienze, conoscenze, pratiche,
saperi ecc. condivisi dai parlanti e codificati (in parte) nell‟uso di una lin-
gua storico-naturale giocano un ruolo di primaria importanza.
La competenza ironica procede, sempre e necessariamente, di pari pas-
so con una «competenza sulle norme dell‟interagire e sulla capacità di vol-
gere a proprio vantaggio lo sfondo comune (come conoscenze e come
norme di comportamento) dell‟interazione linguistica» (ivi, p. 103). L‟iro-
nia ha una funzione potenzialmente affiliativa che si esplica nella negozia-
zione sociale, nella condivisione varia e variata dello sfondo comune dei sa-
peri che caratterizzano una lingua e la comunità di parlanti che di tale lin-
gua si serve per comunicare. L‟ironia, insomma, ci dà la cifra della misura
«in cui la lingua potenzia e amplifica la facoltà inerente alla comunicazione uma-
na di rimandare a uno sfondo di accordo comune per orientarsi e per agire nel
mondo (corsivo mio)» (ibid.) e in quest‟ottica – sapientemente delineata dal-
l‟autore – la dimensione ironico-metalinguistica coevolve con un‟intelligen-
za di tipo interpersonale-sociale (cf. GARDNER, 1983, trad. it., p. 1987) e si
connette a un‟altra dimensione fondamentale per la vita e la sussistenza di
una comunità, ossia quella etico-politica, laddove la posta in gioco è una
nozione di comunità che sia coesa e unitaria e che manifesti a un tempo ca-
ratteristiche e obiettivi apparentemente contrari: unità e variazione, fiducia
e apertura, libertà e sicurezza (BASILE, CIMATTI, 2009, p. 179).
L‟ironia, in questo senso, è un potente trait d’union nel gioco continuo
che come esseri umani mettiamo costantemente in atto fra implicito ed espli-
cito, fra inconscio e conscio, fra detto e non detto, fra privato e pubblico
come una sorta di pendolo (è l‟immagine metaforica che usa l‟autore) «che
accede alla dimensione emotivamente sdoppiata, ambivalente e polifonica
del simbolo verbale per poi ritornare verso la dimensione della coscienza,
cercando di assumere grazie al suo percorso una nuova posizione di equi-
librio» (RUSSO CARDONA, 2009, p. 83).
La zona d‟ombra – per concludere – non è mai eliminata (per questo
motivo il titolo che Russo Cardona aveva pensato per questo libro era L’om-
bra illuminata), ma è sottesa alle nostre pratiche linguistico-comunicative e
caratterizza lo stesso funzionamento delle lingue storico-naturali al punto che

Se la lingua si irraggia su norme ed azioni, come una guida costante e invi-


sibile, come il faro del minatore che lo guida nel tunnel dell‟implicito, essa,
298 Grazia Basile

tuttavia, non elimina mai, ma anzi si sostanzia della zona d‟ombra del non det-
to, da cui trae alimento ogni forma di dialogo e di innovazione. La lingua si crea
il suo stesso antidoto e si nutre di silenzi e pause, di impliciti e di ineffabili che
a volte si ribellano e prendono la parola (ivi, p. 167).

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FABRIZIO BONACCI

Forma logica e contesto


nei modelli di trasmissione dell’informazione fra individui.
Processi di codifica/decodifica vs processi inferenziali

Introduzione

In questo articolo ci occuperemo del ruolo preciso che sembrerebbero ri-


coprire alcune nozioni centrali coinvolte nella teoria della trasmissione di
informazione fra sistemi cognitivi. Come caso specifico di trasmissione del-
l‟informazione fra sistemi cognitivi, prenderemo in considerazione l‟inte-
razione comunicativa spontanea fra individui. Nel delineare alcune delle di-
namiche che caratterizzano l‟interazione comunicativa, ci occuperemo in
particolare del ruolo della forma logica degli enunciati e del contesto per
mezzo (e all‟interno) del quale tali enunciati (si manifestano e) vengono
trattati dagli individui. In questo articolo, con i termini „forma logica‟ e
„contesto‟ degli enunciati intendiamo fare riferimento, rispettivamente, al-
la struttura logico/sintattica di un dato enunciato e all‟insieme di informa-
zioni che sono coinvolte nel trattamento (e nello stesso darsi) di un deter-
minato enunciato. Il dominio di tale insieme di informazioni consiste in
specifici e determinati sottoinsiemi delle credenze, ipotesi, ecc. di cui l‟in-
dividuo dispone. Infine, queste credenze, ipotesi, ecc. possono avere come
oggetto tanto particolari stati di cose quanto gli individui stessi.
Il problema di cui ci occupiamo in questo articolo è il seguente. Quale
ruolo giocano la forma logica ed il contesto all‟interno della trasmissione di
informazione fra individui? Attraverso l‟indagine su tale problematica, in-
tendiamo suggerire l‟analisi di un aspetto più specifico intorno a tale que-
stione, il cui nucleo teorico potrebbe essere sintetizzato nei termini se-
guenti. Se siamo disposti ad assumere che i sistemi cognitivi possono essere
teorizzati e modellizzati come dei dispositivi naturali che elaborano infor-
mazione, allora dovremmo anche essere nelle condizioni di poter fornire
una risposta a questa domanda: qual è il ruolo specifico che occupano i
processi di codifica/decodifica dell‟informazione rispetto ai processi infe-
renziali? In termini più generali, sarebbe plausibile immaginare un modello
comunicativo fondato sui processi di codifica e decodifica di informazioni,

Bollettino Filosofico 25 (2009): 300-321 300


Forma logica e contesto 301

che intenda integrare al suo interno i processi inferenziali tipici dell‟intera-


zione spontanea che caratterizza gli individui, in condizioni reali?
L‟obiettivo di questo scritto consiste nel suggerire alcune ragioni teori-
che ed empiriche secondo le quali una tale integrazione sembrerebbe esse-
re alquanto implausibile. In alternativa, tenteremo di mostrare che un mo-
dello di tipo strettamente inferenziale della comunicazione fra individui
sembrerebbe essere invece più plausibile, tanto sul piano teoretico quanto
su quello empirico. I vincoli su cui si baseranno le ragioni che addurremo
in merito, avranno come oggetto la plausibilità psicologica dei modelli che
analizzeremo. Nel suggerire la nostra alternativa, non si cercherà affatto di
affermare che i processi di codifica e decodifica dell‟informazione non rico-
prono alcun ruolo negli scambi comunicativi fra gli individui. Alla stessa
maniera, non si affermerà affatto che la forma logica debba necessari amen-
te giocare un ruolo subordinato o privilegiato all‟interno dei processi di
trasmissione e di comprensione delle informazioni. In questa direzione
suggeriremo piuttosto che, così come la forma logica di un dato enunciato
non esaurisce completamente il contenuto informativo dell‟enunciato stes-
so, allo stesso modo i processi cognitivi coinvolti nella trasmissione e com-
prensione di informazioni fra individui non sembrerebbero affatto esaurirsi
né nella mera codifica e decodifica di frammenti di un qualsiasi codice, e né
nella sola trasmissione e comprensione di una forma logica. Ma cerchiamo
ora di procedere con ordine.

1. Sintassi e forma logica vs pragmatica e contesto

L‟idea secondo cui sarebbe possibile il darsi di un livello esplicativo del-


la mente umana che si basa sulla nozione di elaborazione di informazioni, rap-
presenta il nucleo teorico fondamentale di tutta la psicologia cognitiva
(MARRAFFA, MEINI, 2005). Non a caso, all‟interno della scienza cognitiva,
si danno infatti varie strategie di ricerca sulla mente/cervello umana che
rendono possibile un‟integrazione alquanto efficace fra il modello compu-
tazionale/rappresentazionale della mente ed il cosiddetto Modello del Codice
della comunicazione (d‟ora in poi, per brevità, “MC”). Tale modello gode
però di un pregio e di un difetto capitali. Da un lato, esso rappresenta uno
degli argomenti alla base dell‟ipotesi per cui il pensiero avrebbe il primato
logico–cronologico sul linguaggio (cf. FERRETTI, 2005). E questo, di conse-
guenza, ci metterebbe nelle condizioni di poter elaborare una buona teoria
302 Fabrizio Bonacci

dell‟apprendimento del linguaggio. Come infatti argomenta Fodor1 in vari


lavori (cf. in particolare FODOR, 1975, 1987). D‟altra parte però, secondo
tale modello, il contenuto informativo sarebbe interamente codificato nel-
l‟enunciato stesso. In altri termini, il significato di un enunciato sarebbe u-
nivocamente determinato dai significati delle parole che lo compongono e
dalle regole sintattico–combinatorie che le mettono in relazione. Dunque,
nessun riferimento teorico o esplicativo viene fatto nei confronti di quelli
che, molto in generale, possono essere definiti nei termini dei „fattori
pragmatici‟. Tali fattori comprendono, ad esempio, le intenzioni comuni-
cative del parlante, il contesto in cui e per mezzo del quale gli stessi enun-
ciati si danno e vengono elaborati. Secondo un approccio teorico di questo
tipo, che tende a privilegiare i fattori sintattico–formali, a discapito di
quelli pragmatici, il processo di comprensione degli enunciati del linguag-
gio naturale consisterebbe fondamentalmente nell‟elaborazione della loro
specifica forma logica. Tale tipo di elaborazione sembrerebbe cioè essere
necessaria e sufficiente alla comprensione di un qualsiasi enunciato (ben
formato) di una qualsiasi lingua. Queste tesi costituiscono poi anche lo
sfondo teorico dei Natural Language Processing (NLP) elaborati dai modelli
informatici dell‟intelligenza artificiale classica (IA). Tuttavia, queste ipotesi
trovano la loro origine già nei primi anni sessanta del secolo scorso. Esse, è
bene precisarlo, nascono e affondano le proprie radici nelle ricerche di
Noam Chomsky sulla struttura del linguaggio. Successivamente, nel corso
degli anni settanta, tali ipotesi verranno integrate da Jerry Fodor nell‟am-
bito delle sue ricerche sulla struttura e sui processi fondamentali del pen-

1 Secondo Fodor, l‟apprendimento di un linguaggio consiste essenzialmente nell‟appren-


dimento di una procedura generale in grado di «determinare il significato di una frase da una
specificazione della sua struttura sintattica, assieme al significato dei suoi elementi lessicali»
(FODOR, 1987, trad. it. p. 228). La competenza linguistica, secondo il modello fodoriano, sa-
rebbe dunque non solo guidata ma resa possibile da processi di acquisizione: senza una tale
competenza non sarebbe affatto possibile né acquisire e né comprendere espressioni linguisti-
che. Più in dettaglio, per FODOR (1975, 1987) il pensiero consiste in rappresentazioni for-
malmente strutturate, dotate di proprietà combinatorie che sono isomorfe alla struttura del
linguaggio: linguaggio e pensiero possiedono caratteristiche comuni perché condividono la
medesima semantica combinatoria e la medesima struttura in costituenti. Sarebbe dunque il
linguaggio a rispecchiare la forma del pensiero e non viceversa. Il linguaggio possiede la strut-
tura combinatoria che ha, che gli garantisce produttività e sistematicità, proprio perché esso
ha la funzione specifica di esprimere pensieri (FODOR, 1987). Senza una teoria del pensiero
non sarebbe quindi possibile avere una teoria dei processi di apprendimento del linguaggio, e
senza una teoria dei processi di apprendimento non sarebbe spiegabile come gli umani siano
in grado di acquisire e sviluppare un linguaggio. Dunque, in conclusione, all‟interno di tale
linea teorica si sostiene che senza pensiero non si darebbe alcun linguaggio (FODOR, 1975,
1987; JACKENDOFF 1993; PINKER, 1994 e FERRETTI, 2005).
Forma logica e contesto 303

siero umano. Secondo tali ambiti di ricerca, dagli studi sulla struttura del
linguaggio umano ai modelli artificiali dell‟IA, fino all‟indagine sulla costi-
tuzione del pensiero umano, i processi di comprensione e di interpreta-
zione degli enunciati, anche all‟interno degli scambi comunicativi, sareb-
bero sostanzialmente riducibili in vari modi a questioni di natura principal-
mente sintattica. Tutte le proprietà fondamentali del linguaggio, in parti-
colare le caratteristiche salienti legate ai suoi processi, vengono cioè mo-
dellizzate e descritte sulla sola base della loro struttura sintattica, formale e
combinatoria. In virtù di questa impostazione dunque, all‟interno di tale
programma di ricerca, gli aspetti ed i processi legati alla pragmatica del lin-
guaggio (in particolare quelli relativi al contesto degli enunciati) verreb-
bero di conseguenza sistematicamente tenuti in secondo piano. Oppure, in
certi casi, essi sembrerebbero addirittura essere considerati del tutto irrile-
vanti in relazione alla facoltà di linguaggio. E questo perché tali aspetti ven-
gono spesso legati più che altro alla conoscenza (o non-conoscenza) di spe-
cifici stati di cose del mondo, o al possesso (o meno) di certe informazioni,
e non tanto a questioni e dinamiche che sono strettamente legate al lin-
guaggio stesso.
Senza conoscere nulla sulla situazione, io so che se si persuade Gianni ad anda-
re a scuola, allora lui ad un certo punto avrà l‟intenzione o deciderà di andare
a scuola; se non lo farà, allora non lo si sarà persuaso. L‟affermazione che per-
suadere Gianni a fare qualcosa significhi causare il fatto che lui abbia l‟inten-
zione o decida di fare quel qualcosa, è necessariamente vera. È vero in virtù del
significato dei termini, indipendentemente da qualsiasi fatto: è una verità analiti-
ca, per usare il gergo tecnico. D‟altra parte, per sapere se l‟affermazione che
Gianni è andato a scuola è vera, bisogna conoscere certi fatti del mondo reale2.

Secondo tale linea teorica dunque, si darebbero degli aspetti legati alla
struttura degli enunciati, la loro forma logica, che risulterebbero essere in-
trinsecamente indipendenti dal loro contesto d‟uso e, in generale, dalla
pragmatica. Ora, seguendo questo ragionamento, visto che tali elementi
strutturali sono direttamente implicati all‟interno dei processi di elabora-
zione e comprensione degli enunciati del linguaggio, diventa allora pos-
sibile argomentare in favore dell‟autonomia della forma logica dal contesto
e, più in generale, a favore dell‟indipendenza della natura e struttura del
linguaggio dai suoi contesti d‟uso.
In contrasto con quest‟ultimo aspetto della questione, numerose ricer-

2 CHOMSKY, 1988, trad. it. p. 30, corsivo nostro.


304 Fabrizio Bonacci

che che si collocano a metà strada fra la filosofia e la pragmatica del lin-
guaggio in senso stretto, e la scienza cognitiva (cf. GRICE, 1975, ma so-
prattutto SPERBER, WILSON 1986 e WILSON, SPERBER, 2004), sembrereb-
bero mettere sempre più in evidenza il ruolo determinante che giocano le
intenzioni e i processi inferenziali all‟interno dei contesti comunicativi. D‟al-
tra parte però, l‟MC, così come era stato concepito nella seconda metà de-
gli anni quaranta, all‟interno delle ricerche di Shannon e Weaver sulla teo-
ria matematica dell‟informazione, è un modello teorico che pare essere
davvero capace di catturare tutti gli aspetti strutturalmente salienti in gra-
do di descrivere il passaggio d‟informazione da una certa sorgente/emit-
tente ad un certo destinatario/ricevente. Secondo tale modello infatti, l‟in-
formazione prodotta dalla sorgente/emittente viene codificata in un segnale,
il quale viene poi trasmesso per mezzo di un canale, fino a raggiungere il de-
stinatario/ricevente che è in grado di decodificarlo e, dunque, di riceverlo. In
linea di principio, dato questo apparato teorico generale, qualsiasi scambio
d‟informazione o qualsiasi processo comunicativo potrebbe essere astrat-
tamente modellizzato in questi termini. Difatti, questo modello rappresenta
la base teorica fondamentale di qualsiasi sistema tecnologico di comunica-
zione: dal fax, alla telefonia mobile, a quella via cavo fino al world wide web di
internet. Ma il punto che ci interessa analizzare qui è un altro.
E cioè, come si mettono le cose quando ad una sorgente/emittente e ad
un destinatario/ricevente sostituiamo due individui reali in carne e ossa?
Lo stesso buon senso ci mostra che, almeno in parte, avviene esattamente
ciò che descrive il MC, come in effetti sostiene Fodor3: un parlante codifica
una certa porzione di informazione (un pensiero) in un linguaggio (delle
parole), la trasmette attraverso un qualsiasi mezzo (aria, rete elettrica o
telefonica, ecc.) e la indirizza verso un altro soggetto, il quale la decodifica,
ricevendone così un esatto duplicato. Quindi, in generale, segue proprio
da tale modello l‟idea secondo cui «nella comunicazione il messaggio viene
replicato passando da una mente all‟altra» (MARRAFFA, MEINI, 2005, p.
144). Come si può evincere da queste ultime considerazioni, MC definisce
e descrive la comunicazione umana appunto come una sorta di duplicazione
di pensieri, o di rappresentazioni, da parte di un certo parlante P ad un
certo destinatario D (da ora in poi, rispettivamente, “P” e “D”). In partico-
lare, questa tesi implicherebbe l‟idea secondo cui, nei contesti di interazio-

3 In linea generale, secondo FODOR (1975) la comunicazione consisterebbe fondamen-

talmente nella produzione–trasmissione di ciò che un individuo „ha in mente‟ e nella sua ri-
cezione–comprensione da parte della mente di un altro individuo.
Forma logica e contesto 305

ne comunicativa, sia possibile il darsi di una certa simmetria fra il contenu-


to del messaggio prodotto da P ed il contenuto ricevuto da D. Ora, que-
st‟ultima questione dipenderebbe però strettamente da una serie di condi-
zioni specifiche relative alla plausibilità del modello all‟interno dei contesti
comunicativi umani reali. In particolare, per
rendere plausibile il modello del codice, bisognerebbe mostrare che si possono
trattare tutti i casi di indeterminazione del riferimento per mezzo di regole
che combinano automaticamente proprietà del contesto e proprietà semanti-
che dell‟enunciato. Si dovrebbe inoltre mostrare che si può trattare nello stes-
so modo la disambiguazione e l‟identificazione degli atteggiamenti proposizio-
nali, delle interpretazioni figurate e della portata implicita degli enunciati. Ma
non è mai stato proposto qualcosa che somigli ad una tale dimostrazione. […]
Per difendere il modello del codice bisognerebbe dunque mostrare che gli in-
terlocutori arrivano ad avere non solo una lingua comune, ma anche insiemi di
premesse comuni, ai quali essi applicano in modo analogo regole di inferenza
analoghe4.

Come considerare dunque la comunicazione umana in contesti reali? In


particolare, come dar conto della trasmissione di informazioni, come ad e-
sempio di credenze, ipotesi, ecc. da un soggetto (parlante) ad un altro (de-
stinatario)? E come dar conto poi dell‟effetto cognitivo che tali informa-
zioni suscitano sul soggetto (destinatario) che le riceve?

2. Processi di codifica/decodifica vs processi inferenziali

Seguendo l‟approccio della pragmatica cognitiva, come spesso viene de-


finita la disciplina che si occupa di tali problematiche sotto il profilo stret-
tamente cognitivo, sembrerebbe possibile definire un‟interessante alterna-
tiva teorica all‟MC. Innanzi tutto è possibile descrivere la comprensione,
all‟interno dei contesti comunicativi, come un vero e proprio processo in-
ferenziale. In secondo luogo, è possibile rendere esplicita e piuttosto rigoro-
sa una distinzione fondamentale fra due tipologie di processi determinanti
per i contesti comunicativi. Stiamo parlando dei processi inferenziali e dei
processi di decodifica. Un processo inferenziale può essere descritto come
una procedura che assume come punto di partenza un determinato insieme
di informazioni in input (delle premesse) e ha come punto di arresto l‟indi-
viduazione di una specifica informazione in output (una conclusione), la

4
SPERBER, WILSON, 1986, trad. it. pp. 27, 30.
306 Fabrizio Bonacci

quale può essere logicamente (formalmente) dipendente o, nel caso di pro-


cessi non dimostrativi, comunque giustificata in vari modi dalle informa-
zioni in input. Una procedura inferenziale presuppone dunque che si dia
una qualche forma di legame o di rapporto, a seconda dei casi più o meno
formale, fra l‟informazione in entrata (che attiva il processo) e quella in u-
scita (che invece lo arresta). Una procedura di codifica/decodifica invece,
assume come input un determinato segnale, codificato e prodotto da una
certa sorgente, e come punto di arresto la decodifica o la ricostruzione del
messaggio associato al segnale stesso, il quale si presuppone che debba affe-
rire ad un determinato codice soggiacente (SPERBER, WILSON, 1986, trad.
it. p. 27).
Una conseguenza generale e immediata di questa distinzione è il fatto
che, da un lato, «le conclusioni di un‟inferenza non sono associate alle pre-
messe attraverso un codice» e, dall‟altro, «i segnali non hanno per conclu-
sione logica i messaggi che veicolano» (ibid.). Per chiarire questo punto,
consideriamo il seguente esempio di una normale situazione conversazio-
nale fra due individui (parzialmente ripreso da ivi, pp. 27-28):
(a) O Maria è in anticipo, oppure Paolo è come al solito in ritardo.
(b) Ho incontrato Paolo questa mattina, adesso lavora proprio qui dietro
l‟angolo. Credo proprio che, a partire da oggi, egli non farà più ritardo.
(c) [mariaε*inan‟tit∫ipo]
(ci) Maria è in anticipo.

Secondo Sperber e Wilson ci sono due modi per derivare la (ci): per in-
ferenza, e cioè a partire dalle premesse (a) e (b), oppure decodificando il
segnale fonetico riportato in (c). La questione importante consiste nel fatto
che non è possibile però decodificare (ci) da (a) e (b), e questo perché «non
esiste alcun codice che definisca [(ci)] come il messaggio associato al segna-
le [(a)+(b)]». Reciprocamente, «non si può inferire [(ci)] da [(c)] perché un
segnale non implica il messaggio che veicola» (ibid.).
Seguendo tale prospettiva, possiamo dunque giungere ad una conclusio-
ne molto interessante. Infatti, se è vero che una lingua è, fra le altre cose,
«un codice che associa rappresentazioni fonetiche a rappresentazioni se-
mantiche», è però altrettanto vero anche il fatto che «la rappresentazione
semantica di una frase non coincide con i pensieri che possono essere co-
municati pronunciando quella frase» (ivi, p. 21). Ora, un dispositivo che
elabora informazioni seguendo le procedure che descrive l‟MC, per defini-
zione, dovrebbe operare esclusivamente mediante processi di codifica/de-
Forma logica e contesto 307

codifica di frammenti di informazione di un certo codice. Mentre, quanto-


meno nei casi del tipo che abbiamo considerato, sembrerebbero essere al-
l‟opera dei processi strettamente inferenziale. In conclusione infatti, il pas-
saggio dalla rappresentazione semantica al pensiero comunicato avverrebbe
non per mezzo di una aggiunta di codice (o di codifica), ma mediante delle
inferenze. Questa potrebbe dunque rappresentare una delle ragioni teori-
che fondamentali per cui l‟MC non sembra essere sufficientemente adegua-
to a rendere conto della comunicazione umana, all‟interno dei contesti
reali ordinari.

3. Il modello comunicativo di tipo inferenziale suggerito da Grice

Chiarita la distinzione fra processi di decodifica e processi inferenziali, è


ora giunto il momento di occuparci più nello specifico del ruolo dell‟infe-
renza all‟interno dei contesti comunicativi e, a tale proposito, del modello
elaborato da Paul Grice (1975). È bene precisare subito che questo model-
lo viene concepito fin dalle origini, a partire dalla seconda metà degli anni
cinquanta, come un‟alternativa plausibile all‟MC. Esso infatti, in contrap-
posizione al modello codifica/decodifica dell‟informazione, si presenta co-
me un modello inferenziale. Un modello si dice inferenziale quando consente
di derivare (o di giungere a) delle conclusioni a partire da certe premesse.
Se è dunque chiara la distinzione che abbiamo riportato sopra fra processi
di decodifica e processi inferenziali, diventa intuitivo comprendere cosa di-
stingue l‟MC dal modello inferenziale della comunicazione. L‟oggetto delle
inferenze di un tale modello sono le stesse intenzioni dei soggetti coinvolti
nell‟interazione comunicativa. In generale, il tipo di inferenze a cui fa rife-
rimento questo modello non è quello logico–deduttivo (infatti, nella mag-
gior parte dei casi non si tratta affatto di schemi di inferenza in cui, ad e-
sempio, la verità della conclusione segue formalmente dalle premesse). Il
tipo specifico di inferenze che Grice ha in mente quando elabora il suo mo-
dello sono le cosiddette “implicature”. Quest‟ultime, come mostreremo
più dettagliatamente poco più avanti, non sono altro che una sorta di mec-
canismo di formazione e conferma di ipotesi.
A differenza dell‟MC, la premessa teorica fondamentale di tale modello
della comunicazione non consiste nel mostrare che un parlante ed un desti-
natario, per poter comunicare, devono necessariamente condividere un
certo codice. Le premesse di base, nel caso di un modello inferenziale co-
me quello griceano, sono invece le seguenti:
308 Fabrizio Bonacci

1. una delle caratteristiche fondamentali della comunicazione umana


consiste nel riconoscimento e nell‟espressione di intenzioni;
2. nell‟inferire il significato dell‟enunciato proferito da un certo parlan-
te, il destinatario è guidato dal riconoscimento dell‟intenzione comunica-
tiva del parlante. Reciprocamente, quest‟ultimo nel proferire l‟enunciato
stesso è mosso dall‟aspettativa che il destinatario riconosca la sua intenzio-
ne comunicativa.
Al di là di questi aspetti cruciali del modello, probabilmente la caratte-
ristica più innovativa del lavoro di Grice, rispetto all‟MC, consisterebbe
non tanto nella constatazione che il riconoscimento delle intenzioni hanno
un ruolo nella comunicazione, questo infatti sembrerebbe un fatto del tut-
to scontato, se non addirittura banale. Il tratto per noi più rilevante del
modello di Grice consisterebbe invece nell‟aver mostrato in che senso spe-
cifico il solo riconoscimento delle intenzioni sarebbe sufficiente a rendere
possibile la comunicazione «anche in assenza di un codice» (SPERBER, WIL-
SON, 1986, trad. it. p. 45). Ad esempio, consideriamo la seguente intera-
zione comunicativa:
Piero chiede a Maria: Come ti senti? Come risposta, Maria estrae un flacone di
aspirina dalla borsa. Il suo comportamento non è codificato: non esistono re-
gole o convenzioni in virtù delle quali il fatto di mostrare un tubo di aspirina
voglia dire che non ci si sente bene. Allo stesso modo, il comportamento di
Maria non fornisce un indice diretto convincente del suo stato di salute; dopo
tutto potrebbe darsi che Maria abbia sempre un flacone di aspirina in borsa. In
compenso, il comportamento di Maria costituisce un indizio diretto convin-
cente della sua intenzione di far sapere a Pietro di non sentirsi bene. Dato che
il suo comportamento permette a Pietro di riconoscere la sua intenzione, Ma-
ria riesce a comunicare con lui, e questo senza l’aiuto di un codice5.

Secondo il modello inferenziale elaborato da Grice, la comunicazione viene


inoltre delineata come una procedura razionale e, soprattutto, cooperativa.
Infatti, secondo Grice gli scambi comunicativi sarebbero dominati da un
principio generale di cooperazione (d‟ora in avanti, “PC”), secondo il quale:
(PC) il nostro contributo alla conversazione dovrebbe essere tale da rispettare,
nella giusta misura, lo scopo o la direzione comune dell‟interazione comuni-
cativa in cui siamo coinvolti (GRICE, 1975, p. 000).

Tale principio si sviluppa poi in nove massime, suddivise in quattro cate-


gorie fondamentali (cf. GRICE, 1975 e SPERBER, WILSON, 1986):

5 Ibid., corsivo mio.


Forma logica e contesto 309

Massime di quantità Massime di qualità Massima di relazione Massime di modalità

1. Che il tuo 3. Non dire ciò che 5. Sii pertinente. 6. Evita di


contributo sia credi falso. esprimerti in modo
informativo quanto 4. Non dire ciò per oscuro.
è necessario. cui no hai ragioni 7. Evita
2. Che il tuo sufficienti per l‟ambiguità.
contributo non sia credere che sia 8. Sii breve.
informativo più del vero. 9. Sii ordinato.
necessario.

Nel caso della comunicazione verbale, secondo il modello che stiamo con-
siderando: D, a partire da un dato proferimento, poniamo da parte di P,
mediante implicature (avanzando cioè ipotesi e formulando inferenze) sa-
rebbe in grado di „derivare‟ o, meglio, di giungere a ciò che P ha l‟inten-
zione di comunicare (a partire ovviamente da ciò che P ha detto). In tal ca-
so dunque, per poter „derivare‟ tale „conclusione‟, D deve essere in grado
di elaborare: (i) l‟enunciato stesso (e cioè, la forma logica ed il suo conte-
nuto esplicito o convenzionale); (ii) il contesto enunciativo (le informa zio-
ni derivanti dal contesto); (iii) l‟ipotesi secondo cui P ha rispettato il PC e,
di conseguenza, le massime. Dunque, a partire da tali informazioni di base,
un‟implicatura griceana ha la seguente forma (lo schema è ripreso da BIAN-
CHI, 2003, p. 102):

I) P ha detto p
II) Il contesto contiene le seguenti informazioni…
III) P rispetta le massime
IV) Se I) P ha detto p, II) il contesto contiene le informazioni citate, e III) P
rispetta le massime – P deve voler dire q - P vuole dire q

Nel delineare tale modello comunicativo, è però necessario esplicitare il


ruolo specifico di un altro elemento fondamentale che entra in gioco nei
contesti comunicativi effettivi. Tale elemento è costituito dal contesto al-
l‟interno del quale un certo enunciato viene impiegato, ovvero, il contesto
enunciativo. Questo non è altro che l‟insieme di informazioni o, più precisa-
mente, l‟insieme di premesse che, all‟interno di una determinata intera-
zione comunicativa fra un certo P e il relativo D, individua il dominio delle
inferenze stesse di D (oltre che al dominio delle inferenze dello stesso P).
Le intenzioni di P rappresentano per D delle informazioni, degli indizi in-
torno a ciò che P intende significare (e, nella fattispecie, comunicare).
Quindi, le intenzioni di P contribuirebbero in questo modo a fornire a D il
310 Fabrizio Bonacci

dominio di informazioni precise all‟interno del quale svolgerà le proprie


inferenze. Secondo questa tesi dunque, il contesto dell‟enunciato (insieme
alla forma logica mediante cui l‟enunciato viene dato) costituisce in genera-
le uno degli elementi fondamentali che sembrerebbero entrare in gioco nei
processi inferenziali che veicolano l‟interpretazione stessa degli enunciati6.

3.1. Significato dell’espressione e significato del parlante

Emerge dunque con chiarezza in quale senso specifico uno dei meriti
probabilmente più rilevanti del lavoro di Grice consisterebbe nell‟aver sot-
tolineato con forza il ruolo delle intenzioni del parlante all‟interno degli
scambi comunicativi. Come abbiamo suggerito sopra infatti, secondo Grice
il successo di un certo atto comunicativo dipende non solo (e, in svariati
casi, non tanto) dalla rilevazione della forma logica o dal riconoscimento
del significato convenzionale delle espressioni (o dalla loro „decodifica‟),
ma anche (e, in certi casi, soprattutto) dall‟identificazione delle intenzioni
comunicative del parlante. Laddove, è bene chiarirlo esplicitamente, le in-
tenzioni comunicative del parlante non sono altro che, come abbiamo sug-
gerito sopra, ulteriori indizi o informazioni di cui D tiene conto nello svol-
gere le proprie inferenze. Da parte loro, tali inferenze avrebbero lo scopo
specifico di determinare il significato dell‟enunciato proferito da P. Pro-
prio a tale proposito, il modello comunicativo proposto da Grice pone una
distinzione alquanto interessante. Stiamo pensando infatti alla fondamen-
tale differenza fra il significato dell’espressione (ciò che un‟espressione signi-
fica letteralmente o convenzionalmente) e il significato del parlante (il signi-
ficato che il parlante intende suggerire mediante un certo uso di una data
espressione). Il significato del parlante corrisponderebbe esattamente a ciò
che lo stesso parlante vuole o intende comunicare al proprio interlocutore.
In generale, secondo il modello griceano, ogni qualvolta un individuo
manifesta pubblicamente un‟intenzione egli non fa altro che compiere un
atto comunicativo. Di conseguenza, un parlante, nel compiere un atto lin-
guistico, non fa altro che manifestare una certa intenzione. Tale atto avrà
successo ogniqualvolta l‟intenzione comunicativa del parlante verrà ricono-
sciuta dal suo interlocutore (RÉCANATI, 1981). Segue dunque da queste te-

6 Secondo un‟ipotesi più generale infatti, «[l]‟insieme delle premesse utilizzate per
l‟interpretazione di un enunciato (eccetto la premessa base secondo la quale l‟enunciato in
questione è stato prodotto) costituisce ciò che viene chiamato contesto» (SPERBER, WILSON,
1986, trad. it. p. 31).
Forma logica e contesto 311

si l‟idea per cui la sola forma (interrogativa, imperativa, ecc.) di un enun-


ciato non è sufficiente a determinare, ad esempio, la sua forza illocutoria.
Ovviamente, anche la forma dell‟enunciato gioca un ruolo centrale7 ma il
punto è che, preso in sé per sé, facendo cioè astrazione dalle intenzioni del
parlante e dal contesto in cui l‟enunciato viene impiegato, essa non è suffi-
ciente a rendere conto del successo o dell‟insuccesso delle interazioni co-
municative.
Ecco un esempio a riguardo. Se, in risposta alla frase interrogativa „A-
vresti dell‟acqua?‟ qualcuno si limitasse al solo atto di proferire „Si‟, consi-
derando quindi unicamente il significato letterale della domanda (senza
magari fare seguito all‟atto effettivo di offrire un po‟ d‟acqua), allora una
risposta del genere sarebbe generalmente considerata scortese, non perti-
nente o comunque non appropriata. Una spiegazione possibile di questo fe-
nomeno risiede nel fatto che, all‟interno di contesti appropriati (al termine
di un‟intensa attività sportiva, in una afosa serata d‟estate, ecc.) tale do-
manda equivale (almeno nelle intenzioni del parlante) non ad una richiesta di
informazioni (per cui, la mera risposta „Si‟, da parte del destinatario sarebbe
pertinente) ma, piuttosto, essa corrisponderebbe ad una richiesta di un po’
d’acqua. Proprio in questo senso non basta, ad esempio, la forma inter-
rogativa a fare di un certo enunciato una domanda oppure una richiesta di
informazioni. In questo modo sarebbe dunque anche possibile chiarire al-
cune delle motivazioni specifiche per cui, in genere, ad una medesima
struttura grammaticale potrebbero di fatto corrispondere differenti atti il-
locutori e, reciprocamente, uno stesso atto illocutorio potrebbe realizzarsi
mediante varie strutture grammaticali8.
Una conseguenza generale delle tesi di Grice consiste nel fatto che la
nozione di significato viene ricondotta e, secondo alcune interpretazioni
teoriche „ridotta‟, alla nozione di intenzione. Per certi versi saremmo in-
fatti di fronte ad una «riduzione della semantica alla psicologia» (BIANCHI,
2003, p. 69). Infatti, secondo tale linea teorica, il significato del parlante

7 Infatti, si potrebbe ad esempio sostenere (come farebbe probabilmente un fodoriano)


che la forma grammaticale dell‟enunciato proferito dal parlante sarebbe il corrispettivo
verbale che rispecchia la forma delle rappresentazioni. Essa dunque è una componente
strutturale fondamentale. Tuttavia, noi vorremmo mostrare che tale componente è neces-
saria ma non sufficiente alla descrizione dei processi comunicativi del linguaggio.
8 Ad esempio, si può comunicare mediante varie costruzioni grammaticali il fatto che
sicuramente andremo al compleanno del nostro migliore amico: „Ti prometto che sarò
presente alla tua cena‟ (forma performativa), „Allora, sentiamo un po‟, chi è che cucina?‟,
„Quindi, siamo tutti a cena da te venerdì?‟ (forma interrogativa), „A venerdì!‟, „Cucino io
però!‟ (forme imperative).
312 Fabrizio Bonacci

corrisponderebbe proprio a ciò che il parlante intende o vuole comunicare al


proprio interlocutore. Più in generale, all‟interno di un qualsiasi atto co-
municativo verbale intenzionale, il parlante P tenderebbe produrre nel de-
stinatario D una certa credenza, mediante due elementi fondamentali: (i)
l‟utilizzo di una certa espressione linguistica, (ii) l‟esplicitazione o il rico-
noscimento delle sue stesse intenzioni comunicative. Il fatto che D ricono-
sca l‟intenzione comunicativa di P sarebbe cioè parte integrante dello stes-
so atto comunicativo (ivi, p. 70). Dunque, secondo questo modello, nel
caso della comunicazione verbale, oltre ovviamente all‟utilizzo di una certa
forma grammaticale, ciò che conta in maniera essenziale affinché la comu-
nicazione abbia successo, è il fatto che D comprenda o riconosca l‟inten-
zione comunicativa di P. In questo senso preciso per Grice la comunica-
zione consisterebbe fondamentalmente nel riconoscimento di intenzioni.
All‟interno di tale prospettiva, ogniqualvolta si dà un mezzo che rende
possibile il riconoscimento o la rilevazione delle intenzioni comunicative
dell‟interlocutore, diviene allora plausibile una interazione comunicativa
potenzialmente efficace. Ed è proprio in questo senso che sarebbe da inten-
dersi la „riduzione‟ della semantica alla psicologia. Secondo Grice infatti,
ciò che P intende dire o vuole significare mediante l‟uso di un certo enun-
ciato, coincide esattamente con l‟effetto (di tipo cognitivo) che P intende
produrre in D. Tale effetto sarà efficace nella misura in cui consentirà al
destinatario (D) di riconoscere questa stessa intenzione di P. Di conse-
guenza, la comprensione da parte di D di quanto P intende significare, pas-
serebbe anche dal riconoscimento delle stesse intenzioni comunicative di P.
A questo proposito, sembrerebbe infatti possibile il darsi di due classi
distinte di intenzioni, in relazione a P: (i) l‟intenzione di produrre in D la
credenza p, usando un determinato enunciato; (ii) l‟intenzione che D
riconosca che l‟enunciato è stato prodotto con l‟intenzione precedente.
Proprio in questo senso dunque, secondo tale modello comunicativo, il
significato del parlante avrebbe un ruolo ancora più decisivo rispetto signi-
ficato dell‟espressione in sé per sé. Di conseguenza, questa è un‟altra delle
ragioni prioritarie per cui, all‟interno del modello di Grice, la psicologia
gioca un ruolo privilegiato rispetto alla semantica.

4. Un modello inferenziale in senso stretto

Fin qui, ciò è quanto sostiene il modello di Grice. Tuttavia, dal canto
nostro, vorremmo invece suggerire un‟ipotesi un po‟ più cauta a riguardo.
Forma logica e contesto 313

E cioè, in contrasto con le linee teoriche descritte dall‟MC e, in particolare,


con alcune delle conseguenze che ne derivano, vorremmo sostenere che la
forma logica non esaurisce il contenuto informativo di un enunciato o di un
atto comunicativo spontaneo. In altri termini sosteniamo che, all‟interno
dei contesti comunicativi reali, un atto comunicativo e, in particolare, un
enunciato possiedono un contenuto informativo che eccede la forma logica.
Ciò sembrerebbe essere plausibile proprio perché è un fatto del tutto em-
pirico che i processi cognitivi coinvolti nella trasmissione, comprensione o
fissazione del contenuto di un certo enunciato sono più complessi di quelli
che sarebbero coinvolti nella sola trasmissione o comprensione di una data
forma logica. Infatti, non sosteniamo affatto che i processi di codifica e di
decodifica, di costruzione e riconoscimento della forma logica non siano
implicati all‟interno di tali compiti cognitivi. Vorremmo semplicemente
suggerire che essi costituiscono, almeno in una larga classe di casi, una con-
dizione necessaria ma non di per sé sufficiente a rendere conto di un feno-
meno complesso come la trasmissione di informazioni fra individui, in con-
dizioni reali.
Come mostrano infatti a tale proposito numerosi esperimenti di prag-
matica cognitiva e di psicologia cognitiva (SPERBER, CARA e GIROTTO, 1995;
SPERBER, VAN DER HENST, 2004), i processi cognitivi coinvolti nella tras-
missione e comprensione di informazioni fra umani, all‟interno di contesti
spontanei, non sembrerebbero esaurirsi affatto né nella mera codifica e de-
codifica di frammenti di un qualsiasi codice, e né nella sola trasmissione e
comprensione di una forma logica. Queste ultime competenze specifiche
potrebbero al massimo essere concepite come relative a dei casi limite. In
generale, esse rappresenterebbero soltanto alcuni degli elementi che costi-
tuiscono un modello molto più ampio e complesso dei processi di trasmis-
sione e comprensione di informazioni fra umani. Un modello di tipo stret-
tamente inferenziale potrebbe quindi fornirci una alternativa teorica inte-
ressante a riguardo. Cerchiamo adesso di esplicitare meglio in quale senso
specifico.
Come abbiamo suggerito più sopra, la „codifica‟ di una frase «spesso
non coincide affatto con i pensieri che possono essere espressi proferendo
quella frase: il significato convenzionale delle frasi utilizzate da P determina
in modo solo incompleto ciò che P vuole dire» (BIANCHI, 2003, p. 100).
Da ciò segue un altro aspetto fondamentale del modello di Grice: spesso
gli enunciati che noi umani utilizziamo all‟interno delle nostre interazioni
comunicative comunicano molto più di quanto non dicano (ibid.; cf. SPERBER,
314 Fabrizio Bonacci

WILSON, 1986). Il significato del parlante giocherebbe dunque un ruolo (al


minimo) tanto centrale quanto il significato convenzionale; se non addirit-
tura, secondo alcune interpretazioni più forti della teoria, del tutto domi-
nante rispetto al significato convenzionale9.
Per esemplificare questo punto, consideriamo il caso seguente.
Alla domanda di Paolo „Ti va di giocare a scacchi nel pomeriggio?‟, Davide
risponde „Oggi è venerdì!‟. Dal un punto di vista del significato conven-
zionale (o della forma logica) delle espressioni citate sopra, la risposta di
Davide alla domanda di Paolo è del tutto non pertinente. Ovvero, il solo ri-
ferimento al significato convenzionale (oppure alla forma logica o gram-
maticale) dell‟enunciato „Oggi è venerdì!‟ non consentirebbe affatto a Pao-
lo di recepire il messaggio di Davide come una risposta pertinente alla sua
domanda. Eppure, situazioni come quelle citate sopra sono estremamente
frequenti nelle interazioni comunicative spontanee del linguaggio ordinario.
E, cosa ancora più interessante, nella maggior parte dei casi tali interazioni
comunicative hanno successo. (Ne sono un esempio i seguenti casi: P: „Do-
ve andiamo di bello stasera?‟, D: „…oggi ho avuto una giornataccia!‟; P:
„Facciamo un salto al circolo dopo cena?‟, D: „Domani mattina alle 5:00 ho
l‟aereo per Honolulu!‟; P: „Ti va una fetta di crostata della nonna?‟, D: „Ho
un terribile mal di denti‟).
Ora, se il MC non può per definizione rendere conto di situazioni ordi-
narie come quelle appena considerate, verrebbe allora da chiedersi che co-
sa potrebbe verificarsi nelle menti di P e D mentre comunicano, e cioè
mentre scambiano reciprocamente informazioni con tendenziale successo.
Ovvero, cosa consente loro di comprendersi a vicenda? Cosa manca fonda-
mentalmente all‟MC per poter considerare situazioni comunicative ordina-
rie come quelle esemplificate sopra? Ciò che manca a tale modello comuni-
cativo è, ancora una volta, una teoria che tenga conto dei processi inferenziali
che consentono a P e D di comprendere o di riconoscere le loro reciproche
intenzioni comunicative e, dunque, di determinare un contesto adeguato al

9 Secondo questa prospettiva, il significato del parlante sarebbe a fondamento del signi-
ficato convenzionale. Una certa espressione E ha un certo significato S per una comunità di
parlanti laddove si dà una regolarità di comportamento secondo cui, ogniqualvolta qual-
cuno utilizza E, egli intende S. Tale regolarità deve poi essere garantita dal fatto che P sa
che D sa che P sa che nella comunità vige una determinata convenzione (cf. BIANCHI, 2003).
Questo è uno degli aspetti più delicati e controversi di molti modelli comunicativi ela-
borati dai pragmatici del linguaggio in generale. Soprattutto perché sembrerebbe mettere
in gioco la nozione di «mutuo sapere» o «conoscenza mutua», su cui cf. LEWIS (1969), una
fra le nozioni più aspramente criticate (e con delle ottime ragioni, come vedremo) dal mo-
dello di Sperber e Wilson (cf. SPERBER, WILSON, 1986).
Forma logica e contesto 315

trattamento delle informazioni coinvolte nel processo comunicativo. Ri-


prendendo l‟esempio formulato sopra, una risposta possibile alle domande
che ci siamo posti potrebbe consistere nel suggerire che Paolo deve neces-
sariamente fare appello alle proprie conoscenze sul contesto enunciativo
per interpretare come pertinente la risposta di Davide. Quest‟ultimo, a sua
volta, nel proferire risposta, si potrebbe sostenere (ad esempio) che fa affi-
damento sulla „conoscenza enciclopedica‟ che suppone Pietro possieda. La
conoscenza enciclopedica non è altro che l‟insieme di informazioni allocate
nella memoria degli individui. Tale base di dati viene poi appunto utilizzata
nella costruzione delle premesse all‟interno dei processi inferenziali.

5. MC e modelli inferenziali ad hoc. Un’integrazione possibile ma poco plausibile

Vorremmo ora mostrare quantomeno in modo sintetico che, quand‟an-


che fossimo nelle condizioni di integrare l‟MC con un modello inferenziale
ad hoc (come appunto pensarono di fare a vario titolo molti pragmatici, fra
cui Shiffer, Lewis e lo stesso Grice), potremmo comunque non essere in
grado di avere per le mani una buona teoria della comunicazione. Dove
con „buona‟ intendiamo dire „empiricamente o psicologicamente plausibi-
le‟. Se ciò che abbiamo in mente, quando tentiamo di costruire un modello
della trasmissione di informazione fra sistemi cognitivi, è l‟interazione
spontanea fra individui reali, allora uno dei problemi fondamentali a cui
sembrerebbe imprescindibile quantomeno tentare di dare una risposta è il
seguente. Su quale nozione precisa dovrebbe fondarsi il modello che inten-
diamo costruire, al fine di possedere una buona plausibilità psicologica?
Descrivere la comunicazione nei termini di elaborazione e trasmissione
di informazioni tramite (i) un codice (o addirittura l‟assenza di un vero e
proprio codice), (ii) dei processi inferenziali sensibili (iii) alla forma logica
ed al contenuto, (iv) al contesto e (v) alle intenzioni dei soggetti interagen-
ti, sembrerebbe un approccio alquanto plausibile da un punto di vista psi-
cologico. Sembra infatti alquanto plausibile l‟idea secondo cui i meccanismi
comunicativi farebbero leva sulla nostra capacità di attribuire credenze, in-
tenzioni, volontà, desideri a noi stessi e ai nostri interlocutori. Tuttavia,
anche un modello strutturato in questo modo, è destinato ad andare incon-
tro ad alcuni particolari problemi che non gli consentono di godere di una
buona plausibilità psicologica. Consideriamone alcuni.
Abbiamo suggerito in vari modi che l‟MC definisce la comunicazione
come una sorta di „replicazione‟ di pensieri dal parlante P al destinatario D,
316 Fabrizio Bonacci

mediante dei processi di codifica (emissione) e di decodifica (ricezione)


dell‟informazione. Subito dopo abbiamo però evidenziato che un modello
del genere, privo di qualsiasi riferimento ai processi inferenziali implicati
nei contesti comunicativi reali, è fortemente carente sul piano descrittivo,
anche se lo è un po‟ meno su quello esplicativo10. Successivamente abbia-
mo dunque cercato di mettere in risalto la necessità di dover rendere conto
in maniera adeguata dei processi inferenziali coinvolti nelle interazioni co-
municative. A questo proposito abbiamo infatti esposto alcuni aspetti cen-
trali del modello della comunicazione di Grice. Ora, a parte Grice ed ai
pragmatici che si ispirarono e che continuano ad ispirarsi al suo modello,
tuttavia, la maggior parte degli studiosi e dei ricercatori che si occupano
del rapporto fra linguaggio e processi comunicativi hanno assunto un atteg-
giamento teorico per certi versi molto ambiguo in relazione all‟MC. E que-
sto emerge abbastanza chiaramente se teniamo conto delle analisi fatte fi-
n‟ora. Infatti, come sostengono alcuni esponenti della pragmatica cognitiva,
[p]ur mantenendo il modello del codice come quadro appropriato di una teo-
ria generale della comunicazione, e quindi di una teoria generale della comu-
nicazione verbale, la maggior parte dei pragmatici ha descritto la compren-
sione come un processo inferenziale11.

5.1. La questione del mutuo sapere

Come abbiamo appunto mostrato nelle pagine precedenti, i processi in-


ferenziali sembrerebbero possedere delle caratteristiche ed una natura al-
quanto diverse dai processi di decodifica (ibid.). Ad ogni modo è comun-
que possibile che, almeno in linea di principio, un certo processo inferen-
ziale possa essere utilizzato all‟interno di un processo di decodifica (ivi, p.
29). Tuttavia, ed è questo il nodo problematico che ci interessa esplicitare,
per poter attuare un processo inferenziale all‟interno di un processo di de-
codifica è fondamentale che si diano alcune condizioni, tanto specifiche
quanto imprescindibili. E cioè, il parlante ed il ricevente devono essere
nelle condizioni di condividere:

10 Come osservano molto lucidamente Sperber e Wilson «il modello del codice ha il

merito di spiegare com‟è possibile la comunicazione in linea di principio. La sua inadegua-


tezza non sorge dal lato esplicativo del modello, ma da quello descrittivo: gli esseri umani
non comunicano codificando e decodificando pensieri (SPERBER, WILSON, 1986, trad. it.
pp. 55-56, corsivo mio).
11
SPERBER, WILSON, 1986, trad. it p. 27.
Forma logica e contesto 317

1. ogni premessa implicita relativa a quel dato processo;


2. ogni regola d‟inferenza implicata in quel dato processo;
3. l‟esclusione di qualsiasi altra regola d‟inferenza o premessa implicita non im-
plicate in quel dato processo.

Se e soltanto se tutte queste condizioni vengono soddisfatte, allora si può


dare il caso che un processo inferenziale possa funzionare simultaneamente
come un processo di decodifica (ivi, pp. 29-30), come vorrebbero appunto
alcuni pragmatici. In altri termini, il problema fondamentale per un mo-
dello del genere sarebbe il fatto di dover riuscire a mostrare sia che: (i) nel
corso della comunicazione verbale, gli individui facciano un uso sistematico
di un tale doppio processo (inferenza/decodifica), e (ii) che si dia una certa
classe di premesse che siano comuni ad entrambi. Ovvero, una qualche
forma di mutuo sapere. Ora, in relazione a tali questioni problematiche, la
domanda che dunque noi ci poniamo a questo punto è: qual è la plausibilità
psicologica di cui gode un modello del genere?
Dovrebbe ormai essere chiaro che un modello inferenziale che volesse
avere come quadro di riferimento teorico per la comunicazione l‟MC, do-
vrebbe inevitabilmente accettare questo preciso fattore problematico. E
cioè, laddove è indispensabile un processo inferenziale12 affinché la comu-
nicazione sia efficace, sarà altresì necessario che P e D condividano tutte le
premesse dell‟inferenza. In ultima analisi, all‟interno di un tale modello,
tutte le volte che un processo comunicativo sembrerebbe implicare o coin-
volgere una qualsiasi forma di inferenza, bisognerà assumere altresì che P e
D ne condividano (quantomeno) le premesse. Ciò equivale a sostenere l‟i-
potesi secondo cui, ciò che garantirebbe un‟interazione comunicativa di
successo (o efficace) fra due individui (P e D), sarebbe il darsi di un mutuo
sapere che, per definizione e per ogni inferenza, dovrebbe essere a loro re-
ciprocamente e simultaneamente comune. Questa sembrerebbe essere una
delle conseguenze paradossali che chiunque intenda difendere una qualsiasi
variante dell‟MC è costretto ad accettare.
In generale, l‟integrazione teorica fra l‟MC e la nozione di mutuo sapere,
appunto necessaria ad assicurare la simmetria delle inferenze di P e D, «deri-
va dal desiderio di mostrare come si può assicurare il successo della comu-
nicazione, e qual è l‟algoritmo che permette all‟ascoltatore di ricostruire con

12 Come abbiamo del resto già sottolineato sopra, i contesti comunicativi della vita
quotidiana sono colmi di situazioni di questo tipo. Ad esempio, P: „Usciamo stasera?‟, D:
„Oggi ho avuto una giornataccia…‟, oppure, D: „Domani mattina ho l‟esame di Logica!‟; P:
„Facciamo un salto in piscina più tardi?‟. D: “Credo di avere qualche linea di febbre”.
318 Fabrizio Bonacci

sicurezza l‟esatto voler dire del locutore» (SPERBER, WILSON, 1986, trad. it.
p. 73). A quanto pare, l‟MC trascurerebbe dunque un aspetto molto impor-
tante della comunicazione umana, e cioè il fatto che P e D sono raramente
nelle condizioni di condividere un medesimo contesto. Ovvero, P e D solo in
condizioni eccezionali condividono la gran parte delle loro informazioni (cre-
denza, ipotesi, ecc.) sull‟ambiente fisico, le loro credenze, aspettative e buo-
na parte delle conoscenze allocate in memoria. Detto in altri termini, anche
se i membri di una medesima comunità con-dividono la maggior parte delle
capacità linguistiche e inferenziali, la stessa omogeneità non è però general-
mente riscontrabile nei confronti delle loro „ipotesi sul mondo‟:
Certo, nell‟elaborazione delle loro rappresentazioni sul mondo, gli esseri umani
sono limitati dalle capacità cognitive proprie alla specie. Inoltre, tutti i membri
di un gruppo culturale condividono un certo numero di esperienze, di insegna-
menti e di atteggiamenti. Ma al di là di questo quadro comune, ogni individuo
tende a sviluppare un sapere che gli è proprio. Esperienze di vita diverse pro-
ducono necessariamente saperi diversi. […] Mentre le grammatiche neutraliz-
zano le differenze fra esperienze dissimili, la cognizione e la memoria aggiun-
gono differenze a esperienze identiche (SPERBER, WILSON, 1986, trad. it. pp. 31-32).

Ecco dunque rilevata un‟asimmetria fondamentale: la grammatica e i pro-


cessi inferenziali, dopo un certo intervallo di tempo necessario all‟appren-
dimento, tendono a stabilizzarsi. Il contesto, al contrario, tenderebbe ad
espandersi in funzione all‟incremento di nuove esperienze. Ad ogni modo,
poniamo per ipotesi che, dato un certo gruppo di individui, si dia un pre-
ciso contesto condiviso. Tale contesto rappresenterebbe dunque la garanzia
fondamentale in base alla quale, data l‟interazione comunicativa, l‟insieme
delle credenze dell‟ascoltatore sarebbe costantemente isomorfo a quello
del locutore. Tale contesto costituirebbe cioè il nucleo delle ipotesi comu-
ni che garantirebbe la condivisione delle medesime premesse. A loro volta,
la condivisione delle premesse assicurerebbe loro la convergenza delle con-
clusioni delle loro inferenze. Tutto ciò seguirebbe dalla seguente ipotesi:
se l‟ascoltatore vuole essere certo di trovare la buona interpretazione, quella
che il locutore ha in testa, ogni informazione contestuale utilizzata per inter-
pretare l‟enunciato deve non soltanto fare parte del sapere del locutore e di
quello dell‟ascoltatore, ma anche del loro mutuo sapere. (SPERBER, WILSON,
1996, trad. it pp. 34-35).

Ora, anche in questo caso, l‟idea secondo cui P e D condividano perfetta-


mente o anche solo una porzione considerevole del contesto, genera co-
Forma logica e contesto 319

munque almeno due problemi fondamentali all‟MC. Il primo empirico, il


secondo di natura strettamente teorica:
1. come è possibile determinare empiricamente che, dati due qualsiasi P e D, per
ogni interazione comunicativa I1, …, In, essi condividono il contesto? (Dove
ovviamente P e D sono due soggetti umani). Come sarebbe cioè possibile per il
modello determinare che P e D, ad ogni istante t1, …tn, possiedono le medesi-
me credenze, aspettative e informazioni? (Infatti, non dimentichiamo che, vi-
sto che il contesto ha un ruolo specifico nel determinare le premesse allora, in
linea di principio, persino una sua lieve variazione potrebbe avere effetti del
tutto differenti per soggetti diversi, e ciò li condurrebbe evidentemente ad
una divergenza nelle conclusioni).
2. secondo quale criterio teorico preciso sarebbe possibile determinare la no-
zione stessa di “contesto condiviso”?

Come argomentano appunto SPERBER e WILSON (1986, pp. 31-38), sono


stati impiegati innumerevoli sforzi per cercare di sviluppare un modello
empiricamente plausibile della nozione di mutuo sapere. Tuttavia, nessuno
di questi tentativi è mai riuscito a dar prova della sua infallibilità. Infatti,
anche nel caso in cui i soggetti coinvolti nell‟interazione risultano essere
membri della medesima comunità, con le medesime informazioni su di un
certo fatto, si riscontrano comunque delle significative divergenze fra loro:
nessuno è mai al riparo da malintesi – e non solo verbali, ma anche visivi.
Ci troviamo in effetti di fronte ad un duplice paradosso. Da un lato, se la
tesi del mutuo sapere risulta essere tendenzialmente errata, allora essa
«non procura realmente le garanzie che sono la sua stessa ragion d‟essere»
(ivi, p. 36). D‟altra parte poi, seguirebbe direttamente dalla definizione di
mutuo sapere il fatto di sapere di condividere un mutuo sapere. Se non
siamo dunque in grado di saperlo, allora non lo possediamo: «perché esso
esista, bisogna che sia certo che ci sia, e, visto che non è mai possibile es-
sere sicuri che ci sia, questo significa che il mutuo sapere non esiste dav-
vero» (ivi, pp. 37-37).
Risulta sufficientemente chiaro che l‟ipotesi del mutuo sapere non sem-
bra essere affatto compatibile con il vincolo principale che, all‟inizio dei
questo articolo, abbiamo indicato essere alla base delle nostre analisi in me-
rito. Ci stiamo cioè riferendo al vincolo di plausibilità psicologica dei due
modelli che abbiamo qui considerato.
Più analiticamente, l‟ipotesi che assume che il successo della comunica-
zione si fondi sulla nozione di mutuo sapere, sembrerebbe suggerirci (al-
meno implicitamente) che gli individui, nel loro tentativo di trasmettersi
320 Fabrizio Bonacci

informazioni (sotto forma ad esempio di credenze e ipotesi), sarebbero in


ogni caso costretti ad effettuare un enorme e dispendioso numero di veri-
fiche (preliminari) per determinare (ad esempio) ciò che è sapere condiviso
da ciò che non lo è affatto. Questo aspetto del problema, sarebbe infatti
del tutto incompatibile con i tempi effettivi di comprensione o di produ-
zione degli enunciati del linguaggio verbale da parte degli individui, in con-
dizioni normali o ordinarie.
Ma c‟è un altro aspetto cruciale legato alla tesi del sapere condiviso (o
del mutuo sapere) che è necessario mettere in chiaro. Visto che, nelle si-
tuazioni d‟interazione reali, un contesto viene comunque scelto, in base a
quale vincolo o a quale procedura avviene questo? Inoltre, qual è il suo
ruolo preciso ai fini della comprensione di un enunciato?
Uno dei problemi fondamentali, di tutti i modelli pragmatici che si fon-
dano sulla nozione di mutuo sapere (SHIFFER, 1972; BACH, HARNISH, 1979;
CLARK, MARSHALL, 1981), consiste nel fatto di non essere in grado di spie-
gare come, nell‟interazione comunicativa, alcune „credenze reciproche‟ ven-
gono attivate oppure selezionate come pertinenti e, di conseguenza, altre
invece no (BACH, HARNISH, 1979). L‟individuazione di tutta questa serie di
problemi ci porta dunque a concludere che la tesi del sapere condiviso non
è sufficientemente chiara da un punto di vista teorico e non gode di una
adeguata plausibilità empirica. Ma se la tesi del sapere condiviso non viene
giustificata, allora l‟MC non può essere adottato come modello di riferi-
mento di un‟indagine empiricamente plausibile sui processi di trasmissione
dell‟informazione fra individui, in situazioni reali o ordinarie. In assenza di
una nozione plausibile di mutuo sapere, il modello del codice non può
dunque reggere alla prova dei fatti.
Non a caso, gli studiosi di pragmatica del linguaggio che continuano a
difendere questa nozione, sembrano farlo innanzitutto per difendere l‟MC.
Tale modello è stato infatti considerato per lungo tempo, almeno nell‟am-
bito degli studi di pragmatica, l‟unico modello esplicativo possibile della
comunicazione. Ma rimane comunque fuori discussione il fatto che, qualo-
ra non fosse possibile assumere plausibilmente un sapere condiviso, l‟MC
sarebbe in grado di dire davvero molto poco sulla comunicazione umana.

6. Conclusione
In conclusione, se ciò che abbiamo in mente, quando si tratta di spie-
gare la comunicazione umana, è l‟MC allora siamo costretti ad accettare
l‟idea secondo cui deve essere possibile il darsi di un sapere comune e mas-
Forma logica e contesto 321

simamente condiviso. Ora, considerando il fatto che l‟ipotesi del sapere


comune (e mutuamente condiviso) appare davvero poco plausibile da un
punto di vista empirico e in particolare psicologico, l‟alternativa che ci ri-
mane è quella che ci suggerisce di abbandonare l‟MC, in favore dell‟ipotesi
di un modello inferenziale della trasmissione di informazione fra individui
che sia in grado di svilupparsi lungo le linee teoriche ed i vincoli generali
che abbiamo qui sinteticamente cercato di abbozzare.

Riferimenti bibliografici

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(eds.), The Handbook of Pragmatics, Oxford, Blackwell, pp. 607-632.
ARMANDO CANZONIERI

Neurofenomenologia.
La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente

Il testo Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza co-


sciente (Milano, Bruno Mondadori, 2006) è il primo volume di una nuova
collana di ricerche filosofiche della casa editrice Mondadori e diretta da
Roberta de Monticelli. Esso è una raccolta di saggi che presentano i risul-
tati empirici e le trasformazioni teoriche di una disciplina ipotizzata e solo
tratteggiata da Francisco J. Valera nell‟articolo del 1996 Neurophenomenolo-
gy: A Methodological Remedy to the Hard Problem1. Tale disciplina avrebbe po-
tuto, secondo l‟autore, affrontare quello che sembrava allora, e tuttora è il
„problema difficile‟ della futura ricerca filosofica e scientifica: lo studio del-
la coscienza e della relazione tra esperienza cosciente e struttura biologica
degli esseri viventi. Per introdurre i contributi dei diversi autori è utile,
quindi, prendere le mosse dalle indicazioni teoriche fornite da Varela. Del
resto, lo stesso volume si apre con la versione integrale dell‟articolo del
1996.
Negli anni ‟90 Francisco Varela cerca di portare alle estreme conse-
guenze l‟insieme di presupposti metodologici e di risultati teorici e speri-
mentali ai quali era giunto in quella particolare e personale ricerca che ave-
va tenuto insieme la biologia e l‟epistemologia (nel tentativo di fornire una
descrizione appropriata dei sistemi viventi e di individuare i fondamenti
biologici della conoscenza), l‟epistemologia e la tradizione filosofica oc-
cidentale (nel tentativo di rileggere la relazione classica tra il soggetto co-
noscente e l‟oggetto conosciuto alla luce dei concetti di autopoiesi e di ac-
coppiamento strutturale elaborati insieme a Humberto Maturana) e, infine,
questa stessa tradizione e l‟insieme delle conoscenze buddhiste intorno alla
struttura della vita, della conoscenza e della esperienza cosciente2.

1 Articolo contenuto nel volume 3/1996 del Journal of Consciousness Studies, pp. 330-

350. Laddove verranno inserite delle citazioni, la pagina indicata farà riferimento alla ver-
sione contenuta nel testo Neurofenomenologia.
2 L‟articolazione sistematica di questo insieme di idee viene per la prima volta presentata nel

volume scritto con E. THOMPSON e E. ROSCH, The Embodied Mind, Boston, The MIT Press, 1991,
trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Milano, Fel-

Bollettino Filosofico 25 (2009): 322-331 322


Neurofenomenologia 323

Nelle pagine iniziali l‟autore traccia in negativo il centro intorno al qua-


le la nascente fenomenologia neuro-psico-evolutiva o neurofenomenologia deve
ruotare: non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il
cognitivo al di fuori dell‟esperienza che ne abbiamo (p. 67). Tale constata-
zione impone alla ricerca una prima virata, dalla scienza alla filosofia.
Non è possibile studiare i correlati neurali e biologici delle attività co-
gnitive se prima non si è giunti ad una rigorosa descrizione della struttura
di queste attività, ma tale descrizione deve chiarire prima di tutto che cosa
accade all‟esperienza di un singolo individuo quando queste attività sono
operative. Il primo passo per studiare la coscienza è, quindi, quello di ri-
spondere esplicitamente ad interrogativi del tipo: quali sono le caratteri-
stiche dell‟esperienza del ricordare, dell‟immaginare, del pensare e del ve-
dere? Trovare una risposta sensata a queste domande significa fornire il
materiale semantico ed empirico alla ricerca scientifica. Varela, quindi, con-
tinua a chiedere all‟avanguardia scientifica e filosofica: com‟è possibile esplo-
rare i meccanismi neurali rilevanti per la coscienza senza che queste con-
troparti esperienziale possano essere sufficientemente discriminate, ricono-
sciute ed esercitate? (p. 81).
All‟interno della storia della filosofia c‟è una disciplina che ha preso le
mosse dalla natura irriducibile dell‟esperienza cosciente e che ha cercato di
elaborare un metodo rigoroso per portare in superficie la struttura dell‟espe-
rienza e rispondere agli interrogativi intorno alle attività coscienti: la feno-
menologia di Edmund Husserl. Da essa, secondo il biologo cileno, bisogna
ripartire.
La scoperta fondamentale dell‟analisi fenomenologica risiederebbe nel-
l‟aver compreso che l‟esperienza, pur essendo un evento personale, non è
un evento privato e soggettivo e quindi mutevole e inafferrabile, incono-
scibile e incomunicabile, come mostra una attenta analisi delle forme inva-
rianti che ne delimitano di volta in volta i bordi e le condizioni di possibi-
lità. Proprio a partire dalla descrizione di questi bordi, una ripresa e una
verifica su basi biologiche e scientifiche dei dati fenomenologici può diven-
tare fruttuosa. Se prendiamo ad esempio uno dei tratti caratteristici del-
l‟esperienza cosciente come l‟attenzione, e accostiamo la descrizione eide-
tica che di essa ne fa Husserl alle recenti ricerche sulla struttura dell‟atten-
zione da parte della neuro-anatomia, ci troviamo dinanzi ad un fenomeno

trinelli, 1992. In lingua inglese è possibile approfondire questa stessa tematica consultando il te-
sto di N. DEPRAZ, F. VARELA e P. VERMERSCH, On Becoming Aware. A Pragmatics of experiencing,
Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 2002.
324 Armando Canzonieri

tripartito che chiama in causa il presente e gli orizzonti protensionali e ri-


tensionali che accompagnano la percezione e a dei risultati di ricerche elet-
troencefalografiche che individuano tre reti attenzionali attive durante
l‟esperienza cosciente: l‟orientamento verso la stimolazione sensoriale, l‟at-
tivazione di schemi tratti dalla memoria e il mantenimento dello stato di
allerta (p. 81).
Studiare l‟esperienza cosciente, diventa quindi possibile se la fenome-
nologia e la neurologia lavorano di pari passo secondo uno schema di vin-
colo reciproco. Da un lato, attraverso il metodo fenomenologico dell‟epo-
ché e della variazione eidetica il singolo individuo riesce a fornire descri-
zioni chiarificanti dell‟esperienza cosciente, dall‟altro tanto più saranno so-
fisticati i metodi di visualizzazione celebrale, tanto più si avrà bisogno di
una consolidata esperienza nell‟esecuzione di discriminazioni e descrizioni
fenomenologiche (pp. 76 e 81)3.
Il progetto di ricerca abbozzato da Varela, consegna una sfida teorica ed
empirica alla futura ricerca scientifica e filosofica intorno alla coscienza: la
sfida riguarda l‟elaborazione di un campo di ricerca e quindi di un linguag-
gio e di un metodo comune alla pratica fenomenologica e neurologica;
campo in cui le analisi in prima persona possono fornire del materiale per
nuove ricerche scientifiche e a loro volta i dati empirici ottenuti dalla ri-
cerca in terza persona possono essere riverificati e correlati ad aspetti del-
l‟esperienza vissuta.
In un certo senso i diversi saggi hanno come obiettivo quello di presen-
tare in Italia i primi risultati avuti da quei filosofi e scienziati che hanno
accettato questa sfida e ne hanno verificato la potenza esplicativa. Credia-

3 Un ulteriore chiarimento di questa ipotesi di lavoro ci viene fornita da SHAUN GAL-


LAGER e DAN ZAHAVI, autori del testo The Phenomenological Mind. An Introduction to philoso-
phy of mind and cognitive science, New York, Routledge, 2008, p. 10: «Confrontiamo queste
due situazioni. Nella prima, noi siamo degli scienziati che hanno intenzione di spiegare il
fenomeno della percezione, ma non abbiamo a nostra disposizione una descrizione feno-
menologica dell‟esperienza percettiva. Come faremo noi a sviluppare la nostra spiegazione?
Dobbiamo partire da qualche punto. Probabilmente partiremo da una idea prestabilita del-
la percezione, e cominceremo a fare degli esperimenti per testare le diverse predizioni che
questa teoria permette di fare. […] Possiamo chiederci da dove questa teoria viene e tro-
vare che essa ha origine in una serie e di osservazioni e di assunzioni sulla percezione. […]
Nella seconda situazione, noi abbiamo a nostra disposizione una descrizione fenomenolo-
gica articolata dell‟esperienza percettiva come intenzionale, spaziale, temporale e fenomenica.
Noi crediamo che a partire da questa descrizione, abbiamo già anche una buona idea di che
cosa deve essere spiegato […] e possiamo anche avere una buona indicazione sul modo in
cui debbano essere elaborati gli esperimenti per verificare le caratteristiche della percezio-
ne» (tr. dello scrivente).
Neurofenomenologia 325

mo che questo sia il primo punto di forza dell‟intero testo. Esso fornisce al
lettore italiano non solo la possibilità di leggere, a volte per la prima volta
in italiano, dei saggi di J.L. Petit, allievo e collaboratore di Paul Ricoeur,
insegnante e ricercatore presso il Laboratorio di Fisologia della Percezione
e dell‟Azione di Parigi e da anni interessato allo studio fenomenologico e
neurologico del corpo proprio in movimento (pp. 163-194), di Natalie De-
praz, curatrice dei volumi XIII e XIV della Husserliana dedicati al problema
dell‟intersoggettività (pp. 249-270) e Jean Petitot, da anni impegnato in un
lavoro di ricerca sui fondamenti esperienziali dei concetti matematici e cura-
tore insieme allo stesso Varela del volume del 1999 Naturalizing Phenomenolo-
gy (pp. 95-124); ma anche di prendere coscienza delle ricerche che sono sta-
te avviate in Italia a partire dal progetto neurofenomenologico, come ad
esempio la riflessione teorica sulla relazione tra neuroni specchio, empatia e
intersoggettività, portata avanti da Vittorio Gallese, insegnante di neuro-
scienze presso l‟università degli studi di Parma (pp. 293-326), o il tentativo
di Roberto Ferrari (ricercatore in entomologia e biologia presso l‟università
degli studi di Bologna) di e Franco Bertossa (maestro di meditazione di indi-
rizzo buddhista) di creare un ponte reale di integrazione e confronto tra i ri-
sultati ottenuti dalla ricerca scientifica e filosofica occidentale sulla coscienza
e quelli ottenuti dalla ricerca e pratica meditativa in prima persona elaborati
in Oriente (con particolare riferimento alla tradizione buddhista)4.
Il volume è diviso in sei sezioni. La prima è dedicata ai rapporti tra con-
cetti matematici e struttura dell‟esperienza e ad essere chiamate in causa
sono quindi da un lato le ricerche che Husserl ha dedicato ai fondamenti
esperienziali delle scienze, dall‟aritmetica alla geometria e quelle di Mer-
leau-Ponty sulla nozione di Natura (Corsi al Collège de France 1952-53 e
1959-60), dall‟altro le nuove ricerche in geometria morfologica e le teorie

4 Un progetto così ampio e ambizioso non poteva naturalmente abbracciare tutte le ri-
cerche sull‟esperienza cosciente che prendono spunto o si confrontano con le linee teori-
che della neurofenomenologia; restano infatti ai margini del testo, nelle sue note e biblio-
grafie, tutta una serie di autori che all‟interno della fenomenologia iniziano a confrontarsi
con le contemporanee ricerche neuroscientifiche, come ad esempio DAN ZAHAVI (soprat-
tutto nell‟ultima opera scritta con SHAUN GALLAGHER, The phenomenological mind, cit.), o
ricercatori che a partire dalle scienze cognitive si avvicinano alla fenomenologia per revi-
sionare i propri assunti teorici, come ad esempio EVAN THOMPSON (rimandiamo ad esem-
pio all‟articolo scritto in collaborazione con ANTOINE LUTZ, “Neuro-phenomenology. In-
tegrating Subjective Experience and Brain Dynamics in the Neuroscience of Conscious-
ness”, Journal of Consciousness Studies 10, 2003, pp. 31-52). Questa non intende essere una
critica alla incompletezza del testo ma più che altro l‟espressione sincera della speranza che
tale lavoro sia solo al suo primo passo.
326 Armando Canzonieri

delle catastrofi, i sistemi dinamici non lineari, la termodinamica non li-


neare etc. Il testo di Jean Petitot (La svolta naturalistica della fenomenologia)
ha l‟ambizione di mostrare in che senso, oggi, sia possibile convertire la co-
noscenza fenomenologica in una conoscenza scientifica propriamente detta
e mostrare, usando modelli scientifici, le tappe che portano dai fenomeni
soggettivi vissuti ai fenomeni naturali obiettivi, a partire dall‟assunto che
esiste una complementarità tra la descrizione eidetica dei vissuti immanenti
e la modellizzazione matematica, geometrica e computazionale dei feno-
meni a cui questi vissuti danno accesso (p. 102). Giuseppe Longo (diret-
tore di ricerca presso il Dipartimento d‟Informatica della École Normale Su-
périeur di Parigi), s‟interroga nel suo articolo sull‟effettiva ragionevolezza
ed efficacia della matematica. Punto di partenza della riflessione è, quindi,
la constatazione che la nostra civiltà, usando dei modelli matematici e delle
formule sia stranamente capace di prevedere e determinare il corso di mol-
ti avvenimenti. Tale possibilità risiederebbe nel fatto che la matematica la-
vora con quei perni e bordi fenomenici che l‟esperienza stessa mostra agli in-
dividui attraverso delle regolarità (p. 149). Il movimento conoscitivo della
matematica sarebbe un movimento intrinsecamente generatore di nuove
conoscenze, di nuove esperienze e astrazioni matematiche in quanto tale
movimento consiste nel trasformare le relazioni tra invariati in norme e,
quindi, usare queste norme per condurre ulteriori costruzioni (ibid.).
La seconda sezione del testo è dedicata allo studio del corpo vivo e della
percezione spaziale. Che cosa è lo spazio per un corpo vivo? In che modo la
corporeità è la forma della esperienza cosciente? In che modo la descrizio-
ne fenomenologica della percezione di un oggetto può essere estesa anche
alla comprensione della percezione di un‟opera pittorica e quindi alla com-
prensione della percezione del bello? Quale relazione e quale differenza c‟è
tra una intelligenza incarnata e una intelligenza artificiale? Questi alcuni de-
gli interrogativi che vengono sollevati in questa parte del testo, attraverso i
saggi di Jean-Luc Petit, Carmelo Calì, Federico Leoni e Alberto Giovanni
Buiso.
I singoli saggi mostrano le linee giuda e le potenzialità del dialogo che
l‟analisi fenomenologica del corpo vivo e dello spazio può intrattenere, og-
gi, con la neurologia, l‟estetica e la cibernetica.
Carmelo Calì propone un possibile sviluppo della teoria husserliana del-
la percezione di oggetti in direzione di una interpretazione della percezione
pittorica; ad essere prese in considerazioni sono le riflessioni che Husserl
dedica al problema dei rapporti di somiglianza e differenza che legano la
Neurofenomenologia 327

percezione di un oggetto alla percezione di una raffigurazione di un og-


getto con particolare riferimento ai volumi XI (Analysen zur passiven Synthesis.
Aus Vorlesungs und Forschungsmanuskripten 1918-1926), XIII (Phantasie, Bildbe-
wusstsein, Erin-nerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigung.
Texte aus dem Nachlass 1898-1923) e XVI (Ding und Raum. Vorlesungen 1907).
Il saggio di Federico Leoni si articola su due piani:
1) presenta i tratti fondamentali del pensiero del neurologo e psichiatra
Erwin Walter Straus, il quale propone una rilettura della struttura del mo-
vimento del corpo che critica:
– la separazione tra movimento e sensazione;
– la separazione tra soggetto del movimento e mondo in cui il movi-
mento avviene;
2) cerca di mostrare in che senso ad una certa idea del corpo (come res ex-
tensa ad esempio) corrispondano tutta una serie di saperi sul corpo che hanno
degli effetti tanto nelle pratiche scientifiche che nelle pratiche artistiche e let-
terarie.
Ne Il corpo come macchina semantica di Alberto Giovanni Buiso, la storia e
la temporalizzazione che costituiscono il proprio corpo vengono prese come
le differenze strutturali che dividono, oggi, essere vivente e l‟intelligenza
vivente dalle macchine artificiali e dall‟intelligenza artificiale. Un‟intelligen-
za artificiale dovrebbe essere munita di un corpo capace di apprendere nel
tempo dall‟ambiente per tentare di simulare l‟intelligenza viva. Di certo so-
no il cuore della seconda sezione le riflessioni di Jean-Luc Petit sulla costitu-
zione del corpo proprio e sulla possibilità di un incontro tra i dati neurofisio-
logici e i dati esperienziali sulla struttura del corpo vivo. Da punto di vista
fenomenologico il corpo proprio è una creazione operata dall‟agente attra-
verso il suo uso. È derivato dal potere autoformativo dell‟azione e le sue
trasformazioni nel corso dell‟esperienza restano sotto il controllo dell‟azione,
così come la ristrutturazione delle mappe somato-sensoriali che ne assicu-
rano l‟inscrizione nel cervello (p. 164); in questa prospettiva anche il corpo
proprio si dà all‟io a partire da una costituzione e non come un dato unitario,
esso di fatto non è né dato nella forma di un oggetto né nella forma di un
semplice strumento del quale di volta in volta se ne usano delle parti, al con-
trario l‟uso mostra all‟io delle parti corporali di sé che possono formare una
unità. Io non effettuo attualmente tutti i movimenti che mi permetterebbero
le articolazioni delle braccia e delle gambe, l‟elasticità dei loro tendini, la
forza dei loro muscoli eccetera. Ne dispongo senza dubbio, ma solo come
orizzonte dei miei movimenti e delle mie posture attuali (p. 175). Prima di
328 Armando Canzonieri

avere un corpo abbiamo due mani (p. 169). Le mani sono i primi quasi oggetti
che mostrano la loro funzione pratica nel toccare, nel toccarsi e nell‟afferrare,
attraverso questa attività, altri oggetti vengono sottratti al semplice campo
visivo e si legano al corpo partecipando alla sua cinestesi (p. 170) ma so-
prattutto le sensazioni tattili costituiscono uno spazio di auto-sensorialità che
è lo spazio del corpo proprio. Questo spazio non è l‟effetto di una rappre-
sentazione e le contemporanee ricerche in campo delle neuroscienze sem-
brano dimostrarlo. Le mappe neurali degli arti, infatti, mostrano un‟elevatis-
sima plasticità e variano da individuo ad individuo; esse sono continuamente
modificabili dall‟esperienza e sono piuttosto il riflesso della storia individuale
dell‟uso dell‟arto. La neurofisiologia spinge ai limiti paradossali la differenza
tra l‟immutabilità presunta del corpo fisico e la variabilità del corpo proprio
percepito (attraverso l‟uso che se ne fa) (p. 186).
Iniziamo a capire cosa può offrire una convergenza di analisi fenomeno-
logica e neurologica dei vissuti, ma che cosa significa di fatto analizzare i
vissuti in prima persona? Quali sono le pratiche concrete che corrispon-
dono ai concetti di epochè, riduzione e variazione eidetica? E come ricono-
scere nell‟esperienza concreta la struttura trascendentale di un vissuto?
Sono queste le domande affrontate nella terza sezione, soprattutto da
Natalie Depraz, Roberto Ferrari e Franco Bertossa. Secondo Natalie De-
praz è possibile mostrare che l‟epoché, la riduzione e la variazione eidetica
corrispondono a dei precisi esercizi di stabilizzazione che permettono all‟in-
dividuo di studiare la propria esperienza in atto. L‟epoché corrisponde ad un
gesto di sospensione del corso abituale dei pensieri. Non appena un‟attività
mentale, un pensiero fissato su un solo oggetto percepito mi distoglie dal-
l‟osservazione dell‟atto percettivo pur per riassorbirmi nella percezione
dell‟oggetto, io la letto tra parentesi. Essa continua ad esistere davanti a
me: io non l‟ho sradicata né negata ma essa non è più lì per me (p. 253).
L‟epoché deve essere, quindi, riattivata ad ogni istante; anche la variazione
eidetica alla ricerca di invarianti è una attività pratica da perfezionare attra-
verso dell‟esercizio dell‟immaginazione a partire dalla percezione e dal
movimento. Si tratta sempre di esercitarsi ad osservare e descrivere l‟espe-
rienza vissuta del soggetto che dice “io” e d‟imparare ad osservare i patterns
dinamici e a categorizzarli il più finemente possibile. Il fatto che si parli di
descrizioni e di categorizzazioni, rende comprensibile il fatto che la pratica
fenomenologica non è un‟introspezione soggettiva, ma un lavoro intersog-
gettivo i cui dati possono e devono essere verificati e ripresentati da altri
sia in prima sia in terza persona.
Neurofenomenologia 329

La portata teorica e pratica del secondo anello di congiunzione tra espe-


rienza e neurologia, sul quale Francisco Varela si sofferma soprattutto nel-
l‟opera La via di mezzo della conoscenza, è presentata da Roberto Ferrari e
Franco Bertossa nel saggio Meditazione di presenza mentale per le scienze cogni-
tive5. Gli autori hanno come obiettivo primario quello di portare in super-
ficie una serie di coincidenze teoriche tra la fenomenologia e le pratiche
meditative di matrice buddhista e in un secondo momento avanzano l‟ipo-
tesi che proprio l‟insieme di descrizioni in prima persona che la tradizione
buddhista ha fornito sulle esperienze coscienti può fornire un primo baga-
glio di nuovi esperimenti sul piano neurologico. La meditazione può diven-
tare uno strumento efficace per disciplinare l‟individuo nell‟osservazione
della propria esperienza, in particolare la pratica buddhista ha come ogget-
to d‟analisi e descrizione il lato corporeo e sensibile dell‟esperienza e ha
come obiettivo, tra gli altri, proprio quello di rendere evidente al soggetto
esperente cosa accade al corpo, quando le attività cognitive sono in atto.
Per studiare l‟esperienza vissuta in prima persona, occorre sviluppare una
competenza specifica attraverso la pratica del corpo (p. 279). Tale compe-
tenza non può essere sviluppata casualmente ed in solitudine ma prevede la
collaborazione con una guida, con un “tu” che diventa indispensabile nel
momento in cui bisogna elaborare le descrizioni degli elementi esperien-
ziali emersi dalla pratica meditativa.
Il saggio si chiude proprio sulla necessità di trovare un piano di condivi-
sione delle esperienze in prima persona che ne permetta il confronto, l‟in-
tegrazione e la verifica intersoggettiva, ma come fondare tale piano comune?
Proprio a questi interrogativi sono rivolti gli ultimi due scritti della sezione,
rispettivamente di Vittorio Gallese6 e di Laura Boella, entrambi dedicati
agli effetti teorici della scoperta dei neuroni specchio. Tale scoperta, da un
lato aggiunge nuove conferme sperimentali alle intuizioni della fenome-

5 Per un approfondimento di questo tema rinviamo al sito http://www.associazioneasia.it/.

I due autori dell‟articolo hanno presentato questo progetto di ricerca anche all‟interno di
un libro edito da ALBO VERSORIO, Lo sguardo senza occhio. Esperimenti sulla mente cosciente tra
scienza e meditazione, 2005.
6 Per una prima introduzione ai problemi di natura filosofica che la scoperta dei neuro-

ni specchio ha sollevato, rimandiamo al testo So quello che fai. Il cervello che agisce e i neuroni
specchio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006. Per un primo confronto tra questa sco-
perta scientifica e i dati esperienziali sull‟empatia (Einfühlung) raccolti dalla fenomenologia
di Husserl, possono essere utili gli articoli di DIETER LOHMAR, “Über phantasmatische Selbst-
affektion in der typisierenden Apperzeption und im inneren Zeitbewusstsein”, Leitmotiv 3
(2003) e “Spiegelneuronen und die Phänomenologie der Intersubjektivität”, Interdisziplinäre
Phänomenologie 1 (2004), pp. 241-254.
330 Armando Canzonieri

nologia riguardanti i legami tra percezione e movimento e dall‟altro mette


in evidenza il fatto che il processo empatico di riconoscimento e di identifi-
cazione in un altro soggetto e in un altro vissuto abbia dei correlati neurali.
Le ultime due sezioni del testo, infine, si soffermano sulla portata onto-
logica di questa interazione tra fenomenologia e neurologia, cioè sul modo
in cui l‟insieme degli oggetti e delle interazioni tra oggetti che costituisco-
no il mondo che ci circonda venga ridescritto a partire da essa. Prima di
tutto l‟interazione tra fenomenologia e neurologia porta ad una modifica-
zione nella descrizione di quegli oggetti che noi stesso siamo, questi corpi-
persone che interagiscono con altri corpi-persone: quali sono le caratteri-
stiche di questi enti che noi stessi siamo? Esiste una gerarchia tra queste ca-
ratteristiche? E quali sono le entità che si generano a partire dalle intera-
zioni tra queste entità? Quale è la struttura generale in cui si iscrivono tutte
le attività cognitive? In altre parole, quale è la struttura generale della co-
scienza?
Sulla prima domanda, relativa allo statuto ontologico delle persone e
dei loro corpi, si sofferma Roberta De Monticelli nel saggio Persona e indi-
vidualità essenziale. In esso, l‟autrice mette a confronto, proponendone una
sintesi in chiave fenomenologica, due diverse descrizioni dell‟oggetto per-
sona, quella di Van Invagen e di Baker.
I particolari oggetti che le interazioni (sociali) tra questi corpi-persone
che siamo riescono a istituire e le relazioni che queste e entità sociali hanno
con le altre entità (materiali e ideali), sono il tema del testo Perché è meglio
che la sintesi sia passiva di Maurizio Ferraris.
Agli ultimi due interrogativi vengono dedicati i saggi di Mauro Mando-
lato, Coscienza della temporalità e temporalità della coscienza e di Domenico
Jervolino, Ricoeur: la fenomenologia della memoria e il confronto con le scienze
cognitive, come si evince dai titoli, entrambi individuano nella temporalità
la struttura essenziale della coscienza. L‟indagine fenomenologica sulla strut-
tura e sulla coscienza del tempo deve essere svolta come se si trattasse di
determinazioni a priori, necessarie, logiche (p. 384). Tale idea sposta l‟in-
terrogativo dalla coscienza al tempo: com‟è possibile studiare la natura del
tempo attraverso la natura dei vissuti intenzionali? Che cosa ha da dire
l‟esperienza del tempo sull‟esperienza dei propri vissuti e dei vissuti del-
l‟altro io?
Ogni nostra esperienza, ogni nostra percezione, persino la più semplice
sensazione, è l‟effetto d‟eco della sensazione di vivere in una continuità
[…]. La coscienza del tempo è, dunque, coscienza di un tempo e di un
Neurofenomenologia 331

ritmo estremamente mutevoli. Se, sul piano neurobiologico, la coscienza si


muove nel tempo in modo lineare; sul piano intenzionale essa è del tutto
svincolata dal tempo oggettivo (p. 396), in quanto essa è sempre l‟effetto
di una continua sintesi di tracce che non conosce distinzione tra passato
presente e futuro in se stessa ma soltanto nel momento in cui essa incontra
la traccia in se stessa o nell‟espressione di un altro corpo, di un flusso di
coscienza estraneo.
Il testo nella sua interessa suggerisce quindi al lettore un ventaglio di
possibili sviluppi e campi di ricerca propri delle contemporaneità, aperti e
in continuo sviluppo.
ANNA CIPPARRONE

Il camerino dei marmi di Alfonso d’Este e il suo apparato


epigrafico di ispirazione senecana: uno Speculum Principis
realizzato con il connubio di immagini scolpite e latinae litterae

Il presente contributo intende evidenziare il complesso programma icono-


grafico del camerino dei marmi di Alfonso I d‟Este con particolare atten-
zione al rapporto tra le iscrizioni di ispirazione senecana, le immagini e la
figura del principe.
La commissione del primo dei camerini voluti da Alfonso – noto come
studio de’ prede vive e attestato con ricevute di pagamento rilasciate tra il
1506 e il 1508 – costituisce l‟avvio di un complesso programma di rin-
novamento delle decorazioni interne del palazzo ducale di Ferrara e com-
prende una serie di rilievi marmorei scolpiti dal veneziano Antonio Lom-
bardo e un consistente corredo epigrafico1.
Si tratta di 33 marmi (forse 35), di cui due composti da più frammenti
e da un‟aggiunta ottocentesca, conservati tra l‟Ermitage di San Pietrobur-
go, il museo del Louvre e una collezione privata dei principi del Liecht-
stein e risultano oggetto di numerosi studi critici sia relativamente alla loro
ubicazione all‟interno dello studiolo sia circa il connubio tra le immagini
scolpite e le iscrizioni filosofiche sia, infine, sugli eventuali e verosimili
riferimenti alla figura del principe Alfonso2.
Tra i rilievi si distinguono 4 scene di maggiore interesse iconografico: la
Contesa tra Minerva e Nettuno per il possesso dell’Attica, la Fucina di Vulcano, l‟Er-
cole in cocchio o Apoteosi di Ercole e una Ninfa seduta tra due Tritoni, forse Fer-
rara tra le biforcazioni del fiume Po. Le dimensioni dei rilievi variano di po-
co, il che ha fatto supporre che fossero pensati l‟uno come pendant dell‟altro,
su pareti opposte; inoltre l‟ipotesi che si tratti di una mera celebrazione della

1 A. SARCHI, “Lo studio de’ prede vive” di Antonio Lombardo, in J. BENTINI (ed.), Gli Este a

Ferrara, una corte nel Rinascimento, cat. mostra Ferrara 2004, Milano, 2004; C. HOPE, “The
„Camerini di Alabastro‟ of Alfonso d‟Este I”, The Burlington Magazine, 1971, pp. 641 sgg.;
MATTEO CERIANA (ed.), Gli Este a Ferrara, il camerino di alabastro, Milano, 2004; Il restauro
del camerino dei marmi di Alfonso I: lo studio dei bassorilievi del Museo Ermitage per il castello
estense di Ferrara, Ferrara, 2005.
2 C. HOPE, Il camerino di marmo: ipotesi per una ricostruzione, Ferrara, 2008; J. BISCON-

TIN, “Une frise de marre d‟Antonio Lombardo au musèe du Louvre”, La Révue du Louvre et
des Musèes de France, 1975, pp. 234 sgg.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 332-341 332


I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 333

mitologia greca voluta da Alfonso I per creare un ambiente appartato ed


erudito3 contrasta con la lettura secondo cui il programma iconografico dello
studio dei marmi è ricco di interferenze con la contingenza ferrarese e con-
nota un ambiente voluto e dedicato esclusivamente al committente.
Non è questa la sede per affrontare il tema dell‟iconografia e della resa
stilistica dei marmi del camerino tuttavia è importante evidenziarne la
complementarietà di significati e l‟eccezionale connessione con la figura di
Alfonso che risulta il punto focale della decorazione e, ovviamente, delle
iscrizioni-monito oggetto di questo contributo.
La prima iscrizione, incisa su una tabella appesa ad una palma che fuo-
riesce da una corazza vuota tra due liocorni, celebra la data in cui lo stu-
diolo fu ultimato: «a partu virg/ M.D. VIII Alf(onsus). D(ux). Hoc sibi ocii/ et
quietis/ergo. Cond.». Unica iscrizione a non essere basata su una fonte anti-
ca, essa annuncia la destinazione del luogo, il ritiro privato e l‟ozio del du-
ca, e ben si coniuga con il De Officiis di Cicerone che ispira la seconda exphra-
sis del camerino, «Hic numquam minus solus quam cum solus Alfonsus» scritta su
una tabellina retta da una ninfa. Si tratta di un motto attribuito da Catone a
Scipione l‟Africano e qualifica ulteriormente il tipo di ozio che il duca do-
vrebbe concedersi: quello dell‟uomo politico che nella quiete non trova so-
litudine bensì una fervida attività mentale. Una terza iscrizione appoggiata
ad un‟urnetta e affiancata da due aquile che reggono un festone fruttifero
recita: «et quiescenti agendum est/ et agenti quiescendum Alf. D. III» e deriva dal-
la terza delle Epistole morali di Seneca a Lucilio. Essa suona come un incita-
mento a trovare il giusto mezzo tra l‟eccessivo attivismo e l‟oziosa passivi-
tà. Sempre sul filo della conciliazione retorica di enunciati opposti di deri-
vazione senecana sono costruite due iscrizioni da leggersi in sequenza: «Bis
vincit qui», incisa su un‟urna, affiancata da delfini e sormontata da un ma-
scherone e, «se vincit», scolpita su un‟urna su cui troneggia una fenice, al-
lusione al domino interiore, inteso come vittoria eterna4. L‟ultima iscri-
zione, «ne quid nimis», si trova su un‟urna sormontata da un‟aquila che nu-
tre tre piccoli, pervulgata sententia della classicità e del Medioevo5.
Il filo conduttore di queste iscrizioni definisce un luogo dedicato alla
quiete dove non c‟è nulla di troppo e dove si possono coltivare medita-
zione e virtù morali, dialetticamente frutto degli opposti.
La novità dell‟ambiente del Camerino dei marmi non risiede soltanto nello

3 W. LIEBENWEIN, Studiolo, a cura di C. Cieri Via, Ferrara, 1988.


4 SENECA, Epistole, 113, 30; già PUBLIO SIRO, frammento 21b.
5 TERENZIO, Andria, 61; SENECA, De Tranquillitate animi, 9.
334 Anna Cipparrone

sconvolgimento dell‟iconografia tradizionale delle scene – che per ragioni di


fedeltà tematica non sarà affrontata in questa sede – o nel tipo di decorazione
in marmo – piuttosto inusuale per gli studioli ma non infrequente nella corte
estense –, quanto piuttosto nell‟apparato epigrafico che accompagna i rilievi
commissionati da Alfonso d‟Este. Tale apparato è stato analizzato da studiosi
quali Jacqueline Biscontin, Dana Goodgal, James David Draper, Wendy Sted-
man Sheard, Giovanna Pacchioni ecc: esso sottolinea una totale immersione
nell‟antichità al fine di abolirne il più possibile la distanza.
La formula del connubio tra immagini e latinae litterae nasce, infatti, sul
terreno di una filologia umanistica incipiente, volta a recuperare l‟antico
nelle parole, nelle immagini, nei contenuti e nelle forme e di essa ne face-
vano parte sia il committente sia, soprattutto, l‟artista. L‟epigrafe è di per
sé un simbolo di cultura, una parola d‟ordine di intellettualità e gli ideali di
intellettualismo e antropocentrismo tipici del Rinascimento trovavano nel-
la mistione delle immagini classico-mitologiche con le iscrizioni latine un
genere particolarmente adatto all‟autocelebrazione6. Tali ragioni costitui-
scono il presupposto per la commissione del camerino.
Il Duca Alfonso, come si evincerà dal presente contributo, fu partico-
larmente influenzato dalla cultura dell‟artista Antonio Lombardo e da al-
cune importanti letture: le Imagines di Filostrato – fondamentali per l‟idea-
zione del camerino delle pitture, di qualche anno successivo – e le opere di
Cicerone, Seneca, Publilio Siro e Leon Battista Alberti per l‟ideazione del-
lo studiolo dei marmi, oggetto del presente contributo. Affrontiamo per-
tanto l‟analisi dei motti presenti nel camerino.
La prima iscrizione presa in considerazione esprime le finalità del luogo
creato da Alfonso: «a partu virg (inis) M D VIII Alf (onsus) d(ux) Hoc sibi ocii et quie-
tis ergo cond (idit)» (Nell’anno 1508 dal parto della Vergine, Alfonso duca edificò per
sé questo luogo dedicato all’ozio e alla quiete). Se questa iscrizione si assume come
punto di partenza per stabilire il senso dell‟erudito programma epigrafico del
camerino, assumono maggiore importanza anche la corazza e i due unicorni
presenti nel rilievo, in quanto – come afferma Pope-Hennessy – potrebbero
rappresentare la pace e la guerra, temi prescelti per le raffigurazioni marmoree
della sala intera7. Inoltre, la presenza della palma e dell‟alloro che fuoriescono
dalla corazza, induce a credere che si possa trattare di un esplicito riferimento

6 A. BALARIN, Lo studio dei marmi e il camerino delle pitture di Alfonso I d’Este, in Gli Este a

Ferrara, cit., pp. 63 sgg.


7 Contesa tra Minerva e Nettuno per il possesso dell’Attica, la Fucina di Vulcano, l‟Ercole in

cocchio o Apoteosi di Ercole e una Ninfa seduta tra due Tritoni.


I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 335

alle capacità politiche e militari del duca Alfonso. Questa iscrizione è l‟unica
non riferibile ad antiche fonti ma ben si collega con la seconda grazie ai con-
cetti di otium e quies anticipati sulla destinazione del luogo.
«Hic numquam minus solus quam cum solus Alfonsus». Tale è l‟iscrizione posta
sul rilievo dell‟Ermitage, su una tabellina retta dalla Ninfa che secondo alcuni
studiosi è la personificazione della città di Ferrara. È una iscrizione ispirata al
De Officiis di Cicerone, precisamente al Proemio del libro III che recita: «Publio
Scipione, quegli che, o figlio Marco, per primo fu chiamato Africano, soleva dire, come
racconta Catone, che gli fu quasi coetaneo, che egli non era mai meno ozioso di quan-
do era ozioso, né meno solo di quando era solo. Parole invero magnifiche e degne di un
uomo grande e sapiente: ci mostrano che egli nell’ozio pensava agli affari pubblici, e
nella solitudine parlava con se stesso, così che mai era inoperoso, né sentiva il bisogno
di qualcuno con cui conversare. In tal modo l’ozio e la solitudine, che rendono langui-
di gli altri, accrescevano la sua attività»8.
Il tema dell‟isolamento attivo è fortemente presente nelle iscrizioni del
camerino dei marmi ed evidenzia la conoscenza, da parte di Alfonso d‟Este
(dell‟artista e dell‟eventuale consulente iconografico) del pensiero sene-
chiano in cui questo principio era particolarmente presente.
In un passo del libro VI del De Otio, ad esempio, si legge: «ma bisogna sa-
pere se ci si da alla contemplazione per il solo suo piacere, senza altro scopo che di
meditare assiduamente e infruttuosamente: è dolce cosa infatti il contemplare ed ha i
suoi allettamenti. Rispondo che lo stesso si può chiedere della vita civile: che bisogna
conoscere l’intenzione di chi si dedica ad essa e sapere se lo fa per vivere in una per-
petua agitazione, senza aver mai tempo di volgere lo sguardo dalla terra verso il
cielo. Come la brama delle cose, senza amore della virtù e senza cultura dello spiri-
to, e l’azione pura e semplice di chi agisce per agire, non è per nulla lodevole (giac-
chè la meditazione deve essere congiunta con l‟azione), così è imperfetta e
languida una virtù senza attività, abbandonata all’ozio, che non dà mai nessuna
prova di quel che ha imparato. Se dunque il saggio non chiede che di agire, solleci-
tamente, quando l’opera manchi e non l’operatore, gli permetterai di stare con se
stesso? Egli cerca un ritiro per giovare alla posterità operando in solitudine».
Una delle grandi innovazioni del pensiero senecano, ben ripresa nello
studiolo dei marmi con il costante riferimento delle iscrizioni, è quello del-
l‟esame di coscienza: nel cammino verso la sapienza è indispensabile appar-
tarsi e meditare tra sé. L‟otium e la quies, ovvero la fervida attività mentale
anche in solitudine, sono concetti strettamente connessi all‟analisi di se stessi
e mostrano come essa sia possibile solo qualora l‟individuo riesca a dominare

8 CICERONE, De Officiis, III, I, [I].


336 Anna Cipparrone

su se stesso e sulle proprie passioni (concetto cardine di un‟iscrizione succes-


siva). Nell’Epistola 68 ritorna questo motivo: «Quid in otio facio? Ulcus meum
curo». Anche questa espressione è riconducibile al camerino che, come sanciva
la prima, era nato per l‟ozio e la quiete del committente – oltre che per offrir-
gli uno speculum principis in cui rispecchiarsi – e dunque per poter riflettere
sulle proprie „piaghe‟, sui propri difetti e sulle misure da prendere per curarle.
Ogni sentenza, all‟interno del camerino, ne richiama altre al fine di rag-
giungere un equilibrio e una moderazione ispirati al senso della misura se-
nechiano, precipuo messaggio-monito del camerino dei marmi.
L‟iscrizione sul rilievo dei principi del Liechtenstein «et quiescenti agen-
dum est et agenti quiescendum» è strettamente connessa alla precedente ed è de-
sunta dalle Lettere a Lucilio di Seneca, dal finale della terza epistola del I libro:
«bisogna saper conciliare queste due opposte tendenze: chi è flemmatico deve agire e
deve calmarsi chi è sempre in attività. Consigliati con la natura: ti dirà che ha crea-
to il giorno e la notte»9. In Seneca è molto frequente questa tematica; l‟intera
epistola ne sottolinea l‟importanza con le seguenti parole: «Allo stesso modo
meritano di essere biasimati sia gli eterni irrequieti sia gli eterni flemmatici. Non è
operosità godere dello scompiglio, ma lo smaniare di una mente esagitata, come non è
quiete giudicare fastidiosa ogni attività, bensì fiacchezza e indolenza. Ricorda bene,
perciò, questa frase che ho letto in Pomponio: “C’è chi si tiene ben nascosto che gli sem-
bra tempesta tutto ciò che succede sotto il sole. Bisogna saper conciliare queste due op-
poste tendenze: chi è flemmatico deve agire e deve calmarsi chi è sempre in attività”».
La possibilità di comportarsi sempre rettamente e soprattutto guidati
dalla virtù e dal senso della misura richiama un concetto fondamentale della
filosofia classica, ripreso anche nello studiolo dei marmi: «Bis vincit qui se vin-
cit». L‟iscrizione è presente su due rilievi, divisa in un doppio enunciato iscrit-
to su due coppe; su una di esse poggia un mascherone mentre sulla seconda è
presente un motivo simbolico molto importante: la fenice. Essa allude al
dominio interiore come vittoria eterna e al dominio della famiglia estense –
guidata da una simile virtù – sulla città di Ferrara. L‟identificazione tra gli
estensi e la fenice, e dunque tra la loro virtù e il dominio eterno sulla città, si
giustifica con il ricorso ad un uccello che faceva parte dell‟araldica estense.
In effetti la fenice, unico uccello capace di rinascere dalle proprie cene-
ri, era intesa come la personificazione della forza vitale e il suo appellativo
«semper eadem» induceva ad identificarla con il governo estense. L‟iscri-
zione relativa a questo marmo allude alla preziosa virtù dell‟autocontrollo:
«È doppiamente vincitore colui che riesce a vincere su se stesso». In Seneca la sen-

9 SENECA, Epistule ad Lucilium, I, 3, [6].


I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 337

tenza si pone al termine di un discorso di cui si riportano alcuni passi:


«insegnami non se la fortezza è un animale ma che nessun animale è felice senza la
fortezza, se non si è rafforzato contro i casi fortuiti e non è in grado di dominare o-
gni evento con la riflessione prima di essere colto di sorpresa. Cos’è la fortezza? La
difesa inespugnabile della debolezza umana e chi se ne circonda resiste senza timore
all’assedio della vita; impiega armi e forza sua. A questo punto voglio riferirti una
massima del nostro Posidonio: “Non pensare mai di essere al sicuro grazie alle armi
della fortuna: combatti con le tue. Alessandro metteva in fuga i Persiani, gli Icani,
gli Indi e tutti i popoli orientali fino all’Oceano e ne devastava i territori ma […]
vincitore di tanti re e di tanti popoli, soccombeva all’ira e all’afflizione; aveva cer-
cato di tenere tutto in suo potere ma non le sue passioni. Quanto si ingannano que-
gli uomini che bramano di spingere il dominio al di là del mare e pensano di essere
veramente felici se occupano militarmente molte regioni […] e sono ignari di quale
sia quello straordinario potere pari al potere degli dei: il dominio di se stessi è il più
grande dominio”». Anche se è ripresa da Seneca questa sentenza si presume
sia ascrivibile a Publilio Siro, autore di 151 Proverbia e di molte Sentenze;
tuttavia quella del dominio di sé fu una tematica altrettanto cara a Seneca
che, in un‟epistola a Lucilio, consigliò di non mutare spesso luogo perché
non aiuta affatto quando l‟animo non è padrone di se stesso. A poco giova
il mutar luogo – afferma Seneca – «nisi se sibi praester animus». A questa vir-
tù del dominio di sè avrebbe dovuto ispirarsi il duca Alfonso.
L‟iscrizione che riassume tutte le altre in maniera lapidaria è senza dub-
bio quella che recita «Ne quid nimis», inserita in un marmo la cui iconografia è
di difficile interpretazione ma estremamente significativa. Al di sopra della
scritta, infatti, un‟aquila si lascia divorare dai suoi piccoli per nutrirli. Un‟im-
magine eccessiva equilibrata con la sentenza incisa al di sotto e desunta dal-
l‟Oracolo di Delfi, dall‟Andria di Terenzio e dal messaggio morale di Seneca.
L‟aquila-pellicano consente di ritenere che, essendo anch‟essa un sim-
bolo araldico estense, intenda fare riferimento al duca Alfonso e all‟istinto
protettivo che lo animava nei confronti della città di Ferrara. Sebbene si
rintracci nell‟opera di Terenzio nella seguente espressione: «Ad prime in vita
esse utile, ut nequid nimis … aliquid facerem ut hoc ne facerem. Sed nunc quid pri-
mum exsequar? Tot me impediunt curae», un nesso molto più evidente, consi-
derata la fitta presenza dei simboli estensi, va infatti ricercato in una meda-
glia coniata nel primo periodo del governo di Alfonso10.
Il duca, all‟inizio del suo mandato, dovette infatti confrontarsi con una

10 F. PANINI ROSATI, Medaglie e placchette italiane dal Rinascimento al XVIII secolo, Roma,

1968; J. BENTINI (ed.), Sovrane passioni, studi sul collezionismo estense, Milano, 1998.
338 Anna Cipparrone

serie di avversità specie la carestia e la pestilenza (oltre alle congiure) tut-


tavia la positività del suo governo, celebrata nell‟iscrizione sul recto della
medaglia De forti dulcedo (dalla forza la dolcezza, il nutrimento), indusse
l‟autore del camerino ad inserire il motivo della positività del governo
estense assimilandolo all‟aquila (simbolo della famiglia) che ciba i suoi pic-
coli con le proprie carni.
Le iscrizioni che corredano le scene mitologiche nel camerino dei marmi
di Alfonso I d‟Este, sono dunque attinte dal vasto repertorio degli autori
classici quali Seneca, Cicerone, Publilio Siro, Terenzio e Leon Battista Alber-
ti e affrontano tematiche quali l‟otium e la quies – intesi come attività mentale
e di riflessione interiore da operare in solitudine –, il tema del dominio su se
stessi e sulle proprie passioni, quello dell‟esame di coscienza e del senso di
moderazione ecc., e propongono un ideale modus vivendi improntato sulla
consapevolezza del giusto mezzo, lontano dagli eccessi e dall‟esagerazione11.
Lo speculum principis presente nel camerino dei marmi era un genere el-
lenistico di Trattato in cui un cortigiano o un intellettuale legato alla corte,
mescolando sapientemente e cautamente esaltazione e ammonimento, inten-
deva indirizzare al bene il comportamento di un monarca, fornendogli un ri-
tratto ideale in cui egli potesse rispecchiarsi. Tale doveva presentarsi l‟accosta-
mento delle immagini scolpite con i moniti iscritti lungo il ciclo iconografico.
Quando fu eletto, il duca Alfonso era particolarmente inviso ai suoi
sudditi i quali ritenevano che il fratello Ippolito sarebbe stato un migliore e
più accorto governatore tuttavia, nonostante si fosse rivelato in passato
particolarmente incline ai piaceri senza alcuna dimostrazione di acume e
sensibilità culturale e artistica, Alfonso si rivelò presto un ottimo principe,
un abile diplomatico e un concreto mecenate12.
La commissione del camerino dei marmi risale al primo mandato di Al-
fonso pertanto la sua complessità tematica potrebbe esser stata determinata

11 SENECA, Mostra bibliografica e iconografica, a cura di F. Niutta e C. Cantucci, Roma,


1999; Grande dizionario enciclopedico, a cura di P. Fedele, Torino, 1968, vol. XVII, voce
“Stoicismo”; SENECA, La dottrina morale, a cura di C. Marchesi, Bari, 1994; ID., De constan-
tia sapientis, a cura di P. Grimal, Paris, 1953; P. PAGLIANI (ed.), Seneca, Dall’impegno civile
alla terapia dell’anima, Torino, 2004.
12 Il problema della sua educazione fu molto sentito alla corte estense e l‟opera di G.

SABADINO DEGLI ARIENTI, De Triumphis Religionis, è importante non solo per il suo valore
descrittivo ma anche perché in essa l‟autore unì celebrazione ed ammaestramento. Lo
scrittore esaltando le virtù del perfetto uomo politico (che a quei tempi era Ercole I) de-
dicò l‟opera al giovane Alfonso che, una volta ricevuto il suo mandato, avrebbe dovuto for-
marsi sul modello paterno.
I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 339

dalla contingenza del suo ammonimento e della sua educazione da parte di


un erudito della corte tuttavia è importante far luce sulle ipotetiche affinità
del pensiero di Alfonso e dell‟artista Antonio Lombardo con quello di Se-
neca e degli altri autori classici citati.
Circa l‟autore del programma iconografico non si possiedono notizie
documentate: Mario Equicola, Nicolò da Correggio o un qualunque altro
erudito ben istruito sulla personalità del Principe e sui temi filosofici af-
frontati. Tuttavia è molto più verosimile che il programma iconografico
del camerino sia stato realizzato con la conoscenza, da parte dello stesso
Alfonso d‟Este e dell‟artista Antonio Lombardo, sia degli scritti senecani
sia della più vasta cultura classica che essi sottendevano13.
Che gli antichi testi latini fossero in circolazione nella corte di Alfonso è
noto anche per il rapporto che questi intratteneva con la casata gonzaghe-
sca e, soprattutto, con la sorella Isabella d‟Este per la quale Demetrio Mo-
sco aveva approntato una versione in volgare delle Imagines di Filostrato –
particolarmente utilizzate per la decorazione del secondo camerino – e alla
quale era stata donata un‟edizione dei Carmina di Catullo, curata e com-
mentata da Battista Guarino14. La presenza di Mosco potrebbe già ritenersi
indicativa di questa predilezione verso i testi classici poiché egli, greco di
nascita, insegnava la sua lingua nelle corti italiane e traduceva gli scrittori
greci, Filostrato, Plutarco ed altri.
Anche la circolazione dei testi “morali” di Seneca e Cicerone fu piut-
tosto frequente a Ferrara e giustificano un loro consistente uso nel cameri-
no dei marmi; le opere di Seneca, specie quelle morali, furono infatti dif-
fuse nel periodo in questione poiché egli fu il praeceptor morum optimus del
Petrarca giunto fino al Cinquecento più come maestro di vita che come
pensatore. La prima edizione di tutte le sue opere uscì a Napoli nel 1475 e
fu stampata da Mattia Moravo ma si trattava di una data tarda rispetto ad
altri scritti – Cicerone, Lucano, Marrone o Quintiliano – che erano già ap-
parsi da tempo. Inoltre delle Epistole uscivano, nello stesso anno, due edi-
zioni. Il fatto che esse fossero state stampate dallo stesso editore che aveva

13 A.M. SCHULZ, La vita e l’opera di Antonio Lombardo in Gli Este a Ferrara, cit., p. 15

sgg.; A. SARCHI, Antonio tra i letterati e gli artisti del suo tempo, cit., pp. 35 sgg.
14 J. BENTINI, op. cit.; R. MORSELLI, Este e Gonzaga: “piccolo” e grande collezionismo di due

famiglie amiche tra ’500 e ’600, in I gusti collezionistici di Leonello d’Este, a cura di F. Trevi-
sani, cat. mostra Ferrara 2002-2003, Modena, 2003, p. 37 sgg.; G. GRUYER, L’art ferrarais
à l’èpoque des princes d’Este, 2 voll., Paris, 1897, I, p. 121; S. BALBI DE CARO (ed.), I Gon-
zaga, moneta, arte e storia, Milano, 1995.
340 Anna Cipparrone

prodotto, nel 1473, l‟editio princeps dello Speculum istoriale del domenicano
Vincenzo di Beauvais, evidenzia quanto Seneca fosse utilizzato in casi di in-
segnamento morale come quello del camerino estense. Attraverso questa
raccolta ed altre similari, che fungevano da prontuari per la preparazione
delle prediche e che raccoglievano in abbondanza sentenze senecane e
pseudosenecane, la fama di questo scrittore aveva raggiunto un numero ec-
cezionale di lettori.
Fra il 1490 ed il 1503 uscirono a Venezia quattro edizioni dell‟opera
completa di Seneca che ripetevano, con qualche aggiunta o innovazione, il
prototipo napoletano del 1475; in quegli stessi anni le Epistole furono stam-
pate anche a Siviglia, Saragozza e in Francia.
La prima edizione delle tragedie di Seneca fu stampata proprio a Fer-
rara nel 1478 da Andrea Beaufort detto il Gallico; pochi anni dopo, nel
cortile del cardinale Riario ebbe luogo la prima serie di rappresentazioni de
L’Ippolito. Questa tragedia fu rappresentata nel 1501 a Mantova – a tal pro-
posito si ricordino i rapporti tra il duca Alfonso e la corte gonzaghesca e il
viaggio romano di Alfonso nel 1508 – e quasi sicuramente fu messa in sce-
na anche a Ferrara nel 1509. Si tratta di una data successiva all‟ideazione
del programma ma consente di verificare l‟interesse nutrito nella corte
estense verso questo autore classico. Inoltre è quasi certo che nei primi an-
ni del Cinquecento furono molte altre le rappresentazioni e le pubblica-
zioni senecane tra Mantova e Ferrara, vista l‟erudizione dei mecenati e vi-
sta la loro sensibilità al recupero dei testi antichi.
Oltre alla diffusione ferrarese delle opere di Seneca, un altro dato molto
interessante è relativo alla pubblicazione veneziana delle opere morali del-
l‟autore, cui furono aggiunte, nel 1490 i Proverbia e le Naturales Quaestiones.
Lo scultore Antonio Lombardo proveniva infatti da Venezia e qui visse
fino al 1506, anno in cui si stabilì – fino alla sua morte – a Ferrara. Fino al-
la data del trasferimento egli lavorò nella bottega paterna assieme al fratel-
lo Tullio ed iniziò a ricevere pagamenti dal duca Alfonso già dal 1505, data
in cui ancora risiedeva a Venezia, iscritto regolarmente alla Scuola Grande
di San Marco (dalla quale fu espulso).
È palese la misura in cui l‟arte dei fratelli Lombardo fu influenzata dalla
cultura e dalla scultura classica romana, il che rese il loro lavoro un unicum
nel contesto della scultura italiana della fine del Quattrocento proprio per-
ché essi vivevano a Venezia, dove le esperienze ed il contatto con le opere
classiche non aveva dato altri frutti.
Nel camerino di Alfonso I la cultura classica di Antonio Lombardo è
I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 341

dunque presente ed evidente in ogni opera sebbene si noti una netta cesura
tra il primo gruppo di marmi e quello eseguito successivamente al viaggio
romano del 1508, al seguito del duca.
Tra i testi diffusi nella corte di Alfonso, inoltre, un altro particolarmen-
te importante per decifrare le fonti cui il duca attinse per il camerino dei
marmi – oltre alla cultura classica introdotta personalmente dallo scultore
– è il Trattato di Leon Battista Alberti Della Tranquillità dell’animo che ri-
prende il titolo della stessa opera di Seneca. Inoltre l‟Alberti aveva dedi-
cato a Lionello d‟Este il Filodosso, nel 1436, e il Teogenio – al quale il trat-
tato sulla tranquillità rassomiglia – nel 1441. A confermare la conoscenza,
da parte della corte estense, degli scritti di Leon Battista Alberti e del testo
di Seneca cui uno di essi era ispirato, è la coincidenza per cui l‟Alberti, nel
momento in cui scriveva il Trattato, si trovava a Ferrara per la commis-
sione della statua equestre di Nicola III.
Il senso dei rilievi e delle iscrizioni presenti nel camerino dei marmi si
spiega, infine, confrontandolo con la successiva commissione del duca: il
camerino delle pitture nel quale furono chiamati pittori come Giovanni Bel-
lini, Dosso Dossi, Tiziano e Raffaello a dipingere una singolare mitologia
estense incentrata sul tema dell‟ebbrezza con un fregio ispirato alla vicenda
di Enea e alla fondazione di Roma15. Anche in questo caso fu protagonista il
tema degli eccessi, ma nell‟accezione opposta; mentre nel camerino dei mar-
mi, infatti, le scene dei rilievi e l‟apparato epigrafico si ispiravano al senso
della misura, all‟educazione del principe e al buon governo, nel camerino
delle pitture esse inneggiano all‟ebbrezza e alla vitalità della casata estense.
Pare incongruente la diversità tematica dei due camerini che tuttavia si
spiega con il monito morale espresso da Seneca nel De Tranquillitate animi:
«la cosa di gran lunga migliore è alternare il riposo con gli affari» e con le diverse
occasioni in cui il principe commissionò i camerini confermandosene, a que-
sto punto, attivamente coinvolto anche nell‟ideazione. Il primo, realizzato
subito dopo l‟elezione e dunque impostato sul tentativo di accettazione da
parte dei sudditi e sullo Speculum Principis cui ispirarsi e, il secondo, decorato
in un momento di forte consolidamento del suo potere in cui la possibilità di
concedersi pause e piaceri divenne una reale e accordata necessità.

15 C. HOPE, Cacce e baccanali nei Camerini d’Este, in Gli Este a Ferrara, cit., p. 169; Il

camerino delle pitture di Alfonso I, a cura di A. Ballarin, Padova, 2002.


ANNA DE MARCO

Diminutivi, genere e cortesia linguistica:


un approccio sociocostruttivista

Molti degli studi sul rapporto lingua e genere hanno cercato di identificare
e di spiegare le differenze nello stile linguistico di uomini e donne anche in
un‟ottica trans-culturale (v. TALBOT, 1998 per un‟utile rassegna). Una del-
le differenze principali è stata rintracciata nell‟area della cortesia linguistica
e sebbene le donne vengano considerate più cortesi degli uomini, viene al-
tresì mantenuta l‟idea che la cortesia linguistica non può prescindere dalle
differenti concettualizzazioni che essa riveste nelle diverse culture per cui
non è possibile in assoluto stabilire e verificare se una cultura sia più o meno
cortese di un‟altra. Tuttavia è possibile determinare se esista o meno una
variazione nei mezzi linguistici utilizzati da uomini e donne per la realizzazio-
ne di diversi atti linguistici in termini di strategie comunicative che com-
prendono la cortesia.
Nel campo della morfologia, ed in particolare nell‟uso di mezzi morfo-
logici come i diminutivi, le differenze nell‟uso strategico di tali suffissi so-
no state messe in evidenza da alcuni studi sull‟italiano (DRESSLER e MERLINI,
1993, DE MARCO, 1995) e altre lingue (SIFIANOU, 1992).
All‟interno della tematica del linguaggio femminile, ed in particolare in
relazione all‟influenza esercitata dal ruolo maschile e femminile sulle modi-
ficazioni del comportamento linguistico, diversi dei numerosi studi sulla
stereotipizzazione del linguaggio hanno mostrato una certa similitudine nei
giudizi espressi da entrambi i sessi nei confronti del linguaggio esibito da
uomini e donne. In generale, dalle osservazioni effettuate nel corso di una
indagine condotta su dati di parlato spontaneo è stata rilevata una certa dif-
ferenza nell‟attribuzione di alcuni modi di esprimersi o, nel caso specifico,
nel repertorio lessicale proprio dell‟uno o dell‟altro sesso e con una preva-
lenza da parte delle donne di una attesa specifica e differenziata da parte dei
due sessi (DE MARCO, 1998). Anche nella scelta lessicale gli stereotipi pos-
sono, dunque, costituire un mezzo per controllare la propria produzione
lessicale o far passare dei messaggi particolari in relazione a tali scelte.
Limitarsi, tuttavia, a considerare la sola variabile sesso come unica di-
scriminante nelle differenti modalità di comunicazione e assumere che il

Bollettino Filosofico 25 (2009): 342-361 342


Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 343

comportamento di uno dei due sessi sia prototipico (in genere è quello ma-
schile ad essere assunto tale), significa impoverire il concetto di interazione
ed intraprendere un percorso di analisi metodologicamente inadeguato. Ma
quest‟ultima riflessione è proprio ciò che approfondiremo in questo studio.

1. Metodologia

Lo scopo della nostra indagine è stato quello di verificare attraverso


l‟analisi di dati spontanei1 se, e in quali situazioni uomini e donne diversi-
ficano effettivamente l‟uso di strategie di cortesia attraverso l‟impiego dei
diminutivi. E, se sia metodologicamente corretta un‟analisi che parta da
una visione dicotomica dei due sessi.
Per questa indagine abbiamo adottato l‟idea di una pragmatica (VERSCHUE-
REN, 1999, 2002) che ingloba al suo interno un‟integrazione dei processi so-
ciali e che si pone come „prospettiva‟ sui fatti linguistici, ossia una sorta di
ombrello sotto cui mettere i vari componenti della struttura della lingua.
Una prospettiva pragmatica, dunque, e non una visione componenziale della
struttura della lingua, è proprio ciò che fa sì che i fatti sociali possano avere
un loro spazio nella descrizione dell‟uso della lingua2. In contrapposizione al-
la visione componenziale, e quindi della teoria pragmatica come competenza
astratta ed idealizzata alla pari di quella grammaticale, vi è la caratterizzazio-
ne della pragmatica come una prospettiva generale cognitiva, sociale e cultu-
rale sui fenomeni linguistici in relazione all‟uso dei comportamenti verbali
(VERSCHUEREN, 1999, p. 7). L‟uso della lingua esaminato dal punto di vista
del parlante e dell‟ascoltatore diventa così un adattamento ai diversi contesti
d‟uso. Questa prospettiva va nella direzione di una accentuazione dei vari
componenti della lingua, inclusi la psicolinguistica e la sociolinguistica che a
buon diritto entrano nella ricerca pragmatica (MEY, 2001, p. 9).

1 I dati sono stati raccolti dalla stessa autrice in scambi comunicativi di vario tipo (con-
versazioni faccia a faccia e telefoniche, colloqui formali, trasmissioni radiofoniche e televi-
sive, ecc.). Alcuni dati sono stati presi dall‟indagine condotta da DRESSLER e MERLINI (1994).
2 La visione componenziale della linguistica, nella caratterizzazione chomskiana della
teoria linguistica, è basata essenzialmente sulla concezione modulare della mente umana.
Le facoltà umane sono pensate come unità indipendenti e il modulo linguistico, svincolato
e autonomo da ogni altra facoltà ha un suo dominio specifico: all‟interno del componente
linguistico, i sottocomponenti, sintassi, semantica, ecc. lavorano in modo autonomo e indi-
pendente l‟uno dall‟altro. In questo paradigma di ricerca, alcuni autori hanno ritenuto che la
pragmatica potesse essere considerata un modulo alla stregua degli altri e di interagire
quindi con essi sul piano delle strutture mentali, indipendentemente da circostanze comu-
nicative concrete (KASHER, 1991).
344 Anna De Marco

Accanto a questo modello abbiamo adottato una concezione sociocostrut-


tivista dell‟uso lingustico la quale propone che le categorie sociali, così come
le identità sociali, non siano date a priori ma siano create e negoziate attra-
verso l‟interazione sociale (OCHS, 1993; SACKS, 1992; SCHEGLOFF, 1991). Il
linguaggio viene perciò concepito come uno strumento atto a costruire un
certo mondo sociale. Secondo Schegloff (1991) un individuo con le sue mol-
teplici identità negozia la sua identità rilevante nell‟interazione con gli altri
individui. Da questo punto di vista, quindi, le identità sociali sono fluide e i
parlanti possono mostrare diverse identità e relazioni sociali nel corso del-
l‟interazione con lo stesso individuo in una data situazione. Inoltre, i parlanti
non sono osservatori passivi di norme sociali ma piuttosto agenti attivi che
contribuiscono in qualche modo a modificare il mondo sociale.
Un approccio facilmente compatibile con questo quadro teorico, e che si
è rivelato utile nell‟analisi dei dati, è quello goffmaniano, approccio che con-
cerne la teoria dei ruoli e del frame sociale che l‟individuo ricrea ogni volta
che la relazione con l‟interlocutore lo richiede in virtù dei diversi rapporti so-
ciali e delle relazioni che si instaurano tra parlante e ascoltatore (GOFFMAN 1974).
L‟indagine è stata condotta a partire da interazioni verbali all‟interno di
svariati tipi testuali tenendo conto, oltre che della variabile genere, anche
di quelle qui di seguito elencate:
1. rapporti di potere e distanza con l‟interlocutore;
2. identificazione e distanza dai ruoli;
3. influenza di altri partecipanti e delle conseguenti relazioni sociali con
il parlante.
4. fattori che regolano l‟uso dei diminutivi e le diverse circostanze d‟uso:
la familiarità, l‟intimità, l‟emozione.
Abbiamo preso in esame alcune situazioni in cui l‟uso dei diminutivi
viene utilizzato strategicamente nelle richieste come forma attenuativa per
ridurre l‟imposizione nei confronti dell‟interlocutore. Ciò che abbiamo vo-
luto verificare è fino a che punto le variabili sociali di potere, distanza/
familiarità e imposizione della richiesta interagiscono per modificare l‟uso
dei diminutivi come strategia per esprimere la cortesia linguistica e se in
qualche modo tale uso viene realizzato diversamente da uomini e donne.
Prima di entrare nel merito dell‟analisi dei dati è importante fare qualche con-
siderazione sulla categoria di genere, che è la variabile oggetto del nostro studio.

2. La categoria di genere
Le categorie di genere sono considerate status sociali e culturali istitu-
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 345

zionalizzati che permeano e organizzano la vita dell‟individuo. Esse vengo-


no acquisite attraverso la socializzazione e rappresentano caratteristiche
che emergono da situazioni sociali, piuttosto che dall‟essere proprietà del-
l‟individuo. Come tali esse costituiscono un risultato ma allo stesso tempo
incarnano una serie di principi che legittimano una delle fondamentali
suddivisioni della società (WEST e ZIMMERMAN 1991). Il genere, tuttavia, a
differenza di altri ruoli che gli individui ricoprono, permea la vita dell‟in-
dividuo e non ha una contesto organizzativo proprio, ma costituisce ciò che
viene chiamata un‟identità principale (master identity; cf. HUGHES 1945).
Definire il genere come ruolo impedisce infatti di generalizzare l‟influenza
che esso esercita su altri ruoli, come ad esempio “il medico”, “il paziente”
ecc. Secondo la visione proposta da West e Zimmerman perciò il genere
non rappresenta tanto una serie di tratti o un ruolo specifico ma un agire
sociale di un certo tipo. Esso si costituisce e si realizza attraverso l‟intera-
zione. Questa visione del genere è pienamente congruente con l‟idea che
sottende l‟ipotesi sociocostruttivista, vale a dire che “fare” il genere non si-
gnifica semplicemente mostrare un certo comportamento secondo una
espressione del genere convenzionalmente stabilita dalla società. Tuttavia, è
anche vero però che gli atteggiamenti attraverso cui il genere si realizza, non
sono completamente fluidi e dipendenti dalle scelte del parlante. Il parlante,
insomma, non può scegliere di essere visto dagli altri come maschio o fem-
mina (WEST e ZIMMERMAN 1991, p. 18) per cui ogni volta che un individuo
esercita un ruolo in una qualsiasi attività egli è ritenuto responsabile per
quella attività come uomo o donna, ed il fatto che sia situato in una delle due
categorie può essere utilizzato per legittimare o screditare le altre attività in
cui normalmente egli è impegnato. In tal senso “creare” il genere vuol dire
essere sottoposti allo scrutinio delle istituzioni, della società (ivi, p. 24).
Tuttavia, la posizione di alcune femministe muove in un‟altra direzione
secondo la quale il genere è qualcosa di esibito o rappresentato ed è quindi un
luogo di conflitti potenziale sulle restrizion di ruolo che vengono percepite:
Gender has begun to be theorized in more productive ways, moving away from a re-
liance on binary oppositions and global statements about the behavior of all men and
all women, to more nuanced and mitigated statements about certain groups of wo-
men or men in particular circumstances, who negotiate within certain parameters
of permissible or socially sanctioned behaviour […]. Rather than seeing gender as a
possession or set of behaviors which is imposed upon the individual by society, as
many essentialist theorists have done so far, […] many feminists have now moved to
a position where they view gender as something which is enacted or performed, and
thus as a potential site of struggle over perceived restrictions in roles (CRAWFORD, 1995).
346 Anna De Marco

Gli individui possono, in sostanza, avere diverse identità sociali, alcune delle
quali possono essere più importanti di altre a seconda della situazione, ma in
nessun modo essi possono evitare di identificarsi in una delle due categorie
sessuali. Sono proprio questi comportamenti che ci identificano come parte
di una categoria e che rendono possibile questo “fare” o “realizzare” il genere
nella vita quotidiana. Così, se da un lato assumiamo dei comportamenti che
sono tradizionalmente legati ad una particolare categoria, possiamo allo stes-
so tempo sfidare tali categorizzazioni ed assumere atteggiamenti che perso-
nalizzano la differenza.
Evitare di „fare‟ il genere sembra impossibile in quanto rende l‟organiz-
zazione sociale basata sulla categoria sessuale „normale‟ e „naturale‟. Se gli
uomini esercitano potere e autorità e le donne esprimono rispetto e devo-
zione, l‟ordine sociale che ne risulta e che riflette delle “disposizioni naturali”,
legittima ed allo stesso tempo rafforza l‟ordine gerarchico. Se dunque „fac-
ciamo‟ il genere nella maniera appropriata, riproduciamo e confermiamo que-
st‟ordine sociale basato sulla categoria sessuale, se falliamo, invece, siamo
chiamati a dare conto di questo come individui. Ma proprio perché l‟indivi-
duo è costantemente chiamato a legittimare o meno il genere per mantenere
il proprio status, il cambiamento è sempre possibile quanto lo è ricrearne
uno nuovo e affermare così la propria diversità.
Uno dei potenti strumenti delle differenze fra i sessi che ha a che fare con
la percezione dell‟individuo da parte degli altri e che può minacciare, allo
stesso tempo, la libertà di azione, è il pregiudizio che si cristallizza nello
stereotipo. Nella valutazione dei parlanti del tipo di linguaggio caratteriz-
zante il genere o l‟appartenenza socioculturale, gli stereotipi giocano un ruo-
lo predominante e caratterizzano un costrutto da cui partire per interpretare
e valutare specifici comportamenti linguistici.
Studi recenti sulle differenze di percezione tra linguaggio femminile e
maschile hanno rilevato che, in situazioni identiche ed esibendo lo stesso
comportamento, uomini e donne ricevono differenti valutazioni. In un espe-
rimento condotto attraverso l‟ascolto di voci di uomini e donne, di letture
ripetute più volte con variazione della qualità della voce (picco, tono, veloci-
tà del parlato), gli ascoltatori hanno dato valutazioni differenti del compor-
tamento linguistico palesemente dipendenti dal genere (ADDINGTON 1968).
La conclusione a cui in ogni caso giungono simili studi (ARONOVITCH
1978; STREET e HOPPER 1982) è che la forma del nostro linguaggio in sé non
determina il modo in cui esso viene percepito ed ascoltato ma che invece,
almeno in parte, alcuni costrutti sociali come il genere danno luogo a valuta-
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 347

zioni e ci collocano, quali parlanti, in uno spazio preciso nell‟interazione


condizionandone in qualche modo il suo farsi. Giles, Scherer e Taylor (1979
in KRAMARAE 1982) offrono una spiegazione che è collegata agli schemi men-
tali (frames) che i parlanti si costruiscono in relazione ad alcune situazioni e
che, in un certo senso, li preparano ad affrontarle:
Perhaps stereotypes form a template from which to view, interpret and evaluate
the language behaviour of women and men […]. People organize what they hear
according to their predetermined cognitive structures of how speakers ought to or
do talk. If speakers do not confirm these beliefs by using the expected speech traits,
listeners may hear what is not present or ignore what is not expected (ivi, p. 97).
Questa è una posizione abbastanza forte sul pregiudizio linguistico e va os-
servata in relazione ad altri fattori. Gli ascoltatori tendono, in generale, a
combinare la propria conoscenza dello stereotipo con percezioni della situa-
zione, cioè, le attese del parlante e le sue ideologie politiche, lo status sociale
e caratteristiche o limiti della situazione specifica. In particolare, a proposito
della variabile genere, molte delle prime teorie (LAKOFF 1975; ATTILI, BENI-
GNI 1979) hanno sostenuto una forte correlazione tra linguaggio femminile e,
ad esempio, l‟uso di forme attenuative. In studi successivi, dal confronto con
altri dati di livello quantitativo e l‟analisi di altre variabili sono stati messi in
luce i limiti di questa ipotesi forte.
Per quanto riguarda l‟uso dei diminutivi è emerso, sempre dagli studi sul
genere, che i diminutivi vengono utilizzati maggiormente dalle donne nelle in-
terazioni con i bambini e in quelle con adulti specialmente nelle relazioni amo-
rose. DALTAS (1985) sostiene che le donne greche usano più diminutivi degli
uomini come conseguenza del più frequente rapporto con i bambini, mentre
SIFIANOU (1992) nota che alcune donne confermano il loro frequente uso ri-
spetto agli uomini come conseguenza del più intenso rapporto con i bambini.
Allo stato attuale non esistono studi sul rapporto di forme di cortesia at-
traverso l‟uso dei diminutivi e genere, mentre la letteratura pragmatica trans-
culturale ha prestato un‟attenzione considerevole alle strategie che uomini e
donne impiegano nell‟eseguire un atto di richiesta.

3. Cortesia linguistica e morfopragmatica dei diminutivi


In questo paragrafo accenneremo brevemente alla teoria della „Politeness‟
così come è stata elaborata da Brown e Levinson (1987) e alla teoria „morfo-
pragmatica‟ che mette in rapporto la morfologia e la pragmatica nell‟uso dei di-
minutivi come mezzo morfologico per modificare la forza illocutiva di un atto
linguistico.
348 Anna De Marco

3.1. La cortesia linguistica


Il concetto centrale di tale teoria è quello di „faccia‟, che ha avuto origine
da una astrazione del concetto di „faccia‟o „reputazione‟ di derivazione gof-
fmaniana (1967) e riguarda i sentimenti di autostima e di immagine perso-
nale che definisce la parte “pubblica” della propria persona. La difesa della
propria immagine sembra rappresentare per l‟individuo una conquista che
egli quotidianamente realizza con i propri interlocutori nel corso delle inte-
razioni comunicative.
Secondo B&L esistono due tipi di immagini o di “facce” che l‟individuo
possiede, una „positiva‟ e una „negativa‟. La prima si può attribuire al biso-
gno di essere accettati dagli altri ed alla sensazione che i propri obiettivi siano
desiderabili almeno da qualcun altro, la seconda riguarda la libertà nelle pro-
prie azioni che rappresenta la difesa e l‟integrità personale e l‟aspirazione a
non sottostare ad imposizioni esterne. È importante però che gli interlocu-
tori verso i quali si prova il desiderio di essere apprezzati siano individui
significativi per gli scopi da condividere.
Quando il parlante utilizza la cortesia positiva fa uso di strategie linguisti-
che che enfatizzano la solidarietà con l‟ascoltatore, come una pronuncia in-
formale, espressioni dialettali o gergali, diminutivi, riferimento frequente a
parlante e ascoltatore con l‟uso del noi, e tipi di richieste che risultano essere
meno dirette: Salve amore, cosa mangiamo stasera?
La cortesia negativa si attua, in generale, quando c‟è una distanza sociale
tra il parlante e l‟ascoltatore, in tal caso le strategie sopra elencate tendono
ad essere evitate e le richieste sono più formali e includono forme come “po-
trebbe…”, “sarebbe così gentile da…?3
L‟interazione sociale per sua stessa natura coinvolge una certa quantità di
atti di minaccia dell‟immagine personale. Questi possono essere una minac-
cia all‟immagine negativa, come nel caso delle richieste, offerte o promesse
da parte del parlante. Nel quadro teorico di B&L le strategie di cortesia, che
qui ci interessano, sono tattiche finalizzate a minimizzare la minaccia che cer-
ti atti linguistici possono esercitare sull‟immagine, positiva o negativa, degli
interlocutori. Nel caso di un atto linguistico potenzialmente minaccioso co-
me la richiesta, un esempio di strategia negativa potrebbe essere quello di
utilizzare una formula indiretta, Potresti passarmi il sale? o ancora una strategia
di attestazione esplicita di apprezzamento, ossia di cortesia positiva: Hai ta-
gliato i capelli? Ti stanno benissimo!
3 La nozione di faccia o di immagine personale (intesa come insieme dei limiti che cir-
coscrivono il territorio personale) è generalmente considerata universale da B&L anche se
essa è strettamente connessa al contesto culturale di appartenenza delle diverse lingue. Se-
condo la visone dei due autori, però, le culture si differenziano rispetto a ciò che è consi-
derato cortese in situazioni tipiche.
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 349

Tra i mezzi linguistici atti a mitigare l‟atto linguistico della richiesta al fi-
ne di attuare strategie di cortesia positiva o negativa troviamo i diminutivi
che vengono usati allo scopo di diminuire la propria responsabilità verso un
atto linguistico, ad esempio una richiesta, o la sua forza illocutiva. Nel mo-
dello individuato da DRESSLER e MERLINI (1994) come „morfopragmatica‟, e in
particolare nella definizione del significato attribuito ai diminutivi, i due au-
tori mettono in evidenza il fatto che accanto alla denotazione morfoseman-
tica [piccolo] che caratterizza appunto il significato denotativo dei diminutivi,
è possibile assumere il significato morfopragmatico generale [non-serio] che
rappresenta la caratteristica costitutiva morfopragmatica dei diminutivi.
Se si mette in relazione la caratteristica morfopragmatica invariante [non-
serio] con la caratteristica morfosemantica [non-importante] la prima può es-
sere può essere collegata metaforicamente alla denotazione morfosemantica
[piccolo], riferendosi, in maniera più specifica il suo alloseme „con relativa
scarsa importanza‟. Perciò si assume che, all‟interno della morfologia, il si-
gnificato delle regole di formazione del diminutivo includano un‟entrata che
indica che un diminutivo può essere usato metaforicamente per connotare la
non serietà di un atto linguistico.
Una delle realizzazioni della caratteristica [non-serio] è il carattere ludico4,
che spesso è il significato pragmatico predominante, oppure il diminutivum
puerile usato in situazioni di linguaggio incentrato sui bambini o in quelle me-
taforicamente ricreate nel linguaggio amoroso o in atti comunicativi che in-
cludano gli animali o, ancora, nelle ricostruzioni ironiche di un mondo bam-
binesco. Altre realizzazioni occorrono in strategie per mitigare atti di impo-
sizione verso l‟interlocutore, ad esempio, nelle richieste o negli ordini che
prevedono un possibile rifiuto dalla controparte, o anche nei casi di atti di
minaccia. Il ricorso ai diminutivi avviene per esprimere, inoltre, eufemismi,
minimizzare l‟importanza di qualcosa, modestia verso se stessi, ironia verso
un interlocutore.
Fattori regolativi per l‟uso dei diminutivi che condizionano la loro appli-
cazione o il loro uso sono, ad esempio, la familiarità e l'intimità caratteriz-
zanti la relazione tra lo speaker e le varie componenti della situazione comuni-
cativa. Altri ancora sono la simpatia e l‟empatia che vengono caratterizzati

4 La condizione che ne regola l‟uso è il discorso socializzante: «homileic discourse has

the social goal of entertaining and making people socialize and thus is a more specific con-
cept than Malinowsky‟s “phatic communion”. It tipically occurs in spontaneous, casual con-
versation, such as small talk in all circumstances […] Homileic discourse is often charact-
erized by fictive, aesthetic and/or ludic aspects» (DRESSLER e MERLINI, p. 8).
350 Anna De Marco

come sentimenti positivi di tenerezza verso l‟interlocutore o anche verso gli


oggetti a cui ci si riferisce, in maniera familiare ed intima, per mezzo dei di-
minutivi (ivi, p. 148).
Nel prossimo paragrafo cercheremo di analizzare alcuni dei principali usi
che i parlanti fanno nel corso di interazioni comunicative attraverso la descri-
zione delle principali strategie di mitigazione di atti inguistici. Nell‟analisi si
terrà conto della variabile genere oggetto della nostra indagine.

3.2. L’uso dei diminutivi negli atti linguistici delle richieste


Qui di seguito analizzeremo alcuni degli atti linguistici, in particolare le
diverse situazioni ed eventi comunicativi in cui si esercita l‟atto della richiesta
e le modificazioni attuate sull‟atto o sulla forza illocutiva dello stesso attra-
verso l‟impiego dei diminutivi.
Uno dei casi in cui vi è una sorta di asimmetria nella posizione sociale de-
gli interlocutori è certamente quella fra un superiore e un suo sottoposto in
cui la richiesta che esprime la riduzione del diritto del parlante è chiaramente
tesa a ridurre la forza illocutiva e l‟autorità del parlante:
(1) Può venire un momento? (b) un momentino?
La parola momentino usata dal superiore verso il suo sottoposto può essere in-
tesa nel accezione di „riduzione della distanza psicologica‟ tra parlante e de-
stinatario e perciò come offerta verso il destinatario di un‟occasione per ot-
tenere benefici sociali a costi ridotti.
In situazioni formali, esigenze di cortesia bloccano l‟uso dei diminutivi,
l‟assenza di familiarità/intimità ne limitano fortemente l‟uso:
(2) Posso chiederle (a) un piacere?, (b) un piacerino?, (c) un piccolo piacere?
La variante (a) e possibile in qualunque situazione, ma se il parlante vuole di-
minuire la sua richiesta nei termini di un minor grado di potere userà la for-
ma (b) in situazioni relativamente informali (nei confronti di un amico). In
una situazione formale solo la variante (c) è possibile.

Rapporti di familiarità e intimità favoriscono l’uso dei diminutivi


Il parlante può, in certi casi, voler ottenere una risposta empatica dall‟inter-
locutore e, dunque, la riduzione della distanza psicologica opera in favore sia
del parlante che dell‟ascoltatore, come nel caso del barista che chiede al
cliente se gradisce una birretta. Il fatto di creare intimità può procurare al ba-
rista la possibilità che il cliente diventi un habitué.
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 351

Sia la familiarità che l‟intimità sono da ricondurre alle trasformazioni pos-


sibili attuate tramite i diminutivi. Esse, come osservano Dressler e Merlini
(ivi, p. 216): «may also be used as a feature which distinguishes interactional
discourse from transactional discourse». Secondo la definizione di BLOOM e
GUMPERZ (1972) nel primo caso (definito dagli autori personal interaction) gli
individui agiscono in riferimento alla propria personalità, mentre nel secon-
do essi agiscono sulla base del loro status. Questi due tipi di discorso sono
strettamente legati al tipo di relazioni sociali e di ruoli o status che li gover-
nano, tuttavia, in molte situazioni è difficile separare i due tipi di discorso
poiché i diversi status sociali o ruoli che una persona detiene sono tutti po-
tenzialmente rilevanti in una situazione sociale (BREITBORDE 1983). In realtà
l‟uso dei diminutivi più che marcare un tipo di interazione specifica può ser-
vire a passare da una situazione in cui un particolare status è rilevante, ad una
in cui quella posizione viene ad essere momentaneamente sospesa mentre
altre vengono evidenziate. A partire da queste trasformazioni possibili, è so-
prattutto sulla base di identità sociali e relazioni fra ruoli comprendenti an-
che ciò che sta dietro l‟organizzazione di tali ruoli, e la particolare esperienza
delle persone coinvolte, che possono essere pensate ed adottate una serie di
strategie per il raggiungimento di alcuni scopi.
Piuttosto che concepire i due tipi di struttura sociale, in cui ha luogo
un‟interazione, come due momenti separati è opportuno concepirli lungo un
continuum in cui, sulla base di posizioni o status che sono potenzialmente
presenti e che, anzi, possono essere sfruttati in qualsiasi momento, avven-
gono delle commutazioni metaforiche di codice o di stile. Nell‟esempio se-
guente un altro barista si rivolge al cliente abituale con un diminutivo per
marcare il suo desiderio di intrattenere un rapporto più personalizzato con lui:
(3) Allora professò, un cornettino e un veneziano?
In questo caso però il ruolo della figura professionale (quella del professore)
che l‟individuo detiene, non è per niente irrilevante ai fini della strategia
adottata in quanto viene utilizzata per ricreare la finzione all‟interno della
quale è possibile stabilire un rapporto più familiare. Il ruolo del professore è
rilevante, in particolare, al fine di stabilire i termini del rispetto nei confronti
dell‟interlocutore (chiarire la relazione fra i ruoli) e rendere possibile la rea-
lizzazione dell‟utilizzo dei diminutivi allo scopo di ottenere una relazione più
personalizzata. La varietà di status e di relazioni sociali sono presenti in ogni
momento in cui una persona interagisce e il rapporto che intercorre fra que-
sti ed il ruolo o la caratterizzazione di genere dell‟individuo influenzano le
strategie da adottare per ottenere gli stessi scopi con persone diverse o all‟in-
352 Anna De Marco

terno di una situazione in cui altre persone siano presenti. Lo stesso barista,
infatti, evita di utilizzare i diminutivi con una donna che ha lo stesso status
sociale del referente, ossia una professoressa che abitualmente frequenta il
bar per prendere il suo cappuccino mattutino. La restrizione, in relazione al
genere, può essere spiegata dal fatto che la valenza non seria dei diminutivi
può essere fraintesa dalla donna e considerata come intrusiva nella propria
vita privata. Solitamente i diminutivi vengono generalmente associati ad espres-
sioni di emozioni spesso giudicate come delegittimanti di un certo potere
della donna. Il fatto, quindi, che essi vengano utilizzati come strumento per
realizzazioni non serie di interazione, soprattutto quando il fine è quello di
stabilire un contatto più familiare, può dar luogo ad una reazione negativa
nei confronti dell‟ascoltatore. L‟idea che tali mezzi non siano opportuni per-
ché possono segnalare un rapporto di intimità troppo forte con l‟interlocuto-
re (donna, in questo caso) è un dato socialmente condiviso che è possibile os-
servare in diverse situazioni d‟uso in cui il rapporto non sia, però, già intimo
fra gli interlocutori.
La rilevanza di questi fattori regolativi per l‟uso dei diminutivi può essere
meglio chiarita all‟interno di un approccio sociologico che tenga conto dei
rapporti fra gli individui e delle dinamiche all‟interno delle relazioni fra ruoli
sulla base di una certa organizzazione. Le credenze e gli stereotipi sono ele-
menti che emergono proprio dall‟interazione tra elementi della costruzione
sociale della realtà e la personalità dell‟individuo che incarna e gestisce tali
elementi (e ne fa strumento di manipolazione di alcune situazioni) necessari a
spiegare la variabilità in alcuni usi dei diminutivi.
Il significato dei diminutivi, come potente mezzo strategico, non può de-
rivare da caratteristiche connotative del tipo [grazioso, piacevole] né dal si-
gnificato denotativo [piccolo]. La caratteristica morfopragmatica [non serio]
che viene attribuita all‟intero atto linguistico fa sì che la distanza psicologica
si riduca e che la formalità dell‟atto diminuisca. I fattori regolativi sono quin-
di direttamente legati alla caratteristica astratta [non serio], e quest‟ultima
alla situazione linguistica definita dagli interlocutori (DRESSLER e MERLINI, p.
218) o, per ritornare all‟approccio goffmaniano, alla cornice sociale rappre-
sentata dalla globalità delle relazioni sociali.

Riduzione dei costi per il parlante


attraverso il confronto con altri mezzi di riduzione della froza illocutiva
Vogliamo soffermarci ora sulla discussione presentata da Dressler e Merlini
(ivi, p. 250), sulla diversità degli effetti di altri mezzi linguistici che riducono
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 353

la forza del contenuto proposizionale rispetto ai diminutivi. Uno di questi è il


condizionale che agisce non tanto nel mitigare l‟atto, quanto piuttosto nel ren-
derlo più cortese.
La frase (4) che è espressa da un parlante obeso (uomo) in cura presso un
ospedale, verso un altro paziente meno grasso di lui (e chiaramente in una
condizione psicologica privilegiata) è volta a ridurre la distanza psicologica e
creare una certa intimità. Gli stessi effetti non vengono ottenuti, però, espri-
mendo la frase (5) con la quale si aggiunge solo un effetto di mera cordialità.
(4) Mi (a) daresti/ mi (b) dai quel pezzettino di pane se non ti va più?
(5) Mi daresti quel pezzo di pane ?

Anche nella frase seguente:


(6) Mi copieresti una pagina del testo sul computer per favore?
(7) Copiami una (a) pagina (b) paginetta del testo sul computer, dai!

se da un lato, con la variante (7b) il peso (in termini di compito) che pesa sul-
l‟interlocutore non viene ridotto, dall‟altro, il modo molto cortese di porre
la richiesta in (6), aumenta l‟obbligo sociale di eseguire la richiesta. Un rifiu-
to in questo caso sarebbe possibile con lo stesso grado di cortesia attraverso
l‟introduzione di scuse, spiegazioni ecc. La parola paginetta e la conseguente
riduzione della distanza psicologica, può essere intesa dal parlante come un
tentativo di ottenere un beneficio senza un aggravio di costi per il destinatario.
L‟effetto del diminutivo, dunque, non è quello semplicemente di rendere
la richiesta più cortese quanto piuttosto quello di aggiungere un elemento lu-
dico che rende la scortesia irrilevante. Uno dei mezzi per disinnescare gli atti
di minaccia per la faccia infatti è quello di indicare che l‟atto di imposizione e
l‟intrinseca serietà dell‟atto non sono molto elevati, effetto che viene attuato
attraverso l‟elemento [non serio], che permette al parlante di sfuggire alla pro-
pria responsabilità e di ridimensionare a tal fine la sua richiesta.
Nella richiesta seguente una figlia in difficoltà a chiedere al padre il per-
messo di passare un week-end fuori città esprime il suo desiderio in modo
esitante per evitare che l‟eventuale rifiuto sia per lei troppo costoso:
(8) Ci sarebbe una gitarella tra amici il prossimo fine settimana…

Lo stesso tipo di effetto viene ricreato dal figlio al padre in un momento in


cui la relazione non va troppo bene (Ci sarebbe un cinemino e poi una pizzet-
tina...). Questo è un esempio di ciò che BROWN e LEVINSON (1987) chiama-
no “cortesia negativa” che riguarda la necessità di rispettare la libertà d‟azio-
354 Anna De Marco

ne degli interlocutori e che ha dunque lo scopo di non forzare la risposta del-


l‟ascoltatore. I diminutivi, in questo caso possono soddisfare la strategia del-
l‟essere pessimisti circa il raggiungimento dello scopo illocutivo e cioè che il
parlante faccia l‟atto richiesto, come nella richiesta indiretta di una signora al
mercato all‟ora di chiusura (DRESSLER e MERLINI, p. 232):
(9) Le avanzerebbero due pomodorini?

In molti casi il fatto di utilizzare il diminutivo in modo ludico è finalizzato ad


ottenere più facilmente una risposta positiva; è pur vero però che, in tal caso,
diventa più semplice per il destinatario sentire un carico minore rispetto agli
obblighi sociali e riuscire a rifiutare la richiesta.

Diminuzione del peso sociale di accettazione di una richiesta


Come sottolineano Dressler e Merlini la caratteristica [non-serio] può essere
parafrasata con “Ti chiedo in fondo solo una piccola cosa in modo che tu non
la prenda troppo seriamente”. Tuttavia la riduzione della forza illocutiva non
si verifica in tutti i casi e in certe situazioni, come nel caso delle offerte, i di-
minutivi vengono impiegati come una strategia per ridurre il peso sociale
dell‟accettazione da parte del destinatario.
(10) Vuoi un pezzettino di torta?

Come abbiamo già sottolineato sopra, tra i fattori che bloccano l‟uso dei di-
minutivi vi sono certamente la distanza sociale e il potere. Quest‟ultimo è in-
teso, tuttavia, non solo come come il potere sociale che deriva da uno status
sociale ma anche dal fatto di possedere una forte personalità. Di conseguenza
la posizione di superiorità limita l‟uso dei diminutivi.

Mitigazione di situazioni ostili


In alcuni casi i diminutivi possono essere usati per mitigare una situazione osti-
le come nel caso di una suocera che cerca di diminuire il suo diritto di com-
piere una richiesta alla nuora:
(11) Perché non aggiungi due pomodorini, forse diventa più saporito.
La frase detta da una suocera alla nuora, con la quale il rapporto è spesso
conflittuale, esprime una mitigazione dell‟autorità che, nel caso in questione,
viene esercitata dalla prima nei confronti della seconda (ovviamente si tratta
di un‟autorità, o un potere sociale che deriva dal fatto di avere una forte per-
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 355

sonalità). Anche qui l‟utilizzo del diminutivo viene primariamente messo in


atto dalla relazione sociale (o dal mantenimento della stessa) e dal rapporto
fra ruoli. Il frame introdotto dal parlante non può non far riferimento (anche
ignorandolo) a quello precedente relativo ad una serie di norme sociali che
regolano il rapporto fra questi due ruoli ed alla interpretazione che le perso-
ne ne hanno dato.
Situazioni incentrate sul rapporto affettivo
Alcune situazioni incentrate sul rapporto affettivo, in partenza ostili, possono
essere in seguito peggiorate attraverso l‟uso dei diminutivi.
(12) E la camicina non gliela stiri all’amoruccio tuo?
L‟esagerazione nella produzione del diminutivo (in una situazione in cui vi è
una relazione metaforica col mondo bambinesco) rappresenta una forma di
persuasione lusinghiera attraverso cui l‟uomo mette se stesso in una posizio-
ne di subordinazione per raggiungere il suo scopo perlocutivo. Questa situa-
zione ricrea in qualche modo una situazione stereotipica in cui la moglie gio-
ca il ruolo di madre.
Il rapporto tra gli interlocutori è comunque un rapporto dinamico che
per essere colto nella sua interezza dovrebbe essere descritto tenendo conto
dell‟intera sequenza di atti. Esso è infatti lungi dall‟essere l‟esemplificazione
di un tipo di comunicazione consistente in mittente, canale e ricevente. Ciò
che il parlante compie è un atto che viene recepito dal destinatario in modo
tale da influenzare a sua volta ciò che il parlante pensa.
In termini di costi e benefici che le richieste comportano sia per il parlan-
te, sia per il destinatario, bisogna considerare che entrambi i parlanti fondano
la loro interazione su reciproci calcoli di tali costi e benefici. Nel mitigare
una richiesta del tipo:
(13) Mi daresti anche un’occhiatina a Matteo?
in cui una madre chiede alla cognata di tenere d‟occhio suo figlio in sua as-
senza, (oltre al proprio, che potrebbe già essere oneroso), il diminutivo vie-
ne utilizzato tenendo conto di ciò che il destinatario pensa rispetto alla futura
azione da compiere. Questo in virtù, non solo dei costi (nel caso di una ri-
sposta negativa) e dei benefici del parlante, ma anche come conseguenza del
calcolo fatto sui costi e benefici del destinatario. Nel dire: “in fondo ciò che ti
chiedo è una minima cosa”, parafrasando l‟uso del diminutivo, il parlante ri-
duce di molto i costi per il destinatario (come esempio ancora una volta di
356 Anna De Marco

“cortesia negativa”). Una tale strategia si mostra utile anche per evitare effetti
conflittuali, nel caso di richieste insistenti del tipo:
(14) Posso chiederti un ultimissimo piacerino?
Il parlante, in realtà, cerca di ridurre al minimo i rischi sociali in quanto, pre-
sumibilmente, vuole che l‟interazione sia di tipo cooperativo. Egli, infatti,
teme che il destinatario possa innervosirsi in seguito alla ripetizione di richie-
ste identiche. Proprio per il fatto che le richieste insistenti violano la condi-
zione preparatoria (SEARLE, 1969), per cui non è chiaro né a P né a D che D
farà A nel corso normale degli eventi, c‟è il rischio di effetti negativi sul de-
stinatario.
Tra i direttivi non impositivi, che escludono i casi trattati finora, ci sono
una serie di altri atti linguistici come il consigliare, il dare istruzioni, l‟av-
visare, il suggerire che sono principalmente espressi per il beneficio del de-
stinatario. Nel corpus di dati è emersa principalmente la serie inclusa nei sug-
gerimenti e consigli. Anche in questi casi, come per le richieste, la forza il-
locutiva viene diminuita in relazione alle diverse dimensioni sopra analizzate.
Uno degli esempi che mostra questo tipo di modificazione è quello del sug-
gerimento di un fratello nei confronti della sorella che ha bisogno di essere
incoraggiata nel proseguimento della sua tesi di laurea:
(15) Qui modificherei due o tre cosettine…
in questo caso è la relazione, ma anche il ruolo (non autoritario in questo
caso), che influenza l‟utilizzo del diminutivo.
Nel caso di un consiglio su come condurre una presentazione di una tesi
di laurea, il professore dà le indicazioni alla studentessa, per ridurre la dif-
ficoltà del compito ed incoraggiarla a lavorare:
(16) Ora ti prepari la tua bella presentazioncina di due o tre cartelline…
È evidente inoltre, allo stesso tempo, come l‟uso del diminutivo (insieme al
modificatore „bella‟) aumenti l‟importanza dell‟atto richiesto esaltandone i
benefici.

4. Discussione dei risultati: la variabile genere


Dall‟analisi dei dati che abbiamo sinteticamente illustrato fino a qui pos-
siamo osservare alcune dinamiche della relazione fra ruoli che possono me-
glio essere comprese adottando l‟approccio di una pragmatica che inglobi gli
aspetti sociali della lingua. In particolare una visione sociocostruttivista della
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 357

relatà e delle interazioni verbali può offrire una spiegazione alla variabilità
nell‟uso di strategie pragmatiche dei diminutivi all‟interno di fattori legati al-
la personalità dell‟individuo, ai rapporti che questi stabilisce con gli altri indi-
vidui basati su relazioni fra ruoli, credenze, esperienze personali (compresa
la capacità di riflettere sulle proprie esperienze).
L‟ipotesi secondo cui il ruolo di genere è irrilevante nella frequenza d‟uso
dei diminutivi trova conferma nei dati analizzati, anche se le donne tendono a
farne un uso più ampio con i bambini che sono i parlanti prototipici verso i quali
queste forme sono generalmente dirette (cf. DE MARCO, op. cit.). Le differenze
di uso strategico dei diminutivi sono state difficili da quantificare per la mole del-
le variabili che entrano in gioco a caratterizzare ogni situazione di interazione.
Rispetto al tipo di strategie che i parlanti compiono attraverso l‟uso dei di-
minutivi, le donne sembrano tendere, più degli uomini, ad utilizzare i dimi-
nutivi in atti che richiedono mitigazioni per il raggiungimento dello scopo per-
locutivo, come nel caso delle richieste. In certi casi la mitigazione occorre, nel-
le richieste, per evitare certi effetti conflittuali, come, ad esempio, offendere il
destinatario o creare situazioni di conflitto. Una possibile spiegazione che giu-
stifica la preferenza delle donne per questo tipo di uso può risalire al fatto che
le donne tendono, in generale, ad essere più cooperative degli uomini nelle
interazioni ed a voler “negoziare” maggiormente con l‟interlocutore.
Un altro tipo di uso che, in generale, le donne prediligono rispetto agli
uomini, è quello che serve ad esprimere un atto di valutazione. Produrre un
atto di valutazione, come sottolineano Dressler e Merlini (cit., p. 153), può
essere rischioso, in quanto l‟interlocutore può reagire con un atto di disap-
provazione; uno dei modi per minimizzare questo rischio è quello di modifi-
care la valutazione attraverso il diminutivo che riduce il grado di precisione
del contenuto proposizionale. Gli studi compiuti sulle differenze del linguag-
gio maschile e femminile e la sottolineata tendenza del linguaggio femminile
ad essere più impreciso e caratterizzato da maggiori modificazioni nella cate-
na del parlato sembrano supportare quest‟ultima osservazione. L‟incidenza
di stereotipi sul comportamento linguistico delle donne in particolare può
essere correlata al comportamento linguistico di alcune di loro che non sem-
pre risultano appartenere al livello socioculturale basso.
Per quanto riguarda le situazioni incentrate sui bambini, la centralità del
bambino si è rivelata una variabile favorevole per una maggiore frequenza e
produttività dei diminutivi.
Questi risultati sono ancora piuttosto primitivi ed attendono maggiori
conferme da ulteriori ricerche. Un‟analisi più mirata di situazioni meno dif-
358 Anna De Marco

ferenziate ma costanti in cui ci sia la presenza di un campione preciso di uo-


mini e donne, può certamente cogliere un numero più cospicuo di generaliz-
zazioni e far sì che ci sia un controllo ottimale della variabile sesso ed in par-
ticolare delle altre variabili socio-psicologiche legate al „fare‟ il genere nella
pratica comunicativa.
Per quanto riguarda la dimensione dinamica, in riferimento ai fattori che
regolano l‟uso dei diminutivi, l‟analisi dei dati ha confermato le osservazioni
fatte da Dressler e Merlini. La simpatia o l‟empatia verso un oggetto o una
persona contribuiscono a creare una situazione di intimità in cui l‟uso del di-
minutivo serve a trasmettere messaggi particolarmente affettuosi.

Altri fattori che influenzano l’uso dei diminutivi


Anche l‟emozione, nei casi in cui la sua intensità non sia troppo forte,
tende a favorire l‟uso dei diminutivi. La familiarità e il grado di formalità del-
le situazioni influenzano l‟uso che i parlanti fanno dei diminutivi. La formali-
tà, coma abbiamo osservato in diversi esempi, blocca il loro utilizzo in quan-
to riduce la distanza psicologica fra i parlanti; tuttavia, in alcuni casi l‟ele-
mento non-serio può servire a sbloccare una tensione troppo formale fra due
persone, fra le quali è presente anche un rapporto di dipendenza e far in mo-
do che la nuova situazione non risulti troppo imbarazzante per il parlante.
Ne è un esempio il caso di una studentessa universitaria che vuole „accorciare
le distanze‟ con il suo professore senza sembrare troppo invadente: “Eh pro-
fessore ma lei è sempre il mio capino!”.
Anche in questo caso l‟approccio sociologico caratterizzante il modello
goffmaniano offre una chiave di lettura di tale variabile e di come possa agire
sull‟uso di alcune forme linguistiche. L‟uso dei diminutivi può infatti rappre-
sentare il punto di contatto fra due cornici in cui i rapporti sociali si ridimen-
sionano e in cui l‟individuo può scegliere di giocare un particolare ruolo (v.
anche BREITBORDE 1983) sulla base delle identità sociali e dei ruoli stabiliti in
una particolare interazione (sempre legata a quella macro-sociale più ampia).
Il diminutivo segna, così, il passaggio da una situazione in cui vi è la presenza
di una relazione o di un rapporto ben preciso (ad esempio nel caso dell‟im-
piegato e del suo direttore, i cui rapporti possono anche essere di tipo fami-
liare ad es. padre e figlio), ad una in cui questi rapporti sono totalmente dif-
ferenti, o vengono finti tali. E tali trasformazioni, o strategie, operano sem-
pre sulla base di situazioni e trasformazioni precedenti.
In questo senso, allora, i diminutivi possono essere concepiti come mez-
zo per attuare dei cambiamenti sulla scena sociale e per compiere strategie
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 359

comunicative. Tuttavia, la stessa scena sociale e le condizioni sociali che la


governano, può determinarne l‟uso in una situazione particolare.
La presenza di un altro partecipante non direttamente coinvolto nell‟in-
terazione è sempre parte integrante della scena comunicativa e può dunque
essere la causa di ogni variazione o modificazione che i parlanti attuano nel
corso dell‟interazione.
In relazione ai diversi atti linguistici che si esprimono attraverso i diminu-
tivi, abbiamo centrato l‟attenzione soprattutto, sulle modificazioni della for-
za illocutiva di un atto linguistico (BAZZANELLA, CAFFI, SBISÀ, 1990). Per quan-
to riguarda le modificazioni esercitate dal diminutivo sugli atti linguistici, i
dati confermano quanto già rilevato da Dressler e Merlini, e cioè che il dimi-
nutivo modifica le dimensioni di forza che sono più simili o rilevanti per lo
scopo illocutivo dell‟atto linguistico specifico. Nel caso di un atto in cui lo
scopo è quello che il parlante porti il destinatario a compiere una certa azio-
ne, la dimensione che riguarda maggiormente l‟azione del diminutivo sarà
quella relativa agli obblighi del destinatario il quale può eventualmente rifiu-
tare tali oneri.
L‟effetto di diminuzione della forza illocutiva di un atto è, in generale,
valido lungo le diverse dimensioni di forza, anche se, in realtà, questo effetto
non sempre è reso visibile su tutte le dimensioni. Nella situazione linguistica
reale (livello “etico” della lingua), alcune dimensioni sono rese trasparenti
solo da una manipolazione delle variabili contestuali e cotestuali (DRESSLER e
MERLINI, p. 316).

5. Conclusioni
Questa analisi ha cercato di adempiere a due compiti importanti: a) sta-
bilire il tipo di strategie pragmatiche attraverso l‟uso dei diminutivi e le dina-
miche esistenti fra ruoli e rapporti sociali, da un lato, e le caratteristiche della
situazione sulla base delle quali i parlanti attuano tali strategie; b) valutare le
correlazioni esistenti fra strategie di cortesia, attraverso l‟analisi delle richie-
ste, e la variabile genere.
Dall‟analisi delle situazioni che abbiamo riportato abbiamo potuto cogliere
un aspetto importante che riguarda i diminutivi e cioè che, a differenza degli
altri suffissi derivazionali, essi modificano l‟intero atto linguistico e non il sin-
golo lessema. L‟applicazione della caratteristica [non-serio] alla situazione lin-
guistica o all‟intero atto si è rivelata condizione indispensabile affinché la regola
produttiva di formazione dei diminutivi possa venire applicata.
360 Anna De Marco

In una prospettiva più ampia che consideri lo scambio comunicativo co-


me un insieme di mosse (che non necessariamente coincidono con gli atti lin-
guistici), possiamo considerare il diminutivo come riferito all‟intera cornice
sociale (che investe principalmente le proprietà fisiche e psicologiche dei par-
tecipanti) all‟interno della quale queste mosse vengono negoziate. L‟indivi-
duo parte da una situazione sociale ben definita e da conoscenze (anche ste-
reotipiche) ed attese (rispetto ad esempio a dei ruoli ben definiti) per attuare
un‟azione sociale su cui quella verbale si fonda.
Da questi dati non è possible concludere che uomini e donne utilizzino
strategie diverse nel compiere atti linguistici come le richieste eccetto per
una tendenza delle donne a creare modi di interazione maggiormente coope-
rative e facilitanti dei rapporti sociali. Sebbene le donne abbiano più pregiu-
dizi e ne siano molto influenzate sono comunque tese ad utilizzarli in situa-
zioni particolarmente emotively colored.
Studi precedenti che hanno assunto una correlazione stereotipica fra ma-
scolinità e scortesia e cortesia e femminilità non sono confermati da questo
studio. Entrambi i generi sono dunque orientati verso l‟uso dei diminutivi
come mezzo per attuare stategie di cortesia ed entrambi hanno manifestato
le stesse similarità e differenze riguardo ai fattori regolativi che ne bloccano o
ne favoriscono l‟uso.
Questo studio sostiene, infine, l‟idea che la variabile genere non può es-
sere isolata come variabile indipendente per determinare l‟impiego di certe
forme linguistiche e che altre variabili devono essere simultaneamente prese
in considerazione. Le diverse sfaccettature che caratterizzano gli individui e
le loro relazioni di ruolo così come l‟intera sequenza di discorso nella quale
essi interagiscono deve essere presa in considerazione per fornire un quadro
completo dei comportamenti linguistici esibiti dai parlanti.

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ROSSELLA DE ROSE
Sulla filosofia della tragedia.
La morte dell’Anticristo

«Figlioletti, questa è l’ultima ora;


e come avete udito che deve venire un anticristo,
così ora molti anticristi sono apparsi.
E da questo conosciamo che è l’ultima ora.
Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri;
se fossero stati dei nostri sarebbero rimasti con noi;
ma doveva rendersi manifesto che non eran tutti dei nostri».
(Prima lettera di Giovanni, 2,18-19).

1. La riduzione ideologica della libertà cristiana


Per comprendere il senso simbolico della vita di Aleksej Nilyč Kirillov,
personaggio chiave del romanzo I Demoni, è necessario dapprima chiarire la
distinzione esistente, nella tradizione occidentale, tra libertà naturale e li-
bertà cristiana. La libertà naturale presuppone la possibilità di una scelta di
valori, innanzitutto tra la vita e la morte, tra il bene e il male. È da essa che
sorgono santità e delitto. Sant‟Agostino l‟ha definita «libertà minore», li-
bertas minor1. In rapporto ad essa il senso della libertà superiore, la libertas
maior, non consiste nella scelta, bensì nella Verità. Senza la Grazia, essa è
irraggiungibile. In sostanza, per essa è fondamentale la restituzione e, in ta-
luni casi, persino il soggiogamento della propria volontà e, in ultima analisi,
il suo completo assoggettamento alla volontà del Padre2. Ma per il cristiano
la libera scelta è purtuttavia una proprietà strutturale dell‟essere umano.
Un pensatore tipico del cristianesimo orientale come il beato Massimo
Confessore scorgeva nel fatto stesso della possibilità di scelta una imperfe-
zione, connessa con il peccato originale. Tuttavia, con questa affermazione,
egli esprimeva soltanto l‟ansia di una volontà tendente a Dio, che sponta-
neamente e volontariamente, come ai tempi della purezza originaria, si a-
prisse un varco verso la Verità3. Per le stesse ragioni, Nikolaj Berdjaev rite-

1 AGOSTINO, Grazia e libertà, Roma, Città Nuova, 1990. Sono volutamente trascurati i

temi del libero arbitrio, della Grazia e della Provvidenza.


2 R. GUARDINI, Libertà-Grazia-Destino, Brescia, Morcelliana, 1989, pp. 18-21.
3 P. EVDOKIMOV, L’ortodoxie, Paris, Gallimard, 1959, trad. it. L’ortodossia, Bologna,

Edizioni Dehoniane, 1981, pp. 72-73.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 362-376 362


Sulla filosofia della tragedia 363

neva che la libertà di scelta avesse un carattere esclusivamente formale4.


Tuttavia, veniva invariabilmente sottolineato, sulle orme di san Gregorio
di Nazianzo, che l‟uomo, essendo l‟immagine del Dio assolutamente libero,
intimamente può essere sempre libero. Filosofi di varia tendenza5, che nel
XIX secolo si opponevano alla antropologia cristiana, indicavano tutte le li-
mitazioni alla libertà di scelta dovute alla natura ed all‟essere sociale del-
l‟uomo. Nella sfera dei valori l‟uomo ha sempre diritto alla scelta. Intima-
mente, l‟individuo è sempre libero, e proprio per tale ragione il mondo è
sempre pieno di imprevisti, è sempre enigmatico ed eternamente misterio-
so 6 . Tali convinzioni hanno costituito la premessa alla descrizione della
breve, ma tumultuosa esistenza di Aleksej Kirillov. Dostoevskij ha inviato
il suo irrequieto ingegnere in un mondo caotico, misterioso, e lo ha co-
stretto a scegliere continuamente valori, a „creare‟ il proprio io e ad autoaf-
fermare la propria personalità. Secondo la visione dostoevskijana, la scelta
presuppone la responsabilità morale dell‟individuo e perciò testimonia la
sua libertà7. Dunque, fondamento della libertà è lo spirito individuale e
concreto come realtà in sé. Ogni perdita del proprio „io‟, ogni scadimento
della personalità significa ad un tempo la fine della libertà. Erich Fromm, il
quale era pervenuto alla conclusione che alla base del fascismo stava il rifiu-
to di massa del proprio „io‟, ne fu a tal punto inorridito da proporre di
conservare a qualsiasi prezzo questa profonda idea cristiana, quale inestima-
bile tesoro dell‟umanesimo moderno, nonostante egli si dichiarasse ateo8.
Dostoevskij ben sapeva che la civiltà è stata creata dall‟individuo che sce-
glie i valori, e che il privarlo di tale diritto costituisce una seria minaccia di
abbrutimento per gli uomini. Ma pare non tener presente che la struttura
sociale in cui domina un monismo di valori, è una pericolosa macina che
frange le particolarità individuali della personalità. Privando l‟individuo

4 N. BERDJAEV, Mirosozercanie Dostoevskogo, Moskva, Istoki, 1923, trad. it. La concezione


di Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1977, p. 14.
5 Si legga, al riguardo, quanto afferma ROMANO GUARDINI in Tre interpretazioni scrit-

turistiche. In principio era il Verbo – L’amore cristiano – L’attesa della creazione, Brescia, Morcel-
liana, 2000, pp. 87-91.
6 N. LOSSKIJ, Dostoevskij i ego cristianskoe miroponimanie, Moskva, Isdatelctvo imeni Če-

chova, 1953, p. 147.


7 F.M. DOSTOEVSKIJ, Dnevnik pisatelja za 1873 god, Moskva, Isdatelctvo, 1942, trad. it.

Diario di uno scrittore, a cura di E. Lo Gatto, Firenze, Sansoni, 1963, p. 219. Proprio questo
spiegherebbe perché, a giudizio di Dostoevskij, George Sand, il cui nome è in qualche mo-
do legato al socialismo, rimanesse una scrittrice cristiana. Cf. ivi, p. 712.
8 E. FROMM, Fuga dalla libertà, Milano, Mondadori, 1994, pp. 76-77.
364 Rossella De Rose

della libertà, essa anticipa la rovina del mondo. Dostoevskij ricordava anzi-
tutto che la libertà assoluta apre all‟individuo la possibilità della rivolta, a
volte insensata, che costituisce una minaccia di distruzione dell‟uomo e la
cagione della sua rovina. Egli comprendeva perfettamente, in quanto tutti
gli sforzi della cultura etica dell‟ortodossia tendevano proprio ad eviden-
ziare l‟ambivalenza della libertà naturale, le contraddizioni paradossali de-
rivanti dall‟autonomia della volontà9. «La libertà – annota Berdjaev – con-
sente il trionfo del male, e quest‟ultimo conduce alla sua eliminazione. […]
Con il tempo, la libertà degenera in un “bisogno” del male. A sua volta,
ogni limitazione della libertà in nome del bene conduce ad una bontà ine-
luttabile e coercitiva, ed anch‟essa degenera, in quanto il bene per neces-
sità non è tale, essendo la sua natura condizionata dalla libertà»10. Buona
parte degli interpreti non ha mancato di porre in rilievo come il dramma di
Aleksej Kirillov fosse attinente alla sfera della libertà naturale. Non è pro-
priamente così. Al pari di chiunque, a Kirillov è dato di poter scegliere dei
valori, ma l‟autentica cagione della sua caduta non risiede nella legge stessa.
Non si può limitare l‟essenza del kirillovismo11 al dramma della libertà na-
turale. Il suo destino rivela forse una tragedia ancor più profonda e ter-
ribile: il processo della riduzione ideologica della libertà cristiana. L‟es-
senza della libertà cristiana consiste nella volontaria restituzione a Dio del
diritto alla libera scelta. Ma esclusivamente a Dio. Imitare Cristo si ridur-
rebbe proprio ad imitare la Sua sottomissione alla volontà del Padre: «Però
non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu» (Matteo 26,39). Tale atto,
asserisce Evdokimov, costituisce la nostra risposta al disinteressato amore
di Dio per l‟uomo12. Dio elargisce amore senza ricompense, senza merito,

9 N. LOSSKIJ, Dostoevskij i ego cristianskoe miroponimanie, cit., pp. 100-103.


10 N. BERDJAEV, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 38.
11 Dostoevskij coglie perfettamente nei suoi romanzi la logica del nichilismo che non è

semplicemente ateistico, bensì rigorosamente antiteistico, anche se per lui il nichilismo


non è la conseguenza immanente dei valori tradizionali cristiani, ma una negazione di essi
nata in seno ad una particolare versione storica (cattolica e protestante) di quei valori. Nei
Demoni, l‟antiteismo si dirama in una serie di figure che ne manifestano le potenzialità: dal-
la noia metafisica di Stavrogin al costruttivismo sociale di Šigal‟ëv. Ma è in Kirillov che la
«logica dell‟ateismo» si dispiega con una coerenza esemplare. Poco prima di mettere in at-
to il suicidio, Kirillov chiarisce non soltanto la logica antiteistica dell‟autodeificazione del-
l‟uomo, bensì anche il significato redentivo che egli attribuisce al proprio suicidio: median-
te questo atto, non soltanto si riappropria della sua libertà trasferita in Dio, ma apre al-
l‟umanità la via della rivolta metafisica e della libertà totale, restituendo ad essa l‟attributo
principale della divinità: lo svoevolie, l‟arbitrio come libertà illimitata.
12 P. EVDOKIMOV, L’ortodossia, cit., p. 84.
Sulla filosofia della tragedia 365

e non in base ai meriti di ognuno, e tale amore obbliga a concedergli vo-


lontariamente la libertà naturale. E solo Dio ha il diritto di accettare tale
sacrificio. Attentare a questo diritto di Dio è forse, per i cristiani, il più ter-
ribile dei delitti. L‟intensa attività degli slavofili russi del XIX secolo, cui
Dostoevskij deve il modello della sua religiosità, è, nel suo genere un pro-
cesso di riduzione ideologica della libertà cristiana. Come ha rilevato Evdo-
kimov, «gli slavofili, anche se non sospettavano neppure di essere dei pec-
catori alla stessa stregua dell‟occidentale Feuerbach, ad essi inviso, attenta-
vano al diritto divino»13. E ciò veniva fatto – beninteso – non in nome del
culto „occidentale‟ dell‟individuo, bensì in nome del collettivo, dell‟obščina,
del bene del popolo, del principe-padre, dello zar, in breve in nome di qual-
siasi istituzione sociale che in seguito, per concisione, si chiamerà “organiz-
zazione”. Nell‟articolo Opinioni storiche e letterarie del «Sovremennik», Jurij
Samarin ebbe modo di asserire che «l‟esistenza degli slavi come comunità si
fondava sulla rinunzia cosciente e volontaria alla propria libertà in nome
dell‟obščina russa, trasformata nell‟analogo mondano della chiesa cristia-
na»14. Da ciò Dostoevskij trasse le estreme conseguenze, trasformando in
simile analogo l‟impero ortodosso, incarnazione, a suo giudizio, della fra-
tellanza e della cristianità. Konstantin Aksakov, a sua volta, sosteneva che il
popolo russo per sua stessa natura «non è tanto uno schiavo remissivo, quan-
to un riconoscente suddito e un fedele amico del potere»15. E, di nuovo,
Dostoevskij trasformò questo pensiero nell‟idea che ogni russo dovesse vo-
lontariamente cedere allo zar il proprio diritto alla libertà, come un fanciul-
lo al padre saggio e buono16. Tale «volontario, assolutamente cosciente e
per nulla coatto autosacrificio di tutto se stesso a favore di tutti»17, costi-
tuisce la risposta russa al culto occidentale dell‟io, al culto «dell‟individuo
esigente e in rivolta», in breve, all‟abuso della legge della libera scelta. Do-

13 Ivi, p. 86.
14 J. SAMARIN, Istoričeskie i literaturnye vzgljady «Sovremmenika», Moskva, Grazdaninim, 1933, p. 5.
15 K. AKSAKOV, Polnoe sobranie sočinenij, I, Moskva, Grazdanin, 1889, pp. 16-23. Si ve-

da anche il seguente passo: «Un tempo si era affidato al principe di Mosca, ora doveva vo-
lontariamente affidarsi allo zar di tutte le Russie» (ivi, p. 27).
16 «Da noi la libertà civica può stabilirsi nel modo più pieno, più pieno che in qualsiasi

altro luogo del mondo, che in Europa e perfino nell‟America del Nord, e appunto su que-
sta base adamantina essa si costruisce. Non viene cioè proclamata con un atto scritto, ma si
costruisce semplicemente sull‟amore filiale del popolo per lo zar, come un padre, perché
ai figli possono concedersi tante cose che sono impensabili presso altri popoli che si appog-
giano su contratti scritti» (F.M. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, cit., p. 1319).
17 F.M. DOSTOEVSKIJ, Zimnie zametki o letnich, Moskva, Grazdanin, 1865, trad. it. Note

invernali su impressioni estive, a cura di S. Prina, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 37.


366 Rossella De Rose

stoevskij stesso reputava Kirillov un «uomo imperfetto»18, prodotto dalla


riforma di Pietro e in una certa misura, come mostra con folgorante effica-
cia Arkadij Dolinin, «una variante superiore dell‟uomo del sottosuolo, quin-
di un prodotto importato, qualcosa sul tipo di uno strisciante contagio. […]
È indicativo che Dostoevskij lo definisse una figura a immagine di Belin-
skij»19. In una certa misura, il kirillovismo rappresenta una variante russa
dell‟hegelismo di sinistra, ma è nel contempo una idea pienamente nazio-
nale, interamente russa20. Se la sorte di Kirillov fosse determinata solo dal-
la dialettica della libertà naturale, «sul cammino della nostra vita incon-
treremmo il fratello minore dell‟Unico, der Einzige, Max Stirner, anche se
più coerente»21. Ma nel destino di Kirillov non è essenziale la vanagloria
«occidentale», che lo conduce alla apologia del suicidio, ma, per così dire,
la capacità e la disponibilità «orientali» a cedere il proprio diritto alla liber-
tà dell‟organizzazione. Kirillov offre la propria libertà non a Dio, bensì agli
uomini, al sistema, all‟idea. È interamente un allievo degli slavofili che, in-
vece dell‟impero teocratico ortodosso, si è trovato un altro Grande Inqui-
sitore: una organizzazione politica22. In tal modo, se Kirillov avesse scelto
il bene dell‟impero ortodosso, avrebbe trovato, si potrebbe dire, la verità
giusta. Tutta l‟ambiguità del cristianesimo consiste, per Dostoevskij, pro-
prio nel fatto che non è da considerarsi peccato il fatto stesso della ridu-
zione ideologica, o persino politica, della libertà cristiana, ma solo la cat-
tiva scelta, dal suo punto di vista, del Grande Inquisitore, cui il russo deve
offrire il proprio diritto alla libertà23.

18 F.M. DOSTOEVSKIJ, Neizdannyj Dostoevskij: zapisnye knizkij tetradi: 1860-1881, trad. it.

Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini: 1860-1881, a cura di P. Cazzola, Firenze, Vallecchi,


1980, pp. 133-137.
19 A. DOLININ, “Neizdannyj Dostoevskij”, Literaturnoe nasledstvo 83 (1971), p. 289.
20 Siffatta analogia è posta in primo luogo da N. BERDJAEV, Istoki i smysl russkogo kom-

munizma, Moskva, Grazdanin, 1955, trad. it. Le fonti e il significato del comunismo russo, a cu-
ra di L. Dal Santo, Milano, La casa di Matriona, 1985, pp. 70-71.
21 R. CANTONI, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 237.
22 N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., p. 39: «In Kirillov –

scrive Dostoevskij – c‟è un‟idea popolare: sacrificarsi subito per la verità […]. Sacrificare
se stesso e tutto per la verità: ecco il tratto nazionale di questa generazione. Benedicilo, si-
gnore, e invia a lui la comprensione della verità. Poiché il vero problema consiste proprio
nel cosa considerare verità». Cf. F.M. DOSTOEVSKIJ, Lettere sulla creatività, a cura di G. Pa-
cini, Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 81-84.
23 Dostoevskij pareva irritato dall‟idea che una organizzazione politica «importata», per

così dire, dall‟Occidente, usufruisse della disponibilità tipicamente russa a cedere la pro-
pria libertà ad una istanza sovra individuale (F.M. DOSTOEVSKIJ, Saggi, a cura di G. Pacini,
Milano, Mondadori, 1997, pp. 66-70.
Sulla filosofia della tragedia 367

2. La nascita dell’Anticristo

Kirillov possedeva ancora un‟altra proprietà tipicamente russa: riusciva


a comprendere e sentire la problematica etica degli altri popoli. Per questo
motivo, con tanta facilità si era lasciato coinvolgere nella polemica tra l‟uo-
mo e Dio, che diversi filosofi europei, a partire da Hegel, avevano inter-
pretato come il conflitto tra il Signore e lo schiavo. Il Dio-tiranno aveva tor-
mentato Kirillov per tutta la vita, e contro questo Dio egli era insorto: «Per
me nulla è più alto dell‟idea che non c‟è Dio. Tutta la storia umana è in
mio favore. L‟uomo non ha fatto altro che inventare Dio per vivere senza
uccidersi; in questo sta tutta la storia universale fino ai giorni nostri. Io solo
per la prima volta nella storia universale non ho voluto inventare Dio»24.
«Tutti ci pensano e subito dopo pensano ad altro. Io non posso pensare ad
altro, è tutta la vita che penso a una cosa sola. Dio mi ha tormentato tutta
la vita» 25 . Pronunciando queste parole, Kirillov versava in uno stato di
estrema eccitazione, e chiaramente esagerava. Naturalmente, non era il pri-
mo che desiderasse smettere di inventare Dio26. Sul carattere della rivolta
kirilloviana ha impresso una svolta singolare Michajl Bakunin, il quale rite-
neva che, in materia religiosa, l‟uomo e Dio fossero le due componenti di
una antinomia insuperabile. A Dio sono connessi la verità, il bene, la vita,
all‟uomo la menzogna, il male, la morte. L‟uomo che scorge in Dio il suo
Signore spontaneamente si tramuta in schiavo. L‟emancipazione dell‟uomo
da questa schiavitù significa la morte dell‟idea di Dio. E poiché l‟obiettivo
fondamentale è fondare il regno della libertà, la lotta contro Dio diverrà in
fine sacro dovere27. Il punto di partenza delle riflessioni kirilloviane è assai
prossimo al pensiero di Bakunin. Ciò nondimeno, egli sottolinea che, se
Dio esiste, l‟uomo è privato della possibilità di scelta tra la vita e la morte.
«Se Dio c‟è, tutta la volontà è in lui, e dalla Sua volontà io non posso libe-
rarmi. Se non c‟è, tutta la volontà è mia, e ho l‟obbligo di affermare l‟arbi-
trio»28. Tale interpretazione della rivolta è tipica di una coscienza servile

24 ID., Besy, Moskva, Grazdanin, 1871-1872, trad. it. I demoni, a cura di R. Kufferle,
Milano, Mondadori, 1987, p. 107.
25 Ivi, p. 604.
26 Scrive ANDRÉ GIDE: «Era uno dei numerosi discepoli russi di Feuerbach e, come il

maestro, intendeva Dio come risultato dei complessi dell‟umanità, che non ardiva credere
nella propria forza. E sebbene egli avesse una conoscenza di seconda mano dell‟hegelismo
di sinistra, pronunciava le proprie lezioni su Feuerbach in modo interessante e accurato»
(Dostoevskij, Paris, Plon, 1923, p. 36).
27 M. BAKUNIN, L’empire knouto-germanique et la révolution sociale 1870-1871, trad. it. L’im-

pero knouto-germanico e la rivoluzione sociale 1870-1871, Catania, Monforte, 1993, pp. 30 sgg.
28 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., pp. 603-604.
368 Rossella De Rose

primitiva29. Lo schiavo deve occupare il posto del suo signore. I ragiona-


menti di Kirillov hanno una propria logica. Se l‟individuo ha concentrato
tutte le proprie possibilità più elevate nella idea di Dio, egli deve effettiva-
mente ed anzitutto riottenere le sue proprietà perdute. In questo processo
di restituzione dei beni spirituali al possessore originale, la volontà di Dio
deve essere sostituita dall‟arbitrio dell‟uomo30. L‟errore logico di Kirillov,
ma non ancora quello che rileva Stavrogin, è approssimativamente il se-
guente. Per Kirillov, Dio è una proiezione dell‟uomo. Da un lato rappre-
senta il simbolo della legge della natura, ed è quindi necessità inesorabile.
Dall‟altro, riunisce le sconfinate possibilità dell‟uomo, ed allora è la libertà
assoluta. Kirillov si riferiva all‟arbitrio dell‟uomo, quando discuteva del ti-
ranno che «bisogna rovesciare». Egli non ha rilevato che nella sua rivolta è
già espressa tutta la verità sull‟arbitrio dell‟uomo, e scorgeva l‟intero senso
di questa rivolta proprio nell‟appropriarsi dell‟arbitrio. «Per tre anni ho cer-
cato l‟attributo della mia divinità e l‟ho trovato: l‟attributo della mia divini-
tà è l‟Arbitrio!»31. Quei sistemi filosofici che, alla pari del cristianesimo,
trattavano di una libertà più elevata di quella naturale, limitavano la libertà
dell‟uomo, difendendolo con ciò stesso dall‟imperversare del male. Sotto
questo aspetto, Kirillov costituisce un‟eccezione, poiché afferma che la
massima espressione dell‟arbitrio dell‟uomo è il suicidio: «Chiunque voles-
se la libertà essenziale, deve osare uccidersi. Chi osa uccidersi ha scoperto
il segreto dell‟inganno»32. «Ho l‟obbligo di spararmi, perché la suprema pie-
nezza del mio arbitrio è uccidere me stesso»33. Se si considera che, nella sua
concezione, solo Dio è „padrone‟ della vita umana, la scelta della morte deve
naturalmente diventare la manifestazione suprema della rivolta. Il suicidio

29 Cf. S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 2005, il quale ribadisce

tale concetto specificando che si tratta di un tipico procedimento feuerbachiano.


30 Così Kirillov: «Possibile che nessuno, su tutto il pianeta, avendo posto fine a Dio e

messosi a credere nell‟arbitrio, osi affermare l‟arbitrio in tutta la sua pienezza? È come se
un povero avesse ricevuto un‟ eredità e ne fosse spaventato, e non osasse avvicinarsi al sac-
co, stimandosi troppo debole per possederlo. Io voglio affermare l‟arbitrio. Sarò il solo,
ma lo farò» (F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 604).
31 Ivi, p. 606. Cf., al riguardo, le affermazioni di JA.S. GOLOSOVKER: «Il fatto è che

l‟arbitrio è un tiranno che, come insegnano le riflessioni di Max Stirner, conduce alla di-
struzione della libertà. […] Neppure Bakunin ha commesso questo errore. Pur apparte-
nendo agli hegeliani di sinistra, era più interessato alla sociologia che alla metafisica. Come
Hegel, tra l‟altro, egli riteneva che Dio, come ogni signore, esistesse per sé solo grazie al-
l‟altro, l‟autrui, innanzitutto grazie allo schiavo. Perciò la libertà tolta a Dio sta nell‟in-
fluenza, nei rapporti reciproci, e non in una esistenza autosufficiente e nell‟arbitrio della
solitudine» (Dostoevskij i Kant, Moskva, Isdatelctvo, 1953, pp. 44-45).
32 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 107.
33 Ivi, p. 604.
Sulla filosofia della tragedia 369

cancella di colpo la vergogna di una coscienza servile: la paura della morte.


Nella prima stesura, Dostoevskij presentò l‟idea di Kirillov in modo ben
chiaro: «Quando esisteva Dio, non osavo disporre della mia vita»34. E in
questo caso, Kirillov ragionava coerentemente. La rivolta contro Dio è rivol-
ta contro la vita, poiché l‟uomo è votato da Dio alla vita. Kirillov ritiene
dunque che il suicidio sia un atto di divinizzazione. «Quello per cui sarà lo
stesso vivere o non vivere, quello sarà l‟uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e
la paura, sarà lui Dio»35. «Allora ci sarà una vita nuova, un uomo nuovo, tut-
to nuovo. […] L‟uomo sarà Dio e si trasformerà fisicamente. Anche il mon-
do si trasformerà, e si trasformeranno le azioni e i pensieri e tutti i senti-
menti»36. Forse, Dostoevskij ha voluto che Kirillov si esprimesse con il lin-
guaggio di S. Paolo, da parte del quale si è appreso che la resurrezione di
Cristo avrebbe aperto un processo di trasfigurazione della struttura dell‟es-
sere umano, di trasfigurazione della materia stessa, di tutto il mondo, of-
frendo la possibilità di un mutamento dell‟esistenza e di un rinnovamento di
essa. Kirillov pure argomenta di un grande mutamento, e ne collega l‟avvio
al proprio suicidio. Proprio questa morte, lo trasformerà in uomo-Dio, ed
egli diverrà il nuovo salvatore dell‟umanità, spingendo Cristo nell‟ombra37.
Le velleità di Kirillov sono di carattere soteriologico, e perciò la sua rivalità
con Cristo lo trasforma, in ultima analisi, nell‟anticristo. Nel mondo non c‟è
finalità né colpa. Il mondo deve essere accettato insieme alla sofferenza in-
sensata ed alla ingiustizia terrificante. La felicità di Kirillov come la gioia di
Nietzsche, è condizionata dalla negazione del limite tra il bene e il male.
«L‟uomo è infelice perché non sa di essere felice, solo per questo. Chi lo ca-
pisce subito è felice, nello stesso momento. Questa suocera morirà, ma la
bambina rimarrà: tutto è bene. L‟ho scoperto improvvisamente». Tutto il
sistema dei valori etici non è che un inganno, i discorsi sul peccato sono un
inganno, la colpa ed il castigo sono un inganno che impedisce agli uomini
di riconoscere la felicità ed essi divengono cattivi. Chi presenterà questo
inganno in una luce veritiera, diventerà il vero salvatore dell‟umanità, poi-
ché mostrerà all‟uomo la sua bontà. «Sono cattivi perché non sanno di es-
sere buoni. Quando lo sapranno, non violenteranno più una bambina. Bi-
sogna che sappiano che sono buoni, e tutti diverranno subito buoni, dal
primo all‟ultimo»38. Nel Nuovo Testamento, il mondo viene presentato co-
34 ID., Quaderni e Taccuini, cit., p. 330.
35 ID., I Demoni, p. 106.
36 Ibid.
37 Cf. il noto passo del colloquio con Stavrogin: «Chi insegnerà che tutti sono buoni,

farà finire il mondo. Chi lo insegnava fu crocifisso. Verrà ed il suo nome sarà uomo-Dio.
Dio-uomo? No, uomo-Dio, c‟è una differenza» (ivi, p. 222).
38 Ivi, pp. 221-222.
370 Rossella De Rose

me uno spazio misterioso, pieno di valori etici, in cui si scatena la lotta tra
bene e male. L‟anticristo moderno si pone, anzitutto, al di fuori di questa
lotta. Cristo non ha affermato che avrebbe liberato gli uomini dal peso del-
la scelta con tocco magico, e che senza sforzi da parte loro li avrebbe tra-
sformati in agnelli innocenti. Egli non prometteva di estirpare i delitti, le
atrocità, le ingiustizie. Al contrario, egli stesso fu coperto di ingiurie ed in-
fine ucciso. Di contro, l‟anticristo afferma che il suicidio pedagogico influi-
rà proprio magicamente sulla volontà di tutta l‟umanità, in modo che, in-
fine, gli uomini diverranno indifferenti al bene e al male. «Comincerò e fi-
nirò e dischiuderò la porta. E salverò gli uomini»39. Vittorio Strada ha trat-
to da questi passi la convinzione che «come modello di “uomo nuovo”, il
moderno anticristo era naturalmente “importato”. Era stato “introdotto” in
Russia dagli hegeliani di sinistra. Ma la sua esasperata crudeltà verso se
stesso è un fenomeno interamente nazionale, “locale”, russo»40. Desideran-
do mostrare a se stesso che gli era assolutamente indifferente vivere o mo-
rire, Kirillov ha concesso il momento del suo suicidio alla organizzazione
rivoluzionaria. Per questo, egli può affermare: «Non so il giorno della mia
morte» (Genesi 27,2). A queste parole egli conferisce un significato origina-
le. A padrone della propria esistenza, egli non ha elevato Dio, ma una or-
ganizzazione alla quale attribuiva tutte le funzioni divine. Nell‟imitare i cri-
stiani, per i quali la libertà suprema consiste nella volontaria restituzione a
Dio della propria libertà naturale, Kirillov, altrettanto spontaneamente,
concede la propria vita all‟organizzazione. «Ma non c‟è stato patto, io non
mi sono legato in nessun modo. Non c‟era altro che la mia volontà, e ora
non c‟è altro che la mia volontà» – si rivolge a Pëtr Verchovenskij quando
si reca da lui con le ultime notizie41. Il fatto che egli prenda su di sé il pec-
cato della organizzazione, ha qui, in realtà, una importanza solo secondaria.
Non è che indice della umiliazione di se stesso. In parte, Kirillov perde se
stesso quasi inconsciamente, in quanto ai suoi occhi l‟esistenza stessa è viltà
e assurdo. In ultima analisi, ha „ceduto‟ la propria morte ad una volontà
che disprezza42. Non crede alla vita e gli è realmente indifferente chi e quan-
do deciderà l‟ora della sua morte, l‟ora della vittoria sulla vita e su Dio.
L‟angelo dell‟Apocalisse, che chiuderà per lui il conto del tempo, sarà l‟ul-
timo dei mascalzoni che egli abbia mai conosciuto. «Tu sei un mascalzone –
dice a Pëtr Verchovenskij – e sei uno spirito falso. Ma io sono tal quale come

39 Ivi, p. 606.
40 V. STRADA, Il superuomo e il rivoluzionario nella prospettiva di Dostoevskij, in Dostoevskij e
la crisi dell’uomo, Firenze, Vallecchi, 1991, p. 166.
41 F.M. DOSTOEVSKIJ, I Demoni, cit, p. 349.
42 S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, cit., p. 67.
Sulla filosofia della tragedia 371

te, e mi sparerò, mentre tu rimarrai in vita»43. Egli ha così privato Dio del
potere sul momento della sua morte, e ne ha investito gli uomini. Cessando
di essere una proprietà di Dio, Kirillov ha insieme cessato di essere una per-
sona; è divenuto lo strumento di una organizzazione politica. E la sua libertà
è scomparsa ancor prima di lui, sebbene l‟intento fosse quello di manifestare
il supremo arbitrio. L‟anticristo ha sostituito al culto „occidentale‟ dell‟indi-
viduo, il culto „orientale‟ della organizzazione, che costruisce il proprio po-
tere sugli individui che ad essa cedono il diritto alla libertà44. San Paolo non
utilizzava il termine «anticristo»45. Pare che esso derivi da S. Giovanni Evan-
gelista. Tuttavia, Paolo parlava dell‟anticristo ricorrendo a varie perifrasi: «la
manifestazione dell‟uomo della iniquità, del figlio della perdizione, colui che
si contrappone è si innalza sopra ogni cosa che viene detta Dio, o è oggetto di
culto; fino ad assidersi nel Tempio di Dio, additando se stesso come Dio»46.
Paolo pareva intendesse riferirsi all‟idea di eterna perdizione, che è l‟opposto
della salvezza eterna. Nell‟anticristo moderno questi due concetti non sono
affatto contrapposti. Anzi egli presenta la perdizione come salvezza, ricor-
dando in ciò proprio gli indiavolati ed insolenti apostati romantici. Ad atten-
derci è il nulla, ed esso rappresenta la nostra felicità suprema. L‟anticristo de
I Demoni – difficile stabilire se consciamente o inconsciamente – infama la fe-
de nella seconda venuta di Cristo. Secondo le norme etiche di Dostoevskij,
egli è purtuttavia un individuo onesto, anche se profondamente immorale. A
Kirillov non interessa fingere di essere un Cristo. Anzi, lotta apertamente
contro quest‟ultimo, ritenendo che Gesù fosse un falso salvatore dell‟uma-
nità. Ma è estremamente importante che Kirillov ricorra alle parole del Fi-
glio di Dio, deformandone continuamente la rivelazione con l‟apologia della
perdizione. Xavier Tilliette ha efficacemente osservato che simile anticristo
non avrebbe potuto apparire in epoca illuminista, quando gli apostati si
battevano innanzitutto contro il Dio Padre. Egli apparve proprio allorché le
diverse ideologie sociali – del resto veramente interessate, a volte, alla sorte
dell‟uomo sulla terra, come il socialismo innanzitutto – iniziarono a mani-
festare un interesse esclusivo per l‟antropologia del Nuovo Testamento, il
cui fondamento è la “scienza” di Gesù Cristo47. In breve, quando ebbe inizio
l‟epoca della riduzione ideologica della religione cristiana, nella civiltà euro-

43 F.M. DOSTOEVSKIJ, I Demoni, cit., p. 603.


44 V. STRADA, Il superuomo e il rivoluzionario nella prospettiva di Dostoevskij, cit., p. 200.
45 Cf. F. GRYGLEWICS, Listy katolickie, Poznan, 1959, pp. 375-376; e ancora, J. STEPIEN,

Listy do Tessaloniczan i pasterskie, Poznan-Warszawa , 1979, pp. 273-278.


46 Tess II. 2, 3-4.
47 X. TILLIETTE, Le Christ de la Philosophie, Paris, Les Éditions du CERF, 1990, trad. it. Il

Cristo della filosofia, a cura di G. Sansonetti, Brescia, Morcelliana, 1997, pp. 145 sgg.
372 Rossella De Rose

pea comparve il vero anticristo preannunciato dal Vangelo. Perciò nel XIX se-
colo il cristianesimo iniziò ad essere sottoposto ad una nuova, più dram-
matica prova.

3. Parodia del Golgota

Nel discorso al Tempio, Gesù affermò: «Se perseverate nella mia parola,
sarete davvero miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà li-
beri» (Giovanni 8,31-32). Il beato Massimo Confessore sottolineava costan-
temente che la libertà di Cristo non era libertà di scelta. Cristo non era
incerto, non esitava e la sua volontà si univa spontaneamente a quella del
Padre. Questo stato della volontà umana nella figura del Cristo veniva defi-
nito dai padri della chiesa «divinizzazione della volontà»48. A sua volta un‟al-
tra insigne autorità della ortodossia, san Giovanni Damasceno, rimarcava
che la volontà di Gesù rimane pur tuttavia umana, proprio a causa della sua
sottomissione al Padre49. Mosso da amore per il creatore, l‟uomo deve vo-
lontariamente adempiere ai suoi comandamenti, come se fosse il suo desi-
derio. Il consenso di Cristo: «Sia fatta la tua volontà» era per Massimo la
più alta manifestazione di libertà. Naturalmente, la morte volontaria sul
Golgota sarebbe stata assurda, se ad essa non avesse fatto seguito la resur-
rezione, che è la risposta divina all‟atto della libera sottomissione della vo-
lontà del Figlio al Padre. Senza la fede nella resurrezione la libertà cristiana
si trasforma in un non-senso. « Se infatti non si dà resurrezione di morti, –
si legge nella Prima lettera ai Corinzi – neanche Cristo è risorto; e se Cristo
non è risorto è inutile la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati»
(15,16-17). Dunque, Kirillov, la cui morte, come la fine di ogni anticristo,
si trasforma nella parodia della morte di Gesù sulla croce, si fa beffe della
idea della fede nella resurrezione. Il buon ladrone non vivrà in paradiso,
poiché non v‟è alcuna vita ultraterrena. Morendo, Cristo ha ingannato se
stesso e i suoi compagni di sofferenza. «Ma hanno obbligato anche lui a vi-
vere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna»50, osserva Kiril-
lov riferendo il suo pensiero al dramma del Golgota. Albert Camus rite-
neva che Kirillov concepisse il Cristo come un proprio pseudo-predeces-
sore: Cristo era soltanto uno pseudo uomo-Dio, che, peraltro, Camus in-

48 P. EVDOKIMOV, L’ortodossia, cit., p. 84.


49 K. ROZEMOND, La christologie de Saint Jean Damascène, Paris, Ettel, 1959, pp. 33-34.
50 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 605.
Sulla filosofia della tragedia 373

dividuava come immagine dell‟assurdità del nostro destino51. Infatti, cia-


scuno di noi «in una certa misura» è crocifisso e ingannato. In tal caso, l‟an-
ticristo è il vero uomo-Dio, che non ha creduto nell‟inganno della immor-
talità. La soteriologia si riduce proprio al rifiuto dell‟idea della vita eterna52.
La morte di Cristo fu accompagnata da fulmini e rombi di tuono, che di
volta in volta scuotevano la montagna santa, l‟asse cosmico del mondo. La
croce su cui muore Gesù mostra agli uomini che il Figlio di Dio morente è
il sovrano del mondo, poiché i quattro bracci della croce, cingendo, nella
loro mistica continuazione, l‟essere, l‟altezza e la profondità, la lunghezza
e la larghezza, riuniscono, nel Cristo morente, l‟universo53. L‟anticristo de
I demoni se ne va come un militare cui il superiore abbia ordinato di spararsi.
Adempie al proprio mostruoso obbligo mettendosi sull‟attenti. Tutto indi-
ca come egli sia colto da un attacco isterico, sintomo dell‟inizio di un ac-
cesso epilettico. Dalle affermazioni del principe Myškin si apprende che il
minuto precedente la perdita della coscienza «si rivela formato in sommo

51 A. CAMUS, Le mythe de Sisyphe, Paris, Gallimard, 1942, trad. it. Il mito di Sisifo, in ID.,

Opere, a cura di R. Grenier, Milano, Bompiani, 1992, p. 100. Scrive inoltre Camus: «Un
mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare, ma
viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l‟uomo si sente un
estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o
della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l‟uomo e la sua vita, fra l‟attore e
la scena, è propriamente il senso dell‟assurdo» (p. 30). Camus cerca il rapporto fra l‟as-
surdo e il suicidio, «la misura esatta nella quale il suicidio sia una soluzione dell‟assurdo».
Lo scrittore francese dedica molte pagine a Kirillov (p. 153), ma la interpretazione ch‟egli
fornisce di questa singolare figura non convince appieno. Kirillov non si uccide, come
pensa Camus, perché l‟esistenza gli pare assurda, bensì per affermare il suo libero arbitrio,
perché ha scoperto la leva con cui sollevare il mondo, l‟attributo della sua divinità. La sua
morte sarà lo scandalo che richiamerà l‟attenzione degli uomini sul nuovo evento: la morte
di Dio, la liberazione dalla paura, la razionalità del mondo.
52 Ecco la descrizione del luogo in cui il falso Cristo ha concluso il suo cammino ter-

reno: «Contro la parete opposta alla finestra, a destra della porta, c‟era un armadio. A de-
stra di questo armadio, nell‟angolo formato dall‟armadio e dal muro, stava Kirillov, e stava
in un atteggiamento stranissimo: immobile, rigido, con le braccia tese lungo i fianchi, la te-
sta sollevata e la nuca appoggiata con forza al muro, proprio nell‟angolo, pareva che voles-
se scomparire ( stuševat’sja) e nascondersi» (F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 610). Il
verbo stuševat’sja – si apprende dal Diario di uno scrittore – significa «scomparire, annientarsi,
ridursi, per cosi dire, al nulla. Ma annientarsi non all‟improvviso, non scomparire nella
terra con tuoni e lampi, ma, per cosi dire, delicatamente, pianamente, impercettibilmente,
sprofondandosi nel nulla. A quel modo in cui l‟ombra nella parte sfumata di un disegno si
distende dal nero gradualmente passando al più chiaro fino al completamente bianco, al
nulla» (F.M. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, cit., p. 1145).
53 S. GIOVANNI DAMASCENO, La fede ortodossa, Roma, Città Nuova, 1998, pp. 197 sgg.
374 Rossella De Rose

grado di armonia e di bellezza e da un senso inaudito, mai prima conosciu-


to, di pienezza, di equilibrio, di pace e di trepidante, e statica fusione con
la sintesi suprema della vita»54. Kirillov scompare annebbiato dalla sua de-
moniaca infermità, ed evidentemente nella piena convinzione che si com-
pia il destino dell‟umanità, anche se è il solo, nella solitudine più completa,
a vivere la scomparsa (stuševanie) mistica della sua epoca. Tutto ciò è in-
negabilmente assai misterioso, ma da un certo punto di vista, questa morte
rimane solo l‟esaltazione personale dell‟anticristo. Qui non si tratta, né
può trattarsi, di sovvertimento del mondo55. Il significato della figura kiril-
loviana determina l‟errore di cui parla Stavrogin. Questi due personaggi si
conoscevano bene, e non va trascurato ciò che ognuno di essi dice riguardo
all‟altro. Per Kirillov, Stavrogin rappresenta la vivente antinomia della tesi
e della antitesi, che non può essere sintetizzata. « Stavrogin, se crede, non
crede di credere. Se invece non crede non crede di non credere»56. Quindi,
l‟incredulità lo ha formato come essere indefinito e incerto della propria
sorte. A sua volta, Stavrogin scorge in Kirillov un uomo profondamente re-
ligioso: «Se vi accorgeste che credete in Dio, si credereste; ma poiché non
sapete ancora di credere in Dio, non ci credete, fece Nicolaj Vsevolodovič sor-
ridendo»57. Sistematicamente, Kirillov ha trasformato tutta la sua natura in
un ossimoro. L‟essenza del suo essere è definita dalle seguenti parole: «Io
ho l‟obbligo di affermare l‟incredulità»58. Dunque, la sua antropologia si
riduce alla fede nella incredulità. Questa non è affatto una nuova conce-
zione del mondo, ma nient‟altro che un travisamento della fede cristiana,
la tipica forma di inganno cui ricorre ogni anticristo59. Egli non commette
sacrilegio, bensì semplicemente, con un grido d‟amore per l‟umanità, sot-
trae la fede al cristianesimo, disonorando essa con la sua ideologia60. Kiril-

54 F.M. DOSTOEVSKIJ, Idiot, Moskva, Grazdanin, 1870, trad. it. L’idiota, a cura di A.

Polledro, Torino, Einaudi, 1991, p. 225.


55 Così A. GIDE: «Ancora un attimo, e nell‟angolo tra la parete e l‟armadio crollerà il

falso Cristo per scomparire come una macchia d‟ inchiostro caduta dalla penna di Feuer-
bach» (Dostoevskij, cit., p. 83).
56 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 603.
57 Ivi, p. 233.
58 Ivi, p. 604.
59 X. TILLIETTE, Il Cristo della filosofia, cit., p. 71.
60 Ibid. Prosegue Tilliette: «In epoca illuminista gli apostati dichiaravano apertamente

che non esiste Dio, rifacendosi ad un aneddoto arguto o alla scienza. In epoca romantica
essi veneravano Belial. Nella seconda metà del XIX secolo, infine, gli apostati cedettero alla
incredulità, inaugurando con ciò stesso l‟epoca del travisamento della antropologia del Nuo-
vo Testamento, epoca di speculazione ideologica sulla parola di Cristo» (ivi, p. 82).
Sulla filosofia della tragedia 375

lov inizia come abolizionista interessato al movimento degli uomini-schiavi


contro il Dio-signore, per terminare come anticristo, che trae dal Nuovo
Testamento parole, parabole, simboli religiosi, conferendo ad essi via via,
nel suo sproloquio ideologico, tutt‟altro significato che oltraggia il segno e
il verbo come tali. La vita e la morte di Aleksej Nilyč Kirillov consentono
di riconoscere i metodi ed i mezzi dell‟anticristo dell‟età moderna. Tolto
di mezzo Dio, ucciso nell‟uomo, e liberato l‟uomo-Dio, la menzogna non
ha più ragion d‟essere, così come non ha più ragion d‟essere la verità o il
senso del mondo. Il nodo che stringe la storia dell‟uomo è sciolto, perché
allora la menzogna è indifferentemente convertibile nella verità, come la
morte lo è nella vita e il tempo nel suo intemporale arresto eterno. Se
l‟uomo è libero, se libertà significa perfetta risoluzione dell‟universale ri-
gurgito di morte nella volontà di vita come volontà in grado di controllare
e dominare la morte al punto di volerla ( dirà la stessa cosa anche Ivan Ka-
ramazov, quando assicurerà che anche se gli si dimostrasse che il mondo è
una beffa del diavolo, vorrebbe vivere ugualmente, vorrebbe vivere l‟assur-
do e il puro fatto, vorrebbe vivere la morte), se in conclusione cessa, come
arrestandosi nello stesso arresto del tempo, la pensabilità d‟un senso ul-
timo, futuro, anteriormente futuro, che dia conto anche della insensatezza
presente o almeno ne attesti la irriducibilità al senso, allora ogni istante ap-
parirà sempre perfettamente adeguato a se stesso e tale da non poter essere
che quello che è. Perciò il rapporto tra l‟istante eterno e la morte si con-
figura in Kirillov come rapporto d‟identità: l‟istante eterno è la morte.
Con mostruosa coerenza, quindi, Kirillov sfida il sarcasmo, pungente ma
solo in superficie – come è proprio di quel «genio della superficialità» che
è Stavrogin – di chi gli fa osservare che lì si sta giocando a bussolotti con il
tempo, o di chi, ancora più superficialmente, afferma che l‟istante della
morte, per essere eterno, dura assai poco, e il tempo per deificarsi viene a
mancare61. Anche Kirillov, allo stesso modo di Ippolit ne L’idiota, consi-
dera la brutalità con cui la natura suscita la vita per divorarla, umiliandone
il senso là dov‟esso si era dato, come la dimostrazione che l‟essere è men-
zogna, ossia illusorio conato redentivo. Ma anziché trarre la conclusione –
come fa Ippolit – che la realtà è irredimibile, Kirillov nella stessa premessa
del suo ragionamento trova il motivo per affermare: la realtà è irredimibile,
perché è già redenta. Si capisce bene come, dal punto di vista di Kirillov –
che qui riprende e sviluppa in maniera superba il pensiero di Ippolit – il re-

61 S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, cit., p. 96.


376 Rossella De Rose

dentore sia messo a morte dalla logica infernale della redenzione. È la re-
denzione che bisogna negare, dunque, come bisogna negare Dio che impo-
ne essa dal suo nulla al nulla della terra irredenta, perché la terra sia quella
che è: redenta, così perfettamente redenta da esserlo al massimo grado, ir-
revocabilmente e come oltrepassandosi dall‟uomo al superuomo in quel-
l‟arresto del tempo in cui, per via dell‟identità di istante eterno e morte,
della redenzione non ne è più nulla.
EMILIO MARIA DE TOMMASO

Sulle ginocchia di Uriel.


La tragica vicenda di Da Costa e la sua influenza su Spinoza

In un dipinto del pittore Samuel Hirszenberg (1865-1908), intitolato Uriel


D’Acosta che istruisce il giovane Spinoza, l‟artista ritrae un giovanissimo Spinoza,
dai boccoli d‟oro, seduto sulle ginocchia di Uriel Da Costa, intento nell‟atto
di educarlo. Sorvolando sull‟alta improbabilità della situazione e su tutto il
dibattito circa il significato simbolico del ritratto, esso offre uno spunto di
riflessione sul rapporto tra il marrano eretico Uriel e l‟inquietante Baruch.
Entrambi furono accomunati dall‟onta del bando ed espressero fastidio
nei confronti della dottrina rabbinica, tanto da sentire il bisogno di confron-
tarsi direttamente con il testo biblico, del quale fornirono nuovi criteri ese-
getici. È possibile che il giovane Spinoza, se anche non avesse conosciuto di-
rettamente il portoghese, ne sia stato comunque influenzato dall‟inquieta ri-
flessione? Si può congetturare che la giovane coscienza in formazione del fu-
turo autore dell‟Ethica sia stata scossa dalla tragica vicenda di Uriel Da Costa?
Nel presente lavoro si ricostruirà rapidamente la biografia di Da Costa
seguendo il racconto dell‟Exemplar humanae vitae, sebbene oggi la sua auten-
ticità sia messa fortemente in dubbio, della qual cosa si renderà conto in
nota; inoltre, si mostrerà come il recente ritrovamento del testo più ere-
tico del corpus dacostiano, l‟Exame das tradições phariseas (1624)1, abbia aper-
to nuovi scenari interpretativi sul rapporto Da Costa-Spinoza, a partire da
alcune assonanze col testo del Tractatus Theologico-politicus e dell‟Ethica.

1. Il travaglio dell’Exemplar humanae vitae

Quella di Uriel era una famiglia di conversos, ebrei convertiti con la forza
al Cristianesimo dalla repressione dei regni iberici. Il padre, Bento, per
ammissione dello stesso figlio era un cristiano convinto, ma la madre, Sa-
rah, pare fosse rimasta legata al credo ebraico. Gabriel (assumerà il nome

1 URIEL DA COSTA, Examination of pharisaic traditions, facsimile of the unique copy in

the Royal Library of Copenhagen, translation, notes and introduction by H.P. Salomon
and L.S.D. Sasson, E.J. Brill, Leiden, 1993, pp. XI-XIII.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 377-392 377


378 Emilio M. De Tommaso

di Uriel solo dopo la conversione all‟ebraismo), ricevette un‟educazione


cristiana e studiò diritto canonico all‟università di Coimbra. La morte im-
provvisa del padre Bento, sopraggiunta nel 1608, lo costrinse ad abbando-
nare gli studi, ma ottenne un beneficio ecclesiastico, la carica di tesoriere
di una chiesa collegiale di Porto. Condusse, per quanto se ne sa, una vita
estremamente morigerata, scandita dal rituale settimanale della confessio-
ne e segnata dal terrore per la dannazione eterna:
Mi consumavo – scriveva nell‟Exemplar humanae vitae – per la tristezza e il do-
lore. Mi parve impossibile confessare i miei peccati secondo il costume cat-
tolico per ottenere così una piena assoluzione; impossibile osservare alla let-
tera tutto ciò che era richiesto: di conseguenza, posto che si dovesse conse-
guire con tali modelli, disperai della salvezza2.

Il suo travaglio interiore lo portò a cercare soluzione ai propri dubbi nelle


Sacre Scritture, ma le contraddizioni in cui s‟imbatté tra i vangeli e i libri
mosaici lo convinsero a volgersi all‟ebraismo3: la religione cristiana sem-
brava incompatibile con la ragione umana e gli sembrava impossibile che
Dio creatore impartisse insegnamenti contrari a quanto egli stesso aveva
disposto. La Legge di Mosè, invece, era stata rivelata da Dio all‟uomo, che
ne era semplice portavoce4.
In Portogallo, in quel tempo, era vietata la pratica ebraica e i marrani,

2 U. DA COSTA, Exemplar Humanæ vitæ, § 3, in O. PROIETTI, Uriel Da Costa e l’«Exemplar

humanae vitae», Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 142-179 (d‟ora in poi Exemplar). Nel de-
scrivere la vicenda di Uriel Da Costa, D. LEVIN commenta: «la sua protesta fu troppo tor-
mentata e intrisa di emozione. Fu una tipica espressione di ciò che doveva significare ribel-
lione nell‟ambiente marrano, in cui le onde che s‟infrangevano contro l‟ortodossia prove-
nivano da due orizzonti: c‟era lo scetticismo profondamente radicato nei confronti dei
dogmi e una vibrante storica influenza del Cattolicesimo» (Spinoza. The young thinker who destroyed
the past, New York, Weybright and Talley, 1970, p. 143).
3 Malgrado che i suoi antenati fossero ebrei, «Gabriel effettivamente non conosceva le

sue origini ebraiche né aveva il minimo sentore del destino dei Marrani. Egli era
tormentato solo dalle importanti questioni della metafisica Cattolica. Qual era la retta via
per l‟eterna salvezza dell‟anima? Esisteva realmente un aldilà? Qual era il rapporto tra fede
e ragione? Queste erano le domande che lo agitavano. La confessione non gli pro-curava
alcun sollievo, il libri e i teologi non fornivano risposte al suo impulsivo questionare. Gli
arrivavano alle orecchie solo parole, parole dagli uomini e parole dai libri […]. Erano vere
le dottrine della Chiesa? Provenivano realmente da Dio? […] Il vero Cristianesimo è nelle
parole che Dio stesso ha pronunciato, tutto il resto è artificiale e falso. Il vero Cri-
stianesimo è solo il Giudaismo rivelato da Mosè e dai profeti» (R. KAYSER, Spinoza. Portrait
of a spiritual hero, New York, Philosophical Library, 1946, pp. 32-33).
4 Exemplar, § 5, p. 145.
Sulle ginocchia di Uriel 379

cioè i conversos che continuavano a praticare segretamente il culto giudaico,


erano costretti all‟esilio per sfuggire alla persecuzione5. Fu così che nella
primavera del 1614 Gabriel (ormai Uriel, nome che significa “Luce di
Dio”), la madre e i fratelli si trasferirono ad Amsterdam, dove s‟integra-
rono nella comunità sefardita e furono iniziati all‟ortodossia rituale:
Alla fine, terminata la navigazione, sbarcammo ad Amsterdam, dove trovam-
mo giudei che vivevano liberamente. Per osservare la legge adempimmo su-
bito al precetto della circoncisione 6.

5 Nel 1348 la Spagna, ormai quasi completamente cattolica, fu colpita da un‟ondata de-

vastante di peste nera che nel giro di quattro anni si diffuse in gran parte dell‟Europa. Le
autorità ecclesiatiche, soprattutto in Germania, ne individuarono la causa nell‟avvelena-
mento dei pozzi d‟acqua, perpetrato, a loro dire, dagli Ebrei. Sin da subito iniziò una cam-
pagna persecutoria violenta, che coinvolse ben presto anche la popolazione civile. Nel 1391 il
pogrom, sommossa popolare antisemita, contro gli Ebrei fu aizzato dall‟arcidiacono Ecija
Ferran Martinez, il quale li aveva definiti “assassini di Dio”. Tra spedizioni mirate all‟incen-
dio delle sinagoghe e tumulti estemporanei, in quattromila persero la vita e chi si salvò fu
costretto a convertirsi al Cristianesimo. L‟appellativo dispregiativo con cui erano indicati
costoro dal resto della popolazione era per l‟appunto Marranos, ovvero “porci”. Il problema
di fondo era che queste conversioni forzate non avevano estirpato il culto ebraico, che se-
gretamente continuava ad essere osservato. «Alla fine del XV sec. – scrive Révah – la mo-
narchia spagnola credette di venire a capo del problema espellendo i giudei e ottenendo dal
Papato la creazione di un organismo giudiziario, l‟Inquisizione, incaricato di sorvegliare il
comportamento religioso dei “Nuovi Cristiani”». Nel 1492 circa trentamila ebrei fuggitivi
furono accolti in Portogallo, dove il re João II concesse loro il diritto di residenza per otto
mesi dietro pagamento di una tassa pro capite. Meno di cinque anni più tardi, però, il nuovo
sovrano Manuel I, in seguito al matrimonio con l‟Infanta Isabella, iniziò l‟opera di cristia-
nizzazione degli ebrei, dapprima con un decreto che lasciava libertà di scelta tra la conver-
sione e l‟espulsione (5 dicembre 1496), poi con altri due decreti (aprile e ottobre 1497)
che imponevano la conversione forzata e il battesimo di massa. A parte il pogrom di Lisbona
del 1506, tuttavia, il Portogallo restò una terra accogliente, grazie anche all‟atteggiamen-
to ambiguo del re, il quale emanò una serie di decreti che impedivano i controlli inquisito-
riali sui conversos. Sebbene già nel 1487 João II avesse richiesto al papato l‟autorizzazione
per l‟istuzione di un tribunale ecclesiastico sul modello spagnolo, fu solo nel 1536, con João
III, che l‟Inquisizione arrivò anche in Portogallo. Cf. I.S. REVAH, “La religion d‟Uriel da
Costa”, Revue d’histoire des religions 156 (1962), pp. 45-76, oggi in ID., Des Marranes à
Spinoza, Paris, Vrin, 1995, pp. 77-108. Si veda anche S. NADLER, Baruch Spinoza e l’Olanda
del Seicento, Torino, Einaudi, 2002, pp. 3-7. Per un‟esaustiva ricostruzione della vicenda
marrana si veda anche O. PROIETTI, op. cit., pp. 49-69.
6 Exemplar, § 7, p. 147. Al contrario di ciò che lascia intendere il testo, secondo I.S.

RÉVAH la decisione di abbandonare il beneficio ecclesiastico e di espatriare non fu immediata


per Gabriel, bensì egli rimase altri quattro anni in Portogallo dopo la sua conversione al
marranesimo (“Du „Marranisme‟ au Judaïsme et au Deisme. Uriel Da Costa et sa famille”,
Annuaire du Collège de France 67-72 (1962-72), oggi in ID., Des Marranes à Spinoza, cit., p. 167).
380 Emilio M. De Tommaso

Ben presto l‟entusiasmo si dissolse e lo spirito inquieto di Uriel rimase de-


luso dalla religione dei rabbini, fatta ai suoi occhi di regole superflue e di
rituali senza senso, egli, invece cercava una religione pura, quella della Bib-
bia, che fosse candidamente devota alla legge rivelata7.
Trascorsi pochi giorni – scriveva – vidi che i costumi e gli ordinamenti dei giu-
dei non si accordavano minimamente con ciò che era prescritto da Mosè […].
Perciò non potei trattenermi: ritenni anzi che avrei compiuto atto gradito a
Dio se avessi difeso la Legge, esprimendomi liberamente 8.

Il suo profondo meditare lo spinse ad interrogarsi ripetutamente sul dogma


dell‟immortalità dell‟anima, che, tra l‟altro, gli sembrava non essere mai
stato affermato nei testi di Mosè. Alla fine lo rinnegò, influenzato secondo
alcuni dalla dottrina dell‟anima teorizzata da Michele Serveto9, secondo la
quale essa non solo si troverebbe nel sangue, ma s‟identificherebbe con es-
so, cioè con quello slancio vitale contenuto in esso. Secondo Da Costa,
l‟unica differenza tra l‟anima umana e quella degli animali è nella ragione,
di cui è dotata la prima e non la seconda, ma entrambe sono unite al corpo
e inevitabilmente finiscono con esso.
È stato notato, in passato, che la negazione dell‟immortalità dell‟anima
fu un‟esigenza vitale per Uriel da Costa: egli era troppo atterrito dalla pos-
sibilità di una perdizione eterna, per lui eliminare l‟immortalità significava
soprattutto rinnegare la dannazione. Questo era l‟unico conforto al suo tra-
vaglio. Sotto questo punto di vista, secondo Leo Strauss, tale questione lo
tormentava ben prima dell‟adesione all‟ebraismo, che si sarebbe poi confi-

7 «Entusiasta per natura – scrive L. BROWNE – forse persino un po‟ squilibrato, aveva

immaginato che in Olanda avrebbe trovato la vera Nuova Gerusalemme, una città in cui i suoi
fratelli vivevano come ai tempi della Bibbia, governandosi tutti insieme secondo i cinque libri
di Mosè, nonché comunicando con Dio come i profeti» (Blessed Spinoza, New York, Macmil-
lan, 1932, p. 80). RÉVAH spiega che la religione professata da Uriel era il marranismo, ovvero
una forma di giudaismo impoverito derivante dall‟assenza della letteratura talmudica, che la
conversione violenta del 1497 aveva interdetto ai marrani portoghesi. Ecco perchè l‟impatto
con la comunità di Amsterdam fu tanto sconcertante per lui (op. cit., p. 60 [92]).
8 Exemplar, § 8, p. 147.
9 Cf. L. STRAUSS, La critica della religione in Spinoza, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 30-33.

Révah al riguardo sembra scettico: «ciò che si sa sull‟efficacia del cordone sanitario stabilito
attorno alla penisola iberica dall‟Inquisizione rende, secondo noi, assolutamente inverosimile
l‟ipotesi enunciata. D‟altronde, esistono insormontabili divergenze tra le concezioni metafisi-
che di Uriel da Costa e quelle di Serveto» (I.S. RÉVAH, “Les écrits portugais d‟Uriel da Costa”,
Annuire de l’Ecole Pratique des Hautes Etudes, Quatrième Section: Sciences Historiques et Philologiques
97 (1964-65), p. 273, oggi in ID., Des Marranes à Spinoza, cit., p. 273).
Sulle ginocchia di Uriel 381

gurato proprio come soluzione ad essa10.


Disgustato dall‟atteggiamento settario della comunità di Amsterdam, si
trasferì ad Amburgo già nel 1614. Anche qui l‟integrazione tra i giudei ri-
sultò piuttosto problematica e nel 1616 scrisse le Propostas contra a Tradi-
ção, nelle quali rifiutava l‟autorità della «tradiçaõ, que se chama lei de bo-
ca», ovvero la legge orale (Talmud). Nel 1618, in seguito a quel testo, la
comunità di Venezia, nella persona del rabbino Leone di Modena, pronun-
ciò il suo cherem11. Fu così che Uriel fece ritorno sull‟Amstel dove, sebbene
non fosse apertamente condannato, tuttavia l‟ombra del bando si avvertiva
come una minaccia incombente12.
Nel 1623 Uriel stava lavorando ad un testo sulla mortalità dell‟anima13,
quando Semuel Da Silva, medico residente ad Amburgo, gliene rubò tre
capitoli, pubblicandone il contenuto per confutarlo nel suo Tratado da Im-
mortalidade da Alma (Amsterdam, Ravesteyn, 1623)14. La comunità ebraica
di Amsterdam, inorridita dagli sviluppi della riflessione dacostiana e indi-

10 «Si può affermare – scrive L. STRAUSS – che da Costa non ha respinto l‟immortalità

dell‟anima sulla scorta della Scrittura ma che, al contrario, sulla base di dubbi razionali da
lui nutriti fin dal principio, ha accettato la legge mosaica in quanto conforme alla ragione,
non trovandosi in essa il benché minimo accenno all‟immortalità dell‟anima» (op. cit., p.
30). Dello stesso avviso è Révah, che scrive: «l‟adesione al cripto-giudaismo, a Porto, fu
facilitata dal fatto che l‟affermazione delle sanzioni nell‟oltretomba, debolmente rappre-
sentate nel Vecchio Testamento, è totalmente assente nei cinque libri della Legge» (I. S.
RÉVAH, op. cit., p. 272 [116]).
11 Y. YOVEL (Spinoza et autres hérétiques, Editions du Seuil, Paris, 1991, p. 502) fa nota-

re che il rabbino veneziano rivolse la sua invettiva contro un «eretico amburghese». Seb-
bene l‟identificazione di questi con Da Costa sembri l‟ipotesi più probabile, tuttavia essa
non è stata ancora confermata. Fu Gebhardt a sostenerla con convinzione, avendo ritrovato
un manoscritto di Raphaël Mosé de Aguilar, nel quale ha pensato di rintracciare un com-
pendio delle posizioni eretiche delle Propostas, con l‟aggiunta di alcune considerazioni dello
stesso Aguilar. Più recentemente Osier ha mostrato che in realtà questo manoscritto è la
traduzione portoghese dello stesso Magen vesina, l‟opera in ebraico di Leone di Modena in
cui denuncia per l‟appunto l‟eretico amburghese. Proietti precisa che «con Leone di Mo-
dena inizia un singolare oblio e conservazione del corpus dacostiano», essendo la sua refuta-
zione di Da Costa pubblicata in ebraico solo nel 1856 da A. Geiger, il quale riteneva che le
Propostas, citate nel testo di Modena, fossero un semplice gioco erudito dello stesso rabbino
veneziano. Sarà solo col ritrovamento dell‟Exame das tradições phariseas nel 1993, che verrà
spazzato via ogni dubbio sulla loro paternità dacostiana (O. PROIETTI, op. cit., pp. 75-76).
12 Secondo Proietti il bando in absentia pronunciato da Venezia aveva validità anche per

le comunità di Amburgo e di Amsterdam (ivi, p. 77)


13 Il trattato Sobre a mortalidade da alma do homem (cf. H.A. WOLFSON, The Philosophy of

Spinoza, 1934, tr. fr. La Philosophie de Spinoza, Paris, Gallimard, 1999, p. 670).
14 Cf. O. PROIETTI, op. cit., pp. 77-80.
382 Emilio M. De Tommaso

spettita dalle frequenti visite di Uriel ai parenti stanziati sulle rive del-
l‟Amstel, lo bandì il 15 maggio dello stesso anno. Tutti i membri di quella
comunità lo rinnegarono 15 ed egli, per tutta risposta, l‟anno successivo
pubblicò un altro testo «per mostrare la giustezza della [sua] posizione e
provare pubblicamente, attraverso la Legge stessa, l‟inconsistenza di ciò
che i Farisei tramandano e osservano»16. Si tratta dell‟Exame das tradições
phariseas, opera che riprende quella in cantiere all‟inizio del 1623, ma la
rielabora profondamente17. Questo lavoro, edito nella primavera del 1624
presso l‟editore Ravesteyn di Amsterdam, gli costò una denuncia alle auto-
rità civili della città, una condanna al carcere e al pagamento di un‟ammen-
da, mentre tutte le copie del suo testo erano pubblicamente raccolte e date
alle fiamme18:
Non appena questo mio libello vide la luce, si radunarono gli anziani del su-
premo collegio ebraico e da loro fui deferito al magistrato pubblico: dicevano
che avevo scritto un libro in cui negavo l‟immortalità delle anime; che non mi
limitavo a dannegghiare solo loro, ma che demolivo anche la religione cristia-

15 «Gli stessi miei fratelli – si legge nell‟Exemplar humanae vitae – ai quali in precedenza
avevo fatto da precettore, per il timore che avevano, facevano finta di non vedermi e in
pubblico non mi salutavano» (Exemplar, § 10, p. 149).
16 Ivi, § 11, p. 149.
17 Questa successione temporale (Tratado di Da Silva, bando di Amsterdam e stesura

dell‟Exame), nota Proietti, contraddice la sequenza del racconto dell‟Exemplar, che pone il
bando finanche prima dell‟inizio del trattatello Sobre a mortalidade da alma, e dunque prima
anche dello scritto di Da Silva, di cui tra l‟altro non riproduce correttamente il titolo (Exem-
plar, §§ 10-15, pp. 149-151). Anche questo elemento apre la questione dell‟autenticità del-
l‟Exemplar: non è possibile, da un lato, che si riferisca al bando amburghese, non avendo per
nulla accennato agli anni trascorsi ad Amburgo, ignorando dunque il bando dell‟unica città,
Amsterdam, di cui parla; dall‟altro lato, se il testo si riferisce proprio al cherem di questa città,
tuttavia, ne ignora la precisa collocazione temporale (O. PROIETTI, op. cit., p. 84).
18 S. NADLER, op. cit., pp. 78-79. Nadler riferisce che solo una copia se ne salvò, ma in

un lavoro successivo rettifica che furono due le copie che scamparono al rogo, una delle
quali, però, finì nelle mani del Grande Inquisitore spagnolo, che mise il testo all‟indice nel
1632 (S. NADLER, L’eresia di Spinoza, Torino, Einaudi, 2005, p. 223). O. PROIETTI precisa
che oltre alla copia in possesso nel 1632 del Grande Inquisitore di Spagna, il viceré di Na-
poli, cardinal Antonio Zapata, «una seconda copia, nel 1643, era a disposizione del pastore
luterano di Amburgo, Johan Müller, e una terza copia, infine, risultava dal catalogo dei li-
bri del rabbino David Nunes Torres (L‟Aia 1728)». Tuttavia, continua Proietti, «come di-
mostra il suo De resurrectione, nel 1636 un‟altra copia era nelle mani di Menasseh ben Israel»
(op. cit., p. 18). Il testo oggi è giunto a noi grazie al ritrovamento da parte di H.P. Salomon
della terza copia nella biblioteca reale di Copenhagen, dove era giunta grazie a Otto Thott,
bibliofilo danese, che aveva visitato i Paesi bassi nella seconda parte degli anni ‟20 del XVIII
secolo (URIEL DA COSTA, Examination, cit., pp. XI-XIII).
Sulle ginocchia di Uriel 383

na. Per questa loro denuncia fui incarcerato e venni rilasciato su cauzione do-
po una prigionia di otto o dieci giorni. Il pretore intendeva infliggermi una pe-
na pecuniaria: alla fine fui condannato a pagargli trecento fiorini, e il mio libro
fu sequestrato19.

È questo il momento più importante dello sviluppo del pensiero di Da Co-


sta20, la cui ultima radicalizzazione si plasmerà nel rifiuto persino della leg-
ge di Mosè, che egli ormai giudicava alla stregua di «un‟invenzione umana,
come ce ne furono innumerevoli altre nel mondo»21.
Tra il 1624 e il 1628 Uriel visse da esule molto probabilmente ad Utrecht,
in compagnia della madre Sarah, fino alla morte di questa, sopraggiunta
nell‟ottobre del 162822. Ma proprio in quegli anni, mentre il suo spirito re-
ligioso si esacerbava sempre più nei confronti dell‟ebraismo dottrinale dei
rabbini, inaspettatamente richiese la riammissione in seno alla comunità:
Quale vantaggi dal restare fino alla morte in questo stato, separato dalla comu-
nione con questi capi e con questo popolo, soprattutto considerando che sono
starniero in questa terra e non ho familiarità con i suoi abitanti, dei quali igno-
ro persino la lingua?23

Così ritrattò pubblicamente per vivere come «una scimmia tra le scimmie»24.
Nel 1633, tuttavia, le accuse di violazione della dieta e la flagranza di un
tentativo di dissuasione di due cristiani, pronti a convertirsi all‟ebraismo
(«ignoravano infatti quale giogo si stessero mettendo sulle loro cervici»),
gli procurarono un altro scontro con le autorità rabbiniche («i rabbini av-
vamparono e la folla insolente gridò: crucifige, crucifige eum»25). Queste lo

19 Exemplar, § 15, p. 151. Nel passo non si fa alcun riferimento al rogo dei libri. La

notizia si trova in un responsum del rabbino veneziano Jacob ben Israel ha-Levi, ritrovato da
Perles solo nel 1877 (O. PROIETTI, op. cit., pp. 91-92).
20 Secondo Proietti, L‟Exame, che è «forse l‟opera più censurata della storia umana»,

costituisce il testo cardine di tutta la produzione dacostiana, «deve essere il punto di par-
tenza per ogni ricostruzione del corpus dacostiano» (ivi, p. 43).
21 Exemplar, § 16, p. 153.
22 O. PROIETTI avvalora questa tesi a partire da un importante atto notarile di Utrecht,

re-datto in nederlandese, in cui compare il nome di Da Costa. (op. cit., pp. 92-95).
23 Exemplar, § 17, p. 153. È difficile da credere che un commerciante come Uriel, che,

come visto, firma atti notarili, redatti in nederlandese, possa ignorare la lingua dei Paesi Bassi.
24 Ibid. Il riferimento temporale che l‟autore propone («erano trascorsi ormai quindici

anni dal momento della mia separazione») indicherebbe che la data di rientro in seno alla
comunità risalga al 1638, essendo il bando di Amsterdam del 1623. Gebhardt, invece, con-
siderando il bando del 1618, l‟anticipa al 1633.
25 Exemplar, § 21, p. 155.
384 Emilio M. De Tommaso

misero di fronte ad un bivio inesorabile: o l‟abiura pubblica di tutte le sue


idee eretiche in una cerimonia di umiliante espiazione; oppure la messa al
bando. Gli furono letti tutti i dettagli del percorso di espiazione del suo
peccato: entrare in sinagoga vestito a lutto con una candela nera, leggere
un testo di abiura, subire un rito di flagellazione e di umiliazione. Egli decise
di non abiurare. E su di lui si abbatté ancora una volta il cherem26.
Nei sette anni successivi non fu solo emarginato dalla comunità, ma an-
che perseguitato27. Alla fine, le sue condizioni d‟indigenza (in quegli anni
pare avesse abbandonato il commercio e fosse vissuto grazie al solo sussidio
della comunità ebraica) lo spinsero ancora una volta ad accettare, nel 1640,
l‟abiura e la flagellazione per essere reintegrato. Le sue stesse parole, nel-
l‟Exemplar humanæ vitæ, ci raccontano quel giorno di umiliazione:
Entrai nella sinagoga, piena di uomini e di donne, tutta gente convenuta per lo
spettacolo. Quando fu il momento, salii sul palco di legno che si trovava al
centro della sinagoga per la predica e gli altri uffici religiosi, e a chiara voce
lessi uno scritto composto da loro […]. A lettura ultimata, scesi dal palco e si
avvicinò a me il reverendissimo parnas presidente, che mi sussurrò di spostar-
mi in un angolo della sinagoga. Mi portai in quell‟angolo e il custode mi disse
di spogliarmi. Denudai il mio corpo fino alla cintola, cinsi il capo con un faz-
zoletto di lino, mi tolsi le scarpe e alzai le braccia, tenendo con le mani una
sorta di colonna. Si avvicinò il custode e con una fascia legò le mie mani a
quella colonna. Compiute queste operazioni, il cantore mi fu accanto: con una
sferza di cuoio per trentanove volte percosse i miei fianchi, secondo la tradi-
zione […]. Mentre mi si percuoteva veniva cantato un salmo. Terminata la fla-
gellazione, sedetti a terra e si avvicinò il predicatore o hakam, il quale mi libe-
rò dalla scomunica […]. Subito dopo mi vestii e mi portai fuori, alla porta del-
la sinagoga. Mi stesi a terra. Il custode teneva sollevato il mio capo. A questo
punto, tutti quelli che scendevano le scale per uscire dalla sinagoga, mi scaval-

26 Questo cherem, tuttavia, non fu mai verbalizzato nei registri della comunità ebraica,

per cui non ne conosciamo direttamente il testo (H. MÉCHOULANT, Gli Ebrei ad Amsterdam
all’epoca di Spinoza, Genova, ECIG, 1991, p. 45). Proietti mostra con grande perizia come
tutta la costruzione linguista e immaginifica di questo racconto rimandi a luoghi ben cono-
sciuti delle scritture cristiane; l‟Exemplar, § 21, ripropone quasi letteralmente il racconto
della passione di Cristo in Luca, 23,21: «ma essi urlavano “crocifiggilo, crocifiggilo”». Tut-
to è volto a provocare l‟orrore nel lettore cristiano che vede ripetersi eventi e moniti evan-
gelici. Lo studioso, infatti, sostiene che la paternità del testo sia di un autore cristiano (O.
PROIETTI, op. cit., pp. 99-100).
27 «Egli veniva deriso e disprezzato quando si mostrava per strada, i più giovani gli

rompevano le finestre per gettargli in casa rifiuti e carcasse di gatti morti. Divenne una
sorta di spauracchio nel vicinato: i bambini erano terrificati nella loro docilità dalla minac-
cia che egli potesse arrivare e portarli via» (L. BROWNE, op. cit., p. 82).
Sulle ginocchia di Uriel 385

cavano: alzavano un piede e passavano sopra le mie tibie. Questa azione fu


compiuta da tutti, bambini e vecchi […]. Ad operazione conclusa, quando non
restava più nessuno, mi alzai da terra; ripulito dalla polvere da colui che mi
assisteva […], mi rifugiai in casa28.
Pochi giorni più tardi, appena terminata la sofferta stesura di queste pa-
gine, Uriel, provato da tanti anni di travaglio spirituale, sopraffatto dal-
l‟onta e, probabilmente, stanco di tanto penare, si tolse la vita29.

28 Exemplar, §§ 28-30, pp. 159-161.


29 Il racconto pseudo-autobiografico, che Uriel avrebbe terminato nei giorni immedia-
tamente successivi all‟espiazione della sua pena, costituisce l‟unica fonte per gli avvenimenti
riportati, che non figurano altrove. Secondo Méchoulant possono essere considerati atten-
dibili (H. MÉCHOULANT, op. cit., p. 46); Yovel, invece, al riguardo sembra sicuro del con-
trario: «dopo qualche sospetto, è stato parzialmente provato che questo testo si distacca
dalla realtà su molti punti, forse per motivi di tattica polemica propri di Da Costa o a causa
del trofismo antigiudeo dell‟autore dei numerosi passaggi apocrifi che l‟opera sem-bra
contenere» (Y. YOVEL, op. cit., p. 66). D. LEVIN (op. cit., p. 145) adduce alcune motivazio-
ni interessanti che mettono in discussione l‟attendibilità dello scritto: da una parte, la pro-
cedura descritta da Uriel sembra troppo crudele per esser stata consentita dalle autorità ci-
vili di Amsterdam, sebbene s‟ignori quale fosse il livello di pattugliamento della comunità
da parte dei magistrati; dall‟altra, tutto il racconto potrebbe essere metaforico, come spes-
so avviene negli scritti di tradizione ebraica. In realtà, a parte il fatto che Uriel si suicidò in
seguito alla cerimonia, nessuno conosce con certezza cosa realmente avvenne. L‟opera di
Da Costa, tra l‟altro, uscì per la prima volta solo nel 1687, quasi cinquant‟anni dopo la sua
morte, all‟interno del De veritate religionis christanae: amica collatio cum erudito judaeo di Phi-
lip van Limborch, teologo calvinista, che sosteneva di averne ereditato una copia nel 1643
alla morte del prozio, Simon Episcopius, il quale a sua volta l‟aveva ricevuto da «un uomo
importante di questa città [Amsterdam]». Van Limborch era contrario al deismo di Da Co-
sta e ne pubblicò l‟opera per confutarla: vi aggiunse, infatti, una Brevis refutatio argumento-
rum quibus Acosta omnem religionem revelatam impugnat (Y. YOVEL, op. cit., p. 501). Il testo ri-
portato in questa edizione presenta una duplice difficoltà, secondo Révah: da una parte,
«alcuni passaggi manifestamente apocrifi, inseriti nell‟Exemplar da un antisemita alquanto
maldestro», unito al fatto che gli storici ancora non hanno stabilito se la lingua originale
dello scritto fosse il portoghese o il latino; per altro verso, in tutto il testo tra le persone di
quel tempo compare solo il nome dall‟autore, che tuttavia non menziona alcuni eventi cen-
trali nella sua vita, come la permanenza nella comunità di Amburgo e il cherem che subì in
seno ad essa (I.S. RÉVAH, op. cit., p. 48 [80]). Proietti sostiene apertamente l‟inautenticità
del testo per una serie di motivi: 1. In primo luogo già tra il 1640 e il 1643, oltre alla copia
in possesso Simon Episcopius, ne circolava almeno un‟altra, in possesso del pastore lutera-
no amburghese Johan Müller, con alcune discordanze riguardo alla descrizione della mor-
te; 2. Sebbene l‟Exemplar sembri conoscere bene la vita amstelodamnense di Da Costa, tut-
tavia, ne ignora il periodo trascorso a Porto (1608-1614), oltre al già citato soggiorno am-
burghese (1614-1623) e il conseguente bando del 1618, tanto più che la cronologia che
propone differisce la data della morte al 1645-47; 3. Il latino dell‟edizione Limborch ri-
produce, nella descrizione della persecuzione dacostiana, «una fitta trama di criptocitazioni
386 Emilio M. De Tommaso

2. Spinoza all’Exame di Da Costa

Nel 1640, anno in cui si consumò il dramma di Uriel Da Costa, Spinoza


aveva solo otto anni e probabilmente quel giorno si trovava in sinagoga, co-
me tutti gli altri, ad assistere allo «spettacolo». Certo, era troppo piccolo
perché capisse e soprattutto perché potesse riflettere sugli atti per i quali
Uriel «meritava di morire mille volte», tuttavia, quell‟episodio si cristal-
lizzò nella memoria della comunità sefardita di Amsterdam e sicuramente
entrò, quanto meno in via indiretta, nel processo di maturazione e di cre-
scita intellettuale del giovane.
In realtà molti sostengono che Spinoza conobbe personalmente Uriel, al
quale sembra fosse persino legato da un legame di parentela da parte della
madre, meditò a lungo sulla sua vicenda30 e probabilmente ne assorbì pro-
fondamente il pensiero antifarisaico. In molti luoghi della sua opera, so-
prattutto del Tractatus Theologico-politicus, egli sembra attingere a piene ma-
ni alla riflessione dacostiana31. I punti di maggior assonanza tra i due pen-
sieri si rinvengono nella negazione: della diadoché profetica; di ogni forma di
messianismo; dell‟immortalità dell‟anima e della vita ultraterrena.
Nell‟esame minuzioso del testo sacro, che impegna gran parte della sua
esistenza, Uriel mette in discussione l‟autenticità del libro di Daniele, so-
prattutto nel passo in cui introduce il concetto di vita eterna e retribuzione
ultraterrena:
Un gran numero di quelli che si trovano nella polvere della terra si risveglie-
ranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per l‟ignominia e l‟infamia eterna

neotestamentarie», che schiaccia la vicenda di Uriel sul modello della passione di Cristo (O.
PROIETTI, op. cit., pp. 44-48). Inoltre Limborch probabilmente entrò in possesso della co-
pia dell‟Exemplar del prozio, non già alla sua morte nel 1643, data alla quale aveva appena
dieci anni, ma nel 1662, quando la ritrovò tra le sue carte allorché lavorava ad un‟edizione
delle opere teologiche di Episcopius. La pubblicò solo nel 1687 (per una ricostruzione e
un‟analisi accurata sulla questione dell‟autenticità dello scritto cf. ancora ivi, pp. 105-132).
30 Cf. I.S. REVAH, “Aux origines de la rupture spinozienne: nouveaux documents sur

l‟incroyance dans la communauté Judéo-portuguaise d‟Amsterdam à l‟époque de l‟excom-


munication de Spinoza”, Revue des études juives 123 (1964), pp. 359-431, p. 382, oggi in ID.,
Des Marranes à Spinoza, cit., p. 244.
31 «Non ci sono dubbi – scrive Proietti – che, anche per parentele familiari, Spinoza

conoscesse la vicenda di Uriel Da Costa, e che la sua battaglia sia stata anche una valoriz-
zazione dell‟“eredità” dacostiana. Con un‟analisi attenta si può osservare che nel TTP è ci-
tato e discusso l‟intero dossier dacostiano, a cominciare dalla polemica che, negli anni 1623-
1624, ha visto contrapporsi il Tratado da immortalidade da alma di Da Silva e l‟Exame das tra-
dições phariseas» (O. PROIETTI, op. cit., p. 24).
Sulle ginocchia di Uriel 387

[Dan., 12,2] […] Ma tu va‟ alla fine e riposa, e ti alzerai per la tua sorte alla fi-
ne dei tempi [Dan., 12,13].
In questo luogo Da Costa rintraccia l‟intervento apocrifo dei Farisei, spie-
gando che:
E dizemos que este livro de Daniel naõ he reçebido dos Judeos chamados, Sad-
duçeus, o que soo bastava para lhe tirar o credito, e fé (por se dever ao teste-
munho simplez dos Phariseus mui pouco, conforme ao que ia disemos, visto
serem estes homens tais que tomaraõ por officio, ou por locura, trocar pala-
vras, mudar, torçar, interpretar avesadamente as escrituras para confirmaçaõ,
e firmeza de seus confusos sonhos)32.

Nell‟opera pseudo-autobiografica dell‟Exemplar la figura dei Farisei con-


corderà perfettamente, sia dal punto di vista iconografico sia sotto il profilo
linguistico, con la tradizione neotestamentaria: essi, alla stregua di ladri vili
che sorprendono chi dorme durante la notte, sono l‟incarnazione della fal-
sità, dell‟avidità e dell‟ipocrisia33. Nell‟Exame, invece, il fariseo è strettamen-
te legato alla falsa dottrina dell‟immortalità dell‟anima, inventata ed usata da
sempre dagli uomini politici per coinvolgere nella loro barbarie guerriera le
popolazioni, come nel caso dei Geti riferito da Pomponio Mela; nonché dalla
casta sacerdotale per esercitare il controllo sulle masse popolari:
Nam achou estè bon homem, cuio intento nam he outro que afear a verdade,
entre os Philosophos das nações quem disesse que a alma raçional era mortal,
salvo a Epicuro, homem que totalmente negou a providençia divina 34.

32 «Affermiamo che questo libro di Daniele non è accolto dai Giudei chiamati Sadducei,

il che da solo basterebbe per privarlo di credito e fede (fede che dev‟essere prestata in mi-
nima parte alla semplice testimonianza dei Farisei, visto che sono uomini tali da impegnar-
si, per lavoro o per follia, a cambiare le parole, modificare, raggirare e fraintendere le scrit-
ture, per confermare e rafforzare i loro confusi sogni)», U. DA COSTA, Exame das tradições pha-
riseas, in Examination, cit., 1993, pp. 91-92 [141-142], d‟ora in poi Exame.
33 «Sono molti – si legge nell‟ultimo testo dacostiano – quelli che incedono da ipocriti,

fingono di essere religiosissimi e ingannano gli incauti, avvalendosi del paramento religioso
per catturare quante più vittime possibili. Sono certo simili ad un ladro notturno, che as-
sale a tradimento chi dorme» (Exemplar § 51, p. 177). Secondo Proietti, questo è un ulte-
riore elemento che nega la paternità dacostiana dell‟opera, che definisce «un testo costrui-
to con l‟intemporale, astorico latino della Vulgata sixto-clementina, assai diffusa al tempo, e
domi-nato dall‟immagine evangelica del “fariseo”» (O. PROIETTI, op. cit., p. 120).
34 «Non si è mai trovato alcun uomo saggio, il cui intento non fosse altro che distorce-

re la verità, tra i filosofi delle nazioni, che sostenesse che l‟anima fosse mortale, tranne
Epicuro, il quale ha negato completamente la provvidenza divina» (Exame, p. 99 [151]).
388 Emilio M. De Tommaso

Questa insana dottrina dell‟immortalità dell‟anima ingenerò nel popolo an-


goscia e disperazione, a causa della sproporzione tra l‟eternità della pena e
la non permanenza della colpa commessa, spingendo i Farisei ad escogita-
re la teoria della trasmigrazione dell‟anima attraverso una serie di purgato-
ri, che alleviasse il castigo divino. «No pensamento dos Phariseus nam ha pia-
dade», perché quale pietà può essere in una dottrina, quale quella farisaica
appunto, che, fondandosi sull‟immaginazione, sovverte la verità divina? Il
Dio che vien fuori da essa, ben lungi dall‟essere infinitamente buono, si
mostra più crudele dell‟uomo stesso, il quale è spinto a credere all‟esi-
stenza di valori assoluti e trascendenti, disprezzando i beni della vita pre-
sente, che invece sono i veri doni «pellos quais quiz Deos ser amado, lou-
vado, e temido das suas criaturas»35.
Quando è Spinoza a sottoporre ad esame il Vecchio Testamento, nel
Tractatus, la premessa fondamentale da cui parte è che «chi vuole essere
certo dell‟autorità di tutti i libri, deve riesaminare da capo l‟intera que-
stione e chieder conto di ciascun libro», visto e considerato che è evidente
che «i saggi tennero un consiglio su quali libri si dovessero accogliere e
quali escludere»36. Col termine “saggi” il filosofo olandese indica proprio i
Farisei, precisando inoltre che
La ragione che m‟induce a ritenere che i soli Farisei scelsero i libri del Vecchio
Testamento e li riposero nel canone di quelli sacri, è che in Daniele, ultimo ca-
pitolo, v. 2, si predice la resurrezione dei morti, che i Sadducei negavano 37.
Esattamente lo stesso luogo del Vecchio Testamento analizzato e rigettato
da Uriel Da Costa. Qualche anno più tardi nel rispondere ad Olbenburg,
che tra «quei luoghi del Trattato Teologico-politico che hanno suscitato uno
scrupolo negli uomini dotti» indicava l‟ambiguità del rapporto tra la Natu-
ra e Dio, il filosofo olandese chiariva:
Dio è per me, per usare un‟espressione tradizionale, la causa immanente, non
certo transitiva, di tutte le cose. Tutte le cose, dico, in accordo con Paolo, so-
no in Dio e si muovono in Dio. E lo affermo forse in accordo con tutti i filo-
sofi antichi, anche se in modo diverso, e oserei dire in accordo con tutti gli an-
tichi Ebrei, per quanto è lecito congetturare da alcune tradizioni, sia pure in
molti modi adulterate 38.

35Ivi, pp. 202-205 (254-257).


36B. SPINOZA, Tractatus Theologico-Politicus, X, in Opere, a cura di F. Mignini, Milano,
Mondadori, 2007, p. 612. D‟ora in poi indicato con TTP.
37 TTP, p. 611.
38 TTP, 1301-1302.
Sulle ginocchia di Uriel 389

Laddove il riferimento agli «antichi Ebrei» e alle «tradizioni adulterate»,


secondo alcuni studiosi, sembra un implicito, ma chiaro richiamo ad Uriel
Da Costa39. Tra queste tradizioni adulterate entrambi i pensatori includono
il libro di Samuele, il primo libro dei Re: in effetti, l‟episodio dell‟evoca-
zione di Samuele da parte di Saul suggerisce esplicitamente la possibilità
della sopravvivenza dell‟anima alla morte del corpo. L‟identità dell‟indivi-
duo, secondo questa teoria, sarebbe conservata, nella sua integrità, al pun-
to che la sua anima potrebbe tornare per chiacchierare con i vivi. Da Costa
commenta causticamente che i morti, lungi dall‟essere vivi, non parlano:
o que se escreve çerca esta vinda, e fala no primeiro livro que se intitula de Se-
muel he tudo contrario á doutrina que se tira da lei […]. A tal escritura con-
traria á verdadeira doutrina da lei, he força que seia falsa, e commentada como
outras escritas, e reçebeidas pellos Phariseus, e reprovadas pellos Sadduçeus 40.

Non ci sono dubbi che riguardo all‟immortalità dell‟anima Da Costa e Spi-


noza avessero un‟opinione concorde: essa è una dottrina contraria alla leg-
ge di natura, dunque falsa,
e se si troverà qualcosa che si può apoditticamente dimostrare come ripugnan-
te alle leggi di natura, o che da esse non poté conseguire, si deve credere sen-
z‟altro aggiunto alle sacre lettere da uomini sacrileghi. Difatti, tutto ciò che è
contro la natura è contro la ragione. E ciò che è contro la ragione è assurdo, e
dunque da rifiutare41.

Uno dei primi biografi di Spinoza, Lucas, ricostruendo un dialogo fra il


giovane filosofo e due amici intimi (rivelatisi poi in realtà delatori dei rab-
bini), gli mette in bocca parole di chiara assonanza dacostiana:
Pour ce qui est de l‟âme, partout où l‟Ecriture en parle, ce mot d‟âme se
prends simplement pour exprimer la vie, ou pour tout ce qui est vivant. Il se-
rait inutile d‟y chercher de quoi appuyer son immortalité. Pour le contraire, il
est visible en cent endroits, et il n‟est rien de plus aisé que le prouver 42.

39 O. PROIETTI, op. cit., p. 21.


40 «Ciò che si scrive circa questa venuta e chiacchierata nel primo libro di Samuele è
completamente contrario alla dottrina che si trae dalla Legge […]. Tale scrittura contraria
alla vera dottrina della Legge è necessariamente falsa, come altri scritti, accolti dai Farisei e
rigettati dai Sadducei» (Exame, pp. 75-76 [125-126]).
41 TTP, VI, pp. 536-537.
42 «Riguardo all‟anima, in ogni luogo in cui la Scrittura ne parla, questo termine “ani-

ma” si utilizza semplicemente per esprimere la vita, o tutto ciò che è vivente. Sarebbe inu-
tile cercare di sostenerne l‟immortalità. Riguardo al contrario, invece, è visibile in cento
390 Emilio M. De Tommaso

Sebbene in questo luogo non ne venga fornita alcuna prova, in ogni caso,
sembra alquanto evidente che il giovane Spinoza rinneghi ogni dimensione
ulteriore della vita. Uriel Da Costa nota che, quando Dio promise ad Abra-
mo protezione e una lauta ricompensa per la sua fedeltà, questi, pur essen-
do vecchio e prossimo alla morte, non cercò la salvezza eterna per se stesso,
ma richiese a Dio quel figlio che non aveva ancora avuto43. Tutto ciò dimo-
stra, secondo il portoghese, che
os Pais nam atenderam a outra vida, nem trataram dos bens della, como se no-
ta de suas palavras […]. E se Abraham atendera a outra vida, deixara o premio
grande para ella e nam tratara dos bens presentes44.

Se, in parallelo a questo brano, analizziamo nuovamente il riesame delle


Sacre Scritture, condotta nel Tractatus Theologico-politicus, ci accorgiamo che
la negazione spinoziana dell‟immortalità dell‟anima ricalibra anche la que-
stione dell‟elezione del popolo ebraico: questa, infatti, cessa di rinviare ad
un futuro atemporale e si ridisegna pienamente nell‟ambito della vita ter-
rena e sociale. La differenza tra i popoli e le nazioni, secondo il filosofo
olandese, non è di natura intellettiva o virtuosa, ma si declina in ragione
della fortuna sociale e politica:
ciò risulta con la massima chiarezza dalla stessa Scrittura: chi infatti l‟esaminerà
anche superficialmente, vedrà chiaramente che gli Ebrei furono superiori alle al-
tre nazioni solo perché realizzarono felicemente ciò che concerne la sicurezza
della vita e perché superarono gravi pericoli […]. La vocazione e l‟elezione degli
Ebrei, dunque consistette nella sola felicità temporale e nei beni materiali. E ve-
diamo che Dio non promise altro ai patriarchi o ai loro successori45.

E nell‟Adnotatio IV che accompagna questo brano il “politore di lenti” cita


esattamente lo stesso episodio della ricompensa di Abramo, già commen-
tato nell‟Exame di Da Costa46. Allo stesso modo nell‟Ethica, nell‟affermare

luoghi e non c‟è nulla di più semplice che provarlo» [J.M. LUCAS, La vie de M. Benoît de Spi-
noza, in Vies de Spinoza, Allia, Paris, 2002, p. 100].
43 «E Abramo disse: “Signore Dio, che mi darai? Io sto per morire senza figli: e il figlio

del mio maestro di casa, questo Eliezer di Damasco, sarà il mio erede?» [Genesi, 15, 2].
44 «I padri non si aspettavano un‟altra vita, né si curavano dei beni di essa, come si evince

dalle sue parole […]. E se Abramo avesse pensato ad una vita ulteriore, avrebbe riservato la
grande ricompensa per essa, non considerando i beni presenti» [Exame, pp. 59-60 (109-110)].
45 TTP III, 47-48 [M 480-481].
46 «Nel capitolo 15 della Genesi si racconta che Dio disse ad Abramo che lo avrebbe di-

feso e largamente ricompensato. Abramo rispose che non si aspettava nulla che per lui fos-
se di qualche importanza, essendo ormai in età avanzata e privo di figli» (ivi, p. 740).
Sulle ginocchia di Uriel 391

l‟unione di anima (che qui è detta mens) e corpo, le idee e il linguaggio di


Spinoza sembrano aderire ancora a quelli dacostani:
L‟oggetto dell‟idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo
modo dell‟estensione esistente in atto, e nient‟altro 47.
Il che implica che se il corpo non è esistente in atto anche la mente umana,
che è costituita dall‟idea del suo corpo, cessa di esistere. Eppure in altri
luoghi del suo capolavoro lo stesso linguaggio è riproposto apparente-
mente per affermare il contrario:
La mente umana non può distruggersi del tutto con la distruzione del corpo;
ma di essa rimane qualcosa che è eterno48.
Secondo alcuni studiosi questa sarebbe la prova che, nella maturità del suo
pensiero, Spinoza si sarebbe discostato dal pensiero deista e antifarisaico di
Da Costa, usandone gli stessi argomenti per confutarlo49. In realtà, sembra
abbastanza chiaro che nella struttura dinamica del Deus sive Natura spinozia-
no, il concetto di eternità, ben lungi dall‟essere una categoria temporale, si
ascrive pienamente nel piano della sostanza: la mente sopravvive al corpo,
nella misura in cui in Dio si dà necessariamente l‟idea di quel corpo, ov-
vero «la nostra mente, in quanto implica l‟essenza del corpo sub specie aeter-
nitatis, è eterna» e questa eternità «non si può definire mediante il tempo o
spiegare mediante la durata»50. L‟immortalità, insomma, di cui parla la tra-
dizione farisaica, che consente alle anime di essere rievocate, come nel ca-
so di Samuele, o di trasmigrare da un purgatorio all‟altro, resta dacostiana-
mente bandita anche dal pensiero maturo di Spinoza.

3. Conclusioni
Tragicamente intensa, la vicenda di Uriel Da Costa si manifestò alla
stregua di una deflagrazione negli ambienti rabbinici, scuotendo nelle fon-

47 B. SPINOZA, Etica dimostrata con ordine geometrico, II, 13, in Opere, cit., p. 848.
48 Ivi, V, 23, p. 1071.
49 Così la pensa WOLFSON (op. cit., pp. 324-325 [671-672]), il quale, riconoscendo nel

Dio-sostanza di Spinoza una rottura radicale con la tradizione dei teologi, ritiene però che
il “politore di lenti” non fosse pienamente consapevole di questa rottura e non l‟abbia deli-
berata coscientemente. Révah, al contrario, sostiene che, già nel periodo deista, il giovane
Spinoza affermava l‟esistenza di Dio solo “filosoficamente parlando” e ne deduce che «il suo
Dio non aveva nulla a che vedere con quello dei credenti» (I.S. RÉVAH, Spinoza e Juan De
Prado, Paris, Mouton, 1959, oggi in ID., Des Marranes à Spinoza, cit., pp. 173-220).
50 B. SPINOZA, Etica, V, 23, p. 1072.
392 Emilio M. De Tommaso

damenta dottrinali la comunità ebraica di tutta l‟Europa del XVII secolo,


che non potè fare a meno di reagire in maniera pubblicamente aggressiva:
con i cherem; col rogo dei suoi testi più eretici; con l‟umiliante cerimonia di
espiazione in sinagoga.
Gli stessi ambienti cristiani ne furono investiti, perché la sua dottrina
sembrava contraddire non solo l‟ebraismo di matrice farisaica, ma persino
il cristianesimo. Al punto che qualcuno, come von Limborch, sentì il biso-
gno, quasi cinquant‟anni dopo la sua morte, di curare l‟edizione del testo
pseudo-autobiografico dell‟Exemplar humanae vitae, accompagnandolo con
una confutazione del pensiero dacostiano.
Sembra inevitabile che un caso così eclatante riuscisse almeno ad insinua-
re il seme del dubbio nelle coscienze più sensibili, soprattutto tra quei giova-
ni che gli stavano più vicino, come nel caso di Baruch Spinoza. Si può dunque
pensare ad un piccolo Baruch sulle ginocchia dell‟eretico Uriel? Malgrado
quegli fosse ancora giovanissimo alla morte di questo (aveva appena otto an-
ni), l‟ormai accertato legame di parentela, suggerisce un‟assai probabile fre-
quentazione, se non fisica, quantomeno intellettuale tra i due. È vero che i
testi più scandalosi di Da Costa erano stati dati al rogo (e, come visto, po-
chissime copie si erano salvate), ma esisteva e circolava se non altro il lavoro
di Semuel Da Silva, il Tratado da Immortalidade da Alma, che ne riportava ampi
stralci, sebbene con l‟intento di confutarli. È ragionevole pensare che in que-
gli anni Spinoza abbia avuto modo di leggerlo e meditarlo. Il che trova con-
ferma nel fatto che nelle sue opere maggiori, sia nel Tractatus Theologico-poli-
ticus sia nell‟Ethica, non mancano i luoghi in cui, non solo il pensiero di Spi-
noza, ma il suo stesso linguaggio ricalcano quelli di Uriel Da Costa. In parti-
colare la delicata questione dell‟immortalità dell‟anima, da entrambi decisa-
mente rinnegata ed etichettata come una dottrina apocrifa, inserita nelle Sa-
cre Scritture soltanto dall‟interpolazione mirata degli ipocriti Farisei.
È vero che la speculazione dell‟Ethica approderà, nella quinta parte, ad
un recupero dell‟eternità dell‟anima (che nel giovane Spinoza neanche s‟in-
travedeva), ma solo in quanto idea corporis sub specie aeternitatis, ovvero nella
misura in cui Dio è necessariamente idea del corpo. Laddove l‟eternità,
lungi dall‟essere una categoria temporale, si pone piuttosto come dimen-
sione ontologico-metafisica della sostanza, di quel Deus sive Natura, che sem-
bra meno lontano dal deismo di matrice dacostiana di quanto qualcuno ab-
bia voluto vedere51.

51 H.A. WOLFSON, op. cit., pp. 322-325 [669-672].


CARLO FANELLI

Retorica e conoscenza della natura umana


nella commedia del Rinascimento

Il presente articolo intende indagare il legame tra la retorica e la commedia


rinascimentale nella misura in cui la retorica stessa funge da dispositivo lin-
guistico atto a sostenere la mimesi del reale e la natura umana. In quanto ele-
mento costitutivo delle tecniche della persuasione, l‟utilizzo della retorica è
finalizzato alla volontà di apprendimento. In tal senso, quindi, il teatro, e
nello specifico la commedia, si pone come strumento di indagine della natura
umana, la cui rappresentazione fatta oggetto dalla finzione è percepita dallo
spettatore come realtà da conoscere. Ciò è decisivo nella commedia rinasci-
mentale in quanto genere governato dal principio mimetico e dalle altre co-
struzioni retoriche invalse nella pratica della cortigianeria. Tale formulazione
ha come riferimento normativo le dottrine di Aristotele Cicerone e Quinti-
liano e la commedia latina.

1. Ρετορικη τεχνε e μίμησις

Nella formulazione del concetto di μίμησις Aristotele annette il prin-


cipio secondo cui non è l‟oggetto imitato a essere piacevole, bensì la sua per-
fetta riproduzione (Ret. I A 11, 1371b, 5-10). Tra le «composizioni imita-
tive» vi è il teatro (Poet. I 1447a 15). Tra le cose piacevoli enumera il riso:
«le cose risibili […] uomini, discorsi e opere», sono ugualmente seducenti,
conferendo in tal modo anche al riso un potere attrattivo tale da farne og-
getto di imitazione.
L‟imitazione del reale avviene anche per mezzo della riproduzione di ca-
tegorie umane che, nella Retorica, Aristotele denomina «caratteri», dal so-
stantivo greco εἰκόνιον che significa «conio», nel duplice significato di «pun-
zone», «impronta» o anche «marchio» 1 . Essi definiscono tipologie umane

1 Anche i Caratteri di Teofrasto, che mostrano l‟influsso dell‟Etica Nicomachea e riprendo-


no le definizioni della Retorica, approdando alla definizione proposta da Aristotele nella Poetica,
presentano personalità di uomini non malvagi, che non si sono macchiati di colpe eccessive,
tratteggiando, piuttosto, soggetti che vìolano le disposizioni della comunità per loro «rustici-
tà», per inoffensive fissazioni, non assumendo comportamenti delittuosi. Scritti nell‟ultimo
venticinquennio del IV sec. i Caratteri rappresentano un eccellente esempio di letteratura «bio-

Bollettino Filosofico 25 (2009): 393-406 393


394 Carlo Fanelli

legate all‟età, al censo, alle disposizioni naturali e al temperamento che riaf-


fiorano nei personaggi della commedia e ne conducono le dinamiche sceni-
che, soprattutto perché, come scrive Aristotele: «i personaggi di una trage-
dia non agiscono allo scopo di rendere certi caratteri, ma assumono certi ca-
ratteri perché siano effettuate certe azioni» (Poet. II 1448a). Passioni come la
«collera» e il «desiderio», centrali nella configurazione dei temperamenti, di-
vengono allo stesso tempo motivo e oggetto delle azioni compiute dai perso-
naggi definiti secondo tale tipologia naturale.
Ciò che palesa tutti gli aspetti relativi al carattere e le sue distinzioni se-
condo la varietà umana è il linguaggio, senza il quale un profilo psicologico
risulta incompleto. Sicché, insieme alla determinazione dei caratteri e alla
loro fenomenologia, nel Libro III della Retorica, Aristotele parla dell‟elocu-
zione e della sua tarda ricezione nella recitazione rapsodica e nella tragedia,
distinti per metrica e funzione pratica, rispetto alla declamazione. Differenti
tipi di elocuzione corrispondono alla varietà di linguaggi «la prosa scritta e
quella del dibattito orale, l‟oratoria politica e quella forense non sono uguali»
(Ret. III 12 5). Secondo Aristotele, la scrittura è la più «precisa», poiché per-
mette di fissare i concetti e può essere rielaborata; nel dibattito, invece,
l‟elocuzione si affida alla recitazione e può esprimere «caratteri» o «emo-
zioni», anche perché è sostenuta dalla presenza “scenica” di chi parla, dalla
sua gestualità e capacità di enunciazione: «Per questo – continua Aristotele -
i recitatori mirano sempre ai drammi dell‟una e dell‟altra specie, e i poeti
pure mirano ad essi» (Ret. III 12 10). Per mezzo dell‟elocuzione comuni-
chiamo le nostre argomentazioni agli ascoltatori. Chi parla deve avere cura
affinché il discorso abbia «proprietà» ed esprima passioni, rivelando caratteri.
La perizia espressiva rende persuasiva l‟argomentazione, induce a credere
che l‟oggetto della dissertazione verta alla verità, favorendone la capacità
persuasiva.

2. Retorica latina e arte dell’attore

Trasferendo il discorso alla retorica latina, Cicerone e Quintiliano rico-


noscono l‟eloquenza come arte mimetica fondata su un‟antica e attestata tra-
dizione, scienza aristocratica il cui esercizio è utile ad acquisire la giusta sa-
pienza. Entrambi gli auctores reputano il linguaggio una suprema espressione
umana e la retorica «scienza del parlare bene», di cui sono argomento «tutte

tica», spiccatamente volta al realismo quotidiano eminentemente riprodotta in età ellenistica


dalla commedia nuova di Menandro.
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 395

le cose che possano essere oggetto del discorso» (Inst. Or. II 21 4), soprat-
tutto la loro trattazione appare contigua alla recitazione. Tale accostamento
si somma alle analogie strutturali tra discorso oratorio e testo teatrale in
quanto la ripartizione dell‟orazione in esordio, narrazione, partizione, con-
ferma, confutazione, conclusione, appare affine alla strutturazione del testo
teatrale. Nello specifico, ad un elemento introduttivo come l‟esordio cor-
risponde il prologo e segue uno sviluppo di temi e azioni che l‟eloquenza
affida alla «narrazione» correlativo alla fabula, che trova il suo compimento
nell‟agnizione, momento in cui i nodi sviluppati (peripezia e catastrofe) han-
no risoluzione e compimento (positiva o negativa secondo il genere), così
come l‟arringa termina con la formula della «conclusione», suo momento di
verifica.
La struttura pentapartita comune a retorica e teatro rimanda anche ai cin-
que nuclei della retorica latina: «inventio [scelta], dispositio [collocazione], elo-
cutio [stile], memoria [memorizzazione] e pronuciatio [modo di pronunciare],
altrimenti detta actio [modo di recitare]» (Inst. Or. III 3 1). Cicerone definisce
l‟actio, sia «arte del porgere», che «eloquenza del corpo»; essa è azione ver-
bale sostenuta dalla gestualità, ma è soprattutto rivelazione della natura per
mezzo dei «movimenti dell‟anima» (animus) che si manifesta con lo sguardo
(vultus), la voce (sonus) ed il gesto (gestus) che incita e produce l‟arringa, è
quindi un principio attivo. La definizione del registro gestuale non è fine a se
stessa ma costituisce un elemento di armonica “composizione” modale inte-
grato alle facoltà vocali dell‟oratore. Voce e corpo sono strumenti comunica-
tivi per mezzo dei quali l‟oratore porta a compimento la mimesi e ricostru-
zione concettuale delle passioni e delle azioni. Cicerone sostiene che tale
processo è compiuto in modo differente da attore e oratore: il primo imita le
passioni, il secondo le declara (le mette in luce), offrendo all‟ascoltatore ciò
che il suo animo accoglie confusamente, riproducendone la vasta gamma con
le sfumature della voce. L‟oratore, interiorizzato „freddamente‟ il πατεος
per mezzo di un‟imitazione esemplare e persuasiva, estrinseca poi le passioni
congegnate artatamente come reali.
Secondo Cicerone l‟actor condivide l‟actio con l‟orator, azione verbale e
gestuale da cui ha origine la recitazione e l‟arringa, il cui compimento ri-
chiede il controllo del decorum (“adeguatezza al contesto”), sovrastruttura
moralistica e culturale che inalvea l‟arte del discorso all‟interno del neces-
sario contegno e del rispetto degli statuti sociali, requisito che interessa il
nostro discorso per la ripresa che avrà nel Rinascimento.
396 Carlo Fanelli

3. Retorica, comico e commedia

A quanto affermato da Cicerone a proposito del decorum si aggiunge ciò


che scrive Quintiliano: «All‟oratore non si addicono affatto smorfie del volto
e la ridicola comicità dei gesti: queste sono cose che di solito fanno ridere
quando le fanno i mimi. Anche la mordacità tipica dei buffoni e degli attori
comici è del tutto estranea alle persona dell‟oratore: l‟oscenità, poi, deve es-
sere lontana non soltanto dalle parole, ma anche dal loro significato» (Inst. Or.
VI 3 29). Altrettanto vale per la definizione del carattere, cioè: «nome», «na-
tura», «condotta», «condizione», «abitudini», «stato affettivo», «tendenze», «di-
segni», «azioni», «accidenti», «discorsi», tutti questo sono «attributi delle per-
sone» che l‟oratore può sfruttare nel suo discorso. Le qualità di un individuo
possono essere oggetto di «congetture» derivanti anche dal nome in quanto
distinzione semantica e sonora. Anche un appellativo, infatti, può essere imi-
tato, in quanto, come dice Aristotele nella Retorica: «i nomi sono imitazioni e
la voce è la più mimetica della nostre facoltà» (Ret. III 1 1404a, 20). Tale si-
stema di rifrazione finalizzata è tipico nella scelta dei caratteri e nella deno-
minazione dei personaggi teatrali e particolarmente quelli comici, dei quali
l‟«onomastica mimetica» precorre il ritratto, confermato e completato dalla
«condizione» sociale, codice etico e del comportamento, condivisi con lo spet-
tatore. Per Quintiliano difatti può essere utile inserire nella narrazione per-
sonaggi fittizi, «prosopopee, personificazioni», per mezzo delle quali manife-
stare il pensiero degli avversari, «come se essi parlassero fra sé e sé», oppure
parlando «con la bocca di un‟altra persona», adattando «a coloro i quali pre-
stiamo la voce il loro carattere particolare», un procedimento simile alla co-
struzione secondo verosimiglianza della fabula teatrale, nonché del procedi-
mento di interpretazione di un personaggio da parte dell‟attore. Ne scaturi-
sce il cosiddetto «discorso figurato», costruito su immagini d‟individui la cui
corrispondenza dinamica è la sermocinatio (discorso o dialogo) (Inst. Or. IX 2
31), procedimento paritetico all‟interlocuzione nelle battute teatrali. L‟«eto-
pea», cioè «imitazione delle caratteristiche delle persone» riferita ai fatti ed
alle parole, è da utilizzare, per Quintiliano, con fine burlesco verso chi è og-
getto di tale imitazione.
Per Cicerone, oltre a “costruire” personaggi fittizi, l‟oratore non deve li-
mitarsi alla comica esasperazione dei difetti fisici dell‟avversario ma soste-
nere il suo discorso con «due generi di facezie», dei quali: «il primo consiste
in un fatto, l‟altro in un detto» (De Or. II 2 40), combinando, quindi, ruolo
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 397

del drammaturgo e quello dell‟attore2. Nel primo caso «il fatto» corrisponde
all‟aneddoto (narratio), adatto a «esporre e dare evidenza concreta a situa-
zioni che paiano a un tempo verosimili, come esige l‟aneddoto, e un po‟ ver-
gognose, come richiede l‟umorismo» (De Or. II 66 264); il «detto» invece
corrisponde ai ritratti (imagines) che «prendono di mira deformità o qualche
difetto fisico, confrontandoli con qualcosa di peggio [e ancora] immagini
paradossali, per eccesso o per difetto, che vengono spinte fino all‟incredi-
bile» (De Or. II 267). La distinzione tra aneddoto e ritratto, che proclama la
contrazione dall‟umorismo al grottesco, si rifà alle due tipologie del comico:
l‟umorismo contempla l‟interiorità e gli aspetti filosofici è una categoria ver-
bale consapevolmente irrisoria; il ridicolo, riverbera la corporeità, svela il di-
sprezzo nei confronti di chi ne è vittima, è azione e non solo pensiero, è im-
magine e gesto, oltre che parola.
Per screditare il suo avversario l‟oratore deve cogliere anche i lati
piacevoli e ridicoli delle situazioni facendo uso dei dicta (detti, massime) e
degli ex ambiguo dicta (doppi sensi), di cui Cicerone propone vari esempi:
quelli che scaturiscono dalla delusione delle nostre attese; quelli generati
dalla modificazione di alcune parole, o di un nome (la παρανονιμια greca);
l‟utilizzo di versi e proverbi, le parole colte nel senso letterale, l‟allegoria, la
metafora e l‟ironia (De Or. II 244-260). Anche per Quintiliano, nella restitu-
zione di una circostanza realistica, non sono da disdegnare i «detti popolari e
le massime recepite dall‟opinione pubblica», poiché si rivelano «testimoni-
anze» vertenti alla giustizia ed alla verità (Inst. Or. V 11 37). Si ottiene in tale
modo, lo stesso effetto procurato dalle battute teatrali, in cui, con brevi
scambi verbali, il ritmo serrato del dialogo permette di tenere costante-
mente attivo il tono della comicità.
Tutte le indicazioni fornite da Cicerone e Quintiliano, relative al gesto e
alla parola, riconducono ad alcuni concetti ricorrenti: la necessità di eleganza,
armonia e realismo. Per Quintiliano la declamazione, che è la reale proiezio-
ne del dibattimento forense, deve apparire elegante ma «assomigliare alla ve-
rità», così come fanno gli attori comici:
che non si esprimono nel modo in cui si parla comunemente (che non consistereb-
be una forma d‟arte), eppure non si allontanano dalla naturalezza (in questo difetto
si perderebbe l‟imitazione della realtà), ma adornano la banalità di questo linguag-
gio corrente con quelli che si potrebbero definire abbellimenti teatrali (Inst. Or. II 10 13).

2 Sebbene nel De Oratore Cicerone ponga spesso l‟accento sull‟inferiore efficacia della scrit-
tura rispetto all‟oralità oratoria, giudizio che associato alla naturalezza della dissertazione esal-
ta, indirettamente, la pratica della recitazione.
398 Carlo Fanelli

Ciò determina la possibilità di fare ampio uso delle immagini, dei temi, delle
tecniche del comico, disponendo tuttavia del decorum per compiere la sua
imitazione in una modo virtuoso.
Al comico, che Cicerone definisce «imitatio vitae, speculum consuetudi-
nis, imago veritatis», è dedicato il de ridiculis excursus del Libro II del De oratore,
in cui l‟auctor discute, appunto, sulle facoltà del ridicolo, meccanismo che
deforma immagini, situazioni e parole allo scopo di ottenere un effetto esila-
rante sul discorso. Sulla definizione e le indicazioni di utilizzo del comico Quin-
tiliano è più controllato rispetto a Cicerone, anche se tiene in grande consi-
derazione la commedia, ritenendola „utile‟ all‟eloquenza. In quanto incline al
verosimile, cui adempie imitando caratteri e passioni reali, la commedia for-
nisce all‟oratore un repertorio di caratteri e situazioni per dotare il suo di-
scorso del necessario realismo, mutuandone il linguaggio analogamente mi-
metico e verosimile, utile a corredare l‟orazione delle necessarie doti di per-
suasione e diletto. Il richiamo è alla dottrina peripatetica dei caratteri, posti a
fondamento dell‟ετεος e delle sue manifestazioni nella cultura e nell‟arte,
nell‟eloquenza e nel teatro e alle commedie di Menandro, più moderate ri-
spetto a quelle di Aristofane e dei comici latini3. Come appare evidente sia
Cicerone che Quintiliano, non fermano la loro osservazione sul comico (e
sul teatro) all‟attore ma si rivolgono precisamente anche al drammaturgo. Al
centro dell‟interesse di entrambi, naturalmente, resta la pratica fortemente
regolamentata del riso ed il suo utilizzo, come aggregatore sociale e come
espediente per rendere più chiaro e efficace il discorso. In accordo con Cice-
rone, e recuperando la già menzionata definizione aristotelica, Quintiliano
riconosce che il riso è «qualcosa di deforme e di vergognoso» anzi, considera
la possibilità che una frase ridicola possa essere il più delle volte falsa e volu-
tamente deformata, aggiungendo che il riso scaturisce facilmente dalla «si-
mulazione» e «dissimulazione» (Inst. Or. VI 3 85). L‟utilizzo del riso deve ne-
cessariamente rientrare nella sfera della cosiddetta urbanitas, e non sfociare
nella rusticitas. Tuttavia è innegabile, per Quintiliano, che il riso possieda una
forza «violentissima, alla quale non è assolutamente possibile opporsi»; in più
esso: «svela i pensieri solo tramite l‟espressione del volto e l‟inflessione della
voce, ma scuote tutto il corpo con la sua forza» (Inst. Or. VI 3 9). Al riso
quindi si riconosce una grande forza comunicativa che risiede principalmente

3 Quintiliano limita a Terenzio il suo giudizio positivo sulla commedia latina e non parla
di Plauto. Ciò, ovviamente, è motivato dal diffuso parere sui due autori, considerati più raf-
finato il primo, triviale e „popolaresco‟ il secondo. Lo stesso Terenzio imputava a Plauto di es-
sere fuori moda, ma soprattutto di non avere imitato lo stile limpido, rigoroso e piacevole di
Menandro, deformando lo «specchio della vita» con deteriori „trovate‟ comiche.
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 399

nell‟espressione del volto e nella voce, ma costringe il corpo a mosse che po-
trebbero trasgredire il decorum. Non essendo oggetto d‟insegnamento, in quan-
to relativo alla sfera quotidiana, quindi non assimilabile a sovrastrutture con-
cettuali modellanti l‟espressione, il comico, miscuglio tra ridiculus (ridicolo),
salsus (spiritoso) e facetum (faceto) è, tuttavia, capace di sostenere una perfet-
ta imitazione per mezzo del verosimile. Quintiliano estende le capacità mi-
metiche del comico a ogni tipo di discorso: «il ridicolo si basa sulle cose e
sulle parole […] le cose ridicole noi le facciamo e le diciamo. Il riso viene pro-
vocato da una nostra azione alla quale, a volte, mescolato al ridicolo, si trova
un elemento di serietà […] Valga poi la medesima considerazione a propo-
sito di un volto o di un gesto ridicolo» (Inst. Or. VI 3 26). Soprattutto nel-
l‟utilizzo del ridicolo ciò rende cruciale il connubio fra parola e gesto. Pro-
prio per tale motivo il suo concepimento e la sua fase espressiva necessitano
di estremo equilibrio. Come abbiamo già visto, secondo Cicerone, per smi-
nuire l‟immagine pubblica del proprio avversario, se ne propone una rappre-
sentazione comica, verbale e gestuale sfruttando turpitudo et deformitas. Con
tale espediente l‟oratore può guadagnarsi il favore dell‟uditorio, senza ledere
la decenza con l‟immagine spiritosa dell‟avversario che ha creato. Egli deve
rispettare i sentimenti della platea e non offendere con le parole, poiché:
«non può essere oggetto di riso né la malvagità estrema che si è macchiata di
delitti, né, per contro, l‟infelicità estrema: si pretende che i malfattori siano
colpiti da una forza più potente del ridicolo, mentre non piace che gli infelici
siano derisi, a meno che non siano arroganti» (De Or. II 237). Tale specifica-
zione rimanda ai personaggi comici di Aristotele, opposti a quelli che Cicero-
ne definisce: «non meritevoli né di grande odio né di grandissima compassio-
ne» (De Or. II 59 238). Le doti di questi ultimi coincidono, poi, con le qualità
eccezionali di virtù o di giustizia proprie dei personaggi aristotelici passati
dalla felicità all‟infelicità. Il ritratto comico dell‟avversario cui accenna Cice-
rone, utile all‟oratore per prevalere nel foro, è identico a quello del perso-
naggio teatrale canonico.
Quanto sostenuto da Cicerone e Quintiliano sul comico rimarca, ancora
una volta, la centralità dell‟eloquenza e il suo apparentamento col teatro: l‟a-
zione sullo spettatore, la fusione fra ετηικῴν (caratteri) e πατητιχῴν (pas-
sioni), su cui poggia la funzione dell‟eloquenza che deve, come detto, infor-
mare, commuovere e dilettare.
Complementare alle osservazioni sulle trasformazioni linguistiche, in quan-
to sostanza e struttura del discorso, la retorica ha assunto, sino alla sua apparen-
te decadenza (a fine Ottocento), il ruolo di sostenere l‟arte del parlare. La
400 Carlo Fanelli

cultura rinascimentale vi ha affidato il disciplinamento di un codice linguisti-


co, il presidio teorico e pratico dell‟esercizio della cortigianeria, in quanto
essa stessa scissa in teoria e tecnica dell‟argomentazione, nonché la funzione
di dispositivo concettuale e prassi di regolamentazione dei generi teatrali e
della relativa pratica dell‟attore, reputata l‟esperienza più prossima alla reto-
rica, anche dai grandi maestri dell‟eloquenza. Nel teatro, infine, e più preci-
samente nella commedia, sostenuta dalle tecniche e dalle regole retoriche è
individuata una funzione speculativa nei confronti del reale in quanto oggetto
della mimesi. Ciò fa del genere comico un eminente strumento di rappre-
sentazione e apprendimento della natura umana.

3.1. Il modello plautino-terenziano

Il corpus comico cui sostanzialmente attende il teatro rinascimentale è quel-


lo di Plauto e Terenzio. Quest‟ultimo, nella sua quasi specularità con Menan-
dro, propone un modello alternativo a Plauto, in cui il rapporto col reale e
con l‟amore esiste nella misura in cui è oggetto di burla, e annulla qualsiasi
possibilità di approfondimento psicologico che è invece il tratto peculiare
della drammaturgia terenziana.
Terenzio concepisce una proiezione del comico non più fine a se stesso,
ma come atto di conoscenza socratica, un dispositivo che fa del principio mi-
metico del reale, il punto di osservazione privilegiato e dello svelamento del-
la natura umana e della sua varietà. Per tale motivo, sebbene la sua indagine
muova necessariamente dalla decifrazione dei caratteri umani attraverso la
commedia, che come annunciato dai maestri di retorica è strumento privile-
giato di attenta considerazione del reale, evolve poi nei confronti dello stesso
archetipo, nel tentativo di assumere una sguardo differente nei confronti del-
la vita.

3.2. Morfologia e linguaggio della commedia rinascimentale

L‟avvertita necessità di giustificare la tensione a sviluppare il modello


plautino-terenziano verso forme più moderne, non destituisce negli umanisti
la consapevolezza di maneggiare una materia in mutamento dal punto di vista
strutturale ma soprattutto linguistico, come è già evidente nelle prime com-
medie rinascimentali. Ludovico Ariosto nella Cassaria (1508) e Bernardo Do-
vizi da Bibbiena nella Calandria (1513) illustrano in modo chiaro la loro deci-
siva svolta verso la nuova drammaturgia in volgare, insieme alle prime prese
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 401

di distanza nei confronti del modello latino. Non si compie un distacco defi-
nitivo dal prototipo plautino-terenziano ma di una consapevole necessità di
creare una «nova comedia» confacente, oltre alle logiche della μίμεσις anche
ai codici culturali rinascimentali.
Si tratta di un processo di graduale alienazione dal modello latino, solo
esteriormente inattesa e fortuita che conduce a una ricerca di autonomia e
dignità nei confronti della tradizione. Le innovazioni linguistiche introdotte
nel teatro pervengono dalle Prose della volgar lingua di Bembo e dall‟Orlando
Furioso di Ariosto ma soprattutto dal Decameron di Boccaccio, prodigioso ar-
chivio di vocaboli, temi e personaggi comici. Ne scaturisce una combina-
zione tra stile antico, tutelante il rigore classicistico e „nuovo‟ codice lingui-
stico sostegno più efficace alla pratica mimetica della vita reale sulla scena.
Esempio di timida destituzione dalle logiche formali classicistiche e insolito
svelamento dei sentimenti, è la Comedia degli straccioni (1543) di Annibal Ca-
ro che sebbene ancora vicina al modello plautino, risente del mutato clima
culturale e spirituale, quindi la maggiore distanza dalla comicità trasgressiva
di Plauto, a favore di toni e situazioni in cui l‟intento moralistico è più visto-
so e soprattutto sopravanza la volontà di svelare la natura umana e la sfera
affettiva dei due fratelli protagonisti della commedia. La materia drammatur-
gica proposta dal Caro ricostituisce sulla scena, ambienti, costumi, avveni-
menti, definiti da uno stile insieme semplice e vivo, ma caratterizzato da un‟ac-
centuata nota patetica che è, oltretutto, la qualità nuova di questa commedia,
indirizzata all‟apertura alle sensibilità emotiva piuttosto che alla voluttà e al
materialismo comico. Tale accento risente del teatro terenziano, ma avvia il
genere delle commedie «lagrimose» di fine secolo.
Esperienza significativa anche dal punto di vista linguistico è quella delle
commedie di Niccolò Machiavelli. la cui cifra è quella sincretica dell‟«hi-
storico, comico et tragico». Tale indirizzo drammaturgico porta il segretario
fiorentino a caricare di una dimensione psicologica e sociologica personaggi
prima contraddittori, incoerenti, iperbolici, privi di connotati psico-sociali
definiti. Problemi legati alla definizione di una lingua italica, in rapporto alla
commedia, sono affrontati nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in
cui Machiavelli scrive
che il fine d‟una commedia sia proporre uno specchio d‟una vita privata, nondi-
meno il suo modo del farlo è con certa urbanità e termini che suonino riso, acciò
che gli uomini correndo a quella delettazione gustino poi l‟esempio utile che vi è
sotto. E perciò le persone con chi difficilmente possano essere persone gravi la
trattano, perché non può esser gravità in un servo fraudolente, in un vecchio de-
riso, in un giovane impazzato d‟amore, in una puttana lusinghiera, in un parasito
402 Carlo Fanelli

goloso, ma ben risulta di questa composizione d‟uomini effetti gravi e utili alla
vita nostra. Ma perché le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termi-
ni e motti che facciano questi effetti, i quali termini se non propri e patrii, dove
sieno soli, interi e noti, non muovon né posson muovere (MACHIAVELLI 1989:
274-275).

L‟attenzione riservata alla lingua, nella volontà di restituire quella verità di


vita sulla scena, attraverso un parlato sempre più vicino alla quotidianità, si
associa alla particolare modalità con la quale gli intrecci comici si confron-
tano con la rappresentazione dei rapporti intimi e familiari che ne sono seg-
mento rilevante. Tale problema rappresenta un altro requisito del processo
mimetico del reale, sviluppato dalla commedia classica, e recuperato dalla
prassi rinascimentale. Sebbene la descrizione dei legami intimi e domestici
ricopra un ruolo importante nella commedia latina – basti pensare ai vari epi-
sodi in cui l‟infedeltà coniugale si trasforma in azione comica, e quanto sia im-
portante, nelle commedie terenziane, il rapporto genitore-figlio – e che tale
requisito permanga in quella rinascimentale, parimenti tale specificità non è
mai oggetto di una tangibile ricostruzione ambientale drammaturgica e sceni-
ca. L‟intimità di tale condizione non è mai restituita concretamente sulla sce-
na, ma avviene sempre in esterno. I luoghi direttamente collegati a tali condi-
zioni come tinelli, alcove o sale, possono essere vagamente evocati nei dialo-
ghi, celati da cortine o pannelli dipinti, ma non esistono fisicamente sulla sce-
na. Si tratta di uno «spazio extrascenico […] che si immaginava […] non visi-
bile agli spettatori a causa della presenza di un diaframma», cui si aggiunge lo
«spazio extrascenico adiacente» che rappresentava «luoghi adiacenti allo spa-
zio scenico, quelli cioè che lo spettatore doveva immaginare come collocati
più vicino […]» (DI BENEDETTO, MEDDA 1997: 34-39). Tale orientamento
scenico scaturisce dalla sintesi fra il costume antico e quello rinascimentale,
secondo cui il teatro, per una sorta di pudore cautelativo, non doveva mai
rappresentare i momenti più intimi della famiglia, ma al massimo descriverli
nei dialoghi. È solo la vita di relazione sociale, al di fuori della casa, ad essere
portata in scena non quella domestica, nonostante il nesso reciproco e l‟in-
fluenza di entrambe sull‟azione della commedia, gli intrighi passionali e i re-
troscena erotici, il controllo assoluto sulle giovani donne allevate per coglie-
re nozze vantaggiose. Tutto ciò è vissuto, quindi rappresentato, in modo „ester-
no‟, essendo il sostegno dell‟intreccio e parte integrante dell‟ingranaggio co-
mico. I furtivi convegni amorosi secretati dalle mura domestiche erano con-
certati sui loro usci, nelle piazze o nelle vie, cui la scenografia e insieme i ri-
chiami diretti nel testo rimandavano.
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 403

3.3. Retorica e commedia erudita

Una delle dimostrazioni del grande valore normativo assegnato alla reto-
rica nella costruzione di un linguaggio comico è presente nella Poetica di Ber-
nardino Daniello (1536), in cui si scorge la combinazione tra i precetti forniti
dall‟Ars poetica di Orazio e l‟eloquenza ciceroniana. Il discorso analitico pro-
posto da Daniello parte dall‟antitesi fra tragico e comico, essendo la com-
media a suo avviso negazione del tragico. Tuttavia, continua Daniello, nono-
stante la posizione antitetica rispetto al genere tragico cui è universalmente
assegnato un altissimo valore da un punto di vista formale e stilistico, il codi-
ce linguistico del comico può ugualmente raggiungere elevazione per mezzo
dell‟elocutio, strumento retorico per mezzo del quale coinvolgere emotiva-
mente lo spettatore. Ovviamente a sostenere l‟impianto retorico del comico,
Daniello chiama in causa anche gli altri assiomi ciceroniani, raccomandando
che l‟organizzazione dei concetti sia condotta nel rispetto di inventio e disposi-
tivo. Infine, ribadendo il necessario rispetto del decorum fa in modo di separa-
re il comico dal ridicolo. Tale principio si connette all‟esigenza avvertita da
Orazio di attenuare le componenti più rozze del disarmonico e grossolano
teatro comico latino, ai suoi occhi indifferente nei confronti della raffinatezza
ellenica. Per mezzo del decorum l‟oratore e l‟attore mantengono fede ai prin-
cipi di misura e contegno necessari a una corretta costruzione del discorso.
Ciò fa si che nella prima metà del Cinquecento, dall‟incontro fra il principio
dell’utile et dulce di Orazio e la dottrina ciceroniana che unisce il piacere este-
tico procurato dai verba (le parole) alla res (la materia), nasca un moderno co-
dice letterario comico destinato alla scrittura, paritetico al linguaggio „ge-
stuale‟ e scenico ugualmente regolato dai principi della retorica. Si definisce,
quindi, una nuova dialettica tra linguaggio del corpo, cioè una recitazione ba-
sata su gesti controllati e meditati e un linguaggio dominato dalla temperanza
e dall‟eloquenza, quindi abile a esprimere le passioni umane.
Altro principio moralizzatore del comico, che dal sistema retorico cice-
roniano, non astrattamente ma concretamente, giunge alla cultura cortigiana
cinquecentesca è l‟utilizzo dei doppi sensi, corrispondenti a un complesso
sistema i cui schemi verbali sono associati a costrutti semantici, in cui parole
atte a suscitare il riso richiamano aneddoti e ritratti emblematici. Ciò aziona
un dispositivo dissimulatorio in cui il concetto ciceroniano di ironia si tra-
sforma nel mascheramento, in un gioco di finzione in cui la situazione oscena
permane, ma giunge paludata da espressioni verbali non sconvenienti. L‟uti-
lizzo delle allegorie rimanda anche all‟antica teoria peripatetica dei «carat-
404 Carlo Fanelli

teri» che nella commedia agisce da consistente fonte di soggetti e personaggi.


Di alcuni modelli peripatetici sono volutamente esasperati gli aspetti negativi,
comici e gretti. Tali prototipi di personaggi fissi, nati dalla commedia classica
sono riprodotti nel teatro cinquecentesco e le loro caratteristiche psicologi-
che e le relative azioni, svolte secondo un canone prestabilito, individuano i
percorsi tematici, altrettanto canonici, del genere comico. I vecchi sciocchi,
taccagni e lascivi, vittime proverbiali dell‟intreccio comico. I giovani innamo-
rati e i servi che dominano l‟azione amorosa e quella comica. I personaggi fem-
minili, su cui poggia il baricentro erotico della commedia. Tutti assolvono al-la
funzione di entità riflettenti la mediocrità di un mondo basso e volgare cui
con sguardo impietoso, sarcastico ma svagato, si rivolge lo spettatore corti-
giano che ne prende le distanze, in modo autoconsolatorio, prima traendo
godimento dalle azioni facete, poi giudicandole eticamente. Si forma così un
repertorio completo e universale di figure e relativi temperamenti che si co-
niuga col sistema dei personaggi fissi, da cui scaturiscono figure dall‟im-
moralità e inettitudine proverbiale.
I problemi relativi al travestimento e alla „lettura‟ del reale attraverso il
teatro, esprimevano la necessità già avvertita nella prima metà del Cinque-
cento di mettere in pratica una forma di recitazione basata sull‟utilizzo empi-
rico dei precetti di Cicerone e Quintiliano, fino a quel momento non ancora
sperimentati direttamente sulla scena e bisognosi di una sistematizzazione
proprio dal punto di vista teatrale, superando l‟irrisolvibile antitesi aristote-
lica fra poesia e spettacolo. Già Giraldi Cinzio, nel Discorso intorno al comporre
delle commedie e delle tragedie, ammetteva: «per le sole parole in essa poste,
una occulta virtù, che, senza lo spettacolo anco muova agli affetti chi legge»
(VICENTINI 2003: 118), proponendo il recupero di quei punti tanto cruciali,
quanto irrisolti, della Poetica dove Aristotele sembra enfatizzare l‟indipen-
denza del testo letterario rispetto allo spettacolo. Ludovico Castelvetro, nel-
la Poetica di Aristotele vulgarizzata et sposta (1570), smentisce tale antitesi, attestan-
do la necessità che il poeta, nel momento della creazione, tenga conto soprat-
tutto della messinscena. Angelo Ingegneri, nel trattato Della poesia rappresen-
tativa e del modo di rappresentare le favole sceniche (1598), in ossequio ad un prin-
cipio visivo, aristotelico, ripetuto, come vedremo, da Giraldi Cintio, assegna
centralità ai personaggi in quanto proprio nella loro nella loro definizione
che scrittura e recitazione si fondono come parti di un tutto. Stabiliti se-
condo prefissata condizione sociale, economica e professionale, come preve-
deva Aristotele e riproponeva Giraldi Cintio, ai personaggi teatrali non erano
consentite sfumature psicologiche o caratteriali; essi, come abbiamo visto, adot-
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 405

tavano gli antichi caratteri e un repertorio gestuale e linguistico codificato dal


decoro cortigiano che li rendeva reali e riconoscibili dallo spettatore. Per tale
motivo, Ingegneri insiste su una recitazione al tempo stesso, concreta e idealiz-
zata, conforme al realismo della scena che riproduce luoghi e ambienti noti
agli spettatori; condizione fondamentale per il pubblico cortigiano. S‟instau-
ra, di conseguenza, un rapporto stretto tra coerenza e verosimiglianza della
recitazione, dispositio poetica e „complicità‟ del pubblico alla finzione. Tale
disposizione obbliga l‟attore a misurare gesti e parole, poiché la recitazione
deve fungere da exemplum, nonostante sia imitazione del vero e del quoti-
diano. Tale funzione esemplare trasforma il teatro da pratica ludica a espe-
rienza culturale e sociale i cui caratteri costitutivi, la retorica come affine ar-
te rivelatrice e persuasiva, ne determinano la funzione di strumento mime-
tico e conoscitivo della natura umana.

4. Conclusioni

La capacità di svelare le pieghe dell‟animo umano coniugata alle doti di


leggerezza e piacevolezza, attesta la prevalenza del genere comico nella spet-
tacolarità rinascimentale, da non giustificare soltanto per l‟edonismo e il suo
carattere ludico e d‟intrattenimento inserito nel dispositivo della festa, ma
legittimato dal principio della μίμεσις, cui si rivolge come carattere costi-
tutivo. Il processo che guida il poeta e l‟attore a fare dell‟imitazione del reale
l‟obiettivo della sua attività, investe anche la funzione sociale dell‟arte, in
quanto volontà anti-speculativa ma attiva di rappresentazione del mondo.
Nel Rinascimento tale principio determina lo statuto formale e la funzione
sociale del teatro, il quale insegna attraverso una finzione „ben congegnata‟ di
fatti e personaggi, le cui azioni sono plausibili ma non reali (cioè verosimili),
il cui fine è possibile, poiché rivelatrice del gusto nei confronti dello spet-
tatore, per cui è sostenuto dal carattere, dotazione etica condivisa da persone
vere e personaggi inventati che le rispecchiano e che trasformano il teatro
stesso in pratica gnoseologica nei confronti della natura umana. Tale tipo-
logia di rappresentazione è, appunto, di maggiore pertinenza della commedia,
indicata dagli antichi oratori come la «composizione imitativa» che più dili-
gentemente restituisce la realtà essendo, quindi, molto più vicina alla vero-
simiglianza, individuata come la regola fondamentale della narrazione. Come
abbiamo visto, Quintiliano considera la commedia «di grande aiuto all‟elo-
quenza perché indaga persone e sentimenti» e conserva la schiettezza tipica
del linguaggio comune. È «elevata, elegante, leggiadra» ed è indicata da Quin-
406 Carlo Fanelli

tiliano come la «più simile all‟oratoria o adatta alla formazione degli oratori».
Poiché tendente al verosimile e all‟imitazione di caratteri e passioni reali, la
commedia offre all‟oratore gli elementi necessari alla riproduzione del reale
durante l‟arringa, mutuandone il linguaggio analogamente mimetico e verosimi-
le, utile a corredare l‟orazione delle necessarie doti edonistiche e persuasive.
Gli elementi di reciprocità fra eloquenza e comico, ritornano nella com-
media rinascimentale, giustificando quindi la preminenza di tale genere nello
spettacolo cinquecentesco quale esito del dibattito culturale del Rinasci-
mento, il cui perno è la retorica. Da tutto ciò, consegue che nel teatro uma-
nistico e specificamente nella commedia, persiste il costante rimando fra la
conformazione etica, antropologica ed estetica del comico e la sua utilità
concreta nella pratica del foro, un connubio teorizzato dagli intellettuali cin-
quecenteschi che equipaggia il teatro a divenire un privilegiato strumento di
conoscenza e svelamento della natura umana.

Bibliografia

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ANTONIA GIGLIO

Perdonare l’imperdonabile

L‟intento del presente lavoro concerne la questione del rapporto tra per-
dono – considerato entro i limiti delle offese perdonabili e in una dimen-
sione sostanzialmente estranea al diritto e alla giustizia – e offese imper-
donabili. Più precisamente cercherò di comprendere la natura peculiare
che tale rapporto assume nei comportamenti umani alla luce del pensiero
di Vladimir Jankélévitch, di Hannah Arendt e di Jacques Derrida, ed in
particolar modo alla luce della dimensione interpersonale del perdono, ov-
vero, dell‟idea che il perdono sia un dialogo, «un rapporto dialogico con
l‟altro, un rapporto nuovo che comporta la trasfigurazione del colpevole»1.
Al riguardo, la prima domanda da porsi sul tema del rapporto tra per-
dono e offese imperdonabili è se il perdono sia coessenziale ad una conce-
zione espiativa della punizione che equipara il reato al peccato, idea che
presume un colpevole pentito e pieno di gratitudine, che si redime a nuova
vita nell‟atto della sottomissione2.
Tale questione è resa particolarmente complessa dal fatto che, se da una
parte vi è una distanza culturale tra il perdono e i temi della giustizia – gli
assertori di questa tesi ritengono che la riflessione sul perdono sia stata
relegata in una dimensione etico–religiosa che non ci consente di apprez-
zare il suo contributo nella costruzione del sistema giudiziario – dall‟altra,
vi sono, per converso, sensazioni, emozioni e riflessioni che non potreb-
bero né esprimersi né essere sentite senza siffatta distanza culturale.
L‟aspetto più considerevole riguarda per l‟appunto questa distanza del
perdono dai temi della giustizia, definita di recente «profezia straniera»3. Il
perdono sarebbe una «profezia straniera» perché l‟incontro tra il cristianesi-
mo con la cultura greca – che non conosce il perdono – e romana avrebbe
prodotto una concezione meramente riduttiva del perdono quale segno di-
stintivo di una virtù individuale che si esplica nella gratuita remissione di una
colpa. Inoltre, l‟esercizio del perdono sarebbe un comportamento pericolo-

1 A. MASTANTUONO, La profezia straniera. Il perdono in alcune figure della filosofia contem-

poranea, Milano, San Paolo, 2002, p. 92.


2 Cf. M. BOUCHARD, G. MIEROLO (eds.), Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia at-

traverso la mediazione, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 55.


3 A. MASTANTUONO, op. cit., p. 57.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 407-422 407


408 Antonia Giglio

so per l‟equilibrio dei comportamenti umani improntati ad un‟intrinseca ra-


zionalità: nella filosofia occidentale l‟uso della forza viene sovente giustificato
dalla necessità e il perdono viene relegato nella sfera dell‟irragionevolezza.
Infine, conformemente a quanto taluni sostiene, la gratuità del perdono si
opporrebbe ad una visione universalistica della giustizia retributiva che de-
scrive i comportamenti umani in termini rigorosi di meriti e di colpe4. A ri-
prova di quanto detto va ricordato che il perdono e, del resto, la grazia, es-
sendo privi di quel carattere essenziale alla giustizia costituito dalla „misura‟,
sarebbero al di là del diritto5. In questa interpretazione l‟estraneità del per-
dono al diritto sarebbe comprovata da chi descrive la giustizia semplicemente
come il luogo in cui si misura la violenza6. Non si tratta quindi di fondare la
giustizia sul perdono delle vittime, perché qualora lo facessimo metteremmo
fine alla giustizia regolata da un terzo. Il perdono, infatti, pur essendo uno
strumento fecondo per avvicinarsi ai temi della giustizia, compresa quella
terrena, non può essere utilizzato come suo fondamento7.
La ragione di questa divaricazione sembra molto semplice e, tuttavia,
teoreticamente necessaria. Se è vero che la giustizia non può essere fondata
sul perdono, è anche vero, d‟altro canto, che per governare la violenza non
si può non ricorrere al perdono quale espressione necessaria al suo funzio-
namento. Attraverso il perdono ci si trattiene dall‟istintiva risposta vendi-
cativa e si pongono le premesse per il vero obiettivo finale, costituito dalla
riconciliazione tra le persone8. Una posizione del tutto singolare assume la
giustizia della riconciliazione, che del perdono diviene il cuore pulsante.
Prima di entrare in medias res, due fondamentali osservazioni, che pos-
sono essere considerate come le premesse della presente analisi.
1) La nozione di perdono va illustrata in alcune tendenze distintive, a co-
minciare dall‟idea del perdono come espiazione. Il tratto distintivo della sfe-
ra espiativa del perdono è che in essa, lasciando alla discrezione del più forte
l‟elargizione della grazia, non solo si realizza una giustizia vendicativa ed arbi-
traria, ma si rischia anche di tramandare ai posteri l‟idea più tradizionale del-
la punizione dove la persona che riceve il perdono è solo un soggetto sot-
tomesso, e la cui partecipazione all‟apparato punitivo costituisce per l‟appun-
to la conferma del funzionamento di quel potere che lo tiene soggiogato9.

4 Ibid.
5 M. BOUCHARD, G. MIEROLO (eds.), op. cit., p. 64.
6 E. RESTA, La certezza e la speranza: saggio su diritto e violenza, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 69.
7 M. BOUCHARD, G. MIEROLO (eds.), op. cit., pp. 59-60.
8 Ivi, pp. 53 e 59.
9 Ivi, p. 55.
Perdonare l’imperdonabile 409

2) Il perdono come riconciliazione, invece, è lasciato alla libera volontà


della vittima. Il perdono non può in nessun caso essere imposto per via le-
gale. È una scelta libera e interiore che il soggetto compie nel suo progetto
esistenziale per far collimare «un ideale di purezza trascendentale con una
giustizia amorevole e soccorrevole»10. In quest‟ottica, la giustizia appare
superflua o, addirittura, eccezionale: è superflua perché coincide con la
riconciliazione voluta dalla vittima e non v‟è spazio per una giustizia legit-
timata da soggetti diversi; è eccezionale perché l‟ideale del perdono e della
riconciliazione esprime un‟aspirazione possibile solo attraverso l‟interiorità
dell‟anima. Vale la pena, a questo proposito, ricordare che un perdono cir-
coscritto solo all‟ambito spirituale potrebbe trovare un‟applicazione margi-
nale o rimanere relegato al foro interiore della coscienza e trasfondersi in
esperienza concreta solo in casi eccezionali11.
È su questa logica dell‟eccezione, del perdono come eccezione assoluta,
come logica dell‟eccezione infinita», sostiene Derrida, «che noi dovremmo
incessantemente meditare. Non si dovrebbe poter dire “perdono”, doman-
dare o accordare il perdono che in modo infinitamente eccezionale12.
Vero è che il perdono è caratterizzato dalla extragiuridicità e dalla ir-
razionalità. Non esistono ragioni del perdono, né un dovere del perdono,
né un diritto del perdono. Si tratta di un evento gratuito e incondizionato.
A ben vedere, secondo Jankélévitch, il perdono sacrifica la possibilità di un
rapporto giuridico a un rapporto d‟amore, è al tempo stesso più e meno
del dono, «è evidentemente più del dono perché quanto a “donare” non
“dona” niente, si contenta di dimenticare l‟ingiuria, non vuole tenerne con-
to, la considera nulla […] Ma è più del dono: perché […] ha bisogno di
tutto il suo coraggio per sacrificare non già una parte del suo avere, ma il
suo proprio essere stesso, e più ancora, per sfidare i tabù sociali, per rifiu-
tare il dovere di punire […]»13. Qui giova indicare almeno le coordinate
fondamentali che caratterizzano la riflessione di Jankélévitch riguardo alla
questione del perdono, e cioè l‟essere un „avvenimento‟ che accade in un
certo istante del divenire storico; l‟essere un „dono gratuito‟ dell‟offeso al-
l‟offensore; l‟essere un „rapporto personale‟ con qualcuno. Il perdono è un
„avvenimento‟ che accade inspiegabilmente e inaspettatamente, introdu-
cendo un‟interruzione nella successione degli eventi, naturalmente costret-

10 Ivi, pp. 59-60.


11 Ivi, p. 60.
12 J. DERRIDA, Perdonare, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004, p. 56.
13 V. JANKÉLÉVITCH, Il Perdono, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1968, p. 185.
410 Antonia Giglio

ti nella dinamica della logica causa ed effetto. È altresì un dono perché com-
porta un‟interruzione non spiegabile razionalmente e cui l‟offeso non è ob-
bligato14. Esso non nasce dalla cancellazione dell‟offesa, ma dalla „buona
memoria‟ dell‟offesa stessa15. È l‟offeso a rinunciare, senza costrizione al-
cuna, ad essere risarcito. La „buona memoria‟ rende, dunque, possibile l‟at-
to del perdono e permette all‟offeso di liberarsi della logica della conse-
quenzialità. Un „dono gratuito‟ che «risolve i rapporti gelati dell‟uomo e
del male». In tal senso, il perdono rivela ciò che lo contraddistingue, il suo
dirigersi, sempre, non verso la colpa, piuttosto verso il colpevole, che
chiama ad un nuovo inizio.
La follia del perdono, il perdono che non si rassegna, al contrario, risolve i
rapporti gelati dell‟uomo e del male […] il perdono libera, liquida, liquefa le
acque vive che il rancore teneva prigioniere, dà una mano alla coscienza bloc-
cata fra i ghiacci16.

Per Hannah Arendt è un miracolo praticato dagli uomini, «[…] va praticato


dagli uomini gli uni verso gli altri prima che essi possano sperare di essere
perdonati anche da Dio»17. Il perdono, pur essendo un atto che promana dal-
l‟alto, non scaturisce necessariamente da Dio, ma da ogni persona che si può
permettere l‟atto di fede e il miracolo verso l‟altro. In questa impostazione si
palesa uno squilibrio non indifferente tra la persona che elargisce il perdono
e quella che lo riceve18. Proprio questo squilibrio rende difficile la compren-
sione dell‟aspetto relazionale del perdono. E qui si pone un‟altra osservazio-
ne che riguarda la potenza del perdono, che pur avendo la capacità di scio-
gliere i legami negativi, non è in grado di riallacciarne di positivi. Natural-
mente qui ci riferiamo al beneficiato del perdono che non ha alcun obbligo
nei confronti della vittima. Questo aspetto è stato colto da Paul Ricoeur. Se-
condo Ricoeur non è possibile scorgere nel perdono i tratti della reciprocità,
proprio perché la distanza che separa il perdonato dal perdonante, la profon-
dità della colpa dall‟altezza del perdono non può essere coperta dall‟espe-
rienza umana della reciprocità, ma solo da un atto di fede19. Il perdono, dun-
que, diversamente dal dono che vive entro la logica dello scambio, sembre-
rebbe escludere la possibilità di ricevere delle contropartite.

14 P. RACITI, La cittadinanza e le sue strutture di significato, Milano, F. Angeli, 2004, p. 147.


15 V. JANKÉLÉVITCH, op. cit., p. 87.
16 Ivi, p. 215.
17 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989, p. 177.
18 M. BOUCHARD, G. MIEROLO (eds.), op. cit., p. 64.
19 P. RICOEUR, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina, 2003, p. 663.
Perdonare l’imperdonabile 411

Un rilievo da fare, riguarda lo stretto legame che si instaura tra le rela-


zioni umane e l‟esperienza del perdono, anzi, del perdonarsi reciproca-
mente. Si tratta di non tenere più in considerazione una colpa abbandonan-
do ogni risentimento. Il perdono, infatti, ha una forte valenza nell‟equili-
brio delle relazioni e aiuta a recuperare l‟armonia interiore: è fondamen-
tale nella costruzione di relazioni umane positive.
Tuttavia, la riflessione sul valore del perdono non può esimersi dall‟af-
frontare il tragico banco di prova rappresentato dai crimini imperdonabili,
e, anzitutto la tremenda e tragica esperienza della shoah.
Il genocidio degli ebrei in Germania e nei territori occupati dai nazisti
durante il secondo conflitto mondiale – uno dei più drammatici massacri
che hanno caratterizzato il corso della storia dell‟Occidente – rimane an-
cora oggi il simbolo della più assurda violenza dell‟umanità. Secondo il
filosofo Vladimir Jankélévitch, esso non è paragonabile a nessuno dei mas-
sacri organizzati dai «despoti sanguinari di tutti i tempi» per liberarsi dei
loro nemici.

Lo sterminio degli ebrei non fu, come i massacri degli Armeni, una fiammata
di violenza: esso è stato dottrinalmente giustificato, filosoficamente spiegato,
metodicamente preparato, sistematicamente perpetrato dai dottrinari più pe-
danti che siano mai esistiti [...]20.

È il risultato dell‟applicazione sistematica di una teoria dogmatica che si


chiama antisemitismo. Shmuel Noah Eisenstadt ritiene che è fuorviante
porre lo sterminio degli Ebrei sullo stesso piano di altre atrocità. Da questo
assunto egli prosegue asserendo che la shoah «non è stata “soltanto” il mas-
sacro di un popolo da parte di un altro, perpetrato nel corso di una guerra
o a seguito di una persecuzione religiosa, o, come nel caso degli Armeni o
degli Zingari, un tentativo di genocidio ai danni di una minoranza stra-
niera. La shoah è stata il tentativo deliberato e pianificato, fondato su pre-
messe ideologiche pienamente articolate, di sterminare un certo gruppo na-
zional–religioso. È stata l‟unico tentativo di sterminare un‟intera nazione,
un intero popolo in base ad un‟ideologia compiutamente espressa che col-
locava quella collettività al di fuori dei confini dell‟umanità»21.

20 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, Firenze, Giuntina, 2004, pp. 32-33.


21 S.N. EISENSTADT, Jewish Civilization: The Jewish Historical Experience in a Comparative
Perspective, State University of New York, 1992; ID., Civiltà ebraica. L’esperienza storica degli
Ebrei in una prospettiva comparativa, tr. it. di M. Astrologo e F. Bises, Roma, Donzelli Edi-
tore, 1993, pp. 285-286.
412 Antonia Giglio

E chi, come Hannah Arendt, ha riflettuto sul rapporto tra perdono e


sterminio nazista degli Ebrei, ha fissato un limite invalicabile rappresentato
dall‟imperdonabile. «Tutto ciò che sappiamo», sostiene Hannah Arendt, «è
di non poter né punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il
dominio delle cose umane e le potenzialità del potere umano, distruggen-
doli entrambi radicalmente ovunque compaiano»22.
Si impone, a questo punto, una precisazione preliminare: collocandomi
all‟interno del punto di vista di Jankélévitch nella trattazione del perdono,
vorrei mostrare se non altro la problematicità e complessità della correla-
zione, a mio avviso forte, che è possibile rintracciare tra le offese imperdo-
nabili, l‟esistenza di una malvagità radicale («lo sterminio degli ebrei è il
prodotto della malvagità pura e della malvagità ontologica, della più diabo-
lica e gratuita malvagità che la storia abbia conosciuto»)23, l‟assenza di una
domanda di perdono («Bisognerebbe, per pretendere il perdono, dichia-
rarsi colpevoli, senza riserve né circostanze attenuanti»)24, e, infine, la man-
canza di sopravvissuti, i soli in condizione di poter rispondere a una plausi-
bile richiesta di perdono («Ciascuno è libero di perdonare le offese che ha
personalmente ricevuto, se lo ritiene opportuno. Ma quelle degli altri, con
che diritto le perdonerebbe?»)25. Nell‟analisi di Jankélévitch del perdono
fondamentale mi sembra essere il fatto che solo le vittime sono abilitate a
perdonare i loro carnefici. Nessuno può arrogarsi il compito di perdonare
in loro vece. Il perdono va richiesto dal colpevole, che deve ammettere la
sua colpa senza riserve né circostanze attenuanti. Tuttavia, il perdono non
può essere concesso per quei crimini che offendono la dignità dell‟essere
umano a tal punto da non avere come riscontro un castigo adeguato.

Che dunque non ci si meravigli se un crimine insondabile provoca in un certo


senso una meditazione inesauribile. Le invenzioni inaudite della crudeltà, gli
abissi della perversità più diabolica, le raffinatezze inimmaginabili dell‟odio,
tutto ciò ci lascia muti, e innanzitutto turba la mente26.

Come è evidente, la posizione di Jankélévitch sembra differire su questo


punto da Hannah Arendt. Per Jankélévitch anche la malvagità imperdona-
bile può ambire al perdono a condizione di manifestare i segni tangibili di

22 H. ARENDT, op. cit., p. 178.


23 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 18.
24 Ivi, p. 40.
25 Ivi, p. 43.
26 Ivi, p. 22.
Perdonare l’imperdonabile 413

un pentimento autentico. È necessario chiarire due punti decisivi. In primo


luogo il filosofo si riferisce a quei casi in cui la vittima è disposta a conce-
dere il perdono e il colpevole ha dato una piena confessione del suo crimi-
ne. In secondo luogo questo perdono si esplica solo nella sfera dei rapporti
individuali. Nella sfera del diritto e della giustizia appare, invece, fuori luo-
go: un‟intollerabile indulgenza nei riguardi dei carnefici. Al riguardo si ve-
da il punto di vista di Alain Gouhier: egli ritiene che davanti a dei crimini
esecrabili è il diritto della vittima alla libertà di perdonare che viene reso
nullo. Questo avviene perché la giustizia penale, essendo un argine contro
il dilagare del male, deve essere garantita27.
A parere di Jankélévitch, lo stermino degli ebrei è il prodotto della
malvagità “ontologica” dell‟essere umano, anzi, «della più diabolica e gra-
tuita malvagità che la storia abbia conosciuto»28.
Gli artefici di questo crimine contro natura sono dei „mostri‟ nel senso
vero e proprio del termine. Jankélévitch imposta un esame critico della
questione, sottolineando che se un „atto‟ nega l‟essenza dell‟uomo in quan-
to uomo, «la prescrizione che tenderebbe ad assolverlo in nome della mo-
rale contraddice essa stessa la morale»29. Per questa ragione, «tutti i criteri
giuridici», applicati di regola ai crimini di diritto comune in materia di pre-
scrizione, sono in questo caso insostenibili30.
«I crimini contro l‟umanità sono imprescrittibili, e cioè non possono es-
sere prescritti; il tempo non ha presa su di essi»31. Il riferimento è alla que-
relle che si è sviluppata in Francia all‟indomani dell‟approvazione della leg-
ge sull‟imprescrivibilità dei «crimini contro l‟umanità». Quando nel 1964
fu approvata in Francia l‟imprescrivibilità dei crimini contro l‟umanità, si
aprì un dibattito32.
A volere ricostruire in breve lo status quaestionis, si può osservare come
il concetto di imprescrivibilità non sia affatto equiparabile al concetto non
giuridico di imperdonabilità. Anzitutto, c‟è da osservare, in via preliminare,
quanto messo in evidenza da Jacques Derrida, cioè che è possibile mante-
nere l‟imprescrivibilità di un crimine, «non mettere alcun limite alla durata
dell‟atto d‟accusa o del possibile procedimento legale», e comunque per-

27A. GOUHIER, Pour une métaphisique du pardon, Paris, Edition de l‟Épi, 1969, p. 401.
28V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 18.
29 Ivi, pp. 18-19.
30 Ivi, p. 15.
31 Ivi, p. 19.
32 J. DERRIDA, “Il secolo e il perdono”, in B. MORONCINI (eds.), La lingua del perdono,

Napoli, Filema, 2007, p. 67.


414 Antonia Giglio

donare il colpevole. Viceversa, si può dichiarare innocente un imputato «o


sospendere un giudizio» e tuttavia non concedere il perdono33. «La nozio-
ne di perdono», sostiene Derrida, «rimane un concetto estraneo all‟ambito
giuridico e politico. È assolutamente possibile nel corso di un processo
condannare qualcuno a morte, senza alcuna amnistia, in modo inflessibile e
per altro verso, al di fuori del processo, perdonare e perdonare il suo cri-
mine. Si tratta di ambiti differenti»34.
il perdono non è possibile se non per ciò che resta in un certo modo imper-
donabile; ciò significa che il perdono non può essere confuso con la prescri-
zione o l‟amnistia, perché il perdono non è l‟oblio; anzi, in qualche modo de-
ve essere accompagnato da una memoria integrale, secondo la „logica‟ della dif-
férance per la quale non si dà cancellazione senza resto 35.

Jankélévitch, prendendo posizione nel dibattito pubblico che coinvolse la


koinè culturale del suo tempo, afferma l‟impossibilità di perdonare i crimini
nazisti. «Il voto del Parlamento francese enuncia a buon diritto un princi-
pio e, in un certo senso, una impossibilità a priori: i crimini contro l‟uma-
nità sono imprescrittibili, e cioè non possono essere prescritti; il tempo non
ha presa su di essi»36. Del resto, sostiene il filosofo, a ulteriore rafforza-
mento della sua tesi, i tedeschi non hanno mai chiesto perdono37.
Qui preme soprattutto sottolineare che, per Jankélévitch, i tedeschi so-
no un popolo „impentito‟, non hanno chiesto perdono dei loro misfatti, né
riconosciuto la loro colpa e neppure manifestato alcun pentimento. La
complessità della tematica del popolo impenitente risulta anche dal fatto
che tutta la questione può essere considerata da un altro punto di vista. Mi
riferisco in particolare ad un suggerimento che viene dall‟interpretazione
che lo stesso Jankélévitch fornisce del problema: «Nessuno è colpevole,
perché nessuno è stato nazista; così che il mostruoso genocidio, catastrofe
in sé, come i terremoti, i maremoti e le eruzioni del Vesuvio, non è colpa
di nessuno»38. Sembrerebbe, osserva il filosofo, che la coscienza dei tede-
schi non sia sporca del sangue di sei milioni di innocenti. Inoltre, nel riper-
correre la questione, occorre, ancora, esplorare una significativa pista er-
meneutica che conduce nel cuore di un territorio assai problematico, e

33 Ibid.
34 J. DERRIDA, É. ROUDINESCO (eds.), Quale domani, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 223.
35 M. VERGANI, Jacques Derrida, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 137.
36 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 19.
37 Ivi, p. 41.
38 Ivi, p. 23.
Perdonare l’imperdonabile 415

cioè, se la colpa non è di nessuno, se sono tutti innocenti, tanto vale ac-
cusare il “diavolo” di questo genocidio. «Incolpare il diavolo non è una mo-
struosa assurdità, ma piuttosto una scappatoia provvidenziale» perché im-
putare il diavolo di questi crimini non è altro che un tentativo malcelato di
autogiustificazione. «Dal momento che la colpa è del “principio eterno”,
evidentemente non è più di Eichmann né di Bormann né di chiunque
altro39». L‟attenzione di Jankélévitch, sia pure secondo modalità e sensibi-
lità diverse, si sofferma sulla logica condizionale dello scambio, mettendo
in evidenza sia la possibilità di infliggere una pena al crimine ad esso cor-
relato sia di contemplare la richiesta esplicita di perdono. Sebbene non sia
qui possibile ripercorrere nella sua interezza tale problematica, tuttavia, è
necessario il richiamo alla distinzione tra l‟esigenza di un perdono incondi-
zionato, che viene concesso al colpevole senza controparte – anche a chi
non si pente né chiede perdono – e un perdono condizionato, commisura-
to al riconoscimento della colpa, e quindi, al pentimento e alla trasforma-
zione del colpevole che ha chiesto il perdono.
La tematica dello scambio è affrontata con chiara efficacia in Perdonare?.
Lo scritto sviluppa le tesi che Jankélévitch difendeva nel 1965 durante le po-
lemiche relative alla prescrizione dei crimini nazisti: sotto il titolo L’Impre-
scriptible il filosofo si era dichiarato contrario al perdono nella Revue admini-
strative. E la risposta alla domanda: “bisogna perdonare?”, data dal filosofo in
Le Pardon, sembra contraddire quella che emerge in Perdonare?, dove l‟autore
si pone dalla parte dello scambio, «della simmetria tra punire e perdonare».
Tuttavia, è risaputo che nell‟ottica di Jankélévitch, il perdono non avrebbe
più senso laddove un crimine divenisse “inespiabile” come nel caso della Shoah:
«Il perdono è morto nei campi della morte»40. Resta inteso che nei campi
della morte è stato superato il limite che eccede la misura umana e per il
quale mai potrà esserci punizione adeguata. Si ripresenta allora l‟inquietante
interrogativo: nel concreto dell‟esperienza storica si può davvero perdonare
l‟altro? A riguardo la posizione di Jankélévitch non lascia nessun dubbio: «Cia-
scuno è libero di perdonare le offese che ha personalmente ricevuto, se lo ri-
tiene opportuno. Ma quelle degli altri con che diritto le perdonerebbe?»41. Il
crimine commesso ad Auschwitz «è incommensurabile con qualunque altra
cosa»42. Auschwitz non è una atrocità di guerra, ma un‟opera di odio43.

39 Ibid.
40 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare ?, cit., p. 40.
41 Ivi, p. 43.
42 Ivi, p. 31.
416 Antonia Giglio

Si può senz‟altro ritenere, in sintonia con il pensiero di Jankélévitch, che


«l‟assassinio di questi milioni di ebrei, di resistenti, di russi non è un fatto di
cronaca nera […]», ma di un crimine contro l‟ominità dell‟uomo in gene-
rale44. La questione non riguarda il potere di perdonare un crimine politico,
religioso o ideologico, ma il potere di perdonare un crimine contro ciò che
fa dell‟uomo un uomo e, quindi, contro il potere stesso di perdonare, trat-
tandosi di un atto che nega «l‟essenza dell‟uomo in quanto uomo»45. «Que-
sto crimine senza nome è un crimine veramente infinito il cui orrore au-
menta più che lo si analizza»46.
Derrida ritiene che Jankélévich nell‟opera Le Pardon fosse più aperto al-
l‟idea di un perdono assoluto, tuttavia, anche in quella occasione, e la con-
traddizione dunque resterebbe, «non arrivava ad ammettere un perdono
incondizionato, che sarebbe quindi concesso anche a chi non lo chiede»47.
È nello scritto L’imprescriptible, e, precisamente, nella parte intitolata Par-
donner?, che la “singolarità” della Shoah approda alla dimensione dell‟ine-
spiabile48. E Derrida sembra essersi reso pienamente conto del fatto che,
nella prospettiva di Jankélévich, per l‟inespiabile «non ci sarebbe perdono
possibile, né un perdono sensato, che abbia un senso»49. Per Jankélévich, si
ha a che fare con l‟inespiabile tutte le volte che non si può punire un cri-
minale con una punizione commisurata al crimine che ha commesso. Dal-
l‟inespiabile, poi, sostiene Derrida, Jankélévich approda all‟imperdonabile.
E all‟imperdonabile non si perdona. La difficoltà di comprendere e spie-
gare quanto detto consiste nell‟impossibilità di scindere e considerare il per-
dono al di fuori della logica dello scambio. Secondo questa logica il perdo-
no deve essere considerato soltanto come il correlativo di un giudizio e co-
me la contropartita di una punizione, di un‟espiazione possibile dell‟ine-
spiabile. A riguardo si veda l‟analisi di Derrida50, per il quale la logica con-
dizionale dello scambio, che prende in considerazione il perdono solo se
viene richiesto, «in una scena di pentimento che attesti insieme la coscienza
della colpa, la trasformazione del colpevole e l‟impegno almeno implicito a

43 Ivi, p. 27.
44 Ivi, p. 16.
45 Ivi, p. 18.
46 Ivi, p. 21.
47 J. DERRIDA, Il secolo e il perdono, cit., p. 70.
48 Cf. V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 22.
49 J. DERRIDA, Il secolo e il perdono, cit., p. 71.
50 Ivi, pp. 68-69.
Perdonare l’imperdonabile 417

fare di tutto per evitare il ritorno del male», va sicuramente contestata. È


evidente che si tratta di un mutamento di prospettiva rispetto a Jankélé-
vitch. Per Derrida gli uomini devono uscire fuori dalla logica dello scambio
e accettare il punto di vista dell‟impossibilità del perdono, devono accet-
tare l‟imperdonabile. Resta inteso che il perdono è possibile laddove non si
dà commercio tra gli uomini, laddove non è richiesto, laddove non si pro-
spetta il castigo e non si aspira alla redenzione del colpevole. L‟idea di un
perdono condizionato dal pentimento del colpevole è assolutamente confu-
tabile. Un tale atto non solo richiede la redenzione del colpevole, ma vin-
cola il perdono alla comprensione della colpa altrui. Sembrerebbe infatti
che per perdonare io debba comprendere la colpa dell‟altro – mettermi al
suo posto, accettare la consapevolezza che avrei potuto commettere lo
stesso errore – e in questo modo annullare l‟altro, renderlo me stesso, riem-
pire la distanza tra lui e me, e così vanificare il perdono.
Se io concedo il perdono alla condizione che l‟altro confessi, che cominci a ri-
scattarsi, a trasfigurare la propria colpa, a dissociarsene lui stesso per doman-
darmene perdono, allora il mio perdono comincia a lasciarsi contaminare da
un calcolo che lo corrompe51.

Ma il perdono presuppone il mantenimento della distanza tra me e l‟altro,


e quindi l‟incomprensione dell‟altro, ovvero, l‟impossibilità di perdonare
l‟altro. D‟altronde, nell‟idea di un perdono incondizionato è al lavoro l‟im-
possibile stesso. È un perdono impossibile questo perdono che perdona l‟im-
perdonabile52. «Dovrebbe restare eccezionale e straordinario, a prova del-
l‟impossibile: come se interrompesse il corso ordinario del tempo stori-
co»53. Non c‟è perdono se si resta tra le cose umane. Il perdono non è né
“normale”, né “normativo”, né “normalizzante”, piuttosto fonda il riconosci-
mento dell‟altro, ne diventa la precondizione: «[…] la logica e il buon senso
si trovano per una volta in accordo con il paradosso: mi sembra che si debba
partire dal fatto che c‟è in realtà qualcosa d‟imperdonabile»54. È certamente
significativo che alla base di ogni convivenza c‟è il riconoscimento dell‟altro.
Si tratta senza dubbio di comprendere che ogni rivolgersi all‟altro è un atto
di perdono richiesto e accordato. Il perdono presuppone dunque la possibi-
lità di essere in due eppure allo stesso tempo la capacità di entrare in rela-

51 J. DERRIDA, Perdonare, cit., p. 93.


52
J. DERRIDA, É. ROUDINESCO (eds.), op. cit., p. 226.
53 J. DERRIDA, Il secolo e il perdono, cit., p. 65.
54 Ivi, p. 66.
418 Antonia Giglio

zione con l‟altro. Per essere esatti, il riconoscimento dell‟altro e la non as-
solutizzazione di tale distanza, la possibilità, di nuovo, di essere in due.
A garanzia di una più nitida comprensione del significato del concetto
di perdono e delle sue implicazioni bisogna comprendere cosa si perdona e
a chi si perdona55. In altre parole, si perdona qualcosa o si perdona qualcuno
andando al di là della colpa stessa e della persona che si ritiene colpevole?56
Nella prospettiva cristiana, ritiene Derrida, l‟uomo non è in grado di per-
donare un altro uomo. Solo Dio può farlo. «La facoltà di perdonare, sotto
condizione o in modo incondizionato», sostiene il filosofo, «è sempre un
potere di natura divina, anche quando sembra essere esercitato dall‟uo-
mo». Il fraintendimento è dovuto al fatto che solo l‟uomo può avere qual-
cosa da perdonare o da farsi perdonare. Del resto, solo un essere limitato
come l‟uomo può venire oltraggiato, ferito o anche ucciso. Non a caso,
Derrida riconosce che è proprio la dimensione umana del perdono a rende-
re difficile la sua trattazione57.
C‟è da rilevare, inoltre, che Derrida nutre «qualche perplessità» a di-
scutere le considerazioni di Jankélévitch e di Hannah Arendt riguardo al-
l‟esperienza puramente umana del perdono58. A parere della Arendt il per-
dono rimane un‟esperienza di natura puramente umana, e come tale è pos-
sibile solo laddove si può esercitare il diritto di punire. «L‟alternativa al per-
dono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune col primo il ten-
tativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe pro-
seguire indefinitamente. È quindi significativo che gli uomini siano incapaci
di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato

55 Cf. ivi, p. 73: «Se dico: “Ti perdono a condizione che, chiedendo perdono, tu sia

cambiato e non sia più lo stesso”, ho forse perdonato? Una prima ambiguità sintattica pe-
raltro su cui dovremmo già intrattenerci a lungo: tra domandare “chi?” e domandare “che?”».
56 Cf. ibid.: «Si perdona qualcosa, un crimine, una colpa, un torto cioè un atto o un mo-

mento che non esauriscono la persona incriminata e al limite non si confondono con il col-
pevole che resta quindi a esso irriducibile? O invece si perdona a qualcuno, in assoluto, sen-
za segnare più il limite tra il torto, il momento della colpa, e la persona che si ritiene re-
sponsabile o colpevole?».
57 J. DERRIDA, É. ROUDINESCO (eds.), op. cit., pp. 224-225: «L‟uomo chiede perdono

a Dio, o chiede a Dio di perdonare un altro. Pensiamo alle dichiarazioni delle Chiesa cri-
stiana nei confronti degli ebrei. La Chiesa ha chiesto perdono a Dio di fronte alla comunità
ebraica, ma non ha chiesto perdono direttamente agli ebrei. è Dio che perdona, ed è dun-
que a Lui che si chiede perdono […] Per quanto si possa pensare il contrario, e cioè che so-
lo un essere limitato può venir leso, ferito, o persino ucciso, e dunque aver qualcosa da per-
donare o da far perdonare».
58 Ivi, p. 223.
Perdonare l’imperdonabile 419

imperdonabile»59. La Arendt, nel capitolo di Vita activa intitolato L’azione,


analizza due condizioni del vincolo sociale: il perdono e la promessa. En-
trambi i vincoli testimoniano la capacità di agire dell‟uomo, il suo essere
nel mondo e dunque il modo in cui l‟uomo realizza la sua libertà. Del re-
sto, affinché la vita sociale non venga interrotta bisogna poter punire e per-
donare. A parere della Arendt è stato Gesù di Nazareth a scoprire la prero-
gativa umana del perdono. «Il fatto che abbia compiuto questa scoperta in
un contesto religioso e l‟abbia articolato in un linguaggio religioso non è
una ragione per prenderlo meno sul serio in un senso strettamente profa-
no»60. Vero è che all‟infuori del cristianesimo è solamente nel principio del
diritto romano di risparmiare i vinti, e cioè di commutare la pena di mor-
te, che si possono riscontrare testimonianze dell‟esercizio del perdono.
Tuttavia, la Arendt, riconosce al cristianesimo il merito di aver chiarito fin
da subito che il perdono non è una prerogativa divina. Gesù di Nazareth,
infatti, diversamente dagli scribi e dai farisei, sosteneva come non solo Dio
avesse il potere di perdonare, ma anche gli uomini. Ciò che la Arendt pro-
pone è dunque semplice e complesso ad un tempo: il “perdono” è cosa di-
versa della vendetta, ‹‹che consiste nel reagire contro un‟offesa originale››,
e non pone un termine alle conseguenze del primo errore, anzi lega l‟uo-
mo a un processo di reazione a catena61. Non è quindi una preferenza ra-
zionale che rende il perdono un valore prezioso quanto il bene, ma il per-
dono si afferma come prevalente proprio per il fatto che lo scegliamo; chi
perdona sceglie di perdonare, sceglie di non rispondere all‟offesa con un‟al-
tra offesa, che è una reazione naturale all‟interno del processo dell‟agire,
sceglie di non vendicarsi e di agire in modo inatteso e inaspettato. Il per-
dono, proprio per il carattere originale della sua azione, ha il potere di mu-
tare il passato. Se partiamo da queste premesse, diviene evidente che il per-
dono annulla l‟azione dell‟offensore, cancella il passato e inaugura un nuo-
vo corso. Si tratta insomma di ri–scrivere l‟evento e con esso annullare l‟of-
fesa, come se essa non fosse mai esistita. A parere di Pio Colonnello, il
perdono, intervenendo sul passato, rompe la catena della necessità del già
stato, «sovvertendo il rapporto tra le ekstasi del tempo. In queste due capa-
cità umane è comunque decisivo l‟apporto della volontà creatrice»62. Vale

59 H. ARENDT, op. cit., p. 178.


60 Ivi, p. 176.
61 Ivi, p. 177.
62 P. COLONNELLO, Percorsi di confine. Analisi dell’esistenza e filosofia della libertà, Napoli,

Luciano Editore, 1999, p. 51.


420 Antonia Giglio

a dire: svincolarsi dalle conseguenze del passato apre nuove possibilità per
il futuro. Vero è che la posizione della Arendt , e cioè che «il perdono sia
possibile solo laddove il diritto di punire possa esercitarsi», per Derrida è
assolutamente contestabile. Il perdono deve, invece, restare “eterogeneo”
all‟ambito giuridico. Non è in alcun modo simmetrico né complementare
alla punizione63. Si deve poter perdonare ciò che è imperdonabile, il male
puro, senza condizioni, elevandosi al di sopra del diritto. Perché ci sia
perdono bisogna poter perdonare la colpa e il colpevole in quanto tali, lad-
dove entrambi permangono come un male assoluto, un male che potrebbe
persino ripetersi.
Intimamente connessa alla questione del perdono è la riflessione sul
concetto di crimine contro la sacralità dell‟uomo64. A riguardo si veda l‟ana-
lisi di Derrida, per il quale proprio il Tribunale di Norimberga ha reso pos-
sibile l‟istituzione internazionale di un concetto giuridico come quello di
«crimine contro l‟umanità». Resta allora da interrogarsi su un evento di
portata epocale che si intreccia ma non si confonde con la storia della riaf-
fermazione dei diritti dell‟uomo: perché se è vero che questa «sorta di mu-
tazione» ha dato, poi, il via a uno spettacolo teatrale in cui si recita, più o
meno apertamente, la scena madre del pentimento, è anche vero che la con-
ditio sine qua non delle proclamazioni pubbliche di pentimento sono le richie-
ste collettive di perdono65.
Ripercorriamo, dunque, le osservazioni che Derrida andava svolgendo
sul concetto di «crimine contro l‟umanità», che non a caso costituisce lo
snodo fondamentale di tutta la geopolitica del perdono. Vale a dire: il capo
di accusa di questa auto–accusa e del pentimento con richiesta di perdo-
no66. Per essere esatti, la mondializzazione del perdono ricorda una scena
di confessione in atto. Un processo di cristianizzazione che non ha più bi-
sogno della Chiesa cristiana.
Il proliferare di queste scene di pentimento e di richiesta di “perdono” significa
probabilmente un‟urgenza universale della memoria: è necessario volgersi verso il
passato; e l‟atto di memoria, di auto–accusa, di “pentimento”, di comparsa in
giudizio, è necessario portarlo al di là dell‟istanza giuridica e insieme al di là del-
l‟istanza Stato–nazione67.

63 J. DERRIDA, É. ROUDINESCO (eds.), op. cit., pp. 225-226.


64 J. DERRIDA, Il secolo e il perdono, cit., p. 61.
65 Ivi, p. 62.
66 Ivi, p. 63.
67 Ivi, p. 61.
Perdonare l’imperdonabile 421

C‟è da rilevare, dunque, che il discorso sul perdono è divenuto l‟emblema


di un processo di universalizzazione che investe diritto, politica, economia
e diplomazia. Ad ogni modo, si tratta di una prerogativa che accomuna
anche società come il Giappone e la Corea «il cui linguaggio religioso più
diffuso è totalmente estraneo a quello abramico»68.
A parere di uno studioso che ha discusso questi temi, Bruno Moroncini,
le stesse “oscillazioni” di Jankélévitch sul perdono, «l‟andirivieni fra la tesi
dell‟incondizionatezza del perdono e quella della necessità di una condi-
zione, non vanno ascritti ad un limite del pensatore francese, ma ad una
difficoltà che attiene all‟esperienza stessa del perdono»69. Una tradizione
culturale già in se stessa complessa, diversificata e conflittuale.
per quanto enigmatico possa essere il concetto del perdono, non c‟è dubbio
tuttavia che esso appartenga ad una eredità religiosa molto precisa e determi-
nata, vale a dire a quella abramica in cui convergono le tre religioni monotei-
stiche, ebraismo, cristianesimo e islam70.

Per spiegare l‟abisso della perfidia che la nostra contemporaneità ha toc-


cato, non serve ricorrere alle varie teorie che la storia del pensiero ci pro-
pone, ma basta, semplicemente, rimuovere il velo dell‟oblio che i ben-
pensanti vorrebbero far cadere sui campi della morte71. D‟altro canto, la
nostra epoca «ha il cuore leggero»: vorrebbe cancellare con un colpo di
spugna l‟insieme degli eventi accaduti. Ma i morti «dipendono interamente
dalla nostra fedeltà», dalla nostra memoria e se smettessimo di parlarne
finiremmo per annientarli definitivamente; per questo, secondo Jankélé-
vitch, non se ne parla mai abbastanza72. È evidente che la necessità della
rievocazione della Shoah provoca una meditazione inesauribile73. D‟altron-
de i momenti comuni di riflessione servono a mantenere viva la memoria
sugli abissi dell‟oscura perversità umana, affinché simili eventi non abbiano
più a ripetersi74. «Il passato ha bisogno che lo si aiuti, che lo si ricordi agli

68 B. MORONCINI, La lingua del perdono, Napoli, Filema, 2007, p. 26.


69 Ivi, p. 23.
70 Ivi, p. 25.
71 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 44.
72 Ivi, p. 47.
73 Come è noto, il Parlamento italiano, con la legge numero 211 del 20 luglio 2000 –

al fine di ricordare, da una parte, il 27 gennaio, la data dell‟abbattimento dei cancelli di


Auschwitz e commemorare la Shoah (le leggi razziali, la persecuzione, la deportazione, la
prigionia e lo sterminio degli ebrei), dall‟altra, tutti coloro che si opposero al genocidio,
anche a rischio della propria esistenza – ha istituito il Giorno della Memoria.
74 Si calcola che solo ad Auschwitz vennero uccise un milione e trecentomila persone,
422 Antonia Giglio

smemorati, ai frivoli e agli indifferenti, che le nostre celebrazioni lo salvino


[…] ha bisogno che ci si riunisca appositamente per commemorarlo»75. Il
passato ha bisogno della nostra memoria affinché nei giovani si sviluppi
un‟etica della responsabilità individuale e collettiva. È certamente significa-
tivo che la riflessione filosofica contemporanea sia orientata, in una delle
sue direzioni fondamentali, quella che riguarda la questione del rapporto
tra perdono e offese imperdonabili, verso una destinazione propriamente
etica del senso dell‟esistere. Di qui parimenti l‟esigenza di una curvatura
etica del progetto ermeneutico. D‟altra parte, l‟interpretare non riguarda
solo la ricerca delle connessioni di senso all‟interno di un campo seman-
tico, bensì l‟individuazione di un sistema di relazioni etiche, che permet-
tano al pensiero di compiere quel movimento diacronico e sostanziale per
cui si passa dal testo come oggetto all‟essere come testo, essendo l‟esi-
stente, cioè l‟essere dell‟esserci il testo da interpretare. Ciò che conta è
che il perdono consente alla pietas del pensiero di fare esperienza fino in
fondo della diversità e della scissione, conservando le ragioni della dif-
ferenza.

delle quali il 90% erano ebree. Conoscere e ricordare la Shoah può essere di valido aiuto
per meglio comprendere le ramificazioni del pregiudizio e del razzismo; per realizzare una
pacifica convivenza tra etnie, culture e religioni differenti; per creare, infine, attraverso la
valorizzazione delle diversità, una società realmente interculturale. Facendo emergere le
pericolose insidie del silenzio di fronte all‟oppressione.
75 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 47.
GIUSEPPE MACCARONI
Simone Weil: questione antropologica
e riflessione politica

1. I rapporti con i personalisti francesi. Anche in Italia, come in altri paesi eu-
ropei, la ricorrenza della nascita di Simone Weil (Parigi 1909), è stata l‟oc-
casione di numerose iniziative celebrative. Tra queste ricordiamo il dossier a
lei dedicato sulla rivista «Prospettiva Persona» (n. 65/66, 2008) e il Con-
vegno di studiosi internazionali svoltosi a Teramo (10-12 dicembre 2008), i
cui atti sono stati da poco pubblicati con il titolo Persona e impersonale. La que-
stione antropologica in Simone Weil, a cura di G.P. Di Nicola e A. Danese (So-
veria Mannelli, Rubbettino, 2009). Nelle pagine che seguono prenderemo
spunto da alcuni contributi di quest‟ultimo interessante volume, per poi ap-
profondire e sviluppare alcune questioni che le nozioni di persona e imper-
sonale sollecitano in relazione alla riflessione più propriamente politica della
filosofa francese. Per il momento alcune considerazioni sui rapporti della
Weil con il movimento personalista francese degli anni Trenta.
Com‟è noto, almeno a quanti hanno famigliarità con il breve ma intenso
itinerario esistenziale di Simone Weil1, il periodo che all‟incirca si snoda tra
la fine degli anni Venti e l‟inizio del decennio successivo, è un periodo di
grandi interessi politico-intellettuali non disgiunto dall‟impegno militante.
Ora, tenendo conto di questa caratteristica della sua personalità sorprende
che, tra gli scritti editi da Simone, non ve ne sia qualcuno dedicato al movi-
mento personalista francese. Abbiamo precisato tra gli scritti editi, perché a
ben guardare nelle Oeuvres complètes si rintracciano alcuni inediti dedicati pro-
prio ad esponenti del personalismo francese. Anche se si tratta di poche pa-
gine, sono la dimostrazione che quel movimento non è passato invano davan-
ti ai suoi occhi. Le pagine in questione riguardano una recensione probabil-
mente del 1934 al libro La révolution nécessaire di R. Aron e A. Dandieu (Paris,
Grasset, 1933), e una lettera del 1937 ad Emmanuel Mounier in qualità di
Direttore di «Esprit»2. Certo, accanto a questi brevi scritti bisogna annove-

1 Cf. S. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, Milano, Adelphi, 1994. Molte delle que-

stioni discusse nel testo rinviano al nostro Simone Weil. Dalla parte degli oppressi, Lungro,
Marco Editore, 2003.
2 Cf. S. WEIL, “Le groupement de l’«Ordre nouveau»”, in EAD., Oeuvres complètes, tome II,

vol. 1, Paris, Gallimard, 1988, pp. 324-328; EAD., “Une lettre inedite de Simone Weil à Em-
manuel Mounier”, Cahiers Simone Weil 7 (1984) 4, pp. 143-146.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 423-440 423


424 Giuseppe Maccaroni

rare anche un altro e ben più significativo inedito, vale a dire La personne et le
sacré, scritto a Londra fra il ‟42 e il ‟43, che è il primo dei saggi raccolti in
Écrits de Londres et dernières lettres (Paris, Gallimard, 1957, pp. 11-44), in cui
fissa in maniera definitiva i suoi rapporti con il personalismo.
Sui personalisti francesi bisogna dire che si tratta, com‟è noto, di una
generazione di giovani intellettuali, i cosiddetti non-conformisti degli anni
Trenta, che al pari di Simone erano animati da uno spirito di rivolta e, sulla
spinta della crisi globale della civiltà che essi denunciavano, progettavano
una rivoluzione con cui edificare un nuovo ordine che ponesse al suo cen-
tro la «persona». Questo movimento diede luogo ad un ricco pullulare di
riviste, di gruppi di ricerca, di circoli di studio. Certo, se ciò che li ac-
comunava era la parola d‟ordine di una rivoluzione personalista, tuttavia
bisogna riconoscere che al loro interno esprimevano scelte politiche dif-
ferenziate e discutibili. Così, ad esempio, «La Jeune Droite», i cui militanti
si definivano cattolici rivoluzionari, era influenzata da Maurras e l‟Action
francaise e può essere considerata un' espressione dell‟estrema destra del-
l‟epoca in Francia. Al contrario, «L‟Ordre nouveau» è il movimento più
originale di quegli anni e ad esso si deve il conio del termine “persona-
lismo” e lo slogan “né destra né sinistra”. Tra i suoi militanti più significa-
tivi figurano intellettuali che avranno una certa notorietà nel panorama cul-
turale francese, come Robert Aron, Arnaud Dandieu, Daniel-Rops, Ale-
xandre Marc, Denis de Rougemont. Infine, bisogna menzionare il gruppo
di «Esprit» che aveva nel giovane Mounier, insieme a Maritain, la guida
politico-culturale e che era il gruppo più orientato a sinistra e meno intra-
nsigente nei confronti del comunismo e del marxismo3.
Il “personalismo” che animava questi gruppi, soprattutto «L‟Ordre nou-
veau» e «Esprit», era una reazione contro il razionalismo idealista (anima
senza corpo), da una parte, e il materialismo marxista (corpo senza anima),
dall‟altra, e si presentava come una filosofia dell‟uomo concreto, reale. In
questo senso, si opponeva ad ogni tendenza che separasse lo spirito dalla ma-
teria e si rifiutava di misconoscere il radicamento carnale e sociale dell‟uomo.
Il materialismo marxista appariva come una reazione giustificata verso ogni
forma d‟idealismo disincarnato, anche se poi finiva per mutilare la persona
umana nella sua realtà spirituale. Il termine “personalismo”, più che un siste-
ma filosofico chiuso, esprimeva un insieme d‟intuizioni comuni a questi mo-
vimenti con cui essi rivendicavano la loro originalità rispetto alle tendenze

3 Cf. J.L. LOUBET DEL BAYLE, I non-conformisti degli anni Trenta, Roma, Edizioni Cinque

Lune, 1972.
Simone Weil: filosofia e politica 425

ideologiche che rifiutavano. Se concordavano nel dare il primato alla persona,


si differenziavano l‟uno dall‟altro, quando si trattava di definirla. Non a caso
Mounier nel secondo dopoguerra riferendosi a questi raggruppamenti parle-
rà di “personalismi” piuttosto che di un indirizzo univoco.
Dal punto di vista politico, l‟ideologia contestatrice che nutriva questi
movimenti assommava in una stessa condanna materialismo, liberalismo,
capitalismo, marxismo e democrazia e non celava simpatia e invidia verso
la novità rappresentata dai regimi fascisti, per il dinamismo dei paesi e della
gioventù in cui tali regimi si erano insediati. Questo vale soprattutto per il
gruppo di «Ordre nouveau» verso il quale non sembra ingiustificata la cri-
tica d‟ambiguità e di mancanza di chiarezza ideologica, non solo per non
aver contrastato l‟idea fascista ma per averne di fatto favorito la diffusione
come dimostrano i percorsi personali d‟alcuni suoi protagonisti4.
E di „ambiguità‟ dell‟epoca in relazione a «Ordre nouveau» e ai nume-
rosi analoghi raggruppamenti rivoluzionari sorti in quel periodo in Francia,
parla Simone nell‟esordio della sua recensione a La révolution nécessaire di R.
Aron e A. Dandieu; ambiguità dovuta anche alla contraddizione tra le in-
tenzioni di questi giovani che si propongono di liberare l‟uomo da tutto ciò
che l‟opprime, e la discutibile iniziativa di inviare una lettera aperta a Hi-
tler non per approvarlo ma per dargli consigli con un tono che in genere si
usa con gente con cui ci si sente in comune5. Il libro, osserva la Weil, rap-
presenta il manifesto del gruppo ed è scritto con un tono da „profeti‟, ine-
vitabile quando ci si sente chiamati a liberare l‟umanità. La sua parte mi-
gliore è quella teorica in cui si pone come obiettivo del movimento rivo-
luzionario quello di liberare l‟individuo dall‟oppressione sociale in tutte le
sue forme e, in particolare, da quella dello Stato e della fabbrica. La Weil
concorda con Aron e Dandieu nel ritenere come non-rivoluzionari, ma or-
ganizzatori dell‟oppressione, quanti, comunisti o socialisti, propongono di
unificare queste due forme d‟oppressione sottomettendo la produzione
industriale allo Stato. Questo orientamento, contrario ai fini che si propo-
neva Marx, sarebbe da addebitare al metodo materialista dei partiti mar-
xisti, il quale sarebbe incompatibile con dei fini individualisti.
Ma in che modo liberare l‟uomo, lo spirito? Secondo Simone la proposta
contenuta in La révolution nécessaire si articola in una netta separazione della
sfera dell‟attività automatica da quella dell‟attività creatrice. In altre parole,

4 Cf. Z. STERNHLL, Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia, Milano, Baldini e

Castoldi, 1997.
5 Per un‟ampia analisi di questa lettera cf. ivi, pp. 407-414.
426 Giuseppe Maccaroni

il lavoro non qualificato dopo la rivoluzione sarà eseguito non più dai disere-
dati per tutta la loro vita, ma da tutti i giovani per qualche anno come „servi-
zio civile‟. Il resto dell‟esistenza sarà invece consacrato al lavoro qualificato e
soprattutto al tempo libero. Questo lavoro industriale non qualificato avreb-
be un‟organizzazione centralizzata in mano allo Stato. Al contrario, nell‟am-
bito dell‟attività creatrice tutto sarà decentralizzato e nelle mani dei lavora-
tori grazie alle corporazioni. La produzione sarà al servizio del consumo, lo
Stato al servizio delle corporazioni, l‟economico al servizio dello spirituale.
Pur giudicando la separazione della produzione in due sfere organiz-
zate in maniera diametralmente opposta, come la sola idea originale del li-
bro, Simone giudica tale idea puramente “fantastica”, perché lavoro quali-
ficato e lavoro non qualificato si uniscono inestricabilmente nel seno del-
l‟impresa. Inoltre, osserva la filosofa, le corporazioni riproducono neces-
sariamente nelle loro strutture la gerarchia che esiste nelle imprese, perché
questa gerarchia corrisponde alle esigenze attuali della produzione. Esse sa-
ranno nelle mani dei capi d‟impresa, e la loro esistenza non potrà incre-
mentare la parte riguardante l‟iniziativa e la creatività individuale. Da qui
la conclusione secondo cui l‟idea di far compiere tutto il lavoro non qua-
lificato per mezzo di un “servizio civile”, è una «chimera», e che anche
quando un servizio civile di questo genere fosse realizzabile, finirebbe per
dare allo Stato una potenza inaudita sulla vita economica. Si arriverebbe,
applicando una tale concezione, all‟unificazione del potere economico e
politico, cioè ad uno Stato totalitario o ad un regime tecnocratico, che è
quello che Aron e Dandieu precisamente vorrebbero evitare6.
Rispetto ai processi di burocratizzazione e centralizzazione delle impre-
se, e al rapporto sempre più stretto che lega potere economico e potere
politico, Simone ritiene che la sola salvaguardia della libertà potrà dipen-
dere da un‟effettiva decentralizzazione della vita economica, da un control-
lo del funzionamento delle imprese da parte delle masse, dalla qualifica-
zione del lavoro. Ma tutto ciò presuppone una trasformazione totale della
struttura dell‟impresa e della tecnica. Si potrà anche considerare come ir-
risolvibile questo problema, ma intanto esso va „concepito‟. Ed è proprio
ciò che manca ai giovani riformatori di «Ordre nouveau», i quali non solo
non hanno una visione chiara e precisa di ciò che vogliono, ma il loro ap-
pello all‟attivismo, conclude la Weil, li porterà ad urtare con delle realtà
implacabili e in un senso contrario a quanto si propongono7.

6 S. WEIL, “Le groupement de l‟«Ordre nouveau»”, cit., p. 327.


7 Ivi, p. 328.
Simone Weil: filosofia e politica 427

Come si vede è un giudizio sostanzialmente negativo quello che la Weil


esprime sui cosiddetti “profeti” di «Ordre nouveau» e questo giudizio sem-
bra esteso anche ai «numerosi gruppi analoghi che sono sorti recentemen-
te». Non è da escludere che il riferimento sia diretto non solo al gruppo
della «Jeune Droite», ma anche a quello di «Esprit» di Mounier e Maritain.
È interessante notare che la Weil non è attratta dai presupposti filosofici
del gruppo di Aron e Dandieu, vale a dire dalla proposta del personalismo
filosofico, quanto dai problemi politici e di organizzazione del lavoro nelle
imprese. Del resto, il periodo in cui sarebbe stato scritto questo breve arti-
colo su «Ordre nouveau», inizio del 1934 secondo i curatori, coincide con
la decisione di “farsi” operaia e sperimentare sulla propria persona la condi-
zione dell‟oppressione.
A problemi analoghi, o meglio d‟organizzazione sindacale, ci rinvia in-
vece la lunga lettera che nel marzo del 1937 la Weil scrive a Mounier, di-
rettore della rivista «Esprit» e fautore del personalismo comunitario. In
questa lettera Simone si pone due interrogativi: 1) la pluralità delle orga-
nizzazioni sindacali è indispensabile alla libertà? 2) Lo spirito della Confédé-
ration Générale du Travail (CGT), ad orientamento prevalentemente comu-
nista, è compatibile con la morale cristiana? Per quanto riguarda il primo
punto ritiene che la pluralità degli organismi sindacali non favorisce la li-
berta, perché le necessità della propaganda, nelle condizioni imposte della
concorrenza, soffocano la libertà. Per quanto riguarda il secondo inter-
rogativo, argomenta che la CGT, pur non essendo un partito, ha uno spirito,
un ideale, delle tradizioni, e queste non sono incompatibili con la morale
cristiana. «In fondo, scrive Simone, la sola cosa nello spirito della CGT che
può scandalizzare un cristiano, è la tendenza ad una certa demagogia, a
dare sempre tutti i torti all‟avversario, in tutti i casi, su tutti i punti. Ma
questo non è esclusivo della CGT. Accade la stessa cosa in tutti i gruppi
umani che lottano contro altri gruppi non solo sindacati, ma partiti, nazioni,
Chiese […] Il dovere di reagire contro questo genere di demagogia non è
specificamente cristiano; s‟impone a ogni uomo che pensa»8.
Anche in questo caso, come in quello di Aron e Dandieu, non c‟è traccia
di un qualche interesse di Simone Weil verso la riflessione più propriamente
filosofica di Emmanuel Mounier, ossia verso la nozione di persona e il perso-
nalismo comunitario. Come si è potuto constatare dall‟esame di questi brevi
scritti che si riferiscono ad esponenti del movimento personalista degli anni
Trenta, quest‟ultimo non è passato inosservato allo sguardo della Weil. Si-
8 EAD., “Une lettre inedite de Simone Weil à Emmanuel Mounier”, cit., p. 143.
428 Giuseppe Maccaroni

mone ha maturato precise convinzioni su di esso e in La persona e il sacro,


qualche mese prima di morire, condenserà in formule lapidarie queste con-
vinzioni stigmatizzando le carenze teoriche della nozione di persona. Vediamo.
2. La questione del «sacro». La nozione di persona, scrive Simone in La
persona e il sacro, è una nozione impossibile da definire e da concepire e co-
me tale non può essere assunta come principio morale. Questo è la dimo-
strazione che il vocabolario della corrente di pensiero moderno detta per-
sonalista, è errato e questo errore non può a sua volta non rinviare ad un
grave errore di pensiero. Ma è soprattutto verso la presunta „sacralità‟ del-
la persona umana, che la Weil ha delle riserve radicali. In ogni uomo c‟è
qualcosa di sacro, ma non è la sua persona, la persona umana. Ciò che è sa-
cro è l‟uomo stesso nella sua individuale singolarità concreta. «Ecco un pas-
sante per la strada che ha delle lunghe braccia, degli occhi celesti, una
mente dove si agitano pensieri che ignoro ma che forse sono mediocri.
Non è né la sua persona, né la persona umana in lui che mi è sacra. È lui.
Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri, tutto. Non violerei niente
di tutto questo senza infiniti scrupoli»9.
Più precisamente è sacro nell‟essere umano quella parte di sé che si
relaziona a ciò che è intimo e per il quale «invincibilmente si aspetta che gli
si faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto che è sacro in
ogni essere umano. Il bene è l‟unica fonte del sacro. Solo il bene è sacro, e
quanto è relativo al bene»10.
Come rilevano G.P. Di Nicola e A. Danese nella loro Introduzione te-
matica al volume Persona e impersonale11 da cui abbiamo preso le mosse, a Si-
mone il termine persona appare un‟astrazione indeterminata, generica, che
livella ed eguaglia gli esseri umani e in questo modo, mettendo tra parente-
si le differenze, conferma di fatto le ingiustizie perché tratta i diversi come
eguali. Non è la persona generica e astratta che va presa in considerazione,
ma l‟uomo singolare che s‟incontra per strada con i suoi bisogni e le sue
sofferenze. In fondo, per la Weil il concetto di persona appare inestricabil-
mente legato a quello di „io‟, d‟affermazione individuale, e in quanto tale
d‟ostacolo alla ricerca della verità che presuppone un deciso distacco da
ogni dimensione personale per riuscire ad elevarsi all‟impersonale. Questo
e non altro significa l‟affermazione secondo cui «ciò che è sacro, ben lungi

9 EAD., “La persona e il sacro”, in Morale e letteratura, Pisa, ETS, 1990, p. 37.
10 Ivi, pp. 38 e 41.
11 G.P. DI NICOLA, A. DANESE (eds.), Persona e impersonale. La questione antropologica in

Simone Weil, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, p. 11.


Simone Weil: filosofia e politica 429

dell‟essere la persona, è ciò che, in ogni essere umano è impersonale. Tut-


to ciò che è impersonale nell‟uomo è sacro, e soltanto quello»12. Certo,
riconosce Simone, la scienza, l‟arte, la letteratura, la filosofia, le quali sono
realizzazioni della persona, sono un campo in cui si realizzano successi cla-
morosi, che danno la celebrità. Ma al di sopra di questo campo, ve n‟è un
altro, in cui stanno le cose di primissimo ordine e queste sono essen-
zialmente anonime. Si prenda il caso della verità e della bellezza: esse abi-
tano il campo delle cose impersonali e anonime. Ed è questo che è sacro.
Oppure, ciò che è sacro nella scienza è la verità, e ciò che è sacro nell‟arte
è la bellezza. Ma verità e bellezza sono impersonali, come lo è anche la
perfezione. «Se un bambino fa un‟addizione, e si sbaglia, l‟errore porta lo
stampo della sua persona. Se procede in maniera perfettamente corretta, la
sua persona è assente da tutta l‟operazione»13.
Si tratta di prendere le distanze da ogni forma d‟egocentrismo perchè
distorce la visione della realtà ed è d‟ostacolo alla ricerca della verità. Ma
nello stesso tempo bisogna anche evitare qualsiasi forma d‟idolatria del
“noi”, ogni forma d‟acritico assorbimento nel collettivo in cui predomina-
no i falsi valori sociali. «La persona in noi è la parte dell‟errore e del pec-
cato. Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto ad ottenere che non
ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse io. Ma la parte del-
l‟anima che dice “noi” è ancora più infinitamente più pericolosa»14. La Weil
aveva recepito dal suo maestro Alain una concezione critica dei rapporti tra
l‟individuo e la società e in particolare, l‟esigenza di una gelosa difesa del-
l‟individualità dell‟essere umano rispetto ad ogni dimensione sociale o col-
lettiva che ne soffocasse le potenzialità d‟espressione. Era stato Alain ad
utilizzare la metafora, che poi ritroviamo negli scritti della Weil, della so-
cietà come gros animal; ed era stato ancora Alain che, sulla base di questa
metafora, aveva fatto riferimento al Platone della Repubblica per sottolinea-
re il carattere perverso di chi predichi o viva in base ai sussulti del bestione,
cioè seguendo le morali di gruppo. Queste morali collettive hanno per
sostanza il prestigio sociale ed è difficile sottrarsi alla loro influenza perché
si presentano sotto l‟apparenza del bene assoluto e sono fonte d‟idolatria.
Per questi caratteri le collettività costituiscono un ostacolo insuperabile
che impediscono il passaggio all‟impersonale. «Il passaggio nell‟impersona-

12 S. WEIL, “La persona e il sacro”, cit., p. 41.


13 Ivi, p. 43.
14 Ibid. Sulla critica all‟idolatria sociale cf. M.A. CATTANEO, Simone Weil e la critica del-

l’idolatria sociale, Napoli, ESI, 2002.


430 Giuseppe Maccaroni

le si opera solo tramite un‟attenzione di una rara qualità, possibile soltanto


nella solitudine. Non solo la solitudine di fatto, ma la solitudine morale.
Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una col-
lettività, come parte di un “noi”. Gli uomini in collettività non hanno ac-
cesso all‟impersonale, neanche nelle sue forme inferiori. Un gruppo d‟es-
seri umani non può neanche fare un‟addizione. Un‟addizione si effettua in
una mente che dimentica momentaneamente che esiste qualsiasi altra men-
te. Il personale è contrapposto all‟impersonale, ma vi è passaggio tra l‟uno
e l‟altro. Non vi è passaggio tra il collettivo e l‟impersonale. Bisogna prima
che una collettività si dissolva in persone distinte perché sia possibile en-
trare nell‟impersonale»15. Si può sfuggire al collettivo innalzandosi sopra il
personale per attingere l‟impersonale, il bene impersonale, e ciò fornisce
quell‟energia necessaria per opporsi a qualsiasi collettività. Non solo, ma
consente di penetrare nella sfera dell‟impersonale in cui s‟incontra una
responsabilità verso tutti gli esseri umani, la quale dà senso al rispetto per
il loro carattere sacro. Si badi che la Weil parla di sacralità degli esseri
umani e non della persona o della collettività. «È inutile spiegare a una col-
lettività che in ciascuna delle unità che la compongono c‟è qualcosa che
non deve essere violato. […] Se è inutile dire alla collettività che la per-
sona è sacra, è altrettanto inutile dire alla persona che essa stessa è sacra.
Non può crederlo. Non si sente sacra. La causa che impedisce che la per-
sona si senta sacra, è che di fatto non lo è»16.
Se teniamo presenti l‟insieme di queste considerazioni sulla persona,
non deve sorprendere che a proposito del personalismo scrivi: «la filosofia
personalista ha avuto origine e si è diffusa non negli ambienti popolari, ma
negli ambienti di scrittori che, per professione, possiedono o sperano di
acquisire un nome e una reputazione»17.
C‟è chi ha rilevato, come S. Fraisse, che Simone Weil e i personalisti
non potevano non essere avversari perché utilizzavano un vocabolario opp-
osto fonte di inevitabili malintesi. Se nel linguaggio weiliano persona è si-
nonimo di io e impersonale è sinonimo di verità, per i personalisti io signi-
fica individuale e impersonale ha la connotazione negativa d‟anonimo18. Ma
nonostante questo duro giudizio sui personalisti e il connesso rifiuto della
nozione di “persona”, molti interpreti ritengono che la stessa filosofia della
15 Ibid.
16 Ivi, pp. 45-46.
17 Ivi, p. 46.
18 S. FRAISSE, “Simone Weil, la personne e les droits de l‟homme”, Cahiers Simone Weil
2 (1984), pp. 120-132.
Simone Weil: filosofia e politica 431

Weil non sia così lontana dalle più profonde motivazioni del personalismo.
Del resto, si fa notare, tutta la vita e il pensiero di Simone sono orientate ai
prossimi e ai lontani più svantaggiati. Non solo, ma la parte più propositiva
della sua produzione teorica, quella relativa alle obbligazioni verso gli es-
seri umani, non è in contrasto con i concetti fondamentali del personali-
smo. Il rifiuto della persona sarebbe dettato più dal contesto che dai conte-
nuti, ossia il personalismo le apparve legato ad ambienti borghesi, come
l‟esistenzialismo di Sartre e della De Beauvoir19.
3. Persona, diritti e obbligazioni. Le debolezze concettuali della nozione di
persona si manifestano in forme più accentuate, quando essa è associata a
quella di diritto, come avviene a proposito dei cosiddetti diritti della per-
sona. «La nozione di diritto, lanciata attraverso il mondo, nel 1789, è stata,
per sua insufficienza intrinseca, impotente ad esercitare la funzione che le
veniva affidata. Amalgamare due nozioni insufficienti parlando dei diritti
della persona umana non ci porterà molto lontano»20.
Anche in questo caso, osservano Di Nicola e Danese, la Weil si colloca
su una posizione diametralmente opposta ai personalisti, i quali dopo la
seconda guerra mondiale s‟impegnarono nell‟elaborazione della Dichiara-
zione dei diritti dell‟uomo. Il fatto è che la nozione di diritto è giudicata
dalla Weil intrinsecamente insufficiente per svolgere quella funzione uni-
versale che le era stata assegnata dalla generazione del 1789. In primo luo-
go, perché il diritto non è un bene assoluto e incondizionato, ma di esso è
sempre possibile un uso buono o cattivo. In secondo luogo, perché la no-
zione di diritto contiene sempre «una guerra latente e sveglia uno spirito di
guerra». «La nozione di diritto, precisa ancora Simone, è legata a quella di
divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di
per sé il processo, l‟arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della ri-
vendicazione, e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è
subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo»21.
A ben vedere la debolezza della nozione di diritto è ricondotta al suo ca-
rattere storicamente determinato, vale a dire al fatto di essere l‟espressione
di rivendicazioni, non dell‟uomo in generale, bensì di specifici gruppi sociali.
È questa la motivazione fondamentale che induce Simone, durante la sua
breve permanenza a Londra nel ‟43, a scartare il testo sui diritti elaborato

19 G.P. DI NICOLA, A. DANESE (eds.), Persona e impersonale, cit., pp. 8-9. Degli stessi auto-
ri vedi anche Simone Weil. Abitare la contraddizione, Roma, Dehoniane, 1991; e Abissi e vette. Il
percorso spirituale e mistico di Simone Weil, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002.
20 S. WEIL, “La persona e il sacro”, cit., p. 38.
21 Ivi, p. 49.
432 Giuseppe Maccaroni

dalla Commissione per la riforma dello Stato di “France Libre” e a finaliz-


zare tutte le sue energie in vista di una dichiarazione dei doveri verso l‟essere
umano. In altre parole, se alla base del futuro ordinamento politico-sociale
della Francia, ci devono essere delle norme con una validità assoluta e incon-
dizionata, queste norme non possono essere quelle contenute in una dichia-
razione dei diritti. I diritti sono sempre legati a situazioni e condizioni parti-
colari, e non possono essere elevati a principi assoluti. Solo la nozione d‟ob-
bligo ha un carattere assoluto e incondizionato e, quindi, è capace di dare
un‟espressione universale, cioè accettabile da tutti, a ciò che è al di sopra di
questo mondo ed ha un valore eterno e incondizionato. E questo perché,
scrive Simone, «l‟oggetto dell‟obbligo, nel campo delle cose umane, è sem-
pre l‟essere umano in quanto tale. C‟è obbligo verso ogni essere umano, per
il solo fatto che è un essere umano […]. Questo obbligo è eterno. Esso ri-
sponde al destino eterno dell‟essere umano. Soltanto l‟essere umano ha un
destino eterno […]. È eterno solo il dovere verso l‟essere umano come tale.
Quest‟obbligo è incondizionato […]. Il fatto che un essere umano possieda
un destino eterno impone un solo obbligo, il rispetto»22.
Non ci sembra il caso di insistere sul fatto che questo dovere di ri-
spetto che si deve all‟essere umano in quanto tale, richiami l‟imperativo
morale kantiano che prescrive di rispettare sempre e in ogni caso «la di-
gnità umana». Tuttavia, rispetto al formalismo della morale kantiana, la
Weil sembra sfuggire ad una prospettiva meramente spiritualistica connes-
sa alla destinazione ultraterrena riconosciuta all‟essere umano, nella misura
in cui l‟adempimento del rispetto dovuto ad ogni essere umano richiede la
soddisfazione di determinati bisogni, dell‟anima e del corpo. Diciamo me-
glio: l‟elenco dei doveri eterni verso l‟essere umano, che dovrebbe oc-
cupare il posto delle tradizionali dichiarazioni dei diritti, per essere sta-
bilito con il massimo rigore può essere ricavato, per via d‟analogia, dal-
l‟elenco dei bisogni umani vitali. Alcuni di questi bisogni sono fisici, come
la fame, la protezione contro la violenza, l‟abitazione, il vestiario, il caldo,
l‟igiene, le cure in caso di malattia. Altri bisogni sono in relazione con la
vita morale e spirituale, e se non sono soddisfatti, l‟uomo cade a poco a
poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile ad una
vita puramente vegetativa.
I bisogni spirituali sono più difficili da definire, ma non per questo
meno reali di quelli del corpo, e possono essere facilmente percepiti da
chiunque abbia coscienza che vi sono crudeltà (massacri, mutilazioni, care-
22 S. WEIL, La prima radice, Milano, Comunità, 1973, p. 11.
Simone Weil: filosofia e politica 433

stia organizzata, schiavitù o deportazioni di massa) che possono toccare la


vita dell‟uomo senza toccare il suo corpo. In La prima radice, il testamento
politico-spirituale del periodo londinese, la Weil fornisce un elenco prov-
visorio di questi bisogni vitali dell‟anima: ordine e responsabilità, libertà e
ubbidienza, uguaglianza e gerarchia, onore e punizione, libertà d‟opinione
e verità, sicurezza e rischio, proprietà privata e proprietà collettiva. A que-
sti bisogni, disposti per coppie di contrari, se n‟aggiunge un ultimo, quello
del radicamento, che è così definito: «Il radicamento è forse il bisogno più
importante e misconosciuto dell‟anima umana. È tra i più difficili da defini-
re. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all‟esistenza di
una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presenti-
menti del futuro, l‟essere umano ha una radice. Partecipazione naturale,
cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione,
dall‟ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multipli. Ha biso-
gno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale, tra-
mite gli ambienti cui appartiene»23.
Al bisogno di radicamento non corrisponde un bisogno contrario per-
ché è considerato il presupposto imprescindibile per la soddisfazione di tut-
ti gli altri bisogni, e a cui si oppone la malattia dello sradicamento nelle sue
diverse manifestazioni (operaio, contadino e geografico). In definitiva, con
la nozione d‟obbligazione verso ogni essere umano e l‟idea ad essa connessa
di una dichiarazione dei doveri da porre a fondamento di una giusta Costi-
tuzione, e da far sottoscrivere a tutte le persone in procinto di assumere
una carica di potere nella società, Simone si apre un varco per recuperare i
valori insiti nella nozione di persona e ristabilire un rapporto positivo con
le collettività. In questo senso, si può affermare che la nozione d‟obbliga-
zione nei confronti d‟ogni essere umano le consente di acquisire una so-
cialità passata al vaglio dell‟impersonale. «Ognuno di quelli che sono pene-
trati nella sfera dell‟impersonale, scrive Simone, v‟incontra una respon-
sabilità verso tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro, non la
persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di pas-
saggio all‟impersonale»24. In questo senso, le collettività cessano di rap-
presentare delle entità che fagocitano l‟individuo in una massa deresponsa-
bilizzata e diventano occasioni di un rapporto di valorizzazione dell‟indivi-
duo stesso. Grazie alle collettività l‟individuo soddisfa il proprio bisogno di
radicamento, perché esse rappresentano il nutrimento prezioso dell‟anima.

23 Ivi, p. 43
24 S. WEIL, La persona e il sacro, cit., p. 45.
434 Giuseppe Maccaroni

4. L’impersonale nella società e nella storia umana. Una delle acquisizioni


più feconde che la nozione d‟impersonale ha reso possibile alla riflessione
della Weil, è una visione realistica della storia umana e della politica che,
per molti versi, richiama quella di Machiavelli e degli altri teorici del rea-
lismo politico. Si possono distinguere due fasi di questa concezione reali-
stica della politica e della storia umana. La prima coincide pressapoco con
gli anni della militanza politica e termina nel ‟34 con la stesura delle Rifles-
sioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. In questo periodo la no-
zione d‟impersonale si fa spazio nella forma di una considerazione specifica
del potere, ovvero con il riconoscimento della sua autonomia e indipen-
denza, e tale nozione si rivela particolarmente efficace nella descrizione dei
meccanismi oppressivi insiti nella fabbrica e nella società. La seconda fase
comprende gli scritti politici successivi alla partecipazione alla guerra civile
in Spagna nel ‟36 e alla conseguente svolta mistico-religiosa. In questa se-
conda fase il discorso impersonale assume delle dimensioni più generali e
riguarda la «forza» quale dimensione centrale non solo dei rapporti di po-
tere, ma dell‟intera storia umana.
Nella prima fase, l‟approccio alla questione del potere indubbiamente
risente dell‟influenza del magistero di Alain, il quale trasmetteva ai suoi al-
lievi una sana diffidenza verso le strutture collettive di potere (istituzioni,
partiti, associazioni, ecc.), perché tendono ad inglobare nei loro meccanismi
l‟individuo. Il cittadino di Alain diffida e si oppone al potere e più che pen-
sare di cambiarlo con la forza si affida alle potenzialità critiche e volitive del-
l‟individuo come unico argine possibile al naturale espansionismo del „poli-
tico‟25. La Weil fa suo questo radicalismo di Alain e manifesta precocemen-
te un‟esplicita opposizione e resistenza ai poteri. Non solo, ma la stessa par-
tecipazione nelle fila del sindacalismo rivoluzionario, con il loro marcato spi-
rito anti-autoritario, accentua la sua indipendenza di pensiero, il gusto della
libertà individuale, la diffidenza verso ogni forma di coercizione e autoritari-
smo. In questo senso, non hanno del tutto torto quanti attribuiscono una
componente „anarchica‟ alla riflessione politica della Weil. Ma a questo re-
taggio culturale si aggiunge ben presto l‟acquisizione delle dinamiche imper-
sonali con cui si esercita il potere in fabbrica e nella società. È la nozione
d‟oppressione in nome della funzione del processo produttivo, che consente
alla Weil di cogliere la parziale novità con cui si presenta il potere nell‟epoca
del macchinismo, e di ravvisare nell‟impersonale lotta per la potenza la causa
principale dell‟asservimento operaio nella produzione.
Fin dalle prime teorizzazioni la nozione d‟oppressione si caratterizza co-

25 E. BAGLIONI, La lotta contro i poteri. Il radicalismo di Alain, Milano, F. Angeli, 1988, p. 89.
Simone Weil: filosofia e politica 435

me un‟inversione del rapporto tra il lavoratore e i mezzi di produzione (Marx),


nel senso che i lavoratori anziché dominare i mezzi di produzione ne sono
dominati e subordinati. L‟oppressione è una condizione nuova legata all‟in-
troduzione del macchinismo nell‟industria, e indica uno stato d‟asservimen-
to e subordinazione impersonale e anonima del lavoratore non solo agli stru-
menti e alle condizioni di lavoro, ma anche ai gesti, ai ritmi e ai tempi del
lavoro stesso. Si capisce perché la rivoluzione integrale cui pensa la Weil in
questi anni non si può limitare alla semplice conquista del potere politico,
ma deve mirare ad invertire questo rapporto di subordinazione impersonale
del lavoratore alle condizioni materiali del lavoro per renderlo un «essere vi-
vente e pensante», cioè metterlo nelle condizioni di essere un lavoratore co-
sciente che domina con la sua intelligenza l‟intero processo produttivo.
Certo, accanto a queste dinamiche impersonali l‟oppressione (soprattut-
to dopo l‟esperienza diretta vissuta in fabbrica) presenta anche dei risvolti
„personali‟ perché è pur sempre un rapporto diretto tra oppressori e oppres-
si, cioè l‟esercizio dell‟autorità, del „potere‟, da parte dei tecnici in cui si per-
de ogni riferimento all‟aumento della produzione per farsi mera affermazio-
ne di sé nel controllo totale sulla vita dei lavoratori. In questo senso, si può
affermare che la fabbrica è la riproduzione in miniatura di un meccanismo
oppressivo che riguarda la vita sociale, perché anche in società l‟esercizio del
potere mira all‟affermazione di sé grazie al controllo di chi è sottomesso26.
Le Riflessioni, riguardo alle cause dell‟oppressione, contengono una ve-
ra e propria fenomenologia del potere (e della potenza) su cui s‟incrina il
rapporto di Simone col marxismo. Il potere, che si presenta sempre unito
al privilegio, ai monopoli, alle conoscenze specialistiche, appare alla Weil
indipendente rispetto alle condizioni materiali che ne rendono possibile
l‟esistenza e su cui esso finisce per esercitare il suo intervento in vista di
una loro modificazione. Questa sua relativa autonomia è alla base di un‟in-
coercibile tendenza o corsa ad auto-riprodursi e a incrementarsi, che è pri-
va di ogni finalità. Anzi, in questa corsa assume se stesso come unico fine e
assoggetta tutti sotto il suo imperio, deboli e forti, riducendo l‟umanità ad
una cosa tra le cose. Sulla base di questi presupposti non deve sorprendere
che Simone giudichi con severità il marxismo riguardo alla comprensione
dell‟oppressione sociale. Il limite di Marx è nell‟aver connesso l‟oppres-
sione ai soli meccanismi economici della società, cioè nell‟aver privilegiato
come chiave di lettura dell‟enigma sociale, l‟economia, le modalità della
produzione. Viceversa, si tratta di far interagire le condizioni d‟esistenza
26 G. GIORGIO, “L‟impersonale necessità nella storia”, in G.P. DI NICOLA, A. DANESE
(eds.), Persona e impersonale, cit., pp. 79-84.
436 Giuseppe Maccaroni

materiale degli individui dati nella produzione, con le dinamiche del potere
e della sua parziale autonomia. Più specificatamente la causa dell‟oppres-
sione sociale, nei paesi capitalistici come nell‟Unione Sovietica27, è la pleo-
nexia o lotta per la potenza tra collettività rivali per evitare di indebolirsi.
Lotta che si svolge nell‟arena internazionale e che è causa di un asservimen-
to totale delle masse lavoratrici. La lotta per la potenza, scrive Simone nel-
le Riflessioni, «racchiude una specie di fatalità che grava impietosamente
tanto su coloro che comandano quanto su quelli che obbediscono, più an-
cora, è nella misura in cui asservisce i primi che, per loro intermediario, an-
nienta i secondi»28.
Se ora passiamo a considerare la seconda fase della riflessione politica
sull‟impersonale, veniamo colpiti da una particolare accentuazione del rea-
lismo politico di Simone che fa da singolare contrappunto alla svolta misti-
co-religiosa della sua vita. A tal proposito, non è mancato chi ha rilevato
come l‟attitudine propria e specifica dei mistici, ad onta della loro enig-
matica inclinazione ad entrare in contatto con la realtà trascendente e so-
prannaturale, sia una particolare facoltà a radicarsi nella realtà mondana,
che è l‟espressione di una saggezza pratica che contempera e concilia la lo-
ro stessa capacità di comunicare con il divino.
Questo accentuato realismo politico lo possiamo rintracciare nei saggi
che precedono o che seguono lo scoppio del secondo conflitto mondiale,
vale a dire in Meditazione sull’obbedienza e la libertà [estate 1937], Non rico-
minciamo la guerra di Troia [aprile 1937], Riflessioni sulla barbarie [inizio
1940], L’Iliade o il poema della forza [inizio 1940] e, infine, in Origine dell’hi-
tlerismo del 1939, in cui i diversi argomenti affrontati trovano una loro
sintesi e unità in una sorprendente e originale analisi sulla vocazione totali-
taria dello Stato moderno. Ecco, il realismo politico della Weil assume co-
me oggetto principale d‟analisi, oltre al tema concreto quanto attuale delle
cause prossime e lontane del totalitarismo, i temi del potere, della guerra,
della barbarie e della forza, intesa, quest‟ultima, come unico e vero soggetto
„impersonale‟ della storia umana.
Soffermiamoci brevemente sull‟articolo Meditazione sull’obbedienza e la
libertà, che è occasionato da una rilettura del famoso libro di La Boétie sulla

27 S. WEIL, “Le problème de l‟URSS”, L’effort 406, 2 dic. 1933, ora in S. WEIL, Oeuvres

complètes, tome II, vol. 1, pp. 311-312. Più in generale sulle cause dell‟oppressione e i suoi
possibili rimedi cf. R. CHENAVIER, Simone Weil. Une philosophie du travail, Paris, Les éditions
du CERF, 2001, pp. 191 sgg.
28 S. WEIL, Oppressione e libertà, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, p. 97.
Simone Weil: filosofia e politica 437

«servitù volontaria»29. L‟analisi di La Boétie sul ruolo fondamentale che la


«forza» svolge nei meccanismi enigmatici di dominazione, apporta alla
Weil nuovi elementi in direzione di un approfondimento della riflessione
sul potere, che le consente di approntare una nuova ermeneutica del so-
ciale con cui si consuma definitivamente il suo distacco dalla teoria marxi-
sta. Il tema principale del libro è quello della «servitù volontaria» che nasce
dallo stupore che coglie ogni osservatore di fronte al fenomeno paradossale
della dominazione. Perché, si chiede La Boétie, il tiranno si fa obbedire,
quando non dispone delle forze effettive? In altre parole, se il gioco reale
della vita politica è dettato dalla forza, e se la logica vuole che la forza pre-
valga e sia dalla parte del gran numero, come mai nella realtà quest‟idea è
inefficace e si assiste al paradosso per cui il gran numero (la forza) è domi-
nato dalla forza minore, quella del tiranno? È questo il carattere parados-
sale ed enigmatico del potere. Com‟è possibile che colui che non detiene la
forza, la quale è alla base d‟ogni potere, sia quello che esercita il potere ef-
fettivo?
Per la Weil La Boétie non è riuscito a fornire una risposta soddisfacente
al problema sollevato della «servitù volontaria», ma nonostante questa ri-
serva Simone accoglie da La Boétie la sottolineatura del ruolo determinan-
te che la „forza‟ svolge nei rapporti di dominazione e la considera la nozio-
ne principale da assumere per la scienza della società. In questo senso, il
marxismo non ha facilitato una visione chiara del problema sociale per aver
assunto come chiave di comprensione dell‟enigma sociale la produzione, il
bisogno. Al contrario, in analogia all‟impresa di Galileo, che introdusse il
concetto di forza per spiegare i fenomeni del mondo materiale, si tratta di
introdurre la nozione di forza sociale per spiegare i fenomeni della „mec-
canica sociale‟. Ed è la nozione di forza sociale a fornire una risposta alla
domanda cruciale posta da La Boétie circa l‟apparente assurdità per cui il
gran numero, le masse, sono dappertutto sotto il giogo di pochi o della vo-
lontà di uno solo. Secondo Simone, la ragione è dovuta al fatto che i pochi,
costituiscono un insieme, hanno coesione, formano un tutto solidale, rap-
presentano appunto una forza. Al contrario, i molti, proprio perché troppo
numerosi, mancano di coesione, non hanno unità, tranne che nei rari mo-
menti della storia in cui si sollevano.
È indubbiamente dallo scritto di La Boétie che Simone ha tratto spunto
per approfondire la nozione di forza e la sua presenza nella storia umana in
quell‟eccezionale scritto che è L’Iliade o il poema della forza. Certo, non va
29 É. DE LA BOETIE, Le discours de la servitude volontarie, Paris, Payot, 1976.
438 Giuseppe Maccaroni

sottovalutata l‟incidenza delle crudeltà di cui è spettatrice nella guerra ci-


vile in Spagna30, oppure la convinzione che matura in questo periodo sulla
barbarie come «carattere permanente e universale della natura umana»31.
Ma bisogna anche sottolineare che queste acquisizioni sulla centralità della
forza nella storia delle società umane (che Simone trova espressa anche da
Tucidide nella Guerra del Peloponneso sulla distruzione della popolazione
della piccola isola di Melo), avvengono a partire dall‟acquisizione di una
concezione della politica a cui, per essere efficace, non basta l‟intelligenza
o il senso dello spirito civico, ma le è indispensabile un certo grado di «ci-
nismo» come insegna quel «fisico del potere politico» che è Machiavelli32.
Ecco, a noi sembra che il carattere impersonale della forza operante
nella storia umana è acquisito sulla base di questa concezione realistica del-
la politica che si ricollega esplicitamente a Machiavelli. Ed è con crudo rea-
lismo che la Weil in L’Iliade o il poema della forza, ne descrive natura, effetti
e limiti. Il «vero eroe, il vero argomento, il centro dell‟Iliade, è la forza. La
forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi
alla quale si ritrae la carne degli uomini. L‟anima umana vi appare conti-
nuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla
forza di cui crede disporre, si curva sotto l‟imperio della forza che subi-
sce»33. Non sono gli uomini a usare la forza, ma è la forza a usare gli uo-
mini. La natura della forza, il potere «ch‟essa possiede, di trasformare gli
uomini in cose, è duplice e si esercita da ambo le parti: essa pietrifica di-
versamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e quelli
che la usano»34. È nella guerra che si mostra il segreto della forza perché
trasforma gli uomini in pure forze inconsapevoli, elementi di un‟unica
energia che tutto governa e sottomette, cioè dell‟imperio della forza. Ed è
illusoria la pretesa di possederla, perché usarla significa essere già posseduti.
In definitiva, la forza schiaccia tutti quelli che tocca, tanto quelli che se ne
servono, quanto quelli che la patiscono, e affratella vittime e complici,
vincitori e vinti, nella stessa sventura e nella stessa sofferenza.

30 S. WEIL, Lettera a Georges Bernanos, in EAD., Morale e letteratura, cit., pp. 82-89.
31 EAD., “Réflexion sur la barbarie”, in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1989, t. II, vol. 3, p. 223.
32 EAD., “Méditation sur un cadavere (variante)”, in ivi, p. 288.
33 EAD., “L‟Iliade o il poema della forza”, in La grecia e le intuizioni precristiane, Torino,
Borla, 1967, p. 9. Su questa concezione della forza cf. G. GAETA, “Sotto l‟imperio della
forza. Simone Weil, i greci, la guerra”, Linea d’ombra 6 (1988) 32, pp. 58-61; T. GRECO,
La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 45-61;
M.C. LUCCHETTI BINGEMER, Simone Weil. La debolezza dell’amore nell’impero della forza, Civi-
tella in Val di Chiana, Zona, 2007.
34 S. WEIL, “L‟Iliade o il poema della forza”, cit., p. 33.
Simone Weil: filosofia e politica 439

5. Dio come persona-impersonale. In molti ambiti il volume curato da Di Ni-


cola e Danese mette a fuoco quella che a ragione possiamo definire la dialet-
tica persona-impersonale in Simone Weil. Tra questi, per concludere questo
nostro breve scritto, vogliamo fare riferimento alla concezione di Dio come
persona-impersonale, che rappresenta uno degli aspetti più originali della sua
riflessione religiosa. È una concezione che presenta evidenti punti di conver-
genza ma anche d‟attrito con il linguaggio di molte fedi religiose. Se ci at-
teniamo a quanto dice il Catechismo della Chiesa cattolica sono molte le religio-
ni in cui Dio è invocato con tratti personali. Tra questi il termine più usato è
certamente quello di «Padre» per indicare che Egli è origine primaria di tut-
to e autorità trascendente e, al tempo stesso, bontà e sollecitudine d‟amore
per tutti i suoi figli. Del resto, per rimanere alla fede cristiana, il dogma della
Santa Trinità è la confessione non di tre dei, ma di un Dio solo in tre Persone.
Ecco, Simone concepisce Dio sia come persona sia come impersonale. Se-
condo Di Nicola e Danese, Simone Weil era convinta che limitarsi ad una
concezione di Dio soltanto personale non fosse di grande aiuto nella via della
perfezione e che per progredire in questa fosse necessario aprirsi ad una vi-
sione impersonale.
Ora, se ci atteniamo alle descrizioni che dei suoi incontri mistici ha for-
nito Simone, risulta innegabile il carattere personale di Dio. Simone, a pro-
posito di questi incontri, parla una prima volta «di un contatto reale, da per-
sona a persona, quaggiù, tra un essere umano e Dio», e una seconda volta di
aver sentito «una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un
essere umano»35. E tuttavia questo carattere personale del rapporto mistico è
destinato ad aprirsi ad una dimensione impersonale. Nel saggio su La persona
e il sacro, Simone precisa che ciò che è sacro in un essere umano, non è la
persona, ma ciò che è impersonale. E aggiunge, come sappiamo, che la per-
sona rappresenta l‟errore e il peccato e che «tutto lo sforzo dei mistici è stato
sempre volto ad ottenere che non ci sia più nel loro animo alcuna parte che
dica „io‟»36. In altre parole, se la mistica presuppone un‟abolizione della per-
sonalità, e solo con quest‟abolizione il mistico fa spazio a Dio, allora, si chie-
de G. Kahn, com‟è possibile mantenere l‟idea di un Dio personale?37 In real-
tà, anche i rapporti mistici implicano un aspetto impersonale dei due termini
coinvolti e questo è chiaramente riconosciuto da Simone allorché definisce la
relazione mistica «unione dell‟anima con il bene assoluto».
35 S. WEIL, Attesa di Dio, Milano, Rusconi, 1984, pp. 42-43.
36 S. WEIL, “La persona e il sacro”, cit., p. 43.
37 G. KAHN, “Dio persona e Dio impersonale in Simone Weil”, Prospettiva persona 65-
66 (2008), p. 93.
440 Giuseppe Maccaroni

L‟aspetto impersonale di Dio richiama la sua imparzialità. Un‟imparziali-


tà cieca se è vero che Dio «invia i raggi del sole e la pioggia sui buoni e sui cat-
tivi»38. E tuttavia bisogna riconoscere che concepire Dio come persona-im-
personale, ossia attribuirgli la compresenza di due contrari inconciliabili, si-
gnifica cadere in una palese contraddizione. Ma proprio in questa contrad-
dizione consiste uno degli aspetti più originali della speculazione religiosa
della Weil. Dio rappresenta la suprema sintesi dei contrari. Nella creazione
si è svuotato, depotenziato della sua essenza. La creazione è rinuncia, sacrifi-
cio, per amore. Attraverso il creato Dio ama se stesso. Con la creazione Dio
ha costituito una polarità interna alla sua sostanza, cioè tra Dio e Dio stesso.
Tale polarità si distribuisce lungo una serie infinita di rapporti d‟opposizione
(unità e pluralità, universalità e particolarità, trascendenza e immanenza, ecc)39.
Ma se è vero che l‟atto creativo esprime il movimento discendente di Dio
verso le creature, verso l‟uomo, è anche vero che al soggetto umano non è da-
to di percorrere a ritroso il cammino della creazione, in altre parole di ascen-
dere a Dio. Prodotto del movimento discendente, l‟uomo deve attendere la
discesa di Dio nella sua anima. Eppure all‟essere umano non è precluso ap-
prossimarsi a Dio e pensare simultaneamente i contrari divini, senza che que-
sto produca impossibilità logica. Questo processo d‟approssimazione a Dio,
che la Weil platonicamente chiama dialettica, è reso possibile dal carattere di
necessità che informa la creazione. Dio con la creazione ha instaurato un ri-
gido determinismo della materia. La necessità è diffusa in modo omogeneo
in tutto l‟universo e distribuita su livelli ontologici differenti. Ad ognuno di
questi livelli, essendo la creazione un movimento discendente, si riproduce
la serie illimitata di contrari di cui Dio è sintesi suprema. Certo, al livello in-
feriore di questa scala di contrari i poli dell‟opposizione presentano caratteri
del tutto incompatibili e contraddittori e sono inaccessibili alla logica umana
fondata sul principio di non-contraddizione e legata al piano temporale. Ma
man mano che si risale lungo la gerarchia dei livelli e ci si solleva oltre la di-
mensione del tempo, il grado d‟inconciliabilità dei contrari diminuisce pro-
gressivamente e ciò che prima risultava del tutto impossibile, cioè afferrare i
contrari con un unico atto di pensiero, diventa sempre meno irrealizzabile.
In definitiva, se «fosse possibile portare a termine quest‟ascesa fino alla som-
mità allora apparirebbe logicamente coerente pensare simultaneamente i
contrari divini»40, come per l‟appunto la sua natura di persona-impersonale.

38 S. WEIL, Quaderni, II, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1985, p. 122.


39 M. ZANI, Invito al pensiero di Simone Weil, Milano, Mursia, 1994, p. 169.
40 Ivi, p. 171.
EUGENIA MASCHERPA

Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh

Il presente lavoro è un estratto dalla tesi di dottorato Per il vocabolario di


Giraut de Bornelh1, il cui obiettivo è stato lo studio del vocabolario di Giraut
de Bornelh. Il lavoro si è collocato all‟interno della ricerca lessicografica del-
l‟antico provenzale basata, ancor oggi, essenzialmente sul Lexique roman di
Raynouard risalente agli anni 1838-1844, sul Provenzalisches Supplement-Wört-
erbuch (1894-1924) e sul Petit dictionnaire provençal-français di E. Levy (1909)2.
Il progetto è stato agevolato dalla possibilità di avvalersi, per ogni ricogni-
zione filologica, linguistica e informatica, del Dipartimento di Linguistica
della Calabria e, in particolare, del Laboratorio di Filologia informatica3. La
base dati qui presente ha permesso di pervenire agevolmente alla lemmatiz-
zazione, che ha costituito la prima fase della ricerca4. La lemmatizzazione
effettuata è di tipo atomista, ossia ogni forma è considerata a sé; questo da
una parte ha il vantaggio di non appesantire il lavoro con una standardizzazio-
ne dei testi, dall‟altra crea difficoltà nel reperire le forme sintagmatiche.
Sono state lemmatizzate le parole semanticamente piene (nomi, aggettivi,
verbi, avverbi) del vocabolario di Guirat de Bornelh (d‟ora in poi GrBorn).
Da questa prima fase del lavoro sono emersi alcuni luoghi dubbi nel corpus
testuale dell‟autore, che hanno evidenziato problemi di natura filologico-
linguistica, come nel caso dei lessemi poco documentati nella tradizione

1 Tesi di dottorato, Per il vocabolario di Giraut de Bornelh, Università di Torino, 2007.


2 Ancora ben pochi fascicoli abbiamo del moderno Dictionnaire de l‟occitan médiévale
(DOM), diretto da STEMPEL (1997-), e del Dictionnaire onomasiologique de l‟ancien occitan a cura
di BALDINGER (1975-).
3 Nel laboratorio, diretto dal prof. R. Distilo, è attiva una Base dati multifunzionale per il

lessico della poesia romanza delle origini (da qui in poi BDM), in parte già consultabile tramite il
CD-ROM Trobadors (DISTILO 2001).
4 Il lavoro, all‟interno del progetto di lemmatizzazione dei testi della Lirica europea delle

origini, si riallaccia al panorama generale dello sviluppo delle basi dati testuali. Dagli anni
sessanta si lavora alla creazione di banche dati di testi letterari e documentari. Nel campo
della letteratura italiana c‟è la Letteratura Italiana Zanichelli (LIZ a cura di Stoppelli e Picchi),
mentre in Francia si è sviluppata l‟opera del Trésor de la langue française (avviata alla fine degli
anni ‟60 da Imbs) che ha portato alla costituzione dell‟Institut national de la langue française
(INaLF) e della banca dati FRANTEXT. In Italia parallelamente si è lavorato al Tesoro della lingua
italiana delle origini, la prima sezione del Vocabolario storico della lingua italiana. Da citare anche
la Concordance of Medieval Occitan (COM), diretta da Ricketts (2001).

Bollettino Filosofico 25 (2009): 441-460 441


442 Eugenia Mascherpa

trovatorica5. Il lavoro di lemmatizzazione ha permesso inoltre di effettuare


delle analisi quantitative e qualitative sulla distribuzione del lessico nel corpus
di Giraut, arrivando a definire il lessico specifico dell‟autore in rapporto ai
vocabolari degli autori lirici provenzali precedenti e contemporanei.
Nell‟ultima fase del lavoro si è prodotta una classificazione noemica dei
sostantivi per definire le aree concettuali del canzoniere con l‟intento di dare
un contributo al repertorio tematico della lirica romanza delle origini.
La ricerca ha portato ad una prima elaborazione del vocabolario fonda-
mentale di GrBorn, in cui è possibile individuare i lemmi esclusivi, le neofor-
mazioni, le questioni aperte di natura ecdotica, i significati fondamentali dei
sostantivi e le relative classi noemiche. In questa sede si presentano i dati
della classificazione noemica del lessico relativi al campo delle emozioni.

1.1. Base quantitativa


Il corpus di Giraut de Bornelh consta di 27.744 occorrenze, 6.421 forme
e 2.630 lemmi6. I lemmi oggetto dello studio sono 2.383, di cui 1014 con
frequenza 1. La categoria morfologica superiore per numero di occorrenze è
quella verbale, seguita da sostantivo, aggettivo e avverbio7. Situazione diver-
sa invece se consideriamo i lemmi: si nota infatti un‟equivalenza tra verbi e
nomi in relazione al numero dei lemmi. Ma, comparando il numero di lem-
mi con frequenza 1 delle due classi, verbale e nominale, vediamo una mag-
giore variazione all‟interno della classe nominale (tab. 1). Lo schema che
segue rappresenta sinteticamente gli aspetti quantitativi del corpus: categoria
morfologica, lemmi, frequenza relativa, occorrenze, frequenza 18.

5 Tali lessemi sono stati oggetto di schede lessicografiche (cap. II).


6 Per forma si intendono le possibili flessioni di ciascun lemma e le diverse unità grafiche
con cui una parola è rappresentata in un testo; i lemmi sono le forme di citazione delle parole
di un testo, definiti dalla categoria grammaticale e dal contenuto semantico; il termine occor-
renza indica il numero di volte con cui il lemma ricorre nel testo.
7 Il dato è in linea con quanto emerso nei rilievi quantitativi effettuati nell‟ambito della

francesistica sui trovieri. Mi riferisco in particolare allo studio di ZUMTHOR (nota 14, pp.
205-206) sul “grande canto cortese”. Lo studioso ha analizzato una canzone di Châtelain de
Couci, basandosi sull‟edizione LEROND (1964). Nell‟analisi relativa al vocabolario i verbi
sono risultati 79 contro 51 sostantivi e 14 aggettivi con una proporzione di un aggettivo ogni
4 nomi. Zumthor riporta anche l‟analisi operata da LAVIS-DUBOIS (1970) su 25 canzoni di
Blondel de Nesle (1730 occorrenze verbali contro 954 di sostantivi).
8 Si dà un quadro riassuntivo delle categorie morfologiche, tralasciando di suddividere le

categorie morfologiche in sottoclassi, come in realtà accade nella lemmatizzazione. Tale


lavoro, seguendo la linea del dizionario generale della basedati, dà rilievo alla funzione
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 443

tab. 1
categoria lemmi frequenza occorrenze frequenza 1
morfologica relativa
sost. 933 39 4711 419
v. 932 39 8170 381
agg. 381 16 2253 170
avv. 137 6 4175 44

Gli indici di frequenza lessicale rivelano una dispersione abbastanza notevole


del vocabolario del nostro autore, indicativa della tecnica compositiva estre-
mamente formale della lirica provenzale. La ridondanza, legata anche alla
particolarità enunciativa della poesia9, gioca un ruolo fondamentale per la ri-
cezione dell‟opera e si attualizza spesso sulle alternanze sfumate con l‟uso dei
suffissi e dei prefissi, costituendo delle serie derivazionali a cui è affidata la
variatio da una parte, la ridondanza dall‟altra10.
La nozione di “poésie formelle” elaborata da Guiette spiega meglio questo
fenomeno: «Les formes deviendront des cadres dans lesquels on présentera
des matières diverses. On les ornera de difficultés et de virtuosités méthodi-
ques»11. La struttura dunque è fissa, mentre le forme linguistiche subiscono
le maggiori variazioni nel rispetto però dei valori formali e del messaggio
globale del testo che deve aderire all‟idea che sottende la struttura. Gli ele-
menti formali maggiormente sottoposti alla variazione sembrano essere so-
stantivi e aggettivi: in entrambe le classi il 45% è costituito da lemmi con
frequenza 1; tuttavia, mentre i sostantivi rappresentano il 39% dei lemmi,
gli aggettivi, con il 16%, si caratterizzano come i più recettivi alla variatio;
seguono i verbi con il 41%. Gli avverbi invece si presentano quasi come una

grammaticale preminente, tralasciando la funzione sintattica. Si permette così la maggiore


visibilità dei casi ambivalenti, quali agg./s.m., etc., nei quali non è possibile discriminare con
certezza la funzione grammaticale, come nel caso dei p. pass. con funzione aggettivale. Non
in tutti i casi di transcategorizzazioni è infatti possibile asserire la funzione grammaticale, valga
per tutti un esempio delle serie aggettivali, E contra les sobriers ergoillos (242,1, 7, 70) in cui è
difficile determinare quale dei due aggettivi ha funzione sostantivale ammesso che non si tratti
di una giustapposizione. La frequenza relativa è calcolata sul rapporto tra i lemmi e il totale
dei lemmi di GrBorn. Per quanto riguarda la frequenza 1, prendo in considerazione i lemmi
con unica occorrenza con l‟intento di evidenziare la variatio nel canzoniere giraldiano.
9 Zumthor ce ne ricorda il carattere memotecnico necessario alla sua esecuzione.
10 Basti pensare alla serie con base jauzir: jauzida, jauzimen, jauzen, jauzidor o ancora alla

serie per esprimere il concetto di “gioia, allegria” che ha tre sostantivi: alegransa, alegratge,
alegrier.
11 GUIETTE 1978: 28.
444 Eugenia Mascherpa

classe chiusa, ad eccezione degli avverbi in –men, suffisso che risulta partico-
larmente produttivo in Giraut12.

1.2. Limiti della classificazione noemica

L‟indagine tende ad evidenziare la strutturazione concettuale del canzo-


niere e la sua distribuzione interna. Si è cercato di definire il lessico e le aree
concettuali di aggregazione. La scelta di individuare le strutture concettuali
di un canzoniere trovatorico è forse discutibile, per l‟esiguità dei temi della
lirica delle origini. In realtà potrebbe essere uno strumento utile a verificare
quella variazione nella fissità strutturale e concettuale che è inerente alla
poesia formale dei trovatori. D‟altra parte sono ancora pochi gli studi in
questo settore per arrivare a una qualsiasi formulazione valutativa13.
Per la categorizzazione dei concetti si è seguito il Begriffssystem di Hallig e
Wartburg14. Se ne condivide la suddivisione: Universo, Uomo, Uomo essere
sociale, Uomo e Universo. L‟indagine è effettuata sui sostantivi15, che pre-
sentano indubbi vantaggi di classificazione, soprattutto i nomi concreti, ri-
spetto alle molteplici valenze verbali; maggiori difficoltà si incontrano nella
classificazione dei nomi astratti riferiti alla sfera dell‟animo e dell‟intelletto. Il
campo dell‟intelletto è suddiviso, secondo l‟onomasiologia tradizionale, tra
attitudini intellettuali e azioni. Inoltre il modello tiene conto della dialettica
“io–gli altri” nella classificazione dei sentimenti, a seconda che siano endogeni o
esogeni. Trattandosi di un‟applicazione alla lirica, si è ritenuto di snellire alcu-
ne gerarchie di sottoclassi per non disperdere il lessico in una miriade di con-
cetti, senza considerare l‟arbitrarietà nell‟attribuzione di un lessema a una clas-
se piuttosto che a un‟altra ad essa molto vicina. Tale scelta è operata in attesa
di analizzare in altri autori questi nuclei concettuali e verificarne la validità
pervenendo ai nuclei semici base per ciascuna classe. Pertanto si è ritenuto
utile ridurre a due le classi relative ai sentimenti – “gioia-allegria” e “dolore-

12 Per quanto concerne gli aggettivi, si hanno ad es. due sinonimi per “piacevole” con

stessa base lessicale: agradil e agradiu, senza contare la transcategorizzazione da participio ad


aggettivo, fenomeno rilevante tanto da far ipotizzare una derivazione tramite affissazione zero
o “conversione”.
13 Ricordiamo gli studi sui Lais de Marie de France di MCCLELLAND (1977) e su Girart de

Roussillon di PFISTER (1970).


14 Begriffssystem als Grundlage für die Lexikographie, 1963.
15 I sintagmi nominali sono più interpolabili e, quindi, più disponibili alla variazione. Lo

confermano anche i dati quantitativi presentati sopra. Inoltre la nominalizzazione è una delle
attività principali delle lingue naturali.
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 445

tristezza –, mentre il Begriffssystem ne distingue 4 – “piacere-dispiacere”, “gioia-


allegria-tristezza”, “dolore-noia”, “dolore”; allo stesso modo la classe “tranquil-
lità-inquietudine” è stata associata a quella “cura-affanno” e il tormento è stato
considerato come prodotto di un pensiero doloroso. L‟analiticità della griglia
Hallig/Wartburg16 non risolve, d‟altronde, i problemi di individuazione certa
della classe di appartenenza di un lessema: spesso uno stesso lessema può es-
sere classificato sotto diversi concetti. Nei casi di polisemia la classificazione è
stata plurima, soprattutto in quei casi che si prestavano alle transfigurazioni di
senso: per es. acier si trova sotto “metalli” e sotto “armi”. Il procedere per clas-
sificazione plurima ha avuto come effetto la possibilità di inquadrare meglio
coppie sinonimiche come amansa e amistat e simili che, sul piano concettuale,
differiscono per i rinvii a classi diverse: il desiderio per i nomi come amansa e la
fiducia-sfiducia per i nomi come amistat.
Tale classificazione ha permesso di evidenziare la ricchezza di alcuni campi
semantici e di metterli in relazione con la cultura e le abitudini del tempo.
Osservando i campi concettuali degli hapax si nota la propensione del nostro
autore a descrivere la vita quotidiana: ad es. fa riferimento alla nutrizione (afam
e depast, oltre al più consueto fam, morsel), ai pasti (sopar e merenda) e ai digiuni
imposti dalla prassi religiosa (divendres, dinar). Tale descrizione è coerente con
la percezione del tempo nell‟epoca medievale: il tempo giornaliero era infatti
scandito dai pasti, lo scorrere dei giorni dall‟alternanza pasto/digiuno, quello
dei mesi dalle feste religiose e dall‟alternanza delle stagioni.

1.3. L‟uomo essere fisico e spirituale

Il concetto di “Uomo” è suddiviso in due sottoclassi: uomo come essere


fisico e come essere spirituale. Tra le maggiori frequenze relative all‟indeter-
minato “essere fisico” troviamo il generico ome (71 occorrenze), la cui cate-
goria morfologica dipende dal contesto semantico. Trattandosi di nome ge-
nerico può infatti svolgere funzione di sostantivo e pronome come il moder-
no on. In particolare sembra che ome perda la sua implicazione di pluralità
quando assume valore generico, cioè quando il parlante usa l‟esistenziale
senza saperne precisare la referenza individuale. È considerato sostantivo
quando è strettamente connesso a un determinante17. Altri nomi generici

16 Si è tenuto conto anche delle integrazioni apportate nella stesura dei voll. 21-23 del FEW.
17 Per es. nei casi di con hom fols e desmesuratz (242,5), si segue così la tradizione dei
glossari, come DI GIROLAMO 1996, CRESCINI 1892, KOLSEN 1935, GOUIRAN 1985, STRONSKI
1906, BARTSCH, KOSWIWITZ 1904, APPEL 1930.
446 Eugenia Mascherpa

sono tal (75) e negun (8), che marca il valore negativo di ome ed è usato spes-
so con valore superlativo nel senso della perfezione o del suo contrario18.
Lo spazio relativo alla materialità del corpo è dominato da cors (29) nel suo
duplice aspetto di realtà estetica e sensuale (riferito al corpo della donna) e
realtà fisiologica relativa all‟io dell‟enunciazione. Nel primo caso è accom-
pagnato da epiteti generici quali bel, gen, avinen; nel secondo caso dall‟agget-
tivo possessivo mon (mon cors). Sinonimo di cors è faison, mentre semblansa
sembra avere come riferimento l‟uomo. Le parti del corpo femminile più in-
vocate sono le braccia che rappresentano l‟amore sensuale, le mani e il viso19.
Gli occhi sono in pochi casi riferiti alla donna, spesso sono gli occhi del poeta
che ammirano il viso dell‟amata. Tra gli organi e le varie funzioni troviamo più
esteso lessicalmente il campo riferito alla nutrizione, anche se il senso più
importante non è il gusto, ma la vista20. Le altri parti del corpo menzionate nel
canzoniere di Giraut si riferiscono sempre a situazioni che prescindono dal-
l‟amore e dall‟amata. Per esempio boca è sempre riferito all‟io enunciativo
come metonimico per intendere la facoltà del linguaggio, così cais e den. Il les-
sema per testa sembra essere cervitz, mentre cap assolve più funzioni meta-
foriche di “guida”. Il collo è legato all‟atto cruento del soffocamento per impic-
cagione o per decapitazione. Det ha il valore di parte del corpo che serve ad
indicare, calcando forse un modo di dire del tipo “mostrare a dito”.
Della sezione del vocabolario dedicata al pensiero, due lessemi concretiz-
zano la capacità intellettuale dell‟individuo: sen con 48 occorrenze e razon con
29. Ad essi, che rappresentano il buon senso, la saggezza, si oppone la follia
con 35 occorrenze suddivise tra foldat (15), folor (12), folia (6), folatge e
daufeza. Il folle è colui che perde la sua capacità di giudizio e dimentica di com-
portarsi con moderazione21. È proprio Giraut a legare la follia ad una devia-
zione dal codice cortese, causata dall‟amore-passione. Nel componimento
242,39 Ia ·m vai revenen22 l‟argomento è la conciliazione tra amore e follia: l‟in-

18 Come nell‟es. tan gran esforz, de nengun nat de maire (242,69a).


19 D‟altra parte le braccia rappresentano l‟amore sensuale, le mani sono il primo punto di
contatto con l‟amata, ma anche elemento rituale nella società feudale, il viso è l‟elemento
catalizzatore dell‟attrazione fisica.
20 Sono infatti 113 le occorrenze del solo vezer, contro le 2 di manjar e le 8 di paiser. È

importante anche ricordare l‟ambivalenza dei lessemi riferiti all‟aspetto che potrebbero
rientrare anche sotto la classificazione della “percezione”, se intendiamo i processi conoscitivi
sensibili come soggettivi.
21 CROPP 1975: 133-137.
22 Strofe VI, vv. 61-72: Car qui ·l dreg enten / D‟Amor ni ·n sospira / No pod aver sen / De gran

iauzimen / S‟ab foudat no ·i vai; / C‟anc drut savi gai / Non vi, q‟anz esmera / Lo sen la foudatz. / Per o
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 447

namorato deve conservare la saggezza ma corretta dalla follia, deve essere un


innamorato fol e savis. Giraut eredita da Marcabruno le basi teoretiche e morali
della fin‟amor, ma le trasforma in una condizione esistenziale, di continua lotta
tra sen e folor. Solo nell‟equilibrio del sentimento e della ragione si realizza l‟a-
more vero che si concretizza nella reciprocità. Quando non è amore ricam-
biato, rimane un peso emozionale che sbilancia il binomio sen-folor sulla follia.
Si capisce allora come folor non abbia in Giraut valore negativo di per sé; anzi,
spesso il termine si trova in coppia con sen e pretz. La forma più frequente è
foldat (15) definita in tre occasioni bela. Giraut usa 5 sinonimi per indicare la
follia e sembra servirsi dei suffissi per elaborarne le differenze semantiche: i
suffissi dotti tendono a considerare la follia nel suo valore positivo di stimolo al
processo amoroso e al miglioramento del poeta-amante.
La conoscenza procede attraverso l‟esperienza (escien), tale direzione è
confermata dalla predilezione di saber (18) che sembra avere un uso fondato
sull‟osservazione e sulla pratica allo stesso tempo23. I due termini che si rife-
riscono alla conoscenza acquisita sono art e engenh, il primo legato a un talento
che si acquista con l‟esperienza, il secondo prodotto da capacità innate all‟in-
dividuo. Il pensiero e la memoria non ricoprono un ruolo rilevante nel canzo-
niere di Giraut: 13 occorrenze in tutto per il concetto “pensiero” (pensamen è il
più usato), 5 per “memoria”. Più articolato è il campo della “discussione”,
come a evidenziare il carattere discorsivo della poesia giraldiana. L‟accordo è
cercato tra l‟amante e la donna, tra l‟amante e se stesso, tra il poeta e il pubbli-
co. Come nota Salverda de Grave «le poète se fait des objections à lui-mê-
me»24, i momenti di esitazione o di rivolta sono frequenti in Giraut e contri-
buiscono a dare ai suoi versi una certa vivacità e, allo stesso tempo, un‟aria
sconnessa, tipica del parlato25. La “verità” ha variazione morfologica povera,
mentre estremamente vario è il sistema inerente al concetto di “errore”. Tale
nucleo semico non ha molta rilevanza nei trovatori, almeno in quelli classici si
trova un numero ristretto di esempi26. Per quanto riguarda l‟azione, maggiore
importanza è accordata al risultato come danno o vantaggio e sforzo: la scelta
dipende dalle attitudini dei partecipanti divisi tra volubilità e fermezza. Il

s‟amavatz / Ni ·l sen creziatz, / Per pauc de semblan / N‟irais doptan! La strofe potrebbe intendersi
anche ironicamente: solo un folle può innamorarsi e sopportare le privazioni imposte dal codice
con allegria, al saggio infatti non sfuggirebbe il paradosso della convenzione e si mostrerebbe triste.
23 Come nell‟uso dell‟afr. cf. MCCLELLAND 1977: 53.
24 SALVERDA DE GRAVE 1938: 30.
25 Non a caso Giraut ha introdotto la tecnica della canzone dialogata.
26 CROPP 1975: 446.
448 Eugenia Mascherpa

successo dell‟impresa dipende non solo dalle attitudini, ma anche dalle


numerose interferenze favorevoli o sfavorevoli all‟azione. Gli ostacoli sono di
due tipi: l‟interferenza diretta degli altri con il biasimo e il giudizio, e i mezzi
usati che possono essere positivi, come il consiglio, o negativi come l‟impedi-
mento.

1.3.1. Il lessico dei sentimenti

La sezione del vocabolario dedicata ai sentimenti è la più ricca. Per la par-


ticolare difficoltà a classificare gli stati d‟animo, si è raggruppato il voca-
bolario emozionale intorno ai concetti di “gioia-dolore”, “tristezza” e “cura-
affanno”. Sommando i campi che hanno come oggetto “gioia/felicità” e “do-
lore/sfortuna/tristezza” notiamo che il vocabolario relativo ai sentimenti
spiacevoli è più specializzato rispetto a quello relativo ai sentimenti piacevoli:
si contano 38 lessemi per il primo contro 23 del secondo; 227 sono le occor-
renze di sostantivi relativi al concetto di “dolore” contro le 159 di “gioia”. Il
campo del “dolore” registra diverse nuove introduzioni: i sostantivi fardel,
gensic, lanha, maltraire, mescap, raixe, sofertador; l‟aggettivo sofren; i verbi ado-
lar, adurar, lanhar, naugar.
Si potrebbe azzardare una ripartizione dei lemmi per relazioni semanti-
che, rammentando che alcuni lemmi hanno una frequenza talmente bassa che
si può, per ora, solo ipotizzarne l‟uso. Il quadro può servire come momento
sperimentale da confrontare in seguito con altri autori. Nel campo “gioia”
potremmo individuare come iperonimi joi e plazer. Iponimi di plazer sono
desduch, agrat, deport, abelimen. Desduch e deport sono sinonimi riguardo all‟ac-
cezione di “divertimento”27, a cui si aggiunge agrat nel canzoniere giraldia-
no28. Abelimen sembra essere sinonimo per quanto riguarda la gioia e il pia-
cere che derivano in generale dalla composizione della canzone29. Plazer,
inoltre, sembra essere sinonimo di sabor nell‟accezione di “piacere, godi-
mento”. Sinonimi di joi sono gaug, gai e joia, iponimi jauzida, jauzimen. Il
lemma più usato in Giraut, dopo joi (86), è gai (20), parola rima sinonimo di
joi nell‟accezione di “sentiments de joie”, mentre gaug ha il significato di “joie
en général”30. La joia ha invece tre occorrenze e sembra essere il sentimento

27 Registrata nel PD e nel Rayn, come fatto presente da CROPP 1975: 324.
28 Sh. 71, 2, 36: Qui no ·s sab retener / Si l‟agrat ni ·l plaiszer. Il termine agrat non è pre-
sente in Cropp.
29 Sh. 11, 2, 21: Mas chant per abelimen. Anche tale termine non è presente in Cropp.
30 CROPP 1975: 337-338. Sh. 3, 1, 8: Los gaugs e ·ls bes c‟auri‟adoncx […].
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 449

realizzato31, come jauzimen (12) e jauzida (1). Gli antonimi sono rappresen-
tati da dol e dolor (varianti lessematiche), con sinonimi enoi, pena, pezansa e ira
nell‟accezione di dolore provato; per l‟accezione di dolore come peso fisico
e metaforico abbiamo: fais, fardel, pezar; la sofferenza è rappresentata da
maltrach, maltraire, gensic, lanha e raixe; il dolore manifesto da plan e reclam. Il
tormento è stato considerato equipollente con il pensiero doloroso che
provoca inquietudine ed è stato classificato sotto “cura–affanno”.
Amor è sdoppiato tra entità astratta (58) e personificazione (46). Tale scis-
sione è rilevante perché conferma che non si tratta solo di poesie d‟amore, ma
anche di riflessione sull‟amore cui partecipa come controvoce la stessa personi-
ficazione. L‟appellativo del poeta-amante più frequente è amic, termine a forte
connotazione feudale, legato com‟è al patto di amicizia tra signore e vassallo.
Nella lirica cortese amic diventa l‟innamorato favorito della dama, sottomesso a
lei in quanto di rango inferiore e a lei legato da amicizia e affetto. In questa
accezione amic ha 27 occorrenze, le restanti intendono il rapporto di amicizia
tra uomini. Quando ha il senso di “innamorato” è spesso accompagnato da
epiteti caratteristici della fin‟amor, quali fin (5 volte in solidarietà semantica con
amic), verai (2), car, ioios, ferm, umil, coral. La caratteristica di sentimento
reciproco è condivisa da amador (25), spesso accompagnato dall‟aggettivo fin.
La differenza con amic consiste nell‟essere più generico, un innamorato che si
affaccia al rapporto, ancora tutto da idealizzare, perché non condiviso32. Nella
scala di avvicinamento alla donna, il termine drut (18) sembra occupare un gra-
dino superiore rispetto ad amic e amador: è l‟appellativo di chi ha già ottenuto
qualche favore dalla donna amata. Si trova infatti alcune volte al passato (drutz
ai estat una sazo)33, nei componimenti in cui Giraut ricorda gli avvenimenti
della sua storia d‟amore fino al distacco. Segue aman (16) che rappresenta un
modo distaccato da parte del poeta di percepire gli altri innamorati; ha
l‟accezione piuttosto generica di “colui che ama”, pertanto spesso il suo senso è
determinato da un aggettivo34. Dalla classificazione noemica i termini sem-
brano essere quasi sinonimi per il rinvio a classi differenti: la classe “fiducia-
sfiducia” per i sostantivi amic, amiga, amistat, e quella “desiderio” per i sostantivi

31 Sh. 42, 4, 54: Qe m‟a joia renduda; Sh. 32, 9, 58: No vuelh mai joya qiquir; Sh. 46, 5, 91:
Joias e demoraill.
32 Ad es. nella canzone Ges de sobrevoler no ·m tuoill (242,37) ai vv. 21-22, -c‟anc non vi fin

amador / Ab poder que d‟amar se lais; nella canzone 22 Nuilla res (242,53) ai vv. 17-18: Car si
s‟encontro d‟un voler / Dui fin ami e d‟un talan.
33 242,80 Un sonet fatz malvatz e bo v. 25.
34 Per es. in Sj ·m plagues tant chans (242,71) vv.31-32: Qui demand‟a mans / Dels cobes

amans.
450 Eugenia Mascherpa

aman, amador, amairitz, amansa, amor. Tra gli appellativi femminili il più fre-
quente è domna (44), segue amiga con 17 occorrenze, di cui 8 sono appellativi,
mentre nei restanti esempi rappresenta il legame sentimentale tra la donna e
l‟amante-poeta, confermato in sette dalla presenza del pronome possessivo che
ne evidenzia l‟appartenenza all‟amante; l‟impiego sottolinea reciprocità e vici-
nanza tra due persone, circostanze relazionali che fanno osare epiteti quali mala
e fellona quando il poeta si sente tradito dalla volubilità della donna. Meno
frequenti sono midons e druda. Cropp (1975: 42) nota come Giraut riabiliti in
un certo senso questo termine, che prima era piuttosto generico, e lo introdu-
ca nella lirica cortese con il significato di “donna amata dal poeta” di contro al
marcato “amante, maîtresse”.
Sempre in tema di sentimenti si registra una rilevante presenza di lemmi
indicanti l‟eccesso in amore (7), di cui cinque hapax: sobrardimen, sobretalan,
sobrevoler, tresvoler e tropvoler35. Il campo dei sentimenti esagerati mette in
scena con superba espressività la nullità degli estremi, rimarcando come me-
ritevole la ricerca costante dell‟equilibrio, già vista nella coppia sen / folia.
Forse non è un caso che tra gli utensili citati da Giraut ci sia la bilancia rap-
presentata da balans (4) e balansa (2); il primo termine ha in sé anche il nu-
cleo semico di “slancio, impeto” e come tale trova posto anche sotto la classe
di “entusiasmo”.
Per ogni lessema è stata redatta una scheda con le seguenti informazioni:
il codice numerico, il nome della classe noemica, il lemma, la traduzione
italiana36, l‟etimo con l‟indicazione della lingua di origine, il riferimento al
FEW, la selezione di uno o più contesti di Giraut e, infine, il rinvio all‟edi-
zione di riferimento.
2.2.7.2.1.0.0.0/ Gioia – piacere
abelimen „gradimento‟ [lat. BELLUS (1, 320a)]
mas chant per abellimen GrBorn 242,48 2 21 4
agradatge loc. agg. „piacevole‟ [lat. GRATUS (4, 249b)]
qe rics faigz d‟ agradage GrBorn 242,52 4 38 5
agrat „gradimento‟ [lat. GRATUS (4, 249b)]

35 Oltre ai sostantivi, si ricordano – come nuovi lemmi introdotti dal nostro autore – gli

aggettivi sobrenamorat, sobramoros, sobrejauzen, sobreplazen e l‟antinomo sobrecochos; i verbi


avolpilhar e sobrenardir. Ancora l‟eccesso è presente come superamento della misura nel cam-
po della “convenienza” con aggettivi come sobresenhoril, malestan, eslaisat, dezafrenat e sobre-
desmezurat; il sostantivo domnejamen; i verbi sobredemandar, sobrefaire, sobregabar.
36 La traduzione tiene conto del significato fondamentale del lessema presente nel canzo-

niere di GrBorn.
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 451

si l‟ agrat ni ·l plaiszer GrBorn 242,30 2 36 3


alegransa „allegria‟ [lat. ALACER (24, 287b)]
pois alegrans‟ i fayll, GrBorn 242,47 4 63 2
alegratge „gioia‟ [lat. ALACER (24, 287b)]
soffrir en paz! Deus m‟ en don alegrage! GrBorn 242,35 3 18 8
alegrier „allegria‟ [lat. ALACER (24, 287b)]
senz alegrer e senz amor, GrBorn 242,19 2 19 2
desduch „piacere‟ [lat. DUCERE (3, 170b)]
que totz lo deportz e ·l desdutz GrBorn 242,12 2 13 7
esjauzidor „sostenitore‟ [lat. GAUDERE (4, 75b)]
e de mos bes esiauzire, GrBorn 242,36 4 47 5
gai „gioia‟ [got. *GAHEIS (16, 6b)]
can aondava iais, GrBorn 242,20 3 36 3
gaug „gioia‟ [lat. GAUDIUM (4, 80b)]
cortesi‟ ab gaug venguda, GrBorn 242,79 8 73 3
jauzida „godimento‟ [lat. GAUDERE (4, 75b)]
qe ·m ditz que gauzida GrBorn 242,2 1 7 5
jauzidor „gaudente‟ [lat. GAUDERE (4, 75b)]
si de liei non sui iauszire, GrBorn 242,18a 5 37 6
jauzimen „gioia‟ [lat. GAUDERE (4, 75b)]
don m‟ en ven iois e iauzimenz. GrBorn 242,12 3 24 7
joi „gioia‟ [lat. GAUDIUM (4, 80b)]
ben ti sera tot iois doblatz, GrBorn 242,3 4 40 5
de ioi faire! GrBorn 242,12 3 30 2
joia „gioia‟ [lat. GAUDIUM (4, 80b)]
qe m‟ a ioia renduda GrBorn 242,31 4 54 4
plazer „piacere‟ [lat. PLACERE (9, 1a)]
del venir, son plazer GrBorn 242,74 5 67 4
sojorn „piacere‟ [ lat. *SUBDIURNARE (12, 328a)]
bel dos companh, tan soy en ric soiorn GrBorn 242,64 7 31 8
→ 2.3.7.0.0.0.0.0/ L‟abitazione, la casa
2.2.7.2.2.0.0.0/ Felicità-Sfortuna
aür „auspicio; destino‟ [lat. AUGURIUM (25, 887b)]
Sobre-Totz, mas tan bon agur GrBorn 242,53 7 81 6
→ a 2.4.9.2.2.0.0.0/ Il soprannaturale nelle credenze popolari, la superstizione
aventura „fortuna; destino‟ [lat. *ADVENTURA (24, 196b)]
quals aventura ·m mena trist: GrBorn 242,44 3 23 2
car m‟ aventura no ·m retrai GrBorn 242,65 1 4 3
→ 2.4.9.2.2.0.0.0/ Il soprannaturale nelle credenze popolari, la superstizione
benanansa „felicità‟ [lat. *AMBITARE (24, 400a)]
re que porta benanansa GrBorn 242,18a 2 17 4
benestansa „felicità; perfezione‟ [lat. STARE (12, 237a)]
m‟ alarc ma benestansa, GrBorn 242,53 4 46 4
honor e benestanza. GrBorn 242,56 6 63 3
demor „felicità‟ [lat. DEMORARI (3, 38a)]
452 Eugenia Mascherpa

ara, non o tornz en demor! - GrBorn 242,3 5 60 6


2.2.7.2.3.0.0.0/ Dolore - tristezza
afan „fatica; dolore‟ [ lat. *AFANNARE (24, 240a)]
qui l‟ afan GrBorn 242,72 4 40 3
e ·m tol l‟ afan bona fes e vertatz. GrBorn 242,20 8 95 5
e non temi‟ afan ni fais, GrBorn 242,73 5 70 4
→ 2.2.8.2.6.5.2.0/ La realizzazione
dol „dolore‟ [ lat. DOLUS (3, 121a)]
qe, si Iois mor, gran dol en ai GrBorn 242,19 1 6 6
dolor „dolore‟ [ lat. DOLOR (3, 119b)]
segnier, tan senti la dolor GrBorn 242,3 4 42 5
enoi „dolore; comportamento spiacevole‟ [ lat. INODIARE (4, 701b)]
qu‟ enueigz es granz GrBorn 242,47 5 76 2
pos eu null enuei no ·il fatz? GrBorn 242,48 1 7 4
→ 2.2.9.2.0.0.0.0/ L‟ordine morale; i caratteri
fais „fardello‟ [ lat. FASCIS (3, 428a)]
so sobrier fais GrBorn 242,36 5 73 3
fardel „fardello‟ [ ar. FARDA (19, 43b)]
seigner, d‟avol fardel GrBorn 242,46 4 46 4
gensic „afflizione‟ [etimo incerto]
ans l‟ en creis ir‟ e gensics GrBorn 242,72 2 15 7
ira „dolore‟ [lat. IRA (4, 811b)]
mos Bels Seinher, l‟ ir‟ e l‟ esmais GrBorn 242,1 4 40 5
per ira. - GrBorn 242,16 2 29 2
languor „malinconia‟ [lat. LANGUOR (5, 163a)]
com cill que ·m fai viur‟ a langor, GrBorn 242,8 6 46 8
lanha „afflizione‟ [lat. LANIARE (5, 164b)]
n‟ agra ia trebaill ni laigna. GrBorn 242,70 4 40 6
mal „male; dolore; svantaggio‟ [ lat. MALUS (6/1, 123b)]
ergueills e mals; que si ·s gardes GrBorn 242,1 7 71 3
cui n‟ er mal a traire. GrBorn 242,18 2 18 4
e puois del mal no ·m fui l‟ afams GrBorn 242,58 5 45 4
→ 2.2.8.2.6.5.4.0/ Il risultato e 2.2.7.7.0.0.0.0/ Sentimenti morali
maltrach„maltrattamento; sofferenza‟ [ lat. TRAHERE (13/2, 177a)]
ben son maneinz del maltrag qe ·m donaz! GrBorn 242,35 3 17 5
maltraire „sofferenza‟ [lat. TRAHERE (13/2, 177a)]
d‟ esqivar maltraire. GrBorn 242,16 3 54 3
marrimen „tristezza‟ [germ. *MARRJAN (16, 534b)]
ir‟ e ioi e marrimen, GrBorn 242,18 4 31 5
mescap „disgrazia; danno‟ [lat. CAPUT (2/1, 334a)]
e per pauc de mescap trasvai GrBorn 242,78 3 44 5
anz es lo mescaps granz GrBorn 242,62 4 54 4
pena „pena‟ [lat. POENA (9, 114a)]
no ·m grei la pen‟ e ·l fais GrBorn 242,20 1 11 5
pezansa „dolore‟ [ lat. PENSARE (8, 189b)]
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 453

d‟esser trencatz o d‟ aver greu pesansa; GrBorn 242,52a 6 44 8


pezar „peso‟ [lat. PENSARE (8, 189b)]
als pros, mas tot l‟ er pezars GrBorn 242,23 2 23 7
planh „lamento‟ [lat. PLANGERE (9, 15b)]
los mals q‟ eu trac ni ·l plains nils gems GrBorn 242,25 5 38 8
raixe „sofferenza‟ [ got. *RASKI (16, 668b)]
que per malpas ni per raixe, GrBorn 242,10 2 10 6
reclam „lamento‟ [lat. RECLAMARE (10, 152a)]
ha! con fon petitz lo reclams, GrBorn 242,58 6 56 6
sofertador37 „colui che soffre pazientemente‟ [ lat. SUFFERRE (12, 399a)]
pero suffertaire GrBorn 242,16 6 110 2
sofridor „colui che soffre pazientemente‟ [ lat. SUFFERRE (12, 399a)]
qe totztemps bos suffrire venz. - GrBorn 242,3 3 34 4
2.2.7.2.5.0.0.0/ Cura. Affanno
consirier„preoccupazione‟ [lat. CONSIDERARE (2/2, 1067a)]
per so car del cossirier GrBorn 242,11 4 24 5
cura „riguardo; cura‟ [lat. CURA (2/2, 1557b)]
Dieus no pren qual que cura, GrBorn 242,30 5 94 6
non pensa ni ·s dona cura GrBorn 242,41 3 26 6
destric „pena‟ [lat. TRICARE (13/2, 258a)]
que destrics ni mals ni dans! GrBorn 242,59 2 15 2
encombrier „tormento, pericolo‟ [gall. COMBOROS (2/1, 938a)]
en cui ·m comensset l‟ encombriers. GrBorn 242,65 2 16 6
de mains emcombriers c‟ ai passatz, GrBorn 242,25 4 31 3
e cui creis aitals encombriers, GrBorn 242,27 2 16 5
→ 2.2.8.2.6.5.2.0/ La realizzazione
esfre „turbamento; timore‟ [lat. EXFRIDARE (3, 293a)]
anc nuills effretz no ·m fo valens ni cars GrBorn 242,17 4 25 3
sorg‟ als Mors esfretz, GrBorn 242,18 2 16 4
esmai „turbamento; preoccupazione; dolore‟ [lat. EXMAGARE
(15/2,92b)]
mos Bels Seinher, l‟ ir‟ e l‟ esmais GrBorn 242,1 4 40 8
ab que ·m partis d‟ un folh esmaj GrBorn 242,63 1 7 8
qe m‟ esseigna q‟ en son esmai GrBorn 242,29 2 14 7
malanansa „tormento; cattivo comportamento‟ [lat. *AMBITARE
(24, 400a)]
plus ha de vos malanansa. GrBorn 242,18a 3 22 5
de la malanansa de lai, GrBorn 242,78 4 57
→ 2.2.9.2.0.0.0.0/ L‟ordine morale; i caratteri

37 Il termine sofertador indica le qualità del poeta-amante, soffrire pazientemente in attesa

della gioia: Pero suffertaire / Pren enanz repaire / Qe glotz manassaire, / Cridan / Cals colps faria de
son bran (Sh. 29, 6, 110-114). Sembrerebbe che Giraut ami il momento dell‟attesa più che
della realizzazione vera e propria, immagine che è presente anche negli esordi primaverili
quando descrive la fine dell‟inverno.
454 Eugenia Mascherpa

pantais „angoscia‟ [gr. PHANTASIOUN (8, 361b)]


mas cil que ·m te en greu pantais GrBorn 242,8 2 15 8
pensador „pensieroso‟ [lat. PENSARE (8, 189b)]
az oras gais e az oras pensaire. GrBorn 242,69a 2 20 7
ponha „cura‟ [lat. PUGNARE (9, 513b)]
voill metre poinna, qe de mainz GrBorn 242,33 1 3 3
repaus „riposo‟ [lat. REPAUSARE (10, 263a)]
qu‟ a l‟ arma don repaus e patz, GrBorn 242,56 8 80 6
sonh „cura‟ [germ. *SUNNI (17, 272a)]
qui ·l pretz no ·i garda ni ·l sojn; GrBorn 242,10 5 38 9
tormen „tormento‟ [lat. TORMENTUM (13/2, 44a)]
li bon be e ·l mal turmen GrBorn 242,41 5 59 7
trebalh „tormento; lavoro‟ [lat. *TRIPALIARE (13/2, 287b)]
des que trebaillz ni messios GrBorn 242,1 6 58 3
e costas e trebayll, GrBorn 242,47 3 45 4
→ 2.2.8.2.6.5.2.0/ La realizzazione
trebalha „tormento‟ [lat. *TRIPALIARE (13/2, 287b)]
q‟ en tal trebailha fos liuratz! GrBorn 242,25 7 56 4

1.4. Conclusioni

Il lavoro sulla ricchezza lessicale ci ha permesso di delineare la specificità


del nostro autore: le parole introdotte da Giraut nella tradizione lirica dei
trovatori ed esclusive del suo canzoniere in rapporto agli autori precedenti e
contemporanei; i luoghi dell‟innovazione; le strutture concettuali in cui
maggiore è la tecnica della variatio. Rispetto a studi esistenti, quali quello di
Marc Vuijlsteke (1981), si è riusciti ad eliminare alcuni problemi, per esem-
pio la ridondanza dei dati38. Partire dai lemmi ha significato calcolare la fre-
quenza di ogni singola occorrenza con conseguente riduzione del rumore per
il confronto del vocabolario del nostro autore con quelli di autori compresi
in periodi cronologici precedenti o contemporanei.
La maggior parte dei lessemi nuovi interessano i rimanti: 346 i lemmi in
posizione di rima. Il gioco delle forme porta ad un‟alta concentrazione dei
lessemi nuovi in singoli componimenti, come nel caso della canso-sirventes Los
apleiz che conta tre lessemi nuovi in posizione di rima: esperonalh, guisalh,
refrenalh. Il tono formalistico della composizione, già ampiamente analizzato

38 VUIJLSTEKE (1981), utilizzando la base dati di Akehurst sulle liriche trovatoriche, ha

argomentato la ricchezza lessicale del vocabolario di Raimbaut d‟Aurenga confrontandolo con


i vocabolari di autori precedenti e contemporanei. Vuijlsteke ha lavorato sulle unità grafiche
differenti, senza tenere conto della loro frequenza e dei loro eventuali raggruppamenti sotto
una sola forma di citazione.
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 455

nella tradizione degli studi sulla lirica dei trovatori, è forse l‟aspetto più
caratteristico di Giraut: basti pensare che, su 80 componimenti, 57 sono
classificati come unici nel repertorio di Frank. La materia è sempre la stessa,
le idee sono identiche, ma i significanti cambiano: l‟individualità di Giraut
scatta nelle creazione delle forme, nel disattendere l‟orizzonte d‟attesa della
rima-senso con l‟introduzione di nuovi lemmi nella tradizione lirica.
Nell‟ambito delle strutture concettuali del canzoniere giraldiano, il cam-
po più ricco e interessato da innovazione è quello dei sentimenti. L‟ordina-
mento dei lemmi evidenzia i segni della continuità e della discontinuità con
la tradizione lirica. Certo il confronto con altre classificazioni noemiche di
differenti autori avrebbe consentito di uscire dalla potenzialità dei risultati
per attestarsi sulla rilevanza.
Tale varietà di motivi e lemmi è indice di uno sforzo di variazione del
registro linguistico all‟interno del canzoniere, e, a volte, all‟interno di uno
stesso componimento39. Il modo serrato di enunciare il proprio pensiero fa sì
che il poeta prediliga le frasi brevi e l‟accostamento straniante con oggetti e
idee del vivere quotidiano, preferenze che rendono ancora più difficile l‟in-
terpretazione della sua poesia per noi moderni40.
La pazienza del poeta nella pulitura del suo componimento, nel selezio-
nare e accostare le parole, è paragonabile alla pazienza dell‟amic nei confronti
della donna amata. L‟amore è ricerca incessante di perfezionamento attra-
verso la disciplina del desiderio così come la poesia è ricerca di effetti e di
immagini attraverso un travaglio tecnico che conduce al canto perfetto.
I temi sembrano essere argomenti occasionali per dar vita al gioco della
composizione, nella scelta delle parole rare e nella creazione di nuove,
nell‟incisività del periodo, nella raffigurazione pittorica di alcune metafore
(una per tutte l‟amore che piove dolcemente nel cuore); si tratta di scelte
consapevoli, mirate a destare l‟attenzione del pubblico, chiamato a
partecipare all‟evento secondo il gioco delle parti. Dunque Giraut, come
Bernart de Ventadorn, è il primo e il più ragguardevole poeta di corte che
produce versi avendo ben in mente il patrono e il suo pubblico.

39 SALVERDA DE GRAVE 1978: 46-47: «[Giraut] recherchait une certaine négligence élégante
et évitait un enchaînement trop rigide de la pensée»; e p. 57: «[la construction de la phrase] fait
preuve d‟une certaine tendance, de la part du poète, à la rapprocher de la langue parlée».
40 SALVERDA DE GRAVE 1938. L‟impressione è quella di una grande libertà nell‟uso della lin-

gua, sia nei paragoni improvvisi e concisi (Prec mon coragg‟ e l‟amas /Vas un‟amor e l‟asejn. / Si tot lo
m‟avi‟ espars / Per mantas contradas lojn), sia in parole cariche e piene di significati, per le quali il
traduttore è sempre obbligato a cercare degli equivalenti più precisi (semblam, plach, afar, gen, ric,
franc, prezan).
456 Eugenia Mascherpa

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SPARTACO PUPO
Forme di cosmologia ‘politica’ nel Novecento

Alexander: per la natura democratica e meritocratica

Verso la fine del 1909, in Inghilterra, su The Hibbert Journal apparve un


saggio dal titolo insolito e apparentemente avulso dal dibattito filosofico bri-
tannico del tempo: Ptolemaic and Copernican Views of the Place of Mind in the
Universe. L’autore, Samuel Alexander, filosofo di origine australiana e docen-
te all’università di Manchester, dichiarava apertamente, e per molti critici di
orientamento neoidealista anche velleitariamente, di voler mettere in atto
una nuova «rivoluzione copernicana» in filosofia dando un’ambientazione
filosofica al progetto di naturalizzazione della mente, che era stato avviato da
Copernico, nell’astronomia, e continuato da Darwin, nella biologia, e da
Freud, nella psicologia.
La mente umana, in quasi tutta la metafisica moderna, era diventata, per
Alexander, il «centro dell’universo», grazie alle forme assolutizzanti di idea-
lismo che in Inghilterra si incarnavano nelle opere di Bradley, Green e Bo-
sanquet, e che avevano costruito un’immagine della mente come fonte crea-
trice di tutte le cose, a cui si assoggettava anche la versione più moderata se-
condo cui la mente fornisce, kantianamente, «l’unità, l’ordine del mondo
delle cose conoscibili, che significa essere l’origine di quelle nozioni fonda-
mentali di permanenza, esistenza sostanziale e causalità da cui dipendono la
fabbrica e la vita delle cose»1.
La visione alexanderiana della mente, mirabilmente descritta in questo
saggio, non è quella di un ente che, idealisticamente, «contiene il suo mate-
riale di rivelazione», ma che, in senso copernicano, abita un universo di esi-
stenze eguali e che per nessuna ragione può arrogarsi il diritto di porsi come
«arbitro del resto». La visione geocentrica del mondo esaltava l’onnipotenza
dell’uomo e dei suoi valori supremi nella metafisica, e prima dell’avvento del
criticismo kantiano in filosofia era scontato considerare le cose come il cen-
tro dell’universo conoscibile e la mente come una sorta di satellite. Un il-
lustre copernicano come Kant invertì questa tendenza, inaugurando un me-
todo d’indagine per cui la conoscenza e la realtà empirica nella loro totalità

1 S. ALEXANDER, “Ptolemaic and Copernican Views of the Place of Mind in the Uni-

verse”, The Hibbert Journal VIII, Oct. 1909, p. 48.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 461-486 461


462 Spartaco Pupo

dipendono dall’unità dell’autocoscienza e da alcuni principi o forme di senso


o di comprensione che sono sue caratteristiche e con cui essa regge e coor-
dina i materiali di senso forniti dalla mente. Alexander non è per nulla con-
vinto della portata innovativa del pensiero kantiano, per il semplice fatto che
proprio a Kant si sono ispirati i piani teorici di tutti coloro che, ad iniziare
dagli idealisti, hanno dopo di lui preteso di assegnare alle cose un carattere
eminentemente «spirituale», e per tale non trascurabile motivo egli consi-
dera non più rinviabile una chiara e inequivocabile riformulazione del pro-
gramma rivoluzionario del copernicanesimo metafisico.
Fortemente affascinato dal messaggio darwinista che nel frattempo aveva
radicalmente innovato la biologia e influenzato le filosofie naturalistiche di
fine Ottocento-inizio Novecento, Alexander relega la Terra, metafora della
mente umana, al posto che un pianeta occupa in una «democrazia» di pia-
neti. Come la terra, nella nuova teoria dei cieli, si trovò ad essere uno dei
corpi celesti tra tanti altri, così nella metafisica copernicana la mente è come
una cosa tra le altre, o meglio, per dirla in termini alexanderiani, «una pro-
prietà distintiva di un certo gruppo di cose fisiche»2. E la conseguenza più
naturale della giusta assegnazione alla mente del posto che le è proprio nel
mondo degli oggetti fisici, non al centro delle cose ma accanto ad esse, è
che, in filosofia
l’umiliazione delle pretese dell’uomo a livello di ciò che egli veramente è lo la-
scia con la garanzia della sua affinità e, allo stesso tempo, della sua fiducia ri-
spetto a questa catena di cose che hanno un valore, che egli chiama Dio, e verso
cui egli stesso è un apportatore di valore3.

La filosofia realista alexanderiana, in linea, in quanto al programma episte-


mologico, con il realismo critico degli inglesi Moore e Russell e degli ameri-
cani Lovejoy, Sellars e Santayana, ma del tutto autonoma nella prospettiva
della costruzione di una metafisica come «la più empirica delle scienze», per-
segue tenacemente l’obiettivo di ridurre la mente al suo stato di esistente fi-
nito, reale e uguale a tutte le altre esistenze, dalle piante agli animali e alle
pietre. Una filosofia della «democrazia delle cose» si prefigge lo scopo di col-
locare la mente dell’uomo al posto che merita tra le cose finite, assegnandole
la giusta misura di auto-esistenza, e di «spogliare» le cose fisiche dalle colora-
zioni che hanno ricevuto dalla vanità della mente.
Quello appena postulato da Alexander, si badi bene, non è un egualita-

2 Ivi, p. 54.
3 Ivi, p. 66.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 463

rismo epistemologico piatto, livellante, si potrebbe dire, materialistico, in


quanto non esclude il momento meritocratico, che rimane insito nell’idea
democratica di una società a salvaguardia della libertà individuale. Non a caso
in Space, Time and Deity, l’opera maggiore del 1920, egli sostiene che la spo-
liazione degli oggetti delle qualità imputate dalla mente non deve compren-
dere anche il valore, la «grandezza» e l’autorità della mente stessa, poiché è
proprio nel lasciare i loro diritti alle cose che la mente entra in possesso dei
propri, come accade in una realtà autenticamente democratica in cui tutti gli
uomini sono uguali ma, teoreticamente parlando e tralasciando le limitazioni
del costume o della tradizione o dell’economia, ogni uomo è libero di ele-
varsi al più alto dei suoi poteri originari. Una cosmologia democratica, in de-
finitiva, «detronizza» la mente, sottraendole quella sovranità che l’idealismo
assoluto le aveva sommessamente assegnato e tributandole, allo stesso tem-
po, l’onore di rappresentare la «chiave» del mondo che conosce. L’uomo
contemporaneo, in altri termini, deve guardarsi bene dall’affermare che il
mondo dipende dalla sua mente e deve ricordare che egli vive in un universo
pluralistico, costituito da una ricchissima varietà di esperienze, e che la sua
mente non è altro che un finito con determinate caratteristiche in una «de-
mocrazia di finiti». Nelle pagine iniziali di Space, Time and Deity Alexander si
esprime molto chiaramente:
Le menti sono gli individui più dotati che noi conosciamo in una democrazia
delle cose. In considerazione dell’essere o della realtà, tutte le esistenze si posi-
zionano ugualmente. Esse variano per eminenza, come in una democrazia, dove
il talento ha un campo aperto davanti a sé e dove il più dotato prevale per in-
fluenza e autorità. Questa attitudine della mente stabilita dal metodo empirico è,
e può essere giustamente chiamata, in filosofia, l’attitudine del realismo4.
Il principio democratico diventa, nell’ottica di Alexander, il vero discrimine
tra il principio del metodo idealista e quello del metodo realista. L’ideali-
smo, infatti, concepisce la mente come «misura delle cose nonché punto di
partenza dell’indagine», mentre il realismo tende a posizionare «ugualmente
tutte le esistenze» in una democrazia delle cose in cui la mente «non occupa
un posto privilegiato, tranne che per la sua perfezione»5.
Divenire consapevole dell’immensa ricchezza del mondo naturale e inchi-
narsi alla sua unicità e al suo mistero con grande umiltà. È questa l’esorta-
zione che ci giunge da Alexander, il cui pensiero rivela tutta la sua originalità

4 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, London, Macmillan, 1920, rist. in The Collected

Works of Samuel Alexander, Bristol, Thoemmes Press, 2000, voll. 2-3, I, p. 6.


5 Ivi, p. 8.
464 Spartaco Pupo

in chiave anti-dualista. La concezione democratica della mente è infatti una


prova difficilmente confutabile dell’inutilità del paradigma dualistico tradi-
zionale. Nessuna dicotomia esiste tra mente e natura, le quali, al contrario,
formano un’unità inscindibile. Scrive infatti Alexander:
Se la realtà è qualcos’altro da ciò che ci appare attraverso tutte le vie di senso, le
idee, l’immaginazione, la memoria, la concezione, il giudizio, essa non ci attrae6.

L’esigenza di ricondurre ad unità ciò che Descartes aveva separato fa di que-


sto filosofo un antesignano di questioni che riguardano da vicino i nostri tem-
pi. Da più parti e prospettive, in filosofia come nelle scienze, si avverte il bi-
sogno di riaprire la questione che Descartes riteneva di avere definitivamen-
te chiuso con la sua celebre distinzione tra res cogitans e res extensa, e tornano
di attualità problemi ai quali si credeva fosse stata data ampia soluzione, quali
la natura della mente, la separazione tra fatti di natura mentale e fatti di tipo
fisico, il rapporto tra spirito e corpo. La soluzione cartesiana del mind-body
problem viene ritenuta inattuale, se non altro perché è del tutto superata la
necessità di trovare un ambito specifico, indipendente ed autonomo per la
scienza della natura, che all’epoca del filosofo francese rappresentava invece
il punto di partenza per la costruzione di un sistema filosofico o per l’avvio di
una scoperta scientifica.
Attraverso la collocazione della mente all’interno di una democrazia di
finiti, Alexander conduce ad unità la varietà della natura, di cui l’uomo, il
suo corpo e la sua mente, sono dei componenti, importanti ma pur sempre
dei componenti con uguale diritto di cittadinanza delle altre esistenze finite
che compongono la multiforme realtà naturale.
Della visione democratica del rapporto mente-oggetti risente la gnoseo-
logia alexanderiana, il cui elemento cruciale è rappresentato dalla nozione di
compresenza (compresence), che rinvia alla prima e più semplice relazione tra gli
esistenti finiti, e quindi anche tra il soggetto conoscente e l’oggetto cono-
sciuto. In una conferenza tenuta nel gennaio del 1914 alla British Academy di
Londra, che ha per titolo The Basis of Realism, Alexander invita ogni singolo
membro del suo colto uditorio a provare a immedesimarsi nel fare l’espe-
rienza di un comune oggetto finito dell’esperienza:
Senti te stesso nella situazione totale e capirai che questa è la compresenza di due
cose, di cui l’una, l’atto mentale, fruisce se stessa e, nell’atto di fruire se stessa,
contempla l’altra. Accorgersi di una cosa è come essere pescato nella rete comu-

6 Ivi, II, p. 252.


Forme di cosmologia politica nel Novecento 465

ne dell’universo, è come essere un’esistenza accanto ad altre esistenze […] Ma è


questa peculiarità della mente, la quale si fruisce e non si contempla, che ci na-
sconde, se non ci guardiamo attentamente dai pregiudizi, il fatto sperimentato
che un mondo comune ci unisce, gli uni agli altri, con le cose contemplate7.

L’esperienza testimonia che in ogni relazione di conoscenza la mente e il suo


oggetto sono esistenze sì separate ma «tenute insieme dalla relazione di com-
presenza, dove compresenza indica «non la coesistenza nello stesso momento
temporale, ma il fatto di appartenere ad un unico mondo sperimentato»8. La
situazione di compresenza non è unicamente limitata alla relazione mente-
oggetto ma si estende anche alle relazioni tra gli oggetti. Non è data, infatti,
alcuna differenza tra la compresenza dell’uomo con un oggetto fisico e la
compresenza di un oggetto fisico con un altro:
La nostra compresenza – è scritto ancora in The Basis of Realism – con le cose fisi-
che, in virtù della quale noi siamo coscienti di esse, è una situazione simile alla
compresenza di una cosa fisica con un’altra. Capire che la mia coscienza di un
oggetto fisico è solo un particolare della coscienza universale dei finiti è, nei fatti,
il modo migliore di comprendere9.

In Space, Time and Deity Alexander articola più dettagliatamente le sue argo-
mentazioni concentrandosi direttamente sulla distinzione tra mentale e non
mentale. L’atto mentale è simile alla reazione di un essere vivente agli stimo-
li dell’ambiente: gli oggetti della mente sono le cose e non le loro rappresen-
tazioni. La reazione mentale all’oggetto è prova non dell’identità ma dell’in-
siemezza (togetherness) di due esistenze: il mentale e il non mentale. L’atto
mentale è fruito (enjoyed) mentre l’oggetto è contemplato (contemplated). Le
fruizioni, che sembrano rimandare alle «idee di riflessione» di Locke, non sono
separate dalle contemplazioni perché il soggetto si fruisce solo contemplan-
do l’oggetto. La coscienza fruisce immediatamente di sé e l’«io», soggetto
empirico, è tale perché si fruisce. Un oggetto viene ad essere contemplato
dalla mente quando essa è compresente con un altro finito. La compresenza,
che è «la più semplice ed universale delle relazioni», si articola pertanto in
due elementi distinti: l’atto mentale, e quindi la coscienza, da una parte, e
l’oggetto di cui essa è consapevole, dall’altra. Ne deriva che la conoscenza è
resa possibile in due diversi modi: la «contemplazione», che è la conoscenza
che la mente ha degli oggetti ad essa compresenti, e la «fruizione», che è la

7 S. ALEXANDER, “The Basis of Realism”, Proceedings of the British Academy, 28 Jan. 1914, p. 6.
8 Ivi, p. 5.
9 Ivi, pp. 6-7.
466 Spartaco Pupo

conoscenza che la mente ha di se stessa, dei suoi propri atti10. La contem-


plazione dell’oggetto deve intendersi con come percezione totale degli esi-
stenti compresenti ma come conazione (conation) del mondo dei finiti in base
ai bisogni comportamentali11.
Se nella percezione l’oggetto eccita i sensi con il risultato di una reazione
volitiva nei confronti dell’oggetto (ciò che i pragmatisti americani chiamano
«risposta esecutiva») la conazione è avviata in parte dallo stimolo ed in parte
dalla previsione mentale della risposta (che nel linguaggio pragmatista cor-
risponde alla «risposta anticipatoria»). Entrambe le reazioni, tuttavia, sono
due fasi dell’atto totale. Alexander ricorre a due esempi chiarificatori. Il pri-
mo è basato sulla relazione mentale con una mela:
Noi non percepiamo prima la mela come una cosa rotonda dalle guance rosse e
come qualcosa di commestibile, ma siamo coscienti del suo essere commestibile
nell’atto e dall’atto in cui cerchiamo di mangiarla12.

Il secondo esempio è tratto dal cricket, popolarissimo sport inglese:


Nell’atto mentale che mira a tenere le nostre mani in modo da prendere la palla
da cricket che sta venendo verso di noi in una certa direzione, noi siamo co-
scienti della direzione che sta seguendo nel mentre sta arrivando verso di noi;
noi non comprendiamo prima la sua direzione e poi compiamo la nostra azione
nei suoi confronti; essa ci obbliga ad agire in un certo modo e successivamente
ne diveniamo consapevoli13.

La teoria alexanderiana della conoscenza, appena esposta nei suoi caratteri


essenziali, si inserisce senz’altro nel solco della tradizione empirista inglese,
quella che va da Hume a Locke fino a Stuart Mill. La spoliazione alexanderia-
na degli esistenti finiti, come metodo di conoscenza, può essere infatti inqua-
drata nella generale tendenza dell’empirismo tradizionale di risolvere i com-
plessi della realtà nei loro dati semplici ed elementari. L’epistemologia alexan-
deriana, d’altro canto, appare in linea con la tendenza empirista di negare alla

10 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., I, p. 12.


11 Nell’atto comportamentale – puntualizza Alexander – tra percezione e conazione esi-
ste solo una distinzione di tipo funzionale. Il termine conazione deve essere riservato a certi
atti mentali come il desiderio e la volontà, anche se, «in un senso più esteso, ogni atto men-
tale è una conazione e nient’altro, ad eccezione di una possibile aggiunta di sentimento».
12 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., II, p. 119.
13 Ibid. Per l’approfondimento di questi temi riguardanti la gnoseologia alexanderiana mi

permetto di rinviare al mio “La conoscenza come compresenza di finiti nel realismo di Samuel
Alexander”, Segni e Comprensione 19 (2005) 56, pp. 86-93.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 467

mente sia l’indipendenza dalla realtà che la capacità di creazione degli oggetti
reali, ma si contrappone alle tendenze soggettivistiche e coscienzialistiche che
da sempre hanno caratterizzato il filone di pensiero empirista.
Sull’esempio dell’iniziatore del neorealismo inglese G.E. Moore, Alexan-
der sostiene l’assoluta oggettività dei dati che provengono dall’esperienza.
Per Moore, il dato sensibile non era un’entità mentale di tipo soggettivo
(quale poteva essere, ad esempio l’idea berkeleyana) ma era l’oggetto della
percezione, cioè qualcosa che si presenta alla coscienza dall’esterno, che è
dato alla coscienza. A questa linea interpretativa realistica Alexander aggiun-
ge una novità che rende originale il suo pensiero rispetto non solo a quello di
Moore ma anche ai filoni dello scetticismo e dell’agnosticismo che con Hu-
me e Spencer avevano caratterizzato una certa fase dell’empirismo: in con-
trasto con l’empirismo tradizionale, il filosofo realista tende a ridurre l’im-
portanza della conoscenza come mero fatto dell’esperienza, accentuando
quello che è il contenuto della conoscenza. Per questo egli va alla ricerca di
«dati primordiali» in cui possano trovare motivo d’esistenza ogni fatto (psi-
cologico o fisico) dell’esperienza.
Alexander prende le distanze dalla separazione kantiana tra le forme cate-
goriali dell’intelletto e quelle dell’intuizione, e considera le categorie sempli-
cemente come «caratteri categoriali», insiemi oggettivi di relazioni che de-
terminano ogni ente finito. Le qualità sono «caratteri empirici» di cui si nota
la presenza grazie all’esperienza sensoriale e che, in quanto tali, sono pre-
senti in un oggetto una volta e non un’altra. Così come si è in grado di con-
cepire l’«estensione» del colore, allo stesso modo è possibile, grazie alla
«spoliazione delle qualità»14, considerare le cose nel loro carattere più ele-
mentare e pervenire al residuo delle loro qualità più semplici: il «puro
spazio-tempo», la stoffa (stuff) primordiale delle cose15. Rifiutando tanto la
concezione newtoniana quanto quella leibniziana, Alexander vede lo spazio e il
tempo come «interdipendenti» (se non lo fossero, il tempo si ridurrebbe al-

14 Liberare una cosa di ogni sua qualità, dice Alexander, è come voltare all’indietro le
pagine della sua storia, fino a giungere alla prima pagina, che rappresenta lo stadio più sem-
plice dell’esistenza, il livello del puro spazio-tempo. La spoliazione, a ben vedere, ha molto in
comune con l’analisi fenomenologica di Husserl. Anche in Alexander, infatti, l’oggetto su-
bisce una sorta di «devoluzione» che termina nel puro spazio-tempo.
15 Il termine stoffa è quello che Alexander predilige maggiormente, preferendolo spesso a
matrice (matrix) o a medium infinito, per indicare il «materiale», e non la «sostanza» delle
cose. In Space, Time and Deity è contenuta la motivazione di questa scelta: «In verità, lo spazio-
tempo infinito non è la sostanza delle cose ma è la stoffa delle sostanze. Così come un rotolo
di tessuto è la stoffa di cui sono fatte le giacche, ma non è in se stesso una giacca, così spazio-
tempo è la stoffa di cui tutte le cose, come sostanze o sotto ogni altra categoria, sono fatte»
(op. cit., I, p. 341).
468 Spartaco Pupo

l’istante, e nello spazio un punto non sarebbe diverso da un altro) e gli ele-
menti ultimi del reale come punti-istanti che si succedono in un continuum che
si estende infinitamente in avanti e all’indietro lungo le «linee dell’universo».
La metafisica di Alexander è una sintesi straordinaria di kantismo, neohe-
gelismo, neorealismo, empirismo, bergsonismo, psicologia sperimentale,
evoluzionismo e teoria della relatività16. Ma il suo più costante riferimento è
Spinoza. Al correligionario olandese egli dedica un saggio dal titolo emble-
matico Spinoza and Time (1921), il cui tema principale è lo spazio-tempo co-
me infinito di cui gli oggetti empirici e il contrasto vitale sono «modi». Il
tempo, rispetto allo spazio, ha la stessa superiorità che, nell’uomo, ha la
mente rispetto al corpo. Lo spazio è, per analogia, «il corpo del tempo» e il
tempo, corrispondente al «pensiero» spinoziano, è «la mente dello spazio».
Dal momento che la mente è una «forma di tempo», ogni qualità empirica
emerge dal tempo, che nel sistema alexanderiano si eleva a principio di in-
quietudine perenne, vero creatore delle cose, principio costante di caducità.
Il tempo è, in effetti, il vero agente della «cosmogenesi». Dallo spazio-tempo
elementare, nel corso della storia universale, grazie all’azione del tempo,
vengono ad esistenza sempre nuovi complessi di movimento dotati di sem-
pre nuove qualità, e vengono a crearsi diversi livelli di esistenza, in ognuno
dei quali si forma una precisa collocazione di movimenti che appartiene
specificatamente a quel dato livello costituendone la qualità appropriata. Il
processo per cui dal vecchio scaturisce il nuovo senza che il vecchio si perda
ma permanga in esso è da Alexander definito emergenza e viene così descritto:
I nuovi ordini di finiti vengono ad esistenza nel tempo; il mondo si sviluppa dal-
la sua prima ed elementare condizione di spazio-tempo, che non possiede alcu-
na qualità ad eccezione di ciò che siamo d’accordo a chiamare la qualità spazio-
temporale del movimento. Ma nel momento in cui, nel corso del tempo, una
nuova complessità di movimenti viene ad esistenza, emerge una nuova qualità

16 Sul sistema metafisico alexanderiano è concentrata gran parte della non vastissima
letteratura critica europea. A parte la mia monografia Samuel Alexander: naturalismo e democra-
zia delle cose, Cosenza, Brenner, 2003, e il libro di P. DEVAUX, Le Système d’Alexander: exposé
critique d’une théorie néo-réealiste du changement, Paris, Vrin, 1929, i maggiori studi su Alexan-
der sono stati pubblicati tutti negli Stati Uniti: M.R. KONVITZ, On the Nature of Value. The
Philosophy of Samuel Alexander, New York, King’s Crown Press, 1946; J.W. MCCARTHY, The
Naturalism of Samuel Alexander, New York, King’s Crown Press, 1948; A.P. STIERNOTTE, God
and Space-Time in the Philosophy of Samuel Alexander, New York, Philosophical Library, 1954;
B.D. BRETTSCHNEIDER, The Philosophy of Samuel Alexander. Idealism in “Space, Time and Deity”,
New York, Humanities Press, 1964; M.A. WEINSTEIN, Unity and Variety in the Philosophy of
Samuel Alexander, West Lafayette, Purdue University Press, 1984.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 469

che è un nuovo complesso che possiede, come materia di fatto empirico osser-
vato, una nuova o emergente qualità17.

Ai critici che gli obiettavano di non avere fornito alcuna spiegazione delle
cause che determinano l’emergenza dei nuovi livelli d’esistenza dai vecchi18,
Alexander ribatte attraverso il culto della fede naturale (natural piety), che
riprende dal poeta inglese Wordsworth e che esprime l’atteggiamento del-
l’investigatore-filosofo che accetta, con lealtà, «i misteri della natura che non
può spiegare e non trova alcuna ragione di spiegare». La natural piety è l’abi-
tudine di «conoscere quando si smette di porre domande sulla natura», di
«descrivere» piuttosto che di «argomentare»19. Nei riguardi della natura, se-
condo Alexander, bisogna usare riverenza e prudenza nei giudizi, evitando
complicate impalcature interpretative, molto spesso fallimentari, e predizio-
ni sul futuro, in gran parte inutili, come quelle del determinista Laplace e del
suo calcolatore. Le qualità emergenti devono essere accettate con fede natu-
rale a causa della grande limitatezza del potere di predizione dei livelli più
alti, che, avverte Alexander, non possono essere conosciuti neanche un at-
timo prima della loro emergenza nel tempo: un essere che ha conosciuto la
vita non è in grado di predire l’emergenza della mente.
A dimostrazione della credibilità della tesi antimeccanicistica di Alexan-
der basta sottolineare l’accoglimento che ne farà, qualche tempo dopo, un
autorevole studioso come C.D. Broad, che dimostrerà come, anche dal pun-
to di vista fisico-chimico, sia impossibile predire le proprietà degli esistenti
emergenti attraverso la conoscenza delle proprietà dei loro costituenti (il le-
game chimico tra idrogeno e ossigeno, e molte proprietà dell’acqua, restano,
nell’esempio di Broad, imprevedibili)20. Ma vale la pena ricordare l’equipa-
rabile posizione di H. Bergson, che più o meno nello stesso periodo denuncia
i limiti della mente calcolante tesa ad assumere il tempo come irreale o l’uni-
verso come completo. Se, nelle parole di Bergson, «tout est donné» (tutto è
dato), noi stiamo avanzando nel tempo seguendo modelli meccanici di un’e-
sistenza già determinata, che preclude ogni possibile emergenza futura. Il che

17 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., II, p. 45.


18 I critici più severi della teoria alexanderiana furono W.P. MONTAGNE, autore di The
Ways of Things (New York, 1940) e G.F. STOUT, che pubblicò su Mind la recensione di Space,
Time and Deity dal titolo “Professor Alexander’s Theory of Sense Perception”,Oct. 1922.
19 S. ALEXANDER, “Natural Piety”, in Philosophical and Literay Pieces, ed. J. Laird, London,
Macmillan, 1939; rist. in The Collected Works of Samuel Alexander, Bristol, Thoemmes Press,
2000, vol. 5, p. 209. Wordsworth, in un frammento che inizia con «My heart leaps up» parla
di natural piety per riferirsi alla gioiosa reverenza nei riguardi della natura, cui egli desiderava
legare l’uno all’altro tutti i giorni della sua vita.
20 C.D. BROAD, The Mind and its Place in Nature, London, Routledge & Kegan Paul, 1925, p. 64.
470 Spartaco Pupo

è inaccettabile per un emergentista come Alexander e lo è forse di più per un


vitalista come Bergson21.
Tutto lo sviluppo dell’universo diventa così oggetto della teoria alexan-
deriana dell’evoluzione emergente: ogni qualità che, come materia propria,
ha quella del livello di esistenza inferiore, è «emergente da esso» ed è «nuova
ed esprimibile senza residuo». Dalla prima qualità, che è il movimento, sin-
tesi di spazio-tempo, emerge la materia, «configurazione di atomi e mole-
cole», con le sue qualità primarie (inerzia, massa, ecc.) e, a un livello supe-
riore, le qualità secondarie (colore, temperatura, ecc.), «determinazioni og-
gettive» e non, come voleva Locke, puramente soggettive. Successivamente
emergono la vita, qualità scaturita da un «complesso di processi fisico-chi-
mici», e la mente, «continuum sostanziale di processi che hanno la qualità del-
la coscienza»22. Una volta emersa la mente, il «nisus del mondo» (o «fatica
universale») tende irreversibilmente verso una qualità prossima alla mente:
la deità, ossia «l’essere divino di Dio» che emergerà dalla mente come la
mente è emersa dal corpo23, e che sarà una qualità empirica, al pari di quella

21 Altro autorevole esponente dell’emergentismo britannico fu C. Lloyd Morgan, che in


Emergent Evolution (1923) sosteneva che nel corso dell’evoluzione naturale compaiono feno-
meni nuovi e irripetibili, ciascuno dei quali necessita di tutti quelli del livello evolutivo pre-
cedente ma non coincide con la loro somma. Vale la pena sottolineare che a favore dell’emer-
gentismo britannico, che ha visto come iniziatore proprio Alexander, si sono espressi, nel
corso di tutto il Novecento, autori del calibro di K.R. Popper, che ha definito quella di emer-
genza come un’idea «molto semplice» e riferibile alla imprevedibilità degli eventi, che «sono
nuovi più o meno nel senso in cui può definirsi nuova una grande opera d’arte» (K.R. POP-
PER, J.C. ECCLES, L’io e il suo cervello. Materia, coscienza e cultura, Roma, Armando, 1992, I, p.
35), di J. MARGOLIS, che definisce la persona umana, essere incarnato nel corpo ma ontologi-
camente situato su un piano diverso da quello materiale e ad esso irriducibile, come un «ente
emergente culturale», e affida all’emergenza il significato di un «principio in grado di fondare
un’interpretazione materialistico-unitaria ma non riduzionistico-molecolare del mondo»
(Persons and Minds, Dordrecht, Reidel, 1978, p. 7), e anche dell’epistemologo francese E.
MORIN, che stabilendo uno stretto legame tra la nozione di emergenza e quella di totalità, af-
ferma che il nuovo emerge dalle interrelazioni tra le parti può essere considerato come aspet-
to caratteristico dell’unità globale e della «natura polisistemica» e conclude che le qualità
emergenti «salgono le une sulle altre, la testa delle une diviene i piedi delle altre, e i sistemi
di sistemi di sistemi sono emergenze di emergenze di emergenze» (Il metodo. Ordine, disordine,
organizzazione, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 142). Un filosofo della mente come J. KIM, in-
fine, ha recentemente scritto che l’emergentismo, a dif-ferenza di molte altre correnti di pen-
siero, può dirci cose più plausibili sul rapporto mente-corpo, spiegandoci «la storia positiva su
come le proprietà mentali e le proprietà fisiche sono in relazione» (La mente e il mondo fisico,
Milano, McGraw-Hill, 2000, p. 6).
22 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., II, p. 81.
23 Ivi, p. 346.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 471

che è già emersa come tale per i livelli d’esistenza inferiori. Ad ogni livello
d’esistenza, infatti, si dà una deità: per gli esistenti che possedevano solo le
qualità primarie, la deità si presentò come materia; per noi esistenti umani,
dotati di mente, essa è qualcosa di ignoto, poiché «gli altari umani sono an-
cora innalzati al Dio sconosciuto», anche se «siamo speculativamente certi
che l’universo è in procinto di partorirla»24.
Ciò che più colpisce del sistema di Alexander è il messaggio di unità che
trasmette e che investe tutti i campi di indagine, delineandosi come il filo
conduttore che unisce tutte le sue formulazioni. Lo sforzo di costruire l’ar-
monia laddove insiste il conflittuale, l’apparentemente contrapposto, l’in-
compatibile, è il vero motivo trainante della produzione speculativa alexan-
deriana, sia in chiave epistemologica che metafisica. Testimonianza di una fi-
losofia dell’unità armonica del reale è il suo tentativo di condurre ad unità la
varietà della natura, di superare, in ambito etico, mediante la chiarificazione
dei concetti di «ordine» e «progresso», le profonde diversità di vedute tra
idealismo e darwinismo. E sotto l’egida dell’unità si presentano la dottrina
dello spazio-tempo, che concilia due concetti da sempre concepiti separata-
mente, quelli dello spazio e del tempo tradizionalmente intesi, alla teoria
della conoscenza, che colloca il soggetto non al di sopra ma a fianco, com-
presente all’oggetto e ad ogni esistenza reale, alla concezione della mente,
come ente finito che, democraticamente, abita nel mondo, da cui non è più
indipendente, fino alla concezione della deità, che vuole essere sintesi armo-
nica di due dottrine, teismo e panteismo, da secoli agli antipodi.
Tutto l’impianto teorico di Alexander è il frutto di una veduta unitaria
dell’universale e di una continua e costante ricerca di equilibrio. I furori della
prima guerra mondiale, le ripercussioni devastanti sul piano sociale, etico,
economico e politico non hanno lasciato indifferente questo filosofo. I rimedi e
le possibili soluzioni da apportare, sotto il profilo culturale, per la costruzione
di un futuro diverso da ciò che quell’immane conflitto aveva lasciato, hanno
ispirato la stesura di un’opera imponente e dal valore indiscusso, qual è Space,
Time and Deity, pubblicata nel 1920, quindi a ridosso della profonda alterazione
del quadro valoriale dell’umanità, che andava al più presto rivisto e rinnovato.
Alexander, filosofo della riconciliazione, non si è tirato indietro. Ha riflettuto
seriamente sulla possibilità di una concreta affermazione dell’idea di equilibrio
universale, di una democrazia meritocratica regolatrice del cosmo, un’idea su
cui è riuscito a costruire un sistema filosofico ordinato e coerente.

24 Ivi, p. 347.
472 Spartaco Pupo

Whitehead: la filosofia “organica” dell’autoaffermazione

Alfred North Whitehead conobbe Samuel Alexander alla Aristotelian So-


ciety di Londra, la prestigiosa società filosofica dove si creavano stretti legami
tra i filosofi più influenti d’Inghilterra e di cui Alexander fu presidente per
tre mandati consecutivi.
L’ammirazione di Whitehead verso la figura e l’opera di Alexander si
mantenne sempre così profonda che volle lasciarne il segno in molte citazioni
delle sue opere più importanti. In The Concept of Nature (1920), ad esempio,
la prima opera filosoficamente impegnata, Whitehead scrive che nel volere
«porre le basi di una filosofia della natura» per rendere possibile una «rior-
ganizzazione della fisica speculativa» è stato preceduto dall’interpretazione
unitaria dello spazio e del tempo da parte del «professor Alexander»25; in
Science and the Modern World (1925) continua a dirsi «particolarmente ricono-
scente alla grande opera di Alexander»26.
Con la stessa onestà intellettuale tipica di questo filosofo, va però
aggiunto che alcune illuminazioni alexanderiane, molto spesso esplicitate in
formule analogiche, intrise di venature quasi poetiche e limitate da un
semplice intuito metafisico, trovano nel pensiero di Whitehead una rigorosa
giustificazione logica, attitudine, questa che certamente gli viene dalla sua
formazione matematica (oltre che per essere stato professore di matematica
all’università di Londra, viene infatti ricordato soprattutto per essere stato
l’ideatore e l’estensore, insieme a B. Russell, dei Principia Matematica, 1910-
1913, opera simbolo della cosiddetta «logistica»). Non a caso C.D. Broad,
nella sua recensione a Space, Time and Deity, rilevava che l’impresa di Alexan-
der sarebbe stata molto più agevole se avesse adottato il metodo whitehea-
diano dell’astrazione estensiva, che permette di considerare gli eventi fisici
per via analitica senza per questo perdere di vista la loro convergenza in un
insieme astratto di relazioni estese, e di individuare utili unità di analisi co-

25 A.N. WHITEHEAD, Il concetto della natura, Torino, Einaudi, 1975, p. IX.


26 ID., La scienza e il mondo moderno, Torino, Boringhieri, 1979, p. 16. Tra gli altri filosofi
che hanno avuto una certa ascendenza sulla sua concezione filosofica, Whitehead cita, nell’or-
dine, Platone, Aristotele, Descartes, Hume e Kant ma soprattutto Locke, considerato come
principale precursore delle «posizioni principali della filosofia dell’organismo». Per l’analisi
del rapporto tra Whitehead e altri filosofi, si vedano: E. PACI, “Whitehead e Russell”, in Dal-
l’esistenzialismo al relazionismo, Messina-Firenze, D’Anna, 1957; G. BALLARD, “Kant and Whi-
tehead, and the Philosophy of Mathematics”, in Studies in Whitehead’s Philosophy, L’Aja, Tulane
University, 1961; A.H. JOHNSON, Whitehead’s Theory of Reality, New York, Dover, 1962;
D.W. SHERBURNE, A Key to Whitehead’s Process and Reality, New York, Macmillan, 1966; V.
LOWE, Understanding Whitehead, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1966.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 473

smologica27. A parte questo rilievo, che viene da un autorevole contempo-


raneo di entrambi gli autori, va comunque sottolineato che l’influenza di
Alexander su Whitehead è facilmente percepibile in quello che gli studiosi
concordano nell’individuare, con riguardo all’evoluzione filosofica di White-
head, come il «periodo metafisico», corrispondente agli anni di Harvard, dove
nel 1924 venne chiamato a ricoprire la cattedra di filosofia e dove trovò gli sti-
moli per la stesura di Science and the Modern World e Process and Reality (1929). È
questo il periodo in cui Whitehead avverte il bisogno di una metafisica che pos-
sa fungere da sintesi tra mente e natura, spirito e corpo, valore e fatto28.
Quella di Whitehead si presenta subito, sin dalle prime opere, come una
«filosofia organica», come egli stesso ama definirla, che parte dal seguente
presupposto fondamentale: ogni nozione o principio della realtà devono
essere considerati nel loro stato di correlatività reciproca, in una generalità
che trascende ogni contenuto oggettivo. Qualsivoglia proposizione o fatto o
evento o entità deve presupporre un particolare universo di riferimento e un
riaccomodamento totale dell’intero universo. Intorno ad ogni singola entità
attuale occorre costruire un mondo di relazioni e interrelazioni organiche
poiché la natura va pensata non nel particolare o nell’individuale ma in modo
omogeneo, globale, senza il ricorso al dualismo tradizionale. E accanto a una
nuova visione della natura va costruita una nuova concezione della scienza.
La cosmologia whiteheadiana del processo rigetta tutte le premesse della
cosmologia materialistica, quali, ad esempio, i concetti di «spazio assoluto» e
«tempo assoluto», e questo facilita la comprensione della affermazione di
Whitehead secondo la quale la separazione tra filosofia e scienza naturale,
dovuta al predominio del materialismo newtoniano, «è indicata dalla divi-

27 C.D. BROAD, “Prof. Alexander’s Gifford Lectures”, Mind 30 (1921) 1, p. 30.


28 V. LOWE, biografo e curatore delle opere di Whitehead, sostiene che l’incoraggia-
mento alla trattazione di temi metafisici sia venuto dalla «produzione di un grande sistema
metafisico ad opera di Samuel Alexander» in un’epoca, quella immediatamente a ridosso della
tragedia nazionale e internazionale della guerra, in cui il tentativo di costruire una teoria
generale dell’esistenza era considerato fuori moda (“The Development of Whitehead Phi-
losophy”, in The Philosophy of Alfred North Whitehead, La Salle (Ill.), Open Court, 1991, pp. 89
sgg.). Sulla filosofia del processo e la cosmologia whiteheadiani, cf. C. SINI, Whitehead e la fun-
zione della filosofia, Padova, Marsilio, 1965; P.A. ROVATTI, La dialettica del processo. Saggio su
Whitehead, Milano, Il Saggiatore, 1969; A. DEREGIBUS, Ragione e Natura nella filosofia di White-
head, Milano, Marzorati, 1972; A. BONFANTINI, Introduzione a Whitehead, Roma-Bari, Laterza,
1972; G. RICONDA, La metafisica dell’esperienza di A.N. Whitehead, Torino, Giappichelli, 1975,
e, dello stesso autore, “Whitehead: l’ipotesi metafisica”, Filosofia 27 (1976) 3, pp. 395-452;
F. BRADFORD WALLACK, The Epochal Nature of Process in Whitehead’s Metaphisics, State Univer-
sity of New York, Albany, 1980.
474 Spartaco Pupo

sione della scienza in “scienza morale” e “scienza naturale”», che ha come di-
retta conseguenza l’idea che il sapere filosofico ha a che fare con «argomenti
riguardanti la mente» mentre la scienza naturale si interessa di «argomenti
riguardanti la materia». Ed è da questa divisione di ambiti che, secondo Whi-
tehead, è derivato, come è scritto in The Function of Reason (1929), «l’antago-
nismo» tra filosofia e scienza naturale, un antagonismo che «ha prodotto
disastrose limitazioni di pensiero da entrambi i lati. La filosofia ha cessato di
esigere la generalità che le è propria, e la scienza naturale si è accontentata
del ristretto cerchio dei suoi metodi»29.
Una delle maggiori prerogative di Whitehead è proprio quella di inver-
tire questa tendenza. In Science and the Modern World (1925), che è una rico-
struzione critica della storia della scienza nel mondo moderno e dei diversi
modelli che essa ha proposto alla riflessione dei filosofi, egli sostiene che per
una visione più comprensiva della realtà è necessario sostituire il modello
organicistico delle scienze biologiche al modello meccanicistico e oggettivi-
stico che le scienze fisiche hanno proposto alla riflessione filosofica fino a
tutto l’Ottocento. La scienza non può più essere solo fisica ma deve iniziare
ad essere insieme fisica e biologica, deve diventare lo studio degli organismi.
Scrive infatti:
La biologia è lo studio degli organismi più grandi, mentre la fisica è lo studio
degli organismi più piccoli30.

Solo una filosofia organica che tenga conto della nuova concezione della
scienza è in grado di conoscere a fondo l’universo, questo eterno processo
creativo. In The Concept of Nature (1920) Whitehead, dopo aver distinto un li-
vello percettivo (o sensoriale) che ha a che fare con gli eventi, da un livello
concettuale che «costruisce» oggetti sottraendoli al flusso naturale incessante
e unitario, descrive la natura come l’ambito della percezione sensibile che ci
restituisce la visione di un mondo che non è semplicemente pensiero ma che
è estraneo al pensiero. Ciò, nell’ottica del filosofo inglese, non implica un
dualismo tra pensiero e natura ma significa solamente che è possibile pensare
la natura in modo «omogeneo», come quel «sistema chiuso» che è oggetto di
indagine della scienza della natura. E ciò non implica, avverte Whitehead, il
pensiero del pensiero. Se si pensa alla natura con riferimento al pensiero al-
lora si è di fronte a una natura pensata in modo eterogeneo e perciò estraneo
alla scienza della natura. Nella percezione sensoriale, il perceptum è un non-

29 A.N. WHITEHEAD, La funzione della ragione, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 67.
30 A.N. WHITEHEAD, La scienza e il mondo moderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1979, p. 127.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 475

pensiero, ossia è un entità che per il pensiero è al di là del fatto della stessa
percezione sensoriale; è semplicemente il termine della sensazione. Alla base
del realismo whiteheadiano, pertanto, c’è la concezione secondo la quale
tutti gli oggetti, siano essi della percezione o del pensiero, sono entità che,
nell’atto stesso di essere percepiti o pensati, restano indipendenti dalla per-
cezione o dal pensiero stessi. In altre parole: si può pensare la natura in mo-
do omogeneo senza, nello stesso tempo, «pensare il pensiero».
Proiettate nella polemica con la filosofia tradizionale e i suoi «errori di con-
certazione» come le «biforcazioni» di sostanza e qualità, soggetto e predicato,
soggetto e oggetto, le nozioni cardine della gnoseologia whiteheadiana sono
sostanzialmente due: le «entità reali», la «prensione» e il «nexus». Le entità rea-
li (dette anche «occasioni reali» o più semplicemente «eventi») differiscono tra
loro per funzione relazionale e grado di importanza, sono i fatti ultimi del rea-
le, le prime categorie dell’esistenza al di là delle quali non esiste altra cosa più
reale, e tutte, da Dio all’ultima cosa del mondo, sono «atti finali», «ugualmen-
te reali», «gocce di esperienza complesse ed interdipendenti»31. Queste entità
reali, divisibili, attraverso l’analisi, in un infinito numero di modi, sono centri
individuali e dinamici di energia che costituiscono il divenire totale dell’univer-
so. La realtà è, infatti, un continuo processo, e ciascuna entità reale è un modo
del processo di «sentire» il mondo, è insieme soggetto e supersoggetto (subject-
superject), immediatezza soggettiva, intrinseca unità emergente nel divenire del
mondo32. Il processo per cui l’entità reale si imbatte nei dati resi utilizzabili da
altre entità reali e vi interagisce creativamente acquistando la sua individualità è
quello che Whitehead chiama «concrescenza»33.
Attraverso la concrescenza naturale ogni singola entità reale «prende» in
se stessa tutte le entità passate e, a sua volta, è presa da tutte quelle future.
Ogni evento è, quindi, un atto concrescente in un rapporto di «prensione»

31 A.N. WHITEHEAD, Processo e realtà. Un saggio sulla cosmologia, Milano, Bompiani, 1965, p. 70.
32 Whitehead afferma che le entità reali (o eventi) sono interdipendenti e hanno sia un
polo fisico che un polo mentale. Con questa posizione egli prende decisamente le distanze da
Leibniz, il quale, sostenendo che le sostanze materiali, considerate nello spazio, non possono
che agire nello spazio, riduceva tutto alla sostanza mentale con la conseguente necessità di
ricorrere a Dio per spiegare la relazione tra il fisico e il mentale. A tale riguardo, cf. E. PACI,
Relazioni e significati, Milano, Lampugnani Nigri, 1965, I, pp. 40-60, e, dello stesso autore,
“Sul primo periodo della filosofia di Whitehead”, Rivista di Filosofia 44 (1953) 4, pp. 397-415.
33 In Adventures of Ideas (1933) Whitehead specifica la derivazione latina del termine con-

crescenza, che si avvicina molto alla compresenza di Alexander, e che vuol dire «crescere insieme»:
la concrescenza è pertanto un crescere insieme dei diversi aspetti dell’esperienza (A.N.
WHITEHEAD, Avventure di idee, Milano, Bompiani, 1961, p. 301).
476 Spartaco Pupo

(o di intenzionalità) verso l’intero mondo circostante. In Process and Reality


Whitehead scrive:
Una prensione riproduce in se stessa le caratteristiche generali di una entità rea-
le: si riferisce a un mondo esterno, e in questo senso si dirà che ha “carattere vet-
toriale”, include emozione e scopo, valutazione e causazione34.
La prensione, che può essere conscia o inconscia, è un «sentimento» o «atto
emozionale» (feeling) attribuibile a tutte le entità reali, anteriore ad ogni dua-
lismo di conoscente e conosciuto. È un immediato «qui e ora» del processo
temporale. Da un «evento temporale», inteso come unità globale tanto in se-
de scientifica quanto in quella etica ed estetica, non è possibile, per White-
head, ricavare il soggetto, poiché il sentimento approda al soggetto-super-
soggetto, che è il suo compimento e, nel contempo, la soddisfazione finale
del sentimento stesso. Il feeling ci dà il senso globale della nostra esistenza. La
conoscenza è un «fattore» dell’esperienza e non è tutta l’esperienza. White-
head rigetta l’idea di una «conoscenza pura» poiché, trovando il suo fonda-
mento nell’esperienza emozionale, la conoscenza è costituita dalla perce-
zione sensoriale e dalla comprensione in termini di pensiero e di linguaggio.
Quando percepiamo, noi non percepiamo solo i dati dell’esperienza, ma
percepiamo anche il nostro corpo, che ci consente di percepire, e il mondo
in cui esso si muove35. Una volta divenuto supersoggetto, il soggetto non è
più tale, poiché oltrepassa la soggezione di passività insita nella stessa deno-
minazione di «soggetto». La connessione tra le diverse entità attuali è detta
da Whitehead nexus, che è reale, individuale e particolare come ogni entità
attuale e ogni prensione. I fatti ultimi della realtà si riducono pertanto a en-
tità, prensioni e nexus.
Quella che doveva essere una polemica contro gli errori di concretazione
diventa così un’opposizione a Descartes, alla mentalità matematica in gene-
rale, e alle «permanenze» sostanzialistiche del pensiero tradizionale, cui Whi-
tehead contrappone gli «oggetti» intesi come obiettivazioni di determinati
rapporti fra eventi, concepibili indipendentemente dalla concrescenza, fuori
del tempo e perciò eterni. Essi sono eterni non perché hanno una realtà
assoluta ma perché indifferenti al tempo, e per una nitida comprensione di
essi occorre tenere ben presente il significato di ciò che Whitehead chiama
«creatività» (creativity) o «processo creativo». La creatività, per Whitehead, è

ID., Processo e realtà, cit., p. 71.


34
35Su questi temi, in particolare su quello dell’esperienza immediata, cf. N. ABBAGNANO,
“Whitehead e il concetto di ragione”, Revue Internationale de Philosophie 15 (1961), p. 207.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 477

«l’universale degli universali che caratterizza il fatto ultimo». Il processo del


mondo è un «incremento creativo» (creative advance) che tende verso la «no-
vità»36. Scrive in Process and Reality:
Un’occasione reale è un’entità nuova, diversa da ogni entità dei “molti” che essa
unifica. Così la creatività introduce la novità nel contenuto dei molti, che costi-
tuiscono l’universo disgiuntamente.

Il processo creativo, in altri termini, non deve essere inteso come l’azione di
un «agente esterno» poiché «tutte le entità reali condividono con Dio questa
caratteristica di autocausazione»37. La creatività
è sempre priva di un carattere suo proprio, esattamente nello stesso senso in cui
la “materia” aristotelica manca di un carattere suo proprio. È quella nozione
ultima della suprema generalità che sta alla base della realtà. Non può essere ca-
ratterizzata perché tutti i caratteri sono più specifici di essa38.

Alla categoria fondamentale della creatività, Whitehead aggiunge otto cate-


gorie dell’esistenza, ventisette categorie della spiegazione e nove categorie
dell’obbligazione. All’interno del processo degli eventi temporali e mutevoli
si contrappongono gli «oggetti eterni», forme fisse ed immutabili che rap-
presentano il «mondo platonico delle idee»39. Questi oggetti eterni, che in-
dicano le potenzialità dei molteplici eventi, rinviano a una realtà in cui risie-
dono, che è identificata con Dio ma, ciononostante, nel mondo e non in un
altro mondo. In Adventures of Ideas Whitehead parla anche di «Autocreativi-
tà», una «creatività immanente» molto simile al nisus alexanderiano, che ap-
partiene «alla natura delle cose» e non necessariamente all’attività di un
creatore esterno. Nonostante definisca questa creatività immanente col no-
me tradizionale di Dio, egli insiste sul fatto che Dio non può essere consi-
derato a parte dalle creature temporali e a parte dalla stessa creatività.
L’universo, in definitiva, è un continuo processo di concrescenza a cui
partecipano, paritariamente, il fisico e il corporeo, da una parte, e lo spiri-
tuale e il mentale, dall’altra, in una inscindibile unità. Ogni entità attuale,
secondo Whitehead, è una «entità bipolare» poiché l’eredità fisica che la ri-

36 Ivi, p. 74.
37 Ivi, p. 436.
38 Ivi, p. 92.
39 Ivi, p. 125. Che Platone sia un riferimento costante di Whitehead lo testimonia soprat-

tutto una frase, tratta da Process and Reality e divenuta famosa: «La più opportuna caratteriz-
zazione generale della tradizione filosofica europea è l’indicazione che essa consiste di una
serie di note a Platone» (cit., p. 114).
478 Spartaco Pupo

guarda si accompagna sempre a una «reazione concettuale» apportatrice di


«enfasi, valutazione e scopo»; l’unità dell’aspetto fisico e dell’aspetto men-
tale nell’esperienza è l’autocreatività (o autoformazione), che è sempre un
processo di concrescenza, e nonostante la mente sia un’entità non spaziale,
essa è sempre una reazione all’esperienza fisica e spaziale o comunque un’in-
tegrazione di essa.
La complessità concettuale della gnoseologia whiteheadiana, per lo più
accessibile a una ristretta cerchia di specialisti per via di in una terminologia
complicata e uno stile molto denso, si riduce nelle argomentazioni riguar-
danti la natura di Dio contenute nelle pagine finali di Process and Reality,
dove, attraverso una concezione, per così dire, dialettica, Whitehead crea
una connessione tra gli eventi temporali e gli oggetti eterni. Dio è un’entità
reale che differisce, significativamente, da tutte le altre realtà in quanto prin-
cipio cosmologico che ha una duplice natura: «primordiale» e «conseguen-
te». Nella sua natura primordiale, Dio desidera che gli oggetti eterni, che in
lui trovano sussistenza, siano presi come dati dalle altre entità reali. Nella sua
natura conseguente, Dio è la prensione fisica delle attualità utilizzabili. La sua
natura conseguente dipende dalla continua emergenza di nuove entità attuali.
Le entità reali ordinarie nascono e muoiono, e per tale motivo il processo
temporale è un perenne perire. Ma Dio, grazie alla sua natura primordiale,
non è attualità temporale, e non è quindi caratterizzato dal processo. La na-
tura primordiale, in altre parole, è il sistema degli oggetti eterni, mentre
quella conseguente è la realizzazione del mondo attuale nell’unità della sua
natura. La natura primordiale è concettuale, la natura conseguente è il tes-
suto dei feelings fisici di Dio sopra i suoi primordiali concetti.
Nella concezione di Whitehead, quindi, Dio e il mondo sono posti in una
dialettica per la quale da una posizione primordiale in cui Dio era «uno» e il
mondo erano «molti» si passa ad un momento in cui il mondo acquista una
«conseguente unità» e Dio risulta essere una «conseguente molteplicità»40.
Dio, come natura primordiale, è «un impulso verso il futuro basato su un
appetito presente», è termine di ogni appetizione, è tensione «alla realiz-
zazione del dato concettualmente “preso”», è fondamento dell’ordine co-
smico e, in quanto tale, è immutabile. Dio, come natura conseguente, risulta
condizionato dal mondo, nel senso che è conseguente al processo del mon-
do. Per un verso, la pienezza della natura primordiale rende possibile
l’obiettivazione del mondo in Dio, in quanto omnicomprensivo; per un altro
verso, la natura conseguente contiene la proprietà di combinare l’incremen-
40 L. ACTIS PERINETTI, Cosmologia e assiologia in Whitehead, Torino, Filosofia, 1954, p. 38.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 479

to creativo con il «mantenimento dell’immediatezza reciproca»41. Con


parole più semplici Whitehead spiega il tema cruciale della non-trascendenza
di Dio scrivendo:
Dio può essere detto il creatore di ogni entità reale e temporale. Ma l’espres-
sione tende ad essere equivoca a causa del suo suggerimento che la creatività
ultima dell’universo debba essere ascritta alla volizione divina. La vera posizione
metafisica è che Dio è il caso originario di questa creatività, ed è perciò la condi-
zione originale che ne qualifica l’azione.
E poco più avanti aggiunge:
Ma naturalmente la «creatività» non ha alcun significato senza le «creature», né
«Dio» senza la creatività e le «creature temporali», né le creature temporali sen-
za la «creatività» e «Dio»42.
Da queste ultime argomentazioni non è difficile trarre la vena panteistica di
Whitehead, il quale finisce per restituirci l’immagine, anche qui unificante e
non duale, di un mondo che è parte di Dio e di un Dio che è parte del mondo,
di un Dio che concresce con il mondo e di un mondo che concresce con Lui.
Dio si pone come entità finale del processo di concrescenza, come sintesi dei
due aspetti fondamentali del processo, cioè del flusso e della permanenza. Dio
non è separato dal mondo, ma con-vive col mondo, assicurandone la coerenza
delle parti43. In questo senso la cosmologia, che per Whitehead è il fonda-
mento di ogni religione, è la storia dello sforzo dinamico del mondo verso una
unità duratura e della statica visione di Dio che raggiunge il suo completa-
mento nell’assorbimento della molteplicità degli sforzi del mondo.
Non mancano, intorno a questi temi, pagine che si discostano da un piano
puramente filosofico per sconfinare in quello religioso e a volte anche misti-
co. E forse questo è stato uno dei motivi per cui la filosofia analitica, che si è
affermata a partire dagli anni Trenta, ha troppo presto abbandonato i sistemi
metafisici alla Whitehead e alla Alexander. Un fatto, però, resta, ed è il me-
rito che va ascritto a questi autori: la capacità di analizzare le cose del mondo
non nella loro fredda, scostante e insignificante individualità ma nelle loro
armoniche interrelazioni e nei loro aspetti unificanti. Come afferma giusta-
mente C.A. Mace:

41 A.N. WHITEHEAD, Processo e realtà, cit., p. 653.


42 Ivi, p. 441.
43 Sul problema di Dio in Whitehead, cf. A. PARMENTIER, La philosophie de Whitehead et le

problème de Dieu, Paris, Beauchesne, 1968; K.F. THOMPSON, Whitehead’s Philosophy of Religion,
L’Aja, Mouton, 1971; F. COPPOLA, Il significato della religione in A.N. Whitehead, Napoli,
Tempi Moderni Edizioni, 1988.
480 Spartaco Pupo

La filosofia sinottica è ciò che a molti filosofi, da Platone a S. Alexander e A.N.


Whitehead, è apparso come il fine ultimo della mediazione filosofica44.
La cosmologia whiteheadiana, in particolare e in misura forse maggiore ri-
spetto a quella alexanderiana, è un inno all’armonia, che non è semplicemen-
te un simbolo astratto o un’immagine esteriore della «grande avventura co-
smica», ma un concetto filosofico che sta alla base non solo dei valori umani
(bellezza, verità e bene) ma anche, sul piano etico-politico, della libertà e
della pace. Non a caso, in Adventures of Ideas, Whitehead scrive che la grande
armonia cosmica è l’armonia di individualità durature e connesse nell’unità
di un fondamento. E conclude:
È per questa ragione che la nozione di libertà non abbandona mai le civiltà più
alte: la libertà in ognuno dei suoi molti sensi è l’esigenza di una vigorosa
autoaffermazione45.

Teilhard de Chardin e la “superominizzazione” dell’universo


Scienziato, gesuita, mistico e filosofo, Pierre Teilhard de Chardin non è
solo l’esempio massimo e forse unico, nella storia della teologia, di un esal-
tante «monoteismo cosmico», che informa l’intero universo, ma è anche
l’interprete di un «naturalismo religioso» inteso come osservazione del dato
visibile della realtà naturale e percezione di un sensibile che nasconde, e nel-
lo stesso tempo rivela, la divinità.
Teilhard de Chardin, così poco scrutato dagli storici delle idee, è l’instan-
cabile divulgatore di un ideale che da secoli attira le riflessioni di filosofi,
teologi e scienziati: il possibile incontro tra fede e scienza, due mondi distan-
ti, apparentemente irraggiungibili l’uno per l’altro, ma intrinsecamente
uniti. Il centro della loro unione, il Punto Omega, sta, per Teilhard, nell’As-
soluto che permea di sé ogni cosa, materiale e spirituale, alla ricerca del
quale egli stesso ha impegnato una vita intera, sin dalla sua fanciullezza, come
tiene a ricordare:
Se, sin dall’infanzia, e da allora con una pienezza e una convinzione crescenti, ho
sempre amato e scrutato la Natura, posso dire che l’ho fatto non da scienziato ma
da «devoto». In me, forse, ogni tensione, anche se mirante a un oggetto naturale, è

44 C.A. MACE, British Philosophy in the Mid-Century, Oxford, George Allen, 1966, p. 128.

Platone, come è noto, nella Repubblica, adoperava il termine sinossi per indicare il primo proce-
dimento dialettico che consiste nel raccogliere il molteplice in un’unica idea. Lo «sguardo d’in-
sieme» cui si riferiva Platone è davvero la principale caratteristica della filosofia di Whitehead.
45 A.N. WHITEHEAD, Avventure di idee, cit., p. 362.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 481

stata da sempre una tensione religiosa e sostanzialmente unica. Ho coscienza di


avere, sempre e in tutte le cose, cercato di raggiungere un qualche Assoluto. Cre-
do che, per un’altra meta, non avrei avuto il coraggio di agire. Scienza (cioè tutte
le forme dell’attività umana) e Religione sono state sempre ai miei occhi una me-
desima cosa, l’una e l’altra essendo per me la ricerca di uno stesso Oggetto46.
Teilhard de Chardin si discosta decisamente dalle tendenze epistemologiche
dominanti negli anni delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche, preferendo
esaltare valori «fuori moda» come l’evoluzione, la scienza, la natura, che rie-
sce a incardinare nella visione unitaria, armonica e dinamica dell’universo
biologico che prende corpo nelle sue opere più importanti: l’Ambiente Divino
(1926-27), Il Cuore della Materia (1950) e il Fenomeno Umano (1938), dal ca-
rattere pienamente filosofico, in cui espone la sua teoria dell’evoluzione.
Già, l’evoluzione (o deriva, come spesso preferisce chiamarla). Essa si ri-
vela come il principio ermeneutico della filosofia di Teilhard, scoperto quan-
do aveva poco più di vent’anni grazie alla lettura dell’Evoluzione creatrice di
Henri Bergson, l’autore prediletto per via della negazione, riuscita a pochi
altri nella storia del pensiero occidentale, della staticità della natura. Ne Il
Cuore della Materia è scritto:
È [...] facile indovinare la mia impressione interiore di liberazione e di espan-
sione quando, sin dai primi passi ancora esitanti in un Universo «evolutivo», mi
resi conto che il dualismo in cui mi avevano intrattenuto sino allora si scioglieva
come la nebbia al sol levante. Materia e Spirito: non già due cose, ma due stati,
due facce di una stessa Stoffa cosmica, secondo che la si guarda o che la si pro-
lunga, nel senso in cui (avrebbe detto Bergson) essa si fa, oppure nel senso con-
trario in cui si disfa47.
L’evoluzione è sempre stata una questione «viva e bruciante» nell’animo di
Teilhard. In essa scorgeva con chiarezza la legge universale del movimento, il
«progresso entitativo dell’Universo» verso una coscienza più elevata capace
di integrare nella natura organica non solo l’azione morale ma anche i legami
tra gli individui, poiché
la conoscenza che gradualmente acquistiamo delle nostre relazioni fisiche con
tutte le parti dell’Universo costituisce un vero accrescimento delle nostre per-
sonalità. È realmente un’animazione progressiva dell’universalità delle cose in-
torno a ciascuno di noi. E significa che nel campo estraneo alla nostra carne, il
nostro corpo vero e totale continua a formarsi48.

46 P. TEILHARD DE CHARDIN, “Il mio universo”, in La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra
(1916-1919), Milano, Il Saggiatore, 1970, p. 342.
47 ID., Il cuore della materia (1950), Brescia, Queriniana, 1993, p. 51.
48 ID., “Note sur le Progrès” (1921), in G. VIGORELLI, Il gesuita proibito. Vita e opere di P.
482 Spartaco Pupo

Allo straordinario fenomeno dell’evoluzione è assoggettato l’intero univer-


so. Un unico, inarrestabile movimento di crescita coinvolge tutto, sin dalle
più remote tracce di vita sulla terra e fino al graduale perfezionamento degli
esseri viventi, della loro struttura corporea e cerebrale.
L’universo è dinamicamente proteso verso il futuro e la sua è una novità
continua, un incontenibile progredire che investe il mondo vivente e quello
non vivente, nella sua totalità:
Da qualche tempo gli astronomi fanno questione di un Universo in via di espan-
sione dell’Immenso. In maniera altrettanto scientifica, e con un sovrappiù di verità,
perché non parlare di un Universo in corso di avvolgimento nel Complesso? I due
modi di vedere (perfettamente conciliabili fra di loro) sono, sia l’uno che l’altro,
precisamente oggettivi e puri rispetto a qualsiasi finalismo indebito. Ma il
secondo, così sembra, si spinge molto più lungi e più in profondità del primo. Se
infatti l’espansione esplosiva della Materia nello Spazio ci può istruire sulla di-
stribuzione delle galassie e delle stelle, di contro un processo di complessifica-
zione e di centrazione del Tessuto cosmico su se stesso ci consente di seguire e di
registrare, per mezzo della crescente granulazione di questo tessuto, la correla-
tiva ascesa della interiorizzazione, vale a dire dello psichismo, nel Mondo. Ora,
questo spostamento simultaneo nell’Organico e nel Conscio ha buone possibilità
di essere il movimento essenziale e specifico dell’Universo49.
Due sono, dunque, le direzioni in cui evolve l’universo: lo spazio e la comples-
sità biologica. L’evoluzione, tuttavia, non si riduce a realtà di tipo esclusivamen-
te biologico e zoologico perché è di una portata immensa, è un’invasione del
«tutto». Contro la concezione materialistica del darwinismo e del positivi-
smo, Teilhard estende il principio dell’evoluzione alla realtà spirituale senza
però sottoporlo al puro determinismo e al puro materialismo. L’universo o
«verso l’uno» è la storia di un movimento globale del cosmo. Si è mosso una
volta, tutt’intero, non soltanto localiter ma entitative, e si muove ancora. In
fatto di nuovi esseri e nuove forme, pare che con la coscienza (o pensiero),
che è il prodotto ultimo dell’evoluzione, questo movimento cosmico si sia
arrestato. In realtà esso procederà – avverte Teilhard – ma solo se la coscien-
za medesima svilupperà se stessa, giungendo a percepirsi come ente univer-
sale responsabile di un movimento che sarà un tutt’uno con il movimento
autocosciente del pensiero, e non più, come è accaduto miliardi di anni fa,
un tutt’uno con la trasformazione delle forme materiali. L’evoluzione prose-
guirà solo se l’uomo, rendendosi conto del valore biologico dell’azione

Teilhard de Chardin, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 35.


49 P. TEILHARD DE CHARDIN, Le direzioni del futuro, Torino, Sei, 1996, pp. 206-207.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 483

morale e ammettendo la natura organica dei legami interindividuali, accon-


sentirà alla sua responsabilità universale.
Nel Fenomeno umano, la «memoria scientifica» che è più una “iperfisica”
che una «metafisica» (come è sottolineato nell’avvertenza dell’autore), sono
rigorosamente descritte le diverse tappe che la storia biologica dell’universo
ha attraversato.
La prima di queste è la Previta (o Cosmogenesi), comprendente un periodo
lunghissimo che dall’origine dell’universo si è protratto fino alla comparsa
della vita, in cui si formarono gli atomi che, raccogliendosi in enormi quan-
tità, diedero origine alle stelle e, attraverso queste, grazie all’energia prodot-
ta dalle reazioni di fusione atomica, alle molecole che diedero vita ai pianeti,
molecole che da semplici divennero sempre più complesse fino a formare
quelle organiche, da cui derivarono per condensazione le prime forme viventi.
La Vita (o Biogenesi) rappresenta la seconda tappa e comprende il periodo
che dalla comparsa della vita va a quella dell’uomo. Il tema dell’apparizione
della vita affascina molto Teilhard, al punto da spingerlo verso una elabora-
zione di concetti e interpretazioni veramente attuali. Teilhard sostiene ciò
che noi oggi sappiamo con certezza, e cioè che ogni sostanza di cui una cel-
lula è composta avrebbe una sua autonoma esistenza anche a prescindere dal-
l’esistenza della cellula. Ogni sostanza, infatti, esisteva nella Previta e può es-
sere riprodotta per via artificiale anche in laboratorio. Ciò che fa nascere la
vita è l’organizzazione delle sostanze in modo da assumere la capacità di
autoesistere nello scambio con l’esterno. Quella del vivente, al contrario di
quella del non vivente, è un’esistenza aperta, nel senso che l’essere vivente è
in un continuo rapporto con l’esterno. La caratteristica primaria del vivente
sta nella «straordinaria complessità» degli elementi su cui è strutturato e
nella capacità di mantenerli costanti anche al variare dell’ambiente esterno.
Nella cellula, dunque, nella sua complessità, risiede il segreto della vita. In
essa «a un tempo così una, così uniforme e così complicata, è in definitiva la
Stoffa dell’Universo che riappare con tutte le sue caratteristiche»50.
Nella storia biologica del mondo è individuabile una terza tappa, quella
che Teilhard chiama Pensiero (o Noogenesi, indicando col termine «noosfera»
l’insieme di tutti gli esseri intelligenti che popolano il pianeta Terra) e che
arricchisce con valutazioni ed elementi di giudizio che gli provengono dalla

50P. TEILHARD DE CHARDIN, Il Fenomeno Umano, Brescia, Queriniana, 1995, p. 83. A


pro-posito dell’espressione «Stoffa dell’Universo» non si può fare a meno di sottolineare la
sorprendente affinità tra Teilhard e Alexander, anche se non risultano testimonianze circa la
conoscenza, da parte del primo, delle opere del secondo.
484 Spartaco Pupo

sua formazione paleontologica. Si sofferma, infatti, sulla misura della gran-


dezza del cervello dell’uomo, che è andata via via crescendo dall’Australo-
pithecus, che aveva una capacità cerebrale di 500 centimetri cubi, fino
all’Homo sapiens, che può contare su ben 1.500 centimetri cubi di materia
grigia. È proprio questa capacità cerebrale dell’uomo attuale che permette la
nascita del pensiero, la cui caratteristica fondamentale non è la conoscenza
che, anche se in forme diverse, è presente negli altri animali, ma la capacità
dell’autocoscienza, della riflessione, del «sapere di sapere».
Il pensiero autocosciente dà vita alle diverse culture umane, da cui sca-
turisce un’ulteriore processo evolutivo che conduce alla quarta ed ultima
tappa, la Supervita: lo stadio finale raggiunto dalla «unione dei cervelli», che
consisterà in un mondo sempre più integrato. Come le cellule che unendosi
e raggiungendo un certo grado di complessità diedero vita al cervello, così le
persone, organizzate ed integrate, daranno origine ad un mondo sempre più
unito ed omogeneo, al punto di trasformarsi nella pienezza dell’amore di Dio.
Sta in questa unità tra gli uomini, dunque, il futuro del mondo. All’in-
dividuo singolo non resta che favorire questa unità attraverso il dialogo e
l’abbraccio con la natura. Una scelta contro natura dell’individuo non può
avere alcun senso, perché va contro il divenire della storia, che trova il suo
compimento definitivo nell’amore unanimemente condiviso, il Punto Omega,
una «superpersona», un «superamore» che «sintetizza la folla degli altri amo-
ri della Terra». Il Punto Omega è il «focolaio centrale» della vita universale,
il «centro distinto irradiante nel cuore di un sistema di centri», ed è auto-
nomo, irreversibile, attuale. In una parola: è Dio.
Teilhard, come si può notare, pone Dio come apice di attrazione di tutta
la realtà, ed è cosciente di farlo da un punto di vista cristiano, anche se rico-
nosce, e qui vi è una grande apertura intellettuale del teologo di Clermont-
Ferrand, che l’idea di «un vero ego al vertice del mondo», volto a «consu-
mare, senza confonderli, tutti gli ego elementari della Terra», è condivisa
dalla cultura laica («compie pure altrove il suo cammino»), come afferma in
L’avvenire dell’uomo:
Non è forse Camus che ha scritto in Sisyphe che «se l’uomo riconoscesse che
l’Universo è capace di amare, egli sarebbe riconciliato»? E non è forse Wells che
fa esprimere al suo interprete, il biologo umanitario Steele (Anatomy of Frustra-
tion), la nostalgia di trovare, al di sopra e al di là dell’uomo, qualche «Universal
Lover?»51.

51 P. TEILHARD DE CHARDIN, L’avvenire dell’Uomo, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 443.


Forme di cosmologia politica nel Novecento 485

Questa «spiritualizzazione progressiva della Materia» è probabilmente l’a-


spetto più importante che la visione teilhardiana della storia fa emergere, e si
spiega con la prefigurazione di un Punto Omega come compimento e sintesi di
tutti gli enti del mondo, il quale progressivamente si unisce con Dio, che di-
venta il «Dio tutto in tutti», come è scritto nell’Ambiente Divino, l’opera che
mostra un universo «mosso e compenetrato da Dio nella totalità della sua
evoluzione». La spiegazione del divino, non in rottura con il mondo fisico
ma in unione con esso, è una realtà facilmente scrutabile, poiché balza din-
nanzi ai nostri occhi nel momento in cui serenamente riflettiamo sui rap-
porti «sconcertanti» che intercorrono tra lo spirito e la materia:
Se c’è un fatto ben stabilito dall’esperienza, è quello secondo cui più uno
psichismo è elevato, presso tutti i viventi che conosciamo, più esso appare legato
a un organismo complesso. Più l’anima è spirituale, più il suo corpo è molteplice
e fragile [...]. Mi è parso che, lungi dall’essere una relazione paradossale o
accidentale, essa potesse tradire la costituzione segreta delle cose. Invece di
considerarla una difficoltà, un’obiezione, l’ho trasformata nel principio stesso di
spiegazione delle cose52.
L’ipotesi della presenza di «Dio tutto in tutti» non può non provocare a
Teilhard qualche problema sul piano dell’ortodossia cattolica. L’accusa più
«naturale» che gli viene mossa è quella di essere un panteista. Nell’ultima
pagina del Fenomeno umano egli afferma che se, a proposito della sua dottri-
na, di panteismo si deve per forza parlare, è bene che lo si giudichi come un
«panteismo legittimo». Se, in fin dei conti, i centri riflessi del mondo non
costituiscono effettivamente altro che «uno con Dio», tale stato si ottiene non
per identificazione (Dio che diventa tutto), ma per azione differenziante del-
l’amore (Dio tutto in tutti), il che è essenzialmente «ortodosso e cristiano».
Più che una precisazione, frutto magari della cautela di Teilhard, che
tutto vuole tranne che urtare la suscettibilità ecclesiastica, salda come è la sua
fede cristiana, ciò sembra un voler rimarcare la coerenza del suo pensiero
anche sul piano della fede. Non a caso egli usa l’espressione ambiente divino,
con cui addirittura intitola una delle sue opere più significative. L’ambiente
divino è il mondo, la realtà naturale e materiale («la materia è lo sgabello di
Dio»53), interamente pervasa, penetrata, illuminata dall’amore di Dio. Il
mondo, per Teilhard, «traspare» in Dio, e questa trasparenza del mondo in
Dio (diafanìa) ha un significato mistico di gran lunga superiore alla semplice,
si fa per dire, presenza di Dio nel mondo (epifanìa).

52 P. TEILHARD DE CHARDIN, Science et Christ, Paris, Seuil, 1965, p. 72.


53 P. TEILHARD DE CHARDIN, La visione del passato, Milano, Il Saggiatore, 1973, p. 221.
486 Spartaco Pupo

Il Fenomeno Umano è l’opera non solo dell’incontro del «corporeo» con lo


«spirituale», il «divino», ma anche dell’affermazione universale dell’amore,
di cui va considerata la valenza sentimentale, accanto alla sua presenza effet-
tiva nell’intera realtà biologica, e non limitatamente all’uomo.
Al pari dell’Alexander teorico della deità, Teilhard crede che si debba de-
finitivamente farla finita con la «leggenda» di una terra giunta, con l’avvento
dell’uomo, al punto estremo delle sue potenzialità biologiche. L’evoluzione
della vita terrestre è «simile a uno di quei razzi multipli capaci di ripartire più
volte» e di compiere sempre nuovi balzi in avanti, l’ultimo dei quali sarà la
«superominizzazione».

Abstract
Thought in the first half of XX century was quite influenced by political language
insomuch as some methaphysical thinkers, seemingly uninterested in neither politics
and political philosophy, use political terms and metaphors in order to make clear the
principal concepts of their naturalistic cosmologies. Samuel Alexander speaks of
“democracy of things” in nature; Alfred North Whitehead elaborates an organic theory
of “self-assertion”; the top of Pierre Teilhard de Chardin’s evolutionistic system is the
“supermanization” of nature.
EMILIO SERGIO

Parrasio in Calabria e la fondazione


dell’Accademia Cosentina (II): 1521–1535

Problemi di biografia parrasiana e telesiana

Come abbiamo mostrato in un precedente contributo1, la documenta-


zione disponibile sull‟attività dell‟Accademia Cosentina dalla data del suo
presunto inizio (1511) fino alla morte di Parrasio (1521), sia pure non co-
piosa, ha permesso di formulare alcune ipotesi in merito. Dalle poche lettere
e minute disponibili si evince che poco dopo l‟inizio del suo soggiorno in Ca-
labria, a Cosenza, nell‟estate del 1511, Parrasio dette vita, col suo discepolo
Giovanni Antonio Cesario, ad una scuola di greco e di latino per educare i
giovani rampolli della nobiltà cosentina e di quella dei casali vicini. In questo
senso si è potuta formulare l‟ipotesi della presenza, nella prima metà degli
anni 1510, di un gymnasium che prese il nome di „Accademia Parrasiana‟,
anche se essa non possedeva, come già tenne a precisare Francesco Fioren-
tino, le caratteristiche di una istituzione ufficiale2. L‟Accademia non ebbe nel
primo Cinquecento la forma, le finalità e l‟organizzazione che ebbero altre
accademie d‟Italia, come la Pontaniana di Napoli, l‟Arcadia di Pomponio
Leto a Roma o la Platonica di Marsilio Ficino a Firenze3.
Tra i primi clienti membri, sostenitori e allievi dell‟Accademia Cosentina
si contano, come si è detto, Giovan Battista Martirano (c.1450–1535), padre
di Bernardino (c.1490–1548) e Coriolano (1503–c.1557), due figure fonda-
mentali per il futuro dell‟Accademia; Giovanni Antonio Cesario (fl. 1504–

1 Su questo Bollettino, 23 (2007), pp. 419-436.


2 Fiorentino riconosce che l‟Accademia Cosentina nacque come una scuola di lettere, e
solo dopo fu chiamata «Accademia» (Bernardino Telesio, ossia Studi storici su l’idea della natura
nel Risorgimento italiano, 2 voll., Firenze, Le Monnier, 1872-74, vol. I, p. 35).
3 I recenti risultati della ricerca storica, a cominciare dagli studi compiuti sull‟Accade-

mia Ficiniana hanno messo in luce come alcune accademie rinascimentali siano a volte più
il risultato di invenzioni mitografiche che realtà effettive e operanti. Dopo gli studi di J.
HANKINS (“The Myth of the Platonic Academy of Florence”, Renaissance Quarterly 44, 1991,
3, pp. 429-475; ID., “Cosimo de‟ Medici and the Platonic Academy”, Journal of the Warburg
and Courtald Institutes 53, 1990, pp. 144-162), è possibile misurarsi con approcci più rigo-
rosi; anche se, come vedremo, nel caso dell‟Accademia Cosentina, la scarsità di fonti docu-
mentarie non ha impedito il riconoscimento della reale natura di tale istituzione.

Bollettino Filosofico 25 (2009): 487-516 487


488 Emilio Sergio

1519), già hypodidascalos e collaboratore di Parrasio durante il soggiorno


nelle città di Padova e Vicenza, nel 1507–1510; Vincenzo di Tarsia (1480/90–
1530), barone di Belmonte e padre del poeta Galeazzo (c. 1520–1553); gli il-
lustri membri della famiglia Telesio, tra cui ricordiamo Berardino (?–c.1519)
e i suoi figli Antonio (1482–1534) e Giovan Battista (?-1531) – quest‟ultimo
padre di Bernardino (1509–1588), filosofo e futuro reggente dell‟Accademia
nel terzo quarto del XVI secolo; e infine i primi allievi di Parrasio a Cosenza,
tra cui contiamo Niccolò Salerno, Galeazzo di Tarsia, Francesco Franchini,
Carlo Giardino, Leonardo Schipano, Bernardino Martirano e Giano Pierio Ci-
minio4. Questi ultimi saranno eredi dell‟insegnamento di Parrasio, e anima-
tori dell‟Accademia, nella cosiddetta „seconda fase‟, di cui diremo più avanti.
La prima fase dell‟Accademia fu di breve durata. Nella primavera del
1515 Parrasio fu chiamato a ricoprire la cattedra di retorica nello Studium
Urbis, dietro nomina di Leone X. Anche Antonio Telesio non rimase a lungo
a Cosenza: nel 1517 decise di partire per Milano, portando con sé suo nipote
Bernardino. Dalle fonti biografiche più attendibili sappiamo che Antonio e
Bernardino stettero a Milano almeno fino al 1521, e in seguito si spostarono
a Roma5. A Roma il giovane Bernardino crebbe, fino ai primi mesi del 1527,
in un ambiente culturale pieno di stimoli, con la memoria del magistero di
Parrasio ancora viva. Lo zio Antonio pubblicava in quegli anni i suoi primi
scritti6; e, come ricorda Paolo Giovio, fu chiamato da Clemente VII a tenere
«un corso su Orazio»7. È dunque probabile che Bernardino, già quattordi-
cenne, seguisse i corsi tenuti dallo zio insieme ai giovani patrizi cosentini che

4 Cf. MARIO EMILIO COSENZA, Biographical and Bibliographical Dictionary of the Italian
Humanists and of the World of classical Scholarship in Italy, 1500–1800, 6 vols, Boston, G.K.
Hall and co., 1962–1967, a.i.
5 Al febbraio del 1519 risale la composizione, da parte di Antonio, della Oratio in funere

Ioh. Iacobi Trivultii (Mediolani, per Augustinum de Vicomercato), poi riedita nella ANTONII
THYLESII CONSENTINI Opera, a cura di F. Daniele, Neapoli, Fratris Simonii [Paullus et Nico-
laus De Simone], 1762, pp. 193-204. Fino al 1523 non si hanno notizie certe sugli sposta-
menti di Antonio e Bernardino. Terminus ad quem dell‟allontanamento dei Telesio da Mila-
no è il 13 dicembre 1523, data della lettera di Antonio ad Alessandro Caccia (v. nota 6), in
cui Antonio ricorda al suo corrispondente di aver trovato a Roma l‟amicizia e la collabo-
razione di Marco Girolamo Vida, di Paolo Giovio e di Matteo Giberti (ivi, pp. 223-224).
6 Durante il soggiorno romano la produzione letteraria di Antonio comprende l‟Episto-

la ad Alexandrum Cacciam Florentinum ob Clementis VII. Pontificatum Maximum (Romae, 1523); nel
maggio del 1524 una serie di Poemata (Romae, F. Minitium Calvum), voluti da Clemente
VII; nel febbraio del 1525 il De Coronis (Romae, F. Minitium Calvum); intorno al 1527, In
odas Horatii Flacci Auspicia ad Juventutem Romanam; e nel 1526 l‟Epithalamium in Nuptias
Scipionis Capycii & Iuniae Caracciolae (Neapoli, Evangelistam Papiensem).
7 P. GIOVIO, Elogi dei letterati illustri, a cura di F. Minonzio, Torino, Einaudi, 2006, p. 338.
Parrasio in Calabria 489

si trovavano in quegli anni a Roma, come, ad esempio, il più giovane dei fra-
telli Martirano. È appena sufficiente dare uno sguardo agli Auspicia di Anto-
nio, pubblicati in quegli anni ad Juventutem Romanam, per farsi un‟idea precisa
della levatura intellettuale del maestro cosentino8.
Gli anni della permanenza romana furono dunque decisivi per la forma-
zione di Bernardino. Il pontificato di Clemente VII si inaugurava nel segno
della continuità con il mecenatismo culturale di Leone X. Una prova tangi-
bile del fermento culturale di quegli anni ci viene, ad esempio, dalla quantità
di titoli pubblicati dallo stampatore apostolico Francesco Minizio Calvo
(c.1499–1548): dal 1523 al 1527 troviamo, oltre alle opere di Antonio Tele-
sio, scritti e raccolte di Angelo Poliziano, di Paolo Giovio, di Iacopo San-
nazaro, di Erasmo da Rotterdam, di Niccolò Machiavelli, e poi ancora, edi-
zioni delle opere di Galeno, di Ippocrate, di Virgilio e di Plutarco9. D‟altron-
de, non c‟è dubbio che nel quinquennio che va dal 1523 al 1527 le biogra-
fie dei Telesio finiscano col convergere, avendo Bernardino dovuto frequen-
tare, di riflesso, gli stessi ambienti culturali (lo Studium, la corte papale, il
milieu di Paolo Giovio, la cerchia dei Martirano) frequentati dallo zio10.
Sulla partenza di Bernardino per Milano si è già detto nel precedente
contributo11. Dell‟influenza di Antonio sulla formazione culturale di Ber-
nardino si ha notizia, oltre che nella Oratione (1596) di Giovan Paolo D‟Aqui-
no e in raccolte come la Historiarum sui temporis ab anno domini 1543 usque ad
annum 1607 di Jacques–Auguste Thou12, anche nelle prime biografie concer-

8 A. TELESIO, In odas Horatii Flacci Auspicia ad Juventutem Romanam, in Antonii Thylesii

Consentini Opera, cit., pp. 207-220. Sull‟interesse di Antonio per la letteratura oraziana, si
ricordano anche le annotazioni aggiunte a quelle di Erasmo, Manuzio, Parrasio, Poliziano,
Perotti ecc. (Q. HORATII FLACCI, Omnia poemata cum ratione carminium, Venetiis, per Ven-
turinum Roffinellum, 1540 (ried. 1544, 1546, 1549, 1553, 1559, ecc.).
9 Si veda infra, Appendice I.
10 Altre figure correlate dell‟ambiente romano sono Vittoria Colonna (1490–1547), a

Roma nel 1520 e nel 1527; Tommaso De Vio (Cajetanus), a Roma nel 1524 e nel 1527;
Agostino Nifo, titolare della cattedra di Filosofia presso lo Studium dal 1515 al 1519; Mat-
teo Giberti, datario papale già sotto Leone X (anche se negli anni 1522–1527 si trova a Ro-
ma solo per brevi periodi). Il sopracitato Giovio fu titolare della cattedra di Filosofia mora-
le, nel 1514–1519, e poi ancora nel 1523–1527 e nel 1540–1549. È utile ricordare che la
cerchia di Vittoria Colonna era in contatto anche col Giovio.
11 Cf. in questo Bollettino, 23 (2007), pp. 433-434, n. 46.
12 Cf. G.P. D‟AQUINO, Oratione in morte di Bernardino Telesio Philosopho Eccellentissimo agli

Academici Cosentini, in Cosenza, per Leonardo Angrisano, 1596; J.-A. THOU, Historiarum sui
temporis ab anno domini 1543 usque ad annum 1607 libris CCCXXXVIII descriptarum continuatio, sive
Thomus quartus, Francofurti, typis Wolfgangi Hofmanni, 1628, p. 265: «Octobri ineunte Co-
sentiae, quae illi patria erat, in Calabria ultimum diem clausit Bernardinus Telesius, qui Anto-
nium patruum habuit philosophicis studiis celeberrimum, ab eoque Mediolani institutus».
490 Emilio Sergio

nenti Telesio e il milieu telesiano, dal De vita et philosophia Bernardini Telesii


commentarius di Johann Georg Lotter (1733) alle Memorie degli Scrittori Co-
sentini (1750) di Salvatore Spiriti, dove è scritto che «appena uscito dalla
fanciullezza, [Bernardino] fu istruito nelle Greche, e Latine lettere da An-
ton Telesio suo zio»13; fino alla Antonii Thylesii Consentini Vita (1762) di
Francesco Daniele, ove si ricorda – «inter alios sollertissimos discipulos,
qui eum [Antonii] Mediolani docentem frequentes audivere» – anche «Ber-
nardinus Thylesius fratris filius, qui illuc Consentia se contulerat, quo com-
modius apud patruum bonis litteris vacaret»14.
Con la partenza di Parrasio a Roma, e dei Telesio a Milano, le attività
dell‟Accademia subirono una inevitabile contrazione. Sappiamo che il Ce-
sario non seguì Parrasio a Roma, il che fa supporre che prosegua la sua at-
tività in Calabria. Ma è evidente che con la mancanza del suo fondatore,
quella che già era un‟istituzione informale non poteva assumere la forma di
un‟accademia15. La stessa partenza di Antonio Telesio e del nipote Bernar-
dino è un segno rivelatore del fatto che nei circoli cosentini non ci fosse più
l‟offerta educativa degli anni precedenti16. Quel che è certo è che la scuola
parrasiana dovette subire un arresto con la morte del suo fondatore, av-
venuta nel novembre del 1521. Parrasio era tornato da più di un anno a
Cosenza, a causa delle sue già malferme condizioni di salute17.

13 S. SPIRITI, Memorie degli scrittori cosentini, Neapoli, De‟ Muzii, 1750, p. 83.
14 F. DANIELE, Antonii Thylesii Consentini Vita, in ANTONII THYLESII CONSENTINI Opera,
cit., p. XI (anche in ANTONII THYLESII CONSENTINI Carmina et Epistolae, Neapoli, ex Typo-
graphia Regia, 1808, pp. XVII–XVIII).
15 Di Giovanni Antonio Cesario non si hanno più notizie dopo l‟ultimo carteggio con

Parrasio. Suo figlio, Giovan Paolo (detto Giano, 1511–1570), intraprese subito la carriera
di insegnante di lettere. Già intorno al 1530, a Napoli, è insignito del titolo di “publici
doctoris munus”. Amico di Giano Anisio, frequentò per un certo periodo l‟Accademia Co-
sentina nella seconda fase, a Napoli. In seguito insegnò a Roma (1545–1570), tenendo let-
ture di Orazio, Cicerone, Platone. Pubblicò Varia poemata et orationes (Venetiis, 1562);
Orationum et poematum liber secundus (Romae, 1565); Commentarii Iohannis Caesarii Consentini
in triginta duos Horatii Flacci Odas (Romae, 1565). Cf. G. CIANFLONE, “Nella scia del Par-
rasio: i due Cesario”, Archivio Storico per le Province Napoletane 80 (1961), pp. 255-267; M.
VIGILANTE, “Cesario, Giovanni Paolo”, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana (d‟ora in poi DBI), vol. 24 (1980), pp. 211-212.
16 Non è possibile stabilire con esattezza quando i fratelli Martirano lascino Cosenza

per trasferirsi a Roma. Tuttavia, la loro assenza dalla municipalità cosentina, almeno per
una parte degli anni 1520, è una ulteriore prova del declino dell‟Accademia.
17 Ancora più scarse e frammentarie sono le notizie di una presunta attività dell‟accade-

mia negli anni successivi alla morte di Parrasio. A confermare l‟ipotesi di una non facile ripre-
sa degli studia humanitatis a Cosenza c‟è la decisione, da parte di Parrasio, di lasciare la sua
biblioteca di testi e di codici antichi all‟amico Antonio Seripando, fratello del cardinal Gero-
Parrasio in Calabria 491

A supporto dell‟ipotesi che negli anni 1520 la vita culturale cosentina non
registri una straordinaria attività culturale, interviene anche un clamoroso
errore di periodizzazione, perpetuatosi in diverse raccolte biografiche, e
giunto fatalmente fino al celebre studio di Fiorentino. L‟errore consiste nello
spostamento della data di morte di Parrasio al 1534. Tale spostamento ha
avuto come effetto quello di derogare la direzione parrasiana dell‟Accademia
sino a quell‟anno. In questa prospettiva, l‟Accademia non subirebbe interru-
zioni o cesure nel 1521, ma proseguirebbe indisturbata fino al 1534. L‟assen-
za di notizie sulla biografia parrasiana dal 1522 al 1534 ha lasciato intendere
che dopo il suo ritorno a Cosenza, Parrasio continuasse ad esercitare la sua
influenza in città e nell‟Accademia. È evidente che tale errore non ha facili-
tato il lavoro di quegli studiosi che, nel corso del Novecento, si sono ci-
mentati nell‟impresa di ripercorrere le tappe fondamentali dell‟Accademia
Cosentina. Che tale svista ricorresse in un‟autorità come Fiorentino ha re-
so più difficile il riconoscimento di una eventuale cesura delle attività del-
l‟Accademia dopo il 1521. Del resto, coloro che, come la Tristano, hanno
corretto l‟errore retrodatando la morte di Parrasio al 1521, non hanno
avuto nei confronti della storia dell‟Accademia un interesse tale da consen-
tire di soffermarsi sulle conseguenze di quella retrodatazione.
In uno degli studi più recenti sulle origini e sulla natura dell‟Accademia
Cosentina – l‟unico, a mia memoria, che non abbia pedissequamente ripe-
tuto le notizie dei grandi inventari bio–bibliografici e dei primi studi sul-
l‟argomento18 –, un piccolo libretto dal titolo Lineamenti di storia della cultu-
ra calabrese. Ipotesi su un frammento: l’Accademia Parrasiana, l‟autore, Tobia
Cornacchioli, tenta di fare il punto sulla spinosa questione della storia del-
l‟Accademia a partire dagli studi compiuti, agli inizi del Novecento, da Lo
Parco e da Bartelli19. Con il primo, Cornacchioli conviene circa il fatto che

lamo. Alla morte di Seripando, la collezione di testi fu custodita nella biblioteca del convento
di S. Giovanni a Carbonara, a Napoli, e successivamente, con la costituzione della Biblioteca
Borbonica (1799), essa divenne patrimonio dell‟attuale Biblioteca Nazionale di Napoli. Il tra-
sferimento della biblioteca parrasiana a Napoli rese indubbiamente più arduo che qualcuno
dei primi allievi o membri dell‟Accademia potesse continuare l‟attività del maestro, venendo
a mancare lo strumento indispensabile di una scuola di greco e di latino: ossia i libri. Cf. CA-
TERINA TRISTANO, La biblioteca di un umanista calabrese: Aulo Giano Parrasio, Manziana, Vec-
chiarelli, 1989; E. SERGIO, “Telesio e il suo tempo. Alcune considerazioni preliminari”, e C.
FANELLI, “Studia humanitatis e teatro prima di Telesio, tra Cosenza e l‟Europa”, in corso di
stampa sul fasc. 16/1 (2010) di Bruniana & Campanelliana.
18 S. SPIRITI, op. cit.; D. ANDREOTTI, Storia dei Cosentini (1869), 3 voll., a cura di S. Di

Bella, Cosenza, Pellegrini, 1978; F. FIORENTINO, op. cit.; PIETRO DE SETA, L’Accademia Co-
sentina, Cosenza, Casa del Libro di G. Brenner, 1965.
19 T. CORNACCHIOLI, Lineamenti di storia della cultura calabrese. Ipotesi su un frammento:
492 Emilio Sergio

«la data esatta della fondazione dell‟istituto umanistico» vada collocata «in un
periodo di circa nove mesi che va dall‟agosto 1511 all‟aprile 1512»20. Nei
confronti di Bartelli, lo studioso esprime un giudizio più severo, respingen-
do la tesi che «per molti anni [l‟Accademia] seguì l‟indirizzo primitivo, non
discostandosi dalle orme del grande umanista»21. Così facendo, egli tende a
relativizzare la figura di Parrasio sulla scorta di un‟ipotesi che accentua an-
zichè diminuire le continuità storiche: afferma infatti che «il collettivo uma-
nistico delle origini [...] deve essere considerato più che un corpo accade-
mico, come un movimento umanistico che si esprime in un lasso di tempo
più lungo di quanto sinora si fosse supposto, assumendo forme [...] che ri-
mangono fluide ed hanno il compito di attuare uno scambio culturale fra
generazioni»22. Facendo risalire le origini dell‟Accademia ad un movimento
umanistico ancora più tardo, in cui la figura di Parrasio tende quasi a svani-
re, mentre riemergono i nomi di Tideo Acciarino Piceno e di Giovanni Cras-
so Pedacio (che di Parrasio furono maestri), Cornacchioli compie un er-
rore di valutazione, poiché sembra ignorare quali siano gli effetti di una di-
latazione eccessiva dell‟arco temporale, che finisce col dissolvere ogni indi-
vidualità; e tuttavia finisce col consegnarci alcuni spunti di rilievo, utili per
la formulazione della nostra ipotesi di lavoro. Il primo riguarda una rifles-
sione sulla testimonianza lasciata da Leandro Alberti nella sua Descrittione di
tutta Italia, circa il suo soggiorno a Cosenza, risalente al 1526: l‟Alberti in
quell‟occasione stringe rapporti con il padre dei fratelli Martirano, Giovan
Battista, il quale gli parla del Parrasio, di Pietro Paolo Parisio, di Giovanni
Crasso, di Antonio Telesio, di Carlo Giardino e «di assai altri huomini nati
in questa città che gli hanno dato fama colle sue eccellenti virtù»: ma non
una parola sull‟Accademia Parrasiana, sulla sua esistenza e operatività nel
plesso cosentino. «Come mai questa dimenticanza, questo lapsus memoriae?»,
si chiede Cornacchioli – «e, si trattò effettivamente di una dimenticanza? O
forse le cose circa i primi anni di esistenza dell‟Accademia Cosentina si
svolgono in modo diverso da come ci hanno tramandato gli storici?»23.
Cornacchioli dà risposta a tali quesiti attraverso un approccio che, impro-
priamente, potremmo chiamare di «lunga durata»24, dissolvendo la que-

l’Accademia Parrasiana, Cosenza, Pellegrini, 1982 (d‟ora in poi „Ipotesi‟). Cf. F. LO PARCO,
Aulo Giano Parrasio. Studio biografico–critico, Vasto, Anelli, 1899; F. BARTELLI, Note biografi-
che – Bernardino Telesio e Galeazzo di Tarsia, Cosenza, A. Trippa, 1906.
20 Ivi, p. 10. Seguendo Lo Parco, Cornacchioli fa risalire la morte di Parrasio al 1522.
21 Ivi, p. 12.
22 Ivi, p. 26.
23 Ivi, p. 10. Vedi infra, nota 38.
24 La nozione di «longue durée» risale, com‟è noto, allo storico francese Fernand Brau-

del. L‟uso che ne fa Cornacchioli, tuttavia, non dà esiti concreti.


Parrasio in Calabria 493

stione delle origini dell‟Accademia in una sorta di „non–origine‟, che tra-


sformerebbe la storia culturale cosentina tra XV e XVI secolo in un unico
flusso indistinto di sapore mitografico. Questo approccio, se da una parte
si dimostra fallace per la ricostruzione delle origini di quel fenomeno cultu-
rale che prese poi il nome di „Accademia Cosentina‟, dall‟altra conserva
qualche utilità, almeno sul piano degli intenti, nell‟affrontare il tema della
ricostruzione delle vicende dell‟Accademia all‟indomani della morte del
suo fondatore e più attivo maestro, cioè Giano Parrasio. Richiamandosi alla
differenza (sancita da Braudel) fra una storiografia «automatica» e una sto-
riografia «problematica»25, lo studioso prende le distanze da quella tenden-
za, invalsa col lavoro di Fiorentino, a supporre che l‟Accademia prosegua
indisturbata, senza trasformazioni di rilievo, fino al momento (1550? 1560?)
in cui Bernardino Telesio ne assunse la direzione26. Quando però tenta di
tradurre, in concreto, ciò che afferma sul piano degli intenti, di entrare
cioè più specificamente in quella trama di relazioni sociali, politiche e cul-
turali che hanno segnato le vicende dell‟intellettualità cosentina di inizio
Cinquecento, finisce con l‟evocare un quadro storico generale di qualche ri-
lievo dal punto di vista di una storia sociale delle istituzioni calabresi, ma di
scarsa utilità dal punto di vista di una storia delle idee che intenda ri-
comporre l‟effettivo contesto, la „trama dei rapporti‟, e con essi, le individua-
lità emergenti di quel particolare plesso del pensiero filosofico e letterario
che si è soliti chiamare „Umanesimo‟ o „Rinascimento‟ meridionale.
In verità l‟influenza di Parrasio continuò a diffondersi anche dopo la sua
morte, e la sua presenza in molte delle pubblicazioni dei membri dell‟Ac-
cademia a partire dagli inizi degli anni 1530 può aver condizionato uno stu-
dioso come Fiorentino a credere che la commemorazione dell‟antico mae-
stro fosse avvenuta quand‟egli era ancora vivente, o poco tempo dopo la
sua morte27. Ma questo riguarda le vicende dell‟Accademia nella cosiddetta
„seconda fase‟, che ebbe come teatro non Cosenza ma Napoli, di cui ci oc-
cuperemo più avanti. Prima di affrontare questo tema, è doveroso tentare
di ricostruire, sia pure sinteticamente, gli eventi più significativi della vita
intellettuale cosentina dal 1521 al 1529, a partire dalle biografie di quegli
autori che possono avere costituito un punto di riferimento per l‟aristocra-
zia e la classe dirigente del capoluogo calabro.

25 Cf. F. BRAUDEL, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1980, p. 172.


26 Su questo punto, lo studioso si mostra non persuaso della «disinvoltura con la quale
si passa dalla fondazione dell‟Accademia che si vuole del 1511, alla riapertura della stessa
da parte del Telesio nella seconda metà del Cinquecento» (Ipotesi, cit., pp. 11-12).
27 A rafforzare le convinzioni di Fiorentino ha contribuito anche un carme in memoria di

Parrasio, inserito da Salerno nelle sue Sylvulae (1536).


494 Emilio Sergio

Del periodo sopra indicato, un intellettuale di spicco fu certamente


Niccolò Salerno (o Salerni, c. 1490–c.1540). Già allievo di Parrasio, Saler-
no è a sua volta ricordato dal suo allievo, Giano Teseo Casopero, come
uno dei maestri di “humanità” operanti in Calabria in un periodo difficile
sotto il profilo politico e sociale. Fino al 1536, anno della pubblicazione
delle Sylvulae – una raccolta poetica che riassume l‟attività letteraria degli
anni precedenti –, Salerno non pubblicò nulla: eppure è ricordato dallo
stesso Casopero come uno dei punti di riferimento dell‟intellettualità co-
sentina28. Dopo la partenza di Parrasio a Roma (1515), l‟accademia cosen-
tina non ebbe un vero continuatore, all‟infuori di Tiberio di Tarsia (fratello
di Galeazzo) – ricordato quale vice–presidente della scuola (almeno fino al
1520)29 – e di Giovanni Antonio Cesario, di cui sappiamo che continuò a
esercitare, almeno fino alla morte di Parrasio, la professione di maestro di
greco e di latino30. Salerno fu tra i primi allievi che ebbero l‟opportunità di
seguire le lezioni di Parrasio prima della partenza per Roma, ed è certo che
ad egli spettò il compito di continuare l‟educazione dei membri della fami-
glia Siscari31. Il fatto che Salerno non si sia mai allontanato, almeno nel
quinquennio 1521–152532, dal territorio cosentino, ci assicura che, nel pe-

28 NICOLAI SALERNI COSENTINI, Sylvulae epicedicae, encomiastae, satyricae ac pareneticae,

variarumque aliarum rerum descriptiones fortasse non inutiles, Neapoli, J. Sultzbach, 1536. At-
traverso gli scritti di Casopero, si desume che Salerno tenne delle lezioni di greco e di lati-
no a Rovito, uno dei casali cosentini. Cf. GREGORIO CIANFLONE, Giano Teseo Casopero, poeta
latino del XVI secolo, e gli umanisti calabresi e veneti, Napoli, Conte, 19552, p. 26.
29 S. SPIRITI, “Brieve Contezza intorno all‟Accademia Cosentina”, in Memorie degli Scrit-

tori Cosentini, cit., pp. 7-13. Si tenga conto che, avendo datato la morte di Parrasio al 1534,
è presumibile che lo Spiriti abbia supposto che la vice–presidenza di Tiberio duri non oltre
la data di rientro del Parrasio a Cosenza; mentre non è escluso che, dopo la scomparsa del
grande umanista (fine novembre–inizi dicembre 1521), la scuola continui per un certo tem-
po sotto la presidenza di Tiberio. Su questo punto, l‟unico dato certo è che l‟accademia
non registri un‟attività tale da dover essere ricordata dai suoi allievi e dai suoi stessi mento-
ri; un dato negativo desumibile, come già ebbe a dire T. CORNACCHIOLI (op. cit., pp. 8-
10), dalle memorie cosentine della Descrittione di Alberti, risalenti al 1526.
30 I rapporti fra Parrasio e Cesario si interrompono dopo l‟ultimo scambio epistolare,

avvenuto nel 1519 circa. Cf. L. GUALDO ROSA, “Un decennio avventuroso nella biografia
del Parrasio (1509–1519): alcune precisazioni e qualche interrogativo”, in Parrhasiana III, a
cura di G. Abbamonte, L. Gualdo Rosa, L. Munzi, Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligra-
fici Internazionali, 2005, pp. 25-36.
31 Questo dato è ricavabile dal primo libro delle Sylvulae, dedicato, per l‟appunto, a

Gaspare Siscari.
32 Negli unici due studi dedicati, nel corso del Novecento, all‟umanista cosentino

(MATTEO MAZZONELLO, Niccolò Salerno. Poeta latino del’Accademia Parrasiana, Napoli, Tipo-
grafia Domenico di Gennaro, 1919; e ANTONIO ALTAMURA, “Per la storia della Parrasiana.
Parrasio in Calabria 495

riodo considerato, egli abbia continuato a costituire un trait d’union tra l‟ari-
stocrazia cosentina e l‟influenza del magistero parrasiano.
Sulla biografia di Salerno si è detto pochissimo, a causa della scarsità
delle fonti; eppure di questo autore disponiamo di una testimonianza d‟ec-
cezione, consistente nelle Sylvulae. La data di edizione, 1536, non ci aiuta
molto nella ricostruzione di una cronologia degli eventi, e tuttavia l‟opera
resta di grande importanza per la conoscenza di quella trama di rapporti
che il letterato calabrese ebbe o intrattenne con molte figure di rilievo del
Viceregno e dell‟Italia del suo tempo33.
Delle Sylvulae vanno ricordati innanzitutto i nomi di alcuni destinatari
dei carmi: Bernardino Martirano, Giambattista Inglisio, Antonio Telesio,
Bernardino e Francesco Ferrario, Leonardo Schipano, Giano Teseo Caso-
pero, Annibal Caro, Marco Antonio Colonna, il marchese Alfonso d‟Avalos
del Vasto; a cui si aggiungono i nomi di Parrasio (soggetto di un epicedio fu-
nebre) e dei membri della famiglia Siscari (Antonino, Gaspare e Alfonso).
Del Parrasio, Salerno ricorda la fama e la gloria che gli fecero meritare un
posto fra le ombre dei poeti latini, dei quali era stato il migliore interprete.
Forte è il rammarico del poeta per la perdita di un così grande umanista:
At tu seu Elysias oras, silvasque virenteis / Gramineunque solum & vernantes
lumine campos, / Aethereo, levis umbra colis, mistusque canoris / Vatibus
incedis, quorum monimenta peritus / Interpres, cunctis patefacta legenda lati-
nis. / Pervigili studio dederas, duroque labore34.

In sintonia con la poesia naturalistica di Antonio Telesio – che tanto influì


nella formazione del giovane Bernardino –, Salerno manifesta una spiccata

L‟umanista Niccolò Salerno”, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 22 (1953), pp. 31-
38), si scontrano due opposte tesi: secondo la prima, il ruolo di precettore affidato a Saler-
no dalla famiglia Siscari porta a concludere che Salerno non si sia mai allontanato da Cosen-
za; secondo Altamura, invece, Salerno avrebbe insegnato eloquenza anche a Roma, Pavia e
Napoli, come risulta da un passo autobiografico contenuto nell‟epistola a Francesco Ferrario
(Sylvulae, lib. VI, pp. 106-108). Una traccia analoga si trova nelle Sylvae (1535) di Casopero
(v. infra, nota 54). Da parte mia, sono disposto a concedere che Salerno non si mosse da Co-
senza almeno fino agli anni dell‟educazione di Casopero (1509-1537?), cioè, come ricorda
Paolo da Montalto (PAULUM A MONTEALTO SCYLLICAEUM, Jani Thesei Casoperi Psychronaei
Vita, Venetiis, De Vitalibus, 1535, f. [1]), dal 1521 al 1525 circa.
33 Delle Sylvulae ho utilizzato la riproduz. fotostatica dell‟esemplare conservato presso

la Biblioteca Nazionale di Napoli, in possesso della Biblioteca Civica di Cosenza (ref. II B


6148). Questo esemplare di 105 carte non include in appendice i poemetti d‟argomento
storico–politico (su cui v. infra), che ammontano a 32 carte.
34 N. SALERNI COSENTINI, Sylvulae, lib. VII, p. 141.
496 Emilio Sergio

sensibilità verso le bellezze naturali della sua terra: un intenso, lungo car-
me (il secondo del decimo libro delle Sylvulae) è dedicato alla descrizione
delle risorse naturali, della ricchezza del paesaggio e della varietà di piante
ed animali presenti nell‟altipiano della Sila. Qui, come ha efficacemente
detto Mazzonello, «l‟umanista si spoglia della pesante veste mitologica»,
presente nei primi carmi, per assumere le vesti di cantore della natura35.
Quel che colpisce del De Syla Brutiorum è soprattutto la precisione filologica
con cui Salerno cita le varietà della flora silana. Sotto questo profilo, le Syl-
vulae sono una testimonianza importante del rapporto esistente fra poesia
latina e terminologia scientifica.
L‟opera di Salerno presenta anche un inedito taglio filosofico, che non
può essere a lungo rimasto ignoto ai Telesio: sia pure carico di un apparato
mitologico, il primo libro tratta dell‟origine del mondo, evocando la poesia
di Ovidio e alcuni loci del poema lucreziano. Sulle opinioni di alcuni filosofi è
l‟ultimo carme del libro nono; e il primo carme del secondo libro, dedicato
a Bernardino Martirano, è diretto contro l‟astrologia giudiziaria, un tema sul
quale il poeta ritorna nel terzo carme del quinto libro36. Questo interesse
negativo per l‟astrologia fa supporre che Salerno avesse in mente un preciso
bersaglio polemico; e, se guardiamo più da presso il milieu cosentino, un au-
tore emerge fra tutti – l‟unico, a mia conoscenza, che possa avere suscitato
l‟acredine del poeta, e cioè Tiberio di Tarsia: un intellettuale che, oltre ad
aver ereditato da Parrasio il ruolo di vice–presidente dell‟Accademia (una
carica che potrebbe essergli stata confermata dopo il 1520), nutriva, stando
alle memorie dello Spiriti, un interesse preciso nei confronti dell‟astrologia
giudiziaria37.
Purtroppo nulla ci resta della produzione di Tiberio, eccetto la memo-
ria dello Spiriti. La presenza di testimonianze scritte avrebbe reso senza
dubbio più semplice la ricostruzione dei rapporti esistenti fra il Salerno e
gli intellettuali vicini all‟ambiente dell‟Accademia. Certo, nei carmi come
nei poemetti storici emerge con evidenza il ritratto di un intellettuale pie-
namente integrato nella società dei dotti e letterati del suo tempo; forse
non si spostò dalla sua Cosenza che per pochi anni, ma di fatto i suoi rap-
porti furono intensi: lo dimostra il fatto di conoscere quasi tutti quegli

35 M. MAZZONELLO, op. cit., p. 23. Cf. N. SALERNI COSENTINI, Sylvulae, lib. X, „De Syla

Brutiorum‟, pp. 199-206. Su temi analoghi sono i tre carmi del libro quinto (ivi, pp. 91-
108). Ad Antonio Telesio dedica invece il quarto carme del terzo libro (pp. 61-62).
36 N. SALERNI COSENTINI, Sylvulae, lib. IX, pp. 187–190; lib. II, pp. 27–31; lib. V, pp.
104–108.
37 S. SPIRITI, Memorie degli scrittori cosentini, cit., p. 76.
Parrasio in Calabria 497

intellettuali che gravitarono intorno al milieu umanistico che prese poi il


nome di “Accademia Cosentina”.
Non meno ardua è, d‟altra parte, la ricostruzione della rete di coloro
che rimasero stabili in Calabria, in particolare a Cosenza, nella seconda metà
degli anni 1520. Dalla Descrittione di tutta Italia (1546) sappiamo che Alber-
ti fu accolto nel 1526 a Cosenza da Giovan Battista Martirano, padre di
Bernardino e di Coriolano38. Ma nulla sappiamo degli spostamenti di questi
ultimi nel periodo sopra indicato, sebbene studi recenti promettano di far
luce su tali vicende, che restano di importanza vitale per la storia dell‟intel-
lettualità cosentina e dell‟Accademia Parrasiana39.

Carlo V e l’intellettualità cosentina

Come si è detto sopra, in alcuni esemplari delle Sylvulae di Salerno


compaiono in appendice tre poemetti di argomento storico-epico. Essi so-
no dedicati ad Alfonso d‟Avalos, marchese del Vasto (1502–1546), una fi-
gura chiave per comprendere la natura dei rapporti esistenti fra il Salerno e
un altro grande esponente dell‟umanesimo pre–telesiano: Francesco Fran-
chini (1496–1554)40. Terminus a quo del primo poemetto è il 1529–1530, poi-
ché celebra le gesta di Carlo V a partire dall‟approdo a Genova, passando
da Vicenza, e dalla successiva tappa a Bologna, per sedare i tumulti e fir-
mare la pace. Il secondo poemetto (Belli Papiensis Compendium) narra dei
fatti di Pavia già evocati nella dedicatio; il marchese del Vasto è ricordato

38 L. ALBERTI, Descrittione di tutta Italia, Venezia, appresso Paolo Ugolino, 1546, f. 207r:

«assai sono obligato a tanto huomo [Giovambattista Martorano] per l‟umanità da lui a me di-
mostrata, et anche aiutandomi a conoscere gli antichi luoghi di questa Regione, ritrovandomi
quivi nel 1526». Giova notare che l‟Alberti usa il verbo al passato per ricordare i cosentini più
illustri: «[Cosenza] ha prodotto molti nobili ingegni», e cioè «Pietro Paolo Parasio», che fu fat-
to «auditore della Camera Apostolica da Paolo terzo Papa et [...] passò [...] in Roma all‟altra
vita nel 1545»; «Giovan Paolo Parasio, ornato di lettere Grece et Latine [...] Antonio Tilesio,
Antonio, et Niccolò Giardini, tutti tre ben dotti nelle lettere Grece et latine» (ibid., c.m.).
Probabilmente, oltre che dalle Sylvulae di Salerno, l‟errata datazione della morte di Parrasio è
derivata da un‟errata interpretazione della memoria dell‟Alberti.
39 Cf. C. FANELLI, “Studia humanitatis e teatro prima di Telesio, tra Cosenza e l‟Europa”,

cit., pp. 125-137; ID., “Coriolano Martirano e l‟umanesimo pre–telesiano”, in Telesius re-
divivus. Bernardino Telesio, tra naturalismo rinascimentale e scienza moderna, a cura di C. Fanel-
li, S. Plastina, E. Sergio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, in preparazione.
40 Su quest‟ultimo autore, cf. il mio “Due protagonisti dell‟umanesimo pre–telesiano:

Niccolò Salerno e Francesco Franchini”, in Calabria Italia Europa. Immagini della cultura del
Rinascimento, a cura di R. Calcaterra e G. Ernst, Milano, F. Angeli, 2010, in preparazione.
498 Emilio Sergio

per il valore dimostrato nell‟assedio del 20 febbraio 1525, in occasione del


quale Francesco I fu imprigionato e condotto in Spagna. Il terzo poema,
(Belli Neapolitani Compendium), il più lungo della serie, narra dei fatti poste-
riori al sacco di Roma (1527)41, in cui l‟esercito francese, sotto il coman-
do del Lautrec, si portava a Napoli per assediarla: era il 1528, e durante la
battaglia di Capo d‟Orso il marchese del Vasto fu fatto prigioniero. Ep-
pure, proprio a Napoli, le sorti della guerra si volsero a favore delle truppe
imperiali. Indirettamente, i poemetti delle Sylvulae (che uscivano a Napoli
nel 1536), celebravano le imprese di Carlo V fino ai fatti che seguirono nel-
l‟autunno del 1535, nel quale si ricorda un episodio centrale per la storia
cosentina del secondo quarto del XVI secolo: e cioè il momento in cui Car-
lo V, di ritorno da Tunisi, celebrava la memorabile vittoria riportata con-
tro il pirata Barbarossa42, rendendo omaggio alla città di Cosenza, dove fu
accolto con grandi onori il 7 novembre del 153543.
Le circostanze che condussero Carlo V a passare in rassegna le terre
meridionali del Regnum Italicum, passando per la Sicilia, per Cosenza e poi
per Napoli, meritano di essere, anche solo brevemente, raccontate. Esse ci
aiutano non solo a spiegare meglio la particolare posizione di favore che in-
vestì il milieu pre–telesiano nei rapporti con Carlo V e con gli ottimati na-
poletani, ma anche a gettare luce sui legami esistenti tra alcuni eventi stori-
ci di cui l‟Imperatore si rese protagonista, e una parte significativa della
produzione letteraria che prese forma, proprio in quegli anni, nel milieu
cosentino. L‟opera di Salerno ne costituisce un importante esempio, a cui
si aggiungono, negli stessi anni, un celebre poema di Bernardino Martira-
no, Il piano d’Aretusa, e molti altri componimenti letterari di cui furono au-
tori e committenti membri e clientes della cultura cosentina e napoletana.
Il conflitto franco–spagnolo si era concluso nel 1529 con la pace di Bar-
cellona, e nel 1530 con la pace di Bologna. In questa occasione, Carlo V ri-

41 Le vicende del Sacco di Roma sono evocate nel primo carme (De atrocissima Romanae
urbis direptione) del libro X delle Sylvulae.
42 Sulle imprese di Carlo V, sempre utile è lo studio di GIUSEPPE DE LEVA, Storia docu-
mentata di Carlo V, in correlazione all’Italia, vol. 2, Dalla elezione di Carlo all’impero sino alla
sua incoronazione a Bologna, vol. 3, Dalla dieta di Augusta del 1530 insino alla pace di Crespy
1544, Venezia, P. Naratovich, 1864, 1867; ma cf. anche GREGORIO ROSSO, Historia delle
cose di Napoli, sotto l’impero di Carlo V. Cominciando dall’anno 1526, per insino all’anno 1537.
Scritta per modo di Giornali, Napoli, Giovanni Domenico Montanaro, 1635; e FRANCISCI
FRANCHINI, Poemata, Romae, apud Joh. Honorium, 1554.
43 L‟episodio è ricostruito con dovizia di particolari da DOMENICO ZANGARI, L’entrata
solenne di Carlo V a Cosenza. Con due tavole di fac–simili della relazione anonima, Napoli, Ga-
spare Casella, 1940 (rist. Cosenza, Orizzonti meridionali, 2009). Cf. anche M. BORRETTI,
Il viaggio di Carlo V in Calabria (1535), Messina, Grafiche “La Sicilia”, 1939.
Parrasio in Calabria 499

stabiliva l‟antico cerimoniale dell‟incoronazione a Imperatore, che avvenne


alla presenza di Clemente VII, del Cajetanus e di molti altri. Quest‟atto
rafforzava i suoi poteri nei confronti delle Repubbliche italiane di Genova,
Siena e Lucca, restaurando di fatto l‟antico Regnum Italicum, e confermando
le pretese di dominio sui regni di Napoli, Sardegna e Sicilia, frutto delle
precedenti conquiste. Il regno di Napoli si trasformava in un “Vice–Regno”,
dando inizio ad un nuovo corso della storia del Mezzogiorno d‟Italia. Con
la pace di Bologna e la ricostituzione del Regnum Italicum, Carlo V si im-
pegnò negli anni seguenti a risistemare i suoi stati dopo dieci anni di lotte.
Era inevitabile, dunque, ch‟egli volesse rendere visita agli antichi domini
dell‟Italia meridionale con le nuove insegne imperiali. A Napoli giunse il 25
novembre 1535, di ritorno da Tunisi, risalendo dalla Sicilia, e dopo essere
passato, come si è detto, da Cosenza.
Fino al 1536 non vi furono altri conflitti. Il Viceregno visse in quegli anni
un periodo di grandi trasformazioni politiche, ma anche di una certa rifiori-
tura delle lettere e delle arti, grazie al contributo dei nuovi esponenti dell‟in-
tellettualità cosentina e napoletana, che cominciarono a riunirsi, proprio a
Napoli, nella dimora di Scipione Capece, e nella villa di Leucopetra (presso
Portici), di proprietà dei fratelli Martirano44. In quegli anni, a Leucopetra,
prendeva vita la „seconda fase‟ dell‟Accademia Cosentina. Il cenacolo di let-
terati ed eruditi che prese a riunirsi a Leucopetra riprendeva, come vedre-
mo, gli ideali umanistici e l‟ispirazione enciclopedica del Parrasio, dando al
movimento culturale iniziato da quest‟ultimo una forma e una struttura più
ampie. In primo luogo, esso si trasformava, da semplice scuola di greco e di
latino, in un vero circolo di studiosi. L‟accademia continuò, beninteso, ad
esercitare la funzione di gymnasium, di luogo di formazione e di avvio della
gioventù agli studia humanitatis – e di questo ci dà per la prima volta testimo-
nianza Giano Teseo Casopero, in una preziosa lettera indirizzata ad Antonio
Telesio45; ma l‟attività di molti componenti del circolo si concentrava, al

44 Beninteso, lo scenario dei circoli culturali a Napoli si presenta molto più variegato e

complesso. Ad esempio, la dimora di Ischia di Vittoria Colonna fu, sia pure per brevi pe-
riodi, il ritrovo di molti letterati, tra cui ricordiamo Mario Equicola (c.1470 –1525); e la
stessa Colonna frequentò a Napoli il circolo del Valdés. Sul tema, cf. CARLO DE FREDE, I
lettori di umanità nello studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli, L‟Arte Tipografica,
1960; e PASQUALE ALBERTO DE LISIO, Gli anni della svolta. Tradizione umanistica e Viceregno
nel primo Cinquecento napoletano, Napoli, Società Editrice Salernitana, 1976.
45 G.T. Casopero ad A. Telesio (da Psychron, l‟odierna Cirò), nonis Ianuarii 1533, in

JANI THESEI CASOPERI PSYCHRONAEI, Epistularum libri Duo, Venetiis, Bernardinus De Vita-
libus, 1535, f. 30v, ried. in ANTONII THYLESII CONSENTINI Carmina et Epistolae, cit., p. 58
(v. infra, Appendice III).
500 Emilio Sergio

contempo, su un comune lavoro di ricerca filologica e di composizione let-


teraria. Essa mutava la sua originaria natura, trasformandosi in un plesso cul-
turale di membri e patroni o clienti che non rivestivano più, come in passato,
il ruolo di semplici committenti dell‟educazione dei giovani di una élite, ma
diventavano essi stessi membri attivi, diretti interlocutori delle personalità
dominanti del circolo. A voler confermare l‟importanza della villa Martirano
in quegli anni, è sufficiente ricordare che, dal 22 al 24 novembre 1535, Car-
lo V fu ospite a Leucopetra, prima di fare il suo ingresso nella città di Napoli,
dove fu accolto con grandi onori46.
Molti membri dell‟intellettualità napoletana trovarono nell‟Accademia
Martirano, nel circolo di Capece e in quello del Valdés un nuovo punto di
riferimento culturale. L‟Accademia si faceva erede del patrimonio intellet-
tuale di Pontano e soprattutto del Parrasio, essendo la diretta espressione,
attraverso i suoi membri e patroni, dei primi allievi di quest‟ultimo, cioè di
Bernardino Martirano, di Francesco Franchini, di Niccolò Salerno, di Leo-
nardo Schipano, di Aulo Pirro Cicala e di Piero Ciminio. I Martirano si fece-
ro animatori di un milieu culturale che traeva ispirazione dallo studio dei
classici greci e latini. Troviamo tracce di tale „neo–classicismo‟ nei poemi e
nelle epistole di Bernardino e Coriolano, di Antonio Telesio e di molti altri
membri del circolo, come nello stile ellenico dei monumenti e delle deco-
razioni che adornavano la villa. Oggi nulla rimane di quell‟antico splendo-
re, e tuttavia traccia della bellezza architettonica e decorativa della villa è
sopravvissuta nel poema Aretusa di Bernardino Martirano, nelle Epistolae fa-
miliares di Coriolano, nei Poemata (1531) di Giano Anisio, nelle Stanze a Ber-
nardino Martirano (1540) di Luigi Tansillo, nell‟ecloga Leucopetra di Bernar-
dino Rota, nella Descrittione della città di Napoli (1617) di Giuseppe Mormi-
le47. Tra queste testimonianze, una delle più significative riguarda la descri-

46 Cf. TOBIA R. TOSCANO, Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà

del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000; e E. IMBROGNO, Un episodio di mecenatismo all’om-


bra di Carlo V: ville e raccolte d’arte dei fratelli Martirano, in Dal Viceregno a Napoli. Arti e lettere
in Calabria tra Cinque e Seicento, a cura di I. Di Majo, Napoli, Paparo, 2004, pp. 13-69.
47 B. MARTIRANO, Aretusa, in La seconda parte delle Stanze di diversi autori, a cura di An-

tonio Terminio (Vinegia, appresso Gabriel Giolito de‟ Ferrari, 1564, 15722), st. LXVI-LXIX
(ried. Il pianto d’Aretusa, a cura di T.R. Toscano, Napoli, 1993, pp. 74-79; un‟edizione di
minor pregio, a cura di P. Crupi, comprendente il poema Polifemo, è stata pubblicata per i
tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002); C. MARTIRANO, Epistolae familiares (Neapoli,
[Simonetta], 1556), VII, XXIV, XXVI, XLII; G. ANISIO, Varia Poemata et Satyrae, Neapoli, per
Ioannem Sultzbacchium, 1531; L. TANSILLO, Il Canzoniere, edito ed inedito. Secondo una copia
dell’autografo ed altri manoscritti e stampe, 2 voll., a cura di E. Pèrcopo, T.R. Toscano, Na-
poli, Liguori, 1996, II, pp. 178-181; B. ROTA, Carmina, Neapoli, apud Iosephum Cacchium,
Parrasio in Calabria 501

zione del „Ninfeo‟, ossia del luogo in cui i Martirano amavano ricevere i
loro ospiti e clientes. Come narra Pometti, ricordando la Descrittione del
Mormile,
nel mezzo della magnifica sala, s‟apriva una fonte, da dove zampillavano sottili
intrecci di acqua della sorgente; in mezzo alla fonte, su d‟un letto di conchiglie, sta
coricata una bellissima Aretusa di marmo ignuda [...]. Accanto alla statua, un
epigramma sculto nel marmo, narrava l‟amorosa istoria di Aretusa48.

La grande fontana monumentale era abbellita con dei portici e decorata


con alcune iscrizioni e suggestivi affreschi; lungo il loggiato, come una co-
rona, erano dipinti i segni dello Zodiaco; e tutto intorno esedre, nicchie e
grotte artificiali ricreavano una scenario simile a quello dei templi dell‟an-
tica Grecia49.
Gli intellettuali cosentini che presero a riunirsi a Leucopetra erano con-
sapevoli di essere in qualche modo i continuatori di un‟opera iniziata dal
Parrasio, che diventava una sorta di „padre fondatore‟ del nuovo circolo.
Questo fatto è confermato dall‟intensa opera di composizione, edizione e
collazione di scritti letterari, grammaticali e filologici che andarono in
stampa dopo il 1530. Molti di questi scritti, è inutile dirlo, richiamavano in
tutto o in parte, più o meno esplicitamente, lo stile e lo spirito del magi-
stero parrasiano.
– 1531: Bernardino Martirano pubblicava il Commento di Parrasio all‟Ars
Poetica di Orazio, curandone la prefazione, e ricordando di essere stato uno
degli allievi del grande umanista50; e il su citato poema, Il pianto d’Aretusa,
benché uscisse postumo, la prima volta, nel 1564, era stato probabilmente
composto a ridosso del soggiorno di Carlo V a Leucopetra; esso infatti
evocava le imprese militari compiute dall‟imperatore nel 153551.
– Giano Piero Ciminio attese alla realizzazione di un‟edizione dell‟Ars

1572, p. 34; G. MORMILE, Descrittione della città di Napoli e del suo amenissimo distretto, Napoli,
Tarquinio Longo per Pietro Antonio Sofia, 1617, poi Napoli, Gio. Francesco Paci, 1670, p. 71.
48 Ibid. Sul tema, cf. FRANCESCO POMETTI, “I Martirano”, Memoria della Reale Accademia

dei Lincei 293 (1896), pp. 58-187, qui p. 91; BARBARA AGOSTI, Elementi di letteratura arti-
stica calabrese del XVI secolo, Brescia, L‟obliquo, 2001, pp. 19-23.
49 Nell‟Aretusa, Bernardino evoca le quattro grandi figure che decoravano l‟ingresso del

Ninfeo: «L‟una col mondo in man guarda le stelle / E disprezza le cose inferiori: / L‟altra
al vento contrasta e alle procelle, / Tutta modesta, e il capo ha pien di fiori: / La terza
quel che è suo dona a ciascuno, / La quarta è armata, e il viso ha fiero e bruno» (st. LXIX).
50 A. JANI PARRHASII COSENTINI, In Q. Horatii Flacci artem poeticam commentaria luculentis-

sima, cura et studio Bernardini Martyrani in lucem asserta, Neapoli, Joannis Sultzbachii, 1531.
51 Cf. B. MARTIRANO, Il pianto d’Aretusa, cit., a.i.
502 Emilio Sergio

grammaticalis di Flavio Sosipatro Carisio, che fu pubblicata la prima volta


nel 1532 (poi a Basilea nel 1551)52;
– Leonardo Schipano e Aulo Pirro Cicala pubblicarono nel 1534 una
collezione di elegie e poemi, insieme ad una silloge tratta da Parrasio53.
– 1535-1537: Giano Teseo Casopero faceva pubblicare una collezione di
epistole, due raccolte di poemi, e (grazie all‟aiuto di Paolo da Montalto) la
propria biografia, che resta un documento fondamentale per la ricostruzione
della storia dell‟accademia e della trama di rapporti esistenti tra i diversi al-
lievi di Parrasio e gli eredi del magistero di quest‟ultimo54;
– nel 1556 Coriolano Martirano pubblicava una collezione di lettere dal
titolo Epistolae familiares, alcune delle quali furono concepite già tra il 1527 e il
153055;
– 1536: Niccolò Salerno dava alle stampe le succitate Sylvulae, in cui
troviamo diversi riferimenti all‟umanista cosentino56;
– Antonio Telesio, dopo la prima raccolta poetica (Poemata, 1524),
pubblicava la tragedia Imber Aureus (1529), il piccolo trattato De Coloribus
(Venetiis, 1528; Lutetiae, 1529), e una seconda serie di poesie (Araneola, &
Cicindela, in appendice al De coloribus; Cyclops & Galatea, Tiguri, ex aedibus

52 G.P. CIMINIO (ed.), Institutionum grammaticarum libri quinque a Jano Parrhasio olim inventi
ac nunc primum a J. Pierio Cymmino Jani auditore in gratiam adulescentium Consentinorum editi, Nea-
poli, ex officina J. Sultzbachii Hagenovensis Germani, 1532. Nell‟Epistola dedicatoria a Co-
riolano Martirano, leggiamo un passo che ricorda la statura intellettuale di Antonio Telesio e
la giovane età di Bernardino, chiamato per l‟occasione «Thylesinus»: «eruditissimus vir Anto-
nius Thylesius noster, qui ante cineres aeternitatis nomen est assecutus, nec non Bernardinus
Thylesinus ita pangento carmini ac orationi salutae promptus, ut Thylesii patrum alumnus
merito videatur».
53 A.J. PARRHASII, L. SCHIPANI, P. CICADAE CONSENTINORUM, Elegiae et alia Poëmata,

Neapoli, per J. Sultzbachium, 1534.


54 JANI THESEI CASOPERI PSYCHRONAEI, Epistularum libri Duo (1535), cit.; ID., Sylvarum

libri duo, eiusdem Elegiarum et Epigrammaton libri quattuor impressit (Venetiis, De Vitalibus,
1535, mense augusto; nel carme del f. 66r Casopero fa riferimento alla presenza di Salerno
a Roma, Napoli e Pavia); PAULUM A MONTEALTO SCYLLICAEUM, Jani Thesei Casoperi Psychro-
naei Vita (1535), cit. Di Casopero resta anche un‟orazione pronunciata in occasione del con-
seguimento, a Padova, del titolo di dottore in legge (Oratio Habita in Celeberrimo Collegio Pata-
vino Post examen in Pontificio et Caesareo Jure Vigesima luce Julii, Venetiis, De Vitalibus, 1537).
55 C. MARTIRANO, Epistolae familiars, cit. Secondo F. POMETTI (op. cit., p. 58), almeno

metà delle epistole risalgono al periodo trascorso tra Napoli e Roma, dal 1530 al 1545. Per
una ricostruzione cronologica delle lettere, cf. le osservazioni di ANTONIO PAGANO (Antonio
Telesio, Nicotera, Istituto Editoriale Calabrese, 19352, a.i.) e quelle, più recenti, di C. FANEL-
LI, “Studia humanitatis e teatro prima di Telesio, tra Cosenza e l‟Europa”, cit., pp. 125-137.
56 NICOLAI SALERNI COSENTINI, op. cit. L‟opera contiene anche quattro epigrammi in

lode del Salerno, composti da Giovan Battista Inglisio, Leonardo Schipano, Giovan Paolo
Cesario e Fabrizio Luna.
Parrasio in Calabria 503

Christophori Froschouer, 1531, in appendice alla riedizione dell‟Imber Au-


reus). Non sappiamo quando compose l‟ode in memoria di Parrasio (De obi-
to Auli Iani Parrhasii)57; ma attraverso l‟elenco delle poesie contenute nella
prima edizione dei Poemata, è evidente che essa fu redatta dopo il 1523.
Degli anni trascorsi a Napoli rimangono le lettere scambiate con Casopero,
che confermano l‟esistenza di un fermento culturale nella villa di Portici58.
Com‟è facile immaginare, Bernardino Telesio fu diretto testimone e at-
tento spettatore di questo fermento culturale, almeno fino al momento del
suo presunto ritorno a Cosenza, e cioè – verosilmente – tra la fine del 1533
e gli inizi del 1534 (v. infra). Egli potè beneficiare di un‟ampia formazione,
fondata sull‟amore per i classici e su un approccio enciclopedico all‟eredità cul-
turale degli autori antichi.

Sulle tracce dei Telesio

Prima di soffermarsi sulle date e sulle circostanze del presunto trasferi-


mento dei Telesio a Napoli, agli inizi del terzo decennio del XVI secolo,
bisogna risalire al 1529, data che segna il ritorno dei Telesio a Cosenza, da
Venezia. Sul presunto rientro di Bernardino in Calabria non si hanno, al
momento, prove documentali. E tuttavia, se si sposa l‟ipotesi che Bernar-
dino abbia seguito lo zio Antonio negli anni successivi al soggiorno veneto
(più sotto spiegheremo perché quest‟ultima ipotesi sia preferibile a quella,
discutibile, di una permanenza di Bernardino a Padova), gli spostamenti del
filosofo possono essere suffragati sulla scorta della documentabilità dell‟itine-
rario dello zio Antonio.
Le circostanze relative al rientro e alla temporanea permanenza di Anto-
nio Telesio in Calabria sono testimoniate da un carteggio di quest‟ultimo con
Benedetto Ramberti (1503–1547) da una parte, e con Giano Casopero dal-
l‟altra. In una lettera al Ramberti del 25 novembre 1529, Antonio racconta
all‟amico le avventurose circostanze del suo ritorno in patria. Avendo scelto
la via del mare, la nave fu obbligata ad effettuare una sosta a Ragusa. Le dif-
ficili condizioni climatiche resero ardua la navigazione, e Antonio ricorda che
solo per una serie di fortunose circostanze la nave riuscì a raggiungere le
coste dell‟Alto Jonio, facendo scalo nella cittadina di Rossano Calabro59. An-

57 A. THYLESII CONSENTINI Opera, cit., pp. 110-112 (v. infra, Appendice II).
58 A. THYLESII CONSENTINI Carmina et Epistulae, cit., pp. 55-58 (v. infra, Appendice III).
Nel 1540 uscivano i commenti parrasiani e telesiani ai carmi oraziani (v. supra, nota 8).
59 A. THYLESII CONSENTINI Carmina et epistolae, cit., pp. 40-45 (v. infra, Appendice IV).
504 Emilio Sergio

tonio non fa cenno alla presenza del nipote in questo viaggio: e tuttavia è
plausibile che, dopo un‟assenza di circa tredici anni, lo stesso Bernardino,
ormai ventenne, volesse fare ritorno in patria insieme allo zio. A ciò si ag-
giunge un particolare di minore importanza, ma rilevante ai fini della bio-
grafia telesiana: nel 1531 si spegneva a Cosenza il padre di Bernardino, quel
Giovan Battista Telesio che circa vent‟anni prima aveva affidato il suo pri-
mogenito alle cure dello zio Antonio. Sulle circostanze della sua morte non
si hanno notizie, ma non è escluso che già nell‟autunno del 1529 le condi-
zioni di salute del nobile cosentino si fossero aggravate.
Il 1529 è una data cruciale, e le circostanze anteriori al rientro dei Tele-
sio in Calabria meritano di essere velocemente ricordate. Esse rimontano
agli ultimi mesi della loro permanenza a Roma, nella primavera del 1527.
Quell‟anno fu una data funesta per lo Studium urbis: Roma fu presa d‟as-
salto e saccheggiata dalle truppe di Carlo V. Trattandosi di una vicenda cru-
ciale della storia europea, connessa in modo significativo alla biografia tele-
siana, ci permettiamo di ricordarne i punti salienti.
La prima fase del conflitto franco–spagnolo si risolse, come si è detto, in
favore di Carlo V, con la vittoria di Pavia (feb. 1525). In quella occasione,
Francesco I fu fatto prigioniero, restando per un anno nelle mani degli Spa-
gnoli, a Madrid. Nel 1526 Carlo V concesse la libertà al monarca francese, in
cambio della rinunzia ai suoi domini in Italia. Francesco I accettò, ma, una
volta libero, ripudiò il trattato, reclamandone la invalidità, essendogli stato
imposto nella condizione di prigioniero. La guerra si riaccese, e questa volta
Carlo V ebbe come avversarie anche la maggior parte delle repubbliche ita-
liane, alleate di Francesco I, a cui si era legato nel frattempo anche Clemente
VII. Quest‟ultimo, patrono di Antonio Telesio (del quale, come si è detto,
promosse con favore la pubblicazione dei Poemata), nel 1523 aveva avuto il
sostegno di Carlo V per raggiungere il soglio pontificio. Ragioni di opportu-
nità politica lo avevano poi spinto ad allearsi con Francesco I. Gli stati italiani
reclamavano allora una maggiore indipendenza dal giogo spagnolo, e France-
sco I fu abile stratega nell‟intercettarne gli umori.
Il secondo conflitto si aprì con alcuni successi della lega franco–italica,
ma nel 1527 la situazione cambiò repentinamente: a Roma fu suscitata una
insurrezione da Pompeo Colonna, mentre dalla Germania calarono in Italia
le milizie mercenarie guidate da Georg Frundsberg. I Tedeschi si unirono
alle truppe spagnole e italiane guidate dal duca di Borbone, e nel maggio
dello stesso anno piombarono su Roma, che fu in breve saccheggiata60.

60 Cf. KENNETH GOUWENS, Remembering the Renaissance. Humanist Narratives of the Sack of
Parrasio in Calabria 505

I biografi dei Telesio ricordano il cosiddetto “Sacco di Roma” come il


momento in cui i destini di zio Antonio e del giovane Bernardino si separa-
rono: Antonio si dette alla fuga, riparando nella Repubblica Veneta, men-
tre Bernardino fu catturato dalle milizie di Carlo V e messo in prigione; ed
è solo grazie all‟intervento dei Martirano che, nell‟estate del 1527, egli
riuscì a riottenere la libertà61. Si è molto romanzato sulla opportunità della
fuga di Antonio, che di fatto lasciò il nipote in balìa degli eventi. Non sap-
piamo molto sulle reali circostanze che spinsero Antonio ad una precipitosa
fuga; si può ipotizzare che gli stretti legami intrattenuti con Clemente VII e
con la corte papale (in particolare con Matteo Giberti, 1495–1543, prono-
tario apostolico) avessero messo a grave rischio la sua vita; in ogni caso il
giovane Bernardino non dovette interpretare la fuga di zio Antonio come
un colpevole abbandono, allorché subito dopo il suo rilascio non perse
tempo nel raggiungerlo62.
Dalle scarne notizie sul soggiorno dei Telesio nella Repubblica Veneta
sappiamo che Antonio ottenne a Venezia l‟incarico di lettore di umanità
dal Consiglio dei Dieci, cominciando il suo corso di lezioni il 17 ottobre
152763. Su questo soggiorno si è addensata un‟altra vexata quaestio della bio-

Rome, Leiden, Brill, 1998; ID., SHERYL E. REISS (eds.), The Pontificate of Clement VII. History,
Politics, Culture, Aldershot, Ashgate, 2005. Per una ricostruzione degli eventi, cf. anche G.
DE LEVA, op. cit. Per un quadro più esauriente sulle condizioni dello Studium durante il pon-
tificato di Leone X e di Clemente VII, cf. EMANUELE CONTE (ed.), I maestri della Sapienza di
Roma dal 1514 al 1787: i rotuli e altre fonti, 2 voll., Roma, Istituto storico italiano per il Medio
Evo, 1991; PAOLO CHERUBINI (ed.), Roma e lo Studium Urbis: spazio urbano e cultura dal
Quattro al Seicento, 2 voll., Roma, Quasar, 1989, Ministero per i Beni culturali e ambientali,
Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1992; LIDIA CAPO, MARIA ROSA DE SIMONE (eds.),
Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza”, Roma, Viella, 2000.
61 L‟episodio è ricostruito con dovizia di particolari da LUIGI DE FRANCO, Introduzione a

Bernardino Telesio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, pp. 17-18 e 80-81.


62 Gli studiosi si sono concentrati su una celebre espressione di PAOLO GIOVIO, che

nell‟Elogium virorum illustrium (Basileae, Petri Pernae, 1577, p. 204) descrive la fuga di An-
tonio con l‟espressione «effugit cladem» (i.e. sfuggì alla strage). Insieme a F. BARTELLI (op.
cit., pp. 19-21), A. PAGANO (op. cit., pp. 15-17) ritiene che Antonio riuscì a sfuggire alla
furia delle milizie del Frundsberg, non essendo riuscito né a riparare in Castel S. Angelo,
né a portare con sé Bernardino, che cadde perciò in mano al nemico. F. DANIELE (op. cit.,
1762, p. XV) e STANISLAO DE CHIARA (“Antonio Telesio. Appunti”, Giornale Napoletano di
Filosofia e Lettere, Scienze morali e politiche 3 (1881) 13, pp. 1-13) interpretano l‟«effugit»
con «scappò», ma questo non cambia, a mio avviso, la sostanza degli eventi.
63 F. DANIELE, op. cit., 1762, p. XV; A. PAGANO, op. cit., p. 17. Quest‟ultimo cita co-

me fonte i Diarii (Venezia, Tip. Visentini, 1897, t. 46) di MARINO SANUDO. Sempre a Ve-
nezia, Antonio pubblicò due opere fondamentali della sua carriera: il De Coloribus (Ve-
netiis, Bernardini Vitalis, mense Iunio 1528) e l‟Imber Aureus (idem, mense Maio 1529).
506 Emilio Sergio

grafia telesiana: e cioè se il giovane Bernardino ebbe la ventura di seguire le


lezioni dei maestri dell‟aristotelismo padovano. Nel suo ultimo scritto sulla
vita e l‟opera di Bernardino Telesio (1995), Luigi De Franco ha chiarito
che, seppure Bernardino ebbe occasione, nel 1527–29, di avvicinarsi, a Pa-
dova, allo studio della filosofia aristotelica, non lo fece quasi certamente da
studente regolare, poiché nel registro delle immatricolazioni dell‟Universi-
tà di Padova non v‟è traccia del suo nome, né come scholarus, né come doc-
tor64. Ciò non impedisce di pensare che Bernardino abbia assimilato qualcosa

64 ELDA MARTELLOZZO FORIN (ed.), Acta graduum academicorum ab anno 1526 ad annum

1537, Padova, Antenore, 1970 (Istituto per la Storia dell‟Università di Padova). Cf. L. DE
FRANCO, op. cit., pp. 18-22. Le fonti da cui sarebbe nata l‟ipotesi dell‟iscrizione di Bernar-
dino all‟università di Padova e del conseguimento del titolo di dottore sono, nell‟ordine:
GIOVANNI IMPERIALE, Musaeum historicun et physicum Ioannis Imperialis Phil:[osophi] et Med:[ici]
Vicentini, Venetiis, apud Juntas, 1640, p. 79; NICOLAI COMNENI PAPADOPOLI Historia Gym-
nasii Patavini, Venetiis, apud Sebastianum Coleti, 1726, vol. I, p. 248; IO. GEORGII LOT-
TERI De Vita et Philosophia Bernardini Telesii Commentarius, Lipsiae, apud Bernard. Christ.
Breitkopfium, 17332, pp. 11 e 13. Il Papadopoli, da cui trassero notizia il Lotter e la mag-
gior parte dei biografi posteriori (fino a Fiorentino), affermava che Bernardino avesse con-
seguito nel 1535 il titolo di doctor; una notizia che è smentita sia dalla vicenda biografica di
Antonio Telesio (quest‟ultimo, come si è visto, partì da Venezia alla volta di Cosenza nel
1529, ed è impensabile che non portasse con sé Bernardino); sia dalla fattiva presenza di
Bernardino a Napoli, a partire dalla fine del 1531, come risulta da un breve di Clemente
VII a Pirro de Mendoza, vicerè di Calabria, del 6 novembre 1531, in cui Bernardino è rac-
comandato per affari che dovrà volgere a Napoli (F. RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria,
vol. III, Roma, Gesualdi, 1974, doc. 17024, p. 405).
Secondo De Franco, il caso di Bernardino Telesio non può essere associato a quello di
Giovan Battista Amico (1501–1537), l‟astronomo cosentino autore di una celebre rivisi-
tazione della teoria eudosseo–aristotelica delle sfere omocentriche (De motibus corporum coe-
lestium iuxta propria principia peripatetica sine eccentris et epyciclis, edita per la prima volta a
Venezia nel 1536), generalmente ricordato, insieme a Bernardino, come uno degli allievi
di Federico Delfino (1477–1547), lettore di matematiche a Padova dal 1520 al 1540. Be-
ninteso, sullo stesso Amico la documentazione dell‟Università di Padova risulta lacunosa.
De Franco ricorda che la presenza di Amico a Padova in qualità di discepolo di Delfino è
desunta dall‟epistola dedicatoria al cardinale Nicola Ridolfi, contenuta nel De motibus corpo-
rum coelestium, ma non dai registri ufficiali dell‟università. De Franco aggiunge che, a dif-
ferenza di Amico, il quale ricorda nel De motibus il magistero di Delfino, nell‟opera di Ber-
nardino (a partire da uno dei rari brani autobiografici del filosofo, come il Prooemium alla
prima edizione del De natura) non v‟è alcuna menzione né di maestri padovani né di un pe-
riodo di formazione trascorso a Padova. Certo si tratta di un silenzio che non smentisce il
carattere schivo e prudente di Bernardino, che potrebbe anche avere avuto interesse a non
dare eccessivo clamore ai suoi trascorsi nell‟ambiente patavino. Sul rapporto tra Amico e
Delfino, cf. C. BIANCA, “Delfino, Federico”, DBI, vol. 36 (1988), pp. 552-554; MARIO DI
BONO, Giovan Battista Amico e la teoria delle sfere omocentriche, Genova, CNR, 1990.
Sento di dover rendere giustizia ad un biografo di Telesio, VINCENZO M. EGIDI, il quale,
già nel 1964, in un rendiconto dal titolo “Bernardino Telesio e la sua famiglia nei docu-
Parrasio in Calabria 507

della temperie culturale dello Studium di Padova, anche attraverso episodi-


che frequentazioni nel periodo considerato; e ciò non tanto per la ovvia
presenza, già nella prima edizione del De natura (1565), delle problemati-
che tipiche dell‟aristotelismo padovano65; ma piuttosto perché, di un pre-
sunto soggiorno di Antonio Telesio a Padova parla indirettamente uno dei cor-
rispondenti di quest‟ultimo, e cioè Coriolano Martirano66.
Per quanto concerne il rapporto ideale esistente fra l‟opera di Bernar-
dino e le fonti dell‟aristotelismo padovano, non sarà inutile ricordare che,
proprio perché l‟università di Padova vantava al tempo le migliori cattedre
di filosofia, di matematica e di medicina, le idee prodotte in quel parti-
colare humus culturale non tardarono a diffondersi in tutta la cultura eu-
ropea. In questo senso, i testi della scuola padovana possono essere pas-
sati dallo scrittorio del Telesio già negli anni precedenti, a Roma, e poi
durante il suo soggiorno romano degli anni 1540. È cosa nota che durante
la prima metà del Cinquecento, lo Studium Urbis fu meta di molti studiosi
provenienti da Padova, per formazione o per incarichi ricevuti. Il caso
più eloquente è quello di Agostino Nifo: il filosofo di Sessa, della stessa
età del Parrasio (nacque nel 1469/70, morì intorno al 1538), trascorse il
suo primo decennio da cattedratico nella celebre università, dal 1490 al
1499, proprio negli anni in cui vi insegnava Pietro Pomponazzi. In seguito
aveva peregrinato per alcune città del Mezzogiorno d‟Italia (1500–1510,
Napoli e Salerno; 1511–1513, Napoli), per poi giungere nello Studium roma-
no nel 1514, e ricoprire la cattedra di filosofia negli stessi anni in cui Parrasio
teneva quella di eloquenza (1514–1518)67. Beninteso, Nifo non è l‟unico

menti degli archivi cosentini”, edito negli Atti del 3° Congresso Storico Calabrese (Napoli, Fau-
sto Fiorentino, 1964, pp. 576-581), aveva sollevato il problema della mancanza di prove
documentali circa il soggiorno di Bernardino a Padova.
65 Di tale argomento mi occuperò più estesamente nella terza parte del nostro contri-

buto, sul numero 26 (2010) di questo Bollettino. Mi limito solo a ricordare che dagli Acta
graduum academicorum dell‟Università di Padova risulta che Vincenzo Maggi, il filosofo
aristotelico a cui Bernardino sottopose nel 1563 le bozze del De Natura, conseguiva il titolo
di doctor il 2 dicembre 1528; è dunque probabile, come ammette lo stesso L. DE FRANCO
(op. cit., p. 34), che in quella circostanza «[Maggi] fosse stato lì conosciuto da Telesio, negli
anni della sua permanenza a Venezia assieme allo zio Antonio».
66 C. MARTIRANO, op. cit., epist. XXXIII e XXXIV, ried. in A. THYLESII CONSENTINI Opera,

cit., pp. 235 e 236-237. Le epistole di Coriolano non recano una data: ma è probabile che
siano state composte intorno tra il 1528 e il 1529.
67 Dopo un periodo trascorso nello Studium pisano (1519-1522) e a Salerno (1523-1531),

Nifo tornò a ricoprire un incarico nella città di Napoli, dal 1531 al 1532, negli stessi anni in
cui a Napoli prendeva vita la „seconda fase‟ dell‟Accademia Cosentina. Su Nifo, cf. CHARLES
H. LOHR, “Renaissance Latin Aristotle Commentaries, Authors N-Ph”, Renaissance Quarterly
508 Emilio Sergio

propagatore della filosofia aristotelica negli atenei dell‟Italia meridionale; un


caso altrettanto celebre è quello del Cajetanus, il quale, anche quando rice-
vette gli incarichi ecclesiastici che ne fecero una delle personalità più in-
fluenti della corte papale, tenne sempre in grande considerazione l‟eredi-
tà dell‟aristotelismo tomista68.

Aspettando il filosofo

Come abbiamo detto, il 1529 segna la data del rientro dei Telesio in Ca-
labria. Durante la sua permanenza a Cosenza, Antonio verrà in contatto epi-
stolare con Casopero e probabilmente conobbe anche il suo maestro, Nicola
Salerno. Non è possibile sapere con certezza quali degli intellettuali cosentini
e calabresi si trovassero in patria nel 1529. Quel che è certo è che Antonio,
dopo aver trascorso almeno un anno a Cosenza, tra la fine di ottobre del
1530 e gli inizi di dicembre del 1531, si trasferiva a Napoli. Il giovane Ber-
nardino – se stiamo all‟ipotesi che quest‟ultimo segua lo zio nel suo peregri-
nare fino all‟anno della sua morte69 – lo raggiunse probabilmente a Napoli,

32 (1979), pp. 532-539; EDWARD P. MAHONEY, Two Aristotelians of the Italian Renaissance: Ni-
coletto Vernia and Agostino Nifo, Aldershot, Ashgate, 2000; ENNIO DE BELLIS, Bibliografia di Ago-
stino Nifo, Firenze, Leo S. Olschki, 2005; GIOVANNI PAPULI, “Il primo insegnamento napole-
tano del Nifo: una monarchia filosofica”, in Studi in onore di Corrado Dollo, a cura di G. Benti-
vegna, S. Burgio, G. Magnano San Lio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 699-732;
nonché CARLO DE FREDE, Docenti di filosofia e medicina nella università di Napoli dal secolo XV al
XVI, Napoli, Litografia editrice “A. De Frede”, 2001, pp. 58-62.
68 Si tenga conto che, come è stato unanimemente rilevato dai più recenti studiosi di

Telesio, l‟aristotelismo da cui Bernardino trasse linfa fu specialmente quello, studiato anche a
Padova, della scuola di Alessandro d‟Afrodisia. Cf. MARTIN MULSOW, Fruhneuzeitliche Selb-
sterhaltung: Telesio und die Naturphilosophie der Renaissance, Tübingen, Niemeyer, 1998; HIRO
HIRAI, “Il calore cosmico di Telesio fra il De generatione animalium di Aristotele e il De carnibus
di Ippocrate”, in Thylesius redivivus, cit., in corso di stampa; GUIDO GIGLIONI, La filosofia
naturale di B. Telesio, in La filosofia del Rinascimento, a cura di G. Ernst, Roma, Carocci, 2003,
pp. 253-265; dello stesso autore cf. il saggio sulla medicina telesiana in uscita sul fasc. 16/1
(2010) di Bruniana & Campanelliana; e la conferenza tenuta il 26 febbraio 2010 presso la Sala
degli Specchi della Provincia di Cosenza, nell‟ambito delle Celebrazioni del V Centenario del-
la nascita di B. Telesio, presiedute da Nuccio Ordine e Roberto Bondì (di quest‟ultimo, si ve-
da la conferenza “Naturalismo e religione in Bernardino Telesio”, tenuta il 10 febbraio nella
stessa sede); infine, di ALESSANDRO OTTAVIANI, oltre all‟apparato bibliografico della recente
edizione del De Natura 1565 (Torino, Aragno, 2006), si veda la conferenza dal titolo “Nel
cantiere di Bernardino Telesio: dal De rerum natura al milieu cosentino”, tenuta il 9 marzo
2010 nella stessa sede (le conferenze sono disponibili sul sito www.telesio.eu).
69 Il teologo GIOVANNI ANTONIO PANTUSA (?-1562), autore di un commento ai primi

12 libri della Metafisica di Aristotele (Quaestiones super XII libros Metaphysicae, Romae, Asca-
Parrasio in Calabria 509

verso la fine del 153170. A Napoli i due rimasero almeno fino alla fine del
1533 o agli inizi del 1534 (Antonio morì, come si è detto, nel 1534, e certa-
mente tornò a Cosenza, con Bernardino al seguito, prima della sua morte).
Proprio in quegli anni, a Napoli, aveva inizio la „seconda fase‟ dell‟Accade-
mia Cosentina.
(continua)

Abstract
The main subject of this essay is to show the intellectual framework where Parrasio‟s
teachings were transmitted. The foundation of the Accademia Cosentina was the first
stage for the dissemination of Parrasio‟s scholarship in Southern Italy. After Parrasio‟s
death, many of the early members of Parrhasian Academy became the authors of a cul-
tural renewal in the various fields of learning. The main sources of this legacy were
rooted in Parrasio‟s scientific Humanism and Antonio Telesio‟s poetical naturalism, of
which both the „treasures‟ of their libraries and the clues of their biographies remain
the best testimony.

relli, 1524; un‟opera che meriterebbe uno studio comparativo con l‟opus telesiano), dà no-
tizia della morte di Antonio nell‟epistola dedicatoria a Pietro Antonio Sanseverino, princi-
pe di Bisignano (Kalendis Junis 1534) del suo Liber De Coena Domini (Romae, Bladum de
Asola, 1534, p. [3]): «E quibus [Consentinis] (ne omnes recenseamus) nostra aetas Parrhasium
in primis est admirata, tum rerum gravitate tum dicendi copia nemini suae aetatis inferio-
rem, & ex oculis nostris nuper ablatum Thylesium, & carmine & oratione insignem ac ne-
mini secundum, & utrumque in utraque lingua praestantem, qui ambo immatura morte in-
tercepti». Cf. F. DANIELE, op. cit., 1762, pp. XXVI-XXVII. Su Pantusa, cf. D.M. CATARZI, “Il
Cosentino G.A. Pantusa, canonista del XVI secolo”, Calabria Nobilissima 21 (1958) 35, pp. 41-58.
70 Le date del possibile trasferimento di Antonio a Napoli si evincono dal carteggio con

Ramberti (Consentiae, XII febr. 1530; Neapoli, XII dec. 1531) e da una epistola ad Andrea
Franciscio [?] (Consentiae, XIII kal. oct. 1530). Ed è intorno al dicembre del 1531 (non pri-
ma, come si è visto, v. supra, nota 64) che si deve far risalire il trasferimento di Bernardino
a Napoli. Cf. anche L. DE FRANCO, op. cit., pp. 22-23.
510 Emilio Sergio

Appendice I
Estratti dal catalogo dei libri pubblicati dal 1521 al 1527
dallo stampatore pontificio Francesco Minizio Calvo*

ALEXANDRI IURISCONS. NEAPOLITANI Dissertationes quatuor de rebus admirandis, quae in


Italia nuper contigere, id est, De somniis ... De umbrarum figuris & falsis imaginibus. De il-
lusionibus malorum daemonum [Romae, ca. 1524]
CLEMENS VII Monitorium S.D.N. Clementis VII et Sacri Consistorii reveren. card. contra
Pomp. card. de Columna [Romae, ca. 1526]†
ERASMI ROTERODAMI THEOLOGI Obsecratio ad Virginem Matrem Mariam in rebus aduersis
[Romae, ca. 1524]
ERASMI ROTERODAMI Precatio dominica in septem portiones distributa, Romae, mense
Februario 1524
GALEAZZO FLAVIO CAPELLA MILANESE, Della eccellenza et dignita delle donne [Roma,
1525]
CLAUDIUS GALENUS Galeni Ars medicinalis per Ioannem Manardum versa, divinisque com-
mentariolis adeo docte illustrata, ut clariss. Leonicenus, omnesque alii superiores interpretes, in-
scitiae plane convicti sint, Romae, 1525
HIPPOCRATES, Octoginta volumina, quibus maxima ex parte annorum circiter duo millia
Latina caruit lingua, Graeci vero, Arabes & prisci nostri medici ... scripta sua illustrarunt, nunc
tandem per M. Fabium Calvum Rhavennatem ... doctissimum latinitate donata, Clementi VII
pont. Max. dicata, ac nunc primum in lucem aedita, quo nihil humano generi salubris fieri po-
tuit, Romae, 1525
NICCOLÒ LIBURNIO, De copia et varietate facundiae Latinae. Nicolai Liburnii opus elo-
quentiae studiosis perutile [Romae, 1524]
PAULI IOVII NOVOCOMENSIS MEDICI, De Romanis piscibus libellus ad Ludovicum Borbonium
cardinalem amplissimum, Romae, 1524 mense Augusto (contiene: Antiqua et recentiora
nomina piscium marinorum, locustrium, et fluviatilium, quae in Iovii commentariis continentur)
PAULI IOVII NOVOCOMENSIS MEDICI De piscibus marinis, lacustribus, fluviatilibus, item de
testaceis ac salsamentis liber, Romae, 1527 mense Aprili
SILVESTRUM LUCARELLUM CAMERTEM, Prognosticon anni MDXXIIII quo opiniones pseudo
astrologorum diluvium & siccitatem praesentis anni falso praedicentium improbantur ... per exi-
mium virum syderalis scientiae professorem Silvestrum Lucarellum Camertem [Romae, ca. 1524]
NICCOLÒ MACHIAVELLI, Comedia facetissima intitolata Mandragola et recitata in Firenze
[Roma, ca. 1524]
PLUTARCHI CHAERONEI Libellus de avaritia, per eximium Richardum Pacaeum invictiss.
Regis Angliae oratorem elegantissime versus [Romae, 1522]
PLUTARCHI CHERONEI Amatoriae narrationes, Angelo Politiano interprete, Romae, ca. 1524

* Cf. FRANCESCO BARBERI, Le edizioni romane di Francesco Minizio Calvo, in Miscellanea di scritti

di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze, Olschki, 1952, pp. 57-98; IDEM,
Tipografi Romani del Cinquecento: Guillery, Ginnasio Mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, Firenze,
Olschki, 1983; FERNANDA ASCARELLI, Le cinquecentine romane. Censimento delle edizioni romane
del XVI secolo possedute dalle biblioteche di Roma, Milano, Etimar, 1972.
† L‟elenco contiene diverse bolle apostoliche di Clemente VII e della Santa Sede.
Parrasio in Calabria 511

PLUTARCHI CHAERONEI Disceptatio num recte dictum sit làthe biòsas, id est, sic vive, ut
nemo te sentiat vixisse, Romae, ca. 1524
PLUTARCHUS CHAERONEUS De curiositate. Idem de nugacitate. Interprete Ioanne Lau-
rentio Veneto, Romae, 1524 mense Aprili
PLUTARCHI CHAERONENSIS Historici ac philosophi clarissimi Problemata [interprete Wil-
libald Pirckheimer], Romae, 1524 mense Maio
PLUTARCHI CHAERONEI De vitanda usura libellus aureus, interprete Bilibaldo Pirchimerio
patritio Nurenbergensi, Romae, ca. 1525
ANGELI POLITIANI Oratio pro oratoribus Senensium ad Alexandrum sextum pont. max. in
qua de summa pontificis potestate cum eloquenter, tum erudite agitur. Iasonis Mayni iuriscon-
sulti oratio coram eodem Alex. VI pont. max. habita pro obedientia illustriss. ducis Mediolanen-
sium ubi describitur situs Hispaniarum [Romae, non prima del 1521]
ANGELI POLITIANI Praelectio in priora Aristotelis analytica, titulus Lamia, ubi non sine fa-
bellis amoeniss. saluberrimisque, humanae vitae caecos errores, & labyrinthos aperit, lectorem ad
divina sapientiae studia mire instituens, atque acriter impellens, Romae, 1524 mense Aprili
GIOVANNI GIOVIANO PONTANO Contractus venditionis: antiquis Romanorum temporibus
initus, ex membranis mirae vetustatis nunc primum typis chalcographis descriptus [Romae, n.d.]
TROILUS SABINUS Oratio de laudibus scientiarum, habita in templo divi Eustachii, Romae in
festo divi Lucae, Romae, ca. 1526
TROILUS SABINUS Praelectio in P. Virgilii Maronis Georgica, quae laudes complectitur rei
rusticae, Romae, 1526
MARIO SALOMONIO DEGLI ALBERTESCHI Commentarioli in librum primum Pandectarum
iu. civi. in quibus pulcherrimae adnotationes, & inter coetera, Verus & hactenus non perceptus
sensus. l. I. de Iust. & Iure. Tractatus de bono & aequo ab aliis non explicatus ... Tractatus de
voluntario & involuntario ..., Romae, 1525
ACTIJ SYNCERI SANNAZARIJ De partu Virginis. Lamentatio de morte Christi. Piscatoria,
Romae, 1526 mense Decembri
ANTONII THYLESII CONSENTINI Epistola ad Alexandrum Cacciam Florentinum amicum
optimum, suauissimumque de publica omnium laetitia ob Iulii Medicei, nunc Clementis VII, pon-
tificatum maximum felicissimumque, Romae, 1523
ANTONII THYLESII CONSENTINI Poemata. Cyclops. Reticulum. Hortulus. Galatea. Lucerna.
Tibia. Nautarum labor. Parma. Turris de coelo percussa. Aeneas. Nenia de obitu patris, Ro-
mae, 1524 mense Maio
ANTONII THYLESII CONSENTINI De coronis libellus, Romae, mense Februario 1525
ANTONII THYLESII CONSENTINI In odas Horatii Flacci Auspicia ad iuventutem Romanam,
Romae, ca. 1527
MAXIMILIANI TRANSYLVANI Caesaris a secretis Epistola de admirabili & novissima Hispa-
norum in Orientem navigatione, qua varie, & nulli prius accessae regiones inventae sunt, cum
ipsis etiam Moluccis insulis beatissimis, optimo aromatum genere refertis. Inauditi quoque incolar
mares exponuntur, ac multa quae Herodotus, Plinius, Solinus atque alii tradiderunt fabulosa esse
arguunt. Contra, nonnulla ibidem vera, vix tamen credibilis explicant quibuscum historiis insu-
laribus ambitus describit alterius hemisphaerii, unde ad nos tandem Hispani redierunt incolumes,
Romae, 1523 mense Novembri
PYRRHI ZEPHYRII Epistola ad reverendissimum & amplissimum cardinalem Pompeium Co-
lumnam S.R.E. vicecancellarium de Achmato novo sultano [Romae, 1524]
512 Emilio Sergio

Appendice II
Un‟ode di Antonio Telesio in memoria di Aulo Giano Parrasio
(De obitu Auli Jani Parrhasii)*

Quis situs hic? situs hic? non est, inimica Minervae


Impia cur sacro texat opus lapide.
Conditus hoc inquam tumulo? vel quis jacet? Aulus.
Numquid amata Deae tibia Cecropiae?
Ferali extinctos solita est quae efferre querela,
Num silet? inque vicem nunc tegit alta silex?
Memnonio resonat magis haec quin Mausoleo.
Non tamen artificis tibia facta manu est.
Qualis es hospes; ego vel qualis, amica choreis
Musarum haec spirans Tibia talis erat.
Nec jucunda magis fuit alitis illa puellae
Tergeminae, illectas sistere blanda rates.
Jamque latina fuit Siren; insignia Graji
Rhetoris hoc hospes sunt quoque digna viro.
Audita Eridani prope flumina, dixit & amnis,
Non mutatus olor dulcius ore canit,
Dum Phaethontaeos querulis moribundus amores
Vocibus, atque suos ingemit interitus.
Tibris & obstupuit doctae modulamine vocis,
Assonuit ripis haec quoque, Tibri, tuis;
Fassus & huic uni es veteres cessisse Quirites,
Dum Latiis sonat hic dulce magis Latium.
Attice ut Attaea magis urbe locutus, & ipsa est
Hospes divino dictus ab eloquio.
Unde superbit aquis tumefactus Crathis alumno,
Piscosis colles Crathis oliviferos
Fluctibus allabens pulcherrimus, arva fovensque
Pinguia, pampineas suspiciensque comas,
Quaeque cruenta gerit ramis frondentibus arbor,
Lapsaque collectis poma cadunt foliis.
Qui nunc auricomans tristis caput occulit undis,
Auget & insolitis fletibus amnis aquas.
Qua vetus aucta viris septem se montibus effert
Aemula Romanis montibus, & Libycis,
Dives opum, Calabrûmque decus Consentia, nati
Funera, quae rapti moeret acerba parens.
Plurima ubi manant gelidis resonantia Tempe
Fontibus, herbosa rupe viretque domus,

* In ANTONII THYLESII CONSENTINI Opera, cit., pp. 110-112.


Parrasio in Calabria 513

Aonidum domus, hanc permutat saepe relicto


Fonte Aganippaeo Pieris alma domum:
Unde miser migrans vastam modo Ditis in aulam,
Non potes, ut redeas, Jane, aperire fores;
Eumenidasque truces, canis & portenta, Chimaeras,
Pestis Echidnaeae sibila mille paves.
Te tamen inde fugax rapiet, nec Fama sepultum
Centena resonans garrula voce sinet.
Cumque aliis, procul illa licet, vetus audiet ora,
Gens tua, nec tacitum deseret Arcadia;
Multus at umbriferis calamo cantabere silvis,
Oreque, namque tuum callet utrumque genus,
Annuaque ad tumulum solemnia dicere vates
Thyrsis erit, Corydon, & Meliboeus erit:
Ibis & astra nitens inter fulgentia, non qua
Sol venit, Hesperias vel cadit inter aquas,
Vel latet alter ubi dejectus, & abditus infra
Tartara, luminibus invidet astra polus;
Sed quos sublimis rotat ignes concitus axis,
Vertice quae summo sidera clara micant,
Nec lavat unda maris, vasto sed in aequore certos
Semper agunt nautas lucida per tenebras.
Illic te cognata Lycaonis accipiet lux,
Nec modo caelesti fulget honore fides;
Tibia sed veniens augebit lumina Caeli
Nocturni, gnarus suspicietque Conon,
Miratusque novum decus accessisse, quid ipsa
Nascuntur sacro sidera conjugio?
Quodque novo exoritur sidus magis enitet aevo?
Dicet. Sed felix, haec satis, hospes abi.

Appendice III
Un‟epistola di Giano Teseo Casopero ad Antonio Telesio†

Miraris fortasse, mi Thylesi, cur praeter expectationem tuam, atque etiam meam
Neapoli tam subita profectione decesserim, nec tibi saltem nunciaverim. Deos testor,
atque amicitiam nostram, nequaquam fuisse mihi animum discedendi, nisi te salutato,
ut decebat; atque prius tibi consiliis de abitu communicatis. Sed audi. Quum ad Mar-
tyriani aedes, atque ad tuam peculiariter aulam me contulissem, inveni obserata om-

† In ANTONII THYLESII CONSENTINI Carmina et epistolae, cit., p. 58.


514 Emilio Sergio

nia, introeundique potestatem abnegantia, puero in vestibulo duntaxtat reperto, a quo


accepi, te equum conscendisse, nec ideo quo destinaveras me potuit edocere. Itaque
inveniundi tui spe destitutus. Scis enim Neapolim esse pene silvam proceris abietibus
circumseptam, urgente avunculo, cui aeque ac patri sum immortaliter devinctus, tum
ob sanguinis necessitudinem, tum ob innumera in me collocata beneficia, urbem istam
tantopere exoptatam non sine gemitu derelinquere sum coactus. Et quaereres ratio-
nem? Non licet per epistolam, quae intercipi posset, aperire: utut res habuerit, scire
debes ex usu fuisse in patriam repedasse. Non abnuo, inquies, & tu rebus tuis didicisti
probe consulere. Sed patieris ignobilem, atque inglorium in tenebris diutius delitesce-
re? Abdica segnitiem omnem Theseu, teque assere. Sunt & aliae urbes Neapoli, quod
novi, forsan celebriores, atque ad studia literaria ociotiores, ubi ingenium tuum po-
terit elucescere. Circumvenisti me, ita ut expurgare cessationem atque veternum nisi
hibernae intemperiei causatione non satis queam. Enimvero si vere novo Patavium
contendero, nihil erit profecto quod in Theseo tuo debeas desiderare. Vale, & Corio-
lano Praesuli, necnon fratri a Secretis Regis, iuveni hercule provinciae nostrae orna-
mento atque praesidio unico me sedulo commendabis.
Psychro nonis Ianuarii 1533.

Appendice IV
Una lettera di Antonio Telesio a Benedetto Ramberti¶

Eo a vobis animo discessi, ut brevi, rebus meis compositis, quas sciebam bello fere
eversas, reverterem ante brumam eodem, quo huc pervectus sum, navigio. Sed ventis
usus nunquam non iniquis, quasi profectionem ad meos mihi impedirent, vix tandem
apud Rossanum Calabriae urbem exponor quadragesimo secundo, postquam conscen-
di, die; ubi cum me rebus omnibus paene consumptum aliquot dies curassem, Cosen-
tiam irrepsi una tantum de causa laetus, quod fratres, reliquosque domesticos, quibus
nonnihil metuebam, sospites inveni; cetera totius patriae ita mutata conspexi; ut non
possem graviter non angi, milliesque dolerem, tibi, qui nihil prorsus praetermisisti,
incommoda, laboresque, & pericula amice, ac vere exponens, ut me de sententia dei-
iceres, non fuisse obsecutum. Quamvis non hic tantum poenitet; sed inter navigan-
dum, quod iter sensi semper non incommodissimum modo, sed formidinis, ac terroris
plenissimum; quibus malis cum versarer, quando Rhamberti mei tristis, [41] ac flebilis
imago ob oculos non versabatur! Et quoniam nescio quo modo suaves sunt, ut dicitur,
acti labores, animusque aliqua voluptate afficitur, eos tibi per epistolam explicare, te-
que eundem existimo amicissimi hominis aerumnas, casusque iam praeteritos iucunde
auditurum, breviter accipe, quam fui, dum rebus meis studui consulere, & desideriis,
quae me huc adegerunt, satisfacere, perpessus. Nam cum mecum ipse constituissem
conscendere, coeloque nubilo bene mane de navigio rogassem, quia certum mihi erat,

¶ Ivi, pp. 40-45.


Parrasio in Calabria 515

atque Apollonio iter ingredi, audio, illud iam ante lucem, atque adeo de nocte solu-
tum passis velis multum fuisse progressum; quod ubi praeter expectationem nuncia-
tum est, statim commotus, an discesserit Apollonius, percontor. Id cum aliqui affir-
massent, etsi non possem non turbari, statueram tamen in melius, quod non datum
erat, Venetiis abire, ut aiunt, accipere. Ecce navicula nescio quonam meo fato obiici-
tur, cuius cum mihi dominus polliceretur, antequam advesperasceret, navigium as-
sequi, in eam confestim insilui; atque diu errabundus ad quartam noctis horam per
summam remigum indignationem ac stomachum; unde solus cum [42] essem inter
nautas inhumanissimos, non semel animo cohorrui: quam quaerebam, vix tandem na-
vim applicui; ac coepi, antequam inscendissem, adsum, Apolloni, non semel clamare;
qui cum nullus responderet, ingens repente invasit animum aegritudo, quae me plane
confecisset, nisi postridie sub lucem quasi divinitus adesset ille, cuius conspectus in-
credibile est quantum me prorsus afflictum excitaverit. Enimvero nisi comitem nactus
essem civem meum summa praeditum humanitate, haud praeclare mecum fuisset ac-
tum. Quid quaeris? Unius tantum suavitate leniebatur quodam modo rerum omnium
acerbitas, quia nunquam quicquam pertuli molestius; nam ut hoc primum audias, quod
me perterrefecit, primum, tanta ventorum vis, postera quam Venetiis discessissem
nocte, incubuit, ut nunquam aeque timuerimus quicquam; cuius cum impetus esset ad
lucem remissus, atque etiam sedatus, incerto cursu modo provecti, revecti modo er-
ramus multos dies; duodecimoque apud Parentium iactis anchoris constitimus; qui si-
nus, ut nosti, noctis unius curriculo transmittitur. Verum ut incommoda, taediaque prae-
teream, quae etsi erant perpessu difficillima, iucunda fere [43] videbantur prae formi-
dine, quae ut umbra nos nunquam deseruit; terribilis tamen apud Lycium Apuliae ur-
bem exstitit; ubi parum abfuit, quin tempestate abrepti naufragio afflictaremur. Ora
iam ubique proxima ventis furentibus exitium minari videbatur. Sed ne te diutius mo-
rer, ad ea respondebo, quae cupis intelligere. Ego, mi Rhamberte, si vestra omnium
in me studia, digna quidem non grata tantum memoria, sed quotidiana testificatione,
sic in animo cohoererent, ut possent aliquo tempore abstrahi, prorsus me inhumanum
faterer; verum ea ita penitus recondita, atque infixa reservo, ut mors tantum queat illa
extirpare; atque utinam non evenisset, ut necessitas, quam non est hic scribendi locus,
in patriam me retruderet, facile vobis animum bene memorem, atque etiam gratum,
non sine aliquo iuventutis beneficio, tuoque in primis, cuius in me amorem sensi egre-
gium, omni ex parte comprobassem; quod spero futurum. Ubi enim ea, quorum gra-
tia huc properavi, ita disposuero, ut absens animi non pendeam, ad vos statim recur-
ram; hac vero hyeme, scio, me ad reditum nemo quamvis iniquus adhortaretur, itine-
re praesertim non tutissimo. [44] Quare nisi quid obstiterit, veris diebus accingar.
Quod autem scribis, Decemviros, quorum auctoritas apud me semper fuit, eritque
maximi, de nostro discessu subqueri, quia illis abierim insciis, quod peccatum fuisset
haud leve, quid? oro te, nonne Dedus Scribarum maximus veniam dederat, consultis
ante Decemviris? quo mortuo Andreas Franciscius eius successor factus fuit a me cer-
tior; quamvis vir ille optimus, ac prudentissimus nunquam destitit me de sententia de-
pellere. Theupulus quoque Decemvir, ut tu ipse saepissime detulisti, cum videret, me
ut discederem constituisse, non semel vir humanissimus doluit. Sed quid in singulis com-
memorandis immomor? Nemo vestri ordinis, iuvenis nemo, qui modo litteris esset
516 Emilio Sergio

imbutus, rem nesciebat; praesertim cum adversa tempestate detentus, impositis iam-
pridem in navim scriniolis, multos dies fuissem ad iter accinctus, Venetiis stomachans
quodam modo, cum mecum nonnunquam esses tu, non posse proficisci. Quod si nihil
aliud praeterea me isthuc repelleret, vel hoc unum ad reditum ageret, ut praesens me
purgarem; quamvis querela illa non tam mihi molesta est; praesertim cum facile pos-
sem apud viros aequissimos me excusare, quam suavis, ubi [45] meam ipse cogito,
fidem, industriamque nostram ab illis, quorum doctrina, & prudentia summa est, desi-
derari. Quanti autem ordo ille summus, & reliqui cives tui a me fiant, ex hoc potes in-
telligere; cum enim ventis delatus apud Ragusium menses tres essem, urbemque fama
celebrem inviserem, ac Ragusaei ultimo ducentos aureos solutos in publici magisterii
mercedem quotannis offerrent, summum etiam inter Scribas locum, unde centenos
praeterea accepissem, conditionem pro temporum iniquitate non malignam, ne vos,
quos equidem pro vestris in me meritis usquequaque venerabor, offenderem, statim
repudiavi. Ad extremum, ut finem scribendi faciam, certum est, brevi apud vos esse,
atque una vobiscum tantae urbis magnificentia, & tranquillitate, quamdiu vixero, frui.
Valete interea Thylesii vestri memores. Salutem omnibus, seorsum tamen, & egre-
giam, honorificisque verbis nunciato iis, quibus scis, me plurimum debere, etiam Ma-
rio adolescenti clarissimo, omnibusque Academicis. Haec exaravi, cum adhuc non pla-
ne essem confirmatus, sed languidus de via. Cosentiae XXV. Novembris 1529.
Has, si tibi videtur, solus lege; scriptae sunt enim non diligenter.
Recensioni
I tre testi seguenti sono trascrizioni degli interventi dalla presentazione dell‟ultimo li-
bro di VALENTINA VALENTINI Mondi Corpi Materie. I teatri del secondo Novecento (Milano,
Mondadori, 2007), tenutasi presso l‟Università della Calabria il 29 gennaio 2008. Un
testo che si propone di essere una Filosofia del teatro della contemporaneità ed un archivio
critico delle esperienze delle neoavanguardie artistiche internazionali.
Un testo che oltrepassa costantemente i limiti della sua disciplina, per ricercare
negli altri campi del sapere moderno frammenti di linguaggi, codici e significati nuovi
che ne possano arricchire le sue antiche capacità emotive (e-movere: “muovere da”,
strettamente correlato quindi con il carattere fondamentale della rappresentazione
scenica: l‟azione). La natura non strettamente teatrologica di questo studio si è river-
berata anche in sede di discussione: difatti due dei tre saggi non sono stati elaborati da
studiosi di Storia del teatro o discipline affini. Il primo è di Rossana De Angelis, dot-
toranda in Filosofia della comunicazione e dello spettacolo; il secondo di Cristina Fal-
cone, studentessa della laurea specialistica in Linguaggi dello spettacolo, del cinema e
del video; il terzo di Antonello Romano, studente della laurea specialistica in Lingue e
letterature straniere moderne.
Tre punti di vista differenti, contraddistinti da un particolare background di cono-
scenze, che si propongono di offrire un quadro articolato degli argomenti del testo e
della varietà di spunti critici emersi.

Mutazioni testuali di ROSSANA DE ANGELIS


Non accettando come data la sua forma storica,
il teatro si è interrogato su se stesso mettendo
in scena un rito autoriflessivo che ha significato
disvelare la natura oppressiva del linguaggio (…)
per il superamento della dialettica e delle contrapposizioni
binarie (realismo e astrazione, corpo e testo, immagine e parola)
(V. VALENTINI, Corpi mondi materie, p. 3)

Valentina Valentini affronta in Corpi Mondi Materie una riflessione sul tea-
tro contemporaneo assumendo punti di vista molteplici, proprio come viene
preannunciato dal titolo. Sin dalle prime pagine si comprende, infatti, come
la scena teatrale contemporanea venga ibridata da una molteplicità di lin-
guaggi che il teatro ha fatto propri, e contemporaneamente come il teatro
sia riuscito a trasformare questi stessi linguaggi. Concisione e chiarezza, uni-
te alla ricchezza di esemplificazioni tratte dalla scena teatrale internazionale
degli ultimi decenni, rendono il libro leggibile anche a un lettore non specia-
lizzato in storia del teatro.
Corpi Mondi Materie discute il teatro contemporaneo da più prospettive pa-
rallele: innanzitutto, una riflessione sulla revisione dei miti, con la conseguente
costruzione di mondi sulla scena, in cui il mito viene smembrato e ricomposto

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520 Recensioni

in una forma nuova che lo fa essere altro rispetto a ciò che era in origine; la
progressiva presa di distanza dal testo letterario e dalla drammaturgia classica, cui
subentra l‟intervento di altri linguaggi artistici, dalle arti visive e plastiche ai
nuovi media; la scomparsa del personaggio come tradizionalmente inteso, che
cede il posto sulla scena al corpo d’artista, diventato esso stesso personaggio.
1. La presa di distanza dal testo letterario, dunque da una drammaturgia
classica, si mette in evidenza nella prima parte del libro proprio attraverso la
revisione dei miti, come sottolineato nel paragrafo “Dal patetico al fisiologico”:
«la drammaturgia dello spettacolo, nella seconda metà del XX secolo, non
riscrive le opere del passato […], per cui è quasi impossibile rilevare, come fa
Genette in Palinsesti, le operazioni di escissione, riassunto, concisione in cui “la
riscrittura si fa caricatura e la parodia iperpastiche”1. Nel teatro del secondo
Novecento si attinge al mito per dissolverlo, nel senso che il presente della
scrittura di scena fagocita il passato del testo classico e quindi elide la relazione
fra un‟opera anteriore (ipotesto) e quella che la imita, la trasforma (iperte-
sto)»2. Gli ipotesti appaiono completamente svuotati del loro significato ori-
ginario, essendo diventati semanticamente indifferenti, dunque completa-
mente altri rispetto all‟origine: reinvenzione formale e tematica, costruzione
di mondi e quindi ri-costruzione di miti, tra il sublime e il grottesco, con
l‟ironica distanza dalla storia e dal linguaggio drammaturgico classico; mondi
senza confini tra forme animali, vegetali, umane, «in cui il pensiero affonda
nel corpo e il corpo è pensiero». Le categorie del teatro classico esplodono:
niente parodia, niente pastiche; il tragico diventa altro, cioè catastrofe3, e la
catastrofe è quella del corpo e dei codici.
2. La ri-costruzione del testo letterario mitico smembrato e ricomposto,
secondo tecniche che vengono ibridate da altri linguaggi diversi da quello
teatrale, porta alla comparsa di un nuovo tipo di testualità, una nuova forma di
testo scenico che Valentini chiama testo multiplo. La sottrazione al mito e la
completa reinvenzione avvengono grazie a un dispositivo di miscelazione di
elementi presi dal mondo dell‟arte con altri prelevati dai media: da un lato i
riferimenti alle avanguardie storiche e dall‟altro alla cultura dei mass media,
come i serial televisivi o i film popolari.
Il rapporto fra teatro e pittura, ad esempio, può essere compreso a partire
dalle riflessioni di Georges Roque4, che introduce la distinzione nel linguaggio
pittorico dell‟arte astratta fra segno figurativo e segno plastico, intesi entrambi

1 GERARD GENETTE, Palimpsestes. La litérature au second degré, Paris, Éditions du Seuil,


1982, p. 282.
2 VALENTINA VALENTINI, Corpi mondi materie, Milano, Mondadori, 2007, p. 14.
3 «La catastrofe senza qualità (tragico sono le ali di pollo)» (ivi, p. 16).
4 GEORGES ROQUE, Qu’est-ce l’art abstrait?, Paris, Gallimard, 2003; trad. it. di L.
Schettino, Che cos’è l’arte astratta?, Roma, Donzelli, 2004.
Bollettino filosofico XXV (2009) 521

come elementi costituitivi di un linguaggio pittorico che abbandona la rappre-


sentazione mimetica e figurativa senza, però, smettere di essere rappresenta-
zione. Così accade nel teatro contemporaneo. Astrazione è, infatti, liberare i
segni dalla loro servitù denotativa. «Un “teatro immagine” che, nel secondo
Novecento, ha realizzato pienamente le istanze di una drammaturgia visuale
defigurante. […] Il semplice fare, spogliato da intenti interpretativi di situa-
zioni e personaggi, traduce sulla scena teatrale l‟urgenza espressa dall‟astra-
zione di sottrarre convenzioni artistiche e mimetiche: lo spazio scenico è entità
dinamica che si forma e si costruisce in tempo reale davanti allo spettatore,
non tanto qualcosa da guardare, già fatta, ma una scena in trasformazione,
macchina che include, nella propria dinamis, uomini e cose»5.
A ciò contribuisce anche la defunzionalizzazione del corpo e degli oggetti,
rispetto alle tradizionali funzioni previste dal testo letterario. Nel teatro
contemporaneo gli elementi scenici (luci, suoni, gesti, spazio, movimenti,
ecc.) assumono ruoli attanziali e, dunque, diventano a pieno titolo segni al-
l‟interno delle codificazioni prodotte dai linguaggi della messa in scena. Gli
oggetti diventano figure attanziali come i corpi degli artisti, senza però essere
soggetti a funzioni narrative prestabilite. Ciò modifica contemporaneamente
anche il rapporto con lo spettatore. Si sottolinea, infatti, il rifiuto dell‟illusio-
ne e la continua proposta di partecipazione.
Il teatro ha così affidato allo spazio, al gesto, alla visualità e al suono, il
ruolo di dispositivi dominanti. Lo spazio, ma anche il tempo, nella frattura tra
tempo del testo e tempo della rappresentazione, diventano i protagonisti di
una fase di transizione che conduce dall‟elaborazione dei presupposti della pit-
tura astratta fino al teatro contemporaneo. L‟happening e poi la performance
art esaltano una dimensione processuale, per cui lo spettacolo si trasforma in
evento. Caratteristiche di quello stato di transizione, come sottolinea Valentini,
sono: a) la desoggettivazione e l‟accentuazione dei tratti sensoriali su quelli
cognitivi; b) l‟azione vs l‟opera-prodotto; c) la rarefazione della densità dei se-
gni per favorire l‟installarsi dello spettatore come autore dell‟opera; d) le for-
me ibride che conducono il teatro, e non solo il teatro, fuori dalla sua forma
storica; e) l‟antintellettualità e l‟antiprogettualità, per cui ciascun artista si co-
struiva una propria cultura d‟adozione, piuttosto che accogliere la continuità
spaziotemporale della sua “tradizione” di appartenenza.
Un ruolo importante nel teatro contemporaneo è, infine, l‟introduzione
sullo spazio scenico dei dispositivi elettronici. Non soltanto la pittura, allora, ma
anche il cinema e il video intervengono sulla scena modificando e ibridando i
linguaggi teatrali, generando nuove forme testuali come il real time film.

5 V. VALENTINI, op. cit., pp. 42-45.


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Diverse sono le conseguenza di questi „cambiamenti di scena‟ del teatro


contemporaneo: modificazione della narratività aristotelica, del conflitto come
movente narrativo, da un lato; ma anche impossibilità di leggere il teatro at-
traverso le attuali metodologie di analisi semiotica (ad esempio, quelle della
semiotica greimasiana, ovvero come stati e trasformazioni di stati). Le inter-
ferenze fra teatro e arti visive si mostrano come reciproca codificazione, muo-
vendo così verso una vera e propria drammaturgia visuale. Considerare questa
doppia relazione consente, inoltre, di rintracciare quegli aspetti sensoriali co-
muni. Ciò è possibile tenendo presente che non si tratta più soltanto di pittura,
ma di un‟articolata serie di forme espressive in cui le arti visive, nel secondo
dopoguerra, si sono declinate (happening, performance art, land art, instal-
lazioni), e a loro volta sono state ricodificate, negli ultimi decenni del Nove-
cento, dalle immagini in movimento del cinema e del video. Una drammaturgia
visuale implica, dunque, che lo spazio scenico si carica di proprietà temporali e
tattili, rendendo densa e palpabile l‟esperienza percettiva, mediante sovrim-
pressioni e simultaneità di azioni. Significa anche mettere in questione l‟atto
del guardare: si sperimentano nuovi modi di guardare, incluso il non-poter-
vedere, l‟ostruzione e il disturbo della visione. L‟ibridazione tra arti visive e
teatro si trasforma in una metodologia costruttiva anti-figurativa e con una di-
versa narratività.
3. I mutamenti della testualità e della narratività del teatro contemporaneo
esaltano il momento percettivo e la dimensione sensoriale, sottolineando il
distacco dal testo letterario, dalla sua progettualità e dalla sua chiusura, fulcro
della drammaturgia classica, riportando il teatro innanzitutto alla sua dimen-
sione di evento e a nuove forme di testualità. Tutto ciò si realizza, infine, attra-
verso la frattura fra attore e personaggio. «Occultare la dimensione di dicito-
re/interprete dell‟attore»6 significa due cose: distaccarsi dal testo letterario;
esaltare il corpo dell‟artista (performer): l’artista diventa il personaggio. «In questa
prospettiva, che coglie pienamente le trasformazioni della scena teatrale del
secondo Novecento, la dominanza del corpo, di un teatro-corpo, non configura
più soltanto la supremazia di un codice (che sottomette la parola), ma segnala
un cambiamento di paradigma che porta con sé i suoi specifici modi costruttivi:
l‟agglutinamento, il continuo vs discontinuo-discreto, le sconnessioni, le po-
sture del corpo in quanto tali e non un attore che compie le azioni previste
dalla fabula»7. Infatti, «includere strutturalmente la dimensione del vissuto
personale come materia espressiva, non sottotesto, è diventata una strategia
che ha provocato il depotenziamento della macchina attoriale; sottrarre cen-
tralità alla tradizione del testo letterario a favore del performance text, quella del
6 Ivi, p. 72.
7 Ivi, p. 88.
Bollettino filosofico XXV (2009) 523

personaggio a favore del performer, ha avuto come conseguenza la dismissione


di un terreno fertile e contraddittorio»8.
In conclusione, una riflessione sul teatro contemporaneo non può pre-
scindere dalla molteplicità dei punti di vista dell‟indagine e dal considerare la
scena teatrale come il continuo rinnovarsi di riti di autoriflessione. Questi, in-
fatti, comportano una necessaria revisione della categorie tradizionali con cui
abitualmente si considera e analizza il teatro.

Quale linguaggio per (e se) quali emozioni con il “nuovo attore”? di CRISTINA FALCONE
La storia della drammaturgia moderna non ha un ul-
timo atto: su di essa non è ancora calato il sipario. […]
Non è ancora giunto il momento di concludere né di
fissare nuove norme. […] È solo giunto il momento di
comprendere cosa è stato fatto e di tentare la formu-
lazione teorica. Il suo compito è la registrazione delle
nuove forme, perché la storia dell’arte non è determi-
nata da idee, ma dal loro realizzarsi in forma. Alcuni
drammaturghi hanno strappato un nuovo modo formale
alla tematica mutata del presente: avrà esso un seguito
in futuro? […] perché un nuovo stile ridiventi possibile
bisognerebbe quindi risolvere, non solo la crisi della
forma drammatica, ma anche quella della tradizione
come tale (P. SZONDI, Teoria del dramma moderno,
1880-1950, p. 136).

Se Szondi già avverte e documenta i sentori di un cambiamento, portandoci


alle soglie del postdrammatico, Valentina Valentini in Mondi Corpi Materie analizza
nelle tre fasi „esistenziali‟ dell‟opera, la complessa fenomenologia dei “Miti d‟og-
gi e i teatri-mondo”. In prima istanza la rete a maglie strette che imprigiona, nel-
la drammaturgia contemporanea, gli spunti classici, non lasciando loro via di
scampo e neppure libertà d‟azione sul „teatrale‟: «Handke riprende la parola tea-
trale con l‟intenzione di sacralizzare quel luogo di culto che alle origini è stato il
teatro, e riscopre così nei classici greci e latini i suoi veri compagni» (p. 33). De-
nunciando la «minaccia mortale che incombe sulla nostra epoca che non riesce
più a raccontare le grandi storie di un tempo», che ha smarrito i Valori, ormai
priva della capacità di linguaggio e di conseguenza della curiosità del/nel doman-
dare, essa è lontana dalla «ricerca di uno scampolo di emozione» (ibid.). I dram-
mi di Peter Handke sviscerano l‟ipotesi di teatri-mondi utopici, mai più nel reale
concretizzabili, dove esiste il comunicare, «funzione scomparsa nel tempo presen-
te, dove gli uomini sono diventati inghiottitori muti, che divorano con una vora-

8 Ivi, p. 96.
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cità insaziabile. […] Il mondo in loro precipita, resta inarticolato» (p. 34). Il gio-
co del chiedere è il manifesto di questa teoria, poiché racchiude al suo interno un
universo che è sia quello del teatro che della realtà, un breviario su come vivere
in un teatro-mondo rispettando «l‟etica del domandare e del domandarsi», un
appello-speranza alla interscambiabilità tra vita e arte, un presente che sulla sce-
na possa prendere forma camuffato nella finzione.
Il rapporto del teatro con i tre aggettivi visuale, performativo, mediatico, co-
me viene modellizzato e che interazione (a doppio senso?) si produce tra il pri-
mo aggettivo e ciascun altro? Valentini asserisce che non esiste un dispositivo
dominante, e che dopo l‟osmosi generale emergono categorie disparate, o me-
glio tentativi di ricodifica e rigenerazione di un‟etica/morale e della bellezza
dell‟opera-teatro (d‟arte) originale.
La presenza delle specificità dei dispositivi tecnologici ha prodotto sulla scena
una confusione sulla genuinità dello spettacolo aristotelicamente inteso, poiché
nelle sue peculiarità comportava tanto la vicinanza all‟hic et nunc della fruizione
dal vivo, quanto la tendenza di smembramento del corpo, testuale e plastico-at-
tanziale (effetto di ripetizione, di straniamento, di segmentazione, essenzialmen-
te epico), in voga già a cavallo tra prima e seconda parte del Novecento. Nel real
time film, messo in atto negli spettacoli del Big Art Group (Shelf life, Flicker, House
of no more), produzione dal vivo di un prodotto cinematografico, gli attori, ripre-
si in diretta da un sistema di telecamere, creano davanti agli occhi degli spettato-
ri un prodotto audiovisivo, proiettato anch‟esso dal vivo, rientrante a pieno tito-
lo nella grammatica cinematografica. Qui l‟attante, un «essere drammatico auto-
nomo», impossibilitato a porsi in maniera dialettica nei confronti del mondo, vi-
ve «situazioni sfrangiate, momenti separati», frammenti emozionali, pezzi di
sentimenti. Così lo spectator-voyeur, ingordo d‟immagini, incessantemente mar-
tellato da input di natura multisegnica, prova quel brivido che l‟osserv/azione
diretta sulla realtà non riesce più a procurargli1.
In ultima analisi, le figure del corpo attanziale, ovvero le questioni relative al-
la pura „somaticità‟, virano l‟attenzione sulle problematiche che mettono in
discussione la dicotomia tra attore/personaggio, così come l‟inesorabile ri-
mando tra i due, mediato dal concetto di persona, così che si tramuti nella na-
scita di una figura nuova, quella del performer: «la parte destruens della forma-
zione dell‟attore, il cammino individuale verso la conoscenza di sé, come per-
sona: “io sono me stesso sul palcoscenico. Non desidero vivere la vita di un
altro”, era la tesi di Spalding Gray che […] segna un passaggio importante nel
modo di operare dell‟attore in scena, mostrando come oltrepassare sia l‟unità
di attore e personaggio sia la loro separazione […]. “Mi vedevo come un per-

1 RICCARDO FAZI, Biblioteca Teatrale 74-76 (2005), pp. 220-235.


Bollettino filosofico XXV (2009) 525

former/compositore perché questo intertesto, dal quale nasceva l‟insieme del-


le azioni, non prendeva necessariamente la forma del testo, ma più spesso […]
di un conglomerato di immagini, suoni, colori e movimento”»2.
Passando in rassegna le varie „categorie-ipotetiche‟ di figure corporali, dal-
l‟attore mentale di Barberio Corsetti, all‟attore-danzatore nietzschiano, allo
“iperpreciso” mülleriano, fino ad arrivare alle modificazioni sulla carne, l‟alte-
razione delle identità, l‟ibrido, i cybernetics organisms, si capisce come l‟uomo si
degradi a corpus assuma «la dimensione di „oggetto‟, da cui scaturisce l‟impulso
di morte e di distruzione, l‟ambivalente reazione di rifiuto della tecnologia co-
me colpevole della meccanizzazione e, di controverso, l‟esaltazione del vita-
lismo e del primitivismo»3. Il progresso ha prodotto un atteggiamento di odio-
amore verso il corpo perché il potere teme il corpo vivente (Leib), pertanto
sentendosi imprigionati in un involucro estraneo, così stretto da non potersene
liberare, o lo si magnifica facendolo detonare verso l‟esterno, ingigantendone
le qualità e le doti, attraverso «il culto dell‟atletismo», o lo si aggredisce, cau-
sandone un‟implosione, uno smantellamento, un ripiegamento della carne su se
stessa (stratificazione e spezzettamento delle membra). In tale prospettiva, a
teatro, la resistenza dell‟individualità si manifesta come patologia: corpi malati,
mutilati, deviati mentalmente, obesi, anoressici, meccanicizzati, animalizzati…
Valentini passa in rassegna una miriade di testi drammatici e spettacolari che
avallano il concetto per cui il disagio è un segno teatrale complesso. Come
frammento di realtà, è qualcosa che ha il sapore della vita vera, soprattutto dei
sentimenti e delle emozioni che appartengono all‟esperienza dell‟essere al
mondo: solitudine, sofferenza, speranza, amore, follia, gioia. Paradossalmente,
con sé queste figure, portano una verità non teatrale di grande impatto emoti-
vo e comunicativo. Ma dinanzi a questi spettacoli emerge un interrogativo: chi
è il “nuovo attore”? Forte è la ricerca di segni, come quelli dei (sui) corpi, fatti
di carne e solcati dalla vita vissuta, marchiati a fuoco. Musica, danza, parole,
ma soprattutto fisicità. Sono stati scelti corpi, non persone, perché è lì, il se-
gno della loro „menomazione‟. Sulle scene li avvertiamo nudi, esposti, fragili,
talvolta osceni: Sarah Kane, Rodrigo Garcia, Socìetas Raffaello Sanzio, Reza
Abdoh, Wooster Group, sono solo alcuni nomi.
Il linguaggio muta, e se nella prima era del postmoderno, in via di matura-
zione, spesso è incerto, a volte mancante, oppure surrogato dalla riproduzione
elettronica (Handke in Insulti al pubblico, Autodiffamazione e Profezia), lungi dal-
l‟istituire uno scambio dialogico (Harold Pinter in The family voices), succes-
sivamente cerca nuove soluzioni e strategie compositive nell‟intreccio tra gli
idiomi. Ma l‟emozione, intesa quale sentimento accompagnato da attività mo-
2 V. VALENTINI, op. cit., pp. 115-116.
3 Ivi, p. 126.
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torie e ghiandolari, da émouvoir, „mettere in moto, eccitare‟, è sostituita dalla


inter-azione, sia per l‟attante, che non opera più un atto di immedesimazione
e coinvolgimento psico-fisico rispetto al personaggio, ma plasmo-motorio, per e
con la scena in toto (i due organismi/meccanismi, in qualunque momento in-
terscambiabili si muovono in simbiosi); sia per il fruitore, cui da «menomato e
imprigionato nell‟occhio è restituito un corpo – libidinale e sociale – e con es-
so la possibilità di indignarsi, di toccare, di desiderare e demistificare gli og-
getti»4. Per entrambi l‟unico motore dell‟agire è l‟adrenalina pura, non gui-
data dalla brama di purificazione, reviviscenza e trascendimento.
L‟excursus che Valentini compie nella molteplice sfera dell‟artistico si radica
in un lungo e faticoso lavoro storico e metodologico, che guarda al secolo
scorso sin dai suoi inizi. È un viaggio tra gli autori italiani e internazionali, uno
scandagliare tra le pratiche e le teorie di drammaturghi, filosofi, storici del-
l‟arte, artisti di varia provenienza che danno „corpo‟ a questo studio, fonda-
mentale nell‟ambito del teatro e dell‟arte in genere, una traccia che resterà
«documento/monumento» della nostra formazione e della nostra cultura.

Le “qualità” della dissoluzione e il “corpo infante” nel teatro del secondo Novecento di
ANTONELLO ROMANO

Mondi Corpi Materie è l‟ultimissima fatica editoriale di una instancabile studio-


sa del teatro contemporaneo. Valentina Valentini dopo anni di analisi della varie-
tà e variabilità dell‟universo scenico e drammaturgico del ‟900, sezionato con
maestria in tutte le sue sfaccettature particolari, riesce in questo volume “snello”
a riportare una eterogeneità centrifuga, sfuggente alla categorizzazione, ai suoi
elementi primitivi, essenziali: l‟estensione si trasforma in intensità primigenia.
Un compito arduo nella selva incontrollata delle rappresentazioni del presente.
Un titolo scelto con cura, che, per quanto scarno, laconico, riesce ad esprimere
in modo sintetico contenuti amplissimi: la successione paratattica di concetti
Mondi Corpi Materie non si ferma solo all‟ambito descrittivo, al tentativo di ren-
dere evidente la tripartizione interna dei contenuti del testo, ma si allarga dal-
l‟angustia della scena, o meglio, della varietà infinita della scena della seconda
metà del ‟900, per espandersi ed inscriversi nella parabola entropica di una real-
tà umana tendente all‟indistinto dell‟inerte indicando qualcosa di non limitato
all‟aspetto eventuale dell‟opera ed infine trasformandosi in metafora del con-
temporaneo. Per esso cercherò di offrire due interpretazioni.
D‟altronde, come è facile da riconoscere, il termine “teatro” non compare
come era comparso in altre produzioni della Valentini, ma si scinde nei suoi
elementi immediati e sensibili, descrivendo attraverso giustapposizione, ma
4 Ivi, p. 153.
Bollettino filosofico XXV (2009) 527

non identificando l‟oggetto in modo univoco. Sono le fessure esistenti tra le


tre componenti che delineano il territorio teatrale (ed in seconda istanza quel-
lo del reale): identificazione per differenza. Seguendone il decorso si assiste ad
una graduale perdita di qualità della sostanza, partendo da una cosmografia
onnicomprensiva, dal concetto di mondo, sia esso il mondo simbolico perpe-
tuo rappresentato dal mito e dalle sue riletture nella modernità, sia le sue pos-
sibili declinazioni frammentarie, passando poi alla biopsia della potenza sen-
suale-sensibile del corpo polimorfo che infesta la scena con la sua presenza e
con la sua assenza, per approdare all‟inorganico, all‟ultimo stadio, quello del-
l‟informe plasmabile e virtualmente capace di dar vita a partire dalle rovine
delle strutture gerarchiche della materia tradizionale.
Il teatro contemporaneo ha eliminato infatti il panegirico giustificatorio del-
l‟agire sociale per sottomettersi allo choc del continuum catastrofico. Da un‟altra
prospettiva lo spectator viene privato della dimensione dell‟attesa: viene confron-
tato sin dal primo momento con l‟ossessione della propria scomparsa e del suo
mondo in toto, una distruzione che si manifesta anche negli oggetti e nelle situa-
zioni più familiari. Il principio strutturale di questa drammaturgia è costituito da
attese mancate: al termine della narrazione rimane il fatto, come azione già con-
clusa, che racchiude in sé la contrazione dei tempi e la vastità atomizzata degli
spazi. Fine della narrazione: fine delle storie. Fine della Storia.
Il nuovo pensiero teatrale offre quindi la controparte alla tradizionale attesa
della decompressione della climax, alla decantazione dell‟attimo nel passaggio at-
traverso l‟azione. È la contemplazione del reale penetrato sulla scena sotto un‟u-
nica insegna: quella della morte quotidiana, o meglio dell’impulso liberatorio della morte
(la necessità della morte improduttiva, direbbe Baudrillard) che si cela dietro
ogni manifestazione. È questo trasporto del quotidiano e dei suoi linguaggi, la
sua manipolazione estetica, che rende evidente (auffällig, risaltante) il naturale
(riprendendo le finalità dell‟ars dramatica brechtiana), che riafferma paradossal-
mente il teatrale come più reale del reale: la simulazione come sostituto del
magma non interpretabile al di là della rappresentazione ricostruisce il rappre-
sentabile tradizionale in maniera iperreale, in un rapporto di attrazione e repul-
sione per l‟oggetto palesemente in estinzione. Così la scena si espande oltre quei
limiti imposti dalla storia e dalla sua funzione (finzione) diventando evento, feno-
meno che oscilla derubando il mondo, che ingurgita questa sostanza restituen-
dola potenziata sensorialmente, eliminando la narcosi dell‟informazione subita
nella realtà anestetizzata. Solo il teatro può definirsi sostituto della realtà, po-
nendosi come realtà effettuale essa stessa. L‟arte depura la realtà dal surplus delle
sensazioni e le rende intense nella loro molecolarità, le risemantizza, si propone
come rinascita sconvolgente della percezione.
È questa la discesa verso il punto zero che delinea quella «catastrofe senza
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qualità», pensiero espresso dal filosofo Massimo Cacciari e ripreso dalla Valen-
tini già in due occasioni, per descrivere l‟indifferenza delle dinamiche dell‟arte
contemporanea nel trattare elementi divergenti attraverso un principio unifi-
catore che fa perdere carattere all‟eterogeneità degli eventi. «Ciò che sembra
segnare la nostra esperienza non è, perciò, la riduzione liberale del conflitto
politico a gioco, scambio, mercato – la sua estetizzazione – ma la sua trasfor-
mazione dell‟antagonismo in senso antideterministico, multidimensionale, al
di là di ogni stabile contrapposizione di scelte e valori. Il mondo moderno
della catastrofe si presenta come quello di un‟apocalisse “senza qualità”. […] Il
termine moderno di catastrofe generalizza e secolarizza insieme il simbolo co-
struttivo-distruttivo dell‟apocalisse, rendendone così indicibile il “valore” pro-
prio: quello della redenzione»1. Etimologicamente il termine qualità deriva da
qualis, implicando quindi una determinatezza dell‟oggetto, che nell‟epoca
presente non può più essere stabile: tutto è catastrofe, senza distinzione, o
nulla può essere considerato tale. Cosa si può definire catastrofe? Catastrofe è
propriamente svolta ed entrambi questi concetti vengono discussi in quest‟ope-
ra in modo organico. L‟affermazione di Cacciari può quindi essere riformulata
in questi termini: quale svolta?
L‟importanza concessa alle realizzazioni teatrali dei miti/riti di fondazione,
alle cosmogonie, alla rinnovata denominazione della realtà, alla costruzione
materiale, commiste però alle immagini frante, ferali, grottesche che abbiamo
già descritto, rappresentano un‟evoluzione fondamentale per la prospettiva di
un teatro di nuova concezione, un‟esegesi allargata, un piano di conversione
dell‟artistico in pratico spinto al parossismo già evidenziato in apertura del se-
condo capitolo di Mondi Corpi Materie del mondo teatralizzato e del suo op-
posto: il teatro come mondo compresso e polivalente, luogo politico al di là
del dualismo, territorio dell‟ultima interazione possibile tesa ad eliminare
l‟isolamento dorato dell‟uomo moderno, si pone la questione della problema-
tizzazione della realtà attraverso l‟evidenziazione e l‟ingigantimento dei suoi
elementi, cercando anche di offrire strategie di liberazione. Strategie che pas-
sano naturalmente attraverso la funzione centrale del corpo, come prima por-
zione di realtà sottoposta al cambiamento (il piano di indifferenziazione tra
memoria e azione, secondo Bergson) e catalizzatore di influenza rinnovata sul
reale. Non un corpo qualunque.
Cacciari pone la sua attenzione sull‟elemento dell‟indicibilità del valore
apocalittico. Il corpo nella sua effettività materiale supera di gran lunga la ge-
nia ininterrotta dei segni, eppure se ne fa portatore annullandoli nella sempli-
cità della presenza puntuale. È il corpo infante, quello che non parla, taber-
1 MASSIMO CACCIARI, Catastrofi, in “Laboratorio politico”. Catastrofi e trasformazioni, To-
rino, Einaudi, 1981, pp. 153-158.
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nacolo della sua sensibilità anarchica, della sua semiurgia elementare, refrat-
tario alla spinta simbolica sia dei complessi ancestrali (il mito e le sue riper-
cussioni psicopatologiche), sia alla smaterializzazione del codice binario del di-
gitale. L‟infanzia d‟altronde presuppone una continua scoperta di sé, della
propria geografia e la formazione della coscienza tattile prima che discorsiva. Il
corpo diventa oggetto politico effettuale, di una politica dell‟oblio della parola
e della necessità esegetica abituale. Il teatro come luogo dei corpi muti e fon-
danti è la fucina del nuovo agire politico post-ideologico, che si ciba della real-
tà inglobandola in essa e cambiandola di segno, sovvertendone i valori, allar-
gandosi spazialmente, debordando dal palcoscenico e avvicinandosi minaccio-
samente alla realtà: salva la carne dalla carneficina metaforica dell‟immagine
de-oggettualizzata.
Rifondare la realtà a partire dal corpo, quindi ipostatizzando la cruenza san-
guigna dell‟atto sacrificale: René Girard ne La violenza e il sacro riconosce nel
corporeo, nel suo smembramento, e contemporaneamente nella sua adorazione,
il fulcro della nascita e della rinascita sociale ciclica. Una rinascita come ripro-
posizione di quella differenza che la catastrofe contemporanea non riesce a ri-
scontrare in modo limpido. Il pericolo dell‟indifferenziazione viene superato at-
traverso il corporeo, attraverso la concentrazione dell‟agire sociale sulla carne,
sezionandola e conferendole significati nuovi. Il corpo sovverte l‟ordine, ma ri-
compone le macerie, come espressione di un patto per il nuovo. La nostra era,
quella cristiana, nasce dal suo essere martirizzato e consunto. Il teatro contem-
poraneo svincolandosi dal suo valore puramente estetico può fungere da nuovo
inizio. Percorrere uno spazio, costruire un luogo, la stessa fonazione a-signifi-
cante, non ferina, ma pre- o post-umana, sono cifre del nuovo rito minimalista
di fondazione della realtà scomposta e decomposta. E qui passiamo ad una se-
conda interpretazione della struttura del titolo del testo. Il corpo è centrale tra
due universi simbolici, quello del mito e quello del valore d‟uso della reifica-
zione materiale. Il corpo sfugge a questi codici conservando una consistenza ed
un‟indipendenza quasi totale dal trascendente e dal minerale, vibrando tra questi
estremi. Riscoprire l‟opera come ente reale, come corpo muto a cui dar voce,
non trasmutandola discorsivamente, ma conservandone le opposizioni e le con-
traddizioni: un corpo da sacrificare per mantenerlo vitale e irrevocabile, come
medium plastico da tradurre non in categorie a tenuta stagna a riconferma dello
stato delle cose, bensì in modalità di interpretazione che si intreccino con la si-
tuazione contingente, che propongano modi di percezione applicabili per il frui-
tore nell‟incontro con il mondo delle sensazioni multiple. Bisogna riappropriarsi
del contemporaneo, analizzandone le manifestazioni eterogenee in campo arti-
stico, espressioni del nostro ambiguo Zeitgeist per aprire a nuove vie una critica
che non ha più necessità di giudicare oltre se stessa.
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Il testo (o meglio, i testi) della Valentini corrisponde a questa necessità


(naturalmente da non confondere con la militanza ortodossa di Lukàcs, legata
a convinzioni aprioristiche, che in questo caso lasciano il posto ai mondi pos-
sibili, a zone dell‟indeterminato) di raccordo tra l‟attività critica di organiz-
zazione dei fatti artistici e la possibilità di superamento del discorso estetico
attraverso quello della proposizione di nuove interpretazioni e modificazioni
del mondo. Non si rifugia in alcun locus amoenus depotenziato del passato: al
contrario, tasta il polso della contemporaneità, mai come in questo testo, at-
traverso il sistema rappresentativo, eppure non fermandosi ad esso, analizza
ciò che sussiste intorno allo spazio-tempo dell‟evento: cause ed effetti possibili,
traumi input e messaggi output. Un piano di conversione discorsivo dell‟enun-
ciabile a-significante. Il corpo, anche in questo caso, l‟opera d‟arte in generale,
come macchina da guerra. Ma che sia guerra di idee, lo scrigno disarticolato del-
la sempre possibile deflagrazione di un modus percipiendi, esplosione come dis-
seminazione al di fuori del territorio tradizionalmente assegnato.
La critica, come il teatro, deve riscoprire come in questo caso l‟incontro con
una realtà che è sempre modello dell‟opera (o l‟opera come modulazione della
realtà), in un sistema di scambi continui con l‟ambiente, riconferendo al termine
“estetica” il significato originario di per-ceptio, quindi di “presa” attiva, di collisio-
ne dialettica con le cose, con la possibile alterità che assume valore più che spa-
ziale e sincronico, temporale, di memoria e di attesa ritrovata. Derrida in Spettri
di Marx scriveva: «senza questa desolazione, se proprio si potesse contare su quel che vie-
ne, la speranza non sarebbe che il calcolo di un programma. Se ne avrebbe la prospettiva,
ma non si attenderebbe più nulla e nessuno. Il diritto senza la giustizia»2.

ALDO PARDI, Campo di battaglia. Teoria, produzione e conflitto in Louis Althusser,


Verona, Ombre corte, 2008, pp. 243.
Quello di Aldo Pardi è un importante libro di filosofia, davvero insolito per den-
sità e bellezza. È dedicato all‟opera di Louis Althusser, figura di rilievo del pano-
rama filosofico contemporaneo, che viene ora riproposta sotto un profilo inedito
al pubblico italiano. Si comprende che Pardi ha con Althusser un rapporto appas-
sionato. Gli dedica pagine intense, ed una scrittura da cui traspare tensione e bel-
lezza, acuta intelligenza, rigore e grande senso di ammirazione verso il filosofo.
Ciò che colpisce immediatamente di questo libro è proprio la scrittura: la trama
fitta del testo che mostra, in tutta evidenza, l‟abilità con cui Pardi lavora i concetti
2 JACQUES DERRIDA, Spectres de Marx, Paris, Éditions Galilée, 1993; trad. it. di G.
Chiurazzi, Spettri di Marx, Milano, Cortina Editore, 1994, p. 211.
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filosofici. Fu Gilles Deleuze a sostenere che la filosofia è l‟arte di creare concetti e


che lo stile del pensiero si ricava dal movimento del concetto. Così inteso, lo stile
diventa nel libro di Pardi un‟importante questione politica che punta a revocare le
pretese della filosofia di porsi al di là dei processi creativi e conflittuali che reggono
i suoi stessi giochi di verità, le sue strategie di dominazione. Plasmare i concetti si-
gnifica misurare la loro portata entro il flusso di pensiero che li flette e li trasforma,
in relazione all‟incontro-scontro che avviene fra pensiero e realtà. La verità non
viene né prima né dopo, dipende nel suo complesso dalle mutazioni concettuali
che la pongono in essere nel divenire, ovvero negli spazi-tempo in cui il pensiero si
trova esposto alle forze molteplici che, attraversandolo, lo determinano. In tal sen-
so, questo libro è un vero e proprio «metodo di lavoro politico nel concetto»;
come lo erano i libri di Althusser, del resto. Ma Pardi va oltre la semplice inter-
pretazione del testo althusseriano. Egli cerca, da un lato di assumere la «produ-
zione» e il «conflitto» come chiavi esplicative del pensiero di Althusser, dall‟altro
di declinare i due concetti a favore di una nuova idea di filosofia intesa come teo-
ria e pratica della trasformazione. Filosofia, o meglio praxis filosofica, in cui ne va
«di un confronto tutto politico tra potere e liberazione». In fondo quello di Pardi è
un faticoso tentativo di offrire una risposta alla domanda da cui prende le mosse la
sua riflessione: «cosa significa: “fare filosofia”?». È una questione molto impegna-
tiva, particolarmente oggi, dove i filosofi sembrano schiacciati fra la chiusura auto-
referenziale di una “scienza di Stato”, sempre meno capace di elaborare una critica
del presente, e la dispersione nei mille rivoli di „filosofie seconde‟, dove all‟antica
scienza dell‟essere non restano che piccoli ambiti di applicazione regionale (filo-
sofia del cinema, della comunicazione, della scienza, ecc.).
Pardi sa che a quella domanda si può cercare di dare una risposta solo pro-
vando, sempre e di nuovo, a fare filosofia, e quindi nuovamente a fabbricare con-
cetti. Egli dimostra di sapere quanto sia difficile dare una risposta a quella do-
manda e sceglie Althusser come suo intercessore. Il filosofo francese, infatti, «ha
lavorato la filosofia per portare allo scoperto i processi conflittuali di costruzione,
le rotture, le relazioni antagonistiche che ne impiantano le formazioni».
Com‟è evidente il problema investe direttamente la filosofia, che viene trasfor-
mata dall‟interno attraverso uno spostamento pratico che la sottopone ad una cri-
tica radicale. La filosofia non viene più letta alla luce della sua trascendenza, bensì
giudicata in rapporto alla produzione conflittuale di conoscenza, sul versante pole-
mico della «teoria delle pratiche teoriche». Da questa prospettiva essa rivela la sua
pretesa di rivendicare per sé «il potere inoppugnabile di decidere dell‟essenza di
ogni ente, di stabilirne forma, valore, ruolo». Essa si manifesta come «un‟opera-
zione di cattura che realizza potere». Qui la critica non cerca soltanto di svelare i
falsi contenuti, ma prova a comprendere le vere forme, vale a dire i presupposti
reali che sostengono la pratica filosofica, le sue effettive pretese. È per questo che
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essa trova uno sbocco nella teoria delle pratiche teoriche. La pratica teorica, infatti,
ci aiuta a rileggere la produzione e il conflitto come nozioni antagoniste rispetto
all‟orizzonte totalizzante dell‟ontologia. «La teoria attacca le essenze filosofiche,
tiene sotto pressione l‟ideologia», scrive Pardi.
A questo punto l‟operazione diventa duplice: da un lato si svela il sostrato bel-
licoso della pratica filosofica («La filosofia è una particolare declinazione dell‟arte
della guerra, zona d‟operazioni strategiche di natura tutta politica»), da cui emerge
una complicità profonda fra le pratiche di verità e i sistemi di potere; dall‟altro si
cerca di comprendere quali siano i punti strategici dove è possibile staccare le pro-
duzioni di conoscenza dalle forme di egemonia sociali, economiche e culturali che
la filosofia intrinsecamente è portata a sostenere. Si tratta di «cercare un varco ver-
so l‟emancipazione dal dominio». Su questa soglia problematica si innesta la que-
stione decisiva, che riguarda la pratica del conflitto, determinante per spezzare gli
equilibri e rimettere in circolo energie nuove in grado di generare pratiche di li-
bertà, quindi nuova produzione, nuovo conflitto. È un problema di massima im-
portanza, soprattutto se si pensa che oggi il potere si afferma proprio grazie alla sua
capacità di esercitare un dominio nel e attraverso il divenire e la trasformazione, non
istituendo un ordine a priori, bensì esercitando un dominio attraverso sistemi dut-
tili di bloccaggio e di canalizzazione che operano nel divenire, ovverosia nel cuore
delle pratiche conoscitive ed etiche. Ma allora, se il potere produce trasformazione,
la domanda che si pone diventa la seguente: come concepire un potere della tra-
sformazione che non sia più trasformazione del potere, che sia affermazione di
nuova vita, vale a dire di nuovi rapporti che nascono lungo le linee trasversali del
conflitto anziché da quelle integrali del dominio?
Ovviamente la problematicità di una simile domanda è tale che ogni tenta-
tivo di darne un‟articolazione risolutiva risulterebbe arrogante e fallimentare.
Una risposta, come ci insegna Pardi in questo libro, è soltanto possibile rimet-
tendosi sempre e di nuovo a pensare e ad agire affermando lo sforzo inventivo
comune verso un‟altra prassi di pensiero che si fa e deve farsi politica dentro «la
trama complessa dei conflitti che disloca costantemente il fronte che separa po-
tere e subordinazione». Il libro di Pardi ridona una luce particolare a questa bel-
lissima frase di Whitehead: «Il conflitto è il segno che esistono verità più ampie e
prospettive più ricche». Una luce etica e politica che illumina lo scarto fra ciò
che noi siamo e ciò che noi possiamo ancora divenire. Qui il dislivello è talmente
grande che solo una pratica del conflitto sempre rinnovato può aiutarci ogni vol-
ta a colmare. L‟importanza di questo libro, ovviamente, va ben oltre i problemi
che in queste poche righe abbiamo sottolineato. Rimane pertanto lo squilibrio,
assai evidente, fra la ricchezza di un libro così bello e questa fragile combina-
zione di idee, per niente esaustiva, che, al limite, vale solo come timido cenno di
grande ammirazione per il lavoro svolto da Aldo Pardi.
FRANCESCO LESCE
Bollettino filosofico XXV (2009) 533

SABINO CASSESE, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, Ei-
naudi, 2009, € 18,00.
Nel celebre frontespizio del Leviatano (1651), Hobbes rappresentava il sovrano
come un animale mostruoso composto da una molteplicità di individui che in lui
trovavano forma e unità. Il gigante reggeva in mano una spada, simbolo del po-
tere temporale, e nell‟altra il pastorale, simbolo del potere religioso, ad indicare
che i due poteri non vanno mai separati. Gli individui che compongono il gi-
gante sono stretti da un patto con il quale trasferiscono ad un uomo il compito di
esercitare il potere. Secondo Hobbes, il sovrano ha il compito di decidere cos‟è
giusto e cosa ingiusto, tramite le leggi, mentre i sudditi restano liberi in tutti
quegli ambiti che non sono coperti dalla legislazione del sovrano.
Nelle formulazioni successive del rapporto tra potere e sudditi/cittadini,
avanzate dai pensatori liberali e dai teorici dello stato di diritto, il sovrano non è
più detentore di potere assoluto: la sovranità statuale si esprime come esercizio
verticale di un potere politico legittimo perché originato dal popolo ed eserci-
tato per via rappresentativa.
Nel corso dell‟Ottocento e del Novecento, questo modello si evolve e diven-
ta più democratico e pluralistico. Il rapporto tra potere e cittadini si articola nello
stato liberale ottocentesco: si consolidano i parlamenti e i principi del governo
costituzionale, si amplia progressivamente il suffragio e la partecipazione politica e
l‟esercizio del governo si associa a dispositivi di limitazione, divisione e bilancia-
mento dei poteri. Il rapporto tra potere e cittadini diventa ancora più complesso
nel modello novecentesco di stato, la democrazia pluralistica, che si struttura nel
secondo dopoguerra a partire dal modello liberale. Nel modello della democrazia
pluralistica lo stato si costruisce sulle fondamenta di tre pilastri: i diritti sociali, la
rigidità delle carte costituzionali (le disposizioni costituzionali possono essere inte-
grate, modificate o abrogate solo con procedure aggravate) e il controllo di costituzio-
nalità (la funzione di verifica della conformità alla costituzione delle leggi dello
stato e di enti territoriali eventualmente dotati di potere legislativo).
Oggi questo sistema tradizionale delle procedure democratiche di government
sul quale si è fondata la nostra esperienza di stato attraversa una fase di forte de-
cadimento, come pure sembra essere in crisi profonda il ruolo della sovranità
dello stato nello scenario della politica globale: perché?
Che cosa è cambiato nel mondo del diritto e delle istituzioni nell'ultimo se-
colo? Chi sono stati i protagonisti di questi cambiamenti? Quali ordinamenti giu-
ridici sovranazionali e globali si sono sovrapposti agli stati e come il fenomeno
della globalizzazione ha trasformato le componenti fondamentali dello stato mo-
derno? Quale rapporto c‟è tra i poteri dello stato e la globalizzazione giuridica?
Che forma ha una democrazia e una giustizia oltre lo Stato?
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Sono queste le domande alle quali cerca di dare risposta Sabino Cassese, do-
cente di diritto amministrativo e attualmente giudice della Corte costituzionale,
nei sei capitoli che compongono Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Sta-
to (Einaudi, 2009). Il testo riflette sul fenomeno della globalizzazione, su come
esso intacchi le componenti fondamentali dello stato moderno, e affronta la que-
stione della legittimazione delle istituzioni globali, vaglia le strade che prendono
la democrazia e la giustizia quando travalicano le forme di governo tradizionali.
Cassese inizia il testo introducendo il lettore al dialogo che lega i poteri dello
stato alla globalizzazione giuridica e alla società civile (capitolo I e II). Presenta
cinque casi concreti che illustrano la vastità e pervasività del fenomeno della glo-
balizzazione giuridica (capitolo III). Spiega quali sono le caratteristiche del diritto
globale offrendo analisi di casi concreti e multisettoriali (capitolo IV). Riflette sul
ruolo svolto dai giudici (capitolo V) e descrive come opera concretamente il di-
ritto globale nei confronti degli ordinamenti domenistici in rapporto alla tutela
dei diritti e delle garanzie dei cittadini (capitolo VI).
In Il diritto globale Cassese sviluppa temi e problemi introdotti in Lo spazio
giuridico globale (Laterza, 2003), Oltre lo Stato (Laterza, 2006) e nei suoi libri più
recenti: Il mondo nuovo del diritto. Un giurista e il suo tempo (Il Mulino, 2008) e I
tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale (Donzelli, 2009).
Tutti questi lavori offrono rilevanti contributi, accessibili anche ai non giuristi di
professione, e documentano con straordinaria capacità analitica il grande proces-
so in corso di sviluppo di un diritto globale, che va, appunto, oltre lo Stato, e
sembra diluire la sovranità statale.
L‟economia ha da tempo scavalcato i confini degli stati. I processi della glo-
balizzazione economica hanno sottratto poteri e competenze alle organizzazioni
statuali, depotenziandone l‟esercizio dei poteri. Nel contempo, l‟articolarsi del-
le decisioni politiche ed economiche su piani molteplici – non tutti riconducibili
alla sfera pubblica e politica – ha offuscato la trasparenza delle responsabilità e ha
sottratto spazi di controllo agli istituti democratico-rappresentativi. Decisioni
complesse, dalle enorme ricadute sociali, sono spesso prese in contesti e da at-
tori che non dispongono di alcuna legittimità di tipo rappresentativo. Persino gli
stati hanno scavalcato i propri confini: molte delle loro funzioni essenziali si
svolgono oltre il territorio nazionale, in un‟arena globale. Per questo motivo, in
questo scorcio di nuovo millennio, gli stati non sono più autori esclusivi del di-
ritto e parallelamente il ruolo delle costituzioni formali perde peso, mentre è
sempre più influente il lavoro svolto da Corti, istituti e organismi di varia natura
(imprese multinazionali e Organizzazioni Non Governative, reti e agenzie inter-
nazionali – come la Banca Mondiale e l‟Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico).
Cassese mette ben in mostra come lo spazio giuridico globale sia pieno di re-
Bollettino filosofico XXV (2009) 535

gimi regolatori settoriali, ciascuno con il suo sistema di norme e con un apparato
chiamato a farle osservare: «ognuno ha una competenza specifica, dall‟uso del
mare al trasporto delle sostanze radioattive, alla tutela del patrimonio culturale,
e così via. Manca un sistema unitario di governo». Sono gli stati che danno l‟in-
vestitura iniziale agli organismi globali, ma, poi, l‟azione di questi ultimi si pro-
ietta oltre l'ambito statale: «gli stati da fonte dell‟ordinamento giuridico ultrasta-
tale sono divenuti strumento di quest‟ultimo. D‟altra parte, numerosi organismi
globali non sono stati istituiti da stati, bensì da altri organismi globali» (p. 134).
Ad una politica rigida e gerarchica – il government, il governo verticale dello stato
– si sostituisce la governance, una politica policentrica e orizzontale, fatta di auto-
regolazioni e priva di un sistema unitario di governo.
Secondo Cassese, il cosiddetto diritto globale è caratterizzato da un assetto di
tipo non gerarchico e fa ricorso a procedure spesso informali e flessibili, poco
codificate. Tutto questo potrebbe essere salutato con ottimismo, brindando alla
nascita di una società civile globale e al tramonto del principio della statualità del di-
ritto, tuttavia ci sono molte ragioni per dubitare della retorica dell‟orizzontalità e
per vigilare sull‟attuale ridimensionamento del ruolo dello stato nel governo del
pubblico interesse. Infatti l‟obiettivo delle procedure di governance non sembra
tanto promuovere l‟ampliamento della partecipazione democratica a tutti i livel-
li, quanto piuttosto ad attivare strumenti capaci di controllare il conflitto sociale
e di costruire consenso intorno alle politiche orientate al mercato. De-localiz-
zando e frantumando i fuochi conflittuali per mezzo di reti diffuse di negozia-
zione, i cui nodi diventano i punti sui quali scaricare le tensioni, la governance
svolge un ruolo di stabilizzazione e di conservazione, come nei casi di alcune po-
litiche internazionali di security governance.
Esente dalla retorica ottimistica che non di rado pervade la materia, l‟analisi
di Cassese approccia, in maniera serena ma intelligentemente critica, la difficile
opera di razionalizzazione di un sistema ancora fluido e non organico, aperto a
molteplici scenari ed in grado di fornire esempi più o meno eccellenti in merito
all‟applicazione completa di una rule of law globale.
In Il diritto globale Cassese discute i problemi ai quali la globalizzazione giuri-
dica deve far fronte: in primis la coesistenza di diversi regimi regolatori globali,
la concorrenza di norme globali, norme nazionali e norme locali, in secondo
luogo la difficoltà di individuare i giudici competenti a risolvere conflitti che
sono sia globali sia locali. In tale situazione complessa e in continua trasforma-
zione, occorre, secondo l‟autore, evitare il rischio che il mercato si attesti quale
unica griglia di intelligibilità e di validazione dei criteri di efficacia ed efficienza
dell‟azione politica: «In assenza di una democrazia cosmopolita, quale titolo han-
no gli organismi globali di determinare standard – che i privati devono rispettare
– e di imporre vincoli agli stati nazionali?» (p. 14).
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Oltre che estremamente difficile, la questione posta è anche coraggiosa: sono


tempi duri questi per chi vuole difendere le virtù delle istituzioni democratica-
mente elette. Non a caso, in un‟intervista trasmessa su Rai 1 qualche mese fa,
Sabino Cassese ha dichiarato: «Sono un uomo delle istituzioni, perché solo le
persone che credono che esse esistano possono esserlo».
MONICA PASQUINO

ANDRÉ STANGUENNEC, Être, soi, sens. Les antécédences herméneutiques de la dialectique


réflexive, Villeneuve d‟Ascq, Presses Universitaires du Septentrion, 2008, pp. 307.
Il recente lavoro di Stanguennec si articola intorno alla ricerca della possibilità
di superare, in maniera criticamente riflessiva, le tradizionali posizioni filosofi-
che circa i rapporti che intercorrono, nella generazione della conoscenza, fra i
concetti di «essere», di «sé», e di «senso». L‟autore propone una meticolosa ri-
costruzione del modo in cui il rapporto tra essere, sé e senso si è articolato nella
storia della metafisica e dell‟ermeneutica filosofica. In relazione al fine dell‟ope-
ra, reso manifesto dal sottotitolo, l‟intento dell‟autore è anche quello di fornire
una rilettura in chiave critica dei principali sistemi filosofici che si sono preoc-
cupati di indirizzare le loro concettualizzazioni verso il costituirsi stesso del sape-
re, al fine di individuare un solco riflessivo in seno al quale inserire, come pro-
lungamento e insieme superamento, la dialettica riflessiva di cui si fa promotore
(si veda a questo riguardo il precedente volume di Stanguennec, La dialectique
réflexive, apparsa presso la stessa casa editrice nel 2007).
Continuando e prolungando lo schema hegeliano, Stanguennec realizza il suo
excursus sugli antecedenti ermeneutici della dialettica dichiarando esplicita-mente
di assumere quel che Hegel contrassegnava come terzo (per intenderci, il
«periodo recente» che racchiudeva il pensiero di Kant, Fichte, Schelling e dello
stesso Hegel) in un nuovo primo momento che si propone di perseguire e as-
secondare il movimento di ri-ascesa della metafisica, a partire da una modalità di
sintesi del sostanziale e del soggetto, dell‟essere e del sé, cui l‟autore si riferisce
quando utilizza l‟espressione «seismo riflessivo» (p. 11).
La questione riguardante la caratterizzazione della metafisica come «movi-
mento ascendente di trascendenza», dunque come forma di elevazione del pen-
siero che parte dalla conoscenza delle cose sensibili per dirigersi verso il loro fon-
damento originario soprasensibile, rimarca in maniera inequivocabile il suo costi-
tuirsi come pensiero onto-teo-logico e testimonia della presenza di un circolo spe-
culativo in cui si struttura il rapporto fra concetti chiave della riflessione metafisica
quale quello che si instaura fra «finito-infinito» e che marca la riflessione filosofica
Bollettino filosofico XXV (2009) 537

da Platone ad Heidegger, passando attraverso le concettualizzazioni di pensatori


del calibro di Aristotele, Spinoza, Kant, Schleiermacher, per giungere fino a E.
Cassirer, E. Weil, Hegel, e Heidegger; tutti contributi, questi, assolutamente non
trascurabili, e che anzi costituiscono per certi versi gli estremi opposti del movi-
mento dialettico in cui la «dialettica riflessiva» di Stanguennec viene a situarsi.
Il riferimento al pensiero onto-teo-logico è ben spiegabile a partire dalla pre-
senza forte, nelle speculazioni prese in esame, dell‟impronta di una filosofia del-
l‟essere che implica al suo interno il riferimento alla sfera religiosa intesa come
apertura alla riflessione sull‟infinito (Platone, Aristotele), ma anche a quella re-
lativa all‟esegesi dei testi sacri (Spinoza, Schleiermacher, Kant).
Occorre notare che Stanguennec, muovendosi sulla scorta dell‟intuizione
heideggeriana che identifica nella struttura del movimento di trascendenza del
pensiero anche una Reszendenz corrispondente (p. 8), non accolga l‟ipotesi di I.
Schussler che vuole che le onto-gnoseologie filosofiche (empirismo, fisicalismo,
positivismo e analiticismo) siano ancora forzatamente contrassegnate con il ter-
mine «metafisica».
Si tratta invece, secondo Stanguennec, di prendere coscienza del movimento
di ascesa (affermazione), di «discesa» (negazione) e di ri-ascesa (negazione di ne-
gazione) del trascendente che si configurerebbe, nella sua totalità, come un
«eterno ritorno dell‟uguale» di chiara matrice nietzscheana.
Il movimento di ri-ascesa della metafisica attuale è seguito e sviluppato nel
suo manifestarsi come una seconda modalità di sintesi del sé trascendente infi-
nito e del sé riflessivo finito, che si affiancherebbe, affrancandosene, alla prima
modalità di questa stessa sintesi realizzata da Hegel nella forma di ciò che egli
stesso ha definito come «vero infinito». Tale superamento è reso possibile, e ciò
viene esplicitato fin dall‟introduzione all‟opera, attraverso una ontologia della
finitudine, ovvero un‟autoriflessione del sé finito che tenga conto delle conqui-
ste attuali delle scienze ontiche (empiriche e fisiche) in grado di fornire un ap-
parato epistemico differente da quello in cui si muoveva la riflessione hegeliana
(p. 12). Non è un caso che il profilo tracciato in questa «storia filosofica della
filosofia» finisca per analizzare, nella terza ed ultima parte del testo, intitolata Les
synthéses herméneutiques de l’etre et du soi, il primo momento della sintesi, rappre-
sentato, come sopra evidenziato, dalla tensione dialettica compiuta da Hegel fra
l‟ermeneutica sostanzialista (Aristotele e seguaci, tenendo ben a mente però che
l‟antecedente dell‟ermeneutica schleiermacheriana è, per Stanguennec, da rin-
tracciare piuttosto in Platone, mentre per ciò che riguarda Spinoza, l‟autore fa
chiaramente notare le differenze che contrappongono il suo pensiero alla visione
metafisica aristotelica in cui la struttura dell‟essere dell‟ente primario è forte-
mente segnata dalla staticità e dalla trascendenza, laddove l‟olandese, invece, in-
siste sul carattere dinamico e sull‟immanenza) e quella soggettivista (Kant e se-
guaci, con i relativi distinguo per gli Humboldt o i Cassirer).
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Seguendo il sentiero di ciò che Stanguennec individua come una rétrocession


philologique de Heidegger vers la phusis (p. 217-256), per la cui identificazione l‟au-
tore analizza il primo e il secondo periodo del pensatore tedesco, l‟analisi, pro-
posta nel testo, finisce per interrogare le questioni sollevate dalle «scienze fisi-
che» o «scienze della materia», al fine di trovare il completamento della regres-
sione del sé finito, dello spirito, verso la natura, per poi risalire da questa ad un
infinito trascendente in cui si superano al contempo sia la teologia negativa che
le pretese del misticismo razionale hegeliano.
Una conformazione del sapere in cui si potrà giungere al sé infinito in virtù
della analogia che esso intrattiene col sapere più alto, quello relativo al nostro sé
finito, cui perviene la dialettica riflessiva che, lo facciamo notare di nuovo, s‟in-
scrive tutta in un orizzonte sintetico e dialettico di concettualizzazione dei rap-
porti tra essere-sé-senso indagati a partire dal momento del «dogmatismo meta-
fisico» (Aristotele, Spinoza, ma anche Cartesio) e da quello detto «periodo in-
termedio» (per intenderci, quello che va dall‟empirismo al criticismo), attuando
un processo di regressione-progressione che si situa all‟esatto opposto di quello
progressivo-regressivo di Hegel.
Il compito che si prefigge il testo di Stanguennec è arduo e ambizioso. Tut-
tavia non si può non notare che in esso è operata una interessante e originale ri-
lettura della storia dell‟ermeneutica, intesa né come mera disciplina tecnica né
nella chiave più spiccatamente novecentesca, segnata dalla deriva del panerme-
neuticismo. Essa è affrontata piuttosto come luogo di confluenza di comuni inte-
ressi per le questioni filosofiche e scientifiche e crediamo che, anche per questo,
Être, soi, sens custodisca un pregio notevole da non sottovalutare.
GIUSEPPE BARRESI

PIO COLONNELLO, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Lettera mai scritta, Napoli,
Guida, 2009, € 10,00, pp. 60.
Il genere biografico ha rappresentato in ogni epoca uno strumento indispensabile
per la comunicazione di vicende personali e sociali, pubbliche e private, di per-
sonalità più o meno celebri, di uomini e donne che si sono distinti in uno dei di-
versi campi delle cose umane: la letteratura, la filosofia, le scienze o le arti. La
biografia, o l‟autobiografia, si è sempre accompagnata al bisogno umano della
narrazione e della memoria, della ricerca di un tempo che non potrà più essere,
se non, appunto, nella dimensione del ricordo, della vita immaginata, pensata,
descritta dalla mobilità sincronica della scrittura. E di biografia si è nutrita ogni
Bollettino filosofico XXV (2009) 539

ricerca storica e storico-filosofica che si rispetti. Chi non ricorda la complessa e


ricca natura di Orazio, del cantore che in nessun‟altra forma ci è dato meglio di
cogliere, se non nella sua stessa poesia, poiché di lui, come si diceva un tempo,
si può ripetere quello ch‟egli stesso diceva di Gaio Lucilio: «nei carmi apre in-
tero il suo cuore come si farebbe a fidi amici».
Ma non v‟è dubbio che uno dei generi letterari più consoni alla narrazione
biografica sia quello dell‟epistola: in una lettera si consegnano gli umori, le im-
pressioni, i dubbi, i rimorsi, i segreti, le ambizioni, le attese, le confessioni, le
promesse di chi scrive ad altri, a un amante, a un allievo, ad un amico, a un col-
lega. In una lettera si lasciano anche, scientemente, consapevolmente, le trame
essenziali di un intrigo che sarà poi cura del lettore, dell‟ignoto destinatario, ri-
costruire: una epistola non è mai, semplicemente, il messaggio privato di qual-
cuno a qualcun altro, ma è quasi sempre, invece, un testo scritto, un testo pub-
blico per un destinatario che è sin dall‟inizio parte integrante di un intrigo an-
cora da destinare.
In questo gioco di specchi, si scuotono, è vero, i cardini della filologia e della
storiografia, ma si disvelano, al contempo, le potenzialità letterarie e filosofiche
della narrazione biografica. Una di queste feconde possibilità è stata esplorata dal
recente libro di Pio Colonnello, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Lettera mai
scritta, edito per la prestigiosa collana “Strumenti e ricerche” della casa editrice
Guida di Napoli.
Attraverso la finzione narrativa di una lettera ritrovata (datata 12 febbraio
1951) che il filosofo tedesco non avrebbe mai inviato alla Arendt, sua allieva e
amante (la loro storia d‟amore risale al febbraio del 1925), Colonnello entra nel-
le pieghe nascoste della biografia intellettuale di Heidegger con l‟intento di met-
tere in evidenza uno dei misteri della vicenda teoretica, etico-politica, esisten-
ziale e sentimentale del grande filosofo: cercando cioè di trovare le ragioni di
quel prolungato silenzio che lo stesso Heidegger osservò, nel suo rapporto epi-
stolare con la Arendt, dall‟inverno del 1932/33 – poco prima della triste vicen-
da della Prolusione inaugurale del rettorato – al febbraio del 1950, data, quest‟ul-
tima, della ripresa del carteggio con la Arendt. Un silenzio durato circa vent‟an-
ni, che Colonnello trova singolare e sintomatico, anche perché nella corrispon-
denza posteriore al 1950 il filosofo non dà quasi mai occasione di spiegare le ra-
gioni di quella cesura temporale: «Quando ricomincia il rapporto epistolare –
scrive Colonnello nell‟Avvertenza al volume –, il filosofo parla semplicemente del
quarto di secolo della loro vita da recuperare; mentre per la Arendt [...] è come
se Heidegger non si fosse assolutamente reso conto che erano passati circa 25 an-
ni. Dalla corrispondenza emergono unicamente frammenti degli avvenimenti
trascorsi in quel quarto di secolo» (pp. 9-10).
La lettera rappresenta senza dubbio una confessione “sentimentale” dell‟au-
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tore di Essere e tempo. «Non posso nasconderti – leggiamo ad esempio a pag. 22 –


che io penso spesso alla tua bellezza, mia Hannah. Alla bellezza dei tuoi occhi
scuri e lucenti come due astri nella notte, così come mi apparivi nei primi tempi
del nostro rapporto, quando ascoltavi, rapita ed assorta, le mie lezioni e poi me
le commentavi; ma penso anche alla bellezza e al candore dei tuoi sentimenti.
Per me sei rimasta il leggiadro rifugio della mia anima, il salvifico inizio, la ghir-
landa dell‟essere che danza presso il focolare del mondo, la prima risposta alla
mia parola».
Ma non basta. Colonnello ha voluto immaginare ciò che Heidegger avrebbe
potuto scrivere, in una lettera mai spedita, per giustificare le sue scelte passate,
gli errori, l‟ostracismo subito, e soprattutto per comunicare a se stesso, prima
ancora ancora che ad altri, le dinamiche della sua evoluzione intellettuale: secon-
do l‟ordito autobiografico ricostruito da Colonnello, lo stesso Heidegger, con-
trariamente alla vulgata condivisa da alcuni critici ed intepreti, non avrebbe mai
inteso il suo percorso intellettuale come un cammino segnato dalla famosa Kehre,
dalla svolta; anzi, gli anni compresi tra il 1933 e il 1950 – tra i più fecondi, forse,
della carriera del filosofo –, segnerebbero il dispiegamento e perfezionamento di
un progetto filosofico unitario: «Esiste, infatti – si legge a pag. 30 del volume –
una continuità d‟atto dai miei primi lavori a Essere e tempo, a Kant e il problema del-
la metafisica, fino alla recente conferenza di Monaco, dal titolo La cosa. Io ritengo
che lungo l‟intero arco della mia riflessione si snoda un interrogativo fondamen-
tale che concerne l‟essere della cosa o l‟essenza della verità. Per questa ragione, io
scorgo una continuità tra il Kantbuch e il saggio La cosa». La lettera mai scritta si
presenta così come un lungo excursus sullo stato dei sentimenti, attuali e inattuali,
del filosofo tedesco, ma ancor più sullo stato delle sue ricerche, e dunque sul
preciso significato di ciascuna delle opere o dei saggi apparsi durante quel lungo
torno di tempo, come L’essenza della verità, La dottrina platonica della verità, e poi
ancora, i saggi sulla poesia di Hölderlin, e le numerose riflessioni a margine del
suo capolavoro, Essere e tempo, sul problema del rapporto fra l‟essere, la verità
come Aletheia, disvelamento, e l‟ontologia della differenza.
Per quanto riguarda la vicenda propriamente „politica‟ di Heidegger e la sua
„adesione‟ al partito nazionalsocialista, reiteratamente discussa da critici come
Victor Farias, Ernst Nolte, Hugo Ott ed altri, suggestiva appare la rilettura della
vicenda: forse Heidegger sarebbe rimasto „abbagliato‟ dal suo stesso tentativo di
arginare la forza impetuosa di un movimento, che, invece, avrebbe travolto, alla
fine, non solo lui ma molti altri intellettuali e filosofi tedeschi? era forse egli con-
vinto di contribuire ad un „autentico‟ rinnovamento spirituale del popolo tede-
sco? «Accettai – si legge a pag. 18 – sia perché credevo che il movimento
giunto al potere in quegli anni potesse aspirare a un profondo rinnovamento
del popolo tedesco nella storia dell‟Occidente, sia perché ritenevo che, as-
Bollettino filosofico XXV (2009) 541

sumendo il rettorato, avrei potuto guidare e servirmi di tutte le forze poten-


ziali per tale processo di rinnovamento. E lo ritenevo a prescindere dall‟appar-
tenenza delle forze, di cui mi sarei servito, al partito nazionalsocialista e alla
dottrina stessa del partito. Anzi, mi cullai addirittura nell‟idea di poter fare da
argine all‟avanzata di leader inadatti e al pericoloso predominio dell‟apparato e
della dottrina del partito».
Ma della inanità dello sforzo – e del suo „abbaglio‟ – il filosofo sembra ren-
dersi conto, forse, solo a posteriori: «Potrebbe sembrare un programma cer-
tamente pretenzioso – e probabilmente lo fu –, ma credimi, credevo forte-
mente nell‟efficacia di questo progetto: potresti forse obiettarmi che, in defi-
nitiva, si sarebbe trattato di fare i conti con forze impetuose e inquietanti,
molto più di quanto ci si poteva aspettare. Ma tu sai, noi sappiamo, che lo
stesso oggetto terribile o spaventoso può essere talora dominato e posto sotto
controllo: non è forse l‟enormità inquietante del Reno incorporata nella co-
struzione di una centrale elettrica? L‟impeto non è forse ricondotto a una for-
ma di ragione? [...] Però, avrei dovuto tenere nel debito conto che prossimità
e ostilità si coappartengono e che la dimensione dell‟estraneità non è total-
mente altra rispetto alla sfera del familiare [...]. Quanto è difficile dovere con-
statare che talora persino i Lari, gli dei buoni del focolare, si manifestano ina-
spettatamente come divinità malvagie!» (p. 18).
La Lettera mai scritta riapre così la possibilità di ripercorrere sentieri erme-
neutici, largamente investigati, a partire da un nuovo ed originale angolo pro-
spettico.
EMILIO SERGIO

MARCO MAZZEO, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Macerata,


Quodlibet, 2009.
Il volume di Marco Mazzeo sin dal titolo sollecita l‟interesse del lettore su uno
dei temi chiave del dibattito logico contemporaneo: mettere insieme contrad-
dizione e melanconia significa manipolare lo spettro dello psicologismo, questo
presunto fatale errore che delimita i confini della logica formale occidentale, ma
che invece non ha posto nessun problema ai pensatori che si sono mossi nell‟am-
bito della logica formale buddhista, sulla quale la scuola sovietica ha fornito studi
importanti. Mazzeo non conduce un approccio improntato ad un formalismo
esasperato, sebbene le sue analisi evochino continuamente e puntualmente que-
stioni cruciali di filosofia della logica, e la forte presenza di strategie argomenta-
tive legate alla filosofia del linguaggio si impone subito all‟attenzione del suo
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lettore. Tuttavia, se le sue analisi sono ritenute persuasive, e a me pare lo siano,


il suo volume si propone come una seria messa in discussione del presunto spet-
tro dello psicologismo, tanto seria da arrivare alle estreme conseguenze di una
fuoriuscita dalla logica classica, per approdare alla logica paraconsistente.
Mazzeo non è mosso da intenti di ricostruzione in sede di storia delle idee, ma
Aristotele occupa un posto importante nel suo libro: sebbene non arrivi ad affer-
mare come Graham Priest che la sillogistica aristotelica era paraconsistente, Maz-
zeo argomenta con lunghe e puntuali analisi che l‟icona classicista appartiene più
alla tradizione filosofica successiva che non allo stesso Aristotele, che insomma il
testo aristotelico è più ricco di sfumature di quanto certi suoi epigoni abbiano vo-
luto far trasparire attraverso letture ingessate. Mazzeo non si occupa della psichia-
tria e della psicoanalisi in genere, e il suo interesse per la melanconia vuole darsi
un approccio analitico misurato e delimitato; tuttavia, l‟impressione del lettore è
che la melanconia non sia che una della spie di come il funzionamento della mente
umana non obbedisca alle categorie della logica classica, e che sveli la sua struttura
intimamente paraconsistente. L‟appropriatezza delle sue riflessioni sulla metafora
e sulle strutture linguistiche trovano in me un lettore partecipe ed ammirato, an-
che se spingono la sua ricerca verso lidi che ho frequentato più in passato che oggi:
sono certo una parte importante dei meriti del volume, ma esso ha anche dei gradi
meriti nel proporre temi di discussione che toccano il cuore dello stesso discorso
sulla struttura logica del mondo. Calato nel mio approccio medievista, trovo in
Mazzeo alcuni riferimenti diretti a tasselli del pensiero medievale, ma nella sua re-
te semantica tutto il libro di Mazzeo è un continuo rinvio a tematiche essenziali che
hanno percorso il Medioevo: parlando dei Moderni, Mazzeo ci racconta degli An-
tichi, e il suo volume si può inserire a pieno titolo in quei tentativi di produrre una
storia della filosofia in chiave paraconsistente che trovano nel volume di Lorenzo
Peña El ente y su ser (Léon 1986) il suo più illustre antesignano.
Cercherò quindi di evocare giusto alcuni snodi intellettuali che Mazzeo met-
te brillantemente in primo piano, forse tacendo sulle sue conoscenze erudite più
importanti, tra filosofi del linguaggio e della mente, ma che certo si impongono
al lettore attraverso una dimensione antropologica che coglie la dimensione em-
blematica – non già meramente pragmatica – dell‟essere-uomo nel mondo e che
insiste in maniera efficace sulla dimensione rituale dell‟uomo: incapace di smet-
tere i miei occhiali di medievista scolasticheggiante, vorrei sollecitare il lettore
verso la grande varietà di interessi che il libro di Mazzeo può soddisfare, anche
quando non se lo propone esplicitamente. Non è per limitare la portata delle sue
analisi, bensì per elogiarla, che mostrerò piuttosto il mare in cui la sua barca ci
permette di navigare piuttosto che descrivere i remi della stessa barca.
Accostare la melanconia con gli strumenti dell'ambivalenza e della logica parte-
cipativa è sicuramente efficace e persuasivo: viene in mente come la pratica tera-
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peutica dell‟analisi inizia con la libertà che il terapeuta dà al paziente di rendere


conto di sé contraddicendosi – è forse solo un‟esagerazione picaresca dire che la
logica classica genera mostri, ma non lo è dire che la logica classica nasconde la
malattia, elimina le parole per dirla. In letteratura si è fatto l‟esplicito parallelo con
la questione della costituzione dell‟identità del soggetto: se l‟identità è data dal-
l‟elemento intellettuale, contraddirsi – nel solco classicista – significa destrutturar-
si; se l‟identità è data dall‟elemento volitivo, contraddirsi non è fatale, o meglio lo
è solo in alcuni casi. La psicoanalisi si situa nel secondo scenario, che potremmo
dire in termini medievali il primato della volontà sull‟intelletto, ed in termini
schmittiani sin troppo partigiani la scuola francescana contro la scuola domenicana.
La strutturale ambivalenza della melanconia, sempre in gioco dalla sua funzione di
ancorare alla realtà per evitare di diluirsi in essa e dalla sua funzione contempo-
ranea e indissociabile di disancorarsi dalla realtà sotto l‟ossessione di evitare la con-
fusione in essa, ci parla della costituzione antropologica dell‟uomo: in questo, le
misurate analisi di Mazzeo, hanno una portata con ambizioni forti.
Le premesse di questo elogio della paraconsistenza si trovano in una siste-
matica analisi della concezione della contraddizione in Aristotele, in un lavorio
che derubrica il principio di contraddizione a legge di contraddizione, in cui il
mare della logica universale (sia detta bi-logica alla maniera di Matte Blanco op-
pure paraconsistente secondo l‟uso dei logici formali) contiene – e non già
espelle – un golfo in cui vale la logica classica. Affronta la questione della natura
della negazione, che sin dal Parmenide e dal Sofista di Platone passando per i neo-
platonici è un punto cruciale della riflessione filosofica, anche se è stata tematiz-
zata in maniera analitica più nella tradizione buddhista che in quella occidentale.
Sino agli epigoni del formalismo contemporaneo, come quando Mazzeo affronta
il funtore di Sheffer e usa categorie, quelle dell‟incompatibilità e della reiezione,
che secoli prima Giovanni Duns Scoto avrebbe avanzato in un contesto di onto-
logia formale come quelle dell‟in-compossibiltà e dell‟oggetto non-creabile da
Dio. Il nome di Scoto ritorna nel libro di Mazzeo con il rinvio alla tesi dello
Pseudo-Scoto secondo la quale ex falso sequitur quodlibet: Priest lo ha chiamato il
Principio di Esplosione, e lo ha stigmatizzato come la falsa tesi su cui si basa il
dogma classicista. Io ho cercato di mostrare, sebbene la tesi abbia un poco trop-
po un abbigliamento da enfant terrible, come ad una lettura più simpatetica lo
Pseudo-Scoto sostenga piuttosto il contrario, cioè che ex falso sequitur quodlibet è
una legge locale, nient‟affatto un principio universale. Mi piacerebbe che Maz-
zeo riflettesse su quelle pagine latine su cui hanno già scritto Priest e Routley, se
non altro perché anche il suo Aristotele non-classicista mi ricorda un esercizio
argomentativo scolastico in cui anche Scoto era maestro: l‟autorità non doveva
essere osannata o liquidata, doveva essere interpretata.
Mi piacerebbe anche che riflettesse sulla semplicità divina nel contesto del
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pensiero scolastica, questa semplicità da cui non si deduce nulla che contrasti le
infinite distinzioni reali che gli autori producono: contorsioni verbali oppure on-
tologia paraconsistente? La psicologia divina elaborata dai medievali sarebbe un
ottimo banco di prova per cercare di meglio comprendere i loro discorsi sulle
malattie mentali, su quelli che loro chiamerebbero piuttosto sulla falsariga dei
Padri della Chiesa vizi o peccati. L‟accidia è un candidato eccellente ad antesi-
gnano delle riflessioni moderne sulla melanconia. E il caso dell‟asino di Buridano,
in questa contestualizzazione in cui volontarismo ed intellettualismo si oppon-
gono, diverrebbe un vero e proprio argomento per assurdo: è assurdo pensare
che l‟uomo si comporti come l‟asino che rispetta nella sua mente le leggi espli-
cative di Buridano, intellettualista parigino del XIV secolo. Il filosofo musulmano
Al-Gahazali, scrivendo all'epoca di Sant‟Anselmo, aveva preferito parlare diret-
tamente di un uomo che tra due datteri identici sceglie quello che gli pare e
mangia: l‟agenda del volontarismo, in qualunque tradizione filosofica sorga – la-
tina, araba, giudaica –, sempre spingere verso lidi paraconsistenti. Perché mi
piacerebbe che Mazzeo facesse queste incursioni, muovendosi su un terreno sto-
rico amplissimo che va dalla contemporaneità all‟antichità? Perché troppo spesso
la letteratura che rende conto dei commentari al De anima di Aristotele li relega
anche al dominio dell‟archeologia erudita, mentre sulla falsariga dell‟approccio
di Alain de Libera gli strumenti concettuali usati da Mazzeo potrebbero confe-
rire un interesse agli occhi di qualunque filosofo verso le premesse medievali alla
paraconsistenza.
Insomma, il volume di Mazzeo soddisferà senz‟altro gli appassionati di
filosofia del linguaggio e della mente; intrigherà per i suoi riferimenti ad una let-
teratura antropologica che rinvia alle grandi sintesi di autori come Pierre Legen-
dre, che pure non è citato; appassionerà per la sua capacità di evocare universi
semantici che trascendono gli steccati di mere periodizzazioni cronologiche. E
porrà una sfida intellettuale eccitante: produrre argomenti in favore di una tesi
filosofica che oggi è certamente minoritaria, la tesi che la struttura ontologica
del mondo è paraconsistente.
LUCA PARISOLI

GALILEO GALILEI, Sidereus Nuncius ovvero Avviso Sidereo, a cura di W. Shea e T.


Bascelli, Venezia, Marcianum Press, 2009.
«Sapranno dunque come, circa tre mesi fa», scrive Galilei a Giuliano de‟ Medici
il 1° gennaio del 1611, «vedendosi Venere vespertina, la cominciai ad osservare
diligentemente, per vedere col senso stesso quello di che non dubitava l‟intel-
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letto». Le fasi di Venere, di cui la missiva comunicava a Keplero la scoperta at-


traverso l‟ambasciatore toscano alla corte di Praga, rappresentavano per Galilei
un argomento decisivo a favore del sistema copernicano fornito dal telescopio. Il
nuovo strumento, osserva acutamente William Shea nella prefazione a questa
nuova edizione del Sidereus Nuncius, costrinse a cambiare il mondo e a rivedere la
nostra posizione nell‟universo grazie a Galilei, «i cui occhi erano preparati a ve-
dere cose nuove e le cui mani erano in grado di dipingere quello che vedevano».
Quando viene a conoscenza attraverso le descrizioni di numerosi corrispondenti
di un cannocchiale capace di aumentare potentemente le capacità della vista, Ga-
lilei, da tempo convinto dell‟insostenibilità della cosmologia tolemaica, è impe-
gnato in un confronto serrato con gli argomenti anticopernicani di Tycho Brahe.
La costruzione del telescopio da parte di Galilei non fu, come viene spiegato nel-
l‟introduzione, il risultato di un sapere teorico ma di un lavoro artigianale. Di
fronte al nuovo ritrovato che prospettava importanti applicazioni terrestri l‟at-
teggiamento galileiano fu deciso e radicale: «congedate le cose terrene mi rivolsi
alle esplorazioni terrestri». Con un atto rivoluzionario Galilei volse al cielo uno
strumento proveniente dal mondo degli artigiani, con una fiducia nelle sue
possibilità di far conoscere qualcosa della natura dei cieli, degli astri e dei pianeti
che molti peripatetici avverseranno. Quello che vide tra il 1609 e il 1610 ripagò
quella fiducia. La superficie della Luna non appare liscia e levigata come dovreb-
be essere secondo la cosmologia tradizionale, ma «rugosa e disuguale, e proprio
come la faccia della Terra si mostra da ogni parte piena di smisurati rigonfia-
menti, di profonde cavità e di gole». La via lattea, che il matematico gesuita Cri-
stoforo Clavio riteneva un addensamento dell‟etere, risulta essere «nient‟altro
che un cumulo d‟innumerevoli stelle disseminate a gruppi». La vera natura dei
fenomeni celesti appare per la prima volta alla portata dei sensi umani, risol-
vendo con l‟evidenza sensibile le dispute senza fine su quello che Galilei definirà
il mondo di carta dei seguaci dell‟aristotelismo. Anche al lettore dell‟Avviso side-
reo era data la possibilità di vedere la reale natura dei corpi celesti colta per la
prima volta attraverso il nuovo strumento. Nelle prime quattro tavole illustra-
tive dell‟opera è incisa la morfologia lunare osservata da Galilei. Come mostrano
i disegni preparatori, riprodotti e illustrati nella prefazione di questa edizione, le
illustrazioni galileiane erano il frutto di osservazioni ripetute e di una lenta e gra-
duale elaborazione teorica. Galilei non era il solo nel 1609 ad aver osservato la
Luna al telescopio. Anche l‟inglese Thomas Harriot aveva riprodotto in una il-
lustrazione quello che aveva osservato nel luglio del 1609. Gli occhi di Harriot
era-no preparati a vedere cose nuove al pari di quelli di Galilei, ma a differenza
di quest‟ultimo Harriot non sembra aver compreso la comune natura di Terra e
Luna. Dal confronto del disegno realizzato nel luglio 1609 con quello compiuto
l‟anno seguente, dopo aver visto il Sidereus Nuncius, emergono dubbi significativi
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sulla piena comprensione da parte di Harriot della somiglianza tra la Terra e la


Luna. Il terminatore, la linea che separa la parte rischiarata da quella buia della
Luna, nel prima raffigurazione di Harriot si presenta frastagliata ed è alquanto
rozza, mentre la seconda riproduce la forma e i crateri osservati nelle tavole ga-
lileiane. Perché Galileo vide quello che è assente nel primo disegno di Harriot? Il
possesso della prospettiva aveva reso Galilei capace di cogliere senza difficoltà il
carattere irregolare della superficie lunare con i suoi vasti crateri illuminati nella
parte opposta alla fonte luminosa e di riprodurne fedelmente l‟immagine. Lo
scetticismo verso i principi aristotelici che erano alla base del cosmo geocentrico
predisponeva Galilei a riconoscere con prontezza aspetti del mondo celeste in
diretta contraddizione con quei principi. Nell‟introduzione alla presente edizio-
ne la risposta a quella domanda viene indicata nell‟influenza che il De facie quae in
orbe lunae apparet di Plutarco ha esercitato sulla predisposizione galileiana verso
l‟evidenza che il telescopio portava agli occhi. La rilevanza dell‟opera di Plutarco
per Galilei è mostrata anche dalla ripresa letterale di passi plutarchei nelle de-
scrizioni dei rilievi lunari. In un testo destinato a mostrare in maniera diretta le
nuove scoperte i riferimenti alle interpretazioni degli antichi e alle teorie della
tradizione erano stati volutamente sacrificati a favore di una descrizione accurata
e fedele delle nuove scoperte. Tuttavia l‟Avviso sidereo non si presentava nelle in-
tenzioni di Galilei come uno scritto neutro sul piano delle scelte cosmologiche.
Il copernicanesimo, che aveva accompagnato il giovane Galilei da Pisa ed era
lentamente maturato nelle riflessioni avvenute nello stimolante ambiente pado-
vano, costituiva lo sfondo entro il quale le nuove scoperte idealmente venivano a
collocarsi. In questa prospettiva la scoperta dei satelliti di Giove e delle fasi di
Venere rappresentava un argomento capace di dare alla convinzione copernicana
di Galilei quel significativo sostegno iniziale fino ad allora assente. Da «questa
mirabile esperienza», prosegue Galilei nelle lettera a Giuliano de‟ Medici, «ha-
viamo sensata e certa dimostrazione di due gran questioni, state sin qui dubbie
tra‟ maggiori ingegni del mondo. L‟una è che i pianeti tutti sono di loro natura
tenebrosi (accadendo anco a Mercurio l‟istesso che a Venere): l‟altra, che Vene-
re necessariissimamente si volge intorno al sole, come anco Mercurio e tutti li
altri pianeti, cosa ben creduta da i Pittagorici, Copernico, Keplero et me, ma
non sensatamente provata come hora in Venere et Mercurio». Anche se le fasi di
Venere erano compatibili con il sistema ticonico la fiducia di Galilei nel signifi-
cato copernicano delle scoperte astronomiche non veniva limitata. Il confronto
con le critiche di Tycho alla teoria copernicana era condotto negli stessi anni sul
piano della nuova scienza del moto ed era destinato a essere affrontato in
un‟opera de systemate mundi il cui scopo, come si afferma nello stesso Avviso
sidereo, era dimostrare il moto della Terra e che essa «non è solo un fondo di na-
ve pieno delle sporcizie e delle scorie del mondo». Anche se aveva attenuato in
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parte rispetto al manoscritto il carattere assertorio delle sue conclusioni, il signi-


ficato della scoperta delle stelle medicee rimaneva per Galilei decisamente favo-
revole al sistema copernicano. «Inoltre», si legge al termine dell‟opera, «abbia-
mo un argomento unico e illustre per togliere il forte dubbio a coloro i quali pur
accettando di buon grado le rivoluzioni dei pianeti intorno al Sole nel sistema
copernicano, sono a tal punto sbigottiti dal moto di una Luna intorno alla Terra,
mentre tutte e due fanno un giro completo della sfera annuale intorno al Sole,
da ritenere che questa struttura dell‟universo debba essere respinta come impos-
sibile». Il cannocchiale mostra che sono addirittura quattro le lune che compiono
la loro rivoluzione intorno a Giove e insieme ad esso ruotano intorno al centro
dell‟universo. «Oh Niccolò Copernico», esclamerà Sagredo nel Dialogo, «qual
gusto sarebbe stato il tuo nel veder con si chiare esperienze confermata questa
parte del tuo sistema». Sebbene nessuna di esse costituisca la prova decisiva della
mobilità della Terra, le scoperte telescopiche contribuiscono a demolire la co-
smologia tradizionale, fornendo argomenti decisivi per coloro che si interrogano
sulla struttura del mondo. È con questa convinzione che Galilei conclude la let-
tera a Giuliano de‟ Medici solo un anno dopo il suo Avviso sidereo, sostenendo che
«haveranno il sig. Keplero e gli altri Copernicani da gloriarsi di havere creduto
et filosofato bene, se bene ci è toccato, et ci è per toccare ancora, ad essere re-
putati et creduti dall‟universalità de i filosofi in libris per poco intendenti e per
poco meno che stolti». Galilei sapeva bene che per riconoscere la verità del si-
stema copernicano è necessario, come affermerà nel Dialogo, far violenza ai sen-
si, che ci mostrano il Sole sorgere e tramontare ogni giorno senza darci contezza
del moto che percorriamo insieme all‟atmosfera terrestre intorno all‟asse del
nostro pianeta. Di questo nuovo concetto di esperienza scientifica, alternativo al
senso comune cui faceva appello la scienza dei peripatetici, il volgere al cielo
uno strumento meccanico per superare i limiti dei sensi nudi costituiva l‟atto di
nascita.
FRANCESCO G. SACCO

JOHANN JOACHIM BECHER, Magnalia Naturae (1680) – Le grandi cose della natura,
a cura di Emilio Sergio, presentazione di Ferdinando Abbri, Roma, Aracne,
2006, pp. 79, € 6.

Nell‟alveo della rivoluzione scientifica, sospesa tra tradizione sperimentale e ma-


tematica, esiste un territorio di arti e di saperi – come l‟astrologia, l‟alchimia, la
magia naturale – che ha ricevuto solo da alcuni decenni una rinnovata attenzione
da parte degli storici della scienza e della letteratura filosofica. A metà strada tra
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scienza e non scienza, questo corpus di saperi ha dato non pochi problemi agli sto-
rici della scienza del secondo dopoguerra – A. Rupert Hall e M. Boas Hall, solo
per citarne alcuni –, data l‟evidente difficoltà a collocare forme ancora incom-
piute di sapere scientifico all‟interno di confini epistemologici e disciplinari mol-
to netti, quali erano quelli di campi scientifici tradizionalmente „forti‟, come le
scienze matematiche e fisiche. Lo sforzo degli storici della scienza nell‟ultimo
trentennio – P. Rossi, M. Hunter, W. Newman, L. Principe – è stato quello di
comprendere e di spiegare non solo il ruolo assunto – in positivo e in negativo –
da saperi come l‟alchimia e la filosofia ermetica nella costruzione dell‟idea mo-
derna di scienza, ma anche le inevitabili contaminazioni esistenti, nel XVII seco-
lo, tra la nuova filosofia sperimentale e alcuni pezzi della tradizione alchemica.
Il volume curato da Sergio ricostruisce un piccolo pezzo di questa storia a
partire dalla traduzione di un testo „minore‟, e tutto sommato poco conosciuto,
delle opere di Becher. Becher fu un autore poliedrico: medico, matematico, fi-
losofo, inventore di linguaggi speciali, economista e alchimista. Il testo qui tra-
dotto, Magnalia Naturae, costituisce a suo modo un simbolo eloquente del pas-
saggio dalle arti pre–chimiche della tradizione medievale e rinascimentale alla
chimica pre–moderna o seicentesca.
In questa piccola opera Becher racconta le vicende di Wenceslaus Seyler, un
frate moravo dell‟ordine agostiniano dalla scarsa vocazione, che con l‟aiuto di un
vecchio frate scopre una scatola di rame contenente una polvere rossa: è la „tin-
tura filosofica‟, detta anche „polvere di proiezione‟, che il vecchio frate rivela a
Wenceslaus essere una sostanza avente la virtù di trasformare i metalli in oro. Il
racconto non è altro che la narrazione delle „scandalose‟ avventure vissute da
Seyler in seguito alla sua scoperta. Ma tra le righe di quello che sembra a prima
vista uno scritto di intrattenimento (come l‟ha definito Lawrence Principe, «a
rather lurid account of Seiler‟s rise to fame»), Sergio scopre un‟operetta dalle
molteplici finalità, sia scientifiche che letterarie e morali. Magnalia Naturae in-
tendeva innanzitutto fornire al pubblico degli „adepti‟ dell‟alchimia come a quel-
lo degli eruditi e dei semplici „curiosi‟ un dettagliato resoconto degli esperi-
menti alchemici di trasmutazione compiuti da Seyler a Vienna durante gli anni
1670; esperimenti di cui oggi rimane traccia in alcuni medaglioni conservati
presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Becher decise di dare alle stampe
lo scritto per rispondere alle richieste di quegli intellettuali (tra cui c‟era anche
Robert Boyle) desiderosi di avere notizie utili sulla vita e sull‟opera del frate mo-
ravo. Come Sergio ricorda nel libro, il racconto era un‟occasione per Becher di
manifestare le proprie idee in merito a quella parte più nobile dell‟alchimia che
era la Chrysopoeia, ovvero l‟arte della trasmutazione. In questo senso, il racconto
di Becher intendeva «riabilitare la verità dell‟alchimia a dispetto dell‟immoralità
di Seyler, e per poterlo fare aveva un solo mezzo: dire tutta la verità sul conto di
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Seyler, e mostrare al contempo che le trasmutazioni erano state compiute con


successo. A tale scopo, Becher non poteva non accentuare il senso di una sepa-
razione fra scienza e morale e mostrare concretamente, sul filo della biografia,
che in alcuni casi l‟alchimista e il ciarlatano potevano convivere nella stessa per-
sona» (p. 36).
La natura quasi „ironica‟ con cui il maturo Becher, ormai cinquantenne, com-
pose questo scritto, ne fa un‟opera unica: a metà strada tra il resoconto alchemico,
il racconto morale e il divertimento letterario; eppure, quando il lettore riesca a
comprendere le circostanze che l‟hanno prodotto, vi riconoscerà «una porta per
entrare nel mondo degli alchimisti e dell‟alchimia del Seicento» (p. 11).
SONIA VAZZANO

T. CAMPANELLA, Sintagma dei miei libri e sul corretto metodo di apprendere – De libris
propriis et recta ratione studendi syntagma, Edizione, traduzione dal latino, annota-
zioni e Introduzione di Germana Ernst, con una nota iconografica di Eugenio
Canone, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore (Bruniana & Campanelliana. Supple-
menti, XXI – Bibliotheca Stylensis, 4), 2007, pp. 140, € 28,00; IDEM, Del senso
delle cose e della magia, a cura di Germana Ernst, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp.
XXXIV + 262, € 24,00.

Campanella è stato uno degli autori più prolifici della cultura filosofica del Rina-
scimento italiano: grande ammiratore, sin da giovanissimo, della filosofia di Ber-
nardino Telesio, e profondo conoscitore dei classici greci e latini che gli erano
stati tramandati dalla cultura medievale e umanistica, si è occupato di filosofia
naturale, di astronomia e di cosmologia, di metafisica e di teologia, di politica e
di medicina, di retorica e di grammatica; è stato poeta e astrologo, teologo e fi-
losofo, profeta e scienziato. Il suo cursus studiorum è stato formidabile, se si pensa
che trascorse gran parte della sua vita nelle carceri del S. Uffizio, a Roma, e nel
Castel dell‟Ovo, a Napoli. In carcere, nonostante le ristrettezze della sua condi-
zione, le continue torture e i ripetuti sequestri delle sue carte manoscritte, il fi-
losofo calabrese non perse mai di vista le sue ambizioni di letterato e di filosofo.
Incurante delle continue irruzioni e perquisizioni nella sua cella, egli continuò a
scrivere e a riscrivere molte delle sue opere, in segreto, cercando ad ogni oc-
casione di consegnare a coloro che stimava suoi amici, o di cui sentiva di poter
fidarsi, i manoscritti delle sue opere, con la preghiera di renderli noti, di farli
pubblicare e diffondere presso la comunità dei dotti, affidandoli a qualche illumi-
nato editore.
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Il genio esuberante del filosofo di Stilo si potrebbe già riassumere in questa


tenace caparbietà, nella mai domata voglia di libertà che stillava da ogni suo ge-
sto, da ogni conquistata riga del suo pensiero. Filosofia e scienza, politica e reli-
gione, poesia e letteratura si intrecciano e si ordinano, rigorosamente, secondo
una inesauribile volontà intellettuale. Campanella comprese sin da subito le enor-
mi potenzialità che potevano derivare dalla messa a frutto delle sue capacità let-
terarie e delle sue energie intellettuali; e le sfruttò tutte, o almeno, tentò di farlo,
passando da uno stile filosofico all‟altro, da un genere letterario all‟altro, ten-
tando di percorrere, con l‟intento di un riformatore, tutti i diversi campi del sa-
pere, diffondendo le linee della „rivoluzione‟ culturale che aveva in mente, con
uno spirito e secondo un progetto che oggi chiameremmo „enciclopedici‟. Egli
scrisse sia nella lingua dei dotti, cioè il latino, sia nella lingua volgare, in quel-
l‟idioma „italico‟ che sin da allora era alla ricerca di una propria identità „nazio-
nale‟. E sfruttò tutte le possibilità che la scrittura gli offriva, non esitando a ri-
correre anche ad uno dei generi letterari più raffinati del mondo degli eruditi: il
genere dell‟autobiografia.
Proprio secondo lo stile dell‟autobiografia, Campanella componeva la famo-
sa Prefazione della più „telesiana‟ delle sue opere giovanili, la Philosophia sensibus
demonstrata (1591), «La filosofia che i sensi ci additano», scritta nel giro di pochi
mesi, all‟età di soli ventidue anni, nel chiuso del convento di Altomonte. In
quell‟occasione, lo Stilese ricordava con quale entusiasmo avesse accolto l‟in-
contro con l‟opera di Telesio, il De rerum natura iuxta propria principia (1570), un
libro che sarà di importanza capitale nella sua battaglia contro l‟aristotelismo
medievale. Ad Altomonte, Campanella si trovava per una sorta di punizione in-
flitta dai suoi superiori, che l‟avevano inviato nel piccolo convento arroccato sul-
le pendici del Pollino per trascorrere un periodo di meditazione, dopo aver regi-
strato l‟irrequietezza del giovane frate verso l‟autorità religiosa, e colto il suo
stato di insoddisfazione verso il sapere tradizionale insegnato nelle scuole religio-
se. Contrariamente alle aspettative, il giovane Campanella colse l‟occasione per
leggere più attentamente l‟opera di Telesio, e difenderlo contro gli attacchi di Gia-
como Antonio Marta, un giurista napoletano che Campanella non esitò a definire,
nella Philosophia sensibus demonstrata, un «filosofastro», un filosofo da strapazzo.
Nel corso della sua lunga prigionia, che si protrasse fino alla fine degli anni
1620, Campanella ebbe occasione di meditare più di una volta sulle condizioni
di quell‟insegnamento tradizionale che egli aveva così precocemente rifiutato, e
che immaginava di contribuire a trasformare attraverso una nuova filosofia, la
restaurazione di un nuovo sapere. Così l‟aspetto pedagogico del grande filosofo
si intreccia mirabilmente con l‟ansia di un rinnovamento scientifico, politico e
culturale delle società europee. In questo senso, la vicenda intellettuale dello
Stilese diventa l‟esempio più concreto delle ambizioni racchiuse nel suo progetto.
Bollettino filosofico XXV (2009) 551

Delle finalità pedagogiche del suo programma filosofico fu informato agli inizi
degli anni 1630 Gabriel Naudé, un intellettuale francese ammiratore dello Stile-
se. Campanella si trovava allora a Roma, ed ebbe più di un incontro con l‟erudi-
to francese, il quale conquistò la fiducia del frate. Quest‟ultimo acconsentì alla
richiesta di Naudé di dettargli la sua biografia ed un elenco ragionato delle sue
opere. Hanno così origine una Vita Campanellae e il Syntagma de libris propriis. Ma-
lauguratamente, come ricorda Germana Ernst nella sua Introduzione al Syntagma,
«nessuno dei testi affidati al Naudé vedrà la luce per le sue cure durante la vita di
Campanella». L‟autobiografia del filosofo «andrà miseramente perduta», mentre
il Syntagma sarà pubblicato a Parigi solo dopo la morte di Campanella.
Evidentemente deluso dal Naudé, Campanella non ripenserà più al progetto
di un‟autobiografia. Del resto, negli ultimi anni della sua vita, tra il 1634 e il
1638, a Parigi, sotto la protezione del re di Francia e del cardinale Richelieu,
Campanella impegnerà il suo tempo soprattutto nella pubblicazione di quelle
grandi opere che aveva più volte riscritto, e nella riedizione di quelle altre, come
ad esempio il De sensu rerum et magia, che avevano conosciuto una certa fortuna
dopo la prima edizione latina, e meritavano ora una nuova messa a stampa. La
pubblicazione, nel 1642, del Syntagma, costituì tuttavia un‟occasione unica per la
conservazione di notizie importanti sulla biografia e sulla filosofia dello Stilese.
Nel primo dei quattro libri che compongono l‟opera, oltre ad importanti cenni
sulla sua vita, «Campanella fornisce indicazioni preziose sulla composizione dei
propri testi, a partire dallo scorcio dell‟adolescenza e degli anni giovanili per
giungere all‟età matura, delineando una mappa insostituibile delle complesse,
talora romanzesche, vicende di libri e manoscritti, compresi quelli che non sono
giunti fino a noi» (Introduzione, p. 16). Nella seconda parte, Campanella si sof-
ferma sul corretto metodo di apprendere, e sui requisiti indispensabili affinché
lo studio risulti proficuo; nella terza si discute sul corretto modo di scrivere e
sulle finalità della scrittura; nella quarta ed ultima sono citati gli autori più im-
portanti nei diversi campi del sapere: filosofi e teologi, poeti e scienziati; e qui lo
Stilese, accanto ad un innegabile sfoggio di erudizione, coglie l‟occasione per ri-
badire alcune tesi già espresse in altre opere, come la sua idea di una religione
universale, il suo giudizio sulla poesia, e la sua concezione della retorica.
Dobbiamo all‟impegno di Germana Ernst, curatrice della presente edizione
del Syntagma, e della splendida edizione Laterza del Senso delle cose, la rinnovata
attenzione per il filosofo calabrese, del quale cominciano a venire alla luce, pro-
prio in questi ultimi anni, aspetti fondamentali del suo pensiero, e le vicende
della fortuna e della diffusione che ebbero le sue opere nella cultura europea
dell‟età moderna. L‟edizione italiana del Senso delle cose, finora disponibile nella
edizione di A. Bruers (1925), e più recentemente, nella trascrizione di W. Lupi
di un esemplare manoscritto conservato presso la Biblioteca Civica di Cosenza
552 Recensioni

(edito per i tipi della Rubbettino, 2003), è stata emendata in numerosi luoghi
grazie alla collazione con diversi esemplari manoscritti. Si tratta di un lavoro
encomiabile di ricostruzione storiografica, a cui la Ernst ha abituato i suoi lettori
e il pubblico degli studiosi con una serie importante di ricerche e di edizioni, tra
cui ci limitiamo a ricordare qui, fra le più recenti, quelle delle Lettere (1595-
1638) (Pisa–Roma, 2000) non comprese nell‟edizione curata da V. Spampanato
nel 1927; degli Opuscoli astrologici, Milano, 2003 e soprattutto della ritrovata
redazione italiana autografa dell‟Ateismo trionfato, Pisa, 2004.
Campanella non fu un vero „uomo d‟arme‟, come il suo contemporaneo
Descartes, né ebbe incarichi accademici, come il suo corrispondente Galileo.
Egli indossò sin da adolescente il saio dell‟ordine domenicano, e da monaco-
filosofo combatté le sue battaglie, per un rinnovamento culturale e morale, non
solo del suo Meridione, ma dell‟Europa intera; un‟Europa che andava nascendo
anche attraverso l‟impegno e il contributo di quella „République des Lettres‟, di
cui il Nostro è stato senza dubbio uno degli esponenti più illustri*.
EMILIO SERGIO

DELFINA GIOVANNOZZI e MARCO VENEZIANI (eds.), Natura. XII Colloquio Inter-


nazionale (Roma, 4-6 gennaio 2007), Firenze, Leo S. Olschki, 2008, pp. 566
(Lessico Intellettuale Europeo, CV).

A distanza di oltre venti secoli dalla nascita della filosofia in Grecia, uno dei lem-
mi centrali del lessico filosofico e scientifico, “Natura”, continua a costituire uno
dei capitoli più affascinanti e problematici del pensiero occidentale: è attorno al
significato di questo termine, ad esempio, che si muove il dibattito contempora-
neo in materia di bioetica, genetica e biologia evoluzionistica; ed è sempre in-
torno ai più recenti risultati nel campo delle neuroscienze, della filosofia della
mente e dell‟etologia cognitiva che la parola “natura” rivela tutto il suo poten-
ziale, sia teoretico che epistemologico.
Potrà risultare strano, e forse singolare, l‟intento di introdurre il presente

* L‟interesse per il recupero di testi e contesti del naturalismo rinascimentale non

potrebbe guadagnare esiti così favorevoli e significativi presso il pubblico di studiosi e bi-
bliofili, se non si accompagnasse ad un‟altrettanto rigorosa ricognizione sui diversi motivi
dell‟iconografia e della biografia degli autori indagati. Ce lo rammenta per inciso M. FAT-
TORI, in un suo contributo al recente volume del Lessico Intellettuale Europeo (Natura, a cu-
ra di D. Giovannozzi e M. Veneziani, vedi infra), a proposito di uno dei frontespizi del De
rerum natura di Telesio, e ce lo ricorda, più compiutamente, EUGENIO CANONE nella „Nota
iconografica‟ all‟edizione sopra citata del Syntagma di Naudé (pp. 115-128).
Bollettino filosofico XXV (2009) 553

avviso bibliografico – di un volume di taglio eminentemente storico–filosofico,


qual‟è il tomo CV della pregevole collana del Lessico Intellettuale Europeo –,
evocando discipline o settori scientifici relativamente recenti del sapere contem-
poraneo: eppure, quella di coniugare le più recenti teorie e scoperte nel campo
delle scienze biologiche e della natura con le più recenti acquisizioni della sto-
riografia filosofica e scientifica, sembra ormai un‟esigenza ineludibile nell‟attuale
dibattito storiografico e scientifico. Da una parte, filosofi e biologi trovano di
grande peso, sia epistemico che culturale, mettere in evidenza quelle linee di
continuità (ma anche di discontinuità), esistenti fra le più recenti scoperte delle
scienze della natura, con quegli approcci e quelle metodologie già operanti nella
filosofia e nelle scienze dell‟età moderna e dell‟antichità (basti ricordare il bel li-
bro di Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Mi-
lano, Adelphi, 2003; o lo stimolante scritto di Edward Wilson, L’armonia mera-
vigliosa: dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza, Milano, Monda-
dori, 1999). Dall‟altra, non pochi storici della filosofia trovano di grande inte-
resse coniugare alcuni grandi temi filosofici delle scienze biologiche contempo-
ranee ad uno studio rigoroso delle principali correnti del naturalismo filosofico e
scientifico che si sono avvicendate nel corso della storia del pensiero occidentale
(valga per tutti, per restare nell‟ambito della filosofia italiana, il volume di Mario
Alcaro, Filosofie della natura: naturalismo mediterraneo e pensiero moderno, Roma,
manifestolibri, 2006). Proprio in quest‟ultimo caso, il rigore della ricerca sto-
rica – ad esempio, sul termine “natura” – può portare nuova linfa, e feconde
suggestioni alla costruzione di percorsi alternativi nel campo della riflessione
filosofica e nel lavoro epistemologico. La storiografia della terminologia filoso-
fica può portare, ad esempio, in luce, debitamente analizzata, la fondatezza o
l‟infondatezza di quelle interpretazioni dominanti, soprattutto di quelle demoli-
trici, confutative, che hanno fatto scuola, sul pensiero di questo o di quest‟altro
autore, a vantaggio di altri autori, di altre idee, di altre scuole di pensiero. La ri-
cerca storico-filosofica può, in altri termini, accertare e accertarsi se, e in che
misura, le congetture e le confutazioni che si sono date, nella storia della storio-
grafia filosofica di un certo autore, siano riuscite ad andare oltre un semplice uso
strumentale, funzionale all‟affermazione di una certa tesi. Questo lavoro di pre-
cisazione e di precisione filologica ed ermeneutica è di straordinaria importanza,
e non tanto per il gusto letterario, e quasi immaginifico di rimettere le caselle
nel loro giusto posto in una storia ideale delle idee filosofiche – perché ciò che è
già avvenuto non può essere modificato –, quanto piuttosto per l‟esigenza, sta-
volta inaggirabile, di tornare puntualmente, fatalmente, alle premesse storiche,
alle origini storico-filosofiche dei problemi insoluti, e ancora vivi, presenti, in-
cessanti, che ci interrogano nell‟oggi. E il problema, il tema, il senso del termi-
ne “natura” è, per l‟appunto, uno tra essi.
554 Recensioni

Fin troppo facile, quasi scontato evocare, a questo punto, l‟ombra di Euge-
nio Garin. Ma chi voglia aprire, anche solo per una veloce scrutatio, le pagine,
sempre attuali, delle sue Cronache di filosofia italiana (Bari, Laterza, 1966), tro-
verà il senso di un lavoro scientifico ancora attivo, e tuttora valido.
Marco Veneziani, curatore del volume insieme a Delfina Giovannozzi, ha
raccolto i contributi (in tutto venticinque) del convegno internazionale tenutosi
a Roma, come di consueto, nella prima settimana dell‟anno (nel caso presente,
dal 4 al 6 gennaio 2007). Il Colloquio è stato organizzato dal CNR – Lessico In-
tellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI), diretto da Eugenio Canone, in
collaborazione con il Dipartimento di Identità Culturale del CNR, dal Diparti-
mento di ricerche storico-filosofiche e pedagogiche, e dalla Facoltà di Filosofia
dell‟Università “La Sapienza” di Roma.
Nel ricco excursus del volume troviamo tradizioni di pensiero diverse, de-
stinate a percorrere variamente i sentieri della speculazione filosofica e scientifi-
ca, e linee di tangenza, punti di giunzione che non si riducono semplicemente ad
una serie condivisa di questioni filosofiche, ricorrenti, nelle diverse stagioni di
pensiero, a partire dal significato del termine “natura”. Lo spirito di questo volu-
me è quello di voler offrire un reale contributo alla ricerca storica e filosofica,
attraverso l‟analisi delle intersezioni createsi, sincronicamente e diacronicamen-
te, nella storia della fortuna del pensiero di questo o di quest‟altro autore.
Non è possibile, per evidenti limiti di spazio, offrire anche solo breve com-
mento di una scelta fra i venticinque saggi compresi nel presente volume: e tut-
tavia, per lasciare aperte le curiosità del lettore, mi limiterei almeno a segnalare
(arbitrariamente, com‟è inevitabile) alcuni titoli, che mi sono parsi di grande in-
teresse storico e teorico: dal pregevole “Hoc vel forte vel providentia vel utcumque
constitutum naturae corpus” di Luciano Canfora – sulle diverse, sfaccettate fortune
del De rerum natura di Lucrezio –, a “Evoluzione e ambiguità del concetto di na-
tura in Agostino d‟Ippona” di Gaetano Lettieri, da “Mutations et développement
de la notion de natura dans la théologie et la philosophie carolingiennes (VIIIe-IXe
siècles)” di Kristina Mitalaité, a “Natura: la nascita dell‟essenza. Boezio e l‟Aristo-
teles latinus” di Giacinta Spinosa, da “La natura di Leonardo: «più tosto crudele
matrigna che madre»” di Paolo Galluzzi, a “Natura in Ficino e nella successiva
tradizione platonica” di Maria Muccillo, da “L‟idea di natura nella scienza del
Seicento” di Giorgio Stabile, a “«Qui de natura tanquam de re explorata pronuntiare
ausi sunt...». Il nuovo studio della natura proposto da Francis Bacon” di Marta
Fattori, da “Sémantèse de nature/natura dans le corpus cartésien” di Jean-Robert
Armogathe, a “Natura in Spinoza” di Pina Totaro, da “Natural e Supernatural negli
scritti di Locke” di Mario Sina, a “Immagini della natura nella Scienza nuova di
Vico” di Marco Veneziani, da “«La seconda natura» tra Kant e Hegel” di Claudio
Cesa, a “Heilende und tröstliche Gesetzlichkeit zu einigen Aspekten von Goe-
Bollettino filosofico XXV (2009) 555

thes Auffassung und Erforschung der Natur” di Hartmut Reinhardt, allo sti-
molante “Proteo imbrigliato. La natura dai romantici a Helmholtz” di Stefano
Poggi.
EMILIO SERGIO

M. FOUCAULT, La vita degli uomini infami, a cura di G. Zattoni Nesi, Bologna, Il


Mulino, 2009, pp. 88.

Apparso nel 1977 presso “Les Cahiers du chemin”, La vita degli uomini infami è,
forse per ragioni editoriali, uno dei testi meno rinomati dell‟intera produzione
foucaultiana. Testo „mancato‟, poiché avrebbe dovuto costituire l‟incipit di un
progetto più ambizioso e mai realizzato – un‟antologia di esistenze, un collage di
alcuni manoscritti resuscitati dal polveroso silenzio degli archivi d‟internamento
carcerari ed ospedalieri – ma straordinariamente denso e folgorante; intriso nel-
la sua interezza da quello stile vibrante e concitato, che ha reso Foucault uno dei
maîtres à penser più influenti del secolo scorso.
Ripercorrere le linee teoriche essenziali del testo significa, anzitutto, perce-
pire quel raffinato „senso storico‟, di matrice nietzscheana, e quello sguardo ar-
cheo-genealogico, che animano dal profondo gli intenti del filosofo francese. La
predilezione e la familiarità manifestate per alcuni testi, appartenenti ad un pe-
riodo storico forse limitato, e che va dal 1660 a 1760, non sono il sintomo di
una presunta carenza metodologica o di rigore, come qualche ierofante del culto
storicista potrebbe obiettare; al contrario, ciò che interessa a Foucault è deco-
struire e oltrepassare una certa idea di storia, assoggettata al mito di un‟illusoria
continuità, per mostrare come quest‟ultima sia, in realtà, un insieme aleatorio-
stocastico, più che un lineare movimento orientato dal suo millenario e apriori-
stico telos. Da questa prospettiva, abbracciare una certa logica evenemenziale,
che introduce il frammentario nella storia, vorrà dire: considerare i fatti nella lo-
ro singolarità di eventi, abbandonando ogni retaggio metafisico, per rinvenire le
reali condizioni d‟insorgenza di determinati discorsi, per districare le sovrap-
posizioni e gli annodamenti ibridi di sapere e potere sul piano d‟immanenza.
Al di là di queste brevi, ma vive considerazioni, ci si chiederà: cosa scorge
Foucault in questi “frammenti di discorso”; cosa si agita spasmodicamente nel li-
rismo e nella violenza di queste parole brucianti ed effimere, che diventano
l‟unica testimonianza di alcune esistenze singolari altrimenti destinate all‟insigni-
ficanza e all‟oblio? Certamente il punto d‟avvio, il movimento generativo di un
mutamento, dal quale è necessario partire per un‟analisi di quell‟Occidente
Moderno profondamente marcato dalle cosiddette “società disciplinari”. È pro-
prio in nome di una certa tensione disciplinare, di un potere che, d‟ora in poi, si
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avvia a diventare sempre più gestione della vita e investimento del corpo, che si
è ritenuto utile annichilire e relegare nella marginalità dell‟internamento deter-
minati individui, come un usuraio atipico o un francescano posseduto dal demo-
ne dell‟anomalia. Questi personaggi, le loro storie opportunamente deformate
ed enfatizzate dalla perversa solennità del giudizio, sono l‟emblema di quelle esi-
stenze sottratte all‟insignificante ordinarietà del quotidiano, da un potere che ha
visto in loro nient‟altro che schegge impazzite capaci di destabilizzare l‟ordine
costituito. Se da un lato, l‟uomo infame può essere considerato come l‟antenato
del cosiddetto monstrum – oggetto d‟interesse del corso su Gli anormali. Corso al
Collège de France (1974-1975), a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Milano,
Feltrinelli, 2009 – dall‟altro, la sua peculiarità non è ascrivibile al clamore dello
scandalo, o ad una qualche forma di erostratismo degna di essere narrata o ri-
cordata. In realtà, si tratta sempre di gente comune, “uomini della folla”; col-
pevoli di crimini o di forme di violenza, ma il più delle volte di qualche bizzarria
che deborda il limite del bene e del male, e che hanno suscitato la reazione di un
intero corpo sociale, a tal punto da scomodare l‟immenso potere sovrano. Di
queste vite non rimane altro che qualche traccia sbiadita negli archivi d‟interna-
mento, della polizia, delle suppliche al sovrano, delle lettres de cachet; del resto,
non potrebbe essere altrimenti. Siamo dinanzi ad una strana leggenda, oscura, di
«vite infime, divenute cenere nelle poche frasi che le hanno stroncate» (p. 11).
Uomini infami, minori, che hanno una storia radicata nella loro stessa sven-
tura, quella di essersi fatalmente scontrati con il potere; quest‟ultimo non solo
ha repentinamente deciso, ma diventa anche, e allo stesso tempo, narratore as-
soluto; condizione di possibilità a partire dalla quale: una storia diventa rilevante,
dicibile e tramandabile. Il discorso non solo mostra una certa dimensione del
reale, ma agisce in esso, lo determina a più livelli, può diventare, come si evince
dai testi considerati da Foucault, una questione di vita e di morte. Le parole che
animano le svariate suppliche, le manifestazioni dell‟odio e del terrore, les lettres
de cachet, sono tutto ciò che il caso ci ha consegnato di questi miserabili, l‟unica
fonte di una strana verità che testimonia la loro esistenza nel mondo. Sarebbe
più corretto affermare che la vita degli uomini infami: «non è alla fine nient‟altro
se non la somma di quello che se ne dice [...] è esattamente riconducibile a quel-
lo che ne è stato detto; di ciò che sono stati o di ciò che hanno fatto non soprav-
vive nulla, se non racchiuso in poche frasi» (pp. 25-26). Queste andranno a co-
stituire il cosiddetto „archivio‟, il quale non è una semplice raccolta di dati, ma
diventa l‟espressione diretta di una certa stratificazione storica che implica la ri-
partizione del visibile e dell‟enunciabile. Per essere più chiari, Foucault allude al
fatto ch‟è stato necessario un certo cambiamento affinché il potere si insinuasse
nella vita quotidiana, affinché focalizzasse la sua attenzione nelle pieghe grigie
dell‟infimo e del comune.
Com‟è già noto, ad esempio ne La volontà di sapere, la pastorale cristiana, at-
traverso il sacramento della confessione, ha dato vita ad una sorta d‟ingerenza
Bollettino filosofico XXV (2009) 557

nel privato: bisogna dar voce alle proprie pulsioni più recondite, cimentarsi in
una sorta di ermeneutica del desiderio al fine di espiare le proprie mancanze e
deiezioni. Ma se questa pratica si esauriva silenziosamente nell‟atto stesso di pro-
ferire i propri peccati, a partire dal periodo storico in questione (1670-1760)
tutto ciò non basta, si assiste ad una evoluzione o, meglio, ad un suo perfeziona-
mento. D‟ora in poi, l‟intero registro dell‟ordinario, con il suo portato di eccen-
tricità, stranezze e devianze, viene investito da una poderosa volontà di sapere;
attraverso le ormai consolidate procedure della denuncia, della querela, dell‟in-
chiesta, dell‟interrogatorio, prende forma quella peculiare “messa in discorso del
quotidiano”, che assume la forma del dato scritto e della registrazione sistema-
tica, andando a costituire uno spaventoso “archivio del male”.
A tale proposito, Foucault sembra volerci dire ancora qualcos‟altro dall‟ana-
lisi di questi documenti. Le suppliche, o ancora meglio les lettres de cachet, forni-
scono un‟ulteriore conferma del fatto che il potere regale ha assunto le sem-
bianze di un servizio pubblico, accessibile a chiunque fosse in grado di usufruirne.
Lo stesso corpo sociale, accecato dal desiderio di persuaderlo, di direzionarlo
verso la figura del „delinquente‟, ha invocato il potere dal „basso‟ – con un lin-
guaggio che molto spesso simboleggia una certa contraddizione, tra l‟insignifi-
canza delle cose narrate e l‟immensa potenza a cui si rivolgeva – affinché discen-
desse nell‟ordinario, nel cuore stesso delle passioni. Si crea una strana com-
mistione che permette al potere di stanare, di vedere ciò che altrimenti sarebbe
rimasto invisibile, ovvero la dimensione più recondita di ognuno, realizzando
quell‟eccesso di visibilità che ha come diretta conseguenza l‟eccesso di controllo.
Ogni gesto, comportamento, stile di vita, viene strappato all‟impercettibilità del
fluire quotidiano, come sua dimensione d‟appartenenza, per diventare materiale
di un archivio dominato da una forza oscura che condanna ad una perversa “etica
immanente del discorso”. Nasce in questo periodo, secondo Foucault, anche una
certa letteratura, che abbandona la sua originaria vocazione per l‟evento straor-
dinario a favore di una predilezione per ciò che, fino ad allora, era ritenuto scial-
bo e privo di tratti interessanti.
Il diagramma foucaultiano, ovvero la cartografia come esposizione dei rap-
porti tra forze, apre ad una nuova concezione del potere. Il modello della vec-
chia sovranità cede il posto ad una logica fondata non più su una certa conce-
zione verticale, bensì trasversale. Se il potere ha potuto fondersi ed interessarsi
alla quotidianità della vita è perché: esso non è più in una posizione di esteriorità,
la relazione tra forze non risponde, come in precedenza, alla modalità del „pre-
lievo‟ e dal dare la morte. Diversamente, le società disciplinari sono caratteriz-
zate da una forma di potere molecolare, microfisico, “disseminato in ogni dove”
che opera a livello della vita in termini di gestione del corpo sociale, e che vede
nella figura dell‟infame un elemento di disturbo per la sopravvivenza dell‟in-
sieme. Si tratta di uno strano dispositivo, dove gli individui non interpretano il
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ruolo di semplici ricettori immobili, sui quali il potere si abbatte con i suoi attri-
buti negativi e repressivi; quest‟ultimo scorre nel corpo sociale, crea un immen-
so reticolato dove gli individui non sono nient‟altro che punti di raccordo e di
congiunzione, che ne permettono il movimento. L‟infamia descritta da Foucault,
lontana da ogni forma di „fama universale‟, sembra delineare piuttosto una parti-
colare condizione; quella di un uomo „condannato‟ a rinvenire il suo destino, e
il suo momento di maggiore intensità, nell‟inevitabile collisione con il potere e
con il suo discorso, capace di crearlo come sujet referente nell‟atto stesso di no-
minarlo.
La vita degli uomini infami sembra ricondurre alle conclusioni de La volontà di
sapere: esiste solo un monismo del potere, ci sono rapporti di forza dove il sog-
getto si appalesa come un residuo, un derivato di quello che si dice e di quello
che si vede. Questa impasse, lo si sa, è il preludio ad un lungo silenzio durato otto
anni, una nuova frattura nella riflessione del filosofo francese. Scorgere un al di
là del potere, una via d‟uscita che apra, come direbbe Deleuze, «ad una dimen-
sione della soggettività che deriva dal potere e dal sapere, ma non ne dipende»*,
diventa il centro gravitazionale attorno al quale ruoterà l‟ultima fase della rifles-
sione foucaultiana, pensiero della soggettivazione, o della cosiddetta «estetica del-
l‟esistenza».
La nuova edizione de La vita degli uomini infami non apporta sostanziali novità
rispetto alla prima versione italiana contenuta nel secondo dei tre volumi costi-
tuenti l‟Archivio Foucault, una raccolta di interventi, colloqui ed interviste dal
1961 al 1985 edita da Feltrinelli. Al di là di una puntuale postfazione a cura di
Remo Bodei, manca ogni riferimento alla vicenda bibliografica del testo. Il pro-
getto iniziale, un‟antologia di cui il presente testo doveva essere l‟introduzione,
si declinò in altre iniziative editoriali; prima fra tutte “Les vies parallèles”, col-
lezione nella quale Foucault pubblicò le memorie di Herculine Barbin e Le cercle
amoureux d’Henri Legrand. Mentre del 1982 è la pubblicazione di Le désordre des fa-
milles, lavoro a quattro mani tra Michel Foucault e Arlette Farge dedicato alle
lettres des cachet. Accogliamo comunque positivamente questa nuova edizione, se
non altro, con la speranza che possa contribuire alla diffusione di un testo che fi-
nora è stato ingiustamente sottratto alla visibilità che compete al capolavoro.
GIUSEPPE SCALERCIO

* G. DELEUZE, Foucault, a cura di P.A. Rovatti e F. Sossi, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 135.
Bollettino Filosofico
DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA,
UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA
Direttore: Mario Alcaro
Il Bollettino Filosofico è un annuario fondato nel 1978 dal personale docente
del Dipartimento di Filosofia dell‟Università della Calabria. I numeri hanno di
volta in volta un curatore e un comitato di redazione scelto dal curatore. Ogni
numero prevede ordinariamente due sezioni principali: una monografica e una
sezione a tema libero in cui possono apparire saggi brevi e note critiche. Una
terza sezione di “Recensioni” accoglie la segnalazione di libri, saggi e Atti di
convegni. Si collabora soltanto dietro invito del curatore o dei suoi redattori.

Norme editoriali per gli autori


Gli autori che intendono collaborare con il Bollettino Filosofico devono te-
nere conto delle seguenti norme editoriali:

1. L’ampiezza del contributo


Gli articoli della sezione monografica non devono superare le 60.000 bat-
tute. I saggi brevi e le note critiche della seconda sezione non devono superare
le 45.000 battute. Le recensioni non devono superare le 15.000 battute. Il cu-
ratore di ogni numero si riserva di apportare delle modifiche nello stile o nel
contenuto del contributo, ove lo ritenga necessario. In rapporto alla loro entità,
tali modifiche potranno essere comunicate all‟autore in corso d‟opera o nel pri-
mo turno di bozze. Prima della tiratura di stampa, è previsto un turno di bozze.

Gli articoli possono essere inviati (in copia cartacea più un file su dischetto o
CD–rom) al seguente indirizzo: Bollettino Filosofico – Dipartimento di Filosofia,
Università della Calabria – Cubo 18/c, 87036 Arcavacata di Rende (CS), Italia.
Gli articoli vanno sottoposti alla redazione nella seguente forma: Docu-
mento WORD per WINDOWS. Tipo di carattere: Perpetua 11.5 (per il testo)
e 9,5 (per le note a pie‟ di pagina), pagina standard, interlinea 1.

2. Le indicazioni bibliografiche
Le indicazioni bibliografiche vanno fornite prevalentemente nelle note a pie‟
di pagina. L‟autore è libero di scegliere tra due diverse forme di citazione bi-
bliografica: 1) senza bibliografia finale; 2) con bibliografia finale.

559
560

2.1. Indicazioni bibliografiche senza bibliografia finale:


a) le indicazioni relative a libri presentano nome e cognome dell‟autore in
maiuscoletto, titolo completo dell‟opera, e i dati di edizione disposti nel seguente
ordine: luogo di pubblicazione, editore, anno di pubblicazione, ed eventuale in-
dicazione delle pagine citate.
STEPHEN GAUKROGER, JOHN SCHUSTER, JOHN SUTTON (eds.), Descartes’
natural philosophy, London–New York, Routledge, 2000.
DAVID BEHAN, “Descartes and formal signs”, in STEPHEN GAUKROGER,
JOHN SCHUSTER, JOHN SUTTON (eds.), Descartes’ natural philosophy, London–
New York, Routledge, 2000, pp. 528–541.
RENÉ DESCARTES, Oeuvres, a cura di C. Adam e P. Tannery, 11 voll., Paris,
CNRS, 1974–86, vol. I, p. 158.
L‟autore del contributo è libero di citare i libri abbreviando il nome degli
autori citati con la sola iniziale del nome o dei nomi (es. A.R. HALL). In questo
caso dovrà sempre rispettare tale norma.
b) le indicazioni relative ad articoli contenuti in periodici o riviste pre-
sentano il nome e cognome dell‟autore in maiuscoletto, il titolo dell‟articolo in
tondo in inglesine doppie, il titolo del periodico in corsivo, l‟annata in carat-
tere arabo o romano e tondo, l‟anno solare in parentesi tonda, l‟eventuale nu-
mero del fascicolo, il numero delle pagine complessive dell‟articolo o la/e pa-
gina/e citata/e.
PAMELA A. KRAUS, “From universal mathematics to universal method”,
Journal of the History of Philosophy 27 (1983) 3, pp. 159–174.
c) Le citazioni bibliografiche successive possono essere abbreviate indicando
l‟iniziale del nome dell‟autore seguita dal cognome, il titolo dell‟opera (ove pos-
sibile, abbreviata), l‟indicazione “cit.” (in tondo), seguita eventualmente dai nu-
meri di pagina. Nel caso in cui la citazione successiva riguardi l’unica opera citata
dell‟autore, basterà indicare, oltre al nome, l‟espressione “op. cit.” (in corsivo),
seguita dall‟eventuale citazione della pagina.
R. DESCARTES, Oeuvres, cit., p. 159.
oppure:
R. DESCARTES, op. cit., p. 159.
R. DESCARTES, trad. it. cit. (nel caso di citazione da traduzione italiana).
561

d) Quando si cita di seguito la stessa opera citata nella nota precedente, è


sufficiente l‟indicazione “ivi” (in tondo), nel caso in cui si citi una pagina diversa
dalla precedente, o “ibid.” (in corsivo), nel caso in cui si citi la stessa pagina della
nota precedente.
e) Le citazioni di testi si scrivono usando i caporali (« ») o le inglesine doppie
(“ ”). Per la citazione di singole espressioni o di espressioni gergali o reiterate si
usano le inglesine doppie (“ ”). Le inglesine singole („ ‟) si usano nel caso in cui
l‟espressione usata abbia un significato metaforico, o diverso da quello in uso.
f) Nel caso di citazione di passi che contengano al loro interno delle citazio-
ni, si useranno le inglesine doppie per queste ultime.
g) Le citazioni molto lunghe (che superino le tre–quattro righe) possono es-
sere separate dal testo, lasciando un‟interlinea singola prima e dopo, con margi-
ni 0,5 a destra e a sinistra. Il corpo delle citazioni separate deve essere di 10 pt.

2.2. Indicazioni bibliografiche con bibliografia finale:


a) La bibliografia finale va compilata seguendo le indicazioni sopra citate dei
libri e degli articoli, con la differenza dello spostamento dell’anno di pubblicazione
dopo il nome e cognome dell‟autore e (nel caso di articolo di rivista) dell‟inse-
rimento in parentesi tonda dell‟eventuale numero del fascicolo:
STEPHEN GAUKROGER, JOHN SCHUSTER, JOHN SUTTON (2000, eds.), Des-
cartes’ natural philosophy, London–New York, Routledge.
DAVID BEHAN (2000), “Descartes and formal signs”, in GAUKROGER, SCHU-
STER, SUTTON (2000), pp. 528–541.

PAMELA A. KRAUS (1983), “From universal mathematics to universal me-


thod”, Journal of the History of Philosophy 27 (3), pp. 159–174.
RENÉ DESCARTES (1974–86), Oeuvres, 11 voll., a cura di C. Adam e P. Tan-
nery, Paris, CNRS.
b) Nelle note a pie‟ di pagina, i libri e gli articoli rispettivamente citati van-
no compilati in forma abbreviata, indicando solo il cognome dell‟autore in maiu-
scoletto, l‟anno di pubblicazione e le eventuali pagine citate in parentesi tonda.
GAUKROGER, SCHUSTER, SUTTON (2000).
BEHAN (2000, pp. 528–541).
DESCARTES (1974–86, vol. I, p. 158).
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c) Nel caso in cui siano citate dello stesso autore più opere pubblicate nello
stesso anno solare, esse andranno distinte sia nelle note a piè di pagina che nella
bibliografia finale con le lettere dell’alfabeto in apice.
BEHAN (2000a, pp. 528–541).
BEHAN (2000b, pp. 132–145).
In entrambe le modalità di citazione bibliografica, l‟autore potrà fare uso, se
lo riterrà opportuno, di abbreviazioni delle opere citate. Tali abbreviazioni do-
vranno tenere conto delle eventuali sigle entrate nel comune uso da parte degli
studiosi (es.: “AT” per l‟edizione Adam–Tannery delle opere di Descartes, “OL”
per l‟edizione Molesworth dell‟opera latina di Hobbes ecc.). L‟uso di sigle o di
abbreviazioni deve rispettare criteri di massima brevità.
3. Uso dei trattini
Il Bollettino Filosofico usa tre tipi di trattini:
~ breve (-), per andare a capo. Questo tipo di trattino è a cura della reda-
zione, perché riguarda la sillabazione del documento.
~ medio o di congiunzione (–), sempre inferiore di 3 pt rispetto al corpo
del testo, per le parole composte o doppie, per le elencazioni, e per indicare
“da–a” (es.: pp. 2–24);
~ medio o di congiunzione (–), dello stesso corpo del testo, per gli incisi.
4. Margini e paragrafi
È previsto l‟uso dei seguenti margini: superiore 2,5; sinistro 2,5; inferiore 3,6;
destro 3,5.
Ogni paragrafo deve avere un rientro di 0,5. Lo stesso rientro deve essere
applicato nelle note a pie‟ di pagina.

5. Immagini
L‟eventuale inserimento di immagini deve tenere conto di alcuni criteri
grafici. L‟immagine deve essere fornita in formato JPEG o TIFF, con risoluzio-
ne minima 600 dpi, selezione cromatica grayscale.
6. Termini greci
Molti dei fonts disponibili in greco antico risultano protetti da copyright. Per
questo motivo, la redazione ha deciso di adottare il font Palatino Linotype, di-
sponibile in modalità free source, e completo di tutte le sfumature morfologiche
del greco. L‟uso di programmi non protetti da licenza può dare dei problemi di
conversione nel formato pdf richiesto per la stampa.
Finito di stampare nel mese di luglio del 2010
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Usomano bianca Selena 80 g/m2
ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura

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