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A11
215/4
Bollettino Filosofico
XXV (2009)
Sensazione e immaginazione
a cura di
Romeo Bufalo
Pio Colonnello
Copyright © MMX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it
ISBN 978–88–548–xxx–x
ISSN 1593–7178
Premessa ..................................................................................................................................................................................... p. 7
SEZIONE MONOGRAFICA
ADA BIAFORE
Tra le parole e le cose: il ruolo della sensazione e dell’immaginazione
nelle forme di organizzazione dell’esperienza .................................................................................................. p. 15
ROMEO BUFALO
La base sensibile dell’immaginazione in Kant .................................................................................................. p. 28
FELICE CIMATTI
Il limite tattile dell’io. Storia naturale della soggettività corporea ..................................................... p. 56
PIO COLONNELLO
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant.
Rileggendo l’interpretazione di Heidegger ......................................................................................................... p. 69
VALENTINA CUCCIO
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica:
l’invarianza nella variabilità .................................................................................................................................... p. 81
MARIA CHIARA GIANOLLA
Nudità e rivelazione ........................................................................................................................................................ p. 95
ALFREDO GIVIGLIANO
L’immaginazione sociologica. Tra scienza, soggetto e strutture sociali ............................................ p. 110
MARCO MAZZEO
Contro l’universale: immaginare il comune .................................................................................................... p. 135
LUCA PARISOLI
Concetti universali senza rappresentazione ..................................................................................................... p. 149
SANDRA PLASTINA
La sospensione delle differenze. Scetticismo, immaginazione e questioni di genere
a partire dai Saggi di Montaigne ......................................................................................................................... p. 174
ROCCO SACCONAGHI
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose ....................................................................... p. 193
STEFANO SANTASILIA
Della comunità del sentire.
Evidenza e sensus communis in Eduardo Nicol ...................................................................................... p. 210
CARLO SERRA
Mahler lettore di Nietzsche ...................................................................................................................................... p. 222
5
6
SONIA VAZZANO
Tra senso e visione: la riflessione sulle passioni in Lady Damaris Masham ................................. p. 256
VARIA E DISCUSSIONI
INES ADORNETTI
Fondamenti cognitivi della trasmissione culturale.
Il caso della credenza religiosa ............................................................................................................................... p. 271
GRAZIA BASILE
Dire le cose con ironia (in memoria di Tommaso Russo) ......................................................................... p. 291
FABRIZIO BONACCI
Forma logica e contesto nei modelli di trasmissione dell’informazione fra individui.
Processi di codifica/decodifica vs processi inferenziali ............................................................................. p. 300
ARMANDO CANZONIERI
Neurofenomenologia. La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente ......................... p. 322
ANNA CIPPARRONE
Il camerino dei marmi di Alfonso d’Este e il suo apparato epigrafico
di ispirazione senecana: uno Speculum Principis realizzato
con il connubio di immagini scolpite e latinae litterae .......................................................................... p. 332
ANNA DE MARCO
Diminutivi, genere e cortesia linguistica: un approccio sociocostruttivista ....................................... p. 342
ROSSELLA DE ROSE
Sulla filosofia della tragedia. La morte dell’Anticristo ............................................................................ p. 362
EMILIO M. DE TOMMASO
Sulle ginocchia di Uriel.
La tragica vicenda di Da Costa e la sua influenza su Spinoza ........................................................... p. 377
CARLO FANELLI
Retorica e conoscenza della natura umana nella commedia del Rinascimento .......................... p. 393
ANTONIA GIGLIO
Perdonare l’imperdonabile ........................................................................................................................................ p. 407
GIUSEPPE MACCARONI
Simone Weil: questione antropologica e riflessione politica .................................................................. p. 423
EUGENIA MASCHERPA
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh ................................................................................................ p. 441
SPARTACO PUPO
Forme di ‘cosmologia politica’ nel Novecento .................................................................................................. p. 461
EMILIO SERGIO
Parrasio in Calabria e la fondazione dell’Accademia Cosentina ( II): 1521-1535 .................. p. 487
Il numero XXII (2006) del Bollettino filosofico era dedicato al tema “Forma
e immagine”1. Quello che qui viene presentato si intitola “Sensazione e im-
maginazione”. Cos‟è, potrebbe chiedersi qualche lettore, una seconda punta-
ta sullo stesso argomento, o, peggio, una ripetizione, con altre argomenta-
zioni ed altri autori, di quanto era stato già detto?
Queste domande tradiscono la persistenza di un atteggiamento storiogra-
fico assai diffuso da noi: quello che orienta la propria attenzione prevalente-
mente, se non esclusivamente, sulle identità e sulle affinità, più che sulle dif-
ferenze e le divergenze; sulle unità più che sulle diversità. Il problema però è
che, polarizzando le energie sulle unità o sui lati generali–comuni del feno-
meno investigato (sia nell‟ambito della storia delle idee che, più in generale, in
quello della storia economica e sociale), si perdono di vista le caratteristiche
particolari, i tratti specifico–determinati, con le molteplici costellazioni di senso,
attraverso cui quel fenomeno concretamente si è via via presentato nella sto-
ria del pensiero. Eppure, l‟esigenza metodica di tenere insieme, in un rap-
porto di reciproca „illuminazione‟, lati comuni e tratti specifico–differenziali
in ogni indagine critica è stata raccomandata da pensatori anche fra loro di-
stanti quanto a scelte e risultati teorici complessivi della loro riflessione: dal
Marx della celebre (almeno fino a qualche decennio fa) Introduzione a Per la
critica dell’economia politica, allo Schopenhauer de La quadruplice radice del prin-
cipio di ragion sufficiente, giusto per fare qualche nome non secondario della sto-
ria del pensiero occidentale. Ma proprio per questo la „regola‟ a cui si è fatto
cenno si rivela particolarmente significativa e feconda.
Questo preambolo metodologico per dire che „immagine‟ e „immaginazio-
ne‟, pur avendo la stessa radice linguistica (= lato comune), presentano tut-
tavia peculiarità teoriche diverse (= tratti specifico-determinati). L‟immagi-
ne è un prodotto, cosa finita, ergon, che stabilisce un certo rapporto con ciò di
cui è immagine, che possiede un suo statuto ontologico, ecc. L‟immagina-
zione è invece energheia, attività con cui si producono le immagini. Ma non so-
lo (e non necessariamente) immagini. In Kant, per esempio, al quale, come
era giusto che fosse, è dedicato molto spazio negli interventi della sezione
monografica, l‟immaginazione trascendentale è una facoltà sintetica che gene-
ra immagini, ma anche schemi. E gli schemi non sono immagini, ma criteri per
1 Ricordiamo che il numero XXIV (2008) era dedicato al tema “Linguaggio ed emozioni”.
la formazione dei giudizi. È pertanto del tutto evidente che, avendo una valen-
za conoscitiva, l‟immaginazione stia in strettissima connessione con quello
stadio originario del processo gnoseologico che è la sensazione.
Eppure, questa importante funzione, non solo teoretica, ma anche etica
(per gli evidenti risvolti pratici connessi ai giudizi) svolta dall‟attività im-
maginativa, non sembra essere di casa nei modi di pensare più comuni.
Non si sente spesso dire, infatti, a proposito di qualcuno, che ciò che egli
sostiene è il “frutto della sua immaginazione”; o, a proposito di qualcun al-
tro, che è dotato di una “fervida immaginazione”? In entrambi i casi si sot-
tintende che un conto è il “sano intelletto”, fondato sull‟analisi, l‟identità,
ecc.; un altro è invece quello strano potere sintetico della nostra vita men-
tale (wit) che, per esempio secondo il Locke del Saggio sull’intelletto umano,
anche se produce «quadri piacevoli per l‟immaginazione», tuttavia genera
figure, immagini, simboli, ecc., in maniera indiretta, battendo sentieri che
ci allontanano dalla «retta ragione».
Da questo punto di vista, si registra una inaspettata convergenza fra le posi-
zioni anti-immaginative di Locke e quelle, analoghe, espresse in più luoghi da
Cartesio. Ernesto Grassi ha ricordato che, da quando Cartesio, per rifondare la
filosofia, escluse da essa le cosiddette „discipline umanistiche‟, il problema del-
l‟immagine e dell‟immaginazione «non solo viene trascurato nelle discussioni
filosofiche, ma addirittura eliminato». È pertanto a partire dall‟età cartesiana
che «il discorso razionale, cioè scientifico, e quello patetico, cioè retorico, sono
stati separati, e la retorica, il linguaggio immaginifico, è stata esclusa dalla scien-
za filosofica»2. Paul Ricoeur, da parte sua, ha scritto che, a partire da Cartesio,
«la lotta contro lo psicologismo è, essenzialmente, una lotta contro l‟immagi-
nazione nella sua pretesa gnoseologica»3. Infine, Giovanni Piana ha sostenuto
che, fino al Neopositivismo viennese, l‟immaginazione è stata pacificamente
«connessa all‟irrazionale»; mentre, su un altro versante (quello francese), Ga-
ston Bachelard considerava, più o meno negli stessi anni (soprattutto ne La for-
mazione dello spirito scientifico), l‟immaginazione come uno dei più seri «ostacoli
epistemologici» che frenano lo sviluppo della scienza4.
Il quadro che dunque si presenta agli occhi dello storico delle idee, rela-
tivamente all‟immaginazione (ed alla sensazione, che quasi sempre ne ha
condiviso le sorti) vede fronteggiarsi due linee teoriche. Una è quella che
2 E. GRASSI, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Milano, Guerini & As-
1999, p. XI.
10 Romeo Bufalo Pio Colonnello
schi non scherzano. A parte Hegel, che distinguerà una immaginazione pas-
siva da una phantasie iperattiva, Fichte considera l‟immaginazione alla base
del processo con cui l‟Io si pone, ad un tempo, come finito e infinito.
L‟esito di questo lungo ed accidentato percorso è però quello, ideali-
stico, di una fuoriuscita dell‟immaginazione dai confini dell‟esperienza sen-
sibile. Essa infatti, specie in Novalis, guadagna uno statuto talmente auto-
nomo da non aver bisogno più dei sensi (come invece ancora accadeva in
Kant ed in Schiller), e finisce con l‟abolire, in quanto forza totalmente au-
togenerativa, ogni esteriorità ed ogni alterità6. Bisognerà aspettare il Nove-
cento perché venga recuperato e rilanciato il ruolo gnoseologico dell‟im-
maginazione ed il suo contributo fondamentale in ordine all‟organizzazione
ed alla crescita del pensiero, soprattutto ad opera di pensatori come Hus-
serl, Sarte, Della Volpe, Brandi, Hannah Arendt, solo per citare i nomi più
significativi in tal senso.
Si pone, a questo punto, una questione teoreticamente decisiva: l‟im-
maginazione, esprime un contenuto di verità? E se sì, di che tipo di verità
si tratta? È la verità dell‟intelletto o una verità che fa capo ai sensi? Mau-
rizio Ferraris ritiene, giustamente, che quella che si afferma con l‟immagi-
nazione sia una verità estetica nel senso baumgarteniano del termine. Una
verità, cioè, connessa ad una «scienza della conoscenza sensibile», in cui
abbiamo a che fare con immagini «chiare» ma «confuse», e non «distinte»7
(come pretendeva Cartesio). Ed il fatto che siano confuse, non vuol dire
che siano, automaticamente, irrazionali. Semmai, in esse si trovano più ra-
gioni fuse insieme, cum–fusae, nessuna delle quali predomina sulle altre.
La fisionomia dell‟immaginazione si arricchisce qui di un nuovo profilo.
Essa infatti, oltre alla capacità di andare oltre il sensibile mediante il sensibi-
le; oltre a configurarsi come una dimensione intermedia tra sensazione e ri-
flessione, si precisa come lo sfondo entro cui prendono consistenza e la vita
emotiva e la vita cognitiva. Anzi, più radicalmente, possiamo forse dire che
non ci sono esperienze puramente emotive–sensibili, senza una qualche com-
ponente intellettuale; così come non ci sono esperienze puramente cognitive
prive di qualsiasi aspetto emotivo–retorico. È, in fondo, quello che diceva,
quasi tre secoli fa, Alexander Baumgarten quando, nelle Riflessioni sul testo
poetico del 1735, sosteneva che una ineliminabile componente retorica carat-
terizza anche il più asciutto dei discorsi scientifici, così come una dimensione
concettuale–conoscitiva è presente anche nel discorso poetico più alto.
8 Ibid.
Sezione I
Sensazione e immaginazione
ADA BIAFORE
«La mente non è uno specchio della natura»: con questa breve affermazio-
ne, convincente quasi quanto un aforisma, Gerald Edelman1 sembrava li-
quidare agli inizi degli anni Novanta una costellazione di teorie filosofiche e
di posizioni empiriche che fino ad allora erano prevalse nel dibattito rela-
tivo al rapporto tra percezione, cognizione e azione. Brevemente, l‟atteg-
giamento epistemologico criticato da Edelman consisteva nel credere che il
rapporto conoscitivo tra il soggetto e il mondo fosse oggettivo, coinvolgesse
le due polarità come entità statiche e si risolvesse in una relazione fissa tra
stati mentali e stati di cose. La metafora computazionale del cervello come
calcolatore, insieme alla considerazione del linguaggio come una funzione
autonoma della mente, un modulo (innato e indipendente dalle altre fun-
zioni cognitive) richiedevano, infatti, una concezione degli oggetti del mon-
do come appartenenti a categorie prefissate le quali mediante una correla-
zione formale con determinate parti del linguaggio (i significati) e del pen-
siero (i concetti) garantivano la presa della mente sul mondo. In questo
modo l‟esperienza e la conoscenza si riducevano a serie di elaborazioni di
informazioni svolte mediante la computazione di simboli formali „stanti
per‟, rappresentazioni di cose o eventi. Questo paradigma (a cui si è soliti
fare riferimento come „cognitivismo classico‟) sembra essere stato sosti-
tuito, negli ultimi quindici anni, da un moto „rivoluzionario‟, quello delle
scienze cognitive incarnate: la denuncia del dualismo implicitato dalla visio-
ne computazionale e modulare della mente è stata supportata da una „ri-
scoperta‟ del corpo e da una ibridazione dei campi di ricerca convergenti
nell‟attenzione, teorica e sperimentale, attribuita alle correlazioni tra pen-
siero e attività corporea.
1 EDELMAN 1993.
2 WILSON 2002.
3 BARSALOU 2008a.
4 BARSALOU 2003.
18 Ada Biafore
8 JANNEROD 2006.
9 COLIVA 2006.
10 FELDMAN, NARAYANAN 2003.
11 BAZZARIN, FREINA, BORGHI, NICOLETTI 2006.
20 Ada Biafore
14 NARAYANAN 1997.
15 COLIVA 2008.
16 BAZZARIN, FREINA, BORGHI, R. NICOLETTI, cit.
22 Ada Biafore
parole concrete, che invece non si verifica con quelle astratte. L‟informa-
zione, in questo caso relativa al colore, viene attivata automaticamente da
parole che non designano un colore ma rimandano a referenti associati for-
temente ad un colore: quindi leggere la parola fragola scritto in rosso faci-
lita fortemente il compito di nominare il colore dell‟inchiostro (viceversa
lo inibisce la parola limone). Nel caso invece della lettura di parole „astrat-
te‟, pur se fortemente correlate ad un colore (quale ad esempio „passione‟)
non si verifica lo stesso effetto, anzi, le coppie incongruenti sono più veloci
di quelle congruenti. Questo risultato viene letto dagli autori dell‟esperi-
mento come una conferma che i concetti astratti, non riferendosi a oggetti,
attivino situazioni che interferiscono con l‟informazione percettiva. I pro-
blemi per le teorie della cognizione situata “continuiste” (ovvero che in-
tendono assimilare le distinzioni tra forme di concettualizzazione concreta
e astratta) aumentano: non soltanto appare poco plausibile una (ri)costru-
zione dei concetti astratti a partire da quelli concreti, ma sembra addirit-
tura che essi non condividano i circuiti di processazione dell‟informazione.
Uno studio recente17 relativo all‟attivazione di popolazioni neurali differen-
ziate nel riconoscimento di caratteri scritti relativi a concetti concreti o a
concetti astratti, Cinese smentisce infatti che le aree attive durante la lettu-
ra e la comprensione di parole “concrete” siano le stesse che “smaltiscono”
la comprensione di parole relative a idee o enti astratti: sembra allora im-
possibile sostenere che gli uni costituiscano il fondamento degli altri.
Più in generale sembra che l‟errore (o il controsenso?) in cui incappa
questa famiglia di teorie relativamente alle forme di organizzazione dell‟es-
perienza non stia soltanto nella grandezza dell‟impresa (ovvero nel tenta-
tivo di proporre una spiegazione “unica” per l‟insieme eterogeneo di forme
di interazione, conoscitiva e non, del soggetto col mondo) ma nell‟ordine
di discendenza e nella natura dei rapporti implicitati: le configurazioni per-
cettivo–motorie non stanno alla base della piramide in quanto più fonda-
mentali, non è necessario (e nemmeno giustificato) qualificarle come più
caratteristiche o fondanti dell‟agire propriamente umano. Di conseguenza i
comportamenti (e le forme di pensiero) che si allontanano da esse (la piani-
ficazione, il fantasticare, le barzellette) non devono essere risolte in forme
sbiadite o annacquate dei processi validi per le prime. Questo è tanto più
vero nell‟uomo che quando inizia a usare il linguaggio accede a forme di
comportamento, prassi, che non sono riducibili a spiegazioni nomologiche
4. Correggere il tiro
Un buon esempio di “correzione del tiro” rispetto alle osservazioni con-
clusive del paragrafo precedente è offerto da Corballis18: Dalla mano alla
bocca presenta una ipotesi sull‟evoluzione del linguaggio (forse poco ori-
ginale, cf. CONDILLAC, 1746), delineando uno scenario evolutivo in cui i
primi segnali comunicativi volontari sarebbero stati, per varie ragioni, i
movimenti volontari di mani e braccia. Le azioni coinvolte nella costru-
zione di utensili potrebbero essere state utilizzate per rappresentare gli og-
getti stessi , allo stesso modo i gesti potrebbero essere serviti per descri-
vere la forma delle cose. In tal modo si sarebbero potute mimare intere se-
quenze di azioni (quali, ad esempio, battute di caccia) per insegnare ad altri
a fare qualcosa, pianificare una strategia congiunta o semplicemente per
raccontare la novità del giorno. Questo protolinguaggio soddisfa perlome-
no il requisito della composizionalità: è infatti possibile combinarne le uni-
tà in sequenze differenti mantenendo un legame strettissimo coi circuiti
motori propri delle azioni che rappresenta. Non ci soffermeremo né sul-
l‟argomentazione teorica utilizzata per sostenere questa tesi né sugli ulte-
riori passaggi che permettono a Corballis di approdare alle lingue parlate
moderne: sembra più proficuo per il nostro scopo riportare invece l‟analisi
relativa ai segni utilizzati dalle lingue dei segni moderne per rappresentare
concetti astratti.
Nonostante si tratti di sistemi linguistici che utilizzano il canale visuo–
spaziale, sfruttando a fini espressivi i primi strumenti di scoperta, manipo-
lazione e esperienza del mondo (la mano e le braccia) le lingue segnate ma-
nifestano, per quanto riguarda i concetti astratti, le stesse peculiarità di
quelle parlate. Mentre i segni per albero nelle lingue dei segni americana,
cinese e danese, pur differendo tra loro suggeriscono comunque qualcosa
18
CORBALLIS 2008.
24 Ada Biafore
di simile alla forma effettiva dell‟albero, quelli per buono e per vero non
mantengono alcuna relazione di somiglianza con alcunché (ed inoltre lo
stesso segno che sta per qualcosa in una lingua in un‟altra indica qualcosa di
completamente diverso) ed ancora, il segno per casa nella lingua dei segni
americana, all‟inizio era una combinazione di quelli per le azioni di man-
giare e dormire, poi si è trasformato perdendo l‟elemento iconico originale.
Corballis conclude: «la somiglianza iconica può servire a „mettere in moto‟
i segni, per così dire, ma perde la sua importanza una volta che i segni sono
consolidati»19: iconicità e arbitrarietà non sono opposti l‟uno all‟altro e non
possono essere risolti l‟uno nell‟altro, ma rappresentano gli estremi di un
continuo. Nell‟ultima parte di questo scritto vedremo come è impossibile
tentare di rendere conto dei modelli di organizzazione dell‟esperienza
umana senza considerare come esse vengano piegate e potenziate dall‟in-
gresso nella dimensione simbolica propria del linguaggio.
19
Ivi, p. 154.
20
DEACON 1997.
21
PEIRCE 1987 (1903).
Tra le parole e le cose 25
sono quelle indicali, per cui all‟affievolirsi della relazione scompare il rap-
porto di significazione e allo stesso modo le simulazioni d‟azione associate
alla loro comprensione), ma si guadagna la possibilità di pensare cose mai
fatte, di arricchire e modificare i propri modi di guardare al mondo. Con-
cludiamo con una efficace descrizione di questi vantaggi: «i simboli cresco-
no. Essi vengono all‟esistenza sviluppandosi da altri segni, soprattutto dalle
icone, o, meglio, da segni misti che partecipano della natura di icone e di
simboli. […] Un simbolo, una volta in vita, si diffonde fra la gente. Con
l‟uso e con l‟esperienza il suo significato si arricchisce. Parole quali forza,
legge, benessere, matrimonio, hanno per noi significati molto diversi da
quelli che avevano per i nostri barbari antenati. Il simbolo può, con la Sfin-
ge di Emerson, dire all‟uomo: “Dell‟occhio tuo io sono il raggio”»22 .
Bibliografia
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il sangue sempre rosso? E la simpatia com’è? Una ricerca su concetti e effetto Stroop, III Con-
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A. COLIVA (2006), Concetti. Teorie ed esercizi, Roma, Carocci.
22
PEIRCE 1980, pp. 170-171.
Tra le parole e le cose 27
it. di M. Reina, riv. da V. Verra, Roma-Bari, Laterza, 1981, il quale, come è noto, sostie-
ne che nella Critica della ragion pura Kant non cerca di congiungere mediante una linea sen-
sibilità e intelletto, ma si propone di mostrare la loro essenza unitaria. L‟immaginazione è
ciò che rivela questa unità originaria (ivi, pp. 24-25).
poi il ruolo teorico svolto dall‟immaginazione nella Critica della facoltà di giu-
dizio, per trarre, infine, alcune considerazioni conclusive.
2. Kant introduce il problema dell‟immaginazione in un luogo cruciale
della prima edizione della Critica della ragion pura, e precisamente nella se-
conda e nella terza Sezione del secondo capitolo dell‟Analitica dei concetti,
meglio nota come “Deduzione trascendentale dei concetti puri dell‟intellet-
to”. Si tratta di un testo cui il filosofo attribuiva un‟importanza decisiva nel-
l‟economia complessiva dell‟opera, giacché queste pagine avrebbero dovuto
risolvere il problema di fondo del progetto trascendentale: quello di assicu-
rare il rapporto tra pensiero e realtà, tra concetti ed intuizioni sensibili, tra
categorie logiche e fenomeni empirici. E si tratta di pagine tormentate, come
si diceva prima, perché Kant, o perchè insoddisfatto del risultato raggiunto,
o per diradare il sospetto di idealismo, che subito qualche critico avanzò nei
confronti dell‟opera, riscrisse completamente il testo della Deduzione nella
seconda edizione di questa prima Critica. Di entrambe le versioni, in cui il
ruolo dell‟immaginazione è centrale, cercheremo di individuare e discutere,
in questo e nei prossimi paragrafi, i passaggi più significativi.
Nel testo della prima edizione dell‟opera, Kant esordisce dicendo che un
concetto a priori che non si riferisca ad oggetti di un‟esperienza possibile è
«soltanto la forma logica per un concetto, ma non il concetto stesso median-
te il quale qualcosa [è] pensato»2 (A 95, p. 1203). Se infatti gli elementi del-
la conoscenza, cioè i concetti, non contengono a priori la possibilità di una
esperienza, ossia il riferimento ad oggetti, non solo con essi non si pensereb-
be nulla, ma essi stessi «non avrebbero mai potuto neppure sorgere nel pen-
siero» (A 96, p. 1205). Qui il problema più importante non è tanto il fatto che
l‟intelletto può svolgere la sua funzione conoscitiva solo in quanto si riferisce
ad un oggetto, quanto il modo attraverso il quale tale riferimento si realizza.
Ora, la conoscenza ha per Kant la sua base nelle rappresentazioni; più in
particolare, nella capacità di connetterle fra loro e di unificarle. Il che non po-
trebbe accadere se ciascuna rappresentazione fosse estranea ed assolutamente
separata rispetto a ciascun‟altra. Per questo è necessario che le rappresenta-
zioni sensibili si dispongano su una sorta di terreno comune che consenta in un
secondo tempo (il tempo della spontaneità dell‟intelletto) di unificarle. Già
nella sfera ricettiva della sensibilità, dunque, è presente, secondo Kant, una
specie di sintesi: la sinossi come capacità di raccogliere, di radunare una mol-
teplicità su cui interviene poi la sintesi vera e propria come spontaneità.
2 Utilizziamo qui, e nei riferimenti che seguiranno, la traduzione della Critica della ra-
gion pura di C. ESPOSITO (I. KANT, Critica della ragion pura, Milano, Bompiani, 2004).
30 Romeo Bufalo
In queste battute iniziali Kant mette bene in chiaro le cose e pone le pre-
messe della deduzione. Il carattere sintetico-unificante viene, per così dire,
allargato ad altri due ambiti, oltre a quello concettuale. Egli infatti sostiene
che la spontaneità è il fondamento non di una, ma di tre sintesi che neces-
sariamente si presentano in ogni conoscenza. Esse sono: «la sintesi dell‟ap-
prensione delle rappresentazioni – in quanto modificazioni dell‟animo – nel-
l‟intuizione; la sintesi della riproduzione di esse nell‟immaginazione e la sin-
tesi della loro ricognizione nel concetto» (A 97, p. 1205). Già da questa enu-
merazione, come si può vedere, il ruolo dell‟immaginazione è centrale nel
senso letterale, e non metaforico, del termine; perché occupa lo spazio in-
termedio tra le intuizioni ed i concetti.
Nelle pagine immediatamente successive Kant chiarisce meglio le moda-
lità e il senso di questa quasi–sintesi in cui consiste l‟immaginazione, e che si
profila come un ibrido (egli parla di una “sintesi intuitiva”, che è, letteral-
mente, un ossimoro, rinviando la sintesi alla spontaneità e l‟intuizione alla
passività). Vediamo.
Il rapporto tra conoscenza ed oggetto, dice Kant, ha un che di necessario,
perché le nostre conoscenze non possono essere determinate a casaccio o
arbitrariamente, ma lo devono essere a priori; devono cioè accordarsi neces-
sariamente l‟una con l‟altra in relazione all‟oggetto. Solo così si può costrui-
re quell‟unità dell‟oggetto che entra nella costituzione del concetto di esso
(A, 104-105, pp. 1213-15). Questa unità, però, non può risiedere nell‟og-
getto stesso, ma nella «unità formale della coscienza» che opera la sintesi
delle rappresentazioni. La conclusione che Kant ricava da queste premesse è
che noi possiamo conoscere l‟oggetto solo se l‟unità sintetica del molteplice
delle rappresentazioni sia stata preceduta e, in un certo senso, anticipata da
una sintesi intuitiva secondo una regola. Si tratta di una regola che, riprodu-
cendo il molteplice intuitivo-sensibile, rende possibile il corrispondente con-
cetto nel quale quel molteplice viene unificato. Come si vede, sembra che ci
siano quasi due momenti sintetici, o meglio, che una forma di pre–sintesi
svolga un lavoro preliminare rispetto alla sintesi vera e propria operata dal-
l‟intelletto. Kant infatti dice che affinchè si formi in me, ad esempio, il con-
cetto di triangolo, è indispensabile (e preliminare) che io intuisca tre linee
rette che si connettono tra loro in un certo modo. Tale „certo modo‟ della
connessione delle rette nello spazio è la regola, la quale viene dunque intuita
assieme alle tre linee rette. Questo vuol dire che in futuro sarà sufficiente
evocare la regola perché venga rappresentata l‟intuizione del triangolo. L‟a-
spetto più interessante di questo discorso (quello che ci può far pensare al
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 31
3. Nella Terza Sezione del capitolo che stiamo esaminando, Kant ri-
prende ed approfondisce l‟accenno, fatto nella Sezione precedente, alle tre
fonti soggettive della conoscenza: senso, immaginazione e intelletto (A 115,
p. 1227). E chiarisce anche il significato del lavoro dell‟immaginazione ai fini
della conoscenza.
Il senso, dice Kant, rappresenta empiricamente i fenomeni nella perce-
zione; l‟immaginazione li rappresenta invece nell‟associazione e riproduzione;
infine, l‟appercezione li rappresenta nella ricognizione (=identità delle rap-
presentazioni riproduttive con i fenomeni tramite cui erano date).
Il problema, a questo punto, è per Kant quello di mostrare la connessione
necessaria dell‟intelletto coi fenomeni, non quella casuale. Che tale connes-
sione accada in modo contingente, infatti, è ciò che sperimentiamo ogni
giorno; in una prospettiva trascendentale si tratta invece di accertare se tale
connessione sia anche necessaria, vale a dire, se noi possiamo individuare le
condizioni per cui essa accade. A questo scopo bisogna partire sempre dal fe-
nomeno (che è, dice Kant, «Das erste, was uns gegeben wird», la prima cosa
che ci viene data, A 119, p. 1233). Se il fenomeno è accompagnato da co-
scienza si ha una percezione. Siccome però ogni fenomeno contiene un mol-
teplice, nel nostro animo si incontrano diverse percezioni fra loro slegate e
disperse; ciascuna sta senza alcun rapporto con ciascun‟altra. Per questa ragio-
ne è necessaria una congiunzione dei singoli fenomeni. Naturalmente, tale con-
giunzione non si può trovare nel senso stesso (che è passività). Essa è resa pos-
sibile dalla facoltà di immaginazione, che lavora direttamente sulle percezioni.
In cosa consista tale atività immaginativa ce lo spiega lo stesso Kant in una
nota, in cui dice che gli psicologi non hanno mai pensato che l‟immagina-
zione fosse un ingrediente necessario della percezione perché essa veniva li-
mitata alle sole riproduzioni. Ed anche perché si riteneva che i sensi ci for-
nissero non solo impressioni, ma riuscissero anche a comporle e a darci le
immagini degli oggetti. Ora, la composizione è una funzione sintetica, e non
può, come tale, essere svolta dai sensi (solo recettivi).
32 Romeo Bufalo
4. Se ora ci spostiamo alla seconda edizione della Critica, la cosa che su-
bito salta agli occhi, relativamente alla teoria dell‟immaginazione, è l‟inver-
sione del percorso rispetto a quello compiuto da Kant nella prima. Mentre lì,
infatti, come abbiamo visto, l‟immagine veniva incrociata a partire dall‟intui-
zione sensibile (nel suo percorso verso l‟intelletto), adesso invece essa viene
incontrata a partire dal concetto. Questa inversione potrebbe apparire in-
spiegabile ed incompatibile con l‟impianto trascendentale dell‟opera. Non
aveva detto Kant che ciò che ci è dato è solo l‟intuizione, il molteplice sensi-
bile, il fenomeno, e non il concetto, la categoria? Sì, ma questo non impe-
disce a Kant di dire, all‟inizio del § 21, che la deduzione che parte dal con-
cetto si rende necessaria «dal momento che le categorie scaturiscono soltanto
nell‟intelletto, indipendentemente dalla sensibilità» (B 144, p. 259). Anche
se si affretta subito a precisare che le categorie nascono sì nell‟intelletto in
modo autonomo, ma con esse, a prescindere dal darsi dell‟intuizione, non si
può conoscere nulla; si può solo pensare.
È la celebre tesi kantiana della distinzione tra pensare e conoscere. Pen-
sare un oggetto e conoscerlo non sono la stessa cosa. Per conoscere sono ne-
cessari sempre due elementi: il concetto (con cui pensiamo un oggetto) e
l‟intuizione (con cui l‟oggetto viene dato). Ora, siccome ogni intuizione, co-
me sappiamo dall‟Estetica trascendentale, è sensibile e non intellettuale, il pen-
siero di un oggetto in generale può diventare per noi una conoscenza solo se
quel concetto viene riferito agli oggetti dei sensi (B 146, p. 261). I concetti,
le categorie, pertanto, ci forniscono una conoscenza delle cose solo se pos-
sono essere applicate ad intuizioni empiriche (B 149, p. 267).
E veniamo, finalmente, al celebre § 24 (intitolato “Dell‟applicazione delle
categorie agli oggetti dei sensi in generale”), in cui Kant si interroga sul mo-
do in cui i concetti puri dell‟intelletto si riferiscono al mondo sensibile–feno-
3 M. HEIDEGGER, op. cit., pp. 24-25.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 35
esperienze del senso esterno). Noi abbiamo, infatti, da una parte l‟apperce-
zione, che si riferisce al molteplice dell‟intuizione in generale. Da un altro
lato c‟è invece il senso interno, il quale contiene però solo le forme dell’in-
tuizione, e non è in grado di operare congiunzioni in essa. Per farlo, dovrebbe
essere opportunamente „sollecitata‟, per così dire. E però, nella concretezza
delle nostre esperienze conoscitive, noi abbiamo a che fare con intuizioni
determinate, non con le loro forme. Perciò dobbiamo determinare il senso
interno, dobbiamo „smuoverlo‟, farlo cioè muovere dal suo rapporto con la
semplice forma dell‟intuizione. A questo serve la sintesi figurata, un intrec-
cio, già nella formulazione linguistica, di attività e passività, intellettualità e
sensibilità. Noi non possiamo, scrive Kant, «pensare una linea senza tracciar-
la nel pensiero; non possiamo pensare un circolo senza descriverlo; non pos-
siamo rappresentare le tre dimensioni dello spazio senza porre tre linee che
partano dallo stesso punto e siano perpendicolari tra loro» (B 154, p. 271).
In tutti gli esempi geometrici qui addotti da Kant, si tratta di congiunzioni ef-
fettive del molteplice in una rappresentazione con cui il senso interno viene
determinato. Ora, e questo è l‟aspetto più importante della questione che qui
stiamo discutendo, tutte queste congiunzioni del molteplice (pensare la linea
tracciandola figurativamente, pensare il circolo descrivendolo concretamente,
ecc.) l‟intelletto non le trova già bell‟e fatte come suo „deposito‟ interno, «bensì
[le] produce, esercitando con ciò un‟affezione su di esso» (B 155, p. 273).
Possiamo allora concludere su questo punto (e prima di affrontare il pro-
blema del ruolo delle immagini nello schematismo trascendentale) dicendo
che in queste posizioni kantiane è senz‟altro riconoscibile una traccia di
quanto egli aveva scritto nella prima edizione dell‟opera, e cioè che l‟im-
maginazione svolge un ruolo preliminare rispetto all‟insediamento dell‟intel-
letto. C‟è, insomma, una doppia sintesi: quella immaginativa e quella intel-
lettuale. Kant ritiene, cioè, indispensabile che i fenomeni sensibili, nella loro
contingenza, non possano immediatamente essere unificati dall‟intelletto. De-
vono essere prima connessi sul piano stesso della sensibilità, vale a dire su un
piano estetico, e solo successivamente venire unificati ad opera dei concetti.
Questa opera preliminare di connessione dei fenomeni è svolta dalla facoltà
immaginativa, «la quale dipende dall‟intelletto per quanto riguarda l‟unità del-
la sua sintesi intellettuale, e dalla sensibilità per quanto riguarda la molteplicità
dell‟apprensione» (B 164, p. 285).
quella del concetto (A 137, B 176, p. 301). Dunque, il tertium che consente
la sussunzione del sensibile richiede la presenza di due rappresentazioni (rispet-
tivamente, dell‟oggetto e del concetto) tra loro congruenti. Chi „lavora‟ sul-
le rappresentazioni per renderle omogenee e superare l‟eterogeneità fra sen-
so e intelletto è l‟immagine–schema.
Che la relazione si stabilisca tra due rappresentazioni è del tutto com-
prensibile, non essendo possibile ricondurre l‟oggetto in carne ed ossa sotto
un concetto. Ma se ci sono due rappresentazioni, ci saranno, conseguente-
mente, due concetti. Ed infatti, quando Kant fa un esempio di sussunzione di
un oggetto sotto un concetto, si serve di due concetti, uno empirico, l‟altro
puro. Il concetto empirico di „piatto‟ (la rappresentazione che ne ho) è omo-
geneo al concetto geometrico (puro) di „circolo‟ perchè la „rotondità‟ che
pensiamo nel concetto di piatto la intuiamo in quello di circolo.
Se le cose stessero sempre così, il capitolo appena iniziato potrebbe anche
chiudersi. Invece le cose non vanno sempre come nell‟esempio del concetto
di „piatto‟. Spesso infatti noi ci troviamo con i concetti puri da un lato e le
intuizioni empiriche dall‟altro. E concetti puri ed intuizioni empiriche sono
radicalmente eterogenei. Ad esempio, come facciamo ad applicare il concet-
to puro di causa ad un‟intuizione empirica? Ovvero, come facciamo a ricono-
scere che quel particolare fenomeno sensibile che ci colpisce è riconducibile
sotto il concetto di causa? Insomma, le cose sono relativamente semplici in
tutte quelle scienze in cui i concetti con i quali si pensa un oggetto non siano
molto diversi dai concetti con cui ci rappresentiamo concretamente quel-
l‟oggetto. Quando invece le affinità rappresentative (quelle affinità di cui Kant,
come si ricorderà, parlava nella prima edizione della Critica) non si danno,
allora è necessario trovare un terzo elemento, il quale, «da un lato deve es-
sere omogeneo con la categoria, e dall‟altro lato con il fenomeno, per rende-
re possibile l‟applicazione della prima al secondo» (A 138, B 177, p. 301).
Questo terzo che è lo schema deve essere anfibio, bifacciale: da un lato deve
essere intellettuale (omogeneo al concetto); dall‟altro figurato–sensibile (omo-
geneo al fenomeno). «Una rappresentazione di questo tipo – conclude Kant
– è lo schema trascendentale» (ibid.).
Ora, lo schema, essendo terzo, non potrà essere prodotto né dalla facoltà
delle regole (l‟intelletto), né dalla facoltà delle intuizioni (la sensibilità). Sic-
come serve alla facoltà di giudizio (Urteilskraft5) per congiungere il prodotto
5 A proposito del termine Urteilskraft, Silvestro Marcucci ha rilevato che il discorso kan-
tiano sul giudizio come facoltà si ferma qui alla sua semplice enunciazione e non va oltre.
Bisognerà aspettare il 1790 perché lo riprenda e vi costruisca sopra la terza Critica (der Ur-
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 39
della prima con il prodotto della seconda, esso sarà, conseguentemente, pro-
dotto da una terza facoltà: la facoltà di immaginazione (Einbildungskraft). Sareb-
be però sbagliato identificare lo schema con l‟immagine. Cinque punti messi
l‟uno dopo l‟altro nello spazio sono senz‟altro l‟immagine del concetto del
numero 5. Ma questo non è uno schema, è solo la raffigurazione sensibile di
un‟entità concettuale. Lo schema interviene quando devo pensare un nume-
ro in generale, per esempio 93714. Perché qui occorre un metodo che mi
consenta di rappresentarmi, secondo un concetto, una pluralità di cose me-
diante un‟immaginazione. In altri termini, per concepire il numero 93714,
io non posso tradurlo/raffigurarlo in una semplice immagine come accadeva
per il numero 5. Non riuscirò mai, infatti, a „vedere‟, ad abbracciare con una
figurazione mentale, 93714 punti allineati nello spazio. Posso solo rappre-
sentarmelo come „più grande‟ dell‟ordine delle unità, delle decine, delle cen-
tinaia; come una pluralità di migliaia, ecc. Questo metodo per rappresentare
concetti è il modo di procedere della facoltà di immaginazione la quale con-
siste nel procurare ad un concetto la sua immagine adeguata (A 140, B 179,
p. 305), cioè lo schema di tale concetto.
6. Anche se, tra prima e seconda edizione della Critica della ragion pura, sul-
l‟immaginazione Kant si sofferma a sprazzi, cambia spesso idea, come ha rile-
vato Silvestro Marcucci6, prima dell‟assestamento teoretico definitivo nella
terza Critica, non si può tuttavia negare che l‟importanza di tale terza facoltà
per il progetto critico–trascendentale risulti lo stesso notevole in entrambe le
edizioni dell‟opera. Ad essa Kant assegna, nel § 10 del primo Libro dell‟Ana-
litica, un ruolo centrale nel processo di costituzione della sintesi in generale.
Qui infatti Kant, nell‟introdurre il concetto generale di sintesi, scrive che «la
sintesi in generale […] è il semplice effetto della facoltà di immaginazione, di
quella funzione cieca, sebbene indispensabile, dell‟anima, senza la quale non
avremmo in assoluto alcuna conoscenza, ma della quale solo raramente sia-
mo coscienti» (A 78, B 103, p. 203)7.
teilskraft, per l‟appunto). Cf. su questo, e su altre importanti questioni kantiane, S. MARUC-
CI, Guida alla lettura della Critica della ragion pura di Kant, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 96.
6 Ivi, p. 97.
7 Questa «blinden Funktion der Seele» che è l‟immaginazione non è molto diversa da
quella «Grundvermögen der menschlichen Seele» con cui l‟immaginazione era stata carat-
terizzata nella prima edizione della Critica (A 124, p. 1239). Anche Luigi Scaravelli nota
che, per quanto nella seconda edizione il ruolo dell‟immaginazione sia «notevolmente di-
minuito», tuttavia la sua funzione rimane «all‟incirca quella di prima» (L. SCARAVELLI, Scritti
kantiani, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 229).
40 Romeo Bufalo
Nel corso del paragrafo Kant distingue tra immagine e schema. Il suo
discorso si articola, più o meno, nei seguenti termini. Alla base dei nostri con-
cetti sensibili puri, non stanno le immagini dei concetti, ma gli schemi. Nes-
suna immagine empirica di un triangolo può infatti „esaurire‟, per così dire,
cioè essere adeguata, al concetto geometrico di triangolo in generale. D‟altra
parte, non possiamo nemmeno pensare un „triangolo in generale‟. Perché
quando pensiamo un triangolo, sarà sempre un triangolo particolare/figurato
che avremo in testa (e su questo già Berkeley, nel Trattato sui principi della co-
noscenza umana, aveva richiamato l‟attenzione contestando la possibilità del-
l‟esistenza di „idee generali‟). Il concetto di triangolo in generale, essendo
universale, deve valere per ogni triangolo in particolare. Invece l‟immagine
che ogni volta ce ne facciamo è sempre particolare. Ecco perché è necessario
lo schema, il quale non è concetto, ma non è nemmeno esclusivamente im-
magine, perché non raffigura un oggetto, ma è «una regola della sintesi della
facoltà di immaginazione riguardo alle figure nello spazio», nel caso dei trian-
goli (A 141, B 180, p. 305). Che lo schema sia una regola della sintesi im-
maginativa vuol dire che, siccome l‟immaginazione è „anfibia‟, ha un lato
sensibile ed uno intellettuale, qui la regola concerne quest‟ultimo lato, istrui-
sce il lato sensibile–intuitivo sul da farsi.
Senonché, con l‟introduzione dello schema sembra che le difficoltà, inve-
ce di diminuire, aumentino. In questa stessa pagina, infatti, Kant introduce il
noto esempio dello schema del concetto di „cane‟. E nel farlo, sostiene che
l‟immagine di un oggetto dell‟esperienza non potrà mai, da sola, raggiungere
il concetto empirico, perché questo si riferisce sempre non all‟oggetto diret-
tamente, ma allo schema prodotto dall‟immaginazione. Così, il concetto em-
pirico di „cane‟ non si applica direttamente a questo o a quel singolo cane,
ma deve passare prima per lo schema di cane, con cui l‟immaginazione deli-
nea la figura generale di un animale quadrupede senza essere limitata ad una
qualche figura particolare dell‟esperienza (A 141, B 180, p. 305). Già, ma co-
me faremo a distinguere il quadrupede „cane‟ dal quadrupede „cavallo‟ o
„gatto‟ o „tigre‟ ecc.? Forse è sulla base di una tale possibile osservazione che
Kant conclude dicendo che lo schematismo dell‟intelletto, relativamente ai
fenomeni, «è un‟arte nascosta nella profondità dell‟anima umana, e difficil-
mente potremo mai strappare alla natura il vero segreto del suo uso per sve-
larlo davanti ai nostri occhi» (A 141, B 180, p. 307).
E tuttavia, il discorso kantiano non si esaurisce in questa sorta di dichiara-
zione di resa che fa appello al mistero dell‟animo umano. In chiusura di capi-
tolo egli infatti sottolinea un altro aspetto importante; e cioè che gli schemi
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 41
roni e Hohenegger – sia la forma stessa del tema insieme unitario e complesso della terza
Critica, è indispensabile insistere sul nuovo rapporto che si istituisce tra immaginazione e
intelletto in forza dello statuto ora assunto dalla facoltà di giudizio e precisarlo ulterior-
mente. Proprio tale forma costituisce la ragione, frequentemente sottovalutata dagli inter-
preti, della sua unità tematica complessa, che consiste nella considerazione, all‟interno del
medesimo contesto […] del giudizio di gusto, della conoscenza empirica, della quasi–cono-
scenza della vita e infine del pensare in genere, in quanto questi implicano tutti, in modi
analogici diversi, un qualche riferimento al soprasensibile» (op. cit., p. XLVI).
13 I. KANT, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 25.
44 Romeo Bufalo
lino in modo normativo–necessario, è chiaro che, nella sfera del gusto, si giu-
dica in riferimento ad una «libera conformità a leggi dell‟immaginazione»16.
Qui incontriamo il carattere „libero‟ dell‟immaginazione. La quale, per-
tanto, non è riproduttiva, ma produttiva e spontanea, in quanto autrice di
«forme arbitrarie» di intuizioni possibili17. Ma come può l‟immagine essere
„libera‟ e, contemporaneamente, „conforme a leggi‟? Solo l‟intelletto contie-
ne leggi. Sì, però qui le leggi non sono date dall‟intelletto, ma sono prodotte
dall‟immaginazione. E sono prodotte a causa del carattere indeterminante del
terreno libero (nel senso di contingente) in cui ci muoviamo (non è il ter-
reno „solido‟ della scienza, ma quello incerto dell‟esperienza empirica effet-
tiva). Se infatti l‟immaginazione dovesse procedere secondo una legge deter-
minata, il suo prodotto sarebbe anch‟esso determinato mediante concetti; ed
il compiacimento non sarebbe quello del bello, ma quello del buono. Con-
seguentemente, il giudizio che ce ne facciamo non sarebbe un giudizio di gu-
sto. Perché un giudizio di gusto sia possibile è necessario un accordo sogget-
tivo dell‟immaginazione con l‟intelletto, in cui la conformità a leggi senza una
legge determinata (v. la „finalità senza fine‟) che caratterizza l‟immaginazione
coesiste con la conformità a leggi propria dell‟intelletto.
In altri termini, l‟immaginazione si mette qui a lavorare come se fosse in-
telletto. Però non fa esattamente (perché non lo può fare) quello che fa l‟in-
telletto. L‟elemento libero, soggettivo–riflettente prevale su quello non libe-
ro, oggettivo–determinante. E questo si riflette sulla stessa idea di bellezza.
La bellezza di cui parla Kant, infatti, non è quella che si riscontra nelle figure
geometriche come un cerchio, un triangolo, un cubo, ecc. Perché? Perché
esse sono figure „regolari‟, cioè esibizioni di un concetto che prescrive una
regola universale secondo cui quella figura è possibile. È chiaro – prosegue
però con un suo uso comune, non filosofico. Si veda, per esempio, il § 26 (p. 89), in cui si
dice che l‟immaginazione, come attività libera da freni, è portata all‟infinito nella composi-
zione delle grandezze, se non intervenisse l‟intelletto a guidarla con concetti numerici; o
che, nell‟esperienza del sublime ogni sforzo della nostra immaginazione nel valutare le gran-
dezze è vano; o che l‟animo “si abbandona” all‟immaginazione (p. 92), ecc.
17 Ibid. L‟aggettivo „arbitrarie‟ usato qui da Kant per qualificare le forme generate dal-
l‟immaginazione non è usato in un senso „arbitraristico‟, nel senso cioè di una libera ed
anarchica soggettività, di arbitrio soggettivistico e simili, ma in un‟accezione che ci sembra
più vicina al concetto saussuriano di arbitrarietà linguistica; ossia come attività che sceglie e
seleziona, di volta in volta, le caratteristiche empiriche pertinenti a stabilire l‟identità sotto
cui si conosce. Un originale sviluppo dell‟arbitrarietà linguistica di Saussure si ha nel con-
cetto di pertinenza elaborato da LUIS PRIETO (di cui si veda almeno Pertinenza e pratica, trad.
it. di D. Gambarara, Milano, Feltrinelli, 1976).
46 Romeo Bufalo
22 G. DELEUZE, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, tr. it. a cura di S. Palazzo,
Uno studio kantiano, Napoli, Guida, 1984. Sul carattere storico del „senso comune‟ molto
importanti sono anche le considerazioni di P. MONTANI, Bioestetica, cit., pp. 44-45.
48 Romeo Bufalo
passaggio estetico. Saggi kantiani, Genova, Il Melangolo, 2003, pp. 101 sgg.
26 I. KANT, op. cit., p. 53.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 49
27 Ivi, p. 132.
28 Affinché gli uomini possano agevolmente scambiarsi i loro pensieri è necessario che
l‟intelletto cooperi sempre con l‟immaginazione. Solo così, infatti, i concetti accompagneran-
no le intuizioni (e viceversa) in ogni conoscenza, rendendone possibile la circolazione inter-
soggettiva. In questo caso, però, l‟armonizzarsi delle due facoltà si realizza sotto la „costri-
zione‟ di concetti determinati. Se si vuole andare al di là della determinatezza intellettuale–
causale, bisogna che l‟immaginazione scavalchi, per così dire, l‟intelletto e si metta a costruire
in proprio nuove „regole del gioco‟. Scrive infatti Kant: «Solo là dove l‟immaginazione nella
sua libertà risveglia l‟intelletto e questo, senza concetto, mette l‟immaginazione in un gioco
conforme a regole, là si comunica la rappresentazione, non in quanto pensiero, ma in quanto
interno sentimento di uno stato dell‟animo conforme a scopi» (ivi, p. 132).
29 Cf. M. ROSSI, “Il concetto di finalità trascendentale nella „terza Critica‟”, in ID., Cultura
e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1974, il quale rileva, nella terza Critica, la presenza di un
contrasto tra «il carattere produttivo dell‟arte individuato come differenziante nei confronti
50 Romeo Bufalo
della contemplazione del bello naturale» ed «il carattere ricettivo del sentimento e della sen-
sibilità affermato […] nella Critica della ragion pura» (p. 555).
30 Su questo «spostamento dalla facoltà di giudicare alla facoltà di produrre», cioè da
una sfera ricettiva ad una poietica, e sulle conseguenze che ciò produce in ordine alla teoria
kantiana dell‟immaginazione ha richiamato l‟attenzione P. MONTANI, “Kant, Schiller, Fichte.
L‟estetica critica e i suoi sviluppi”, in Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, a
cura di P. Montani, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 208-209.
31 I. KANT, op. cit., p. 139.
32 P. MONTANI, “Arte e tecnica: vecchie e nuove forme di dissidio e di alleanza”, in ID. e M.
CARBONI, Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 6.
33 I. KANT, op. cit., p. 141.
34 Ibid.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 51
35 Ivi, p. 142.
36 Ivi, p. 143.
52 Romeo Bufalo
ni Carchia, secondo il quale l‟immaginazione kantiana è come l‟eros del Simposio platonico:
lo spazio dell‟una e dell‟altro non è né sensibile né intelligibile; né umano né divino, coin-
cidendo con quello, metessico, della loro confusione; Cf. G. CARCHIA, Estetica ed erotica.
Saggio sull’immaginazione, Milano, Celuc, 1981, ora in ID., Immagine e verità. Studi sulla tra-
dizione classica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 135-136.
38 I. KANT, op. cit., p. 12.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 53
39 Ivi, p. 149.
40 Ibid.
41 Ivi, p. 150.
42 Cf. H. ARENDT, “Immaginazione”, in EAD., Teoria del giudizio politico, con un saggio
43 Di cui si veda il ciclo di lezioni tenute al Collège de France tra il 1973 ed il 1974 (P.
RICOEUR, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, tr. it. di R. Messori, Palermo, CISE,
2002). L‟aspetto più interessante della lettura di Ricoeur consiste nell‟idea secondo cui
l‟immaginazione kantiana (e le riflessioni sul genio in particolare) contengono i presupposti
per una nuova teoria della soggettività moderna. L‟aspetto più interessante della lettura di
Ricoeur, la cui discussione però ci porterebbe fuori dall‟ambito scelto per questo semi-
nario, è contenuto nelle considerazioni che vedono nell‟immaginazione kantiana (e nelle
riflessioni sul genio in particolare) i presupposti per una nuova teoria della soggettività.
44 Cf. J.J. WUNENBURGER, Filosofia delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Torino, Einaudi,
1999, spec. pp. 86-93. Di MAURIZIO FERRARIS è da vedere anche “L‟immaginazione come
idealizzazione intraestetica nella Critica della ragion pura”, Rivista di estetica 42 (1994), pp.
55-68.
La base sensibile dell’immaginazione in Kant 55
tezza (o l‟insensatezza) di ciò che accade, o sta per accadere, non la cono-
sciamo (logicamente), ma la sentiamo (esteticamente), ossia la anticipiamo in
un giudizio estetico. La intravediamo dentro le maglie dei singoli fenomeni
dell‟esperienza. Opsis tōn adēlon ta phainomena, «visione di cose invisibili sono
i fenomeni» recita un celebre frammento di Anassagora, opportunamente
richiamato da Hannah Arendt45 per sostenere che chi ci fa vedere ciò che non
si vede, chi rende presente ciò che è assente nella percezione è proprio l‟im-
maginazione kantiana.
un presupposto che, in realtà, nel suo sensismo radicale non trova giusti-
ficazione. Condillac sa bene che l‟esperienza, di per sé, non è orientata:
vedere una mela significa, nello stesso momento, vedere una forma, un
colore, sentire un profumo, vedere una azione (RIZZOLATTI, SINIGAGLIA,
2004), e molte altre possibilità ancora: «se una moltitudine di sensazioni si
fa innanzi, tutte in una volta, con lo stesso grado di vivacità, o pressappoco,
l‟uomo è ancora soltanto un animale che sente: basta l‟esperienza per
convincerci che allora la moltitudine delle impressioni impedisce ogni at-
tività dello spirito. Ma lasciamo sussistere una sola sensazione; oppure,
senza sopprimere interamente le altre, se ne diminuisca soltanto la forza;
subito lo spirito è occupato più particolarmente dalla sensazione che con-
serva tutta la sua vivacità, e questa sensazione diventa attenzione, senza che
sia necessario presupporre nulla di più nell‟anima» (ivi, p. 18). Fin dall‟ini-
zio si pone allora il problema di come rendere la sensazione, che per Con-
dillac è l‟unico carburante del motore cognitivo, una attività determinata,
e selettiva. Siccome Condillac non può, e non vuole, perché il suo quadro
teorico glielo impedisce, introdurre un vincolo percettivo interno, ciò che
lo porterebbe pericolosamente vicino ad una sia pur blanda forma di innati-
smo, deve trovare un modo esterno perché si formi l‟attenzione, cioè ap-
punto la capacità di dirigere selettivamente la percezione. Dal momento
infatti che «le impressioni che io provo, possono essere [...] così estese,
così variate e in sì gran numero, ch‟io vedo un‟infinità di cose, senza pre-
stare attenzione a nessuna; ma appena fermo la vista su di un oggetto, ecco,
le sensazioni particolari che ne ricevo, sono l‟attenzione stessa che io gli
presto» (ibid.). Ecco, questo è il problema, che, come vedremo più avanti,
è particolarmente grave nel caso che ci interessa in questo lavoro: una sog-
gettività, infatti, è appunto una attenzione capace di prestare attenzione a
sé stessa. A Condillac serve allora un doppio livello di attenzione, quella
originaria, e poi quella – questa seconda è la coscienza – che si concentra
sulla prima: «la nostra capacità di sentire si divide, dunque, tra la sensa-
zione che abbiamo avuta e quella che ora abbiamo: noi le percepiamo tutte
e due insieme, ma le percepiamo in modo diverso» (ibid.). Questa distin-
zione di grado fra le due sensazioni, però, non è affatto sufficiente a dare a
Condillac quello di cui ha bisogno: il punto è che in realtà non esistono sen-
sazioni come entità atomiche che possano essere confrontate fra loro. E
senza sensazioni già distinte non può nemmeno esserci una coscienza auto-
noma che si concentri ora su una ora sull‟altra sensazione. All‟inizio c‟è un
flusso esperienziale, e quindi il problema sarà come distinguere, all‟interno
58 Felice Cimatti
di questo flusso, delle porzioni unitarie, cioè appunto delle sensazioni di-
stinte. La sensazione, allora, non è il punto di partenza del processo cono-
scitivo, al contrario, è il punto di arrivo: la sensazione è un insieme circo-
scritto del campo sensoriale. La coscienza, allora, presuppone la capacità di
prestare attenzione in modo selettivo a porzioni del campo sensoriale. Non
si può, pertanto, affidare allo stesso campo sensoriale il compito di guidare
l‟attenzione, come invece fa Condillac: «se una nuova sensazione acquista
più vivacità della prima, essa diverrà a sua volta sensazione» (ibid.). Rias-
sumiamo lo stato del problema: si tratta di costruire una teoria tattile della
soggettività, cioè una coscienza in grado di prestare attenzione alla propria
coscienza. Condillac vuole costruire questa entità psicologica senza presup-
porre nessuna capacità interna. Il punto critico è l‟attenzione: come fare a
dirigere l‟attenzione non su un‟altra sensazione, bensì su sé stessa? Con-
dillac di fatto non sa rispondere a questa domanda, se non trasformando il
problema in un presupposto: «in tal modo noi siamo capaci di due atten-
zioni: l‟una si esercita per mezzo della memoria, l‟altra per mezzo dei sen-
si. Ma se c‟è doppia attenzione, c‟è il confronto: perché prestare atten-
zione a due idee o paragonarle è la stessa cosa» (ivi, p. 19). Così ciò che
una teoria sensoriale della cognizione non può sviluppare, cioè una teoria
dell‟attenzione guidata dall‟interno, che appunto non si può costruire per-
ché in questo quadro è ammessa soltanto una stimolazione dall‟esterno, di-
venta un presupposto ingiustificato. Il problema, senza spiegare come, di-
venta così la sua stessa soluzione.
Questo è l‟ostacolo che si pone per una teoria unicamente e integral-
mente sensoriale. In generale è il problema di come sviluppare l‟intero in-
sieme delle capacità cognitive a partire soltanto dalla stimolazione senso-
riale che un individuo isolato può ricevere. Qui ci interessa la nascita e lo
sviluppo della soggettività. Un‟entità del genere ha bisogno di un doppio
piano dell‟esperienza, di una gerarchia dell‟attenzione. Condillac ha chiaro
il problema, è la sua soluzione a non essere convincente. Lui stesso, infatti,
ammette che «l‟occhio vede naturalmente tutte le cose che fanno qualche
impressione su di lui, ma aggiungo che non discerne se non in quanto im-
para a guardare, e [...] per discernere la più semplice figura, non basta ve-
derla» (ivi, p. 23). Il problema è quindi come insegnare al tatto a svilup-
pare questa capacità di discriminazione selettiva: in particolare, questo
processo di insegnamento è affidato all‟esperienza individuale oppure anche
a quella sociale?
Il limite tattile dell’io 59
Non è un caso che nel punto decisivo del suo ragionamento Condillac
ricorra ad una analogia linguistica; «tutte le parti» corporee ricorrono
infatti alla mediazione linguistica per affermare di fare parte di uno stesso
corpo, dicono così «“sono io”». In realtà questa analogia dimostra un pro-
blema teorico, che nel modello di Condillac non trova soluzione. Prendia-
mo sul serio questa analogia. Perché la mano possa dire “sono io” deve ave-
Il limite tattile dell’io 61
indica quella giusta il chicco è suo. Fra le due coppette, infine, c‟è una sca-
tola che contiene con sicurezza un bocconcino di cibo per cani, che l‟oran-
go non apprezza in modo particolare. Quando l‟orango è sicuro di ricorda-
re sotto quale coppetta si trovi il chicco d‟uva il compito è facile; l‟esperi-
mento è però congegnato in modo tale da rendere talvolta difficile ricor-
dare quale sia la coppetta giusta (ad esempio cambiando la loro posizione
reciproca sul tavolo). Quando l‟orango non è sicuro della sua memoria
spesso preferisce non provare nemmeno ad indovinare quale sia la coppetta
giusta, e sceglie senza esitazione la scatola con il cibo per cani, che anche se
non è particolarmente gradito ha il pregio indubbio di esserci sempre. Co-
me possiamo descrivere questo esperimento senza ricorrere a termini psi-
cologici? In realtà in questo esperimento occupa una posizione centrale la
scatolina che contiene il cibo per cani. L‟orango può imparare a concen-
trarsi sul suo ricordo proprio perché dispone della scatola: questa funziona
come un segno esterno che gli permette di concentrare la sua attenzione su
un evento interno, il suo ricordo. La vista del chicco d‟uva e della coppetta
che lo ricopre è una esperienza che, come tutte le altre esperienze, ver-
rebbe presto dimenticata, perché altre nuove ne sopraggiungono, e quindi
ne indeboliscono il ricordo. Il problema psicologico dell‟orango è come fis-
sare, in particolare, il ricordo proprio di quella esperienza: la scatola serve
proprio a questo, offre alla scimmia un mezzo esterno che gli „ricorda‟ di
non dimenticare quello che ha appena visto; un po‟ come un nodo al faz-
zoletto (VYGOTSKIJ, 1960) ci „ricorda‟ di ricordare un appuntamento (oggi
facciamo lo stesso con le agende elettroniche, ma il procedimento è lo
stesso). Grazie al segno esterno, cioè alla scatola, l‟orango può mantenere
fissa l‟attenzione sul suo ricordo, cioè appunto su un evento interno; e così
può anche decidere di comportarsi in un modo o in un altro, se si accorge
che quel ricordo – per qualunque ragione – non è affidabile. In quest‟ul-
timo caso prende il cibo per cani, cioè sceglie un premio poco apprezzato
ma sicuramente esistente, rispetto ad uno più apprezzato ma solo probabile.
Quello che ci interessa in questo esperimento è che l‟orango diventa ca-
pace di riferirsi in modo cosciente ed esplicito ad un suo stato interno sol-
tanto perché dispone di uno stato esterno che gli permette di prestare atten-
zione in modo selettivo proprio e soltanto a quello stato interno. In effetti
non è sufficiente essere animali coscienti perché si sia anche animali dotati
di una vita mentale interna. Occorre anche un mezzo per individuare un
particolare stato interno rispetto a tutti gli altri stati mentali che sono
presenti in ogni istante nello spazio mentale interno. Proprio il punto a cui
Il limite tattile dell’io 63
Bibliografia
Sensibilità e immaginazione
tra la I e la II edizione della KrV di Kant.
Rileggendo l’interpretazione di Heidegger
1
Cf. tra le mie precedenti ricerche: Heidegger interprete di Kant, Genova, Studio Edito-
riale di Cultura, 1981; Tempo e necessità. Ricerche su Kant, Husserl e Heidegger, Roma-L‟Aqui-
la, Japadre, 1987; “Über den Begriff der Notwendigkeit in Kants Analytik der Grundsätze“,
Kant-Studien 80 (1989) 1, pp. 48-62.
me «un oggetto che per noi», «in senso positivo» (cioè come oggetto di una
intuizione intellettuale che noi non possediamo), è «nulla», ma che in sé
«è», e costituisce il supporto ontologico sul quale si applicano le nostre rap-
presentazioni e le categorie del nostro intelletto.
Ad ogni modo, non tutti gli interpreti considerano univocamente l‟evo-
luzione del concetto di noumeno dalla prima alla seconda edizione della
Critica, da Cassirer2 a De Vleeschauwer3, da Adickes4 a Kemp Smith5, solo
per citare alcune delle interpretazioni ritenute „classiche‟. Tra le letture più
recenti, si può ricordare la proposta di sostituire la coppia «noumeno posi-
tivo-noumeno negativo» con la coppia «possibile-problematico»6. Il nou-
meno è il concetto problematico par excellence: esso non potrebbe essere
colto dalla logica dell‟intuizione – che riconduce al circolo di intuizione sen-
sibile e intuizione intellettuale –, bensì dalla logica del ragionamento. Il
suo concetto può essere mediato, esigito, inferito, a partire dalla realtà da-
ta o percepita. Occorre, però, fare attenzione: non si tratta della introdu-
zione surrettizia del principio di causalità, che tanto infastidiva Schopen-
hauer, ma del principio di ragione sufficiente che richiede per ogni cosa
tutte le condizioni che la costituiscono o che ne scaturiscono.
schaft, 1975; tr. it. Vita e dottrina di Kant, Firenze, La Nuova Italia, 1997.
3 H.J. DE VLEESCHAUWER, L’évolution de la pensée kantienne, Paris, 1939; tr. it. L’evolu-
zione del pensiero di Kant, Roma-Bari, Laterza, 1976; ID., “L‟orizzonte nella logica di Kant”,
De Homine 31-32 (1969), pp. 38-68.
4 E. ADICKES, Kant und das Ding an sich, Berlin, Heise, 1924.
5 N. KEMP SMITH, A Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”, London, Macmillan, 1918.
6 I. MANCINI, Guida alla Critica della ragion pura, II. L'Analitica, Urbino, QuattroVenti, 1988.
7 I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, in Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preus-
sischen Akademie der Wissenschaften, Berlin, Reimer (poi W. De Gruyter), 1902-1966 (d‟ora
in poi „GS‟, seguito dall‟indicazione del volume in cifre romane, della pagina e, tra parentesi
quadre, delle righe. Con la sigla GS III si fa riferimento alla seconda edizione dell‟opera [1787],
con la sigla GS IV, il riferimento è alla prima edizione [1781]. Per il passo in questione cf. GS III,
p. 134 [11-12]; tr. it. Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e Lombardo Radice, rive-
duta da V. Mathieu, Roma-Bari, Laterza, 1971, p. 163: «Ma i concetti puri dell‟intelletto,
posti a raffronto con le intuizioni empiriche (anzi, con le intuizioni sensibili in generale),
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 71
risultano del tutto eterogenei e non possono mai essere trovati in qualche intuizione. Com‟è
allora possibile la sussunzione delle intuizioni sotto i concetti dell‟intelletto, quindi l‟applica-
zione della categoria ai fenomeni, visto che nessuno potrà mai dire: questa categoria, ad esem-
pio quella di causalità, può essere anche intuita per mezzo dei sensi ed è compresa nel feno-
meno? Questa domanda, così naturale e importante, è propriamente la causa della indispen-
sabilità di una dottrina trascendentale del giudizio, al fine di chiarire la possibilità, in generale,
dell‟applicazione dei concetti puri dell‟intelletto ai fenomeni».
8 Ivi, tr. it. pp. 163-164. Le pagine sullo schematismo sono riportate senza sostanziali
modifiche dalla prima alla seconda edizione dell‟opera. Saranno invece escluse dalla secon-
da edizione le pagine inerenti alla capacità trascendentale di immaginazione; in particolare,
i capitoli Sulla deduzione dei concetti puri dell’intelletto e Sul rapporto dell’intelletto con gli oggetti
in generale e sulla possibilità di conoscere questi a priori.
9 GS III, p. 135 [37-40], p. 138 [26-27]; tr. it. p. 164.
10 GS III, p. 136 [7-9]; tr. it. p. 165.
11 GS III, p. 136 [23-28]; tr. it. p. 166.
72 Pio Colonnello
12 M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik [1929], Frankfurt a.M., Kloster-
mann, 1965, p. 103; tr. it. Kant e il problema della metafisica, a cura di M.E. Reina [riveduta da
V. Verra], Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 146. L‟opera sarà successivamente citata con la sigla
KM. In questa sede faccio riferimento sostanzialmente al Kantbuch del 1929, per quanto Hei-
degger sia ritornato più volte su Kant o su temi kantiani (cf. “Kants These über das Sein”, in
Festschrift für Erik Wolf “Existenz und Ordnung”, Frankfurt a.M., Klostermann, 1962; tr. it. “La
tesi kantiana sull‟essere”, Studi Urbinati 42 (1968) 1, pp. 4-67; tra le Vorlesungen, si segnala il
corso del Wintersemester 1935/36: Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzen-
dentalen Grundsãtzen, Tübingen, Niemeyer, 1962, tr. it La questione della cosa, a cura di V. Vi-
tiello, Napoli, Guida, 1989). Sull‟interpretazione heideggeriana di Kant, cf. P. VINCI, Soggetto
e tempo. Heidegger interprete di Kant, Roma, Bagatto, 1988; V. PEREGO, Finitezza e libertà. Hei-
degger interprete di Kant, Milano, Vita e Pensiero, 2001; P. REBERNIK, Heidegger interprete di
Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, Pisa, ETS, 2007.
13 GS III, p. 139 [10-20]; tr. it. p. 169. È opportuno rileggere il passo in questione per
intero: «È tuttavia chiaro che gli schemi della sensibilità, benché | realizzino primieramen-
te le categorie, nel contempo, però, anche le restringono ossia le vincolano a condizioni
che stanno fuori dell‟intelletto (cioè nella sensibilità). Perciò lo schema è propriamente
soltanto il fenomeno o il concetto sensibile di un oggetto in accordo con la categoria (nu-
merus est quantitas phaenomenon, sensatio realitas phaenomenon, constans et perdurabile rerum sub-
stantia phaenomenon – aeternitas necessitas phaenomenon, etc.). Ora, se sospendiamo una condi-
zione limitativa, ampliamo (pare | almeno), il concetto dapprima limitato; e in tal modo le
categorie, nel loro puro significato sottratto a ogni condizionamento della sensibilità, dovreb-
bero esser valide per le cose in generale, quali esse sono, nel mentre i loro schemi si limi-
tano a rappresentare queste cose quali esse appaiono; e pertanto le categorie hanno un si-
gnificato indipendente da qualsiasi schema e assai più ampio».
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 73
il ruolo dell‟immaginazione risulta, per così dire „appiattito‟ sul quello dell‟intelletto, cf. F.
FRAISOPI, La teoria dell’immaginazione in Kant. Dalla verità in temporale al mondo storico. III. Dal
soggetto senza tempo all’individuo storico, in www.giornaledifilosofia.net: «È proprio vero che
il ruolo dell‟immaginazione è appiattito su quello dell‟intelletto? Se si considerano le dedu-
zioni e le altre parti varianti nella loro esteriorità, si dovrebbe rispondere in senso afferma-
tivo, perché quell‟immaginazione che incarnava il momento centrale della sintesi scompare
nel quadro della Deduzione. Se, viceversa, si considerano le dinamiche più sottese che con-
ducono dalla prima alla seconda edizione […], la valutazione deve cambiare di segno […].
Nel 1781 il ruolo dell‟immaginazione nella Deduzione è esplicitamente focalizzato sulla co-
stituzione del molteplice nell‟oggettualità dell‟esperito, cioè su un concetto di esperienza co-
me esperienza dell’oggetto, della res. In questo modo quello stesso assetto teoretico non pren-
de in considerazione il problema dell‟intrinseca unità trascendentale dell’esperienza come ogget-
to stesso dell’esperire. Il passaggio chiasmico tra il concetto di esperienza come esperienza dell’og-
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 75
getto e il concetto dell’esperienza come oggetto dell’esperire rappresenta la prima tappa di questo
traguardo antropologico. Qui gioca un ruolo essenziale l‟immaginazione».
20 KM, p. 160; tr. it. p. 231.
21 Ivi, pp. 164-165; tr. it. pp. 238-239.
22 Ivi, p. 166; tr. it. p. 240.
76 Pio Colonnello
IV. Con Heidegger, oltre Heidegger. Ancora un‟osservazione sul divario e insie-
me sulle affinità che collegano Heidegger e Kant, soprattutto per compren-
dere meglio la posizione kantiana. Ciò che è in discussione è soprattutto il
rapporto tra finitezza e infinità o, meglio,tra finitezza e razionalità, quale è
sviluppato dai due pensatori. Nonostante le dichiarazioni dello stesso Heideg-
ger, forse la sua lettura si svolge in una direzione opposta a quella di Kant?32
Effettivamente Kant sembra avere scisso, nel corso delle sue opere la razio-
nalità dalla finitezza, in particolare nel passaggio dalla Critica della ragione pura
alla Critica della ragione pratica. In questo delicato passaggio è dato rilevare
che la legge morale si riferisce agli esseri razionali «in generale». Vero è che
in Kant si divaricano la libertà dell‟essere (o il principio razionale in quanto
tale), la libertà cosmologica che si afferma negando il tempo, e la libertà fini-
ta dell‟uomo, che è definita appunto dalla temporalità33. La tensione tra fini-
tudine e infinitezza, tra ragione e immaginazione intuitiva in Kant resta co-
31 G. PENZO, “La Vor-stellung in Kant e la Vor-stellung in Heidegger”, Studia Patavina 2 (1967), p. 288.
32 Sono ben note, a riguardo, le riserve espresse da non pochi studiosi sull‟interpre-
tazione di Heidegger, a iniziare da E. CASSIRER, “Kant un das Problem der Metaphysik. Be-
merkungen zu Martin Heideggers Kantinterpretation”, Kant-Studien 36 (1931), pp. 1-26.
33 Cf. al riguardo F. FRAISOPI, op. cit.: «È la libertà a fondare l‟aprirsi dell‟orizzonte del-
l‟esperienza tracciato dalla reine Einbildungskraft. È la libertà, come ragione, che costituisce il
protagonista dell‟esperire, anche teoretico […]. Proprio questo scarto – che interviene nel 1787
– sarà quello che riaprirà anche e soprattutto il discorso sulla soggettività, sulla Urteilskraft e
sull‟immaginazione – come sua condizione sensibile e sua componente irrinunciabile».
Sensibilità e immaginazione tra la I e la II edizione della KrV di Kant 79
stante e, in certo senso, irrisolta: è appunto in questa tensione, nel «tra» (Zwi-
schen) che si qualifica lo spazio etico dell‟uomo.
Ma poi, com‟è possibile cogliere la finitudine in quanto tale, dal mo-
mento che l‟uomo non è solo la parte o il tutto, ma unità dialettica in cui si
manifesta l‟implicanza di limitatezza e di assoluto, di finito e di infinito, e
la stessa finitezza è indice di infinitezza?
Sebbene il tema della finitudine umana abbia interessato buona parte
della filosofia contemporanea, non si può disconoscere proprio la centralità
del pensiero di Kant, che, per primo, ha considerato questo tema sotto il
triplice aspetto della conoscenza, della morale e della facoltà del giudizio
estetico e ha connotato con „finitudine‟ non una mera limitazione spaziale
o temporale, bensì il carattere condizionale di certe possibilità. Dal punto
di vista gnoseologico, l‟uomo è un «essere pensante finito», in quanto le
sue capacità cognitive, sprovviste del divino intuitus originarius, nell‟arco
del processo che va dalla percezione all‟appercezione empirica, all‟immagi-
nazione riproduttiva a quella produttiva, all‟intelletto, alla ragione, risul-
tano limitate dall‟intuizione sensibile, cioè da un‟intuizione dipendente da
oggetti dati. Sotto l‟aspetto morale, com‟è noto, la finitudine è contras-
segnata dal mancato accordo tra volontà e ragione; infine, finanche il fon-
damento della facoltà di giudizio estetico o teleologico risiede nella natura
finita dell‟uomo, nella limitazione delle sue capacità conoscitive, che non de-
terminano interamente il loro oggetto ma semplicemente la forma di esso.
Di pari importanza è, nondimeno, il tema del trascendimento del finito,
tanto nell‟ambito morale, quanto in altri ambiti, come in quello estetico,
ad esempio. Anzi, un motivo assai interessante è il trascendimento della fi-
nitudine umana proprio nell‟esperienza estetica, attraverso il sentimento
del sublime. Nella Critica della facoltà del giudizio, il punto archimedico tra
l‟intelletto, che si rivolge agli oggetti della natura, e la ragione che anela al
noumeno, in definitiva tra necessità e libertà, è individuato appunto nel te-
ma del giudizio, di quel giudizio che riflette su un particolare, ricercando
un universale o generale, a cui collegare il particolare. Questo universale è
il principio della finalità della natura rispetto alle nostre facoltà.
Ma perché l‟apertura al trascendimento del finito attraverso il senti-
mento del sublime? Proprio il sublime, che, a differenza del bello, è indice
d‟illimitatezza, di assenza di vincoli, rappresenta il punto in cui maggior-
mente si vede come il giudizio estetico sia legato alla doppia natura del-
l‟uomo, sensibile e razionale. Infatti, il sublime si fonda non soltanto sulla
simultanea presenza nell‟uomo di sensibilità e ragione, ma addirittura sulla
80 Pio Colonnello
loro drammatica compresenza, cioè sul loro contrasto, e sulla vittoria della
ragione sulla sensibilità. Il sublime rappresenta, per così dire, il „trionfo‟
della ragione sulla sensibilità, ovvero la soluzione morale del conflitto; il
sentimento che si prova di fronte alla superiorità della ragione sulla sensi-
bilità non è forse il sentimento morale? La qualità del sentimento del subli-
me coincide senz‟altro con quella del sentimento morale, consistendo nella
subordinazione della sensibilità alla maestà della legge e del dovere, alla di-
gnità della ragione. Il bene morale, osserva Kant, «per essere giudicato este-
ticamente, dovrebbe essere rappresentato piuttosto come sublime che co-
me bello». Che il sublime sia interiormente costituito dalla moralità, risul-
ta peraltro dal fatto che, in esso, il riferimento al sovrasensibile è interno,
e non il prodotto di una valutazione razionale sopravveniente: il sentimen-
to del sublime – com‟è evidenziato in più luoghi della terza Critica – con-
siste non tanto nel percepire, come nella contemplazione pura della bel-
lezza libera, una predisposizione della natura verso la nostra conoscenza,
quanto piuttosto nell‟attribuire alla natura un significato spirituale, nel per-
cepire la natura come figurazione della nostra stessa moralità.
La successiva speculazione idealistica, con le sue descrizioni fenomeno-
logiche della scienza dell‟esperienza della coscienza, ha tentato di descri-
vere la coscienza come movimento della trascendenza dell‟esistere, in un
conato d‟identità di finito e infinito, d‟individuale e di universale, di natura
e storia, di pensiero ed essere, di razionalità e realtà. Ma alla fine del lungo
e tormentato itinerario della coscienza, il compimento del processo è risul-
tato nel suo soddisfacimento, in una nuova pretesa di compiutezza o in una
proposta di una nuova metafisica positiva. Solo nel clima della dissoluzione
dell‟hegelismo, Kierkegaard ha potuto poi affermare che è un enorme van-
taggio poter essere coscienti della disperazione della coscienza stessa, in
quanto nell‟abissale salto della disperazione l‟uomo affronta l‟infinito che è
altro da lui, prendendo consapevolezza delle remote radici della dispera-
zione. Solo nel salto infinito della disperazione, che è il tentativo dell‟esi-
stere di non volere essere ciò che si è e di volere essere ciò che non si è,
solo nel salto della disperazione di fronte all‟origine infinita dell‟esistenza
umana, la disperazione si lascia riconoscere come colpa. In questa prospet-
tiva, la vera colpa dell‟esistere consisterebbe, allora, nel non accettare la
stessa finitudine dell‟esistere, a partire dall‟infinito. Ma questo, poi, è altro
discorso, su cui è opportuno ritornare in altro contesto.
VALENTINA CUCCIO
sfumature nuove così come è sempre possibile introdurre una nuova parola
nella lingua. La presenza di un numero limitato di principi strutturali non
comporta per Talmy che tutti debbano essere universalmente realizzati nel-
le lingue storico-naturali (seppure questi principi siano universalmente acces-
sibili). Alcuni lo sono, altri sono meno diffusi. Ad ogni modo, sono ele-
menti di questo insieme quelli che tendono a subire processi di regolariz-
zazione grammaticale nelle lingue. Sono i componenti della limited inventory
che vanno a costituire la classe chiusa degli elementi della lingua. Potrem-
mo dire, con un eccesso di semplificazione, che alcuni concetti, e sono un
numero limitato ed universalmente accessibile, si prestano a subire una re-
golarizzazione grammaticale mentre altri rappresentano contenuti della co-
scienza la cui regolarizzazione grammaticale non avrebbe alcuna utilità.
Questa ipotesi di carattere generale sul vincolo cognitivo cui la facoltà
del linguaggio sarebbe sottoposta può essere argomentata facendo ricorso
all‟analisi di un caso particolare: quello della rappresentazione dello spazio.
Se quanto detto sopra è vero, allora le modalità di espressione linguistica
dello spazio dovrebbero essere vincolate alle modalità non-linguistiche di
rappresentazione dello spazio. Il punto è se esiste un modo per vagliare
questa ipotesi dato che è innegabile la difficoltà di separare la componente
linguistica dal resto della cognitività in un uomo adulto. In realtà un modo
ci sarebbe e qui torniamo al caso del coniglio e del bambino e proviamo a
darne una soluzione. Vedremo meglio proseguendo che quando un bam-
bino impara un nome che, come nel caso di “coniglio”, si riferisce ad un‟en-
tità concreta e numerabile, il primo e principale parametro utilizzato nel-
l‟acquisizione e nell‟uso del nome è la generalizzazione a partire dalla for-
ma e probabilmente per questo il bambino attribuisce il nome all‟oggetto
nel suo complesso e non ad una sua parte o al suo colore. Che spiegazioni
dare per tale fenomeno? Una è quella che gli occhi di bambini appena nati
sono maggiormente sensibili nel cogliere le aree di contrasto tra gli oggetti,
i chiaroscuri; ed i bordi esterni degli oggetti sono evidentemente zone di
contrasto nello spazio che circonda il bambino1. Ciò porterebbe i bambini
ad osservare maggiormente i contorni degli oggetti e, dunque, a trarne infor-
mazioni sulla forma. In secondo luogo, sembra che il sistema per la visione
dei colori maturi solo dopo i quattro mesi di vita2 e l‟acuità visiva dei bimbi
giunge ad eguagliare quella degli adulti solo dopo i sei mesi3. Ciò significa
1 HAITH, 1980.
2
TELLER e BORNSTEIN, 1987.
3
BANKS, 1983.
84 Valentina Cuccio
che è più semplice per un bambino cogliere aspetti generali della forma
dell‟oggetto che non caratteristiche specifiche della sua superficie quali il
colore o eventuali disegni in essa presenti. Ancora una volta la forma ri-
sulta il tipo di informazione più semplice e immediatamente disponibile. Un‟al-
tra possibile spiegazione risiede nel fatto che le informazioni sulla forma
sono apprese dal bambino non solo attraverso la vista ma anche per via ora-
le. Nei primissimi mesi di vita infatti i bambini sono soliti esplorare gli og-
getti mettendoli in bocca e questa è un‟altra modalità attraverso la quale i
piccoli traggono informazioni sulla forma degli oggetti. Evidentemente tale
modalità non consente loro di trarre conclusioni concernenti il colore o
altre caratteristiche percepibili solo visivamente. La forma è dunque il para-
metro principalmente usato da bambini di pochi mesi alle prese con com-
piti di individuazione di oggetti. Gli oggetti vengono riconosciuti dalla loro
forma e la forma diventa, inoltre, con il procedere dello sviluppo il parame-
tro attraverso il quale operare generalizzazioni e categorizzazioni. Questo
medesimo meccanismo viene mutuato dal sistema linguistico come prova il
fatto che nell‟apprendimento e nella generalizzazione di un nuovo nome
(un count noun) la forma è ciò che ci consente di estendere l‟uso del nome
appreso ad altri oggetti diversi da quello in relazione al quale il nome stesso
è stato appreso. A questo proposito sono stati elaborati numerosi studi spe-
rimentali che non riportiamo per esigenze di brevità. Resta il fatto che,
anche per gli adulti la forma è il principio più immediatamente usato in
compiti di categorizzazione o nel generalizzare l‟uso di un nome. Solo in
un secondo momento si elaborano valutazioni che vertono, ad esempio,
sulla funzione degli oggetti.
Nel 1993 Ray Jackendoff e Barbara Landau pubblicano un articolo nel
quale ad essere preso in analisi è il nostro modo di esprimere linguistica-
mente lo spazio. I due autori registrano il fatto che il linguaggio sembra di-
sporre di due sistemi distinti, l‟uno, utilizzato nella individuazione e deno-
minazione di oggetti, è costituito da tutti i nomi comuni di oggetti o cate-
gorie di oggetti esistenti in una lingua; l‟altro, per l‟individuazione e deno-
minazione di posizioni spaziali, è composto dalle preposizioni di spazio. I
due sistemi, definiti rispettivamente come sistema what e sistema where dif-
feriscono per il fatto di essere il primo una classe aperta e costituita da de-
cine di migliaia di termini, il secondo, invece, una classe chiusa con meno
di cento elementi. Questi due sistemi si avvalgono di modalità di rappre-
sentazione dello spazio differenti. Come in parte anticipato sopra, si è no-
tato attraverso prove sperimentali che l‟acquisizione e l‟uso di un nuovo
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 85
4
Si pensi che un testo fondamentale negli studi concernenti la questione dello spazio
quale è EILAN, MCCARTHY, BREWER, 1993, conserva un‟intera sezione dedicata ai sistemi
what e where. Dunque, nelle pagine che seguono prenderemo come buona questa distin-
zione, quanto meno per l‟analisi del livello rappresentazionale lasciando in sospeso, in quan-
to ancora controversa, un‟analisi di tipo anatomico-funzionale.
86 Valentina Cuccio
Diversi sono, ad esempio, gli studi condotti da Paul Quinn sulla struttura
assiale nella categorizzazione dello spazio 5 . Questi dati sono importanti
perché allontanano l‟ipotesi che sia il linguaggio a determinare le categorie
percettive dello spazio dal momento che i bambini dispongono di queste
distinte modalità di categorizzazione dello spazio abbondantemente prima
di apprendere la lingua e dunque esse non sono indotte dalla lingua. Te-
stimonianze a supporto di questa tesi vengono anche dallo studio di pato-
logie dove ad essere intaccata è l‟operatività di uno solo dei due sistemi a
fronte della buona funzionalità dell‟altro. Un esempio a tal proposito pro-
viene dalla sindrome di Williams. La sindrome di Williams è una rara pato-
logia genetica che ha cominciato a suscitare l‟interesse di studiosi e ricer-
catori di linguaggio in occasione di un lavoro realizzato nel 1988 da Ursula
Bellugi e collaboratori6. In quel testo si poneva in risalto l‟atipicità del pro-
filo cognitivo che contraddistingue i soggetti affetti da tale malattia e li si
additava come prova vivente della teoria modulare della mente. Ma andia-
mo con ordine. Cosa è, intanto, la sindrome di Williams? Si tratta di una
patologia genetica davvero molto rara la cui incidenza si calcola essere di
un individuo malato ogni 10.000 o 20.000 nati. L‟origine della malattia è,
appunto, genetica ed è dovuta alla microdelezione del gene dell‟elastina
nel cromosoma 7q11.23. La sindrome è diagnosticata attraverso un prelie-
vo di sangue che viene sottoposto allo studio citogenetico-molecolare di ibrida-
zione in situ fluorescente (FISH)7. Il quadro clinico dei soggetti Williams è
caratterizzato dalla disfunzione, più o meno grave, di diversi apparati ed or-
gani. Si registrano, ad esempio, anomalie, spesso congenite, del sistema car-
diovascolare, o anomalie dell‟udito quali l‟iperacusia. Un‟altra caratteri-
stica pressoché costante è quella del dismorfismo facciale che, associato alla
bassa statura che solitamente contraddistingue i pazienti Williams, rende il
loro aspetto simile a quello di folletti. Ma come già anticipato sopra, è pro-
prio il profilo cognitivo atipico che ha attirato su tale patologia l‟interesse
di linguisti, filosofi del linguaggio e studiosi di scienze cognitive. I Williams
hanno, infatti, un fenotipo cognitivo alquanto insolito con deficit gravi in
compiti richiedenti abilità visuo-spaziali ed un linguaggio che sembra, di
primo acchito, preservato e, dunque, perfettamente funzionante. Si disse,
5
Cf. QUINN, 2004 e 2005. Per quanto riguarda la forma quale parametro primo e più
elementare per discriminare gli oggetti si possono guardare gli esperimenti condotti da
WILCOX E BAILLARGEON (1998) o da NEEDHAM (1999).
6 BELLUGI, SABO, VAID, 1988.
7 GIANNOTTI e VICARI, 2004, p. 13.
88 Valentina Cuccio
rio, si riscontra anche nelle prove di memoria. Sia nella memoria a lungo
termine che comporta apprendimento, sia nella memoria di lavoro. Foca-
lizzando per un attimo l‟attenzione sulla working memory possiamo consta-
tare che il cosiddetto taccuino visuo-spaziale funziona bene nella sua compo-
nente visiva e con ciò si intende quella legata alla percezione di forme e
colori. I Williams non solo percepiscono bene questi aspetti ma li ricor-
dano anche con una certa facilità. È la componente spaziale che, invece, è
compromessa. I soggetti Williams hanno difficoltà serie nel trattenere in me-
moria informazioni concernenti la localizzazione di un oggetto nello spazio o
la relazione tra quest‟ultimo ed altri oggetti. A questo proposito sono stati
condotti molti studi tra i quali meritano rilievo quelli condotti dall‟equipe
italiana guidata da Stefano Vicari. Di recente, inoltre, si è concentrata
l‟attenzione sul fatto che le aree deficitarie sembrano tutte potersi ricondur-
re ad uno sviluppo anomalo o precocemente interrotto della funzionalità
del sistema dorsale mentre, invece, le abilità preservate sembrano essere le-
gate alla funzionalità, conservata, del sistema ventrale. Quanto detto sulle
abilità visuo-motorie dei Williams lascia grossomodo concorde la comu-
nità scientifica. Il terreno spinoso è, invece, quello nel quale ci addentria-
mo adesso. Ancora oggi, infatti, non c‟è una posizione unanime sulla consi-
derazione delle abilità di linguaggio nei soggetti affetti da sindrome di Wil-
liams. Il nostro compito, in quanto segue, sarà, però, quello di andare ad
analizzare non il linguaggio dei Williams tout court ma il loro linguaggio
spaziale, ovvero il modo in cui esprimono linguisticamente lo spazio. L‟ipo-
tesi, come già detto, è che ogni qual volta l‟acquisizione o l‟uso della lingua
chiami in causa proprio quelle competenze spaziali nelle quali i Williams
risultano essere deficitarii, allora la corrispondente performance linguistica
dovrebbe risultare compromessa. Proprio questa ipotesi è stata testata in
uno studio di Philips, Jarrold, Baddeley, Grant e Karmiloff-Smith (2004).
Questi ricercatori, al cui studio si rimanda per un approfondimento della
questione, hanno testato le abilità di soggetti Williams nell‟uso di espres-
sioni linguistiche di tipo spaziale ed hanno trovato che questo dominio ri-
sulta decisamente debilitato rispetto ad altre aree semantiche. Gli autori,
nella prima fase del loro lavoro, hanno sottoposto ai soggetti dell‟esperi-
mento il Test For Reception of Grammar8. Questa prova consiste nel presen-
tare ai soggetti quattro figure e nel chiedere loro di indicare quale di queste
rappresenti la parola o la proposizione che lo sperimentatore pronunzia. Le
8
BISHOP, 1983.
La rappresentazione dello spazio e la sua espressione linguistica 91
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MARIA CHIARA GIANOLLA
Nudità e rivelazione
la funambola vita. Prima ancora del mondo fuori di noi, ciò che meraviglia e
stupisce è la presenza in noi di questa parte per sempre immatura […] che
esita sulla soglia di ogni individuazione. Ed è questo elusivo fanciullo […] a
spingerci verso gli altri, nei quali cerchiamo soltanto l‘emozione rimasta in noi
incomprensibile, sperando che nel miracolo dello specchio dell‘altro si chiari-
sca e delucidi. […] ciò è perché nell‘altro cerchiamo quella relazione con Ge-
nius di cui da soli non riusciamo a venire a capo3.
Ma anche tra noi e ciò che diamo di noi c‘è una non–coincidenza, tra il sé
generato, cioè definito nella sua forma più propria, autentica e essenziale
che come tale ha un nucleo originario inconoscibile e non–appartenente, e
il sé che viene dato: l‘immagine esteriore che si dà in tutta la sua intelligi-
bilità. Nella relazione è ancora più evidente che l‘essere del soggetto è un
essere non–coincidente perché è qui che la sua non–coincidenza, la frattura
tra il sé che è, originariamente inconoscibile, e il sé che si rivela, esterior-
mente intelligibile, si dà.
La sua natura non aderente aleggia su di lui come una sorta di aura, una
maschera che lo rende attore di una vita propria, ma che non gli appartiene,
che lo possiede, ma sulla quale egli non ha alcun potere. L‘impossibile ade-
sione lo porta ad una tensione verso l‘altro, verso il quale si pone come ap-
parenza, manifestazione vivente di una vita che gli sfugge.
Ciò che è in un soggetto ha la forma di una specie, di un uso, di un gesto. Non
è mai cosa, ma sempre e soltanto una ―specie di cosa‖. […] Il termine species,
che significa ―parvenza‖, ―aspetto‖, ―visione‖ deriva da una radice che significa
―guardare, vedere‖ e che si ritrova in speculum, specchio, spectrum, immagine
[…] L‘immagine è un essere la cui essenza è di essere una specie, una visibilità
o una parvenza. Speciale è l‘essere, la cui essenza coincide col suo darsi a ve-
dere, con la sua specie.
L‘essere speciale è assolutamente insostanziale. Esso non ha luogo proprio, ma
accade a un soggetto, ed è in esso come habitus o modo d‘ essere, come l‘im-
magine nello specchio.
La specie di ciascuna cosa è la sua visibilità, cioè la sua pura intelligibilità. Spe-
ciale è l‘essere che coincide col suo rendersi visibile, con la propria rivelazione4.
5 Ivi, p. 62.
6 AGAMBEN (2001, p. 9).
7 Ivi, p. 10.
8 AGAMBEN (2005, p. 63).
98 Maria Chiara Gianolla
in modo intimo ed esclusivo, ma con cui non può in alcun modo identificarsi.
[…] né prendere le distanze: la nuda vita, un dato puramente biologico»13.
La nudità è la rivelazione dell‘umano, è il punto dove poter spingere
l‘indagine al di là di ogni superficie. È l‘abito con cui ogni individuo viene al
mondo, è l‘apparire originario che si indossa durante tutto il corso della vita.
La nudità è il nostro primo abito e dunque ogni volta che la scopriamo, ci
si sente vicini al nostro primo giorno, quello in cui abbiamo visto la luce in
quanto generati, separati e sottratti alla nostra origine.
La nudità è dunque la nostra intimità, ma anche lo strato più esteriore
di noi, la nostra superficie che anche quando viene coperta da vesti, rimane
ciò che ci disegna in un contorno, in una forma e, in base a questa forma,
ci esponiamo allo sguardo dell‘altro.
La nudità è la forma della nostra apparizione. E anche qui torna il tema
dell‘amore, come apertura ed esposizione di sé allo sguardo dell‘altro. Il
corpo nudo si offre all‘amato. L‘incontro tra due soggetti nudi è ciò che
contraddistingue una relazione amorosa da una qualsiasi altra relazione.
Dunque offriamo all‘amato ciò che di noi si avvicina di più alla nostra ori-
gine, pur non essendo completamente coincidente con essa.
L‘unione al corpo dell‘altro è un tentativo di ricongiungerci con la nos-
tra parte separata. Tentativo che fallisce (perché ci si congiunge ad un altro,
non certo a noi stessi), ma che trova conforto nell‘amplesso. Un incontro
tanto bello, quanto doloroso, è la vita che non si ferma a se stessa, ma che
si serve di nuovi corpi per continuare a scorrere, sempre carica di nuove
ferite, foriere di nuovi incontri e nuove generazioni.
Il corpo finito e separato tenta l‘impresa dell‘infinito penetrando l‘altro.
Il corpo ferito accoglie l‘altro in tutte le proprie aperture, per sentirsi col-
mo. La pienezza si tocca, ma non si raggiunge. L‘infinito si respira, ma non
si trattiene. Ci si lascia attraversare, lo si afferra per un fugace attimo e poi
lo si lascia andar via, appagati dal piacere e svuotati dal desiderio che sap-
piamo pronto a rinascere in noi.
Il corpo nudo è l‘immagine di noi che più ci rende vicini all‘origine, ma è
anche la manifestazione della perdita dell‘origine stessa. L‘uomo nel momen-
to in cui viene generato, si separa dalla sua essenza originaria e nel vedersi
nudo si percepisce come creatura spoglia, privata di qualcosa di essenziale. Ep-
pure la nostra essenza è tutta lì, segnata fin dall‘origine da una mancanza.
Nudità è la condizione dell‘uomo che sa di essere mancante, esposto all‘ester-
no e insondabile all‘interno: ridotto al minimo di se stesso, oltre quel limi-
13 Ivi, p. 77.
100 Maria Chiara Gianolla
te non è più possibile proseguire, è rivelato per quel che è, nella sua forma
più propria, autentica e originaria.
Ma se invece di percepire la nudità come la manifestazione dell‘inte-
grità e della completezza dell‘individuo umano appena venuto al mondo,
come il risultato finale di un lavoro compiuto, se così si può dire, la si per-
cepisce come immagine di ciò che manca, come privazione e debolezza, e
ciò porta a una concezione negativa anche l‘incontro con l‘altro, in quanto
macchiato dalla sconcezza del corpo svestito, ciò deriva dalla tradizione bi-
blica: «Adamo ed Eva, dopo il peccato si accorgono per la prima volta di
essere nudi […] Prima della caduta, essi, pur non essendo ricoperti di al-
cuna veste umana, non erano nudi: erano coperti di una veste di grazia, che
aderiva loro come un abito glorioso»14.
Tale privazione di grazia rappresenta proprio la privazione dell‘origine,
di quell‘elemento primo che ci rende vivi, ma non coincidenti con la nostra
stessa vita. La nudità pertanto viene vissuta con soggezione e vergogna. Ep-
pure, teologicamente, la percezione della nudità, coincide con la prima per-
cezione di noi stessi, con l‘apertura degli occhi su di noi e la nostra condi-
zione («Allora si aprirono gli occhi di entrambi e videro che erano nudi»15).
Non c‘è menzogna, né illusione, c‘è l‘esatta e inquietante percezione di sé
come creatura nuda, priva di qualsiasi veste, artificio, rivestimento. In fondo
l‘unica esatta consapevolezza di sé è a partire da noi come generati, spo-
gliati, non si può cogliere il pre–originario e neppure l‘originario, la co-
scienza si accende (‗apertura degli occhi‘) immediatamente dopo l‘origine,
qui inizia e da qui procede.
Prima della caduta l‘uomo viveva nella luce, ma non nella coscienza. Ora,
in penombra, riesce a scrutare se stesso e la propria condizione. Egli passa
dalla luce divina alla visibilità umana, dove finalmente «nella sua natura di-
venta ora visibile un corpo senza gloria: il nudo della pura corporeità, il de-
nudamento della pura funzionalità, un corpo a cui manca ogni nobiltà, per-
ché la dignità ultima del corpo era racchiusa nella perduta gloria divina»16.
Senza dignità, senza gloria, senza luce, l‘uomo appare per quel che è.
Finalmente vede la propria natura rivelarsi.
Nudità è rivelazione di sé a se stessi e così come ci si vede, ci si rivela
all‘altro. A lui si offre tutta la nostra inafferrabile essenza, la nostra natura
spoglia. Il corpo si rende visibile e come tale si lascia afferrare (l‘amore è il
14 Ivi, p. 85.
15 Gen. 3,7.
16 AGAMBEN (2009, p. 88).
Nudità e rivelazione 101
17 Ivi, p. 119.
18 Ivi, p. 127.
102 Maria Chiara Gianolla
19 Ivi, p. 139.
Nudità e rivelazione 103
nobile: piuttosto, è come se, liberato dal sortilegio che lo separava da se stesso,
accedesse ora per la prima volta alla sua verità. […] così il corpo che contempla
ed esibisce nei gesti la sua potenza accede a una seconda e ultima natura, che non
è che la verità della prima. Il corpo glorioso non è un altro corpo, più agile e
bello, più luminoso e spirituale: è lo stesso corpo, nell‘atto in cui l‘inoperosità lo
scioglie dall‘incanto e lo apre a un nuovo possibile uso comune20.
La sua istallazione propone una riflessione molto vicina ai temi fin qui esa-
minati. L‘opera si intitola Experiment, ma già il titolo dell‘intera esposizione,
Fare mondi, mette in relazione il fare, l‘operosità, la creatività, l‘azione, con
il mondo, l‘essere dell‘uomo nel suo contesto che è plurale (mondi) e dun-
que aperto. Il primo posto della creazione del mondo è il giardino del-
l‘Eden. L‘istallazione dell‘artista consiste proprio nella ricostruzione di un
surrealistico giardino dell‘Eden, dove gigantesche sculture floreali, realiz-
zate con tecnica mista, costituiscono un percorso labirintico all‘interno di
una stanza, poco illuminata e dalle pareti scure. Al suo interno vengono an-
che proiettati dei video dove personaggi di plastilina (realizzati e animati
dalla stessa artista in stop-motion), al contempo teneri e inquietanti, si agita-
no affannosamente in situazioni grottesche, sulle note del musicista Hans
Berg. Lo spettatore si addentra nell‘improbabile foresta e si muove tra le
colorate sculture rendendosi conto che esse non sono immobili, ma, se ur-
tate (e nei casi in cui la ‗vegetazione‘ si fa più fitta, il contatto è inevitabile)
possono oscillare, dando l‘impressione di essere vive e minacciose, essendo,
per la maggior parte, simili a piante carnivore. Ci si aspetta che da un mo-
mento all‘altro possano spalancare le fauci e divorare lo spettatore. Questo
non accade, in compenso si assiste ad una sorta di antropofago rito sessuale
all‘interno dei video. Inoltre le sculture, in alcuni casi, sono colorate gros-
solanamente, con macchie di colore addensate sul pavimento, che danno
l‘impressione di accumuli di sangue. In uno dei video, in particolare, è
presente il tema dell‘eros in rapporto alle sue componenti di potere e di
violenza. Delle giovani bamboline nude, dagli occhi grandi e i corpi formo-
si e un po‘ sgraziati, si osservano, si toccano, si accarezzano, si baciano, si
avvolgono, si amano fino a divorarsi. Si avvinghiano l‘una sull‘altra e l‘in-
contro amoroso si fa talmente intenso e appassionato che in alcuni casi si
tolgono addirittura la pelle: i corpi individuali si disgregano e poi ripren-
dono forma, come unico corpo mostruoso. Frammenti di sé si perdono
nell‘altro e a volte si perdono entrambi e sotto gli occhi dello spettatore ri-
mane un cumulo di plastilina rosa, dai contorni indistinguibili e che conti-
nua a mutare forma. Le pupazzette danzano in un rito orgiastico dove i
corpi individuali si fondono, i contorni si sfumano e si passa affannosamen-
te dal singolare al plurale per tornare di nuovo al singolare o per finire
nella reciproca dissoluzione. Ad un tratto appaiono sulla scena degli uomi-
ni in abiti talari. Le loro vesti sono pesanti e risaltano accanto ai corpi nudi
delle ingenue bamboline. Gli uomini, per quanto rappresentino alte cari-
che religiose, guardano le giovani con lo sguardo del desiderio, seppure
Nudità e rivelazione 105
di Agamben sulla fragilità umana, portandola sul piano della critica sociale
rispetto ad equilibri dove il paradigma della nudità diviene strumento per
stabilire rapporti di dominio. La nudità è tabù, colpa, peccato e viene co-
stantemente usata per rimarcare l‘inferiorità di chi la esibisce. Sebbene
ognuno di noi venga al mondo nudo e per tutta la vita conviva con la pro-
pria nudità originaria, attualmente le strutture sociali, politiche e culturali
si basano sull‘idea che qualcuno rimanga ‗più nudo di altri‘. La nudità (fisi-
ca o psicologica) è un elemento con cui evidenziare l‘inferiorità di alcuni
uomini (ma soprattutto donne: si pensi alla cultura maschilista fondata pro-
prio sulla costante esibizione di donne più o meno spogliate) rispetto ad
altri. La nudità dunque non è una condizione esistenziale condivisa che ac-
comuna tutti gli uomini, poiché tutti sono segnati dalla perdita originaria, e
dunque è l‘immagine più pura e autentica di noi, ma una discriminante con
cui stabilire rapporti di potere. Non è un caso dunque che spesso venga uti-
lizzata in maniera strumentale, come dimostrazione di libertà (dai pacifisti,
ai figli dei fiori, agli animalisti, fino agli esibizionisti in genere) o come pri-
ma forma di tortura nelle strutture di detenzione e concentramento (da
Auschwitz a Guantanamo). La visione ironica e inquietante, ma comunque
lucida e profonda della giovane Nathalie Djurberg, si pone dunque come
un interessante completamento (o come nuova problematizzazione) della
riflessione di Agamben.
*
Immagini tratte da www.designboom.com – www.youtube.com.
Nudità e rivelazione 107
4
108 Maria Chiara Gianolla
8
Nudità e rivelazione 109
Bibliografia
L’immaginazione sociologica.
Tra scienza, soggetto e strutture sociali
Il primo nodo, la portata empirica, si articola in più aspetti: per valutare bi-
sogna prima vedere, ma vedere vuol dire avere uno schema inferenziale che
fornisca come risultato una immagine. È l‟immagine stessa lo schema inferen-
ziale che applicato permette di vedere: fornisce le coordinate da utilizzare ed
identifica le dimensioni lungo le quali muoversi all‟interno e nella costruzio-
ne del processo di ricerca. Portata empirica che può essere descritta, quindi,
come ciò che è osservabile per noi.
Contestualizziamo, nel momento in cui B.C. van Fraassen dichiara la sua
posizione e l‟intento del suo studio The Scientific Image propone tre differenti
tesi interrelate le une alle altre, in modo tale da costituire un unico approc-
cio5. La prima di queste tesi riguarda «la relazione fra una teoria ed il mondo,
e in special modo quella che possiamo chiamare la sua portata empirica»6. Lo
stesso van Fraassen specifica che la portata empirica è ciò che è osservabile per noi.
La seconda «è una concezione della spiegazione scientifica, nella quale si so-
stiene che il potere esplicativo di una teoria è un aspetto che va, in realtà, ol-
tre la sua portata empirica, e, nel contempo, è radicalmente dipendente dal
contesto»7. La terza «è un‟esplicitazione della probabilità come essa ricorre
all‟interno delle teorie fisiche (in opposizione a: entro la valutazione del loro
sostegno evidenziale)»8.
The Scientific Image di van Fraassen è un testo di epistemologia e come ac-
cade nella maggior parte dei testi epistemologici (dove non specificato in ma-
niera esplicita diversamente) quando si parla di scienza si parla di scienze del-
la natura. Non è detto che sia necessariamente così, che sia necessaria una
equivalenza così sostanziale tra l‟oggetto scienza dei testi epistemologici e l‟og-
getto scienza inteso come scienze cosiddette hard. Vedremo come questa con-
siderazione sia un elemento importante all‟interno delle nostre riflessioni.
Ritornando alla tabella nella quale abbiamo inserito il rapporto tra la de-
scrizione di Mills e i nodi che sono emersi possiamo descrivere «il grande
contesto dei fatti storici nei suoi riflessi» come una prima definizione della
situazione. Il concetto di situazione è un concetto che ritornerà spesso all‟in-
terno di queste riflessioni. Perché il concetto di struttura come una prima de-
finizione della situazione? L‟oggetto complesso SoggettiSociali–StruttureSociali–
RelazioniSociali è stato di volta in volta scomposto, è stato individuato, dai va-
ri approcci sociologici, in maniera univoca il soggetto sociale, le strutture sociali,
le relazioni sociali come oggetto proprio della sociologia. In questa sede, invece,
lo possiamo considerare (è) un oggetto unico; oggetto unico che non ha biso-
gno di tre differenti definizioni della situazione, ma di una sola ed unica.
In questo senso vediamo come la descrizione di Mills, della immaginazione
sociologica, sia un buon punto di partenza, contenga e presenti elementi di ana-
lisi interessanti, apra prospettive e possibilità di approfondimenti, ma non sia
il punto di arrivo (anche se lo è di partenza) delle nostre riflessioni.
Ancora, «il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi» è una defi-
nizione classica di situazione che vede nelle strutture sociali l‟oggetto proprio
della sociologia.
Il quarto nodo è quello che riguarda i soggetti sociali come insiemi di posi-
zioni sociali, come insiemi di significati. Mills, nel momento in cui introduce
l‟elemento della soggettività e quello del rapporto (della soggettività stessa)
con ciò che possiamo identificare come sociale, ci permette di individuare i
soggetti sociali come insiemi di posizioni sociali, come insiemi di significati so-
ciali; vedremo in seguito cosa questo voglia dire.
Arriviamo, quindi, all‟ultimo nodo, quello della tensione tra le strutture
sociali e le relazioni sociali, tensione che si può ritrovare nella espressione «di
tutta una serie di categorie umane».
per loro. Tra queste si può includere tutto quello che gli individui notano tra gli
oggetti del loro mondo fisico, come alberi o sedie, altri individui, come una ma-
dre o un impiegato di un negozio, categorie di individui, come amici o nemici,
istituzioni, una scuola e un governo, ideali guida, come l‟indipendenza indivi-
duale o l‟onestà, l‟attività degli altri, come i loro ordini o le loro richieste, e si-
tuazioni come quelle che un individuo incontra nella sua vita quotidiana. La se-
conda è che il loro significato è derivato da, o sorge, dall‟interazione sociale di
ciascuno con i suoi simili. La terza è che questi significati sono trattati e modifi-
cati lungo un processo interpretativo usato dalla persona nel rapporto con le co-
se che incontra10.
Una prima considerazione che possiamo fare è che, quindi, visto che «gli in-
dividui agiscono verso le cose in base al significato che esse hanno per loro»
una idea può essere falsa, ma questa è una prima ipotesi errata di sensazione
all‟interno del contesto di descrizione del sociale che stiamo qui tracciando.
Questa stessa proposizione chiarisce il contesto teorico all‟interno del quale
si muove Blumer, ovvero, il suo porre sotto giudizio critico (negativo) due
differenti approcci: il primo è quello che vede i significati negli oggetti; il se-
condo è quello in base al quale i significati non servono. Stiamo parlando di
significati sociali, stiamo usando Blumer all‟interno della nostra cornice, quel-
lo che lui identifica come significato noi lo leggiamo come significato sociale,
anche perché all‟interno di una analisi del campo proprio della sociologia
necessariamente i significati sono significati sociali.
La seconda caratteristica «è che il significato è derivato da, o sorge, dall‟in-
terazione sociale di ciascuno con i suoi simili». Questa è quella che tecnica-
mente Blumer descrive come joint action, qui identificata come azione congiunta.
Mentre la terza «è che questi significati sono trattati e modificati lungo un
processo interpretativo usato dalla persona nel rapporto con le cose che in-
contra» ed è qui che possiamo rintracciare il significato più profondo di inte-
razionismo simbolico per Blumer. I significati non nascono dall‟oggi al domani,
non si stabilisce di punto in bianco che “questa determinata situazione sociale
per me significa questo”, “a me interessa agire all‟interno di questa situazione
in questo modo per questi motivi, per questi scopi etc.”. È un qualcosa che
viene dal passato, e che proietta sostanzialmente nel futuro. Ma è una attività
interpretativa: c‟è comunque una ricezione ed una interpretazione. In questo
senso una idea può essere falsa (ritornando e intrecciando così le modalità che
abbiamo individuato nella descrizione di immaginazione sociologica di Mills).
Questa descrizione di Blumer dell‟interazionismo simbolico risulta, tuttavia,
contestualmente, estremamente interessante e problematica. Nel momento
10 BLUMER (1969, p. 34).
118 Alfredo Givigliano
13 «la conoscenza che potremmo chiamare prassiologica ha come oggetto non solo il siste-
ma delle relazioni oggettive che costituisce il mondo della conoscenza oggettivista, ma anche
le relazioni dialettiche tra tali strutture oggettive e le disposizioni strutturate all‟interno delle
quali esse si attualizzano e che tendono a riprodurle, cioè il duplice processo di interioriz-
zazione dell‟esteriorità e di esteriorizzazione dell‟interiorità. Tale conoscenza presuppone una
rottura con il modo di conoscenza oggettivista, vale a dire un‟interrogazione sulle condizioni
di possibilità e quindi sui limiti del punto di vista oggettivo e oggettivante, che coglie le pra-
tiche dall‟esterno, come un fatto compiuto, al posto di costruirne il principio generatore col-
locandosi nel movimento esteso della loro effettuazione», BOURDIEU (1972 [2000], pp. 185-186).
14 LORENZ (1963, p. 130).
120 Alfredo Givigliano
todologica e quella prassiologica anche nel momento in cui si descrive «il di-
sagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la
pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici». «Oggettivi» come
modifiche, modificazioni oggettive della società, tramite gli strumenti del-
l‟empiricamente adeguato e dell‟osservabile per noi.
Possiamo a questo punto saldare uno dei debiti che abbiamo contratto,
quello riguardante le posizioni sociali come insiemi di significati. Cosa vuol dire
«disagio personale»? All‟interno del nostro percorso, non lo si può descri-
vere come una questione psicologica: i significati sociali devono essere analiz-
zati in termini di inferenze sociali, in questo modo i significati sociali stessi pos-
sono essere costruiti come insiemi di significati all’interno della tensione SoggettiSocia-
li–StruttureSociali–RelazioniSociali.
Ancora van Fraassen «anche se l‟osservabilità non ha nulla a che vedere
con l‟esistenza (è, infatti, troppo antropocentrica per questo), essa può anco-
ra avere molto a che fare con l‟atteggiamento epistemico tipico della scien-
za»16, alla luce del fatto che «Uso l‟aggettivo „costruttivo‟ per indicare la mia
opinione che l‟attività scientifica sia un‟attività di costruzione piuttosto che di
scoperta: costruzione di modelli che devono essere adeguati ai fenomeni, e
non scoperta della verità concernente l‟inosservabile»17. Attività scientifica
come costruzione, quindi, è una prassi, prassi che si concretizza nel momento
in cui (ma ha anche come proprio fondamento il fatto che)
La scienza mira a fornirci teorie che sono empiricamente adeguate; e l’accettazione di una
teoria implica soltanto la credenza che essa sia empiricamente adeguata. Questa è l‟e-
nunciazione della posizione antirealista che io difendo e che chiamerò empirismo
costruttivo18.
Per arrivare a concludere che
Si ricordi che ho definito il realismo scientifico in termini del fine della scienza e
degli atteggiamenti epistemici. Il problema è quello di sapere quale fine abbia
l‟attività scientifica, e quanto dovremo credere quando accettiamo una teoria
scientifica. Qual è la corretta forma di accettazione: la credenza che la teoria,
considerata come un intero, sia vera; o qualcos‟altro? Rispetto a questa domanda,
ciò che risulta osservabile da parte nostra viene ad assumere particolare rilevanza.
Invero, possiamo a questo punto azzardare una risposta: accettare una teoria è
(per noi) credere che essa sia empiricamente adeguata – che quel che la teoria
dice intorno a ciò che è osservabile (da noi) sia vero19.
20 PRIETO (1975, pp. 125-126). Nella nota 8 al testo aggiunge: «Sociologi come P. Bour-
dieu e J.C. Passeron hanno giustamente utilizzato questo concetto di “potere simbolico”
per spiegare il modo in cui viene imposta in una società data la cultura dominante, insisten-
do in particolare sul ruolo dell‟istituzione scolastica nell‟imposizione ad un largo pubblico
delle pertinenze socialmente legittime» (ivi, p. 126). Quella del potere simbolico è solo una
delle dimensioni che Bourdieu e Passeron prendono in considerazione.
21 Ivi, p. 126.
22 Ibid.
L’immaginazione sociologica 123
Ancora, «Alla base quindi del modo in cui si conosce una realtà materiale
si trova sempre una prassi, vale a dire che non c‟è mai una conoscenza di tale
realtà che sia soltanto conoscenza. Siccome d‟altra parte ogni prassi implica
tanto la conoscenza della realtà su di cui essa si esercita quanto della realtà
per mezzo della quale essa si esercita, si giunge alla conclusione che cono-
scenza e prassi sono inseparabili»23.
Quante realtà ci sono? Ontologicamente dovrebbe essere la stessa se fos-
simo all‟interno di una ontologia unica. Tuttavia, la conoscenza di un fisico
non è la conoscenza di un sociologo, la conoscenza di un filosofo non è la cono-
scenza di un economista: sono dimensioni differenti, sono modalità di costru-
zione, di determinazione, di studio ed analisi dell‟oggetto differenti, che sfu-
mano le une nelle altre, che possono sfumare le une nelle altre. In questo
modo possiamo anche comprendere come per Prieto
Così dunque come abbiamo detto che ogni conoscenza della realtà materiale
presuppone una struttura semiotica e abbiamo definito le scienze dell‟uomo dal
fatto che il loro oggetto è sempre una conoscenza della realtà materiale, potrem-
mo anche dire, e ciò sarebbe esattamente lo stesso, che ogni prassi che si esercita
sulla realtà materiale presuppone una struttura semiotica e che le scienze del-
l‟uomo hanno per oggetto le diverse forme di prassi esercitate dall‟uomo sulla
realtà materiale24.
Ultimo passaggio
Errore dell‟oggettivismo, che omette di includere nella definizione completa del-
l‟oggetto la rappresentazione di questo oggetto, che ha dovuto distruggere per
raggiungere la sua definizione «oggettiva»; che dimentica di sottoporre ad un‟ul-
tima riduzione quella riduzione indispensabile per cogliere la verità oggettiva dei
fatti sociali, che sono oggetti il cui essere consiste anche nel loro essere percepiti22. 25
L‟oggettivismo non può che avere una definizione completa del proprio ogget-
to, quindi, non vi possono essere omissioni. La rappresentazione dell‟ogget-
to che nella sua lettura Bourdieu rileva come mancante è una tensione tra im-
maginazione e sensazione. Nel momento in cui sottolinea anche la mancanza di
una ulteriore riduzione, l‟autore francese usa egli stesso il linguaggio dell‟og-
gettivismo: non è una riduzione, non possiamo parlare di riduzione, è una co–
costruzione, dobbiamo usare il termine co–costruzione. Identificando la defini-
zione «oggettiva» come caratteristica della componente oggettivista della co-
23 Ivi, p. 129.
24 Ibid.
25 BOURDIEU (1979, p. 266).
124 Alfredo Givigliano
3. Immaginazione sociologica 2
Alla luce del percorso che abbiamo seguito possiamo tirare i vari fili del
discorso che abbiamo tessuto nell‟analisi e nella discussione della descrizione
di partenza di immaginazione sociologica di Mills, attraverso e per mezzo delle
costruzioni teoriche di van Fraassen, Blumer, Prieto e Bourdieu, per arrivare
ad una sua riformulazione nei termini dell‟approccio di sociologia processuale
che stiamo usando all‟interno di queste riflessioni.
L‟immaginazione sociologica è la modalità inferenziale che mettendo in rela-
zione tra loro metateoricamente la dimensione euristica, quella metodologica,
quella prassiologica permette di descrivere l‟intrecciarsi delle traiettorie sociali
che determinano lo spazio sociale come insieme di posizioni che altro non sono
che significati. All‟interno di questa modalità, emergono i significati sociali dal-
l‟interazione tra ciò che succede nel mondo della vita di tutti i giorni e ciò che
costruisce il sociologo. Il passaggio al limite di questo processo è dato dalla sen-
sazione, che partendo dalla e rientrando all‟interno della modalità inferenziale,
contribuisce a determinare una dimensione dell‟oggetto della sociologia.
Se la nostra attenzione si rivolgesse solo ed esclusivamente a ciò che suc-
cede nel mondo della vita di tutti i giorni cadremmo in quella che possiamo
descrivere come fallacia oggettivista. Mentre se prendessimo in considerazio-
ne, come nostro oggetto, solo ed esclusivamente ciò che costruisce il sociolo-
go cadremmo in quella che possiamo descrivere come fallacia fenomenologica.
Nel momento in cui descriviamo la modalità prassiologica descriviamo invece
la interazione–tensione tra ciò che succede nel mondo della vita di tutti i
giorni e ciò che sono i costrutti del sociologo.
26 «Il famoso precetto di Durkheim, „bisogna trattare i fatti sociali come cose‟, racchiu-
de in sé la propria negazione: si vede subito che sarebbe inutile enunciare con tanto fra-
casso un simile manifesto metodologico, se la percezione ordinaria, che è un fatto sociale,
e che contribuisce anch‟essa a costituire il fatto sociale, trattasse i fatti sociali come la
scienza pretende che vengano trattati», Ibid.
L’immaginazione sociologica 125
Questa descrizione è ciò a cui si riferiva Bourdieu nel momento in cui pro-
blematizzava la posizione e l‟errore (secondo lui e noi) oggettivista. Posi-
zione oggettivista che determina ciò che dovrebbe essere la sociologia come
scienza forte, infatti Durkheim continua «Analogamente, dal momento che
biamo visto in precedenza tre diverse occorrenze del termine situazione, tre
differenti aspetti, modalità, dimensioni di ciò che possiamo identificare come
definizione della situazione, ognuna di esse caratteristica di un preciso approc-
cio sociologico che pone come proprio fondamento il soggetto sociale, le
strutture sociali, le relazioni sociali. Secondo Bourdieu, il problema per
quanto riguarda l‟interazionismo simbolico può essere descritto nei seguenti
termini nella nota 15 dove specifica cosa intende con «successione disconti-
nua di situazioni astratte»:
Il concetto di situazione, che sta al cuore dell‟errore interazionistica, consente di
ridurre all‟ordine puntuale, locale, labile (come negli incontri casuali tra scono-
sciuti) e, spesso, artificiale (come negli esperimenti di psicologia sociale), che si
realizza nelle interazioni, la struttura oggettiva e duratura dei rapporti tra le
posizioni ufficialmente costituite e garantite, organizzate da qualsiasi interazione
reale: gli individui in interazione riportano nelle interazioni più circostanziate tut-
te le loro proprietà, e la relativa posizione occupata nella struttura sociale (o in un
campo specialistico) decide della posizione nell‟interazione30.
Ancora una volta compare in questa descrizione il termine reale dove leg-
giamo osservabile per noi. L‟oggetto che viene qui descritto da Bourdieu come
situazione all‟interno dell‟approccio dell‟interazionismo simbolico è fonte di
errore, secondo lui (ma anche secondo noi in questi termini), in quanto non
è l‟identificazione di una traiettoria sociale, ma l‟identificazione di un insieme di
punti. Posizioni identificate e descritte come significati singoli, non come in-
siemi di significati, sono strutture strutturate, ma non strutturanti. La defini-
zione di pratica di Bourdieu è una struttura strutturata strutturante. Ecco l‟er-
rore interazionista espresso nei termini di Blumer
La capacità dell‟individuo di darsi indicazioni assegna un carattere specifico al-
l‟azione umana. Significa che l‟individuo per agire affronta un mondo da inter-
pretare invece che un ambiente con la cui organizzazione interagire. Deve rap-
portarsi alle situazioni nelle quali è chiamato ad agire accertando il significato
delle azioni degli altri e determinando la propria linea di comportamento alla
luce di quella interpretazione. Invece di reagire solo in risposta ai fattori che agi-
scono su o operano attraverso di lui, deve costruire e guidare la propria azione:
può essere un lavoro poco piacevole, ma deve farlo31.
Il perché risulta essere chiaro nel momento in cui Blumer rivolge la propria
attenzione sull‟interpretazione del mondo esterno: deve accertare, costruire
e guidare; non sulla co-costruzione, quindi, su insiemi vaghi di significati so-
30 BOURDIEU (1979, p. 251).
31 BLUMER(1969, p. 47).
128 Alfredo Givigliano
ciali che identificano le posizioni dei singoli soggetti sociali lungo le proprie
traiettorie sociali che (intersecandosi le une con le altre) determinano lo sfu-
mare dei significati all‟interno di ogni singola posizione, determinano lo (e
nello stesso tempo sono determinate dallo) spazio sociale. Se i termini della
lettura di Blumer fossero corretti (in maniera esclusiva e totale) ci troverem-
mo all‟interno di un approccio che esclude la modalità prassiologica.
Dopo aver analizzato l‟errore oggettivistico e l‟errore soggettivistico ve-
diamo la posizione proposta da Mills, posizione che fonda e sostiene la sua
descrizione di immaginazione sociologica
credo che quella che può essere chiamata analisi sociale classica sia un insieme di
tradizioni che si lascia definire ed impiegare; che la sua caratteristica essenziale
sia l‟interesse per le strutture sociali storiche; che i suoi problemi corrispondono
in modo diretto e importante a urgenti problemi pubblici e a persistenti difficol-
tà individuali. Credo anche che oggi seri ostacoli si oppongano alla continuazione
di questa tradizione – sia in seno alle scienze sociali sia nelle loro istituzioni ac-
cademiche e politiche –, ma che le qualità mentali che la formano stiano tuttavia
diventando un denominatore comune della nostra vita culturale generale e che si
cominci a sentirle come una necessità, per quanto vagamente e nonostante la
confusione creata dai loro travestimenti32.
35 Ibid.
36 SIMMEL (1908, p. 12).
37 Nel senso che abbiamo costruito nella prima parte di queste riflessioni.
38 «Così si definisce „sfera‟ sia una materia formata in un determinato modo, sia anche,
in senso matematico, la pura e semplice figura o forma in virtù della quale dalla semplice
materia sorge la sfera nel primo senso» (ivi, p. 13).
130 Alfredo Givigliano
Quando si parla di scienze della società in quel primo significato, il loro oggetto
è tutto ciò che accade nella e con la società; mentre la scienza della società nel
secondo senso ha per oggetto le forze, le relazioni e le forme mediante le quali
gli uomini si associano, e che costituiscono quindi, nella loro configurazione auto-
noma, la «società» sensu strictissimo – il che evidentemente non viene alterato dal
fatto che il contenuto dell‟associazione, le modificazioni specifiche del suo scopo
e interesse materiale decidono spesso o sempre della sua formazione specifica39.
È la tensione tra le due descrizioni, la prima che pone l‟accento sull‟associa-
zione di individui, la seconda sulla somma di forme di relazioni (approccio feno-
menologico ed approccio oggettivista), che permette l‟emergere, passo ulte-
riore rispetto a Simmel stesso, dell‟approccio prassiologico.
Riguardo all‟accusa mossa da Mills di esclusivo formalismo, attraverso le
riflessioni di von Wiese vediamo che non è una accusa nuova, ma un qual-
cosa che accompagna la cosiddetta sociologia relazionale40 fin dalla sua nascita
Credo che tutti coloro che sono disposti a giudicare senza prevenzioni, tro-
veranno in questo libro di fatto, e non soltanto con una enunciazione program-
matica, la prova che certe affermazioni messe in circolazione sulla dottrina rela-
zionale sono false: in primo luogo, l‟affermazione che, come sistema di socio-
logia generale, essa sarebbe incompleta e puramente «formale», che rappresen-
terebbe non una scienza della realtà, bensì una scienza logica, e, in terzo luogo,
che rimarrebbe estranea alla realtà41.
Leggiamo, quindi, la posizione di von Wiese alla luce del fatto che una teoria
formale non è necessariamente incompleta, in base a ciò che la scienza ri-
tiene essere il comportamento di una teoria formale questa non può essere
incompleta; la teoria relazionale è incompleta oppure è una teoria formale,
cadere sotto entrambi i rispetti è una contraddizione. Questa descrizione è
corretta in base a ciò che la scienza ritiene essere il comportamento di una
teoria formale, ma se assumiamo che questa sia una teoria logica, allora vale
il Primo Teorema di incompletezza di Gödel del 1931 e si aprono scenari
nuovi che portano alla nostra sociologia processuale. Queste stesse critiche si
concludono con un rimando alla realtà. Se la realtà fosse unica, potremmo
anche trovare spunti di riflessione e confronto, ma nel momento in cui ve-
diamo che l‟ontologia del reale è una ontologia complessa che si declina su
ed in dimensioni ontologiche specifiche per ogni singolo campo disciplinare,
l‟accusa di rimanere fuori dalla realtà si determina come una accusa mossa da
una posizione fortemente oggettivista.
Von Wiese ci è d‟aiuto, anche su altri due versanti. In primo luogo quello
della posizione del campo della sociologia rispetto ai campi delle scienze na-
turali ed a quelli delle scienze che questo autore (all‟interno di una tradizione
di pensiero consolidata) definisce come scienze spirituali, una posizione che
non è di inclusione all‟interno di uno dei due insiemi, ma di differenza e di-
stinzione rispetto ad entrambi. In questo modo si risolve anche la tensione
tra capire e spiegare che ci ha spinto, nella analisi della dimensione metodo-
logica della descrizione di immaginazione sociologica, a proporre questa posi-
zione. In secondo luogo emerge la descrizione di questa terza modalità della
scienza, la sociologia, come una scienza di processi che si concretizzano (ma
nello stesso tempo ne sono la ragione) nella sfera sociale42. Sfera sociale che è
il luogo stesso delle relazioni sociali
Quindi alla domanda «che cos‟è una relazione sociale?» si può rispondere: essa è
uno stato labile, cagionato da un processo sociale o (più spesso) da più processi
sociali, in cui gli uomini sono reciprocamente collegati o separati. Per dirla in
modo breve (e perciò in modo facilmente equivocabile), una relazione sociale è
una determinata distanza fra essi43.
Anche questo, risulta essere un buon punto di partenza per una caratteriz-
zazione processuale dei concetti di relazione e sociale all‟interno di una
cornice logica che non sia vincolata ai tre principi della logica classico-aristo-
telica. Ulteriore spunto a conferma di questo lo troviamo nel momento in
cui von Wiese definisce relazione sociale come uno stato labile, in modo tale da
permetterci di introdurre all‟interno del nostro approccio e del nostro di-
scorso ancora una volta la modellizzazione di Lorenz.
Ritornando a Mills, estremamente interessanti risultano essere alcune sue
affermazioni, nel momento in cui sostiene
Raramente consapevole degli intricati rapporti fra il suo modo di vita e il corso
della storia universale, l‟uomo ordinario ignora, di solito, come questi rapporti
incidano sul tipo d‟umanità che va formandosi, sugli eventi storici che maturano
e ai quali dovrà forse partecipare. Non possiede la qualità mentale indispensabile
per afferrare l‟interdipendenza fra uomo e società, biografia e storia, individuo e
mondo. Non sa affrontare i suoi problemi personali in modo tale da giungere a
controllare le trasformazioni strutturali che generalmente sono alla loro base44.
42 «la dottrina delle relazioni e delle formazioni non presenta la sociologia, ripeto, né
come scienza naturale né come scienza spirituale, ma come una terza scienza, appunto
come scienza sociale, che intende la sfera sociale interamente come una catena di processi,
non come una sostanza» (ivi, p. 147).
43 Ivi, p. 276.
44 MILLS (1959, pp. 13-14).
132 Alfredo Givigliano
per una analisi in termini di e sulla processualità del sociale, sia una possibile de-
scrizione della tensione SoggettiSociali–StruttureSociali–RelazioniSociali, anche
se, ancora una volta, con un forte accento sul ruolo e la funzione delle strut-
ture sociali. Inoltre, nel momento in cui leggiamo meccanismi inferenziali nel
termine capacità mentali, ci ritroviamo all‟interno della ridescrizione del con-
cetto di immaginazione sociologica di Mills. Nello specifico
L‟uomo ha bisogno, e sente di aver bisogno, di una qualità della mente che lo aiuti
a servirsi dell‟informazione e a sviluppare la ragione fino ad arrivare ad una luci-
da sintesi di quel che accade e può accadere nel mondo e in lui. È appunto tale
qualità che giornalisti e studiosi, artisti e uomini pubblici, scienziati ed editori fi-
niranno col chiedere a quella che chiameremo la «immaginazione sociologica».
Ed è ciò che voglio dimostrare45.
Due punti da analizzare, il primo: Mills usa l‟espressione «nel mondo e in
lui», ma l‟oggetto della sociologia è l‟unità complessa SoggettiSociali–Strut-
tureSociali–RelazioniSociali, quindi, il «mondo» e «lui» non sono due oggetti se-
parati. Fanno parte dell‟unità complessa, meglio non ne sono staccabili e non
sono staccabili tra loro. Il secondo: «giornalisti e studiosi, artisti e uomini
pubblici, scienziati ed editori», se le categorie di questi soggetti sociali fossero
le stesse allora l‟immaginazione sociologica sarebbe esattamente quella che
descrive Mills. Il problema è che queste sono dimensioni ontologiche differen-
ti46, sono modalità di conoscenza di realtà materiali differenti, sono prassi dif-
ferenti. Sono questi i motivi e le ragioni che ci spingono a problematizzare la
descrizione di immaginazione sociologica di Mills dalle quale siamo partiti.
5. Conclusione
L‟intero percorso proposto da Mills e le problematiche che abbiamo ana-
lizzato le possiamo ritrovare nella descrizione
Imparerai i vari metodi d‟integrazione dei dati non appena inizierai il passo suc-
cessivo della tua istruzione mentat. L‟integrazione è una funzione–gestalt che si
sovrapporrà al puro e semplice accoglimento dei dati nella tua coscienza e ti con-
sentirà di districare e ricombinare il più grande numero di informazioni etero-
genee, servendoti delle varie tecniche mentat del catalogo/indice di cui ti sei già
impadronito. Il tuo problema, all‟inizio, sarà costituito dalla difficoltà di padro-
neggiare la tendenza dispersiva che nasce da tanti piccoli particolari in apparenza
privi di relazione, su argomenti specifici. Stai in guardia. Senza le tecniche men-
tat d‟integrazione tu potrai sprofondare senza rimedio nel problema di Babele,
l‟etichetta con cui noi indichiamo il pericolo sempre presente di ottenere combi-
nazioni sbagliate partendo da informazioni corrette47.
Bibliografia
SIMMEL G. (1908), Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, Berlin,
Duncker & Humblot, tr. it. Sociologia, a cura di G. Giordano, Milano, Edizioni di Comunità, 1989.
WIESE L. VON (1933), System der Allgemeinen Soziologie, München und Leipzig, Duncker
& Humblot, tr. it. Sistema di sociologia generale, a cura di M. Digilio, Torino, UTET, 1968.
MARCO MAZZEO
a Ponyo,
che nella
nostra immaginazione
parla, gioca e cammina.
1 Non a caso, anche uno dei maestri di Wittgenstein, il logico tedesco Gottlob Frege è
tormentato da una vera e propria ossessione per le Vorstellungen: come esorcismo (contro
le immagini individuali e contro le denotazioni singole), Frege ricorre al noto «terzo re-
gno» dall’intenso sapore platonico.
lapidaria2 (si pensi al § 256 di Della Certezza, dal carattere talmente laconico
da risultare liquidatorio: «d’altra parte, il gioco linguistico cambia nel tempo»).
Un modo di reagire a questa idea è concepire l’immaginazione come una
facoltà universale, una capacità che appartiene a tutti gli individui di una spe-
cie, ad esempio quella dei sapiens. Questa mossa ha il vantaggio di salvare
l’immaginazione dal relativismo: è un’arma che tutti gli individui possiedono,
per questa ragione è uno strumento non solitario. Ognuno di noi nasce con
in mano un cannocchiale chiamato immaginazione. Tutti ne hanno lo stesso
modello e dunque non può essere strumento di isolamento e separazione.
Questa opzione teorica, che negli ultimi decenni è stata incarnata con
una certa vivacità dalle cosiddette scienze cognitive, è nobile negli intenti
ma vive di una difficoltà di ordine, potremmo dire, reattivo. Si oppone a
un’idea sbagliata (l’immaginazione come fuga solipstica) per mezzo di un’af-
fermazione opposta e simmetrica:
a) modello platonico: l’immaginazione è una pratica individuale, dunque è
anti-universale.
b) modello anti-platonico (cognitivo): l’immaginazione non è una pratica indi-
viduale, dunque è universale.
Tre tesi riassumono quel che vorrei sostenere, in modo provvisorio e
sperimentale, in questo saggio:
1. La prima affermazione del modello antiplatonico (ad esempio cognitivo)
è corretta e condivisibile: immaginazione non vuol dire solipsismo, fuga dalla
realtà, esercizio sofistico delle capacità linguistiche e mentali umane.
2. La conseguenza che il modello antiplatonico ne trae è debole perché
mantiene un assunto fondamentale del modello avversario, l’idea che gli
individui siano entità sostanzialmente preformate.
3. È necessario cercare di comprendere quale sia il potere individuante del-
l’immaginazione, cioè in che modo contribuisca (nel bene e nel male) alla
delineazione di una singola esistenza. Si tratta non di una struttura univer-
sale ma di una facoltà comune.
2. Il lavoro dell’immaginazione
MAZZEO, 2007.
Contro l’universale: immaginare il comune 137
lo psicologo Paul Harris, The Work of the Immagination, può fare al caso nos-
tro. Il testo propone un attacco frontale a una concezione dell’immagina-
zione ritenuta troppo rigida. Sia Piaget che Freud avrebbero proposto un
ritratto di questa facoltà negativo, sostanzialmente autistico (in linea con il
Teeteto, insomma). Per entrambi, l’immaginazione allontanerebbe dalle re-
lazioni sociali, soddisferebbe desideri non realizzati, sospenderebbe l’ana-
lisi oggettiva della realtà. A prescindere da quanto la sua ricostruzione sto-
rica sia fedele, è interessante vedere cosa propone Harris per superarne le
storture. A suo giudizio (HARRIS, 2000, p. 269):
1. l’immaginazione appare in particolare sintonia con le relazioni sociali;
2. non è governata da desideri frustrati;
3. integra l’analisi della realtà nel bambino e nell’adulto.
A prima vista, si tratta di affermazioni condivisibili, quasi ovvie. La pa-
rentela tra gioco e immaginazione suggerisce, ad esempio, il carattere condi-
viso del “facciamo finta che” (io sono il gatto e tu il cane, io il principe e tu la
principessa), una serie di attività non necessariamente legate a desideri re-
pressi, quanto alla produzione di desideri nuovi e più articolati. Uno sguardo
più attento alla proposta rivela però crepe profonde. Tralasciamo il punto 2
(legato sopratutto alla polemica con Freud) e concentriamoci sui punti 1 e 3.
La prima tesi rischia di non essere perspicua. Cosa vuol dire che l’im-
maginazione è in particolare sintonia con i rapporti sociali? Probabilmente
Harris intende sostenere che l’immaginazione ha particolare importanza nel-
la socializzazione del bambino grazie ai giochi di ruolo e di finzione. A tal
proposito, egli cita una serie di studi particolarmente interessanti circa il
compagno immaginario che spesso anima le fantasie dei bambini. Si tratta di
un fenomeno diffusissimo: nei primi sette anni di vita, circa due bambini
americani su tre hanno un doppio del quale impersonare atteggiamenti, frasi
e azioni. Harris si affretta a dire che fenomeni del genere non indicano una
confusione tra realtà e immaginazione: i bambini saprebbero distinguere ciò
che immaginano da quello che può essere percepito dagli altri. Lo spettro del
sofista platonico aleggia inquietante. L’immaginazione, si ribadisce, non è ne-
gazione della realtà3: tanto il bambino che gioca con il suo doppio che l’adulto
molto insistito sul suo carattere percettivo, più vicino alla sensazione che al pensiero (si veda
ad es. FERRETTI, 1998). Il conflitto interno al testo di Harris risente forse proprio di questo
contrasto: per un verso il paradigma cui appartiene lo psicologo inglese insiste sulla comunan-
za delle vie neuropsicologiche tra percezione e immaginazione (il dato riemerge in HARRIS,
2000, pp. 112-113), per un altro si ribadisce la necessità teorica di individuare una netta se-
parazione tra le due aree epistemiche.
138 Marco Mazzeo
sere creduloni, ciò vuol dire che l’immaginazione porta non solo a fidarsi
degli altri ma anche ad aderire a informazioni e resoconti non veritieri. Un
consigliere della regina di Spagna mi assicura che la terra è piatta ed evito
di precipitare dallo stretto di Gibilterra restandomene a casa mia a Genova.
Per rimanere nel capoluogo ligure: il capo della polizia afferma che nella
caserma di Bolzaneto non è successo nulla di strano e io gli credo. Se di de-
fault tendo a considerare vero quel che mi viene raccontato, a prescindere
da come stiano le cose, l’immaginazione ridiviene ineluttabilmente l’arma
prediletta del sofista che dice tutto e il suo contrario per mezzo di un lavo-
rio puramente persuasivo.
Comincia a emergere il carattere reattivo della proposta cognitiva: se
per la tradizione platonica immaginare significa allontanarsi dalla verità,
per Harris immaginare significa trasmetterla. Questo tratto reattivo emer-
ge ancora di più quando si considera lo statuto ontologico dell’immagina-
zione. Che valore hanno i variopinti frutti della facoltà immaginativa? Se-
condo Harris, costituiscono una «quasi realtà» (ivi, p. 86), una «nicchia»
(ivi, p. 236), un «mondo impossibile» (ivi, p. 231). L’immaginazione co-
struirebbe una realtà di riserva: quando il bambino non riesce a spiegarsi
quel che accade con i principi che regolano il comportamento dei corpi
materiali (causalità, inerzia, costanza, ecc.) ricorre alla fantasia. Per questa
ragione, l’immaginazione costituirebbe uno spazio della mente circoscritto
con regole specifiche, una stanza del cervello nella quale riporre tutte le
anomalie, le circostanze inspiegate e gli oggetti insoliti. L’immaginazione
darebbe luogo a una «realtà2», una serie di giocatori in panchina pronti a
entrare in campo. Per questa ragione, svolgerebbe sostanzialmente tre fun-
zioni: farci immergere in un mondo inventato, confrontarlo con quello
reale, esplorare l’impossibile e il magico (ibid.).
L’ipotesi difficilmente può rendere giustizia alla struttura dell’immagi-
nazione umana. Harris fonda le sue tesi, infatti, su due idee di fondo: per il
bambino e per l’adulto la distinzione tra reale e immaginativo è netta; la
struttura dei due mondi è simile per forma ma opposta per orientamento.
Entrambe le affermazioni sono però difficili da sostenere anche solo alla
luce dei dati empirici presi in considerazione dallo stesso Harris. Alcuni test han-
no cercato di verificare, ad esempio, in quali circostanze i bambini di 4 e 6
anni giudicano magico un fenomeno. Rispettivamente nel 60% e nel 75%
dei casi, i bambini considerano magici fenomeni che non seguono i vincoli
fisici: oggetti inanimati che appaiono dal nulla o che cambiano forma da so-
li (ivi, p. 241). Secondo l’autore questo dato confermerebbe l’ipotesi che
140 Marco Mazzeo
3. Immaginazione e individuazione
Harris si carica sulle spalle un compito lodevole: mostrare che tra l’e-
sperienza immaginativa del bambino e dell’adulto esiste una forte continui-
tà. Il problema è la direzione lungo la quale individuare questa linea di pro-
secuzione. Secondo lo psicologo inglese, l’immaginazione infantile non è
bizzarra, confusa o autistica perché già organizzata, cioè già adulta. Come
abbiamo visto, sono i suoi stessi esempi a costringerlo a correggere il tiro e
a fargli affermare che tra realtà e immaginazione invece di una «barriera
impenetrabile» (ivi, p. 249) esiste un «confine parzialmente penetrabile»
(ibid.). Se la penetrabilità dei due spazi costituisce l’elemento di continuità
tra immaginazione infantile e adulta, il grado stretto di parentela che le
unisce non consiste nella loro organizzazione razionale quanto nella plasti-
Contro l’universale: immaginare il comune 141
supplemento d’essere» (ivi, p. 57). Questo supplemento ha però un costo organico, l’in-
vecchiamento: è l’aspetto per il quale la visione organicistica dell’immaginazione di Simon-
don non funziona. Se per Harris l’immaginazione corrisponde a una quasi realtà, per Si-
mondon è un «quasi-organismo» (ivi, p. 9). In entrambi i casi, la definizione per appros-
simazione risulta fuorviante. Sembra piuttosto che l’immaginazione abbia l’effetto contra-
rio: una possibilità che dall’atto non riceve realizzazione e svuotamento, quanto un’ampli-
142 Marco Mazzeo
ficazione estensiva (in questo senso l’immagine di Simondon del surplus di essere coglie
qualcosa di decisivo). Di questo aspetto qui non parlerò. Ringrazio Luca Parisoli e Daniele
Gambarara per i loro commenti e indicazioni su un punto per me ancora poco chiaro.
Contro l’universale: immaginare il comune 143
5 Un primo conforto che sia questa la direzione giusta per interpretare questo gruppo
concettuale arriva, ad esempio, da FERRARIS, 1996, pp. 7-8. La sfida è naturalmente ardua:
l’ideale sarebbe testare questa idea sui testi di Platone e Aristotele che impiegano il termi-
ne in modo difficile da decifrare (cf. ad es. ILLUMINATI, 1999; ROTONDARO, 1999).
Contro l’universale: immaginare il comune 145
6 Tanto per esser chiari: questo non vuol dire che con il tempo la cultura occidentale si
sia allontanata dalla “vera natura dell’immaginazione”. Il problema della labilità di distin-
zione tra immaginativo e reale è sempre presente sulla scena della vita umana e ogni perio-
do storico (o assetto culturale) cerca di elaborare una risposta adeguata. Da questo punto
di vista, il pensiero magico si contraddistingue non per la propria ingenuità ma perché
mette in risalto i casi di indistinzione, il carattere comune dell’immaginazione, invece di
nasconderli sotto il tappeto.
146 Marco Mazzeo
è già attore principale. È qualcosa di cui «diciamo [legomen]» con quale tipo
di apparire abbiamo a che fare. Il phainomai della phantasia non consiste in
un puro e disambiguo apparire: in questo caso si tratterebbe di qualcosa di
sempre vero (nel caso concepissimo questa espressione come sola «appari-
zione» cioè come sinonimo di percezione) o sempre falso (come mera «il-
lusione»). Spesso, invece, quel che si immagina è falso. La fantasia è dispo-
sta al fantasmatico, è composta da phantasmata, immagini che tendono a di-
stanziarsi dalla realtà. Mentre però l’opinione (la doxa) segue una logica bi-
naria (è vera o falsa), il movimento immaginativo può essere contemporanea-
mente (ama: ivi, 428b 3) vero e falso. Quando ad esempio il sole mi appare
grande come un piede nel cielo resta tale anche se so che si tratta di un og-
getto di dimensioni differenti (ivi, 428b 3-5). Questo punto è particolar-
mente importante perché il libro gamma del De anima entra in cortocir-
cuito con un altro libro gamma, quello della Metafisica. C’è contraddizione
solo se allo stesso tempo (ama), ripete più volte Aristotele, si dà una cosa e
il suo opposto.
L’ambivalenza logica dell’immaginazione emerge ancora di più se si
prende in considerazione il rapporto con la percezione. Per un verso l’im-
maginazione è simile alla luce, l’etimo proverrebbe il legame (phaos = luce;
phantasia = immaginazione: ivi, 429a 3-4). Per un altro, l’immaginazione è
luogo dei sensibili comuni: dunque non di un solo senso (tanto meno della
vista) ma della matrice comune alle diverse modalità sensoriali. Come mai
questa oscillazione? In più di una circostanza Aristotele sembra prediligere
la vista («è il senso per eccellenza»: ivi, 429a 3-4) e questa predilezione
può aver influito sul carattere unilaterale degli esempi che propone («crea-
re immagini davanti agli occhi», ivi, 427b 18-19; «vedere cose temibili o
rassicuranti in un dipinto», ivi, 428a 23-24). Può esserci, però, una ragio-
ne teorica più profonda. È opportuno riportare per esteso un passo molto
noto ma sorprendente (ivi, 429a 3-4): «E poiché la vista è il senso per
eccellenza, l’immaginazione ha preso il nome dalla luce, giacché senza la
luce non è possibile vedere». Quel che sorprende non è la prima ma la se-
conda parte del passo. A guardar bene, infatti, l’immaginazione non è para-
gonata, come ci si potrebbe aspettare, al vedere (guardare immagini con
l’occhio della mente) ma alla luce. La phantasia non è considerata termine
analogo al mettere a fuoco figure tipico della vista, quanto invece a una con-
dizione di fondo, la presenza di illuminazione. L’immaginazione non è vista
ma luce, è ciò che rende visibile, quel che crea le condizioni dell’apparire.
Questa affermazione ribadisce il carattere di apparenza della phantasia, un
Contro l’universale: immaginare il comune 147
esser presente che sicuramente c’è ma il cui statuto va stabilito. Ho una im-
magine: è apparenza o realtà? Compio un’azione spinto da un movimento
immaginativo: è appropriata o meno?7
Il carattere di verità epistemica o di appropriatezza pratica dell’immagi-
nazione è un dato a posteriori; a priori c’è un movimento spaziale incerto
che consiste non nel porre qualcosa sulla scena (ciò presupporrebbe la di-
stinzione netta tra figura e sfondo) ma nel solo comparire di una scena, il cui
senso è tutto da gestire. Per questa ragione, l’immaginazione può essere
anche quel che copre (ivi, 429a 8), nasconde, oscura la mente rendendola
confusa (l’espressione è mé enargòs, «senza evidenza», un termine impiega-
to spesso per riferirsi alla chiarezza di visioni, dei e sogni: ROCCI, 1943, p.
626; De anima, III, 428a 15-16). L’apparizione di una scena non comporta
che questa sia ben definita, così come la presenza di una fonte luminosa
non assicura la distinguibilità dei contorni degli oggetti. Si pensi al caso nel
quale si guarda la luce di una lampadina o quando la luce filtra attraverso la
nebbia: a causa dell’abbagliamento o della scarsa trasparenza dell’aria ci
troviamo in condizioni percettive precarie segnate da un alto grado di con-
fusione. Come la luce può nascondere un oggetto, così l’immaginazione
può provocare un’apparizione che ottunde la mente.
Ciò spiega perché la phantasia sia legata ai sensibili comuni e non a quel-
li propri. I sensibili propri (cioè di proprietà, individuali, personali: idia)
sono certi, non esposti all’errore. La koiné aisthesis è incerta perché mette
in scena le dimensioni condivise tra i sensi (numero, estensione, grandezza,
per l’appunto il movimento, ecc.: cf. MAZZEO, 2009, pp. 170-171). Que-
sta condivisione è comune e incerta perché non consiste in precise aree di
sovrapposizione tra sensi già individuati ma nello sfondo originario dal qua-
le queste distinzioni possono emergere. Il carattere sensorialmente sfocato
dei sensibili comuni è brodo di coltura del carattere sfocato del movimento
immaginativo. Tale mancanza di focalità non riguarda, dunque, la vividezza
della rappresentazione, dello schema corporeo o del desiderio immaginati-
vo: concerne il suo tipo di realtà, la sua collocazione tra i fatti degli umani,
il grado della sua individuazione. È forse proprio questo a mettere in ansia
Platone: il carattere comune dell’immaginazione non solo può consentire
ai sofisti di pescare nel torbido ma anche di rimettere in discussione il ca-
rattere separato e universale delle idee facendole diventare un elemento
non più distinguibile, almeno a priori, dai fenomeni percettivi. Parados-
7 L’immaginazione, infatti, oltre a poter esser falsa può essere più o meno «retta» (ivi,
433a 28).
148 Marco Mazzeo
salmente, certezza epistemica e pace civile sono minacciati proprio dal suo
strumento privilegiato: immagini al limite, non ancora universali né indivi-
duali, in grado di suggerire passaggi di livello e nuove realtà.
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LUCA PARISOLI
1 Ringrazio Daniele Gambarara per avermi invitato a due riprese nel 2008 e nel 2009 al-
l‟interno dei „seminari del mercoledì‟ ad esporre l‟approccio scotista, con una particolare at-
tenzione nel secondo intervento al problema degli universali reali e non-rappresentazionali. Il
testo è frutto del rimaneggiamento del lavoro complessivo: un frutto che ho colto grazie a chi
cura il mio viridiarum secretum, ad Antonella, Francesco–Flavio, Rita.
mini possono illudersi che il nostro mondo attuale sia la totalità del reale, e
che sebbene Dio mostri cose nascoste dall‟origine dei tempi gli uomini
continuano a non vederle).
Ma in Scoto si delinea anche una logica rilevante, ossia un sistema che
rifiuta la nozione di implicazione logica classica, schematizzata nelle tavole
di verità di Wittgenstein: si deve sottolineare che la stessa distinzione tra
inferenza (legata alle tavole di verità) e di implicazione materiale (non for-
malizzabile con le tavole di verità, quindi con un legame semantico tra pre-
messa e conseguenza) è rifiutata in una prospettiva che rifiuta la separa-
zione rigida tra linguaggio e mondo, come è quella scotista. Linguaggio
formale e linguaggio naturale obbediscono – devono obbedire – alle stesse
regole di deduzione, di inferenza, di implicazione (i nominalisti logici del
XX secolo affermano il contrario). La validità dell‟implicazione logica non
dipende solo dal valore di verità della premessa e della conseguenza.
conclusione è necessariamente vera (se fosse falsa, sarebbe vero che l‟argo-
mento è valido e si dedurrebbe il falso – la conclusione recita che l‟argo-
mento non è valido – dal vero tramite un argomento valido – per ipotesi;
ma questa nozione di validità è pickwickiana, il che dimostra che la con-
clusione è vera – resta che l‟unico significato della conclusione è la sua
non-validità), ed infine l‟argomento non è valido sebbene dal vero si passi
al vero. Priest e Routley hanno formalizzato secondo i criteri contempo-
ranei questo argomento2; soprattutto hanno rifiutato le strategie dirette ad
analizzarlo come una antinomia «mostruosa». È quindi fondamentale la
loro considerazione secondo cui «Scotus‟ argument must be taken serious-
ly», non già messo da parte come un eccentrico controesempio da catalo-
gare come «mostruosità».
Ne risulta che un argomento è valido sse la sua premessa è incompati-
bile con la negazione della sua conclusione (secondo l‟idea stoica di Cri-
sippo) e la compatibilità non è la possibilità di 3, bensì di () – n.
6, «impossibile est, antecedente et consequente simul formatis, quod antece-
dens sit verum, et consequens falsum, excepto uno caso scilicet ubi significa-
tum consequentis repugnat significationi notae consequentiae sicut coniun-
ctionis quae denotat consequentiam esse» – n. 12, «ad oppositum contradi-
ctorium consequentis sequitur (i.e., diviene premessa) oppositum contradi-
ctorium antecedentis (i.e., diviene conclusione)». Per lo Scotista la defini-
zione di implicazione valida rinvia al fatto che dalla premessa vera non segue
mai una conseguenza falsa, con due precisazioni capitali, ossia che devono es-
sere simul formatis, e che il significato della conseguenza non deve ripugnare
alla significazione della congiunzione che denota la realtà della conseguenza
stessa. Come si vede, quello che è passato come il principio ex falso sequitur
quodlibet non è enunciato veramente in questo passo, anzi qui si enuncia una
vera e propria logica rilevante: difatti, non mi pare che simul formatis possa
essere un mero omaggio al lessico aristotelico, mi pare che esso instauri una
relazione di rilevanza tra la premessa e la conseguenza, tale che la validità di
un argomento non può essere ridotta al fatto che la premessa sia vera e la
conseguenza pure, senza riguardo al contenuto di entrambe.
Lo Scotista argomenta, per meglio persuadere della sua proposta, con-
tro una prima nozione di validità (l‟impossibilità che sia vera, sia falsa e
sia valida, e questa corrisponde veramente al principio ex falso sequitur
quodlibet) e una seconda nozione di validità (impossibilità che il significato
della premessa e della conseguenza non possano essere insieme, senza rife-
rimento all‟esistenza – mondi possibili, quindi, e non riferimento diretto al
mondo attuale). Si noti, per meglio comprendere la successiva confuta-
zione proposta, che in un sistema rilevante paraconsistente può essere
falsa (i.e., negata) in almeno due modi, secondo la negazione debole (che
non genera necessariamente contraddizione falsa) e secondo la negazione
forte (che genera necessariamente contraddizione falsa, ossia la Super–Con-
traddizione). Se è negata in maniera debole, essa è tale da poter produrre
una contraddizione vera, quindi l‟inferenza resta valida. Quanto al secondo
punto, si noti che tale nozione annulla ontologicamente la specificità del
mondo attuale, che è quello di contenere solo oggetti esistenti: l‟ontologia
scotista riconosce al mondo attuale uno statuto privilegiato (sebbene non
un primato assoluto per ogni oggetti che contiene, altrimenti l‟ontologia
dei mondi possibili non avrebbe senso realista4), quindi non può accettare
una nozione di inferenza logica che prescinda da tale struttura ontologica.
Contro la prima nozione, lo Scotista oppone che il seguente argomento
è valido: ogni proposizione è affermativa, allora nessuna proposizione è ne-
gativa. Si noti che la fondatezza prima facie di questo argomento è che se
tutte le proposizioni hanno una forma lessicale affermativa (da non con-
fondere ovviamente con la verità, proprietà semantica), allora nessuna pro-
posizione dovrebbe avere forma lessicale negativa (se per qualunque A, A è
B, allora non si dà un A che sia non–B). Ora, si può dare il caso che la pre-
messa sia vera, tuttavia la conclusione non può mai essere vera (dato che
essa stessa è negativa, in quanto la sua formulazione è appunto negativa) –
infatti, la conclusione è vera se e solo se la conclusione „esiste‟, ossia se
essa denota un esistente possibile, che sarebbe una proposizione negativa
reale. Si noti che questa risposta di Scoto richiede l‟adesione ad una logica
realista, altrimenti non risulta persuasiva nella prospettiva di una ontologia
misera associata al discorso logico.
Contro la seconda nozione, si oppone che il seguente argomento è
prima facie valido per la definizione in esame, ma in realtà non lo è affatto –
4 Per un rifiuto del realismo modale, senza per questo considerare inutile la teoria del-
l‟argomentazione relativa ai mondi possibili, rinvio a N. RESCHER, Imagining Irreality. A Study
of Unreal Possibilities, Chicago–La Salle, Open Court, 2003, cap. 4, in cui si esclude che si dia-
no oggetti genuini nei mondi possibili.
154 Luca Parisoli
5 Non è il caso qui di addentrarsi nella filosofia della fisica, in cui comunque l‟interpre-
tazione paraconsistente resta controversa (si pensi alla soluzione ad hoc delle variabili nascoste
che una volta conosciute ci farebbero confezionare di nuovo un quadro conforme alla logica
classica): mi limito a rinviare a J.M. JAUCH, Sulla realtà dei quanti. Un dialogo galileano, Milano,
Adelphi, 1980 (ed. ingl. 1973). Ma per un‟analisi più specialistica rinvio a J. BAGGOT, Beyond
Measure: Modern Physics, Philosophy, and the Meaning of Quantum Theory, Oxford, OUP, 2004, e a
R. OMNÈS, Comprendre la mécanique quantique, Paris, EDP Sciences, 2000, e ad un protagonista
della ricerca J.S. BELL, Speakable and Unspeakable in Quantum Mechanics, Cambridge, CUP, 2004.
156 Luca Parisoli
6 Mi pare un‟analisi degna di nota del PDC in Aristotele quella fornita dall‟amico e collega
MARCO MAZZEO, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Roma, Quodlibet, 2009,
pp. 15-45: appoggiandosi su una classica letteratura secondaria, Mazzeo, che poi proporrà una
ontologia paraconsistente del mondo, mette in luce che Aristotele usa una versione rigida del
PDC contro i suoi avversari filosofici, ma lui stesso prospetta l‟esistenza di autori che ricono-
scessero che solo alcune proposizioni contraddittorie sono false, altre no, e contro di essi non di-
ce nessuna parola conclusiva. Non ne emerge un Aristotele paraconsistente (gli manca almeno,
direi io, una concezione ontologica lussureggiante), ma un Aristotele che in quanto logico for-
male è proto–paraconsistente nel senso di non negare la possibilità di una logica paraconsistente,
quindi molto più liberale dei classicisti che lo seguirono e lo seguono con fede cieca.
Concetti universali senza rappresentazione 157
tazione pare non giocare ruolo alcuno? La sola alternativa a questo rifiuto
mi pare interpretare Scoto nel senso di una verbosa e relativamente sterile
parafrasi del mistero della Trinità, tanto più sterile se paragonata alla ric-
chezza retorica dei Padri della Chiesa. Ma questa alternativa mi pare del
tutto insoddisfacente e „avaramente misera‟.
La relazione reale, infatti, è tale se sussiste tra due correlati senza l‟inter-
vento ricognitivo dell‟intelletto. Scoto esemplifica con la relazione di simili-
tudine tra due cose bianche (Ordinatio, I, d. 30, q. 1-2, 69, ex n. 19), che so-
no simili solo perché questo bianco qui è bianco e quel bianco là è bianco,
oppure con la relazione di maggiore/minore che si instaura tra l‟ordinale
due (binarius) e l‟ordinale tre (ternarius), che sono così correlati in quanto due
è due e tre è tre. L‟atteggiamento anti–riduzionistico è qui radicale, ed è la
chiave di volta del rifiuto scotiano di una ontologia misera: le cose sono quel-
lo che sono, non già un‟altra cosa, e le formalitates sono il necessario scheletro
ontologico di questa visione (qui, la Forma della bianchezza).
Se ne ricava che una creatura è identica alla sua relazione con Dio (ma
non assolutamente, altrimenti non vi sarebbero cose assolute), che può es-
sere considerata un attributo specifico (aristotelico), non identificabile al
soggetto, ma neppure separabile (assolutamente simultanee, sono però for-
malmente distinte: la fondazione eccede la relazione in perfezione, la rela-
zione eccede la fondazione nella sua predicabilità [di tutte le creature]).
Nel mondo vi sono cose e formalità–realtà: la creatura è realmente identica
alla sua relazione con Dio, ma formalmente ne è distinta. Su questo punto,
si può vedere la definizione dell‟inclusione formale contenuta in Ordinatio,
I, d. 8, p. 1, q. 4, 193, ex n. 18: x e y sono formalmente non–identici o
distinti se 1) x e y sono – o sono inclusi in – una res; e 2) se possono essere
definiti, la definizione di x non include quella di y e viceversa; oppure non
possono essere definiti, allora se lo fossero, la definizione di x non inclu-
derebbe quella di y e viceversa. La ratio formalis dell‟oggetto precede sem-
pre l‟atto con cui l‟oggetto passa dalla quiete al movimento: questo per di-
re che la relazione formale è altro dall‟oggetto e dalla sua attività (Quae-
stiones Metaphysicorum V, q. 11, 85-90, ex n. 12-13). Si osservi, prima di
passare al momento successivo della difesa di Scoto contro il regresso al-
l‟infinito, che le sue formalità richiamano almeno in parte la strategia reali-
stica di Roderick Chisholm7.
Il tutto si concretizza nella seconda tappa dell‟argomento in sospeso
(Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 269, ex n. 24 – anche in Quodlibet, q. 3, n. 15-
identico a ‟, inteso che a sua volta è un oggetto di cui si predica l‟iden-
tità rispetto al suo oggetto correlato π.
«Questa identità sia detta a in π e b in : si dica poi c l‟identità tra a e b,
mentre l‟identità tra b ed a si dica d. L‟identità a differisce da π, dato che
l‟oggetto π può essere senza quel rapporto d‟identità (dato che può essere
senza alcun altro oggetto identico), mentre a non può essere senza π». –
dato che è l‟identità inerente a (proprietà di) π e soprattutto – «dico poi
che a non differisce da c». – ossia il Terzo Uomo è inoperante, non si dà re-
gresso all‟infinito e moltiplicazione degli enti.
«c è proprio identico ad a, poiché a non può essere senza c, in quanto
sono connaturali». – ossia, se si può parlare di una relazione di identità a, si
può anche parlare della sua simmetrica b, e si può anche parlare della rela-
zione tra le due che abbiamo detto c, ossia dalla ricognizione dell‟oggetto a
segue analiticamente pure la ricognizione di b e c. Scoto nella Lectura, II, d. 1,
q. 4-5 lo esplicita nel contesto di un‟argomentazione meno sintetica dicendo
che «relatio non potest non esse nisi propter non–esse fundamenti vel termi-
ni» (n. 243); non si tratta di un rapporto causale, bensì di una simultaneità
ontologica – «relatio non consequitur in quantum requirit aliud, sed simul
oriuntur ex fundamentis» (n. 249), come due raggi del sole sono connaturali
senza dipendere l‟uno dall‟altro e con una comune sorgente. Prosegue l‟ar-
gomento delle Quaestiones super libros Metaphysicorum,
ne segue che è contraddittorio che 1) a sia senza c e 2) c e il suo oggetto cor-
relato non siano. Ma se l‟oggetto di cui si predica c e il suo correlato esistono,
allora c è necessario, ovvero è contraddittorio che a sia e c non sia. Dato che c
inerisce formalmente in a.
Ecco che fa capolino la relazione formale, caposaldo del realismo scotista
come bene comprese Ockham che contro di essa si accanì per approdare al
suo nominalismo logico, e che Platone non seppe opporre ad Aristotele
(per banali ragioni cronologiche o forse non solo). L‟inerenza formale è
legata all‟incompossibilità che la proprietà inerente sia senza l‟oggetto cui
inerisce (lessico della Lectura, n. 241), idea che evoca certo una concezione
della modalità legata alla teoria dei mondi possibili, ma più semplicemente
il fatto che un‟autovettura può essere verde o rossa (proprietà non inerente
formalmente) ma senza motore cessa di essere una autovettura, oppure più
teologicamente che una creatura non può essere senza il suo creatore,
quindi la relazione di creazione inerisce formalmente nella creatura. In as-
senza di una inerenza formale, non vi è necessariamente identità reale (in-
fatti, il tutto non può essere senza la sua parte, ma il tutto non è identico
162 Luca Parisoli
3.1 Lo statuto di verità delle proposizioni relative al futuro: per Scoto, ogni previ-
sione è falsa
Se la verità di una proposizione dipendesse da ciò che essa rappresenta,
come potrebbe mai darsi che una proposizione e la sua negazione siano sem-
pre ambedue false? Eppure è quello che accade per le proposizioni relative al
futuro, secondo la mia interpretazione di Scoto: questo significa che le pro-
posizioni hanno un rapporto di identità con il mondo, con la totalità degli
oggetti che lo costituiscono, non già un rapporto rappresentativo.
Discutendo un luogo classico del De interpretatione aristotelico (cap. 9,
18a), Scoto mostra in maniera sintetica eppure decisa i motivi per cui il
principio di bivalenza non ha validità universale, assumendo una posizione
che va ben al di là di quella più classica secondo cui esistono delle eccezioni,
non già delle vere aree di non applicazione del principio. Si tratta di
un‟idea che ricorre non solo nei suoi lavori logici giovanili, ma che percor-
re tutta la sua opera, dalle analisi teologiche a quelle della filosofia pratica9.
(1265/6-1308). Renewal of Philosophy, Amsterdam, Rodopi, 1998), per cui Scoto non rinuncia
all‟applicabilità del principio di bivalenza quando parla delle proposizione „neutre‟ apprese da
Dio prima della creazione (la conoscenza veicolata da questo carattere „neutro‟ della proposi-
zioni non può essere mai ridotta a conoscenza „metaforica‟, stiamo parlando di un Dio conce-
pito nella pienezza assoluta del suo Essere necessario). Interessante perché Beck mostra quale
sia la strategia filosofica tesa a recuperare Scoto all‟interno della logica classica: tuttavia, credo
che avesse visto giusto Gregorio da Rimini (Lectura I, d. 38, q. 2, a. 2, ed. Trapp–Marcolino,
III, Berlin, De Gruyter, 1984; citato da Beck, 136) quando accusava Scoto di porre con l‟idea
di una proposizione neutra un medio nella contraddizione (ivi, III, 281) e per questo motivo
respingeva la sua soluzione dell‟apprensione divina dei futuri contingenti. Gregorio parte dal-
l‟idea che se la «complexio de futuris sit neuter» (che ricava dalla d. 38 del commento al pri-
mo libro delle Sentenze, che è ora in appendice A all‟Ordinatio come I, d. 38, pars 2, e I, d. 39,
q. 1-5, oppure in Lectura, I, d. 39), allora si dà il medium nella contraddizione.
Contro Scoto, Gregorio avanza anche l‟accusa di porre un prima ed un dopo in Dio, cosa
che gli pare in nessun senso ammissibile (per cui si veda quanto aveva già detto in I, d. 9, q. 1,
a. 2, Lectura, II, 151-155): se da una parte riprende l‟argomento avanzato da Ockham (Ordina-
tio, I, d. 38, q. 1, in Opera theologica, IV, 582-583) contro Scoto, ossia se la volontà dell‟uomo
determina la conoscenza dei futuri contingenti da parte di Dio, ne segue un assurdo, se non lo
fa, allora Dio non li conosce «certam notitiam», dall‟altro lo ritiene non probante perché «si
per impossibile deus non esset volens, esset autem intelligens sicut est» (Lectura, III, 281-282).
Soprattutto, Gregorio conclude che l‟onniscenza divina è per noi incomprensibile e inesplica-
bile (ivi, III, 283).
Mi pare che Gregorio da Rimini subodorasse nella posizione di Scoto non tanto una affer-
mazione dell‟esistenza di proposizioni né–vere–né–false, quanto l‟affermazione dell‟esistenza
di proposizioni vere–e–false. Per i suoi gusti filosofici, la rifiutava, cogliendo che la forza (e la
debolezza) della posizione scotiana è nell‟approccio paraconsistente: ma si costringeva così a
catalogare nel mistero la conoscenza divina dei futuri contingenti. L‟alternativa è limpida: o
gettare alle ortiche la logica classica e spiegare come Dio conosce i futuri contingenti, oppure
conservare la fede nella logica classica e consegnare all‟inspiegabile la conoscenza divina dei
futuri contingenti (con la possibilità per un filosofo laico di accusare quello cristiano di irrazio-
nalismo, peraltro apertamente ammesso).
164 Luca Parisoli
turo (n. 4), «Tu eris albus in A, absolute enuntiata, si illa significat nunc
rem sic se habere ad esse ut in A tu debeas esse albus: haec propositio est
determinate falsa» – ciò che viene rifiutato è il determinismo, nella sua ac-
cezione più radicale. Con radicale anti–riduzionismo fondato nella credenza
dell‟esistenza di variabili assolutamente contingenti, invece, per Scoto ogni
predizione formulata da un uomo riguardo al futuro è falsa: attribuire oggi
la proprietà x ad un oggetto in un momento futuro, per qualunque x, si-
gnifica formulare sempre, per x e per non–x, una proposizione falsa. È im-
portante sottolineare che Scoto non parla di incertezza, meno che mai di
probabilità, nozione del tutto confusa nel Medioevo: avrebbe potuto co-
munque parlare su un registro epistemologico, ma sceglie di non farlo e
parla della previsione nella sua struttura più elementare e intuitiva, quella
per cui una previsione è vera se il fatto previsto si realizzerà (con supposi-
zione implicita di un nesso causale). Questo rende conto dell‟apparente contro-
intuitività di questa tesi per cui tutte le proposizioni che pretendono esprimere
delle previsioni per un momento futuro sono false: Scoto non si lancia in una
implausibile fenomenologia dell‟esperienza umana – gli uomini effettuano
previsioni da sempre per ottenere dei vantaggi (esempio standard, le tecni-
che agricole) –, egli sta invece asserendo intorno al reame ontologico10.
Importante è che una proposizione relativa al futuro non sia detta sem-
plicemente né–vera–né–falsa, ossia indeterminata (il che è opinione piut-
tosto diffusa e conforme al De interpretatione aristotelico: priva di valore di
verità oggi, per esempio perché non denotante); essa non è neppure vera–
e–falsa, perché solo Dio onnisciente può conoscere così la verità formaliter,
prima che gli stati di cose accadono dopo il suo atto creatore e le azioni de-
gli agenti liberi nel mondo attuale; essa è invece falsa per noi esseri umani,
che non abbiamo conoscenza della verità formaliter, perché indeterminato è
il fatto che accada o meno lo stato di cose che la rende vera, ossia non può
esistere ora lo stato di cose rispetto al quale essa sia identica, quindi vera, e
perciò è falsa. Parimenti, per la stessa ragione ontologica, essa è vera–e–
falsa per Dio, perché si dà in qualche mondo possibile come reale il conte-
nuto A della previsione, mentre in qualche altro mondo possibile si dà co-
me reale la negazione del contenuto A della previsione, da cui la verità–e–
falsità della previsione per tutti i mondi possibili. Quando il contenuto della
10 Per una penetrante analisi epistemica del fenomeno della previsione (e della teoria della
previsione che ammette la predeterminazione, con riduzione del mondo a rete di nessi causali)
rimando a N. RESCHER, Predicting the Future, New York, State University of New York Press,
1998, pp. 69-82, 113-156.
Concetti universali senza rappresentazione 165
previsione si dà nel mondo attuale, per intervento della volontà divina e/o
per intervento della volontà di un agente libero e/o per successive regola-
rità naturali, constatare che lo stato di cose A si dà o non si dà non sarà più
una previsione, bensì una constatazione. Allora si potrà dire che in un mo-
mento preciso del mondo attuale si dà C (esistente) e in altri mondi pos-
sibili la sua negazione non-C (reale). Per ogni proposizione che enuncia una
predizione che pretende di essere descrittiva – oggi, al momento della sua
enunciazione – dei fatti denotati, quindi di possedere una qualità che non
sia meramente ipotetica, ebbene essa è falsa. In forza della radicale contin-
genza del Mondo Creato (si badi, tale contingenza vi è immessa da Dio e
da ogni essere umano tramite la sua libertà della volontà), e in forza del-
l‟idea che le proposizioni linguistiche sono strettamente collegate all‟onto-
logia del mondo, la verofunzionalità deve essere compatibile con l‟idea che
quando Q sta avvenendo, ¬Q è completamente possibile – dunque, la pre-
visione „Io sarò bianco in A‟ è falsa, ed anche la previsione a contenuto con-
trario „Io sarò non-bianco in A‟ è falsa: le due messe insieme, a formare una
contraddizione lessicale, sono banalmente false per la congiunzione di due
falsità (e non perché la congiunzione di vero e falso produce la falsità: il
punto è di rilievo, e segue dalla limitazione della bivalenza). Neppure Dio
può sapere, prima che la sua volontà, anzi che la sua volizione, determini Q,
che Q esisterà (può solo sapere che è compossibile con altri R); ma questo è
moltissimo, perché Dio accede alla totalità dei mondi possibili reali, dotati
della proprietà relazionale della compossibilità, e perché la Sua volontà è ge-
rarchicamente sovraordinata ad ogni volontà libera creata, e se Dio vuole A,
A è, a dispetto di qualunque legge e principio che l‟uomo possa inventarsi (se
Dio ha un limite, non può essere A, ma solo A e assolutamente non–A).
Ecco che al n. 5 Scoto considera che, se invece la proposizione relativa al
futuro si predica solo relativamente allo stato di cose futuro e indeterminato,
senza nessuna predicazione intorno a ciò che esiste ora (in quanto principio
di esistenza attuale per A, altrimenti detto in quanto premessa causale),
allora il principio di bivalenza ritorna per noi esseri umani ed è indeterminate
vero o falso che A (un solo stato di cose esisterà nel nostro mondo attuale,
rispetto alla presenza o assenza di A). Se si depone ogni impegno ontologico,
se si rinuncia ad ogni funzione di rappresentazione della proposizione, la bi-
valenza resta un puro ente di ragione a contenuto predittivo nullo, dato che
la si può rendere con la banalità „o c‟è qualcosa oppure niente‟: il principio è
valido ma da esso non si può dedurre nulla, in forza della nozione di impli-
cazione rilevante, dato che il suo contenuto ontologico è nullo.
166 Luca Parisoli
3.2. Il paradosso del mentitore: per Scoto, simpliciter falso, secundum quid vero,
quindi vero-e-falso
Per riprendere le parole di Scoto, «circa hoc enunciabile, ego dico fal-
sum, est veritas et falsitas, sed veritas secundum quid, et falsitas simpli-
citer» (n. 2, =76). Ora, quello che è cruciale è comprendere il rapporto
tra questi due livelli, che possono essere banalizzati facendoli collassare sul-
la distinzione tra uso e menzione, oppure intesi in una prospettiva para-
consistente. In questa direzione può essere utile rammentare una passaggio
dei Reportata parisiensia11 dove Scoto replica all‟osservazione secondo cui
ciò che è causato, prima di esserlo, è in atto o in potenza, quindi ha una
modalità di essere in qualche misura co-eterna a Dio: emerge qui un‟onto-
logia delle espressioni secundum quid e simpliciter che le caratterizza come
segni concorrenti degli stati di cose, e non già meri punti di vista sul reale.
Il successivo n. 3 della risoluzione del paradosso del Mentitore intro-
duce una precisazione fondamentale tramite la sottolineatura della rilevan-
za dell‟implicazione – «Ego dico falsum; ergo verum est me dicere falsum,
dico quod consequentia non valet formaliter. Sicut non sequitur Homo est
animal, ergo verum est dicere hominem esse animal, et tamen in actu exer-
cito in antecedente includitur consequens» – ricompare l‟espressione «for-
maliter», che sembra proprio essere una nozione unitaria rispetto alle due
precedenti prospettive, «simpliciter» e «secundum quid» messe insieme,
dato che la verità «secundum quid» già asserita poco sopra (per la quale
premessa e conseguenza parrebbero essere vere) non può essere asserita
«formaliter». L‟esempio mostra che l‟ego di «ego dico falsum» che Scoto
considera non è l‟Io contingente che enuncia la proposizione, bensì l‟Io co-
me indicatore autoreferenziale dell‟enunciante. Ciò che si può asserire è
solo che qualcuno dice il falso, che qualcuno dice che l‟uomo è un animale,
a meno che non si sia escluso un valore esistenziale delle proposizioni in
esame. Sebbene sia vero che «l‟uomo è un animale», e sebbene sia vero che
«è vero dire che l‟uomo è un animale», non c‟è implicazione dal primo al
secondo, nonostante che si possa affermare che la conseguenza è contenuta
nella premessa. Ecco che la nozione di implicazione rilevante gioca il suo
ruolo di sbarrare il passo all‟antinomia: è vero secundum quid «Io dico il
falso», ma non ne segue che sia vero «è vero che io dico il falso» – infatti,
simpliciter «è falso che io dico il falso». I due aspetti secondo cui predicare il
valore di verità sono tali che devono essere contemporaneamente sod-
disfatti per parlare di implicazione valida, e nel caso in esame non possono
esserlo. L‟enunciato «Io dico il falso, quindi è [valore di verità] che dico il
falso» rinvia a un concetto che non è mai soddisfacibile formaliter, semmai
11 Reportata parisiensia, II, d. 1, q. 2, n. 14.
168 Luca Parisoli
3.3. Il principio di Esplosione è falso: per lo Scotista, vale solo per le proposizioni
relativi alle formalitates, altrimenti dal falso non segue qualunque cosa
Nella stessa questione che abbiamo già citato per una teoria rilevante del-
la logica nello Pseudo-Scoto, è illustrato quello che è passato nella storia del pen-
siero logico come il principio ex falso sequitur quodlibet, rinominato da Priest
principio di Esplosione – il principio fa esplodere la verità dalla contrad-
dizione, dato che ammessa una contraddizione ogni proposizione diventa ve-
ra (incluse tutte le contraddizioni). E qui si cela quella che io considero un tra-
visamento radicale, ripetuto dagli stessi partigiani della paraconsistenza; il pun-
to è che lo Pseudo-Scoto – lo Scotista –, passato alla storia quale partigiano
del principio di Esplosione, ne è in realtà uno dei più sottili critici. Basta pren-
dere sul serio quello che scrive: l‟aggettivo „formale‟ spesso al declino della Sco-
lastica è stato considerato come un inutile pleonasmo e opposto alla realtà,
ma non è così a meno che non si voglia liquidare i formalisantes. Le formalitates,
oggetto metafisico di non agevole interpretazione, mi pare che non appar-
tengono affatto al dominio della psicologia, anzi: esse denotano un livello di
realtà, mi azzarderei a pensarle come un universale ante rem.
Può essere utile ricordare per comprendere quest‟ultima idea che si dà
una particolare strategia scotiana che consiste nel distinguere tra ordini di
unità, tali che la pluralità di un ordine rinvia all‟unità di un altro ordine.
L‟unità dell‟oggetto universale è tale che la somma dell'oggetto universale
presente in questo individuo-qui e dell‟oggetto universale presente in quel-
170 Luca Parisoli
logica. Mentre nel nostro mondo attuale le cose che possiamo distinguere
possono essere dette più o meno simili, ma non identiche, nella totalità dei
mondi possibili si danno cose identiche e distinguibili. In questa prospettiva,
la leibniziana indiscernibilità degli identici è prima facie rifiutata (si danno
cose identiche – realmente – che sono distinguibili in quanto diverse – for-
malmente), a meno che non si introduca nella formulazione di questa legge
leibniziana una distinzione capitale.
Si tratta della distinzione tra una identità formale, per cui essa conti-
nuerebbe ad essere valida (due cose formalmente identiche saranno anche
non-distinguibili, dato che sono una sola), e una identità reale, per cui in-
vece essa non sarebbe più valida. È importante tenere a mente che per Sco-
to l‟astratto e il concreto differiscono solo nel modo di significare, tanto
che può formulare l‟esempio di paragone tra „Socrate correrà‟, che potreb-
be essere vera sebbene in questo momento Socrate non corre, e „la bian-
chezza è‟, che è vera anche se in questo momento nessun oggetto è bianco.
Lo stesso ragionamento vale per l‟altra legge di Leibniz, il cosiddetto
principio dell‟identità degli indiscernibili12, e che valeva nel quadro leibni-
ziano di una concezione dei mondi possibili che oscilla tra nominalismo e
concettualismo, ma è stata criticata nel quadro della filosofia contempo-
ranea13: se questa identità degli indiscernibili la si limita alle proprietà reali,
allora si lasciano da parte le proprietà formali, ossia una fetta consistente
del mondo ontologico e la distinzione formale perderebbe il suo senso (ciò
che non è distinguibile reciprocamente è identico, e viceversa). Dall‟indi-
scernibilità delle proprietà reali, ossia per ogni proprietà del primo oggetto
essa inerisce anche al secondo, si può concludere la loro identità reale, ma
non la loro identità tout court o in senso stretto. La prospettiva di Scoto
concepisce l‟haecceitas come una speciale proprietà disgiuntiva, che fa par-
tecipare l‟universale nell‟individuo senza ridurre l‟individualità ad un fascio
di universali.
12 Come nota D. WIGGINS (Sameness and Substance Renewed, Cambridge, CUP, 2001, p. 27)
si danno due leggi di Leibniz, la prima nota come la Legge di Leibniz per eccellenza, ossia
l‟indiscernibilità degli identici (peraltro già nota ad ARISTOTELE, Elenchi Sofistici I, 79 a37), e la
sua reciproca, ossia l‟identità degli indiscernibili. Entrambe sembrano procedere, e questo
giustifica l‟uso per cui le si considerano quasi-equivalenti, dalla formulazione leibniziana eadem
sunt quorum unum alteri substitui potest.
13 Nel XX secolo l‟argomento più noto è quello di M. BLACK, “The Identity of Indiscerni-
bles”, Mind 61 (1952), pp. 153-164; in seguito hanno rifiutato l‟identità degli indiscernibili e
la corrispettiva (ma non equivalente) indiscernibilità degli identici P. GEACH, Logic Matters,
Berkeley, University of California Press, 1972, e Reference and Generality, Ithaca, Cornell Uni-
versity Press, 19803 (seconda edizione corretta 1968), e P. GRICE, Studies in the Way of Words,
Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1981; ID., Aspects of Reason, Oxford, OUP, 2001.
172 Luca Parisoli
(relativo a ciò che esiste, relativo alla creazione divina): nulla si dice in me-
rito al fatto che per le proposizioni materiali valga il principio ex falso sequi-
tur quodlibet (ossia, non è vero che se è un oggetto, esiste, e , al-
lora per qualunque che è un oggetto e esiste, ). Detto principio
vale solo per le proposizioni formali, quindi si può affermare che dalla Su-
per–Contraddizione discende qualunque proposizione, dalla piccola–con-
traddizione no. Il principio di Esplosione nella sua interpretazione standard
non è un principio dello Scotista, dato che egli si limita ad asserire che se a)
è necessario che (in ogni mondo possibile), e b) è necessario che (in
ogni mondo possibile), allora c) tutto è necessario. Si tratta di una strategia
logica per affermare che Dio non può creare una Super–Contraddizione
(Egli non può creare un cerchio quadrato, mentre può pensare un cerchio
quadrato), dato che si arriverebbe alla triviale situazione in cui „tutto è ve-
ro‟, che è connesso all‟idea che tutto sia identico a tutto, perché il dato on-
tologico che pone una differenza tra reale e irreale verrebbe ad essere vani-
ficato. Saremmo quindi di fronte ad una vera e propria catastrofe ontolo-
gica, in cui non solo l‟insieme dell‟esistente sarebbe indeterminato, ma an-
che l‟inseme del reale, tanto che la stessa idea per cui Dio è un essere ne-
cessariamente reale e presente in ogni mondo possibile (quindi, reale–e–
esistente) collasserebbe nella sua super–contraddittoria per cui l‟assenza as-
soluta di Dio si dà necessariamente in ogni mondo possibile.
SANDRA PLASTINA
La sospensione delle differenze.
Scetticismo, immaginazione e questioni di genere a partire dai
Saggi di Montaigne
Tra la fine del ‟500 e i primi decenni del ‟600 il tentativo di dare una diver-
sa definizione della donna e della natura delle differenze di genere rappre-
senta, pur tra molti ostacoli e contraddizioni, una componente non trascu-
rabile della riforma del sapere, promossa dalla stagione rinascimentale. Il di-
battito sui meriti morali e sulle capacità intellettuali delle donne, noto come
Querelle des sexes, che animò la vita intellettuale, soprattutto in Francia, op-
pose detrattori ed apologeti del sesso femminile, generando per tutto il Cin-
quecento una abbondante fioritura di invettive e panegirici. Attaccare le don-
ne o difenderle in nome del merito e delle qualità diventò in quegli anni una
sorta di luogo comune1. Le opere che si occupano della questione e discuto-
no argomenti filoginici si presentano spesso con i caratteri propri della pole-
mica, esemplificando generalmente le strategie e le tecniche argomentative
raccomandate nei manuali di retorica. Per alcuni aspetti, infatti, i testi fem-
ministi del Rinascimento rappresentano una estensione e un‟amplificazione
della tardomedievale querelle des femmes2, la cui pratica politica «fu uno sforzo
enorme da parte di uomini e di donne colte per rendere dicibile le relazioni
tra i sessi […] e per questo enorme sforzo nel mettere in parole, per dire
qualcosa di nuovo, la Querelle è stata a volte definita un dibattito letterario»3.
La nozione di Querelle porta alla luce la rilevanza dei temi affrontati nella
„questione femminile‟, e pur tenendo comunque conto che «early modern
feminism was a literary genre rather than a definite philosophical current»4,
essa evoca il conflitto e la polemica e in tal modo è stata interpretata dalla
storiografia femminista e non, durante il XX secolo5. Molte delle opere sul-
1Cf. M. LAZARD, Images littéraries de la femme à la Renaissance, Paris, PUF, 1985, pp. 12-13.
2C. JORDAN in Renaissance Feminism. Literary Texts and Political Models, Ithaca, Cornell Uni-
versity Press, 1990, p. 122, utilizza il termine «femminismo» in relazione al pensiero del Ri-
nascimento affiancandogli l‟uso dell‟espressione pro-woman argument, meno connotata storica-
mente: «I use the term „feminism‟ very broadly to refer to any theoretical writing aimed at
advancing the cause of women with or without a call for radical social change».
3 C. DE PIZAN, Una città per sé, a cura di P. Caraffi, Roma, Carocci, 2003, pp. 88-90.
4 Cf. S. STUURMAN, François Poulain de la Barre and the Invention of Modern Equality, Cam-
bridge (Ma), Harvard University Press, 2004, p. 53.
5 La tesi sostenuta negli anni ‟80 da J. KELLY-GADOL in Did Women Have a Renaissance?
(Women, History and Theory: The Essays of Joan Kelly), Chicago, University of Chicago Press,
1986 (ripubblicato in L. HUTSON (ed.), Feminism and Renaissance Studies, Oxford, OUP, 1999,
pp. 21-47), che le donne non ebbero un Rinascimento, ha un‟indubbia evidenza storica. Il
saggio si pone criticamente nei confronti dell‟interpretazione di J. Burckhardt che ne La civiltà
del Rinascimento in Italia scriveva che, tra ‟400 e ‟500, lo stesso sviluppo intellettuale ed emo-
tivo teso al perfezionamento dell‟uomo avrebbe riguardato anche la donna, la cui emancipa-
zione non si poneva come questione dal momento che sarebbe scaturita come naturale conse-
guenza dalla nuova idea di individuo che si andava affermando. Nel ‟900 gli studiosi del Rina-
scimento hanno continuato, nella maggior parte, a seguire la visione di Burckhardt, nono-
stante che Virginia Woolf in una Stanza tutta per se (1928), scrivendo a proposito del Rinasci-
mento inglese, non avesse mancato di notare che la donna, così presente nella letteratura
dell‟età di Shakespeare – tanto che «some of the most inspired words, some of the most
profound thoughts in literature fall from her lips» –, era assente dalla storia, e nella vita reale
molto difficilmente poteva imparare a leggere, tantomeno studiare e possedere beni.
6 Il collegamento tra recupero del diritto romano e sviluppo della Querelle, ad esempio, è
stato giustamente messo in rilievo da Patrizia Caraffi dal momento che segna l‟ingresso del
linguaggio del diritto nel vocabolario della politica e della storia delle donne in Europa. Sulla
maggiore consapevolezza acquisita dalle donne riguardo alla loro condizione tra ‟500 e ‟600 si
leggano le pagine di I. MACLEAN, The Renaissance Concept of Woman. A study in the fortunes of
scholasticism and medical science in European intellectual life, Cambridge, CUP, 1987, p. 91: «in
France, in England, in Itay, in Germany, in Holland, anti-femminist texts provoke vigorous
replies which often reflect the new aspects of the notion of woman discussed above. The
writers of these replies are not only men, women also defend their own cause. In many of
their works may be detected an awareness of their subjection which previously had not re-
ceived anything more than sporadic literary expression».
176 Sandra Plastina
donne che prendono la parola per difendere la loro causa. Le qualità e i me-
riti che le si riconoscono, e a partire dai quali si tenta di riconsiderarne la
funzione sociale e culturale (non solo dentro la famiglia), aprono alla donna
porte che finora le erano rimaste sbarrate o scarsamente accessibili, innanzi-
tutto quelle delle biblioteche. L‟istruzione diventa il tema centrale, si det-
tano per lei le «instituzioni», vengono scelti e consigliati quegli auctores con-
facenti alla sua natura e ai compiti che è chiamata a svolgere. Le «instituzio-
ni» come genere hanno il loro insigne iniziatore in Erasmo da Rotterdam,
nei cui scritti l‟apologia della donna procede di pari passo con la riconsidera-
zione dell‟istituto del matrimonio, come leggiamo nei Colloquia e nell’Institu-
tio Cristiani matrimonii (1526)7. Ad Agrippa di Nettesheim va riconosciuto il
merito di considerare il problema dell‟inferiorità della donna non sul piano
della natura ma su quello delle sovrastrutture culturali, di individuare i limiti
nella consuetudine e nelle leggi: «contra la divina giustizia e contra gli ordini
della natura, essendo superiore la licentiosa tirannia de gli uomini, la libertà
data alle donne è loro dalle inique leggi interdetta, dalla consuetudine e dal-
l‟uso impedita e dalla educazione totalmente estinta»8.
Proprio in virtù di queste considerazioni generali ci pare interessante sof-
fermarci sulle forme di reazione e di protesta ai modelli tradizionalmente ac-
cettati che si sviluppano nell‟ambito del dibattito culturale del Cinquecento.
Interventi che si possono leggere come proteste nei confronti del diffuso pre-
giudizio misogino, basato sull‟inferiorità della donna secondo la legge natura-
le e divina e contro la pratica sociale che riguarda soprattutto l‟educazione,
l‟istituto del matrimonio, il diritto ad ereditare. Il queste pagine proveremo
ad analizzare il rapporto tra la discussione di argomenti a favore della donna
e l‟affermarsi di posizioni scettiche nel dibattito tardo cinquecentesco. Non è
certo un caso che due dei più quotati protagonisti della Querelle ebbero forti
legami con lo scetticismo. Il rifiuto da parte di Cornelio Agrippa degli assunti
aristotelici riguardo alla superiorità morale e intellettuale degli uomini nei
confronti delle donne espresso con vigore nel De nobilitate et praecellentia
foeminei sexus (1529), anticipa la dura condanna delle pretese conoscitive della
scolastica contenuta nel suo De incertitudine et vanitate scientiarum (1530) 9 .
7 Le «institutioni» che riguardano le donne trovano un illustre prototipo nel Dialogo del-
l’Institution delle donne di Lodovico Dolce (Venetia, 1545). Su questo tema cf. A.D. COUSINS,
“Humanism, Female Education, and Myth: Erasmus, Vives, and More‟s To Candidus”, Jour-
nal of the History of Ideas 65 (2004) 2, pp. 213-230.
8 C. AGRIPPA, Della nobiltà et eccellenza delle donne dalla lingua francese nella italiana tradotto,
con una oratione di M. Alessandro Piccolomini in lode delle medesime, Vinegia, appresso Giolito,
1549, 27r.
9 A. RABIL JR., Agrippa and the Feminist Tradition, Introduction to H.C. AGRIPPA, Declama-
La sospensione delle differenze 177
Scetticismo e demistificazione
Cornelio Agrippa riscosse una grande fortuna all‟interno del dibattito sul-
la donna: sull‟importanza della sua opera che celebra la nobiltà e l‟eccellenza
del sesso femminile (pubblicata nel 1529 e nel 1532 a cura dell‟autore, a cui
seguirono numerose edizioni e traduzioni in francese, inglese, italiano ed
olandese), hanno insistito recentemente molti studiosi. Pur riconoscendo gli
aspetti retorici e letterari del De nobilitate, gli interpreti hanno messo in luce
la serietà delle intenzioni dell‟autore, arrivando a considerarlo un trattato
teologico in cui l‟autore offre la sua personale interpretazione del libro della
Genesi. Agrippa individua la radice dell‟«occasione tirannica», che sta alla
base del modello istituzionale che ha escluso le donne, nella interpretazione
gerarchica e autoritaria del messaggio cristiano. «Nell‟intricato meccanismo
di ricomposizione e riscrittura dei motivi più tradizionali, l‟apologia della
donna diventa occasionalmente lo strumento per mettere in discussione il
modello culturale contemporaneo e demistificarne i fondamenti gerarchici e
autoritari»11. Il filosofo colloca l‟eulogia del sesso femminile nell‟ambito del-
la ininterrotta battaglia contro la teologia scolastica che egli condusse per la
fondazione di una nuova teologia erasmiana, un modello di vita che pone al
proprio centro il principio rivoluzionario dell‟ideologia cristiana, quello del-
l‟uguaglianza. In ciò risiede il messaggio sovversivo, eretico del De nobilitate.
Si presentavano al dibattito cinquecentesco sull‟argomento antiche questioni
teologiche. Profondamente radicata nel pensiero religioso, la misoginia aveva
trovato nella riscoperta del pensiero antico un‟autorevole conferma, una vi-
tion on the Nobility and Preeminence of the female Sex, Chicago and London, University of Chica-
go Press, 1996.
10 Nella Histoire du féminisme francais du moyen age à nos jours, Paris, Des Femmes, 1977, p.
118, M. ALBISTUR e D. ARMOGATHE includono i Saggi di Montaigne tra i capisaldi letterari
della Querelle des femmes. Di recente l‟attenzione delle studiose e degli studiosi si è focalizzata
sulla figura di de Gournay, considerata nella sua complessità e autonomia, e non solo ricor-
data come curatrice dell‟edizione degli Essais del 1595 e delle successive fino al 1635.
11 V. PERRONE COMPAGNI, “Retorica e teologia nel “De nobilitate foeminei sexus” di
Agrippa”, Bruniana & Campanelliana 12 (2006) 1, pp. 59-80, spec. 62.
178 Sandra Plastina
Nel ben noto capitolo dedicato alla forza dell‟immaginazione (I, XXI),
Montaigne presenta l‟imagination nel suo legame con la volontà, accentuan-
done i nessi con le potenzialità dell‟uomo: proprio per le caratteristiche che
tradizionalmente le sono attribuite di facoltà intermedia tra sensibilità e in-
telletto, oggetto e soggetto, particolare e universale, se ne pongono in risalto
la sua capacità di azione e il suo carattere anticipatorio e materializzante19.
Per il filosofo francese la vis immaginativa, come dimostra per lunghi tratti
l‟Apologie, deve trovare e adottare un metodo che solo potrà consentire un
uso legittimo e quindi costruttivo dell‟immaginazione, eliminando i danni pro-
dotti dal suo abuso o anche dal non uso di una facoltà che, se abbandonata a
se stessa, dà luogo a molteplici errori che vanno a confondersi con quelli pro-
dotti dall‟uso erroneo dell‟intelletto. Montaigne istituisce un gioco continuo
di rimandi speculari tra i prodotti dell‟immaginazione e i prodotti dell‟intel-
letto, tra l‟immaginazione e la costruzione della ragione. Gli atti interni sono
17 Molte recenti ricerche hanno contribuito a chiarire le posizioni scettiche del filosofo
francese, tra gli altri si rinvia a S. GIOCANTI, Penser l’irrésolution: Montaigne, Pascal, La Mother le
Vayer. Trois itinéraires sceptiques, Paris, Champion, 2001; V. CARRAUD, J.L. MARION (eds.),
Montaigne: scepticism, métaphysique, théologie, Paris, PUF, 2004, M.-L. DEMONET, A. LEGROS
(eds.), L’écriture du scepticisme chez Montaigne, Genève, Droz, 2004.
18 Cf. M. DE MONTAIGNE, L’immaginazione, a cura di N. Panichi, Firenze, Olschki, 2000,
pp. XV-XVI.
19 Cf. ROBERT KLEIN, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bru-
no, in ID., La forma e l’intellegibile, Torino, Einaudi, 1970, p. 45.
La sospensione delle differenze 181
lisi il filosofo insiste sul fallimento della volontà e mette in risalto quanto sia-
no vulnerabili i presupposti da cui la ricerca stoica prende le mosse per la
realizzazione di un maschile virtuoso. L‟erotizzazione del contagio («son im-
pression me perce», «je le couche en moy») anticipa il tema centrale di I, 21:
la sessualità. Montaigne dedica la maggior parte del saggio al racconto degli
aneddoti che concernono l‟impotenza della volontà messa a confronto con le
impotenze della sessualità. Non tutti gli effetti dell‟immaginazione, comun-
que, sono indesiderati. Il filosofo evoca gli effetti, non voluti, ma fortunati di
una immaginazione indomita, incluse le esplosioni notturne e i cambiamenti
di sesso. Grazie alla vis imaginativa Lucio Cossinzio, secondo la testimonianza
di Plinio (Historia naturalis, 7, 36) si trasforma in un uomo il giorno delle
nozze e grazie al veemente desiderio suo e della madre, Iphis appaga i voti
segretamente espressi. Il filosofo riferisce la ben nota storia raccontata da
Ovidio (Metamorfosi, IX, 794) di Iphis, la ragazza travestita dalla madre da uo-
mo, per sfuggire alla violenza del padre, che nel giorno del suo matrimonio
diventa effettivamente un uomo grazie al forte desiderio provato per la sua
promessa sposa. Dopo parecchi altri tributi alla forza dell‟immaginazione il
filosofo affronta l‟unico argomento che venga svolto con una certa ampiezza
in tutto il saggio: l‟impotenza e il potere che l‟immaginazione e le donne
hanno di provocarla. L‟angoscia maschile circa i rischi della femminilizzazio-
ne, o l‟acquisizione di tratti virili da parte delle donne, trovava di che ali-
mentarsi nella storia di Marie Germain e della sua metamorfosi: ex ragazza
di nome Marie, per sua stessa ammissione, saltando con troppo sforzo si pro-
cura la nascita del membro. Un desiderio ardente e ossessivo, commenta Mon-
taigne, ha spinto l‟immaginazione a incorporare, una volta per tutte, la parte
virile nel gentil sesso. I comportamenti impropri paiono capaci di causare un
vero e proprio cambiamento di sesso. Come lo stesso Montaigne aveva potu-
to leggere nei resoconti Ambroise Paré, il chirurgo di Carlo IX, Marie, era
stata condotta dai «movimenti bruschi e violenti», o da altre attività virili, al
cambiamento di sesso. Nella storia di Paré, ripresa da Montaigne, i movi-
menti violenti hanno un ruolo causale: il medico offre una spiegazione, inte-
ramente naturalistica, della trasformazione di Marie: il fatto è che «le donne
hanno celato nel corpo tutto ciò che gli uomini hanno esposto all‟esterno,
eccettuato soltanto che le donne non hanno altrettanto calore, né la capacità
di spingere al di fuori ciò che la freddezza del loro temperamento trattiene
all‟interno»22. Qualunque cosa il filosofo pensi sia realmente avvenuta alla
ragazza che aveva saltato la siepe, la sua esposizione decisamente non ce lo
22 T. LAQUER, L’identità sessuale dai Greci a Freud, Bari, Laterza, 1992, p. 169.
La sospensione delle differenze 183
che Laquer descrive non esiste nessun sesso „reale‟ che fondi e distingua su
un terreno di principio, in maniera riduzionistica, due generi. Il genere è
parte dell‟ordine delle cose e il sesso, seppure non interamente convenzio-
nale, non ha neppure la solidità di una realtà fisico-corporea25. Le differenze
sessuali non possono essere considerate delle entità garantite e individuate
indubitabilmente. Nel saggio Degli zoppi (III, 11), Montaigne applica diret-
tamente il modo scettico di ragionamento circolare, o rinvio ad infinitum26,
per decostruire l‟identità di genere. Il genere svuotato di essenza, l‟operazio-
ne, che, seguendo le riflessioni di Rebecca Wilkin, abbiamo indicato come la
sospensione delle differenze27, offre un‟occasione per la sospensione del giu-
dizio. Tra i saggi che si occupano dell‟immaginazione il Des boyteux ribadisce
la condizione per natura zoppicante dell‟intelletto: zoppa per eccellenza è la
ragione umana nella sua funzione claudicante di strumento giudicante. Il sag-
gio è un‟imponente costruzione retorica che, al di là del riferimento erotico
finale («lo zoppo lo fa meglio», ripreso dagli Adagia di Erasmo, che a sua
volta lo trae da uno dei Problemata aristotelici) che Montaigne registra come
pregiudizio in cui lui stesso dice di essere caduto, ribadisce la natura clau-
dicante dell‟intelletto. Tralasciano spesso i fatti ma esaminano attentamente
le conseguenze: «Si comincia di solito così: „Come avviene questo?‟ – „Ma
avviene? Bisognerebbe dire»28. Per illustrare la predilezione degli uomini per
la ricerca delle cause, il filosofo glossa un proverbio italiano: non conosce
Venere nella sua perfetta dolcezza chi non è andato a letto con la zoppa. Mon-
taigne enumera varie spiegazioni fisiologiche fornite dagli specialisti: questi
esempi servono la causa di ciò che si diceva all‟inizio: che i nostri ragiona-
menti anticipano spesso i fatti, e l‟estensione della loro giurisdizione è così
infinita che giudicano e si esercitano sulla vacuità stessa e sul non-essere. Ol-
tre alla duttilità della nostra capacità inventiva nel trovare giustificazioni a
ogni sorta di sogni, la nostra immaginazione si trova nelle condizioni favo-
revoli di ricevere idee da apparenze fallaci. Commentando un proverbio po-
polare come una verità supportata da un assenso universale, Montaigne col-
pisce al cuore il dogmatismo di Bodin, molto probabilmente non solo riguar-
do alla dura condanna della stregoneria nella Demonomanie des sorciers («le
streghe dei miei dintorni corrono il rischio di morire per l‟opinione di
qualche nuovo autore che vuol dar corpo alle loro fantasie»29), ma anche per
le opinioni espresse ne Les Six livres de la République, riguardo alla sottomis-
sione della donna, iscritta nella natura delle cose e riaffermata a garanzia del-
l‟ordine sociale e politico, nel rispetto dei rapporti di forza. L‟assunto della
naturale subordinazione della donna all‟uomo maschera la circolarità di un
sistema di pensiero auto referenziale che si vede ribaltato nella storia delle
Amazzoni raccontata nel saggio Degli Zoppi. Montaigne riporta dagli Adagia
di Erasmo (III, 9, 49) il proverbio «lo zoppo lo fa meglio», e precisa che lo si
dice tanto dei maschi che delle femmine. Infatti l‟affermazione ha a che fare
con la risposta data dalla regina delle Amazzoni allo Scita che la invitava al-
l‟amore: «lo zoppo lo fa meglio di tutti». In quello stato al femminile, le
donne, per sottrarsi al loro dominio, storpiavano i maschi sin dall‟infanzia,
braccia, gambe e altre membra che davano loro superiorità su di esse. E si
servivano di loro unicamente per quello di cui noi ce ne serviamo qui. Sesto
Empirico negli Hipotyposeon libri III, rifacendosi ad Erodoto (IV, 114), raccon-
ta che le Amazzoni azzoppavano i loro maschi, affinché non potessero fare
nulla di virile, e delle guerre si occupavano esse stesse, «mentre presso di noi
si crede che stia bene il contrario»30. Non si tratta dunque di stigmatizzare la
barbarie delle Amazzoni ma piuttosto di focalizzare l‟attenzione sul fatto che
«qui, presso di noi» si adopera la stessa violenza istituzionalizzata, eccetto
che i termini della gerarchia sono invertiti. All‟apice del matriarcato, come
nella società patriarcale, il dominio di un sesso sull‟altro è una questione di
forza e di potere. In un‟ottica di decostruzione del genere la „virilità‟ è sem-
plicemente la posizione dominante che si occupa in società, e grazie all‟uso
della violenza anche le donne possono essere maschili se provviste di suf-
ficiente potere per mantenere il loro predominio.
Scetticismo e uguaglianza
Il segreto di un pensatore come Montaigne, pensatore di un epoca di
passaggio, è quello di far posto, nel vuoto aperto dal dubbio e dalla critica,
non a nuovi fondamenti per nuove costruzioni come farà Cartesio, ma al
fiorire di una libertà spirituale che si alimenta del senso della fragilità senza
rimedio della «natura umana»31. La grande forza degli Essais è provata dalla
29 Ivi, pp. 1376-1377.
30 SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, cit., p. 172-173.
31 L. MURARO, Il dio delle donne, Milano, Mondadori, 2003, p. 45. Le considerazioni di
186 Sandra Plastina
Montaigne sulla fragile natura umana, frutto dell‟insegnamento scettico, sono al centro del
contributo di C. LAMORE, “Montaigne. Uno scettico inquieto”, La società degli individui 33
(2008), pp. 142-158.
32 BENEDETTA CRAVERI, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.
33 M. DE MONTAIGNE, Saggi, cit., vol. 2, III, V, pp. 1133: «Le donne non hanno affatto
torto quando rifiutano le norme di vita che sono adottate nel mondo, tanto più che sono gli
uomini che le hanno fatte senza di loro» e ancora p. 1194: «dico che maschi e femmine sono
modellati nello stesso stampo: a parte l‟educazione e il costume, la differenza non è grande».
34 M. DE GOURNAY, Dell’uguaglianza degli uomini e delle donne, a cura di A.M. Barsella,
Genova, ECIG, 1996.
35 Sui rapporti tra Montaigne e de Gournay si veda Montaigne et Marie de Gournay, Actes
du Colloque international de Duke réunis et présentés par Marcel Tele, Paris, Champion,
1997, pp. 126 sgg. in cui si discute delle idee libertine dell‟autrice dell‟Apologia, grande amica
di La Mothe Le Vayer, che, secondo Pintard, teneva nel suo salotto «ècole de libertinage». Ed
inoltre su questi temi cf. G. CONTI ODORISIO, “Montaigne et M. de Gournay”, Il pensiero poli-
tico 22 (1989), pp. 227-247.
36 M. DE GOURNAY, Dell’uguaglianza, cit., p. 59: «Non c‟è maggior differenza tra gli uo-
mini e le donne, che tra loro e loro stesse, a seconda dell‟educazione che hanno avuta, del-
l‟esser state allevate in città o in campagna, o della Nazione di appartenenza? E perché la loro
istruzione o educazione alla vita attiva e alle Lettere al pari degli uomini non dovrebbe colma-
re il vuoto che appare solitamente tra le teste degli uomini e le loro, poiché l‟educazione è di
importanza tale che una sola delle sue branche, cioè il commercio del mondo, frequente per
le Francesi e le Inglesi, e scarso per le Italiane, fa sì che queste siano in generale di tanto supe-
rate da quelle?».
La sospensione delle differenze 187
far pensare alla questione filosofica che riguarda la legge di natura, non viene
sviluppata e la de Gournay non solo non inserisce le sue argomentazioni in
questa cornice teorica di riferimento, ma pare smentire l‟assunto di partenza.
È vero che la Natura si oppone sia alla superiorità che alla inferiorità: essa
non ci fornisce nessuna risposta e da essa dunque non possiamo trarre nes-
suna verità; per questo motivo il ricorso al tesoro di „sentenze‟ e l‟enumera-
zione di esempi illustri si sostituiscono all‟argomentazione razionale. Le au-
torità sacre e profane sono convocate per attestare una verità che fonda la sua
legittimità all‟interno di una lunga tradizione culturale. La filosofa rilegge
Platone, Aristotele, Cicerone, i Padri della Chiesa e riscopre l‟eredità cultu-
rale trasmessa dai compilatori e da commentatori come Pausania, Suida, Dio-
gene Laerzio, per riflettere sul posto occupato dalle donne nella vita attiva,
sulle loro attitudini intellettuali, sulle loro virtù morali e religiose. Più che
l‟elenco di donne illustri, che ritroviamo in tutte le opere di apologetica fem-
minile, la nuova esegesi, proposta nell‟Egalité, degli exempla più famosi, può
essere definita come una illustrazione e una conseguente difesa della ragione
femminile. La diversa interpretazione da parte dell‟autrice del passo delle
Scritture che riguarda la genesi dell‟uomo e della donna è di grande audacia,
non solo perché entra nel campo minato delle controversie teologiche, noto-
riamente interdetto alle donne, ma soprattutto perché trova un fondamento
„forte‟ alla nozione di uguaglianza, che sta alla base della sua opera. L‟Egalité,
al di là della sua forma retorica di stampo convenzionale, propone il ripensa-
mento radicale di un concetto essenziale del pensiero del Rinascimento e
contiene una originale riflessione filosofica. L‟interpretazione della Scrittura
che giustifica l‟esistenza di un ordine gerarchico tra i sessi, in nome della di-
gnitas hominis, è certamente da considerarsi «le plus grief des blasphèmes».
Le parole della Egalité devono tutta la loro forza e il loro senso all‟attacco
frontale sferrato contro coloro che «trompettent par les rues que les femmes
manquent de dignité». La novità più sorprendente sta proprio nell‟affrontare
il rapporto donna-religione, in cui con la massima semplicità de Gournay so-
stiene tesi rivoluzionarie. L‟uomo fu creato maschio e femmina e non la don-
na dalla costola di Adamo: nella tradizione cattolica dai Vangeli alle lettere di
Paolo, alle varie interpretazioni dei Padri della Chiesa esistono profonde di-
vergenze sull‟idea di donna. Coerentemente la filosofa, evita il riferimento al-
la tradizione aristotelico-tomista per andare alle fonti di un cristianesimo pri-
mitivo: rifacendosi ad esempio alle Omelie di San Basilio sostiene l‟uguaglian-
za della natura maschile e femminile, e il possesso per i due sessi delle stesse
virtù. La femmina nella stessa guisa che il maschio è stata fatta dal Creatore
La sospensione delle differenze 189
capace di virtù. Non siamo forse in tutto e per tutto costituite d‟una medesi-
ma stirpe, d‟una medesima materia che gli uomini? Le tesi più radicali sul-
l‟uguaglianza tra i sessi si trovano proprio nella discussione sulla predicazione
e sul sacerdozio Gournay infatti si confronta con due fatti indubitabili: l‟in-
giunzione che San Paolo rivolge alle donne di rimanere in silenzio in Chiesa e
la mascolinità di Cristo. Ma Marie ricorda che in molte comunità dell‟anti-
chità il sacerdozio era aperto ad entrambi i sessi: a tale proposito menziona la
maggiore autorità accordata alle donne nella Chiesa delle origini, in partico-
lare il loro ruolo nella somministrazione del sacramento del battesimo 38 .
Citando San Gerolamo, si può concludere che per ciò che attiene al servizio
divino, sono da tenere in conto la mente e la fede e non certo il sesso. L‟af-
fermazione non si presenta direttamente come una critica a San Paolo, ma
certo ne ha l‟apparenza: i suoi comandamenti alle donne sono da intendersi
come mere concessioni ai costumi e alle abitudini dell‟epoca39. Un uso fem-
minista e piuttosto audace della dottrina dell‟adattamento storico di alcuni
principi, che più tardi sarà radicalizzato e applicato da Poulain de la Barre.
Marie de Gournay assume una posizione molto decisa quando affronta il te-
ma dell‟autorità maschile: l‟inferiorità non è solo frutto della mancata istru-
zione o il risultato di un pregiudizio, ma nasce dal proposito di conservare
l‟autorità e di mantenere la pace tra i sessi, ponendo quello femminile in una
condizione di subordinazione. Si tratta cioè dell‟inizio della tesi dell‟oppres-
sione femminile. Anche l‟esclusione delle donne dalla somministrazione dei
sacramenti da parte dei Padri della Chiesa è spiegata dal loro pregiudizio ma-
schile e dal desiderio di assicurare al ruolo maschile “sempre di più” indiscus-
se prerogative. Come Montaigne nell‟Apologia, de Gournay ci invita a rive-
dere il concetto di dignità che non designa un valore assoluto ma la possibi-
lità che ciascun essere umano ha di andare verso la piena realizzazione di sé.
Le giuste azioni sono il frutto della stima e della considerazione di sé. Al cuo-
re del dibattito si trova naturalmente ancora la questione dell‟educazione
delle donne. Nella prima edizione del Proumenoir, la narrazione della morte
di Alinda è interrotta da una lunga digressione che affronta una questione
molto dibattuta dopo Christine de Pizan e durante tutto il XVI secolo: il rap-
porto tra donne e sapere. Con un chiaro riferimento a quanto affermato nei
Saggi (III, 5), Marie, la figlia adottiva di Montaigne, vuole dimostrare che la
prudenza e le altre virtù si acquisiscono con l‟esercizio del sapere e appren-
dendo la filosofia. La continenza, ad esempio, non è certo una virtù per na-
tura, ma si deve alla legge civile che conviene rispettare. Tutta la strategia ar-
gomentativa di de Gournay mette in luce l‟incoerenza della „barbarie del se-
colo‟: si pretende che le donne esercitino tutte quelle virtù da „guardiane dei
valori domestici‟, e nello stesso tempo sono interdette loro «le scienze, lo
studio della morale e della storia che solo permettono la vera prudenza e la
vera saggezza». È vero che l‟ideologia del Rinascimento si compiace delle
donne erudite e le considera come l‟ornamento e la testimonianza di una gran-
de cultura, come attesta l‟eulogia. La filosofa conduce un‟analisi lucida: ella
sa bene che la sua parola è una parola di donna e di donna colta, due buone
ragioni per non essere ascoltata. In un‟epoca in cui la cultura, l‟educazione,
l‟onestà non trovano più il loro posto, soppiantate dalla pedanteria dei sa-
vants e l‟ignoranza del bel mondo, l‟autrice dell‟Egalité misura tutta la singo-
larità della sua posizione: ben al di là della querelles des sexes, alla fine con lu-
cidità affronta la questione della legge e delle istituzioni. Il problema della edu-
cazione e le ragioni storiche della mancata istruzione delle donne sono alle ori-
gini di tutte le ingiustizie. Lo studio comparato delle differenti condizioni del-
le donne nelle varie nazioni europee e nelle diverse società civili permette di
rifiutare il concetto stesso di ineguaglianza naturale. L‟impegno di de Gour-
nay verso la causa delle donne va bene al di là delle dichiarazioni contenute
nell‟Egalité o del suo Grief des dames. L‟autrice contesta il principio di un mo-
dello normativo, l‟uomo superiore, la donna onesta, ecc., mettendo in discus-
sione le fondamenta stessa dell‟ideologia. Alla nozione di nobiltà naturale,
quella del sesso o del rango, sostituisce l‟idea di una dignità individuale che
spesso si conquista contro il costume e l‟opinione corrente. La differenza
non sarà più il marchio di una inferiorità e de Gournay, con i suoi temi, pro-
voca volontariamente il lettore. Sul piano delle idee il discorso femminista
non conosce mutazioni rilevanti: ancora alla fine del ‟600 gli argomenti so-
stanzialmente non cambiano, e gli autori continuano a sentire il bisogno di
dimostrare i meriti del sesso femminile, ma i problemi delle donne legati al-
l‟educazione e alla cultura sono considerati in un contesto più ampio e il ca-
rattere della discussione diventa più filosofico che polemico. L‟evoluzione
del genere si fa sentire soprattutto al livello delle voci che lo esprimono. Nei
primi decenni il discorso femminista si coglie nei trattati scolastici, pedanti e
metodici, che prendono la forma di discorsi, arringhe e apologie. Alla fine
La sospensione delle differenze 191
1 J.W. GOETHE, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, tr. it. di
S. Zecchi, Milano, Guanda, 2008, p. 146. Il presente lavoro nasce come rielaborazione di
una mia relazione di approfondimento del Seminario Dottorale “Feticismo e reificazione:
una indagine su due parole-chiave del pensiero critico moderno”, tenuto dal Prof. Virno
presso l‟Università della Calabria dal 28 al 30 maggio 2008.
2 P. VIRNO, Quando il verbo si fa carne, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
sul piano storico e sociale, il basilare modo di essere della reificazione. Possibilità privativa,
l‟alienazione; possibilità distorsiva, il feticismo» (ivi, p. 137). La reificazione, infatti, prima
e più che essere qualcosa “da realizzare”, costituisce la struttura dinamica stessa del sogget-
to umano in quanto autocosciente. Come figure filosofiche dell‟alienazione Virno indica
l‟ineffabilità dell‟io in Kant e l‟ironia teorizzata dai romantici (Schlegel e Solger), mentre
nella categoria di “oggetto semplice” di Russell vede un caso eclatante di feticismo.
4 Ivi, p. 136. Tramite un‟originale interpretazione del carattere proposizionale dell‟«Io
penso» kantiano, Virno giunge a identificare la radice dell‟autocoscienza nella natura perfor-
mativa dell‟atto linguistico: «l‟autocoscienza ha la forma e le prerogative di un enunciato
performativo. L‟Io puro, sottostante alle categorie a priori che organizzano il pensiero, non
è certamente una sostanza, ma neanche un presupposto ineffabile: esso consiste piuttosto
in un atto linguistico», che non può che essere «estrinseco, fenomenico, percettibile» (ivi,
132). Il tentativo del presente lavoro consiste invece nel proporre come principio dell‟at-
tuazione dell‟autocoscienza il carattere performativo (nel senso forte di creativo) della perce-
zione stessa – in quanto espressione primordiale –, prima ancora che dell‟atto linguistico, e
il carattere essenzialmente rivelativo (produttivo di conoscenza) di ogni gesto – carattere
che si rivela eminentemente nel gesto artistico della pittura.
5 Ivi, p. 136.
6 Ivi, p. 114.
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 195
7 Ivi, p. 138.
8 Sulla questione del rapporto del discorso merleau-pontyano con la fenomenologia
husserliana, e in generale sull‟opera di Merleau-Ponty, si vedano: A. DE WAEHLENS, Une
philosophie de l’ambiguïté. L’existentialisme de Maurice Merleau-Ponty, Louvain, Publications
Universitaires de Louvain, 1951; T.F. GERAETS, Vers une nouvelle philosophie trascendentale.
La genèse de la philosophie de Maurice Merleau-Ponty jusqu’à la Phenomenologie de la percep-
tion, Nijhoff, La Haye, 1971; G.B. MADISON, La phénoménologie de Merleau-Ponty. Une re-
cherche des limites de la conscience, Klincksieck, Paris, 1973; M.C. DILLON, Merleau-Ponty’s
ontology, Bloomington, Indiana University Press, 1988; M. CARBONE, Ai confini dell'esprimi-
bile. Merleau-Ponty a partire da Cèzanne e da Proust, Milano, Guerini, 1990; R. BARBARAS, De
l’être du phénomène. Sur l’ontologie de Merleau-Ponty, Grenoble, Millon, 1991; ID. Le tournant
de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Paris, Vrin, 1998; S. COSTANTI-
NO, La testimonianza del linguaggio. Saggio su Merleau-Ponty, Milano, Franco Angeli, 1999; S.
MANCINI, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Milano, Mimesis,
2001; E. de SAINT AUBERT, Du lien des être aux elements de l’être. Merleau-Ponty au tournant des
annés 1945-1951, Paris, Vrin, 2004; ID., Le scénario cartésien: Recherches sur la formation et la
cohérence de l’intention philosophique de Merleau-Ponty, Paris, Vrin, 2005; T. TOADVINE, L.
EMBREE (eds.), Merleau-Ponty’s reading of Husserl, Dordrecht, Kluwer, 2002; R. KIRCHMAYR,
Merleau-Ponty. Una sintesi, Milano, Marinotti, 2008.
9 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, Hamburg,
Klaassen, 1954 (tr. it. di F. Costa e L. Samonà, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia
della logica, Milano, Bompiani, 1995, p. 42): «il dominio della doxa non è dominio di evi-
denze di ordine inferiore a quello dell‟episteme, [...] ma è propriamente il dominio dell‟ul-
tima originarietà al quale si riferisce per il suo senso la conoscenza esatta il cui carattere
dev‟essere scrutato come quello di un puro metodo e non di una via verso la conoscenza
atta a procurare una cosa in sé». Perciò, anche se il cammino della conoscenza «consiste
essenzialmente nell‟elevarsi dalla doxa all‟episteme, [...] non ci si deve dimenticare dello
scopo ultimo, dell‟origine e del diritto proprio degli strati inferiori».
196 Rocco Sacconaghi
10 Per un approfondimento del tema della natura trascendentale dell‟inizio nella feno-
menologia husserliana e delle sue implicazioni a livello di filosofia della storia ci permet-
tiamo di rinviare a R. SACCONAGHI, “Teleologia e questione degli inizi in Edmund Husserl”,
Rivista di Filosofia Neoscolastica (2008) 4, pp. 537-561.
11 M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945 (tr. it.
di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2003, p. 23). Da qui in poi
questo testo sarà indicato con la sigla FP.
12 FP, 27. Cf. anche E. HUSSERL, Formale und traszendentale Logik, Den Haag, Nijhoff,
1974 (tr. it. di G.D. Neri, Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza, 1966, p. 291); ID.,
Die krisis der europäischen Wissenschaften und die traszendentale Phänomenologie. Eine Einleitung
in die phänomenologische Philosophie, Den Haag, Nijhoff, 1959 (tr. it. di E. Filippini, La crisi
delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 482); ID.,
Erste Philosophie (1923-1924), I: Kritische Ideengeschichte, Den Haag, Nijhoff, 1956 (tr. it. di
G. Piana, Storia critica delle idee, Milano 1989, Guerini, 1989, p. 99); G. BRAND, Welt, Ich
und Zeit: nach veröffentlichen Manuskripten Edmund Husserls, Den Haag, Nijhoff, 1955 (tr. it.
di E. Filippini, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Milano 1960, Bompiani,
1960, pp. 71-73).
13 E. FINK, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik,
in Studien zur Phänomenologie 1930-1939, Den Haag, Nijhoff, 1966, p. 101. Su questo tema
si vedano R. GUILEAD, Il mondo nel pensiero contemporaneo, Milano, Spirali, 1984 (cf. in par-
ticolare i paragrafi dedicati a Fink e Merleau-Ponty, pp. 262-315) e V. COSTA, «La feno-
menologia tra soggettività e mondo», Leitmotiv 3 (2003), disponibile sul sito http://
www.ledonline.it/leitmotiv/allegati/leitmotiv030301.pdf. Sull‟opera di Fink nel suo rap-
porto con la filosofia di Husserl rimandiamo a G. VAN KERCKHOVEN, Mondanizzazione e In-
dividuazione. La posta in gioco nella Sesta Meditazione Cartesiana di Husserl e Fink, tr. it. di M.
Mezzanzanica, Genova, Il Melangolo, 1998; S. LUFT, Phänomenologie der Phänomenologie. Sy-
stematik und Methodologie der Phänomenologie in der Auseinandersetzung zwischen Husserl und Fink,
Dordrecht, Kluwer, 2002; R. BRUZINA, Edmund Husserl & Eugen Fink. Beginnings and ends in
phenomenology (1928 – 1938), New Haven, London, Yale University Press, 2004; A. STAITI,
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 197
articolato confronto con l‟opera di Edmund Husserl (cf. J. DERRIDA, Le problème de la genèse
dans la philosophie de Husserl, Paris, PUF, 1990 [tr. it. di V. Costa, Il problema della genesi nel-
la filosofia di Husserl, Milano, Jaca Book, 1992]; ID., «Genèse et structure» et la phénoménologie,
in Id., L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967 [tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la dif-
ferenza, Torino, Einaudi, 1990]; ID., Introduction e traduction à L’origine de la Géométrie de
Husserl, Paris, PUF, 1962 [tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a Husserl “L’origine della geo-
metria”, Milano, Jaca Book, 1987]; ID., La voix et le phénomène, Paris, PUF, 1967 [tr. it. di G.
Dalmasso, La voce e il fenomeno, Milano, Jaca Book, 1997] – ha mostrato questa possibile di-
rezione della fenomenologia. Sul rapporto tra Derrida e la fenomenologia, rimandiamo a V.
COSTA, La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Der-
rida, Milano, Jaca Book, 1996; C. DI MARTINO, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’im-
possibile, Milano, Franco Angeli, 2001; ID., Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida,
Milano, Guerini, 2009; R. BERNET, La vie du sujet: recherches sur l'interprétation de Husserl
dans la phénoménologie, Paris, PUF, 1994; J.C. EVANS, W.R. McKENNA (eds.), Derrida and
phenomenology, Dordrecht, Kluwer, 1995. Come nota Mario Vergani, nella fenomenologia
Derrida «intravede la possibilità di una revisione della coppia concettuale metafisica em-
pirico/trascendentale, in direzione di una complicazione originaria dei due»: in questo
modo si imbatte nel paradosso «della genesi trascendentale; ovvero, lo stesso fondamento,
la coscienza trascendentale, dev‟essere presentato nella sua insorgenza genetica, senza che
per questo la filosofia ripieghi in direzione di una forma di psicologismo o di storicismo
assoluti» (M. VERGANI, Jacques Derrida, Milano, Mondadori, 2000, p. 27). Proprio in que-
sto, secondo Vincenzo Costa, consiste «la motivazione di fondo che lega Derrida alla feno-
menologia»: voler «rispettare da un lato l‟autonomia dei significati, evitando la loro ridu-
zione storicistica, sociologica o psicologica, e dall‟altro il loro radicamento storico» (V.
COSTA, La generazione della forma, cit., p. 57). Ma questa “nascita trascendentale”, intesa
derridianamente come l‟orlo trascendentale del possibile, è proprio ciò che non può essere
colto dall‟intuizione e perciò nemmeno descritto “positivamente” ed esibito. Può (e deve)
essere pensato, ma non conosciuto (cf. J. DERRIDA, Politiques de l’amitié, Paris, Galilée, 1994
[tr. it. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Milano, Cortina, 1995, p. 54]; ID., On the
Gift: A Discussion between Jacques Derrida and Jean-Luc Marion, in J.D. CAPUTO, M.J. SCAN-
LON [eds.], God, The Gift and Postmodernism, Bloomington and Indianapolis, Indiana Univer-
sity Press, 1999, p. 60; ID., Donner le temps, Paris, Galilée, 1991 [tr. it. di G. Berto, Donare
il tempo. La moneta falsa, Milano, Cortina, 1996, p. 32]): si tratta dell‟impossibile come con-
dizione del possibile. Riprendendo la distinzione kantiana tra pensare e conoscere, Derrida
di fatto recupera il concetto di noumeno (che Husserl aveva in un certo senso superato tra-
mite la categoria dell‟intenzionalità, concependo il fenomeno come il modo di darsi della co-
sa stessa, e non come sua rappresentazione soggettiva – cf. V. COSTA, Il cerchio e l’ellisse. Hus-
serl e il darsi delle cose, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007), ancorché ripensato non più in
termini sostanzialistici bensì evenemenziali. In questo senso si può arditamente parlare di
198 Rocco Sacconaghi
Mercure de France, 1951, pp. 47-149. Cf. anche P. CLAUDEL, Présence et prophétie, Paris,
Gallimard, 1959 (tr. it. di S. Penna, Presenza e profezia, Milano, SE, 1992, p. 205): «noi qui
disponiamo, oltre ai mezzi di studio oggettivo, di quel prezioso strumento che è la co-
scienza intima, quella che Bergson chiama intuizione o simpatia. Tutto ciò che esiste intor-
no a noi, abbiamo la facoltà non solo di conoscerlo esteriormente, ma di co-nascervi, di re-
citarvi, come un attore, in noi stessi, una particolare attività». Si può riconoscere qui una
eco del pascaliano esprit de finesse, che trova una sua peculiare „traduzione‟ nella categoria
bergsoniana dell‟intuition. Tuttavia, mentre per Bergson questo moto simpatetico nei con-
fronti del darsi delle cose è un atto filosofico innaturale, di contro a una percezione che,
regolata da motivi pratici, definisce gli oggetti nella loro utilizzabilità (cf. H. BERGSON, La
pensée et le mouvant, Paris, PUF, 1938 [tr. it. di F. Sforza, Pensiero e movimento, Milano, Bom-
piani, 2000]), in Merleau-Ponty questo assetto partecipativo rappresenta l‟essenza della
percezione stessa. Emerge qui il debito merleau-pontyano nei confronti di Max Scheler,
fenomenologo sui generis che per primo portò la filosofia di Bergson in Germania, e al quale
Merleau-Ponty dedicò uno dei suoi primi articoli nel 1935 (Christianisme et ressentiment, ora
in M. MERLEAU-PONTY, Parcours. 1935-1951, Lagrasse, Verdier, 1997, pp. 9-33). Per un
confronto tra Bergson e Scheler sul tema della percezione come partecipazione si veda M.
AVERCHI, Le immagini della percezione sensibile in Scheler e Bergson, in G. CUSINATO (ed.), Esi-
stenza della persona e radicalizzazione della fenomenologia, Milano, Franco Angeli, 2007.
16 Cf. anche M. MERLEAU-PONTY, La structure du comportement, Paris, PUF, 1942 (tr. it.
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 199
di G.D. Neri, La struttura del comportamento, Milano, Bompiani, 1963, p. 318), dove si par-
la del «nascere insieme» a un oggetto come «partecipazione alla sua esistenza». Sull‟uso di que-
sta categoria in Merleau-Ponty, si veda E. DE SAINT AUBERT, Du lien des être aux elements de
l’être, cit., pp. 234-255.
17 M. MERLEAU-PONTY, Sens et non-sens, Paris, Nagel, 1948 (tr. it. di P. Caruso, Senso e non
senso, Milano, Il Saggiatore, 2004, p. 80). D‟ora in poi il testo sarà indicato con la sigla SNS.
200 Rocco Sacconaghi
dell‟io al mondo e dell‟io agli altri» di cui si è appena parlato – definita al-
trove come «prossimità vertiginosa»18 –, inerenza che la fenomenologia deve
assumere come proprio tema. Questa relazione è al contempo luogo di ma-
nifestazione e frutto della co-nascenza (la genesi stessa dell‟esperienza), ed è
qualcosa che può (e deve poter) essere visto. In questo senso, «la “compren-
sione” fenomenologica si distingue dall‟“intellezione” classica, che è limitata
alle “vere e immutabili nature”»: con l‟assunzione di uno sguardo fenomeno-
logico si può cogliere l‟atto di nascita del mondo, che – così come non è re-
legabile in un momento puntuale del passato, ché altrimenti non sarebbe co-
glibile da alcuna descrizione –, non consiste né in un‟attività produttiva del
soggetto, né in un fatto in sé svincolato da esso.
Merleau-Ponty descrive la percezione nei termini di comunicazione reci-
proca: «ogni percezione è una comunicazione o una comunione, la ripresa o
il compimento da parte nostra di una intenzione estranea, o viceversa è la
realizzazione all‟esterno delle nostre potenze percettive e come un accop-
piamento del nostro corpo con le cose» (FP, 418). Le analisi sulla percezione
mostrano questa relazione comunicativa, partecipativa prima che intellettuale
o sensibile in senso “meccanico”: «se la mia mano conosce il duro e il molle,
se il mio sguardo conosce la luce lunare, si tratta, per così dire, di un certo
modo di unirmi al fenomeno e di comunicare con esso […] come un certo
tipo di simbiosi, una certa maniera di penetrarci propria dell‟esterno, una
certa maniera che noi abbiamo di accoglierlo» (FP, 47). La cosa sensibile «è
ciò che viene ripreso dal nostro sguardo, o dal nostro movimento, un quesito
cui essi rispondono positivamente» (ibid.), e per questo si può dire che il «sog-
getto senziente» non pone le cose «come oggetti, ma simpatizza con esse, le
fa sue e trova in esse la sua legge momentanea» (FP, 291): «Io che contemplo
l‟azzurro del cielo non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto acosmico,
non lo possiedo nel pensiero [...], ma mi abbandono a esso, [...] esso “si pen-
sa in me”, io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esi-
stere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato» (ibid.).
Ora, questo rapporto di co-nascenza non si attua come polarità “statica”
tra due termini, costituendo una sorta di “circolo” chiuso, bensì presenta sin
da subito una peculiare “fecondità”, configurandosi come una espressione ori-
ginale: «ogni percezione – dice infatti Merleau-Ponty –, ogni azione che la
postula, in breve ogni uso del corpo è già espressione primordiale»19. L‟espres-
18 M. MERLEAU-PONTY, Causeries 1948, Paris, Seuil, 2002 (tr. it. di F. Ferrari, Conver-
lano, Il Saggiatore, 2001, p. 96). Da qui in avanti questo testo sarà indicato con la sigla S.
Come osserva Di Martino, è ne La prosa del mondo – opera rimasta incompiuta scritta intor-
no al 1951 (M. MERLEAU-PONTY, La prose du monde, Paris, Gallimard, 1969 [tr. it. di M.
Sanlorenzo, La prosa del mondo, Roma, Ed. Riuniti, 1984]) – che Merleau-Ponty elabora
«una nuova teoria dell‟“espressione”» fondata sul «nesso pittura-percezione-linguaggio»,
giungendo ad «equiparare percezione ed espressione» e spogliando «il riferimento al corpo
di ogni residuo naturalistico»; si tratta di «un‟inedita generalizzazione del concetto di
espressione: esso giunge a coprire tutto il campo del movimento e del gesto, sicché perce-
zione e linguaggio, natura e cultura, vengono ad essere differenze interne all‟evento espres-
sivo» (C. DI MARTINO, Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e Merleau-Ponty, Pisa, ETS,
2005, pp. 92-93).
20 Dal concetto husserliano di Stiftung (sulla funzione di questa categoria nel pensiero
di Husserl, cf. J. DODD, Crisis and reflection, Dordrecht, Kluwer, 2004 – in particolare il
capitolo 2, The manifold sense of foundation), Merleau-Ponty trae quello di institution, che
può essere interpretato come un‟estensione (anche a livello storico, e perciò sociale e poli-
tico) del concetto di espressione: a partire da questo legame essenziale tra percezione e storia
egli giunge ad affermare che «il problema di sapere qual è il soggetto della Stato, della
guerra ecc. [è] esattamente dello stesso tipo che il problema di sapere qual è il soggetto
della percezione: non si risolverà filosofia della storia se non risolvendo il problema della
percezione» (M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, Paris, Gallimard, 1964 [tr. it. di
A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 2003, p. 212]). Si tratta, a nostro pa-
rere, di un‟ulteriore possibile realizzazione della prospettiva condensata nell‟interpreta-
202 Rocco Sacconaghi
riflesso e non può ignorare se stessa come evento, quindi essa appare ai suoi
stessi occhi come una autentica creazione, come un mutamento di struttura
della coscienza» (ibid.). Lungi dall‟essere motivo di fallimento dell‟indagine,
questo scarto strutturale tra la riflessione e lo strato irriflesso ha come frutto
una peculiare “creazione”; non si tratta dunque di una ricostruzione, opera-
zione sempre tentata dal pensiero riflessivo, bensì di una realizzazione, di
un‟istituzione.
Per questo Merleau-Ponty afferma che «il mondo fenomenologico non è
l‟esplicitazione di un mondo preliminare, ma la fondazione dell‟essere», e
«la filosofia non è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come
l‟arte, la realizzazione di una verità» (FP, 30). In quanto «soggetto votato al
mondo», posso conoscermi solo nel mondo; l‟atto conoscitivo della fenome-
nologia merleau-pontyana non è una riflessione che si configura come un ri-
torno in sé, ma come ulteriore approfondimento di quella comunicazione con
il mondo già da sempre in atto: «La filosofia è sempre rottura con l‟ogget-
tivismo, ritorno dai constructa al vissuto [...]. Soltanto, questo processo [...]
non la trasporta più nell‟atmosfera rarefatta dell‟introspezione [...], dacché si è
riconosciuto che l‟“interiorità” su cui essa si riconduce non è una “vita privata”,
ma una intersoggettività che via via ci connette alla storia intera» (S, 152).
Se la percezione si attua come co-nascita, «la visione del pittore è una na-
scita prolungata»22, poiché nella pittura si attua il fedele svolgimento del rap-
porto aurorale in cui e da cui sorgono il soggetto e il mondo: «l‟espressione
pittorica riprende e oltrepassa la messa in forma del mondo che è iniziata
nella percezione»23. In questo senso, l‟arte pittorica non assume soltanto uno
statuto conoscitivo in senso lato, bensì un vero e proprio valore filosofico,
poiché permette alla dimensione trascendentale (in quanto originaria e sor-
giva) dell‟esperienza di rendersi esperibile. Nel saggio intitolato Il dubbio di
Cézanne24, il pittore francese è presentato come colui che rende esperibile ciò
L’occhio e lo spirito, Milano 1989, SE, p. 26). D‟ora in poi il testo sarà indicato con la sigla OS.
23 M. MERLEAU-PONTY, La prosa del mondo, cit., p. 78.
24 Si tratta dell‟articolo Le doute de Cézanne, pubblicato nel 1945 e poi confluito in SNS
(pp. 27-44). Sull‟importanza di questo saggio, che non può certo essere ridotto ad una
estemporanea „riflessione filosofica‟ sull‟arte di Cézanne, si esprime lo stesso autore in un
testo presentato nel 1952 per la propria candidatura al Collège de France, in cui afferma
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 205
che ogni uomo vive senza avvedersene: «il pittore riprende e converte ap-
punto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata
da ogni coscienza» 25 (SNS, 36). Egli infatti «è colui che fissa e rende
accessibile ai più “umani” fra gli uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza
vederlo» (SNS, 37). Tanto l‟oggettivazione scientifica quanto l‟introspezione
riflessiva, avendo come presupposto la separazione di soggetto e oggetto, si
precludono la possibilità di questa visione. Cosa rivela dunque l‟opera cézan-
niana? A partire dal riconoscimento dell‟inerenza al mondo, si offre lo spet-
tacolo paradossale della sua profonda alterità, della sua estraneità: «la cosa ci
ignora, riposa in sé» (FP, 420).
Nel capitolo di Fenomenologia della percezione intitolato La cosa e il mondo
naturale, Merleau-Ponty descrive questa esperienza al livello della percezione.
che con Le doute de Cézanne si è iniziata l‟elaborazione di una «teoria della verità» (M. MER-
LEAU-PONTY, Un inédit de Maurice Merleau-Ponty, in ID., Parcours deux. 1951-1961, Lagrasse,
Verdier, 2000, pp. 37-48 [tr. it. di G.D. Neri, “Autopresentazione”, in Aut aut 232-233
(1989), p. 8]). Come ha osservato Kirchmayr, «la pittura di Cézanne è un esercizio feno-
menologico in atto»: Merleau-Ponty mostra come il pittore e Proust «istituiscano con la lo-
ro opera un senso che diventa forma ideale perchè porta alla luce una faccia viva della ve-
rità» (R. KIRCHMAYR, op. cit., p. 133). In quest‟opera, scrive Mancini, «la pittura si pre-
senta come la forma muta dell‟espressione artistica che manifesta l‟esperienza percettiva
originaria quale perenne ricreazione del mondo vissuto dispiegato a partire dalla sogget-
tività del corpo proprio. [...] Soltanto perché l‟espressione pittorica si radica nella dimen-
sione corporea del gesto e della percezione, essa ha la capacità di dischiudere il mondo del-
la vita, facendoci assistere dall‟interno alla genesi del senso grezzo che avviene in esso» (S.
MANCINI, Sempre di nuovo, cit., pp. 109-110). «Il privilegiamento merleau-pontyano del-
l‟esperienza pittorica e della ricerca cézanniana – spiega Carbone – trova la sua più espli-
cita motivazione nella convinzione che nella pittura moderna (di cui Cézanne è il profeta
riconosciuto) il modo di vedere del pittore attinga alla vita percettiva, alla esperienza vis-
suta della corporeità, in modo più diretto e consapevole di quanto non accadesse in quella
classica. […] È dunque in primo luogo questo sforzo di adesione alla vita percettiva e di
espressione della stessa ad interessare Merleau-Ponty» (M. CARBONE, Ai confini dell’esprimi-
bile, cit., pp. 25-27). Sul tema dell‟interpretazione merleau-pontyana dell‟opera di Cézan-
ne, ed in generale dell‟arte, oltre alle opere citate in questa nota rimandiamo a X. TILLIET-
TE, “L‟esthétique de Merleau-Ponty”, Rivista di Estetica 14 (1969) 1, pp. 102-124; P. KAUF-
MANN, Invention d’un genre: la méditation esthétique, in A. SAUZEAU BOETTI (ed.), La prosa del
mondo. Omaggio a Merleau-Ponty, Urbino, Quattroventi, 1990, pp. 57-62; E. LISCIANI-PE-
TRINI, “L‟invisibile di Cézanne”, Il pensiero 36 (1997) 1, pp. 23-34; M. CARBONE, Il sensibile
e l'eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Milano, Guerini, 1996; S. MENASÈ, Passivité et crea-
tion. Merleau-Ponty et l’art moderne, Paris, PUF, 2003; S. VITALE (ed.), Il dubbio di Merleau-
Ponty. L’arte e l’invisibile, Firenze, Clinamen, 2005.
25 In questo stesso senso, Virno afferma che «una facoltà o un modo di essere, se op-
Come abbiamo già visto, egli descrive il fenomeno percettivo nei termini di
una comunione originaria tra il soggetto e l‟oggetto: «La percezione naturale
non è una scienza, non pone le cose che percepisce, non le allontana per
osservarle, ma vive con esse, è l‟“opinione” o la “fede originaria” che ci lega a
un mondo come alla nostra patria, l‟essere del percepito è l‟essere antepre-
dicativo verso il quale è polarizzata la nostra esistenza totale» (FP, 419-420).
Ma il senso della cosa non è definito interamente dalla sua familiarità con il
soggetto; essa infatti non è solamente «il correlato del nostro corpo e della
nostra vita» (FP, 420). Non solo, cioè, essa si costituisce in unità in relazione
a noi che ne facciamo esperienza, ma noi stessi, come soggetti corporei, ci
costituiamo come tali solamente nel prendere rapporto con la cosa: in qual-
che modo, perciò, l‟unità della cosa è già da sempre costituita. Così come
una cosa non può essere concepita come tale se non in quanto riferita a una
esperienza, noi «non cogliamo l‟unità del nostro corpo se non in quella della
cosa, ed è a partire dalle cose che le nostre mani, i nostri occhi, tutti i nostri
organi di senso ci appaiono come altrettanti elementi sostituibili» (ibid.). In
questo senso, «la cosa si presenta, a colui stesso che la percepisce, come cosa
in sé», e perciò «essa pone il problema di un autentico in-sé-per-noi» (ibid.).
Nell‟ingenuità dell‟atteggiamento naturale, l‟alterità delle cose è ridotta ad
uno statico essere-in-sé, e non viene colta come quel loro sorgere continuo e
“immotivato” da un fondo primordiale in cui consiste la “paradossalità” del
reale, il suo essere «un tessuto solido» che «non attende i nostri giudizi per
annettersi i fenomeni più sorprendenti e per respingere le nostre immagina-
zioni più verosimili» (FP, 19).
La grandezza dell‟opera pittorica di Cézanne consiste nel mostrare questa
dimensione dell‟essere, risalendo allo strato dell‟esperienza che precede e
fonda l‟ordine razionale che noi abitualmente frequentiamo come qualcosa di
assoluto, e a cui opponiamo l‟irrazionale come possibilità da “scongiurare” o
il sensibile come livello da superare: non avendo «creduto di dover scegliere
tra sensazione e pensiero come tra caos e ordine», Cézanne supera «la frat-
tura tra i “sensi” e l‟“intelligenza”» (SNS, 32). Egli non separa «le cose fisse
che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera d‟apparire»,
poiché «vuole dipingere la materia che si sta dando una forma, l‟ordine na-
scente attraverso un‟organizzazione spontanea» (ibid.). È l‟assunzione di quel-
la “attenzione metafisica e disinteressata” che permette l‟istituzione di uno
sguardo capace di cogliere le cose nel loro stesso “farsi”: «Cézanne ha voluto
dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno
l‟impressione della natura alla sua origine, mentre le fotografie dei medesimi
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 207
26 Come osserva Taminiaux, «visto dagli altri, il pittore può talvolta apparire come il
creatore di un contro-mondo, ma per il pittore al lavoro c‟è un solo mondo ed è il mondo
che gli lancia un appello al quale egli non finirà mai di rispondere» (J. TAMINIAUX, Il pensa-
tore e il pittore. Su Merleau-Ponty, in M. CARBONE, C. FONTANA (eds.), Negli specchi dell’es-
sere. Saggi sulla filosofia di Merleau-Ponty, Cernusco sul Naviglio, Hestia, 1993, p. 148). Ad
ogni livello, e perciò anche a quello artistico, l‟espressione «si delinea come la ripresa crea-
trice dei significati acquisiti, congiuntamente all‟eredità dell‟inespresso, nella produzione
di un senso nuovo» (S. MANCINI, L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty,
Paci, Milano, Mimesis, 2005, p. 220).
27 A proposito della dimensione storica come costitutivo “orizzonte di senso”, risultano
interessanti le pagine che Mancini dedica alla relazione tra essere-al-mondo ed essere-alla-
verità (ivi, pp. 220-226): se a prima vista nel pensiero merleau-pontyano l‟orizzonte della
verità pare «fondersi e confondersi con l‟orizzonte del mondo, e il senso autoctono del
mondo della vita confermarsi come l‟unica e perenne fonte della teleologia della coscienza,
di tutti i percorsi intersoggettivi e di tutte le strategie del senso», a ben guardare la verità
«immette nella correlazione originaria dell‟io e del mondo un‟intenzionalità verticale, che
se per un verso riprende la corrente del senso spontaneo, per un altro verso non ne costi-
tuisce un lineare svolgimento, perché oltre che dalla teleologia naturale, muove anche dal-
la libertà». Non può esservi piena coincidenza tra le due “dimensioni”, poiché «la radice
dell‟essere-al-mondo è prepersonale, mentre quella dell‟essere-alla-verità è personale: l‟attiva
costruzione progettuale del senso può essere condotta solo in prima persona».
28 Merleau-Ponty si esprime in modo analogo ne L’occhio e lo spirito: «Il pittore “si dà
con il suo corpo”, dice Valéry. [...] È prestando il suo corpo al mondo che il pittore tra-
sforma il mondo in pittura. Per comprendere tali transustanziazioni, bisogna ritrovare il
corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni, che è
un intreccio di visione e di movimento» (OS, 17).
Merleau-Ponty e il rendersi visibile dell’inizio delle cose 209
interessanti studi effettuati dal teologo madrileno JUAN MARTÍN VELASCO, Il fenomeno
mistico. Antropologia, culture e religioni, Milano, Jaca Book, 2001 e Il fenomeno mistico. Strut-
tura del fenomeno e contemporaneità, Milano, Jaca Book, 2003. Riguardo differenze e affinità
tra esperienza filosofica ed esperienza mistica cf. A. MOLINARO, E. SALMANN (eds.), Filo-
sofia e mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Roma, Studia Anselmiana, 1997.
212 Stefano Santasilia
sa essere confutata e sulla quale poggiare tutto l‟edificio del sapere. Tale ri-
cerca, che tutto pone al vaglio di quello che chiama “dubbio metodico”,
permette a Cartesio di risalire la china fino ad un punto che sembra incon-
futabile, una certezza che non può essere messa in discussione. Tale certez-
za è quella del cogito: «considerate adeguatamente tutte queste cose, biso-
gna alla fine stabilire che questa proposizione, Io sono, io esisto, è neces-
sariamente vera ogni volta che la pronuncio e ogni volta che la mente la
concepisce»5. Tale base d‟appoggio, però, non riesce ad uscire dal „picco-
lo‟ recinto in cui è stata concepita: quello di una certezza soggettiva che,
sebbene chiunque possa provare, non ci permette di comunicare perché
non riesce a dare conto del mondo che la circonda. Si può obiettare che
Cartesio su tale certezza sia riuscito a fondare tutto l‟edificio del conosce-
re, soprattutto di un conoscere scientifico che si è rivelato essere verace.
Tutto ciò è vero, come, però, lo è allo stesso modo il fatto che tale fonda-
zione avvenga attraverso due passaggi emblematici: in primis per parlare di
evidenza bisogna fare riferimento sempre a due caratteristiche, la chiarezza
e la distinzione; in secundis, perchè si dia una conoscenza verace, è neces-
sario affrontare la questione dell‟esistenza di Dio.
Il fatto che ciò che si mostra come chiaro abbia un determinato valore,
superiore a ciò che si mostra oscuro, che si riferisca cioè ad un‟evidenza
che già di per sé ne dà certezza di esistenza, mostra come, in realtà, tale
chiarezza sia strumento metodologico che già precede l‟assunzione del cogi-
to come punto di partenza. Il cogito si mostra già nella sua evidenza, nella
sua chiarezza, e questo permette che esso possa essere assunto senza dub-
bi6. Ma se il cogito ergo sum è evidente, allo stesso tempo si fa misura del-
l‟evidenza: l‟evidenza, dunque, ancora una volta non si lascia enucleare in
maniera concettuale ma solo esperienziale e in tal modo fa sì che l‟espe-
rienza dell‟evidenza, ritenuta di massimo livello, sia il parametro al quale si
debbano riferire tutte le altre conoscenze affinché siano considerate auten-
tiche. Siamo così giunti al centro della questione: solo il cogito viene perce-
pito con tale chiarezza o esistono altre esperienze che hanno come carat-
teristica, se non la stessa, per lo meno una forma di evidenza che le renda
non confutabili? «Quando però mi rivolgo alle cose che ritengo di perce-
pire in modo molto chiaro, sono a tal punto persuaso da esse che spon-
taneamente do sfogo a queste parole: mi inganni pure chi può, non potrà
però far sì che io sia niente per tutto il tempo che penserò di essere qual-
cosa; né potrà far sì che un giorno sia vero che io non sono mai esistito,
poiché ormai è vero che io sono; e nemmeno potrà far sì che due più tre
facciano più o meno di cinque, o simili cose nelle quali riconosco una ma-
nifesta contraddizione»7. Le ultime parole pronunciate in questa frase dal
matematico e filosofo francese ci permettono di andare più a fondo in
quanto mostrano come, oltre al cogito, via siano altre cose chiare a tal pun-
to che il metterle in dubbio creerebbe una situazione contraddittoria in-
concepibile per lo stesso Cartesio. Tali cose riguardano, in questo caso, la
matematica ma ciò che a noi interessa è che esse possano mostrare un gra-
do di evidenza che le pone al riparo da qualunque possibilità di essere solo
delle allucinazioni e questo perché, anche se stessimo sognando, secondo
Cartesio il fatto che due più tre faccia cinque rimarrebbe valido.
Tali nozioni si manifestano come delle crepe in quello che potremmo
definire come il solipsismo del cogito, costringendolo a guardare al di là di
se stesso e allo stesso tempo a riconoscere che, sebbene parta da sé, deve
riconoscere delle evidenze anche al di fuori della sua stessa esistenza. In più,
proprio in quanto fuori dalla sua evidenza d‟esistere, tali evidenze si con-
notano come patrimonio comune e, allo stesso tempo, come possibilità di
comunicazione con gli altri uomini e quindi all‟interno della comunità (da
quella specifica di appartenenza a quella generalmente umana). Infatti, tali
nozioni non sono evidenti se non in quanto relazione del pensiero a ciò che
è fuori di esso, quindi a qualcosa di evidente che deve essere tale anche per
gli altri uomini, e questo in ragione del fatto che ogni uomo è dotato di
pensiero, quindi di tale evidenza, così come di quella del cogito. Già, dun-
que, possiamo notare come il solipsismo cartesiano riconosca, e con questo
riconoscimento inizi già di per sé a sfrangiarsi, la possibilità di un‟evidenza
che non sia più chiusa nell‟ambito del proprio pensiero, bensì apra alla pos-
sibilità dell‟extra, forse intuendo i rischi della tentazione idealistica. Non va,
poi, dimenticato che l‟intento cartesiano è quello di individuare una cer-
tezza universale e, soprattutto di ispirarsi alla matematica e di seguire il suo
metodo8. L‟unica possibilità di mettere ancora in dubbio l‟evidenza dell‟al-
7 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, cit., p. 71.
8 A conferma di ciò basti il solo riferimento alla seconda parte del Discorso sul metodo:
«Difatti, in fin dei conti, il metodo che insegna a seguire il vero ordine, e ad analizzare
esattamente tutte le circostanze di quel che si cerca, contiene tutto ciò che conferisce
certezza alle regole dell‟aritmetica» (R. DESCARTES, Discorso sul metodo, Milano, Rizzoli,
1996, p. 66).
214 Stefano Santasilia
gebra consiste nel pensare che tutto ciò che mi circonda sia frutto di un
creatore malvagio che con intenzione mi inganna. Cartesio si pone questo
dubbio al fine di giungere alla possibilità di una certezza completa e si in-
terroga sull‟esistenza di Dio, nella terza meditazione sulla filosofia prima.
La soluzione, ben nota, che dà a tale questione, riguarda l‟innatismo di al-
cune idee, ed in particolare quello dell‟idea di infinito, cioè di un‟idea il
cui ideatum (il contenuto) supera il contenitore facendolo, in qualche modo,
esplodere sotto la sua portata9. Riconoscendo ciò, Cartesio è spinto ad af-
fermare che non potendo essere desunta dall‟esperienza tale idea deve es-
sermi stata posta nella mente da Dio stesso10. Se da un lato ciò può sembra-
re dare ragione agli „avversari del sensus communis‟, in quanto tale idea non
può essere desunta dall‟esperienza, è pur vero che da un altro punto di vi-
sta rafforza proprio la convinzione che esista qualcosa di innato che possa
essere focalizzato dall‟uomo nel momento stesso in cui si rapporta al mon-
do. Non si parla infatti di un‟esperienza di stampo scientifico, ma di un‟e-
sperienza primaria, un‟esperire se stessi, di cui, quindi, anche il cogito di-
viene espressione. Se la certezza della propria esistenza rimanda alla certez-
za del mondo e viceversa, e la ricerca cartesiana lo mostra nel momento in
cui dal cogito è necessario uscire per cercare un fondamento di tutto, allora si
può intendere come il valore del sensus communis «sta tutto nell‟essere un si-
stema organico di certezze primarie, dove i primi principi […] sono intima-
mente connessi all‟esperienza»11. Tale connessione all‟esperienza va intesa in
una duplice maniera: sia nel senso di principi che la stessa esperienza insegna
mostrandoli; sia nel senso di principi che emergono nel momento in cui fac-
ciamo esperienza di qualcosa, ma che possiamo conoscere anche riferendoci
a noi stessi. Tale seconda maniera attraverso la quale intendo la connessione
che, secondo Antonio Livi, si dà tra senso comune e principi primi, non mira
a chiudere l‟uomo nella sua interiorità ma mostra come in esso vi sia già una
predisposizione a cogliere tali punti stabili della realtà. Potremmo dire, sem-
plificando, che senso comune e principi primi sono intimamente connessi e
l‟uomo giunge a tali principi proprio attraverso il senso comune.
Il riferirci alla riflessione cartesiana ha come motivazione il fatto di mo-
strare come è possibile individuare anche in un autore che mette in dubbio, e
fa del dubbio il suo metodo, il valore dell‟esperienza quotidiana, la traccia
ineludibile del sensus communis. Tale traccia mostra come, sebbene l‟intento
9 Cf. a tal proposito E. LÉVINAS, Dio, la morte e il tempo, Milano, Jaca Book, 1996.
10 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, cit., pp. 79-80.
11 A. LIVI, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, cit., p. 6.
La comunità del sentire 215
cartesiano fosse quello di elaborare una teoria che potesse dare ragione del
mondo, il punto di partenza si manifesti come qualcosa di pienamente evi-
dente che elucida gli effetti più che entrare nel merito della spiegazione cau-
sale. A tal proposito Pascal afferma: «sarebbe […] irragionevole negare la
verità o, per lo meno, la possibilità, con il pretesto che è assolutamente in-
comprensibile: giacché “l‟uomo è più incomprensibile senza questo mistero
che questo mistero non sia inconcepibile per l‟uomo”»12. L‟ammonimento
pascaliano, che parte proprio dalla riflessione sulla razionalità cartesiana, è
estremamente radicale e riconosce da subito che l‟evidenza primaria non ne-
cessita di essere intelligibile bensì, proprio in quanto evidenza, ciò che per-
mette di accettarla è la sua capacità di dar ragione dei fatti. I principi primi,
le evidenze, sono alla portata di tutti ma proprio per questo bisogna «avere
buona vista (ma buona davvero, perché tali principi sono così sfuggenti e così
diversi che è pressoché impossibile che talvolta non ne sfugga uno: ora, basta
ometterne uno che subito si cade in errore, e occorre dunque avere una vista
ben chiara per contemplarli tutti insieme, e una mente rigorosa per non de-
rivare conclusioni erronee da questi principi evidenti)»13.
Il sensus communis, dunque, si connota come la „buona vista‟, la capacità
di cogliere tali principi che, in quanto evidenti, sono „alla vista‟ ma, pro-
prio perché evidenti, sfuggono ad uno sguardo ingenuo. Tale sfuggire non
significa, però, che essi non siano validi e che non siano anche ciò su cui si
fonda, in maniera automatica, la nostra esperienza quotidiana. Infatti, le
conclusioni erronee di cui parla Pascal sarebbero proprio quei tentativi di
spiegazione che, ignorando i principi primi, tentano di adottarne altri, non
rendendosi conto che in tal modo non riescono a dare ragione dei fatti. Il
sensus communis, secondo ciò che abbiamo detto finora, si mostra come ca-
pacità di cogliere quei principi primi, evidenti, che però non sono conosci-
bili attraverso un atteggiamento ingenuo, né attraverso una prospettiva ra-
zionalista che tenti di spiegare la realtà in una maniera che potremmo de-
finire „totalitaria‟, intesa come tentativo di piegare la realtà alla ragione
senza tenere conto delle resistenze della realtà stessa. Una ragione, dunque,
che conosce i propri limiti, «“limiti della ragione” [che] contengono già la
conoscenza metafisica della “cosa in sé”, perché presuppongono il “senso
comune”, vera conoscenza del mondo, di sé e di Dio, anche se con tanta o-
scurità e tante incertezze dovute alla condizione umana»14.
celona e non sapremmo davvero riportare scritti precedenti al suo nel quale si ipotizzi l‟esi-
stenza di un tale nucleo di pensatori; va aggiunto, inoltre, che ogni testo di storia della filo-
sofia spagnola (basta confrontare i testi di José Luis Abellán, Alain Guy, Eusebio Colomer)
riporta come punto di partenza del dibattito su tale questione le affermazioni che Nicol scri-
ve ne El problema de la filosofía hispánica (E. NICOL, Il problema della filosofia ispanica, Napoli,
La Città del Sole, 2007, p. 171).
20 Id., Il problema della filosofia ispanica, cit., p. 192.
21 Personaggio chiave della storia del pensiero spagnolo, filosofo al quale fu dato il so-
prannome, in stile medievale, di doctor humanus, visse negli stessi anni di Llorens i Barba. Si
dedicò allo studio della filosofia scolastica, in particolare del tomismo, tentando una conci-
liazione fra questo e la moderna gnoseologia. Tra le sue opere più importanti possiamo ri-
cordare la sua Filosofía fundamental (Barcelona, 1846), il Curso de filosofía fundamental (Ma-
drid, 1847), che tanto colpì l‟altro noto filosofo dell‟esilio José Gaos, e l‟opera che gli do-
nò più fama vale a dire El Criterio (Madrid, 1845), un insieme di norme da utilizzare per
condurre bene il proprio intelletto, una sorta di discours de la méthode.
22 Tale pensatore, professore della Universitat de Barcelona, fa parte di una genera-
218 Stefano Santasilia
zione di studiosi catalani ai quali appartengono anche i nomi di Jaime Balmes e Ramon
Martí d‟Eixalà, tutti legati da una concezione spiritualista che, pur aprendosi alla tradizione
moderna, non respingeva il legato della tradizione, di una tradizione che si può far rimon-
tare fino alla figura di Ramon Llull, e che cercava nella filosofia dello spirito un accordo tra
quel carattere particolare tipicamente catalano che è il seny e la dottrina del senso comune
(Cf. N. BILBENY, Filosofia contemporaina a Catalunya, Barcelona, Edhasa, 1985, p. 177). Ri-
guardo al seny, inteso come forma di saggezza pratica riconosciuta come carattere peculiare
della tradizione catalana, cf. J. FERRATER MORA, Las formas de vida catalana, Madrid, Alianza
Editorial, 1987.
23 N. BILBENY, Filosofía contemporaina a Catalunya, cit., pp. 192-194.
24 J. BALMES, Filosofía fundamental, in Obras completas, vol. XVI, Barcelona, Bibliotéca
27 Ivi, p. 195.
28 Ibid.
29 Ivi, p. 196.
30 E. NICOL, Historicismo y existencialismo, México, FCE, 1950, p. 280.
31 ID., Los principios de la ciencia, México, FCE, 1965, p. 497.
32 ID., Crítica de la razón simbólica, México, FCE, 2001², p. 185.
33 ID., Metafisica dell'espressione, cit., p. 159. È emblematico che il capitolo dell‟opera in
cui Nicol tratta di questo problema abbia come titolo Il controdiscorso sul metodo.
220 Stefano Santasilia
ci sembra indubitabile il fatto che non si dia altra possibilità al di fuori del
binomio scienza–opinione, la conoscenza certificata o il giudizio soggettivo,
e che l‟apoditticità sia pertinente solo al conoscere scientifico. Tale cono-
scere, però, è per Nicol pertinente all‟essenza e non alla presenza, que-
st‟ultima infatti, data la percezione, non può essere messa in dubbio; la
presenza è già di per sé comunicazione, comunità che converge nell‟unica e
indubitabile affermazione della presenza stessa: «l‟autentica apprensione
degli oggetti sensibili la si ricava con i sensi, con il logos, che è pensiero e
parola»34. La presenza del reale è già comunicata nel nostro dire ed agire,
pertanto percepita in maniera pre–concettuale proprio perché pre–scienti-
fica. Tale apoditticità è indubitabile e inconfutabile ma solo perché sempre
comune, ossia comunicata. La ragione che percepisce sulla base di una già
ri–conosciuta presenza è, perciò, anch'essa comune e lo è perché possibili-
tà stessa della comunità che riconosce la presenza, ovvero la realtà. L'apo-
ditticità della presenza è, dunque, fondamento sia della scienza che del-
l‟opinione, ma fondamento di carattere fenomeno–logico in quanto già
dia–logico. Il dia–logos, infatti, altro non è che il logos condiviso, comune, e,
per questo, è già da sempre parola comunicata, parola comune.
Ciò che Eduardo Nicol ravvisa in maniera chiara è che se vi sono prin-
cipi comuni basici, allora v‟è anche una ragione comune, luogo condiviso e
manifestazione della comunità del senso. È, infatti, il comune sentire che,
come per un gioco di parole, è alla base del sensus communis. Il sentire co-
mune è, però, evidente solo nel momento stesso della comunicazione, mo-
mento in cui la ragione mostra la sua essenza simbolica. Il senso comune è
qui trasfigurato in una comune ragione comunicativa che è un sentire pri-
ma ancora d‟essere un concettualizzare. Un sentire che non esiste se non
nella duplice relazione col mondo e con l‟altro: „comunione‟ che costitui-
sce la stessa consapevolezza di sé mostrando come nel fondo di qualsiasi
„io‟ si manifesti un „tu‟ costitutivo35. La ragione comune è espressione e
fondamento della stessa comunità, di un solo sentire che è sempre manife-
sto e in dialogo, appunto dia–logos. „Scienza‟ e „opinione‟ non sono altro
che le due possibilità che si aprono a partire dal „sentire comune‟, dalla ra-
gione condivisa, dall‟apoditticità della presenza36. La comunità del sentire è
34 Ivi, p. 160.
35 È interessante, riguardo tale momento del pensiero nicoliano, sottolineare l‟affinità
tra l‟esisto dell‟indagine del pensatore ispanico e quelli delle riflessioni di EMMANUEL LÉVI-
NAS (Totalité et infini, L‟Aja, Nijhoff, 1961) e di PIETRO PIOVANI (Principi di una filosofia
della morale, Napoli, Morano, 1972).
36 E. NICOL, Metafisica dell’espressione, cit., p. 215.
La comunità del sentire 221
1 Ricordiamo il dibattito mosso dagli studi di WILLIAM J. MCGRATH, Arte dionisiaca e poli-
tica nell’Austria di fine ottocento, Torino, Einaudi, 1986, incentrati sui rapporti fra dionisismo e
politica nella formazione della classe dirigente austriaca. Nel quinto capitolo di quel testo, che
adombra una lettura cosmogonico-politica della Terza Sinfonia, giustamente diventata un
classico, si ricostruisce un tessuto di testimonianze attorno alla profonda vicinanza del compo-
sitore boemo alla riflessione dell‟austromarxismo, sulla sua convinzione che la musica abbia
una natura politica, nel senso più alto del termine, come strumento demiurgico che media la
vita della comunità, portando a consapevolezza universale la posizione dell‟uomo nel mondo,
a partire dalla sua stessa fragilità. Tale convinzione, come ha recentemente mostrato Violante
nel suo studio sulla vita culturale delle associazioni operaie austriache, si trasmetterà anche a
Schoenberg, e alla sfera di compositori che ruotano attorno all‟eredita del classicismo vien-
nese (PIERO VIOLANTE, Eredità della musica. David J. Bach e i concerti sinfonici dei lavoratori vien-
nesi (1905-1934), Palermo, Sellerio Editore, 2007).
224 Carlo Serra
2 Su questo tema, e sulle difficoltà di lettura legate a questi passi vedi il provocatorio e
stimolante saggio di MYLES BURNYEAT, “Aristote voit un rouge et entend un „Do‟: combien
se passe-t-il de choses? Remarques sur „de Anima‟, II, 7-8”, Revue Philosophique de la France
et de l’Étranger 2 (1993), pp. 262-280, oggi reperibile sull‟Annuario on line De Musica XIII,
2009 (http://users.unimi.it/~gpiana/dm13/burnyeat/burnyeat.pdf).
226 Carlo Serra
un‟analogia con l‟acuto e l‟ottuso percepiti dal tatto. L‟acuto, infatti, per così
dire, punge, mentre l‟ottuso spinge (opprime ὠθέω), poiché l‟uno muove il
senso in poco tempo e l‟altro in molto, sicché ne consegue che l‟uno è veloce
e l‟altro è lento3.
di una vibratilità, attraverso cui si stacca la forma acustica, che muove il sensibile, ma, ari-
stotelicamente che movimento e trasformazione fanno tutt‟uno, e che il piano del senso è
il deposito di questo continuo lavorio. Movimento e quasi trasformazione sono forme sino-
nime, che cercano di aggirare l‟ampiezza semantica del concetto di κίνησις, oscillante fra
movimento, trasformazione, variazione di stato in una percezione: se da psicologi aristo-
telici sappiamo che il suono non si muove, ma è l‟aria che risuona, prima fuori dall‟orec-
chio, poi al suo interno, portandovi le forme sensibili, dentro a questo processo i gradienti
qualitativi saranno illustrati attraverso analogie legate al mondo della visione, della trasfor-
mazione fisica, della mutazione di stato, come accade per l‟acqua del lago, che gela pro-
gressivamente, mutando l‟assetto materico della propria superficie, nel momento della sua
massima concrezione materica, facendosi sigillo d‟una immagine del movimento. Tali cen-
ni, nella loro incompletezza, mostrano non solo l‟ambigua ricchezza del rapporto fra movi-
mento e alterazione, ma anche i nessi immaginativi mossi dalla dimensione analogica fra
sensi, che pervade tutti i piani della riflessione sull‟ascolto, prendendo forma anche nelle
relazioni fra eco e riflessione ottica, che varia a seconda della capacità riflettente dei corpi,
o ancora, nei rapporti di intensità e precisione, fra senso ed oggetto. Il tatto è un senso
particolarmente preciso perché ha un rapporto diretto con l‟oggetto, ed è solo a partire da
questa precisione diretta che possiamo giungere alla comprensione del senso del fenomeno
uditivo. La difficoltà di quest‟impostazione, ed il suo fascino, sta proprio nell‟evitare quei
dualismi che turberanno Cartesio, nel non sostare su una relazione fisiologica, ma nel muo-
vere una dialettica fra piani dell‟esperienza, fra contenuti logici, immagine, e forme della
percezione. L‟esito della straordinaria mobilità fra concetti sarà la costruzione di distin-
zione qualitativa fra grave e acuto che non avrà a che fare con la velocità del suono, ma con
la forza dell‟impatto sull‟organo di senso, producendo una trasformazione nel modo di
intendere il suono, testimoniato appunto dall‟analogia fra puntura ed oppressione.
228 Carlo Serra
5 Cf. RONALD POLANSKY, Aristotle’s De Anima, Cambridge, CUP, 2007, pp. 296-297.
6 Tali aspetti vengono esemplarmente sviluppati nelle lezioni husserliane sulla logica
trascendentale, in particolare nelle sezioni sull‟oggettivazione attiva e sulla stratificazione
dell‟oggettivazione: cf. E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi attiva. Estratto dalle lezioni sulla logica
trascendentale (1920/1921), a cura di L. Pastore, Milano, Mimesis, pp. 61-71 e 113-127.
Mahler lettore di Nietzsche 229
7 GIOVANNI PIANA, Barlumi per una Filosofia della Musica (2007), p. 63. Del testo esiste
solo un‟edizione digitale scaricabile presso l‟archivio dei testi di Giovanni Piana, nel sito
Spazio filosofico: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/barlumi/barlumi_idx.htm.
230 Carlo Serra
rità, per un ascoltatore un nesso passivo, che prende forma non appena
cerca di tradurre il flusso sonoro in una possibilità espressiva, in un pen-
siero, e viceversa. La saturazione totale, il cucirsi totale di questa margina-
tura possibile, è fuori dal contesto della nostra esperienza, non ci interessa,
né ci interessa l‟adeguazione totale dell‟immagine al suono, il senso prende
consistenza in un adombramento che è, per sua natura, pervasivo.
La questione assume un andamento tormentato: da un lato sembra che
sia impossibile saturare il senso di una valenza interna ad un oggetto che è,
per sua natura, oggetto temporale, anche quando parliamo di dinamiche,
di suoni lontani e vicini all‟ascoltatore, dall‟altro non comprendiamo bene
cosa significhi saturare da questo punto di vista, perché, in realtà, il pro-
cesso sonoro sembra rimandare a se stesso, senza necessariamente moltipli-
care il piano del riferimento: «occorre riconoscere che in queste variazioni d’in-
tensità rimane appreso, anche nel puro fenomeno sonoro, il senso del vicino e del
lontano, dell’allontanamento e dell’avvicinamento. Pianissimo, molto lontano, pia-
no, più vicino, mezzo piano, sempre più vicino, mezzo forte quasi vicino, forte vici-
nissimo, fortissimo, mi sta venendo addosso. Non sappiamo che cosa, né ci interes-
sa saperlo»8.
Non abbiamo bisogno di una totale esplicitazione del gioco che si apre
con le attese dell‟ascoltatore, né di una traduzione di quell‟avvicinarsi e
quell‟allontanarsi del processo, che va sviluppandosi verso un‟immagine ine-
splosa, per usare un‟altra bella espressione di Piana. Ma cosa intendiamo,
allora, con immagine? Proviamo a rispondere, delineando i rapporti fra per-
cezione ed immaginazione, in un luogo notevole, qual‟è la Terza Sinfonia di
Gustav Mahler (1893-1896). La centralità di queste relazioni emerge già dal-
le parole che Mahler sceglie per illustrare il proprio programma musicale:
Che la natura celi in sé tutto ciò che vi è di tremendo (schauerlich), di grandioso e
anche di amabile […] questo evidentemente nessuno lo sa. Mi ha sempre colpito il fatto
che la maggior parte delle persone, quando parlano della «natura», pensino solo ai fiori,
alla fragranza dei boschi, ecc. nessuno conosce il dio Dioniso, il grande Pan 9.
Nella lettera del 1896, inviata al Dottor Batka, che fa parte di un episto-
lario in cui il compositore spiega, passo dopo passo, la genesi della compo-
sizione, incontriamo un aggettivo che ci attrae molto, schauerlich, che indi-
ca la gradazione qualitativa attraverso cui dobbiamo pensare l‟aspetto tre-
8 Ivi, p. 40.
9 WILLIAM J. MCGRATH, op. cit., p. 118. Il passo è tratto da GUSTAV MAHLER, Briefe,
1879-1911, a cura di A. Mahler, Berlin, 1925, pp. 214-215.
Mahler lettore di Nietzsche 231
nel campo di battaglia, quando veniva usata per raccogliere le ali dell‟eser-
cito ed indirizzarle verso il centro in un attacco frontale: la sintesi immagi-
nativa ha un suo significato perché l‟ascoltatore dovrà avvertire questo con-
flitto frontalmente, lacerando l‟unità prospettica della direzione del suono.
Il senso di una rappresentazione del mondo, all‟interno della Sinfonia, si
accende attraverso un riferimento ad una messa in scena della dispersione
delle fonti nello spazio, dei rumori nel mondo, che riesplodono nei portati
immaginativi del suono. La drammaturgia della rappresentazione dello schauer-
lich è l‟immagine di un caos sonoro, la messa in mora della neutralità della
posizione d‟ascolto: il disgregarsi del mondo dei suoni rovina sull‟ascolta-
tore: ma la natura bifronte di questa rappresentazione del carattere del
mondo, della sua essenza ludica e crudele, si espande anche al piano della
beatitudine, che corre lungo l‟articolazione della sinfonia, e che avrà come
momento apicale il commosso congedo dell‟ultimo movimento. Prima di
quel grande momento di meditazione pietosa sul mondo, che verrà cantato
da tutta l‟orchestra, cinque o sei campane andranno poste in alto, in gal-
leria, assieme al Coro dei fanciulli che canterà nel V movimento, aprendo
una dialettica profonda fra i due gruppi posti fuori dal palcoscenico, in evi-
dente opposizione semantica, anche se non debbono suonare assieme, ri-
mandando così all‟idea di un conflitto fra idee extramusicali.
L‟orchestra mahleriana si colloca così all‟interno di uno scontro spaziale
per nulla banale, per una rappresentazione di un conflitto, che è l‟immagi-
ne del divenire di tutte le cose, di una natura che costruisce per distrug-
gere, seduce per ferire. L‟insistenza sul carattere diveniente trova il pro-
prio aspetto più impressionante in una raccomandazione che tocca il tim-
bro e l‟alterarsi del suono dal suo interno: gli abbellimenti, i trilli di questa
enorme partitura andranno eseguiti senza trovare la soluzione su una delle
due note, tutti i trilli non si chiudono, rimandando all‟idea di una altera-
zione che non si risolve, pura messa in scena della trasformazione plastica
del suono orchestrale. Se nel trillo, come scrive bene Giovanni Piana10,
dovremmo vedere un riferimento al trasformarsi di una nota in un‟altra, di
una alterazione del suono come modificazione processuale che lo accende
dall‟interno, in questa sinfonia la tensione dell‟abbellimento non si deve
risolvere mai, mentre ogni suono deve rimanere sul piano del flusso, della
pura metamorfosi, senza che quel processo prenda una direzione.
10 GIOVANNI PIANA, Il cromatismo, 2004. Del testo non esiste un formato a stampa, ma
la versione digitale (con esempi musicali) è scaricabile nel sito di Giovanni Piana: http://
filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/cromatismo/cromatismoidx.htm.
Mahler lettore di Nietzsche 233
In realtà non si tratta quasi più di musica, ma, per così dire, di voci della natura, ed è
terribile vedere come dalla materia inanimata (avrei potuto intitolare questo movimento
Ciò che mi racconta la montagna rocciosa) la vita lotti per aprirsi, a poco a poco,
un varco.
Voce della natura: suoni musicali che raccontano, attraverso la loro sintassi,
e l‟articolazione del timbro, il messaggio cifrato del rumore, il doloroso
farsi avanti della forma, che si ritaglia dentro al suono stesso, in un paral-
lelismo istantaneo, che fa parte integrante di un ragionamento non ingenuo
sulle potenzialità semantiche dell‟iconicità sonora, nell‟inerenza stretta che
lega la mobilità del suono al profilo inerte della cosa evocata. Il suono si fa
voce di una natura che parla, in quel legarsi di voce, significato ed im-
magine, che corre nei testi aristotelici, si disambigua solo muovendosi ver-
so il concetto, verso un sistema di valori, che lo decodifica: è una natura
profondamente pensata, concettualizzata, che può dar luogo a forme mi-
metiche intese secondo la ricchezza di questa direzione, dove l‟immagine è
ossificazione di un concetto, e il piano simbolico trova fondamento in una
meta musica, che parla della totalità espressiva del mondo dei suoni. Il tea-
tro dell‟udito è un mondo che si rivolge immediatamente all‟ascoltatore,
ma il messaggio è interno all‟articolazione formale del brano, che, come
uno specchio, intercetta il movimento dell‟immagine, la sua intermittenza:
il vuoto che trasportava il suono, si è fatto scena, i suoni, mondo, la mera
risonanza si traduce come espressività.
Il tema della meta-musica, così essenziale per comprendere la filosofia di
Schopenhauer, nel rimandare ad una musica che, esibendo le regole della
propria grammaticalità, illustra l‟immagine del mondo, come accade per la
grande rassegna di bocche che popolano l‟immaginario de Il Mondo come Vo-
lontà e Rappresentazione, bocche spalancate dalla fame, che fremono nel sesso
o che cercano aria nel soffocamento della morte, colte in gesti che illustrano
l‟azione diretta della volontà sul preriflessivo del corpo, ora deve trova una
rappresentazione nella costruzione specifica del modello fonico, che tiene in-
sieme la capacità dei processi sonori di dar voce all‟essere. La logica com-
positiva che sostiene, ad esempio, la melodia della tromba, che non riesce a
svilupparsi e che si arrampica faticosamente all‟interno del proprio disegno,
facendo avvertire uno sforzo di risalita, appena prima della caduta, enfatiz-
zanndone la rovinosa implacabilità troverà una piena esplicitazione nel tema
della vita, che incontriamo nel quarto movimento, composto prima del vasto
movimento iniziale che apre la sinfonia. Abbiamo così una sorta di cifratura
interna, una struttura narrativa che trova il proprio motore nella torsione di
una melodia12, che trova risonanza in un‟immagine, e che emergerà ancora,
deformata e in forma di lamento, prima di essere assorbita nel flusso di tra-
sformazioni incessanti, messo in gioco da Mahler negli sviluppi del primo
12 La logica compositiva che opera sul piano melodico, nel continuo rimando alla for-
ma scalare, che prende forma nello sviluppo del tema che apre la sinfonia, nel canto dei
corni, nell‟insistito rimando grammaticale alla terza ascendente, e anche nella caduta per
gradi congiunti del tema dei corni e della tromba, determina l‟individuazione di una serie
di fattori stilistici che puntano ostinatamente in una sola direzione. Si plasma la melodia in
modo che non riesca a volare, che l‟articolarsi del suo disegno non riesca a sottrarsi ad una
serie di relazioni di ordine scalare, che la riportano sempre al tono d‟origine, in un moto di
caduta su se stessa, che non dà requie.
Mahler lettore di Nietzsche 235
tempo. Contrapposta ai lamenti di una vita che vuol nascere, un‟altra im-
magine schopenhaueriana, quel dorso brullo della montagna, rappresen-
tazione schiacciante dell‟eterno e del desolato che popola le inquietudini dei
Supplementi al Mondo, ora atterrisce, ma è tutto il piano di violente trasforma-
zioni del suono, che in molte sezioni sembrano rimandare ad una rappresen-
tazione del rumore, che è suono di natura.
Si crea una drammaturgia circolare: la vita che cerca un varco e l‟im-
possibilità delle melodie di poter durare e svilupparsi in modo pieno, van-
no stringendosi fra di loro, per fissare gli estremi di uno spettacolo violen-
to, in cui il suono è torturato, i caratteri degli strumenti portati al limite, e,
così, svelati nella loro essenza.
Ma dietro al denso costrutto musicale, si pone il problema più delicato,
che rimanda ad una tensione demiurgica interna all‟ascolto. Il compositore è
decifratore del rumore della natura, di un traduttore in musica del rumore
degli elementi, un rumore che chiama un ascoltatore, per esprimere fino in
fondo il gioco metafisico della rappresentazione di un caos originario, che na-
sconde l‟inerzia del funebre, il falso movimento, una cineticità senza speran-
za, da cui emerge la potenza della vita, e sue infinite trasformazioni: è il con-
cetto di volontà schopenhaueriano, ambiguo e pieno di tesori.
Siamo così di fronte ad uno schema: la musica riproduce i rumori della
natura, meglio li porta con i propri mezzi a rappresentazione, crea delle
sintesi fra i caratteri messi in gioco dal timbro forzato degli strumenti, e le
possibili sintesi immaginative determinate dall‟espressività del suono. La
percezione cade sotto la presa di oggetti sonori allusivi, in strutture dove
regole fenomenologiche e procedimenti musicali si fondono (cancellazione
del motto iniziale, passaggio poliritmico della stessa cellula che inizia ad
oscillare, sovrapporsi cupo delle vibrazioni di timpano e grancassa, come
epifania del suono musicale dal materico, ricostituirsi poliritmico del suo-
no musicale come marcia funebre, irresistibile tendenza alla caduta delle
linee melodiche, la cancellazione dei fondali, attraverso una neutralizzazio-
ne delle concatenazioni armoniche, il colore scuro dell‟orchestrazione, la
tecnica di sintesi del suono dei corni, il lasciar emergere la tromba, risuc-
chiandogli attorno tutto il fondale sonoro, i movimenti ascensionali di con-
trabbassi e violoncelli che continuano a ricadere indietro, e così via), per
dar luogo a delle immagini, che trovano la loro traduzione nel concetto di
voce della natura, di rappresentazione mitologica dei portati espressivi del
rumore in una sintesi di valore. Per dar forza allo schema, i caratteri orga-
nologici degli strumenti verranno portati al limite, i violoncelli vibreranno
torturando le corde oltre i limiti del consentito.
236 Carlo Serra
Le immagini omeriche della voce della natura (la citazione risale proprio ad
un‟immagine dell‟Iliade, analizzata da Patrizia Laspia14), sono in risonanza
con una musica che ora vuole orchestrare la massa di fonti sonore, per fon-
derne tra loro i portati simbolici. Il montaggio deve partire dal caos, dal
confondersi delle diverse matrici: il rapporto suono-rumore è una masche-
ra della dimensione di un richiamo alla forma di vita, al sistema di valori, in
cui il compositore si fa medium, ricompattatore dell‟unità dell‟esperienza.
La polifonia trova nel rumore l‟eco del mondo, e i suoi concetti, le im-
magini della vita e della volontà, creando una nozione di mondo ambiente15.
duzione di P. Stefan, Leipzig, p. 147. Cf. anche il commento che ne offre Eggebrecht (v.
infra, nota 19) a p. 157.
14 Iliade, Q, 394-401. Cf. PATRIZIA LASPIA, Omero linguista. Voce e voce articolata nel-
La musica mette in relazione due modi intendere lo spazio, una spazialità af-
fettiva, atmosferica, e un‟architettura: l‟armonia fra suono e rumore è un‟uto-
pia, l‟eco di una fusione fra materiali e forme di vita, che intrecciano un dia-
logo fra loro, nel momento in cui il contenitore stesso del concetto di Sin-
fonia s‟è dissolto.
passo. In filigrana, dovremmo leggere in questa concezione uno straordinario elogio delle
tendenze di organizzazione del materiale, che vuol contrapporsi al formalismo che tanto peso
assume nelle opere di un critico come Hanslick. L‟osservazione è penetrante, ma merita di
essere rafforzata anche in una direzione più attenta al rapporto suono-mondo. In Mahler i ma-
teriali, i suoni provengono da contesti spesso irriducibili tra loro, coprendo ogni registro, dal
volgare al sublime, dalla marcia funebre alla canzone da osteria. La cosa è talmente vera che
una marcia funebre può trasformarsi in canto da osteria, come accade nella Prima Sinfonia:
queste fusioni narrative, che trovano il loro senso nell‟immagine che sostiene quella dram-
maturgia, stanno sulla superficie della musica, premono per uscirne. La musica cerca il mon-
do, trova nella nozione di mondo il suo significato estetico, e politico. La sinfonia è il terreno
dove l‟eterogeneo acquista organicità, ma il compositore vedere nell‟eterogeneità l‟emergere
del canto del mondo, che, è, nella sostanza cacofonia e lacerazione, gioco di registri sublimi e
triviali. Essi portano dentro di sé latenze immaginative che si confrontano con la qualità della
stilizzazione. L‟uso di materiali eteronomi ha un preciso significato compositivo: la polifonia è
contaminazione che propone una sonosfera, che ritrova unità nella narrazione, che fonde i di-
versi punti di vista nell‟articolarsi di un racconto sonoro. L‟istanza costruttivista che sta dietro
a questo discorso rimanda ancora alla categoria dell‟identico, perché l‟insieme di questi ele-
mento originariamente si coappartiene, e costituisce il mondo, la bolla acustica che ci avvol-
ge. Il problema del simbolico, giocato in questi termini, spiega bene perché Mahler guardasse
con sospetto all‟idea di una musica a programma: egli ne teme la definizione rappresentativa,
la vocazione ad un realismo metaforico, che si perda sul piano della rappresentazione, mentre
l‟articolazione del mondo della volontà si lega all‟eterogeneo, allo zampillare di immagini che
entrino in una dialettica concettuale, che vada aldilà della cosa stessa.
238 Carlo Serra
Nelle parole tese verso l‟arduo mito dell‟Eterno Ritorno, dovremmo raccoglie-
re l‟idea di un ordine sotterraneo, che unisce tutte le cose, tutte le nostre rap-
presentazioni, e ancora una volta vediamo la forza della volontà che tutto
scuo-te nel desiderio. Il tema diventa così quello, ambiguo, della rivela-
zione: alla fine di un viaggio iniziatico, Zarathustra annuncia il significato del-
l‟esistenza ed annuncia che piacere, dolore, vita, morte, sono indissolubil-
mente legate tra loro, e che questo legame è il nostro destino: nel campo di
forze che sostiene tutte le interpretazioni del mondo, piacere e dolore si com-
penetrano, perché aver detto si, aver pensato che un attimo fosse degno di es-
sere vissuto, significa accettare il senso di un gioco che ci distrugge, ma a cui
19 Ivi, p. 392. Un commento alla drammaturgia musicale del passo è offerto da HANS
HEINRICH EGGEBRECHT, Die Musik Gustav Mahlers, München, R. Riper GmbH & Co, 1982,
trad. it. La musica di Gustav Mahler, a cura di L. Dallapiccola, Firenze, La Nuova Italia, 1994,
p. 136: esso si stacca sensibilmente dal nostro approccio a questo problema.
240 Carlo Serra
Mahler’s Third Symphony, vols I and II, 1992, p. 26 (Dissertations available from ProQuest, Paper
AAI9308641: http://repository.upenn.edu/dissertations/AAI93086419).
242 Carlo Serra
Il filo della voce, che inizia a farsi avvertire, disegna un proprio sfondo,
comincia a dare una profondità al suono, e il gesto dei corni amplifica quel
fondale, gli dà spessore. In questa sezione, dalla battuta 11 alla battuta 16,
Mahler lettore di Nietzsche 245
assieme all‟entrata della voce, si coglie, da parte dei corni, il farsi avanti
del motivo basato sulla terza ascendente, che avevamo già avvertito nel pri-
mo tempo. Dalla battuta 18 il disegno che abbiamo ascoltato, attaccando,
in settimine, un lieve accelerarsi del tempo che crea un‟atmosfera sospesa,
profondamente onirica22 : ancora una volta, si torna allo stesso, insistito
gioco espressivo, per cui il disegno ritmico si forma su un pedale di quinta,
che accentua la staticità della situazione, ma crea anche una continuità con
il disegno iniziale, riportando ad un clima di sospensione l‟insieme di even-
ti musicale, che avevano iniziato a muovere una forma narrativa. L‟idea che
il tempo si fermi dinnanzi al concetto, per riproporre un‟identità della cosa
che torna, è forse l‟unico elemento realmente nietzscheano in questa dram-
maturgia. La voce canta Gibt Acht, ed immediatamente si fa ancora avanti la
terza ascendente Fa diesis La, Do diesis–Mi, nel trombone, nel flauto pic-
colo e negli archi: nel frattempo emerge un‟altra figura importante, un piz-
zicato degli archi che mira direttamente al coglimento degli armonici, che
rievoca certamente il rintocco della campana, che contrappunta il discorso
di Zarathustra, ma, osserva mirabilmente Solvik, l‟effetto rimanda ad una
identificazione con la mente della cantante, che si identifica con il risveglio
a mezzanotte di Zarathustra, in una ammirevole evocazione di un filtro
acustico, di un‟atmosfera interiore, che va dall‟interno verso l‟esterno. Re-
spiriamo attraverso il filtro di questa presenza, solo da qui cogliamo le riso-
nanze del significato del canto, e le sue empatie.
Vi sono molti aspetti interessanti in questa scrittura: il flauto piccolo,
ad esempio, è usato nel registro più basso, assieme all‟attacco dell‟arpa in
unisono e alla scrittura dei corni, creando l‟illusione di un suono di natura
che arriva da lontano, da un‟area remotissima, in una nuova spazializzazio-
ne del suono.
L‟uso degli armonici da parte delle due arpe in unisono, dei violini, che
rieccheggia proprio sul Mi su cui viene intonata la parola Acht! rimanda an-
che alla dialettica fra luce ed oscurità, che sostiene il momento della rivela-
zione del significato della natura: l‟armonico, messo in evidenza dall‟or-
chestrazione mahleriana, illumina la parola come un raggio di luce, e ri-
manda all‟idea di un disvelamento di quanto prima giaceva nella profonda
oscurità, ma in questo gioco, in questa sottolineatura indicale del testo, vi
è un altro aspetto, ancora più sottile: gli armonici, infatti, sono, nella filo-
sofia di Schopenhauer, l‟immagine dei rapporti che legano i regni della na-
tura fra di loro, mondo organico, inorganico, regno vegetale, animale ed
22 Ivi, p. 271.
246 Carlo Serra
infine umano, sono collegati fra loro, perché germinano uno dall‟altro. Il
Lied parla del mondo, del modo in cui l‟uomo guarda all‟intrecciarsi dei
regni del mondo, rispetto al principio metafisico della volontà, mentre
Mahler sta leggendo il testo di Nietzsche attraverso Schopenhauer. La luce
degli armonici è un riflesso della logica di costituzione del mondo, e fa
tutt‟uno con la parola, la tallona come un‟ombra. Alla battuta 24 emerge
un tema dei corni, che già conosciamo, come modificazione di un disegno
ferale del primo tempo: in questa occorrenza, il tema viene armonizzato in
terze, e crea l‟impressione di un ampio anfiteatro sonoro, che evoca, natu-
ralmente, un riequilibrarsi della tessitura orchestrale, che aveva oscillato
fra ombra e luce. La funzione strutturale del tema è importante, non sol-
tanto per le osservazioni semantiche che abbiamo rilevato prima, ma per-
ché rappresenta il vero collante assieme al disegno ritmico sull‟intervallo e
alla linea vocale, che tiene unita tutta la sezione.
Tornerà a battuta 29-30, contrappuntando la voce che intona Was spricht
die tiefe Mitternacht?, ed è proprio alla fine di questa frase che emerge di nuo-
vo il disegno ascendente della terza da parte dell‟oboe, che deve emergere
come un suono di natura, e che Mahler aveva indicato, nelle prime stesure,
come l‟uccello della notte. La notte divora dentro di sé ogni luce, ma è an-
che l‟unica occasione per comprendere il significato della propria vita, il
valore della propria esperienza. La voce così dovrà commuoversi, fremere
di tenerezza per le debolezze del mondo, ma mantenere un suo profondo
distacco, che è quello dell‟estrinsecazione del momento esemplare. Il dif-
ficile connubio fra regole poetiche di tipo aristotelico e interpretazione
schopenhueriana della natura ha qui del miracoloso: Mahler non ha la forza
del sorriso transvalutante, ma la finezza del cultura delle dialettiche bipo-
lari fra natura e morte. La voce quindi rimane il vero personaggio simpate-
tico di questo canto, il suo incresparsi nel tragitto tonale suggerisce un‟em-
patia che la musica commenta, evidenziando le debolezze umane e l‟intol-
lerabilità della situazione perché se il piacere aspira all‟eternità, il suo de-
stino resta per sempre la profondità della notte, la vertigine di fronte ad
una natura che schiaccia. Al movimento per tono discendente, corrisponde
ora la terza minore ascendente, che caratterizza il suono di natura.
Dovremmo riflettere sul fatto che una progressione per terze indichi
per Mahler il suono di natura, la cosa ha aspetti solo apparentemente mi-
steriosi: tale aspetto ci interessa molto, perché da un lato si avvicina molto
all‟idea di rappresentazione della natura pensata da Schopenhauer, che rac-
comanda di usare andamenti lenti, a grandi passi. Il compositore ha usato
un andamento lento, ed un piccolo passo per rappresentare la natura che
Mahler lettore di Nietzsche 247
pp. 236-237.
248 Carlo Serra
Fine del canto, morte della speranza, sterilità: il canto dell‟uccello della not-
te, un‟onomatopea, si dà agli occhi, come l‟immagine di un tramonto che
prepara la morte. La brevità del canto è brevità della giovinezza e della vita:
ma in Mahler la rappresentazione non ha colori così tragici, perché il canto è,
schopenhauerianamente, immagine di una vita, che riecheggia assorta il pro-
prio destino, al tramonto. Se nel poeta tedesco il canto è immagine di una
sterilità interno al cerchio della vita, per Mahler quel canto è immagine di un
messaggio da condividere, è l‟effetto della risonanza di una rivelazione tra-
gica, che prepara alla sua risoluzione, la sterilità è feconda, perché il canto è
finito. Ancora una volta, Mahler fa parlare Nietzsche, o le figure di Hölderlin
come figure di Schopenhauer: gioia e disperazione, sono la risonanza, l‟una
dell‟altra, in un‟interpretazione rassegnata del mondo della natura, che di-
venta splendido elogio della sua bivalenza La scelta del registro grave per il
flauto piccolo rimanda ad un‟immediatezza d‟attacco, ad una naturalezza
d‟emissione, che contrasta con la natura aerea dello strumento: si cerca un
carattere nascosto, che esce da una manipolazione della fonte sonora. Tutto
il gioco ritmico della sezione degli archi gravi, l‟emergere della voce e degli
strumenti da dinamiche che stanno sempre fra il piano ed il pianissimo,
opacizzano tutte le relazioni metriche: sembra che il tempo si stia perdendo,
che non vi sia più una direzionalità di scansione ben individuata24. Il mondo si
ferma ad ascoltare, mentre per quanto riguarda le note eseguite dall‟oboe,
che rievoca l‟uccello della notte, non viene indicato se vanno eseguite in glis-
sando, accentuando l‟evocazione del suono di natura.
24 Per queste osservazioni, rimando alla breve e densa analisi che accompagna l‟esecu-
zione della Terza da parte di Benjamin Zander, con la Philharmonia Orchestra ed il Sopra-
no Lilli Paasikivi pubblicata dalla Telarc con il numero di catalogo 80599.
Mahler lettore di Nietzsche 249
Sull‟espressione Tief ist ihr Weh (profondo è il suo dolore, dove si parla del
dolore del mondo) emerge, trasfigurato, un tema di tre note (Fa Sol La), che
rimanda al blocco ella marcia con cui si apre il primo tempo, ma qui essa è
completamente trasfigurata. Tutto il brano è profondamente statico e si
chiude pesantemente sulla dominante. Infine quell‟intervallo viene tenuto, e
quindi messo in evidenza. L‟evocazione della notte, dell‟incresparsi della sua
attività, prima che venga in luce la voce, è delineata in modo magistrale.
Dalla battuta 57 alla battuta 67, la melodia dei corni sostiene un interlu-
dio orchestrale, e viene sviluppata nei disegni del violini solista, cui abbiamo
già fatto cenno. Ancora, sulle parole Die Welt ist Tief ascoltiamo l‟armonico
staccato dagli archi: non è una coincidenza, l‟armonico degli archi contrap-
punta l‟immagine del mondo, ed anche questo aspetto ha un riferimento con
l‟idea che il mondo della natura, con i suoi regni, presenti la stessa gerarchiz-
zazione che lega fra di loro gli armonici, rispetto alla fondamentale.
Sulle parole Tief ist ihr whe (profondo è il suo dolore), compare un di-
segno prima in Fa maggiore e poi in Sol minore. Lo stesso disegno che ab-
biamo ascoltato nel primo tempo, viene contrappuntato dal trattamento
melodico del tema della tromba, che abbiamo ascoltato nel primo tempo.
Ora si apre la rivelazione: ogni gioia o meglio tutta la gioia vuole eternità,
profonda eternità. Ancora una volta, su tiefe, precipitano le luminescenze
degli armonici e dell‟arpa, scuotendo con riflessi di luce quella profondità
che sa accoglierla, in una raffinatissima forma di retorica del sublime, piena
di componenti velatamente erotiche. La corda scuote, il suo suono taglia,
ma ora muove verso la luce. Il buio s‟è lasciato fecondare.
250 Carlo Serra
Re, deriva anch‟esso dal tema che ci parla del rapporto fra vita, piacere e
dolore. Vi sono anche significative differenze, legate allo sviluppo delle pos-
sibilità interne al materiale compositivo: quando le melodie appaiono nel
primo tempo, esso sono ridotte, attraverso contrazione melodica, ed accen-
tuazioni ritmiche che ne enfatizzino la regolarità, a tronconi melodici delle
strutture che qui prendono colore nel canto, e questo rientra nel progetto
di una metafisica musicale dell‟evocazione delle forze della natura, che han-
no natura schematica, e cercano ora una sonorità brulla, elementare, e for-
se dovremmo chiamare questo gioco con la metamorfosi delle forme del
suono, che evoca un mondo, un grande gioco linguistico, che trova le pro-
prie regole in una metafisica della musica, che sostiene la struttura concet-
tuale del brano, il pensiero musicale che lo abita. Non è certo un caso che
Mahler, nel primo movimento, presenti in modo prosciugato lo stesso mate-
riale, che emergerà nel quarto, dove sarà ancora il suono di natura a rac-
contare se stesso, attraverso le parole trasfigurate del Lied nietzscheano. Il
compositore opera così un gioco, che vorremmo definire linguistico, ed
espressivo, nel senso più pieno, per dar trasparenza ai contenuti extramusi-
cali, del proprio credo filosofico; d‟altra parte, il gioco fisiognomico della
melodia è una dei precipitati più profondi della riflessioni sulla musica, che
si inseguono nel Terzo Libro del Mondo, creando un modello di tra sva-
lutazione del materiale musicale, che qui vediamo finalmente all‟opera in
una scrittura lontanissima dai modelli schopenhaueriani.
Il lavoro sul materiale melodico ci mette così di fronte ad un piano se-
mantico, e simbolico, che illustra i pensieri, ed i contenuti nascosti, che in-
formano l‟opera. Mahler sta usando un elemento, uno solo, e, per molti ver-
si una sola figura, che riappare sotto molte forme, per parlarci del mondo
attraverso le smozzicature di una melodia: l‟intervallo di terza minore, il
modo discendente, le risalite e le cadute a picco del suono incarnano tutte
la stessa drammaturgia, o meglio la stessa funzione rappresentativa, di una
vita che si cerca e non si trova, di una natura che vuol differenziarsi, ma
che cade implacabilmente nell‟indistinto. Nel disegno melodico proposto
nel quarto movimento, Mahler ricorre alla salita voluttuosa determinata
dalla figura ritmica della sestina, che trova sfogo, e rafforzamento, nel suo
appoggiarsi sul mi: questo fremere della curva melodica, determinato dai
rapporti ritmici, questo ridursi della curva melodica a filo, per prendere la
consistenza di un punto, di un nucleo permanente, da cui poi discenderà la
chiusura della curva melodica, sembra rimandare ad un‟immagine volut-
tuosa, ad una sorta di esuberanza della figurazione melodica, che racconta
254 Carlo Serra
come il dolore non sia che un prodotto interno di un piacere, che cerca di
espandersi, di animare tutto il mondo della natura. La natura stessa so-
stiene il mondo del desiderio, ma quel mondo la distrugge: dobbiam far pa-
ce con questo pensiero, rassegnarci alla mancanza di una teleologia che ci
salvi. Ragione e intelletto non si perdono nel Sublime, non ci riscattano: la
Critica del Giudizio è ormai lontana, nessuna idea estetica può muoverci. Il
buio ha accolto la luce, per mostrare meglio il senso delle proprie articola-
zioni, in un senso ormai lontano dal tono del frammento orfico.
Cosa mette in mostra questo intreccio simbolico? Una sedimentazione
interna ad una pratica compositiva. La tensione verso l‟aspetto materico del
suono, verso quel piano timbrico, fisiognomico, che agita gli aspetti sonori
delle immagini può essere pienamente esplicitato: non si tratta solo di
riprendere i fili di un improbabile neoaristotelismo della percezione, sulla
linee di tante affascinanti psicologie prefenomenologiche, che caratteriz-
zano il panorama su cui irrompe la ricchezza del pensiero husserliano, ma
di accettare fino in fondo le risorse linguistiche che il rapporto suono-
immagine mette in movimento.
Se il nostro lettore ci chiedesse di indicare una poetica del suono grave o
del suono luminoso, non basterebbe certo il riferimento al binomio Mahler-
Schopenhauer, alla ricca poetica di quelle cosmogonie, ma certo non sarem-
mo disposti a far cadere completamente il senso del discorso, puntando sul
piano esplicitamente non metaforico, che trova nel materiale musicale la sua
più potente esplicitazione. In termini più espliciti, che i suoni possano essere
caratterizzati attraverso delle immagini, che sgorgano dalla loro natura di
corpi sonori, o dalla linea fisiognomica della loro caratterizzazione, è, sem-
plicemente un nesso che prende forma nella scelta stessi dei materiali com-
positivi: si pensi al gioco ritmico che anima l‟incipit del Quarto movimento
della Terza Sinfonia, a quel ridestarsi torbido, a quell‟animazione lentissima,
in cui il movimento si impasta su se stesso, proprio per la scelta di quella
particolarissima configurazione timbrica, al contrasto con l‟attacco luminoso
degli armonici, a tutti gli artifici musicali non descrittivi, che mettono in mo-
vimento il senso immaginativo di quelle configurazioni.
Il peso delle scelte compositive passa attraverso il soppesare timbrico,
formale, gestuale, dei materiali sonori, e questo tessuto di scelte anima dal-
l‟interno tutta la pratica compositiva. Il sorgere della figura è così interna alla
pratica compositiva, spesso così interna, da non trovare altra forma esplica-
tiva se non il ricorso all‟autoevidenza delle figurazione stessa. Se i nessi sono
esterni, la configurazione è interna alla stessa logica compositiva, al gioco dei
Mahler lettore di Nietzsche 255
rapporti testurali che ogni poetica del suono, anche la più monocromatica,
mette in gioco nell‟articolarsi delle sue forme compositive. La metafora è la
via d‟entrata per comprendere come i suoni si correlano tra loro, e la logica
interna della loro organizzazione: essa ci accompagna, per quello che può in
una pratica compositiva, dando carne alle architetture sonore, che spesso leg-
giamo solo in termini formali, e, nel farlo, attribuisce alla musica quella con-
cretezza sonora, da cui prendono forma i giochi immaginativi, che costitui-
scono l‟aspetto meno ludico, e più contenutistico, del suono stesso: in que-
sto ogni approccio formalistico ritrova nel corpo sonoro quel completamen-
to di senso, che mette in gioco gli orizzonti precategoriali del suono, e la sua
capacità di giocare con il piano pre-linguistico della percezione, ove il pre-
linguistico non è solo una finzione metodologica, ma la molla da cui scatu-
risce quel piano del movimento simbolico, che ancora oggi ci rende vicine le
indagini di Wittgenstein e Cassirer.
SONIA VAZZANO
Lady Damaris Masham è stata per lungo tempo misconosciuta dalla critica
storiografica2. Eppure ella rimane una voce non trascurabile nel dibattito
tardoseicentesco intorno al rapporto fra senso e visione, e sulla problema-
tica delle passioni. Secondo Lady Masham non esiste una conoscenza
filosofica e una conoscenza religiosa, ma solo una Useful Knowledge3 e cioè
1 D. CUDWORTH MASHAM, A Discourse Concerning the Love of God, London, Awnsham & J.
Churchil, 1696, p. 28 (d‟ora in poi „D‟). Tale discorso si inserisce in un percorso teorico che
nasce in risposta ad uno scritto di John Norris pubblicato nel 1693, Practical Discourses upon
several divine subjects (1691-1693), e allo scambio epistolare, risalente al 1695, che Norris in-
treccia con Mary Astell sul tema dell‟amore di Dio (M. ASTELL, J. NORRIS, Letters concerning
the Love of God, a cura di E. Derek Taylor e M. New, Ashgate, Aldershot, 2005). Il dibattito
tra Lady Masham e la Astell continuerà anche in ambito pedagogico con A Serious Proposal to
the Ladies for the Advancement of their True and Greatest Interest (1697) e The Christian Religion as
Professed by a Daughter of the Church of England (1705) della Astell e gli Occasional Thoughts In
reference to a Vertuous or Christian Life (London, Awnsham & J. Churchil, London 1705; d‟ora
in poi „OT‟) di Lady Masham. Per un approfondimento del rapporto tra la Astell e Lady Ma-
sham, cf. J. BROAD, «Adversaries or Allies? Occasional Thoughts on the Masham-Astell Exchan-
ge», Eighteenth-Century Thought 1 (2003), pp. 123-149, e C. WILSON, «Love of God and love
of creatures: the Masham-Astell debate», History of philosophy quarterly 21 (2004), pp. 281-298.
2 Una suggestione presa in prestito da S. HUTTON, «Damaris Cudworth, Lady Masham:
between platonism and Enlightenment», The British journal for the History of Philosophy 1 (1993)
1, pp. 29-30.
3 Cf. Lady Masham to Locke, 14 August [1685], in E.S. DE BEER (ed.), The correspondence of
John Locke, Oxford, Clarendon Press, II, p. 727. Cf. anche Lady Masham to Locke, 7 April
[1688], ivi, III, p. 431. Il senso di questa „conoscenza utile‟ poteva essere ricompreso a partire
dalla riflessione lockeana. Nel Saggio sull’intelligenza umana la conoscenza dell‟uomo risulta
condizionata dalla sensibilità proprio perché deve orientarlo nelle relazioni con gli altri uomi-
ni e con le cose affinché non ne risulti danneggiato. È il tema della differenza tra l‟infinità
divina e la finitudine umana cui Locke dà un‟interpretazione nel senso della qualità, sostenen-
do che il sapere umano è sempre e radicalmente diverso dalla conoscenza divina proprio per il
suo carattere pragmatico-operativo e il suo interesse a fornire indicazioni per l‟azione. Si trat-
ta di una valutazione della conoscenza che si fonda sulla tematizzazione del condizionamento
della sensibilità sull‟intelligenza. La sensibilità diviene dunque il complesso delle condizioni che
costituiscono il carattere utilitario del sapere e ciò le permette di svincolarsi da quel carattere sog-
gettivo che aveva conservato nel cartesianesimo (J. LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana, a cura
di C.A. Viano e C. Pellizzi, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 2006, IV, III, 22, p. 624 e VII, 11, p. 680, e
C.A. VIANO, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Torino, Einaudi, 1960, pp. 569-570).
258 Sonia Vazzano
4 Lady Masham to Locke, 7 April [1688], Correspondence, III, 1040, pp. 431-435.
5 Si vedano in proposito due studi che più di altri esplicitano tale tensione: G. MOCCHI,
«L‟amore di sé tra passione e virtù», in F. BONICALZI, C. STANCATI (eds.), Passioni e linguaggio
nel XVII secolo, Lecce, Milella, 2001, pp. 123-131; e E. PULCINI, «La passione del Moderno:
l‟amore di sé», in S. VEGETTI-FINZI (ed.), Storia delle passioni, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp.
133-180.
6 Cf. A. VIALA, «Le naturel galant», in C. DELMAS, F. GEVREY (eds.), Nature et culture à
specie nella seconda metà del XVII secolo, si spostava su questioni pret-
tamente confessionali. Così, dopo essere stata considerata solo una tra le
passioni, l‟amore diventava il soggetto prediletto perfino dell‟indagine ra-
zionale: come a dire che la qualità dell‟amore faceva la qualità delle pas-
sioni7. L‟amore in questione era quello che si divideva tra Corneille e Racine,
che dalla mistica passava alla psicologia e quindi alla gnoseologia e poi alla
morale. Quello diviso in antinomie precise: l‟amore onesto e l‟amore bestia-
le, l‟amore perfetto e quello crudele, l‟amore cortese e l‟amore volgare, il
sacro e il profano, il mutevole e il semplice, l‟amore per gli altri e l‟amor
proprio, l‟amore coniugale e quello lascivo, il vero amore e il falso amore.
Una sorta di medium che tentava di ridurre la complessità dell‟ambiente ga-
rantendone un ordine di tipo sociale; che ricostruiva il tramite tra io e altro
attraverso un tipo di comunicazione paradossale che rendeva stabile l‟instabi-
le. Una sorta di „codice simbolico‟ che legittimava un eccesso in quanto pas-
sione, divenuto ora attivo rispetto a tutto l‟orizzonte antico e medievale8.
Il primo passo della riflessione del XVII secolo è rappresentato così dalla
ricerca di una possibilità: giustificare l‟amore a prescindere dal suo essere
semplicemente una passione, proprio al fine di un recupero di quell‟amore di
sé che solo può aprire all‟amore di Dio. Vale la pena precisare che all‟interno
dell‟amore di sé, è operata una distinzione precisa: da un lato ci sono le pas-
sioni naturali, prodotto proprio dell‟amore di sé; dall‟altro, quelle sociali,
frutto dell‟amor proprio. Nel primo caso, l‟amore si presenta come un istin-
to di conservazione regolatore della vita umana, secondo dettami che seguo-
no una legge naturale; nel secondo, esso diviene principio emblematico di
tutto quel processo storico di corruzione della società9. L‟uomo portato ad
amare se stesso – quello per intenderci che comprende con Montaigne che
conoscersi vuol dire amarsi sopra ogni altra cosa e per la sua irripetibile origina-
lità, ma anche riconoscendo i propri limiti e trovando il giusto equilibrio tra
il sé e le passioni – non è lo stesso individuo che perde ogni grandezza quan-
do, per il troppo amore di sé, diviene vittima dei movimenti inconsci che lo
portano ad essere sottomesso alla forza delle passioni 10. La denuncia del-
7 Cf. in proposito quanto esplicitato sul pensiero di Agostino in R. BODEI, Ordo amoris. Con-
flitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 93: «L‟amore è un fuoco inestinguibi-
le, che ciascuno sviluppa attratto dalle proprie inclinazioni, un dono raro da coltivarsi con cura».
8 Cf. E. PULCINI (ed.), Teorie delle passioni, Supplemento di Topoi, 1989, pp. 6-7.
9 Ivi, p. 12. E ancora basta confrontare i sensi diversi dati da Descartes e da Pascal al moi,
che per il primo risulta estimable mentre per il secondo haïssable (per tali suggestioni si veda V.
CARRAUD, «Les deux infinis moraux et le bon usage des passions. Pascal et les Passions de
l’âme», XVIIe siècle 185 (1994) 4, pp. 676-678).
10 Cf. E. PULCINI, «La passione del Moderno: l‟amore di sé», cit., p. 135. Della stessa au-
trice si veda quanto espresso ne L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del le-
260 Sonia Vazzano
game sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 24 e in Teorie delle passioni, cit., p. 9.
11 «Cade cioè con Hobbes ogni illusione di un percorso soggettivo e separato dell‟Io che
educa, controlla, perfeziona se stesso, restando osservatore distaccato delle vicende del mon-
do» (EAD., L’individuo senza passioni, cit., p. 51). E tuttavia anche in Hobbes dove questa pas-
sione ha degli effetti fortemente distruttivi essa appare legittima e ciò da cui non si può pre-
scindere per fondare un ordine che non tradisca gli interessi individuali (EAD., Il potere di unire.
Femminile, desiderio, cura, Torino, Bollati Boringhieri, p. 152). Una tale distinzione sembra già
adombrata in R. DESCARTES, Passioni dell’anima, in Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono,
Torino, UTET, 1994, p. 678.
12 È la riflessione, ad esempio, di Nicole, per cui l‟uomo diviene un essere sconosciuto a
se stesso e che si muove solo in base all‟esteriorità del suo essere (P. BÉNICHOU, Morali del
«Grand Siècle». Cultura e società nel Seicento francese, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 86).
13 Non è l‟amore di sé ad essere cattivo al suo interno, ma è la qualità di chi lo attua a
renderlo buono o cattivo (R. BODEI, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e
uso politico, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 347).
14 E. PULCINI, L’individuo senza passioni, cit., p. 24.
15 Cf. AGOSTINO, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano, Bompiani, 2001, XI, 28, pp.
Tra senso e visione 261
551-552; XIV, 7, 28, pp. 652-653, 691-692; T. D‟AQUINO, La Somma Teologica, a cura dei
Domenicani Italiani, testo lat. dell‟ed. Leonina, Città di Castello (Perugia), Adriano Salani,
1958, I, q. 20, art. 2, pp. 206-208.
16 Descartes a Chanut, 1 feb. 1647, in R. DESCARTES, Opere filosofiche, cit., II, pp. 466-477.
262 Sonia Vazzano
volontà infinita. Insomma tra l‟amore di sé e l‟amore di Dio; dove nel primo
caso, siamo di fronte a un sentimento, una passione e un modo di pensare
che rimanendo nell‟uomo e soprattutto legato alla sua contingenza, cioè al
corpo, si connota come apparentemente negativo; mentre nel secondo, sia-
mo di fronte a un sentimento, una passione, un modo di pensare che dall‟uo-
mo a Dio (ma anche da Dio all‟uomo) si muove dall‟immanenza all‟essenza,
dal corpo all‟anima, secondo un‟ascensione del tutto positiva verso la ragio-
ne. Dall‟altro lato invece va tenuto in considerazione che la distinzione men-
te-corpo non dà modo di assolutizzare l‟amore in quanto positivo oppure
negativo, anche se c‟è sempre un tipo di amore che va preferito agli altri.
Il pensiero di Descartes è destinato a gettare un ponte tra la Francia e l‟In-
ghilterra dove la riflessione più rilevante sull‟argomento ci viene proposta nel-
le opere di John Norris, sulle quali ci soffermeremo a breve, che risentono
però fortemente del pensiero di Malebranche. Da La Ricerca della verità (1674-
1675) alle Conversazioni cristiane (1677), ma soprattutto nel Trattato sull’amore
di Dio (1697), la necessità della ragione viene intesa da Malebranche come co-
stitutiva del Creatore che si identifica con essa. In tal modo l‟ordine del mon-
do non risulta, alla maniera di Descartes, l‟espressione di una volontà arbitra-
ria, ma corrisponde a una ragione universale e infinita. Siamo di fronte a una
riflessione dagli esiti mistico-religiosi attenta a una nozione di piacere come
piena unione con Dio e, proprio secondo la mistica, ostacolo per tale unione.
Il tutto si riconduce alla distinzione tra anima e corpo per la quale Dio
diviene non solo causa di ogni evento, ma anche di ogni idea. Così la nostra
conoscenza degli oggetti non avviene per mezzo della percezione sensibile,
ma in virtù del nostro vedere in Dio tutte le cose, come se il Creatore comu-
nicasse in modo diretto le idee alla nostra mente. Il dubbio di Descartes vie-
ne risolto da Malebranche considerando Dio non come il semplice garante
della conoscenza dell‟uomo, ma come l‟autore del contenuto stesso della co-
noscenza, grazie a una particolare illuminazione interiore le cui dinamiche si
rifanno essenzialmente alla riflessione di Agostino. È proprio in tale ottica
che va ricompresa la distinzione di Malebranche sulle tre inclinazioni specifi-
che dell‟uomo: per il bene in generale, per la conservazione del nostro es-
sere, per tutte le altre creature, utili a noi o a chi amiamo: l‟amore per il be-
ne (Dio?), quello per il proprio sé e quello per il prossimo17.
Il punto di partenza del Trattato sull’amore di Dio di Malebranche è la con-
sapevolezza della conoscenza perfetta da parte del Creatore sia di se stesso
che dei suoi attributi e delle sue perfezioni; in una parola, della sua intera So-
stanza che ama compiacendosi di sé: amore che consiste nella sua stessa vo-
lontà18. E poiché per il Creatore niente è giusto se non segue l‟ordine delle sue
perfezioni, al di là della distinzione agostiniana tra carità o amore di Dio e
amore per la giustizia e per l‟Ordine, Malebranche preferisce identificare l‟amo-
re dell‟Ordine con quello di Dio e di tutte le cose in relazione a Dio19. Que-
sto vuol dire che, agendo per sé, Dio ha dato alle creature la capacità di co-
noscere e amare solo per „conoscerlo‟ e „amarlo‟, di quell‟amore dell‟Ordi-
ne, appunto, che è insieme giustizia e verità; in una parola: ragione. Così non è
il piacere a risultare cattivo in sé, né a procurarci niente di male e lo scacco si
produce nella scelta che segue quella che dovrebbe essere la nostra „norma‟
principale: „quello che Dio vuole che noi vogliamo‟20. Il puro amore sarà al-
lora quello in cui la nostra volontà si conforma a quella di Dio e ciò è pos-
sibile se lo amiamo, se vogliamo che Egli sia come è e se i movimenti della
nostra volontà si regolano sull‟Ordine. Non si deve amare se non ciò che è
amabile e niente è amabile se non è buono. Buono è, d‟altra parte, ciò che
risulta per noi benefico e in grado di renderci felici e perfetti, ma nulla può
produrre ciò se non è al contempo capace di agire in noi e non resta in qual-
che modo a noi superiore: è solo Dio che ama soprattutto ciò che è più de-
gno di amare e cioè Se stesso sopra qualunque altra cosa. Per questo ogni azio-
ne si rapporta a Lui, fine della creazione e della conservazione del nostro es-
sere, spirito e facoltà di conoscenza e di capacità di amare e di uniformare la
nostra volontà in virtù della sua conoscenza e del suo amore21.
In A Discourse concerning the Love of God (1696) Lady Masham combatte
proprio contro la posizione di John Norris, veicolata a partire da quella di
Malebranche, secondo cui è Dio, e non la creatura, la Causa immediata ed
efficiente delle nostre sensazioni. Il che significa che poiché tutto ciò che ci
dona piacere ha diritto al nostro amore, e dato che solo Dio ce ne dona
realmente, allora solo Egli ha diritto di essere amato da noi22. L‟intera ar-
gomentazione di Norris si gioca su un versetto di Matteo che recita:
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la
tua mente»23. Poiché secondo Norris, e secondo Malebranche prima di lui,
18ID., Conversazioni cristiane, a cura di A. Ingegno, Firenze, Olschki, 1999, II, p. 31.
19ID., Trattato sull’amore di Dio. Lettere e Risposta al R.P. Lamy, a cura di A. Stile, Napoli,
Guida, 1999, p. 58.
20 ID., Conversazioni cristiane, cit., II, p. 26. E ancora Trattato sull’amore di Dio, cit., p. 67.
21 Ivi, III, p. 45.
22 Cf. D, p. 7.
23 Mt 22,37.
264 Sonia Vazzano
le creature non hanno alcuna efficacia per agire su di noi essendo le sole
cause occasionali delle sensazioni che il Creatore produce in noi stessi24, da
ciò deriva che ogni atto che ci spinge a provare un qualunque tipo di
desiderio indirizzato verso la creatura è considerato criminale in se stesso
poiché rischia di introdurre in noi il fanatismo. A ciò si aggiunge la pretesa
di Norris di mostrare che i due comandamenti espressi nella Sacra Scrittura,
quello di amare Dio e quello di amare il prossimo, sono la prova che esi-
stono due diversi tipi di amore: un amore di desiderio con cui dobbiamo
amare Dio e un amore di benevolenza con cui si amano le creature25.
Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare
per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?
Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il
prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa‟ questo e vivrai”26.
In questo versetto Lady Masham non trova la distinzione relativa ai „tipi‟ di
amore di cui parla Norris; questa, infatti, non ha a suo avviso ragion d‟essere
e per un motivo su tutti: poiché di qualunque specie esso sia «l‟Amore attira
naturalmente dietro sé il Desiderio»27. L‟opinione di Norris, secondo la
quale gli oggetti dei nostri sensi risultano rispetto alle nostre sensazioni
piacevoli non cause efficienti ma occasionali, non ci dice per nulla come
dobbiamo amare le creature. È necessario dunque intenderci prima di tutto
sull‟amore, perché secondo Lady Masham
i Sapienti hanno parlato come se ci fossero due specie di Amore: Mentre l‟A-
more è tuttavia un semplice atto della Mente, sempre accompagnato dal Desi-
derio e anche dalla Benevolenza, quando l‟Oggetto è capace di ciò 28.
Perciò sapere se i corpi sono cause efficienti delle nostre sensazioni piace-
voli, oppure occasionali, non ha alcun rapporto con il nostro amore, per-
ché niente può essere ricercato senza essere amato e niente può essere
amato che non ci produca piacere29. Bisogna, è vero, distinguere tra un
amore di sé, un amore per le creature e l‟amore di Dio, che si erge al di sopra di
tutti gli altri amori; ma la cosa essenziale è nuovamente che
30 D, pp. 24-25.
31 Anche Leibniz si sarebbe soffermato su una tale distinzione ricollegandosi al Saggio di Locke
che aveva dedicato il capitolo ventesimo del suo secondo libro proprio ai modi del piacere e del
dolore. Leibniz risponde in tali termini nel capitolo XX della seconda parte dei Nuovi saggi sull’in-
telletto umano: «amare è esser portato a provare piacere per la perfezione, il bene o la felicità del-
l‟oggetto amato. In forza di ciò, non si prende in considerazione e non si cerca altro piacere se
non quello che si trova nel bene e nel piacere della persona amata ed in questo senso è impos-
sibile amare le cose che sono incapaci di piacere e di felicità, e di esse prendiamo piacere senza
amarle, a meno che non le personifichiamo, immaginando che esse stesse godano della loro per-
fezione. […] I filosofi e i teologi distinguono due specie di amore: l‟amore di concupiscenza, che è
il desiderio o il sentimento per ciò che ci procura piacere, senza interessarsi se esso lo riceva a
sua volta, e l‟amore di benevolenza, che è l‟affetto che si prova verso chi ci procura piacere o felici-
tà per mezzo del suo piacere o della sua felicità. Il primo pone in vista il nostro piacere, il se-
condo il piacere altrui, ma come costitutivo del nostro, perché se non si ripercuotesse in qualche
modo su di noi, non potremmo interessarcene non essendo possibile essere indifferenti al pro-
prio bene. Ecco come deve essere inteso l‟amore disinteressato o non mercenario, se si vuole
comprenderne la nobiltà, senza cadere nel chimerico» (G.W. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto
umano dell’autore del sistema dell’armonia prestabilita, in Scritti filosofici, 2 voll., a cura di D.O. Bian-
ca, Torino, UTET, 1968, II, XX, 4-5, pp. 292-293).
32 Cf. G. MOCCHI, Individuo bene fundatum. Controversie religiose moderne e idee per Leibniz,
Roma, Carocci, 2003, p. 173. Le pagine del Discourse rappresentano, allora, proprio la posi-
zione completa di Lady Masham nella controversia principale del suo tempo e la rivelano, in tal
senso, come una chiara ed ardente esponente della riflessione di Locke (cf. A. WALLAS, «Locke‟s
friend, Lady Masham», in Before the Bluestockings, London, George Allen & Unwin, 1929, p.
95). È possibile, altresì, che in entrambi i trattati Lady Masham si riveli una discepola di Lo-
cke; mentre al contrario la differenza si noterebbe in relazione alla corrispondenza, che mani-
festa un attaccamento maggiore al platonismo di Cambridge e al cartesianesimo (cf. S. HUT-
TON, op. cit., pp. 34-41).
266 Sonia Vazzano
nere che nessuna creatura sia capace di procurarci del bene; la verità è che
ogni giorno la nostra esperienza ci convince del contrario. E amare le crea-
ture conduce in realtà gli uomini, nel modo più naturale possibile, a cono-
scere Dio, ad amarlo e a servirlo.
E le passioni? Lady Masham si dice convinta del fatto che
Le Passioni quando sono forti, ragionano secondo una Logica loro propria,
non quella della Ragione, che spesso e abbastanza significativamente, capo-
volgono per soddisfare il loro Scopo. E quando la Religione si trova in questo
stato […] esse possono facilmente prendere occasione da quella, per formare
un Sistema completo, solo intelligibile per mezzo del Sentimento, ma non dal-
la Ragione; del quale, alcuni Teologi Mistici sono forse un esempio33.
È vero che spesso l‟uomo insensato ama con ardore, senza considerare se
l‟oggetto del suo amore meriti oppure no una tale considerazione; tuttavia,
amare ardentemente, con la mente, con l‟anima e con il cuore, significa
amare giudiziosamente e ragionevolmente così bene tanto quanto farlo con
passione34. La ratio non resta dunque esclusa dall‟amore perché ne è parte in-
tegrante; e amare Dio si configura come un dovere che la stessa religione ci
prescrive e che è allo stesso tempo il medesimo impostoci dalla nostra ragio-
ne. Ecco perché l‟errore e la miseria degli uomini non stanno tanto nell‟atto
del desiderare, ma nella mancata regolazione del desiderio. L‟amore di Dio è
sì da preferirsi, ma non richiede l‟esclusività, dato che non è non desideran-
do che si è felici, ma regolando i nostri desideri in relazione ai vari oggetti.
In definitiva, non l‟amore in sé va condannato, perché è da coloro che
amano che bisogna imparare, ma l‟identificazione tra soggetto e oggetto. È
il tema di una soggettività che entra prepotentemente nella scena della pas-
sione amorosa. Ed è l‟amore che si connota come un‟ulteriore soggettività,
perché dà la possibilità di dire io e di indicare l‟interiorità nel movimento
dell‟amore. Così se «Virtù morale e scelta religiosa richiedono entrambe
un preciso (e responsabile) impiego di intelligenza»35, allora siamo di fron-
te ad un percorso gnoseologico che si muove da uno stato naturale ad un
passaggio al senso e alla riflessione, gradini intermedi di quella conoscenza su-
prema della prima Causa rappresentata da un Essere intelligente, sapiente e
onnipotente, anche se impossibile da concepire. È il tema della conoscenza
del Creatore per mezzo dei suoi attributi: potenza, sapienza e amore36, il
33 D, p. 28.
34 Cf. ivi, p. 44.
35 OT, p. 96.
36 Cf. ivi, pp. 61-62.
Tra senso e visione 267
Upon the former and present state of the Soule), in L. SIMONUTTI, op. cit., p. 207.
41 Ivi, p. 209.
Sezione II
Varia e discussioni
INES ADORNETTI
Fondamenti cognitivi della trasmissione culturale.
Il caso della credenza religiosa
Gli esseri umani sono creature culturali. Sin dalla nascita la cultura è un
elemento fondamentale che caratterizza il nostro modo di essere e di rela-
zionarci con gli altri. Gli umani sono anche creature biologiche e questa na-
tura biologica è un elemento altrettanto importante per chiarire le pecu-
liarità della natura umana. Considerazioni, queste, assai scontate: chi può
negare che tutto il nostro comportamento è frutto di una complessa influen-
za reciproca tra eredità ed ambiente? Tuttavia, ricongiungere questi fatti e
farli stare insieme è impresa molto complessa: il dibattito tra chi sostiene
una comprensione esclusivamente culturale dell’uomo e chi, invece, ap-
poggia una comprensione biologica è lungo e assai acceso. In che modo, al-
lora, conciliare queste problematiche? Dal nostro punto di vista, per gua-
dagnare una prospettiva unitaria sull’essere umano è necessario analizzare
le condizioni di possibilità dei fenomeni culturali, è necessario chiedersi qua-
li possano essere gli effetti della biologia sul carattere e sul contenuto della
cultura. E proprio per chiarire la natura di tali effetti prendiamo in esame il
tema della trasmissione delle rappresentazioni culturali.
Seguendo Sperber (1996) quando parliamo di cultura ci riferiamo a idee
largamente distribuite e di lunga durata, alle loro rappresentazioni1 nelle
menti delle persone, e alle loro espressioni nei comportamenti e nelle inte-
razioni. In questa prospettiva, studiare la cultura significa studiare la distri-
buzione delle rappresentazioni, significa chiedersi perché alcune rappresen-
tazioni hanno più successo di altre in una popolazione umana. Le idee cul-
turali possono essere viste come dei virus contagiosi: la diffusione delle idee
è paragonabile a delle epidemie infettive. Quello che in questo lavoro cer-
cheremo di chiarire è perché alcune idee risultano più contagiose di altre.
Per rispondere a tale questione analizzeremo un caso specifico di trasmis-
sione culturale, quello della credenza religiosa. L’obiettivo è di mostrare
che ciò che rende più facile per gli esseri umani interiorizzare, ricordare e
trasmettere alcune rappresentazioni è l’organizzazione della capacità cogni-
dire quel prodotto del funzionamento del cervello definibile nei termini del suo rapporto cau-
sale con stati ed eventi del mondo e con le rappresentazioni che seguono da questo processo.
Nel 1895 Emile Durkheim sosteneva l’impossibilità di dare conto dei fat-
ti sociali attraverso spiegazioni psicologiche perché la cultura costituisce
una «realtà sui generis del tutto distinta dai fatti individuali che la manife-
stano»2. Secondo il sociologo francese fatti culturali e fatti psichici hanno
proprietà differenti e proprio in virtù di ciò i primi sono irriducibili e auto-
nomi rispetto ai secondi. In particolare, Durkheim attribuisce ai fatti sociali
due peculiarità, quella di esistere al di fuori delle coscienze degli individui
e di imporsi ad esse in maniera coercitiva ed imperativa. Essi sono
modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di
esistere al di fuori delle coscienze individuali. Questi tipi di condotta e di pen-
siero non soltanto sono esterni all’individuo, ma sono anche dotati di un pote-
re imperativo e coercitivo in virtù del quale si impongono a lui, con o senza il
suo consenso3.
L’essere umano diventa così un prodotto culturale: ciò che gli uomini sono
è interamente dovuto alla loro cultura d’appartenenza. Posizioni teoriche
del genere, fondate sul primato dei fattori esterni, che sostengono cioè
l’idea per cui l’organizzazione mentale che si osserva negli adulti sia social-
mente determinata, sono state definite da John Tooby e Leda Cosmides
(1992) Modello Standard delle Scienze Sociali7. Secondo i due autori, il
modello psicologico che fonda il MSSS non è plausibile da un punto di vista
empirico: l’idea di una mente plastica e indeterminata non regge alla prova
dei fatti. Nella teoria psicologica che sta dietro MSSS il concetto centrale è
quello d’apprendimento, «la finestra attraverso cui la complessa e preesi-
stente organizzazione prodotta culturalmente all’esterno riesce a insinuarsi
nell’individuo»8. Questo apprendimento avviene attraverso processi cogni-
tivi che sono generali per dominio (o indipendenti dal contenuto) che «de-
vono essere fatti in modo tale da poter assorbire ogni tipo di messaggio
culturale o input ambientale in modo ugualmente bene»9. Tuttavia, come
fanno notare Tooby e Cosmides, il MSSS si fonda su una psicologia implausi-
bile perché una struttura indeterminata non ha alcuna competenza, né è in
grado di rispondere in maniera contingente all’ambiente.
[U]n’architettura psicologica composta solo da meccanismi equipotenziali, ge-
neral purpose, indipendenti , o non vincolati, dal contenuto, non è in grado di
te questa dichiarazione d’intenti, secondo Geertz l’idea di una natura umana costante e
universale è un’illusione perché «le nostre idee, i nostri valori, le nostre emozioni sono,
come lo stesso nostro sistema nervoso, prodotti culturali fabbricati usando tendenze, capa-
cità e disposizioni con cui siamo nati, ma ciò non di meno fabbricati» (ivi, p. 95).
6 KROEBER 1948, trad. it. 1983, p. 271.
7 MALLON E STICH (2000, trad. it. 2006) usano l’espressione, di significato analogo ma
eseguire con successo quei compiti che la mente umana è in grado di eseguire
o risolvere […] essa non può dar conto del comportamento osservabile, e non
è un tipo di progetto che si sarebbe potuto evolvere10.
Una mente concepita in questi termini non può dar conto di come avven-
ga l’apprendimento, vale a dire non è in grado di spiegare il processo fon-
damentale che, secondo le ipotesi fondate sui primato dei fattori esterni,
farebbe dell’uomo un prodotto culturale. Quale è, allora, una possibile al-
ternativa (empiricamente fondata) a questo modello di architettura mentale?
10 Ivi, p. 34.
11 Ivi, p. 10.
12 Le pressioni selettive possono essere viste come dei problemi a cui nel corso del-
l’evoluzione i nostri antenati hanno dovuto far fronte. Le condizioni ricorrenti e durevoli
nel mondo che creano od ostacolano le opportunità riproduttive, come la presenza di pre-
datori, la scelta dei cibi, la vulnerabilità dei bambini, costituiscono dei problemi adattivi.
Un problema adattivo ricorrente seleziona in maniera costante le caratteristiche che, in un
determinato progetto, permettono la risoluzione di un problema. Durante il tempo evolu-
zionistico molte caratteristiche si accumulano e contribuiscono insieme a formare una
struttura integrata, un meccanismo ben progettato per risolvere i “suoi” problemi. Tale
struttura o dispositivo si definisce “adattamento”.
13 TOOBY & COSMIDES, 1992.
Il caso della credenza religiosa 275
14 Il rapporto tra problemi adattivi e meccanismi psicologici deve essere chiarito in ri-
sono essere suddivise in: adattamenti, presenti in quanto “selezionati per” (ad esempio, un
sistema di riconoscimento dei serpenti collegato a regole per la presa di decisione che
danno una motivazione per evitarli); “sottoprodotti”, presenti perché causalmente uniti ai
tratti che sono stati selezionati (ad esempio, l’evitare serpenti innocui); rumore, introdotti
da componenti stocastiche dell’evoluzione (ad esempio il fatto che una piccola percentuale
degli umani starnutisce quando è esposta alla luce del sole).
16 Cf. DARWIN, 1859 e WILLIAMS, 1966.
17 COSMIDES, 1989, p. 195.
276 Ines Adornetti
Diversi studi oggi depongono a favore dell’idea che la mente umana sia in ef-
fetti costituita da una vasta gamma di meccanismi che sono specializzati funzio-
nalmente, dipendenti dal contenuto, specifici per dominio18. L’architettura
mentale a cui dobbiamo dunque pensare è quella di un sistema formato da
diversi moduli cognitivi creati in riposta a problemi ambientali specifici.
Cultura e modularità
di tre-quattro mesi perché, oltre a comportarsi meglio di quelli più piccoli, non hanno an-
cora pienamente maturato la visione stereoscopica, la percezione del moto, l’attenzione e
278 Ines Adornetti
l’acuità visiva. Sebbene i test non possano di per sé stabilire cosa sia innato e cosa no, mo-
strando che cosa sanno i bambini a questa età si riducono le alternative.
27 Cf. SPELKE, 1990; CAREY E SPELKE, 1994.
28 BALL, 1973.
29 SPELKE & KESTENBAUM, 1986.
Il caso della credenza religiosa 279
30 PREMACK, 1990.
31 BARON-COHEN, 1995.
32 PREMACK & WOODROFF, 1978.
33 FRITH, 1989.
280 Ines Adornetti
34 Il termine folkbiology indica sia la disciplina sia il proprio oggetto di studio. Questa
indagine è stata condotta soprattutto dagli antropologi e ha dato origine ad una sottodisci-
plina dell’antropologia cognitiva: l’etnobiologia. Tuttavia i due termini sono intercambia-
bili dal momento che anche alcuni psicologi cognitivi si occupano di tali conoscenze, del
loro sviluppo durante l’infanzia, studiando la biologia ingenua (ACERBI, 2006).
35 KEIL, 1994.
Il caso della credenza religiosa 281
Per esempio, un gatto con cinque zampe costituisce una violazione del livello basico per-
ché si tratta di un’informazione specifica relativa al gatto; mentre un gatto nato da un cane
viola il principio della biologia ingenua associato alla categoria ontologica di ANIMALE se-
condo cui le cose viventi si riproducono all’interno della loro specie. Lo stesso vale per i
seguenti concetti: [1a] Esistono statue che ci ascoltano; [1b] Esistono statue così alte da
toccare le nuvole. Il primo concetto [1a] costituisce una violazione delle categoria onto-
logica ARTEFATTO; il secondo [1b] fornisce informazione inusuale sul concetto del livello di
base. Nonostante nelle rappresentazioni religiose vi siano stranezze di questi tipo, secondo
Boyer i dati antropologici suggeriscono che le violazioni a questo livello non costituiscono
le caratteristiche essenziali nella rappresentazione del concetto.
42 BOYER, 1994a, p. 407.
43 Ivi, p. 406.
286 Ines Adornetti
Il ruolo delle strutture concettuali intuitive nella memoria e nella trasmissione cul-
turale
Una ricerca condotta da Barrett e Keil (1996) sulla concettualizzazione
delle entità non naturali mostra come le inferenze sulle entità religiose so-
no governate dalla assunzioni intuitive relative alle categorie ontologiche,
le quali costituiscono dei vincoli sul modo in cui Dio viene rappresentato.
I due autori hanno esaminato il concetto di Dio di studenti universitari
statunitensi sottoponendo ad analisi sia le loro credenze teologiche, sia i
concetti utilizzati dai soggetti nella comprensione delle storie. A dispetto
delle descrizioni teologiche che rappresentano Dio come un essere infinito,
illimitato, perfetto, immateriale, immutabile, onnisciente, eterno, le per-
sone sembrano invece includere nei loro concetti intuitivi della divinità
delle caratteristiche antropomorfiche e naturalistiche. È possibile che gli
individui che esplicitamente abbracciano una descrizione teologica di Dio,
implicitamente nei loro pensieri quotidiani facciano ricorso a una versione
radicalmente differente?
Nella ricerca ai soggetti è stato prima chiesto di leggere delle brevi sto-
rie in cui Dio veniva presentato come una persona che agisce e, in un se-
condo momento, di ricordare se, nelle storie lette, vi fossero o meno dei
particolari tipi di informazione. Dai risultati è emerso che quando i sogget-
ti riflettevano sulle loro credenze teologiche relative a Dio producevano
descrizioni astratte della divinità: Dio non aveva proprietà fisiche o spaziali,
poteva sapere e occuparsi di tutto allo stesso tempo e per acquisire infor-
mazioni non aveva bisogno degli input sensoriali. I partecipanti fornivano
in questo caso una descrizione di Dio che Barrett e Keil hanno definito teo-
logicamente corretta. Quando invece era in gioco la comprensione delle
storie, i soggetti ricordavano in modo errato il Dio presentato nella nar-
razione: la divinità aveva ora una localizzazione spaziale, non era in grado
di occuparsi di più cose contemporaneamente ed era costretto a vedere e
sentire per acquisire conoscenza. In altre parole, mentre il Dio della rifles-
sione teologica conteneva molte violazioni delle assunzioni intuitive per
quanto riguarda gli agenti intenzionali, il concetto di Dio a cui i soggetti
ricorrevano nei compiti di comprensione sembrava invece molto più simile
agli agenti intenzionali ordinari – alle persone. Questo effetto, che Barrett
e Keil hanno definito «scorrettezza teologica», è stato replicato anche in
India44.
44 Cf. BARRETT, 1998. Secondo BARRETT (1999) è possibile ipotizzare per i concetti
Il caso della credenza religiosa 287
Conclusione
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GRAZIA BASILE
Dire le cose con ironia.
Nota a Le peripezie dell’ironia. Sull’arte del rovesciamento discorsivo
di Tommaso Russo Cardona.
1 Originale latino: «sed uti ei ferunt qui melius haec norunt Socraten opinior in haec
εἰρωνεία dissimulantiaque longe lepore et humanitate omnibus praestitisse. Genus est pe-
relegans et cum gravitate salsum cumque oratoriis dictionibus tum urbanis sermonibus ac-
comodatum».
Il riconoscimento, come indica la parola stessa, è il passaggio […] dalla non co-
noscenza alla conoscenza, e quindi alla reciproca amicizia o inimicizia tra i perso-
naggi dell‟azione drammatica destinati alla buona o alla cattiva fortuna. La più
bella forma di riconoscimento si ha quando intervengono contemporaneamente
casi di peripezia, come nell‟esempio […] dell‟Edipo (ARIST., Poet., 1452a, 30-35).
Dire le cose con ironia 293
2 Prova ne è il denso saggio sulla formatività del segno linguistico (tradizionalmente intesa
come la proprietà dei segni linguistici di stabilire tra loro delle relazioni fondate sulla
oppositività tra elementi significanti e elementi significati) nello scritto di Saussure De l’es-
sence double du langage, in cui Tommaso Russo Cardona affronta tale tema, ravvisando nelle
pagine saussuriane un‟interpretazione di carattere innovativo. La formatività non sarebbe una
conseguenza della nozione di sistema di differenze, quanto piuttosto sarebbe la nozione di
sistema a costituire un correlato della formatività linguistica, recuperando così una con-
notazione dinamica (di vera e propria ἐνέργεια in senso humboldtiano) di questa nozione (cf.
RUSSO CARDONA, 2007: 179). Cf. pure il saggio sui quaternioni (RUSSO CARDONA, 2008).
294 Grazia Basile
quel terme est déterminé par ce qui l‟entoure» – SAUSSURE, 1916; trad. it.,
1996, p. 141), non solo per quanto riguarda le relazioni che esso intrat-
tiene con gli altri elementi all‟interno di una lingua, ma anche in virtù delle
sue relazioni con i saperi, le esperienze, le pratiche di vita dei parlanti al-
l‟interno di una comunità. Le nostre parole, i nostri discorsi, i nostri pen-
sieri, emozioni, passioni ecc. non esistono – per riprendere le parole di
Saussure – «fuori della coscienza che noi ne abbiamo o che vogliamo pren-
derne a ogni momento. […] Una parola non esiste veramente, da qualun-
que punto di vista ci si collochi, che grazie alla sanzione che riceve di mo-
mento in momento da parte di quelli che la impiegano» (SAUSSURE, 2002,
trad. it., 2005, § 29b, p. 94).
Ciascun segno linguistico vive, insomma, all‟interno delle esperienze di
volta in volta diverse dei parlanti, delle diverse situazioni d‟uso, insomma dei
vari e variabili jeux de(s) signes (SAUSSURE, 2005, p. XXII). Sono parole che
richiamano la nozione wittgensteiniana di gioco linguistico, per cui, per
capire il significato di una qualsivoglia parola, è necessario far riferimento al
modo in cui tale parola è impiegata all‟interno dei diversi giochi linguistici
(WITTGENSTEIN, 1953, trad. it., 1974, § 43, p. 33), laddove «la parola “gioco
linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un lin-
guaggio fa parte di una attività o di una forma di vita» (ivi, § 23, p. 21).
Sullo sfondo dei jeux des signes (che poi sono anche e necessariamente
jeux de vie) si snodano i due principali fili conduttori di questo libro di
Tommaso Russo Cardona e l‟originalità della sua interpretazione: il primo
parte dalla riflessione filosofico-linguistica sull‟ironia come atto discorsivo
per approdare alle sue precondizioni nella dimensione ontogenetica e in
quelle forme di rituale studiate dagli antropologi che fanno emergere la
capacità degli esseri umani di rovesciare i punti di riferimento cognitivi e
affettivi abituali; il secondo riguarda la nozione di intenzionalità intesa co-
me prerequisito del discorso ironico, dell‟abitudine dei parlanti ad aspet-
tarsi che il nostro interlocutore intenda ciò che noi sottintendiamo.
Tommaso Russo Cardona va oltre la nozione classica di intenzionalità
quale viene proposta nella filosofia analitica (per esempio nella formula-
zione di Paul Grice – cf. GRICE, 1989, trad. it., 1993 – per cui non basta
che l‟ascoltatore comprenda qual è il desiderio del parlante a partire dalle
parole da questi proferite, ma anche che egli comprenda che il parlante sa
che lui riconosce questo suo desiderio) nel senso di un rimando a un con-
cetto psichico preesistente, intendendo l‟intenzionalità come «una nozione
ombrello, che include in sé il riferimento a quell‟insieme di segnali, lingui-
296 Grazia Basile
tuttavia, non elimina mai, ma anzi si sostanzia della zona d‟ombra del non det-
to, da cui trae alimento ogni forma di dialogo e di innovazione. La lingua si crea
il suo stesso antidoto e si nutre di silenzi e pause, di impliciti e di ineffabili che
a volte si ribellano e prendono la parola (ivi, p. 167).
Riferimenti bibliografici
Introduzione
siero umano. Secondo tali ambiti di ricerca, dagli studi sulla struttura del
linguaggio umano ai modelli artificiali dell‟IA, fino all‟indagine sulla costi-
tuzione del pensiero umano, i processi di comprensione e di interpreta-
zione degli enunciati, anche all‟interno degli scambi comunicativi, sareb-
bero sostanzialmente riducibili in vari modi a questioni di natura principal-
mente sintattica. Tutte le proprietà fondamentali del linguaggio, in parti-
colare le caratteristiche salienti legate ai suoi processi, vengono cioè mo-
dellizzate e descritte sulla sola base della loro struttura sintattica, formale e
combinatoria. In virtù di questa impostazione dunque, all‟interno di tale
programma di ricerca, gli aspetti ed i processi legati alla pragmatica del lin-
guaggio (in particolare quelli relativi al contesto degli enunciati) verreb-
bero di conseguenza sistematicamente tenuti in secondo piano. Oppure, in
certi casi, essi sembrerebbero addirittura essere considerati del tutto irrile-
vanti in relazione alla facoltà di linguaggio. E questo perché tali aspetti ven-
gono spesso legati più che altro alla conoscenza (o non-conoscenza) di spe-
cifici stati di cose del mondo, o al possesso (o meno) di certe informazioni,
e non tanto a questioni e dinamiche che sono strettamente legate al lin-
guaggio stesso.
Senza conoscere nulla sulla situazione, io so che se si persuade Gianni ad anda-
re a scuola, allora lui ad un certo punto avrà l‟intenzione o deciderà di andare
a scuola; se non lo farà, allora non lo si sarà persuaso. L‟affermazione che per-
suadere Gianni a fare qualcosa significhi causare il fatto che lui abbia l‟inten-
zione o decida di fare quel qualcosa, è necessariamente vera. È vero in virtù del
significato dei termini, indipendentemente da qualsiasi fatto: è una verità analiti-
ca, per usare il gergo tecnico. D‟altra parte, per sapere se l‟affermazione che
Gianni è andato a scuola è vera, bisogna conoscere certi fatti del mondo reale2.
Secondo tale linea teorica dunque, si darebbero degli aspetti legati alla
struttura degli enunciati, la loro forma logica, che risulterebbero essere in-
trinsecamente indipendenti dal loro contesto d‟uso e, in generale, dalla
pragmatica. Ora, seguendo questo ragionamento, visto che tali elementi
strutturali sono direttamente implicati all‟interno dei processi di elabora-
zione e comprensione degli enunciati del linguaggio, diventa allora pos-
sibile argomentare in favore dell‟autonomia della forma logica dal contesto
e, più in generale, a favore dell‟indipendenza della natura e struttura del
linguaggio dai suoi contesti d‟uso.
In contrasto con quest‟ultimo aspetto della questione, numerose ricer-
che che si collocano a metà strada fra la filosofia e la pragmatica del lin-
guaggio in senso stretto, e la scienza cognitiva (cf. GRICE, 1975, ma so-
prattutto SPERBER, WILSON 1986 e WILSON, SPERBER, 2004), sembrereb-
bero mettere sempre più in evidenza il ruolo determinante che giocano le
intenzioni e i processi inferenziali all‟interno dei contesti comunicativi. D‟al-
tra parte però, l‟MC, così come era stato concepito nella seconda metà de-
gli anni quaranta, all‟interno delle ricerche di Shannon e Weaver sulla teo-
ria matematica dell‟informazione, è un modello teorico che pare essere
davvero capace di catturare tutti gli aspetti strutturalmente salienti in gra-
do di descrivere il passaggio d‟informazione da una certa sorgente/emit-
tente ad un certo destinatario/ricevente. Secondo tale modello infatti, l‟in-
formazione prodotta dalla sorgente/emittente viene codificata in un segnale,
il quale viene poi trasmesso per mezzo di un canale, fino a raggiungere il de-
stinatario/ricevente che è in grado di decodificarlo e, dunque, di riceverlo. In
linea di principio, dato questo apparato teorico generale, qualsiasi scambio
d‟informazione o qualsiasi processo comunicativo potrebbe essere astrat-
tamente modellizzato in questi termini. Difatti, questo modello rappresenta
la base teorica fondamentale di qualsiasi sistema tecnologico di comunica-
zione: dal fax, alla telefonia mobile, a quella via cavo fino al world wide web di
internet. Ma il punto che ci interessa analizzare qui è un altro.
E cioè, come si mettono le cose quando ad una sorgente/emittente e ad
un destinatario/ricevente sostituiamo due individui reali in carne e ossa?
Lo stesso buon senso ci mostra che, almeno in parte, avviene esattamente
ciò che descrive il MC, come in effetti sostiene Fodor3: un parlante codifica
una certa porzione di informazione (un pensiero) in un linguaggio (delle
parole), la trasmette attraverso un qualsiasi mezzo (aria, rete elettrica o
telefonica, ecc.) e la indirizza verso un altro soggetto, il quale la decodifica,
ricevendone così un esatto duplicato. Quindi, in generale, segue proprio
da tale modello l‟idea secondo cui «nella comunicazione il messaggio viene
replicato passando da una mente all‟altra» (MARRAFFA, MEINI, 2005, p.
144). Come si può evincere da queste ultime considerazioni, MC definisce
e descrive la comunicazione umana appunto come una sorta di duplicazione
di pensieri, o di rappresentazioni, da parte di un certo parlante P ad un
certo destinatario D (da ora in poi, rispettivamente, “P” e “D”). In partico-
lare, questa tesi implicherebbe l‟idea secondo cui, nei contesti di interazio-
talmente nella produzione–trasmissione di ciò che un individuo „ha in mente‟ e nella sua ri-
cezione–comprensione da parte della mente di un altro individuo.
Forma logica e contesto 305
4
SPERBER, WILSON, 1986, trad. it. pp. 27, 30.
306 Fabrizio Bonacci
Secondo Sperber e Wilson ci sono due modi per derivare la (ci): per in-
ferenza, e cioè a partire dalle premesse (a) e (b), oppure decodificando il
segnale fonetico riportato in (c). La questione importante consiste nel fatto
che non è possibile però decodificare (ci) da (a) e (b), e questo perché «non
esiste alcun codice che definisca [(ci)] come il messaggio associato al segna-
le [(a)+(b)]». Reciprocamente, «non si può inferire [(ci)] da [(c)] perché un
segnale non implica il messaggio che veicola» (ibid.).
Seguendo tale prospettiva, possiamo dunque giungere ad una conclusio-
ne molto interessante. Infatti, se è vero che una lingua è, fra le altre cose,
«un codice che associa rappresentazioni fonetiche a rappresentazioni se-
mantiche», è però altrettanto vero anche il fatto che «la rappresentazione
semantica di una frase non coincide con i pensieri che possono essere co-
municati pronunciando quella frase» (ivi, p. 21). Ora, un dispositivo che
elabora informazioni seguendo le procedure che descrive l‟MC, per defini-
zione, dovrebbe operare esclusivamente mediante processi di codifica/de-
Forma logica e contesto 307
Nel caso della comunicazione verbale, secondo il modello che stiamo con-
siderando: D, a partire da un dato proferimento, poniamo da parte di P,
mediante implicature (avanzando cioè ipotesi e formulando inferenze) sa-
rebbe in grado di „derivare‟ o, meglio, di giungere a ciò che P ha l‟inten-
zione di comunicare (a partire ovviamente da ciò che P ha detto). In tal ca-
so dunque, per poter „derivare‟ tale „conclusione‟, D deve essere in grado
di elaborare: (i) l‟enunciato stesso (e cioè, la forma logica ed il suo conte-
nuto esplicito o convenzionale); (ii) il contesto enunciativo (le informa zio-
ni derivanti dal contesto); (iii) l‟ipotesi secondo cui P ha rispettato il PC e,
di conseguenza, le massime. Dunque, a partire da tali informazioni di base,
un‟implicatura griceana ha la seguente forma (lo schema è ripreso da BIAN-
CHI, 2003, p. 102):
I) P ha detto p
II) Il contesto contiene le seguenti informazioni…
III) P rispetta le massime
IV) Se I) P ha detto p, II) il contesto contiene le informazioni citate, e III) P
rispetta le massime – P deve voler dire q - P vuole dire q
Emerge dunque con chiarezza in quale senso specifico uno dei meriti
probabilmente più rilevanti del lavoro di Grice consisterebbe nell‟aver sot-
tolineato con forza il ruolo delle intenzioni del parlante all‟interno degli
scambi comunicativi. Come abbiamo suggerito sopra infatti, secondo Grice
il successo di un certo atto comunicativo dipende non solo (e, in svariati
casi, non tanto) dalla rilevazione della forma logica o dal riconoscimento
del significato convenzionale delle espressioni (o dalla loro „decodifica‟),
ma anche (e, in certi casi, soprattutto) dall‟identificazione delle intenzioni
comunicative del parlante. Laddove, è bene chiarirlo esplicitamente, le in-
tenzioni comunicative del parlante non sono altro che, come abbiamo sug-
gerito sopra, ulteriori indizi o informazioni di cui D tiene conto nello svol-
gere le proprie inferenze. Da parte loro, tali inferenze avrebbero lo scopo
specifico di determinare il significato dell‟enunciato proferito da P. Pro-
prio a tale proposito, il modello comunicativo proposto da Grice pone una
distinzione alquanto interessante. Stiamo pensando infatti alla fondamen-
tale differenza fra il significato dell’espressione (ciò che un‟espressione signi-
fica letteralmente o convenzionalmente) e il significato del parlante (il signi-
ficato che il parlante intende suggerire mediante un certo uso di una data
espressione). Il significato del parlante corrisponderebbe esattamente a ciò
che lo stesso parlante vuole o intende comunicare al proprio interlocutore.
In generale, secondo il modello griceano, ogni qualvolta un individuo
manifesta pubblicamente un‟intenzione egli non fa altro che compiere un
atto comunicativo. Di conseguenza, un parlante, nel compiere un atto lin-
guistico, non fa altro che manifestare una certa intenzione. Tale atto avrà
successo ogniqualvolta l‟intenzione comunicativa del parlante verrà ricono-
sciuta dal suo interlocutore (RÉCANATI, 1981). Segue dunque da queste te-
6 Secondo un‟ipotesi più generale infatti, «[l]‟insieme delle premesse utilizzate per
l‟interpretazione di un enunciato (eccetto la premessa base secondo la quale l‟enunciato in
questione è stato prodotto) costituisce ciò che viene chiamato contesto» (SPERBER, WILSON,
1986, trad. it. p. 31).
Forma logica e contesto 311
Fin qui, ciò è quanto sostiene il modello di Grice. Tuttavia, dal canto
nostro, vorremmo invece suggerire un‟ipotesi un po‟ più cauta a riguardo.
Forma logica e contesto 313
9 Secondo questa prospettiva, il significato del parlante sarebbe a fondamento del signi-
ficato convenzionale. Una certa espressione E ha un certo significato S per una comunità di
parlanti laddove si dà una regolarità di comportamento secondo cui, ogniqualvolta qual-
cuno utilizza E, egli intende S. Tale regolarità deve poi essere garantita dal fatto che P sa
che D sa che P sa che nella comunità vige una determinata convenzione (cf. BIANCHI, 2003).
Questo è uno degli aspetti più delicati e controversi di molti modelli comunicativi ela-
borati dai pragmatici del linguaggio in generale. Soprattutto perché sembrerebbe mettere
in gioco la nozione di «mutuo sapere» o «conoscenza mutua», su cui cf. LEWIS (1969), una
fra le nozioni più aspramente criticate (e con delle ottime ragioni, come vedremo) dal mo-
dello di Sperber e Wilson (cf. SPERBER, WILSON, 1986).
Forma logica e contesto 315
10 Come osservano molto lucidamente Sperber e Wilson «il modello del codice ha il
12 Come abbiamo del resto già sottolineato sopra, i contesti comunicativi della vita
quotidiana sono colmi di situazioni di questo tipo. Ad esempio, P: „Usciamo stasera?‟, D:
„Oggi ho avuto una giornataccia…‟, oppure, D: „Domani mattina ho l‟esame di Logica!‟; P:
„Facciamo un salto in piscina più tardi?‟. D: “Credo di avere qualche linea di febbre”.
318 Fabrizio Bonacci
sicurezza l‟esatto voler dire del locutore» (SPERBER, WILSON, 1986, trad. it.
p. 73). A quanto pare, l‟MC trascurerebbe dunque un aspetto molto impor-
tante della comunicazione umana, e cioè il fatto che P e D sono raramente
nelle condizioni di condividere un medesimo contesto. Ovvero, P e D solo in
condizioni eccezionali condividono la gran parte delle loro informazioni (cre-
denza, ipotesi, ecc.) sull‟ambiente fisico, le loro credenze, aspettative e buo-
na parte delle conoscenze allocate in memoria. Detto in altri termini, anche
se i membri di una medesima comunità con-dividono la maggior parte delle
capacità linguistiche e inferenziali, la stessa omogeneità non è però general-
mente riscontrabile nei confronti delle loro „ipotesi sul mondo‟:
Certo, nell‟elaborazione delle loro rappresentazioni sul mondo, gli esseri umani
sono limitati dalle capacità cognitive proprie alla specie. Inoltre, tutti i membri
di un gruppo culturale condividono un certo numero di esperienze, di insegna-
menti e di atteggiamenti. Ma al di là di questo quadro comune, ogni individuo
tende a sviluppare un sapere che gli è proprio. Esperienze di vita diverse pro-
ducono necessariamente saperi diversi. […] Mentre le grammatiche neutraliz-
zano le differenze fra esperienze dissimili, la cognizione e la memoria aggiun-
gono differenze a esperienze identiche (SPERBER, WILSON, 1986, trad. it. pp. 31-32).
6. Conclusione
In conclusione, se ciò che abbiamo in mente, quando si tratta di spie-
gare la comunicazione umana, è l‟MC allora siamo costretti ad accettare
l‟idea secondo cui deve essere possibile il darsi di un sapere comune e mas-
Forma logica e contesto 321
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ARMANDO CANZONIERI
Neurofenomenologia.
La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente
1 Articolo contenuto nel volume 3/1996 del Journal of Consciousness Studies, pp. 330-
350. Laddove verranno inserite delle citazioni, la pagina indicata farà riferimento alla ver-
sione contenuta nel testo Neurofenomenologia.
2 L‟articolazione sistematica di questo insieme di idee viene per la prima volta presentata nel
volume scritto con E. THOMPSON e E. ROSCH, The Embodied Mind, Boston, The MIT Press, 1991,
trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Milano, Fel-
trinelli, 1992. In lingua inglese è possibile approfondire questa stessa tematica consultando il te-
sto di N. DEPRAZ, F. VARELA e P. VERMERSCH, On Becoming Aware. A Pragmatics of experiencing,
Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 2002.
324 Armando Canzonieri
mo che questo sia il primo punto di forza dell‟intero testo. Esso fornisce al
lettore italiano non solo la possibilità di leggere, a volte per la prima volta
in italiano, dei saggi di J.L. Petit, allievo e collaboratore di Paul Ricoeur,
insegnante e ricercatore presso il Laboratorio di Fisologia della Percezione
e dell‟Azione di Parigi e da anni interessato allo studio fenomenologico e
neurologico del corpo proprio in movimento (pp. 163-194), di Natalie De-
praz, curatrice dei volumi XIII e XIV della Husserliana dedicati al problema
dell‟intersoggettività (pp. 249-270) e Jean Petitot, da anni impegnato in un
lavoro di ricerca sui fondamenti esperienziali dei concetti matematici e cura-
tore insieme allo stesso Varela del volume del 1999 Naturalizing Phenomenolo-
gy (pp. 95-124); ma anche di prendere coscienza delle ricerche che sono sta-
te avviate in Italia a partire dal progetto neurofenomenologico, come ad
esempio la riflessione teorica sulla relazione tra neuroni specchio, empatia e
intersoggettività, portata avanti da Vittorio Gallese, insegnante di neuro-
scienze presso l‟università degli studi di Parma (pp. 293-326), o il tentativo
di Roberto Ferrari (ricercatore in entomologia e biologia presso l‟università
degli studi di Bologna) di e Franco Bertossa (maestro di meditazione di indi-
rizzo buddhista) di creare un ponte reale di integrazione e confronto tra i ri-
sultati ottenuti dalla ricerca scientifica e filosofica occidentale sulla coscienza
e quelli ottenuti dalla ricerca e pratica meditativa in prima persona elaborati
in Oriente (con particolare riferimento alla tradizione buddhista)4.
Il volume è diviso in sei sezioni. La prima è dedicata ai rapporti tra con-
cetti matematici e struttura dell‟esperienza e ad essere chiamate in causa
sono quindi da un lato le ricerche che Husserl ha dedicato ai fondamenti
esperienziali delle scienze, dall‟aritmetica alla geometria e quelle di Mer-
leau-Ponty sulla nozione di Natura (Corsi al Collège de France 1952-53 e
1959-60), dall‟altro le nuove ricerche in geometria morfologica e le teorie
4 Un progetto così ampio e ambizioso non poteva naturalmente abbracciare tutte le ri-
cerche sull‟esperienza cosciente che prendono spunto o si confrontano con le linee teori-
che della neurofenomenologia; restano infatti ai margini del testo, nelle sue note e biblio-
grafie, tutta una serie di autori che all‟interno della fenomenologia iniziano a confrontarsi
con le contemporanee ricerche neuroscientifiche, come ad esempio DAN ZAHAVI (soprat-
tutto nell‟ultima opera scritta con SHAUN GALLAGHER, The phenomenological mind, cit.), o
ricercatori che a partire dalle scienze cognitive si avvicinano alla fenomenologia per revi-
sionare i propri assunti teorici, come ad esempio EVAN THOMPSON (rimandiamo ad esem-
pio all‟articolo scritto in collaborazione con ANTOINE LUTZ, “Neuro-phenomenology. In-
tegrating Subjective Experience and Brain Dynamics in the Neuroscience of Conscious-
ness”, Journal of Consciousness Studies 10, 2003, pp. 31-52). Questa non intende essere una
critica alla incompletezza del testo ma più che altro l‟espressione sincera della speranza che
tale lavoro sia solo al suo primo passo.
326 Armando Canzonieri
avere un corpo abbiamo due mani (p. 169). Le mani sono i primi quasi oggetti
che mostrano la loro funzione pratica nel toccare, nel toccarsi e nell‟afferrare,
attraverso questa attività, altri oggetti vengono sottratti al semplice campo
visivo e si legano al corpo partecipando alla sua cinestesi (p. 170) ma so-
prattutto le sensazioni tattili costituiscono uno spazio di auto-sensorialità che
è lo spazio del corpo proprio. Questo spazio non è l‟effetto di una rappre-
sentazione e le contemporanee ricerche in campo delle neuroscienze sem-
brano dimostrarlo. Le mappe neurali degli arti, infatti, mostrano un‟elevatis-
sima plasticità e variano da individuo ad individuo; esse sono continuamente
modificabili dall‟esperienza e sono piuttosto il riflesso della storia individuale
dell‟uso dell‟arto. La neurofisiologia spinge ai limiti paradossali la differenza
tra l‟immutabilità presunta del corpo fisico e la variabilità del corpo proprio
percepito (attraverso l‟uso che se ne fa) (p. 186).
Iniziamo a capire cosa può offrire una convergenza di analisi fenomeno-
logica e neurologica dei vissuti, ma che cosa significa di fatto analizzare i
vissuti in prima persona? Quali sono le pratiche concrete che corrispon-
dono ai concetti di epochè, riduzione e variazione eidetica? E come ricono-
scere nell‟esperienza concreta la struttura trascendentale di un vissuto?
Sono queste le domande affrontate nella terza sezione, soprattutto da
Natalie Depraz, Roberto Ferrari e Franco Bertossa. Secondo Natalie De-
praz è possibile mostrare che l‟epoché, la riduzione e la variazione eidetica
corrispondono a dei precisi esercizi di stabilizzazione che permettono all‟in-
dividuo di studiare la propria esperienza in atto. L‟epoché corrisponde ad un
gesto di sospensione del corso abituale dei pensieri. Non appena un‟attività
mentale, un pensiero fissato su un solo oggetto percepito mi distoglie dal-
l‟osservazione dell‟atto percettivo pur per riassorbirmi nella percezione
dell‟oggetto, io la letto tra parentesi. Essa continua ad esistere davanti a
me: io non l‟ho sradicata né negata ma essa non è più lì per me (p. 253).
L‟epoché deve essere, quindi, riattivata ad ogni istante; anche la variazione
eidetica alla ricerca di invarianti è una attività pratica da perfezionare attra-
verso dell‟esercizio dell‟immaginazione a partire dalla percezione e dal
movimento. Si tratta sempre di esercitarsi ad osservare e descrivere l‟espe-
rienza vissuta del soggetto che dice “io” e d‟imparare ad osservare i patterns
dinamici e a categorizzarli il più finemente possibile. Il fatto che si parli di
descrizioni e di categorizzazioni, rende comprensibile il fatto che la pratica
fenomenologica non è un‟introspezione soggettiva, ma un lavoro intersog-
gettivo i cui dati possono e devono essere verificati e ripresentati da altri
sia in prima sia in terza persona.
Neurofenomenologia 329
I due autori dell‟articolo hanno presentato questo progetto di ricerca anche all‟interno di
un libro edito da ALBO VERSORIO, Lo sguardo senza occhio. Esperimenti sulla mente cosciente tra
scienza e meditazione, 2005.
6 Per una prima introduzione ai problemi di natura filosofica che la scoperta dei neuro-
ni specchio ha sollevato, rimandiamo al testo So quello che fai. Il cervello che agisce e i neuroni
specchio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006. Per un primo confronto tra questa sco-
perta scientifica e i dati esperienziali sull‟empatia (Einfühlung) raccolti dalla fenomenologia
di Husserl, possono essere utili gli articoli di DIETER LOHMAR, “Über phantasmatische Selbst-
affektion in der typisierenden Apperzeption und im inneren Zeitbewusstsein”, Leitmotiv 3
(2003) e “Spiegelneuronen und die Phänomenologie der Intersubjektivität”, Interdisziplinäre
Phänomenologie 1 (2004), pp. 241-254.
330 Armando Canzonieri
1 A. SARCHI, “Lo studio de’ prede vive” di Antonio Lombardo, in J. BENTINI (ed.), Gli Este a
Ferrara, una corte nel Rinascimento, cat. mostra Ferrara 2004, Milano, 2004; C. HOPE, “The
„Camerini di Alabastro‟ of Alfonso d‟Este I”, The Burlington Magazine, 1971, pp. 641 sgg.;
MATTEO CERIANA (ed.), Gli Este a Ferrara, il camerino di alabastro, Milano, 2004; Il restauro
del camerino dei marmi di Alfonso I: lo studio dei bassorilievi del Museo Ermitage per il castello
estense di Ferrara, Ferrara, 2005.
2 C. HOPE, Il camerino di marmo: ipotesi per una ricostruzione, Ferrara, 2008; J. BISCON-
TIN, “Une frise de marre d‟Antonio Lombardo au musèe du Louvre”, La Révue du Louvre et
des Musèes de France, 1975, pp. 234 sgg.
6 A. BALARIN, Lo studio dei marmi e il camerino delle pitture di Alfonso I d’Este, in Gli Este a
alle capacità politiche e militari del duca Alfonso. Questa iscrizione è l‟unica
non riferibile ad antiche fonti ma ben si collega con la seconda grazie ai con-
cetti di otium e quies anticipati sulla destinazione del luogo.
«Hic numquam minus solus quam cum solus Alfonsus». Tale è l‟iscrizione posta
sul rilievo dell‟Ermitage, su una tabellina retta dalla Ninfa che secondo alcuni
studiosi è la personificazione della città di Ferrara. È una iscrizione ispirata al
De Officiis di Cicerone, precisamente al Proemio del libro III che recita: «Publio
Scipione, quegli che, o figlio Marco, per primo fu chiamato Africano, soleva dire, come
racconta Catone, che gli fu quasi coetaneo, che egli non era mai meno ozioso di quan-
do era ozioso, né meno solo di quando era solo. Parole invero magnifiche e degne di un
uomo grande e sapiente: ci mostrano che egli nell’ozio pensava agli affari pubblici, e
nella solitudine parlava con se stesso, così che mai era inoperoso, né sentiva il bisogno
di qualcuno con cui conversare. In tal modo l’ozio e la solitudine, che rendono langui-
di gli altri, accrescevano la sua attività»8.
Il tema dell‟isolamento attivo è fortemente presente nelle iscrizioni del
camerino dei marmi ed evidenzia la conoscenza, da parte di Alfonso d‟Este
(dell‟artista e dell‟eventuale consulente iconografico) del pensiero sene-
chiano in cui questo principio era particolarmente presente.
In un passo del libro VI del De Otio, ad esempio, si legge: «ma bisogna sa-
pere se ci si da alla contemplazione per il solo suo piacere, senza altro scopo che di
meditare assiduamente e infruttuosamente: è dolce cosa infatti il contemplare ed ha i
suoi allettamenti. Rispondo che lo stesso si può chiedere della vita civile: che bisogna
conoscere l’intenzione di chi si dedica ad essa e sapere se lo fa per vivere in una per-
petua agitazione, senza aver mai tempo di volgere lo sguardo dalla terra verso il
cielo. Come la brama delle cose, senza amore della virtù e senza cultura dello spiri-
to, e l’azione pura e semplice di chi agisce per agire, non è per nulla lodevole (giac-
chè la meditazione deve essere congiunta con l‟azione), così è imperfetta e
languida una virtù senza attività, abbandonata all’ozio, che non dà mai nessuna
prova di quel che ha imparato. Se dunque il saggio non chiede che di agire, solleci-
tamente, quando l’opera manchi e non l’operatore, gli permetterai di stare con se
stesso? Egli cerca un ritiro per giovare alla posterità operando in solitudine».
Una delle grandi innovazioni del pensiero senecano, ben ripresa nello
studiolo dei marmi con il costante riferimento delle iscrizioni, è quello del-
l‟esame di coscienza: nel cammino verso la sapienza è indispensabile appar-
tarsi e meditare tra sé. L‟otium e la quies, ovvero la fervida attività mentale
anche in solitudine, sono concetti strettamente connessi all‟analisi di se stessi
e mostrano come essa sia possibile solo qualora l‟individuo riesca a dominare
10 F. PANINI ROSATI, Medaglie e placchette italiane dal Rinascimento al XVIII secolo, Roma,
1968; J. BENTINI (ed.), Sovrane passioni, studi sul collezionismo estense, Milano, 1998.
338 Anna Cipparrone
SABADINO DEGLI ARIENTI, De Triumphis Religionis, è importante non solo per il suo valore
descrittivo ma anche perché in essa l‟autore unì celebrazione ed ammaestramento. Lo
scrittore esaltando le virtù del perfetto uomo politico (che a quei tempi era Ercole I) de-
dicò l‟opera al giovane Alfonso che, una volta ricevuto il suo mandato, avrebbe dovuto for-
marsi sul modello paterno.
I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 339
13 A.M. SCHULZ, La vita e l’opera di Antonio Lombardo in Gli Este a Ferrara, cit., p. 15
sgg.; A. SARCHI, Antonio tra i letterati e gli artisti del suo tempo, cit., pp. 35 sgg.
14 J. BENTINI, op. cit.; R. MORSELLI, Este e Gonzaga: “piccolo” e grande collezionismo di due
famiglie amiche tra ’500 e ’600, in I gusti collezionistici di Leonello d’Este, a cura di F. Trevi-
sani, cat. mostra Ferrara 2002-2003, Modena, 2003, p. 37 sgg.; G. GRUYER, L’art ferrarais
à l’èpoque des princes d’Este, 2 voll., Paris, 1897, I, p. 121; S. BALBI DE CARO (ed.), I Gon-
zaga, moneta, arte e storia, Milano, 1995.
340 Anna Cipparrone
prodotto, nel 1473, l‟editio princeps dello Speculum istoriale del domenicano
Vincenzo di Beauvais, evidenzia quanto Seneca fosse utilizzato in casi di in-
segnamento morale come quello del camerino estense. Attraverso questa
raccolta ed altre similari, che fungevano da prontuari per la preparazione
delle prediche e che raccoglievano in abbondanza sentenze senecane e
pseudosenecane, la fama di questo scrittore aveva raggiunto un numero ec-
cezionale di lettori.
Fra il 1490 ed il 1503 uscirono a Venezia quattro edizioni dell‟opera
completa di Seneca che ripetevano, con qualche aggiunta o innovazione, il
prototipo napoletano del 1475; in quegli stessi anni le Epistole furono stam-
pate anche a Siviglia, Saragozza e in Francia.
La prima edizione delle tragedie di Seneca fu stampata proprio a Fer-
rara nel 1478 da Andrea Beaufort detto il Gallico; pochi anni dopo, nel
cortile del cardinale Riario ebbe luogo la prima serie di rappresentazioni de
L’Ippolito. Questa tragedia fu rappresentata nel 1501 a Mantova – a tal pro-
posito si ricordino i rapporti tra il duca Alfonso e la corte gonzaghesca e il
viaggio romano di Alfonso nel 1508 – e quasi sicuramente fu messa in sce-
na anche a Ferrara nel 1509. Si tratta di una data successiva all‟ideazione
del programma ma consente di verificare l‟interesse nutrito nella corte
estense verso questo autore classico. Inoltre è quasi certo che nei primi an-
ni del Cinquecento furono molte altre le rappresentazioni e le pubblica-
zioni senecane tra Mantova e Ferrara, vista l‟erudizione dei mecenati e vi-
sta la loro sensibilità al recupero dei testi antichi.
Oltre alla diffusione ferrarese delle opere di Seneca, un altro dato molto
interessante è relativo alla pubblicazione veneziana delle opere morali del-
l‟autore, cui furono aggiunte, nel 1490 i Proverbia e le Naturales Quaestiones.
Lo scultore Antonio Lombardo proveniva infatti da Venezia e qui visse
fino al 1506, anno in cui si stabilì – fino alla sua morte – a Ferrara. Fino al-
la data del trasferimento egli lavorò nella bottega paterna assieme al fratel-
lo Tullio ed iniziò a ricevere pagamenti dal duca Alfonso già dal 1505, data
in cui ancora risiedeva a Venezia, iscritto regolarmente alla Scuola Grande
di San Marco (dalla quale fu espulso).
È palese la misura in cui l‟arte dei fratelli Lombardo fu influenzata dalla
cultura e dalla scultura classica romana, il che rese il loro lavoro un unicum
nel contesto della scultura italiana della fine del Quattrocento proprio per-
ché essi vivevano a Venezia, dove le esperienze ed il contatto con le opere
classiche non aveva dato altri frutti.
Nel camerino di Alfonso I la cultura classica di Antonio Lombardo è
I camerini dei marmi di Alfonso d’Este 341
dunque presente ed evidente in ogni opera sebbene si noti una netta cesura
tra il primo gruppo di marmi e quello eseguito successivamente al viaggio
romano del 1508, al seguito del duca.
Tra i testi diffusi nella corte di Alfonso, inoltre, un altro particolarmen-
te importante per decifrare le fonti cui il duca attinse per il camerino dei
marmi – oltre alla cultura classica introdotta personalmente dallo scultore
– è il Trattato di Leon Battista Alberti Della Tranquillità dell’animo che ri-
prende il titolo della stessa opera di Seneca. Inoltre l‟Alberti aveva dedi-
cato a Lionello d‟Este il Filodosso, nel 1436, e il Teogenio – al quale il trat-
tato sulla tranquillità rassomiglia – nel 1441. A confermare la conoscenza,
da parte della corte estense, degli scritti di Leon Battista Alberti e del testo
di Seneca cui uno di essi era ispirato, è la coincidenza per cui l‟Alberti, nel
momento in cui scriveva il Trattato, si trovava a Ferrara per la commis-
sione della statua equestre di Nicola III.
Il senso dei rilievi e delle iscrizioni presenti nel camerino dei marmi si
spiega, infine, confrontandolo con la successiva commissione del duca: il
camerino delle pitture nel quale furono chiamati pittori come Giovanni Bel-
lini, Dosso Dossi, Tiziano e Raffaello a dipingere una singolare mitologia
estense incentrata sul tema dell‟ebbrezza con un fregio ispirato alla vicenda
di Enea e alla fondazione di Roma15. Anche in questo caso fu protagonista il
tema degli eccessi, ma nell‟accezione opposta; mentre nel camerino dei mar-
mi, infatti, le scene dei rilievi e l‟apparato epigrafico si ispiravano al senso
della misura, all‟educazione del principe e al buon governo, nel camerino
delle pitture esse inneggiano all‟ebbrezza e alla vitalità della casata estense.
Pare incongruente la diversità tematica dei due camerini che tuttavia si
spiega con il monito morale espresso da Seneca nel De Tranquillitate animi:
«la cosa di gran lunga migliore è alternare il riposo con gli affari» e con le diverse
occasioni in cui il principe commissionò i camerini confermandosene, a que-
sto punto, attivamente coinvolto anche nell‟ideazione. Il primo, realizzato
subito dopo l‟elezione e dunque impostato sul tentativo di accettazione da
parte dei sudditi e sullo Speculum Principis cui ispirarsi e, il secondo, decorato
in un momento di forte consolidamento del suo potere in cui la possibilità di
concedersi pause e piaceri divenne una reale e accordata necessità.
15 C. HOPE, Cacce e baccanali nei Camerini d’Este, in Gli Este a Ferrara, cit., p. 169; Il
Molti degli studi sul rapporto lingua e genere hanno cercato di identificare
e di spiegare le differenze nello stile linguistico di uomini e donne anche in
un‟ottica trans-culturale (v. TALBOT, 1998 per un‟utile rassegna). Una del-
le differenze principali è stata rintracciata nell‟area della cortesia linguistica
e sebbene le donne vengano considerate più cortesi degli uomini, viene al-
tresì mantenuta l‟idea che la cortesia linguistica non può prescindere dalle
differenti concettualizzazioni che essa riveste nelle diverse culture per cui
non è possibile in assoluto stabilire e verificare se una cultura sia più o meno
cortese di un‟altra. Tuttavia è possibile determinare se esista o meno una
variazione nei mezzi linguistici utilizzati da uomini e donne per la realizzazio-
ne di diversi atti linguistici in termini di strategie comunicative che com-
prendono la cortesia.
Nel campo della morfologia, ed in particolare nell‟uso di mezzi morfo-
logici come i diminutivi, le differenze nell‟uso strategico di tali suffissi so-
no state messe in evidenza da alcuni studi sull‟italiano (DRESSLER e MERLINI,
1993, DE MARCO, 1995) e altre lingue (SIFIANOU, 1992).
All‟interno della tematica del linguaggio femminile, ed in particolare in
relazione all‟influenza esercitata dal ruolo maschile e femminile sulle modi-
ficazioni del comportamento linguistico, diversi dei numerosi studi sulla
stereotipizzazione del linguaggio hanno mostrato una certa similitudine nei
giudizi espressi da entrambi i sessi nei confronti del linguaggio esibito da
uomini e donne. In generale, dalle osservazioni effettuate nel corso di una
indagine condotta su dati di parlato spontaneo è stata rilevata una certa dif-
ferenza nell‟attribuzione di alcuni modi di esprimersi o, nel caso specifico,
nel repertorio lessicale proprio dell‟uno o dell‟altro sesso e con una preva-
lenza da parte delle donne di una attesa specifica e differenziata da parte dei
due sessi (DE MARCO, 1998). Anche nella scelta lessicale gli stereotipi pos-
sono, dunque, costituire un mezzo per controllare la propria produzione
lessicale o far passare dei messaggi particolari in relazione a tali scelte.
Limitarsi, tuttavia, a considerare la sola variabile sesso come unica di-
scriminante nelle differenti modalità di comunicazione e assumere che il
comportamento di uno dei due sessi sia prototipico (in genere è quello ma-
schile ad essere assunto tale), significa impoverire il concetto di interazione
ed intraprendere un percorso di analisi metodologicamente inadeguato. Ma
quest‟ultima riflessione è proprio ciò che approfondiremo in questo studio.
1. Metodologia
1 I dati sono stati raccolti dalla stessa autrice in scambi comunicativi di vario tipo (con-
versazioni faccia a faccia e telefoniche, colloqui formali, trasmissioni radiofoniche e televi-
sive, ecc.). Alcuni dati sono stati presi dall‟indagine condotta da DRESSLER e MERLINI (1994).
2 La visione componenziale della linguistica, nella caratterizzazione chomskiana della
teoria linguistica, è basata essenzialmente sulla concezione modulare della mente umana.
Le facoltà umane sono pensate come unità indipendenti e il modulo linguistico, svincolato
e autonomo da ogni altra facoltà ha un suo dominio specifico: all‟interno del componente
linguistico, i sottocomponenti, sintassi, semantica, ecc. lavorano in modo autonomo e indi-
pendente l‟uno dall‟altro. In questo paradigma di ricerca, alcuni autori hanno ritenuto che la
pragmatica potesse essere considerata un modulo alla stregua degli altri e di interagire
quindi con essi sul piano delle strutture mentali, indipendentemente da circostanze comu-
nicative concrete (KASHER, 1991).
344 Anna De Marco
2. La categoria di genere
Le categorie di genere sono considerate status sociali e culturali istitu-
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 345
Gli individui possono, in sostanza, avere diverse identità sociali, alcune delle
quali possono essere più importanti di altre a seconda della situazione, ma in
nessun modo essi possono evitare di identificarsi in una delle due categorie
sessuali. Sono proprio questi comportamenti che ci identificano come parte
di una categoria e che rendono possibile questo “fare” o “realizzare” il genere
nella vita quotidiana. Così, se da un lato assumiamo dei comportamenti che
sono tradizionalmente legati ad una particolare categoria, possiamo allo stes-
so tempo sfidare tali categorizzazioni ed assumere atteggiamenti che perso-
nalizzano la differenza.
Evitare di „fare‟ il genere sembra impossibile in quanto rende l‟organiz-
zazione sociale basata sulla categoria sessuale „normale‟ e „naturale‟. Se gli
uomini esercitano potere e autorità e le donne esprimono rispetto e devo-
zione, l‟ordine sociale che ne risulta e che riflette delle “disposizioni naturali”,
legittima ed allo stesso tempo rafforza l‟ordine gerarchico. Se dunque „fac-
ciamo‟ il genere nella maniera appropriata, riproduciamo e confermiamo que-
st‟ordine sociale basato sulla categoria sessuale, se falliamo, invece, siamo
chiamati a dare conto di questo come individui. Ma proprio perché l‟indivi-
duo è costantemente chiamato a legittimare o meno il genere per mantenere
il proprio status, il cambiamento è sempre possibile quanto lo è ricrearne
uno nuovo e affermare così la propria diversità.
Uno dei potenti strumenti delle differenze fra i sessi che ha a che fare con
la percezione dell‟individuo da parte degli altri e che può minacciare, allo
stesso tempo, la libertà di azione, è il pregiudizio che si cristallizza nello
stereotipo. Nella valutazione dei parlanti del tipo di linguaggio caratteriz-
zante il genere o l‟appartenenza socioculturale, gli stereotipi giocano un ruo-
lo predominante e caratterizzano un costrutto da cui partire per interpretare
e valutare specifici comportamenti linguistici.
Studi recenti sulle differenze di percezione tra linguaggio femminile e
maschile hanno rilevato che, in situazioni identiche ed esibendo lo stesso
comportamento, uomini e donne ricevono differenti valutazioni. In un espe-
rimento condotto attraverso l‟ascolto di voci di uomini e donne, di letture
ripetute più volte con variazione della qualità della voce (picco, tono, veloci-
tà del parlato), gli ascoltatori hanno dato valutazioni differenti del compor-
tamento linguistico palesemente dipendenti dal genere (ADDINGTON 1968).
La conclusione a cui in ogni caso giungono simili studi (ARONOVITCH
1978; STREET e HOPPER 1982) è che la forma del nostro linguaggio in sé non
determina il modo in cui esso viene percepito ed ascoltato ma che invece,
almeno in parte, alcuni costrutti sociali come il genere danno luogo a valuta-
Diminuitivi, genere e cortesia linguistica 347
Tra i mezzi linguistici atti a mitigare l‟atto linguistico della richiesta al fi-
ne di attuare strategie di cortesia positiva o negativa troviamo i diminutivi
che vengono usati allo scopo di diminuire la propria responsabilità verso un
atto linguistico, ad esempio una richiesta, o la sua forza illocutiva. Nel mo-
dello individuato da DRESSLER e MERLINI (1994) come „morfopragmatica‟, e in
particolare nella definizione del significato attribuito ai diminutivi, i due au-
tori mettono in evidenza il fatto che accanto alla denotazione morfoseman-
tica [piccolo] che caratterizza appunto il significato denotativo dei diminutivi,
è possibile assumere il significato morfopragmatico generale [non-serio] che
rappresenta la caratteristica costitutiva morfopragmatica dei diminutivi.
Se si mette in relazione la caratteristica morfopragmatica invariante [non-
serio] con la caratteristica morfosemantica [non-importante] la prima può es-
sere può essere collegata metaforicamente alla denotazione morfosemantica
[piccolo], riferendosi, in maniera più specifica il suo alloseme „con relativa
scarsa importanza‟. Perciò si assume che, all‟interno della morfologia, il si-
gnificato delle regole di formazione del diminutivo includano un‟entrata che
indica che un diminutivo può essere usato metaforicamente per connotare la
non serietà di un atto linguistico.
Una delle realizzazioni della caratteristica [non-serio] è il carattere ludico4,
che spesso è il significato pragmatico predominante, oppure il diminutivum
puerile usato in situazioni di linguaggio incentrato sui bambini o in quelle me-
taforicamente ricreate nel linguaggio amoroso o in atti comunicativi che in-
cludano gli animali o, ancora, nelle ricostruzioni ironiche di un mondo bam-
binesco. Altre realizzazioni occorrono in strategie per mitigare atti di impo-
sizione verso l‟interlocutore, ad esempio, nelle richieste o negli ordini che
prevedono un possibile rifiuto dalla controparte, o anche nei casi di atti di
minaccia. Il ricorso ai diminutivi avviene per esprimere, inoltre, eufemismi,
minimizzare l‟importanza di qualcosa, modestia verso se stessi, ironia verso
un interlocutore.
Fattori regolativi per l‟uso dei diminutivi che condizionano la loro appli-
cazione o il loro uso sono, ad esempio, la familiarità e l'intimità caratteriz-
zanti la relazione tra lo speaker e le varie componenti della situazione comuni-
cativa. Altri ancora sono la simpatia e l‟empatia che vengono caratterizzati
the social goal of entertaining and making people socialize and thus is a more specific con-
cept than Malinowsky‟s “phatic communion”. It tipically occurs in spontaneous, casual con-
versation, such as small talk in all circumstances […] Homileic discourse is often charact-
erized by fictive, aesthetic and/or ludic aspects» (DRESSLER e MERLINI, p. 8).
350 Anna De Marco
terno di una situazione in cui altre persone siano presenti. Lo stesso barista,
infatti, evita di utilizzare i diminutivi con una donna che ha lo stesso status
sociale del referente, ossia una professoressa che abitualmente frequenta il
bar per prendere il suo cappuccino mattutino. La restrizione, in relazione al
genere, può essere spiegata dal fatto che la valenza non seria dei diminutivi
può essere fraintesa dalla donna e considerata come intrusiva nella propria
vita privata. Solitamente i diminutivi vengono generalmente associati ad espres-
sioni di emozioni spesso giudicate come delegittimanti di un certo potere
della donna. Il fatto, quindi, che essi vengano utilizzati come strumento per
realizzazioni non serie di interazione, soprattutto quando il fine è quello di
stabilire un contatto più familiare, può dar luogo ad una reazione negativa
nei confronti dell‟ascoltatore. L‟idea che tali mezzi non siano opportuni per-
ché possono segnalare un rapporto di intimità troppo forte con l‟interlocuto-
re (donna, in questo caso) è un dato socialmente condiviso che è possibile os-
servare in diverse situazioni d‟uso in cui il rapporto non sia, però, già intimo
fra gli interlocutori.
La rilevanza di questi fattori regolativi per l‟uso dei diminutivi può essere
meglio chiarita all‟interno di un approccio sociologico che tenga conto dei
rapporti fra gli individui e delle dinamiche all‟interno delle relazioni fra ruoli
sulla base di una certa organizzazione. Le credenze e gli stereotipi sono ele-
menti che emergono proprio dall‟interazione tra elementi della costruzione
sociale della realtà e la personalità dell‟individuo che incarna e gestisce tali
elementi (e ne fa strumento di manipolazione di alcune situazioni) necessari a
spiegare la variabilità in alcuni usi dei diminutivi.
Il significato dei diminutivi, come potente mezzo strategico, non può de-
rivare da caratteristiche connotative del tipo [grazioso, piacevole] né dal si-
gnificato denotativo [piccolo]. La caratteristica morfopragmatica [non serio]
che viene attribuita all‟intero atto linguistico fa sì che la distanza psicologica
si riduca e che la formalità dell‟atto diminuisca. I fattori regolativi sono quin-
di direttamente legati alla caratteristica astratta [non serio], e quest‟ultima
alla situazione linguistica definita dagli interlocutori (DRESSLER e MERLINI, p.
218) o, per ritornare all‟approccio goffmaniano, alla cornice sociale rappre-
sentata dalla globalità delle relazioni sociali.
se da un lato, con la variante (7b) il peso (in termini di compito) che pesa sul-
l‟interlocutore non viene ridotto, dall‟altro, il modo molto cortese di porre
la richiesta in (6), aumenta l‟obbligo sociale di eseguire la richiesta. Un rifiu-
to in questo caso sarebbe possibile con lo stesso grado di cortesia attraverso
l‟introduzione di scuse, spiegazioni ecc. La parola paginetta e la conseguente
riduzione della distanza psicologica, può essere intesa dal parlante come un
tentativo di ottenere un beneficio senza un aggravio di costi per il destinatario.
L‟effetto del diminutivo, dunque, non è quello semplicemente di rendere
la richiesta più cortese quanto piuttosto quello di aggiungere un elemento lu-
dico che rende la scortesia irrilevante. Uno dei mezzi per disinnescare gli atti
di minaccia per la faccia infatti è quello di indicare che l‟atto di imposizione e
l‟intrinseca serietà dell‟atto non sono molto elevati, effetto che viene attuato
attraverso l‟elemento [non serio], che permette al parlante di sfuggire alla pro-
pria responsabilità e di ridimensionare a tal fine la sua richiesta.
Nella richiesta seguente una figlia in difficoltà a chiedere al padre il per-
messo di passare un week-end fuori città esprime il suo desiderio in modo
esitante per evitare che l‟eventuale rifiuto sia per lei troppo costoso:
(8) Ci sarebbe una gitarella tra amici il prossimo fine settimana…
Come abbiamo già sottolineato sopra, tra i fattori che bloccano l‟uso dei di-
minutivi vi sono certamente la distanza sociale e il potere. Quest‟ultimo è in-
teso, tuttavia, non solo come come il potere sociale che deriva da uno status
sociale ma anche dal fatto di possedere una forte personalità. Di conseguenza
la posizione di superiorità limita l‟uso dei diminutivi.
“cortesia negativa”). Una tale strategia si mostra utile anche per evitare effetti
conflittuali, nel caso di richieste insistenti del tipo:
(14) Posso chiederti un ultimissimo piacerino?
Il parlante, in realtà, cerca di ridurre al minimo i rischi sociali in quanto, pre-
sumibilmente, vuole che l‟interazione sia di tipo cooperativo. Egli, infatti,
teme che il destinatario possa innervosirsi in seguito alla ripetizione di richie-
ste identiche. Proprio per il fatto che le richieste insistenti violano la condi-
zione preparatoria (SEARLE, 1969), per cui non è chiaro né a P né a D che D
farà A nel corso normale degli eventi, c‟è il rischio di effetti negativi sul de-
stinatario.
Tra i direttivi non impositivi, che escludono i casi trattati finora, ci sono
una serie di altri atti linguistici come il consigliare, il dare istruzioni, l‟av-
visare, il suggerire che sono principalmente espressi per il beneficio del de-
stinatario. Nel corpus di dati è emersa principalmente la serie inclusa nei sug-
gerimenti e consigli. Anche in questi casi, come per le richieste, la forza il-
locutiva viene diminuita in relazione alle diverse dimensioni sopra analizzate.
Uno degli esempi che mostra questo tipo di modificazione è quello del sug-
gerimento di un fratello nei confronti della sorella che ha bisogno di essere
incoraggiata nel proseguimento della sua tesi di laurea:
(15) Qui modificherei due o tre cosettine…
in questo caso è la relazione, ma anche il ruolo (non autoritario in questo
caso), che influenza l‟utilizzo del diminutivo.
Nel caso di un consiglio su come condurre una presentazione di una tesi
di laurea, il professore dà le indicazioni alla studentessa, per ridurre la dif-
ficoltà del compito ed incoraggiarla a lavorare:
(16) Ora ti prepari la tua bella presentazioncina di due o tre cartelline…
È evidente inoltre, allo stesso tempo, come l‟uso del diminutivo (insieme al
modificatore „bella‟) aumenti l‟importanza dell‟atto richiesto esaltandone i
benefici.
relatà e delle interazioni verbali può offrire una spiegazione alla variabilità
nell‟uso di strategie pragmatiche dei diminutivi all‟interno di fattori legati al-
la personalità dell‟individuo, ai rapporti che questi stabilisce con gli altri indi-
vidui basati su relazioni fra ruoli, credenze, esperienze personali (compresa
la capacità di riflettere sulle proprie esperienze).
L‟ipotesi secondo cui il ruolo di genere è irrilevante nella frequenza d‟uso
dei diminutivi trova conferma nei dati analizzati, anche se le donne tendono a
farne un uso più ampio con i bambini che sono i parlanti prototipici verso i quali
queste forme sono generalmente dirette (cf. DE MARCO, op. cit.). Le differenze
di uso strategico dei diminutivi sono state difficili da quantificare per la mole del-
le variabili che entrano in gioco a caratterizzare ogni situazione di interazione.
Rispetto al tipo di strategie che i parlanti compiono attraverso l‟uso dei di-
minutivi, le donne sembrano tendere, più degli uomini, ad utilizzare i dimi-
nutivi in atti che richiedono mitigazioni per il raggiungimento dello scopo per-
locutivo, come nel caso delle richieste. In certi casi la mitigazione occorre, nel-
le richieste, per evitare certi effetti conflittuali, come, ad esempio, offendere il
destinatario o creare situazioni di conflitto. Una possibile spiegazione che giu-
stifica la preferenza delle donne per questo tipo di uso può risalire al fatto che
le donne tendono, in generale, ad essere più cooperative degli uomini nelle
interazioni ed a voler “negoziare” maggiormente con l‟interlocutore.
Un altro tipo di uso che, in generale, le donne prediligono rispetto agli
uomini, è quello che serve ad esprimere un atto di valutazione. Produrre un
atto di valutazione, come sottolineano Dressler e Merlini (cit., p. 153), può
essere rischioso, in quanto l‟interlocutore può reagire con un atto di disap-
provazione; uno dei modi per minimizzare questo rischio è quello di modifi-
care la valutazione attraverso il diminutivo che riduce il grado di precisione
del contenuto proposizionale. Gli studi compiuti sulle differenze del linguag-
gio maschile e femminile e la sottolineata tendenza del linguaggio femminile
ad essere più impreciso e caratterizzato da maggiori modificazioni nella cate-
na del parlato sembrano supportare quest‟ultima osservazione. L‟incidenza
di stereotipi sul comportamento linguistico delle donne in particolare può
essere correlata al comportamento linguistico di alcune di loro che non sem-
pre risultano appartenere al livello socioculturale basso.
Per quanto riguarda le situazioni incentrate sui bambini, la centralità del
bambino si è rivelata una variabile favorevole per una maggiore frequenza e
produttività dei diminutivi.
Questi risultati sono ancora piuttosto primitivi ed attendono maggiori
conferme da ulteriori ricerche. Un‟analisi più mirata di situazioni meno dif-
358 Anna De Marco
5. Conclusioni
Questa analisi ha cercato di adempiere a due compiti importanti: a) sta-
bilire il tipo di strategie pragmatiche attraverso l‟uso dei diminutivi e le dina-
miche esistenti fra ruoli e rapporti sociali, da un lato, e le caratteristiche della
situazione sulla base delle quali i parlanti attuano tali strategie; b) valutare le
correlazioni esistenti fra strategie di cortesia, attraverso l‟analisi delle richie-
ste, e la variabile genere.
Dall‟analisi delle situazioni che abbiamo riportato abbiamo potuto cogliere
un aspetto importante che riguarda i diminutivi e cioè che, a differenza degli
altri suffissi derivazionali, essi modificano l‟intero atto linguistico e non il sin-
golo lessema. L‟applicazione della caratteristica [non-serio] alla situazione lin-
guistica o all‟intero atto si è rivelata condizione indispensabile affinché la regola
produttiva di formazione dei diminutivi possa venire applicata.
360 Anna De Marco
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ROSSELLA DE ROSE
Sulla filosofia della tragedia.
La morte dell’Anticristo
1 AGOSTINO, Grazia e libertà, Roma, Città Nuova, 1990. Sono volutamente trascurati i
turistiche. In principio era il Verbo – L’amore cristiano – L’attesa della creazione, Brescia, Morcel-
liana, 2000, pp. 87-91.
6 N. LOSSKIJ, Dostoevskij i ego cristianskoe miroponimanie, Moskva, Isdatelctvo imeni Če-
Diario di uno scrittore, a cura di E. Lo Gatto, Firenze, Sansoni, 1963, p. 219. Proprio questo
spiegherebbe perché, a giudizio di Dostoevskij, George Sand, il cui nome è in qualche mo-
do legato al socialismo, rimanesse una scrittrice cristiana. Cf. ivi, p. 712.
8 E. FROMM, Fuga dalla libertà, Milano, Mondadori, 1994, pp. 76-77.
364 Rossella De Rose
della libertà, essa anticipa la rovina del mondo. Dostoevskij ricordava anzi-
tutto che la libertà assoluta apre all‟individuo la possibilità della rivolta, a
volte insensata, che costituisce una minaccia di distruzione dell‟uomo e la
cagione della sua rovina. Egli comprendeva perfettamente, in quanto tutti
gli sforzi della cultura etica dell‟ortodossia tendevano proprio ad eviden-
ziare l‟ambivalenza della libertà naturale, le contraddizioni paradossali de-
rivanti dall‟autonomia della volontà9. «La libertà – annota Berdjaev – con-
sente il trionfo del male, e quest‟ultimo conduce alla sua eliminazione. […]
Con il tempo, la libertà degenera in un “bisogno” del male. A sua volta,
ogni limitazione della libertà in nome del bene conduce ad una bontà ine-
luttabile e coercitiva, ed anch‟essa degenera, in quanto il bene per neces-
sità non è tale, essendo la sua natura condizionata dalla libertà»10. Buona
parte degli interpreti non ha mancato di porre in rilievo come il dramma di
Aleksej Kirillov fosse attinente alla sfera della libertà naturale. Non è pro-
priamente così. Al pari di chiunque, a Kirillov è dato di poter scegliere dei
valori, ma l‟autentica cagione della sua caduta non risiede nella legge stessa.
Non si può limitare l‟essenza del kirillovismo11 al dramma della libertà na-
turale. Il suo destino rivela forse una tragedia ancor più profonda e ter-
ribile: il processo della riduzione ideologica della libertà cristiana. L‟es-
senza della libertà cristiana consiste nella volontaria restituzione a Dio del
diritto alla libera scelta. Ma esclusivamente a Dio. Imitare Cristo si ridur-
rebbe proprio ad imitare la Sua sottomissione alla volontà del Padre: «Però
non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu» (Matteo 26,39). Tale atto,
asserisce Evdokimov, costituisce la nostra risposta al disinteressato amore
di Dio per l‟uomo12. Dio elargisce amore senza ricompense, senza merito,
13 Ivi, p. 86.
14 J. SAMARIN, Istoričeskie i literaturnye vzgljady «Sovremmenika», Moskva, Grazdaninim, 1933, p. 5.
15 K. AKSAKOV, Polnoe sobranie sočinenij, I, Moskva, Grazdanin, 1889, pp. 16-23. Si ve-
da anche il seguente passo: «Un tempo si era affidato al principe di Mosca, ora doveva vo-
lontariamente affidarsi allo zar di tutte le Russie» (ivi, p. 27).
16 «Da noi la libertà civica può stabilirsi nel modo più pieno, più pieno che in qualsiasi
altro luogo del mondo, che in Europa e perfino nell‟America del Nord, e appunto su que-
sta base adamantina essa si costruisce. Non viene cioè proclamata con un atto scritto, ma si
costruisce semplicemente sull‟amore filiale del popolo per lo zar, come un padre, perché
ai figli possono concedersi tante cose che sono impensabili presso altri popoli che si appog-
giano su contratti scritti» (F.M. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, cit., p. 1319).
17 F.M. DOSTOEVSKIJ, Zimnie zametki o letnich, Moskva, Grazdanin, 1865, trad. it. Note
18 F.M. DOSTOEVSKIJ, Neizdannyj Dostoevskij: zapisnye knizkij tetradi: 1860-1881, trad. it.
munizma, Moskva, Grazdanin, 1955, trad. it. Le fonti e il significato del comunismo russo, a cu-
ra di L. Dal Santo, Milano, La casa di Matriona, 1985, pp. 70-71.
21 R. CANTONI, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 237.
22 N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., p. 39: «In Kirillov –
scrive Dostoevskij – c‟è un‟idea popolare: sacrificarsi subito per la verità […]. Sacrificare
se stesso e tutto per la verità: ecco il tratto nazionale di questa generazione. Benedicilo, si-
gnore, e invia a lui la comprensione della verità. Poiché il vero problema consiste proprio
nel cosa considerare verità». Cf. F.M. DOSTOEVSKIJ, Lettere sulla creatività, a cura di G. Pa-
cini, Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 81-84.
23 Dostoevskij pareva irritato dall‟idea che una organizzazione politica «importata», per
così dire, dall‟Occidente, usufruisse della disponibilità tipicamente russa a cedere la pro-
pria libertà ad una istanza sovra individuale (F.M. DOSTOEVSKIJ, Saggi, a cura di G. Pacini,
Milano, Mondadori, 1997, pp. 66-70.
Sulla filosofia della tragedia 367
2. La nascita dell’Anticristo
24 ID., Besy, Moskva, Grazdanin, 1871-1872, trad. it. I demoni, a cura di R. Kufferle,
Milano, Mondadori, 1987, p. 107.
25 Ivi, p. 604.
26 Scrive ANDRÉ GIDE: «Era uno dei numerosi discepoli russi di Feuerbach e, come il
maestro, intendeva Dio come risultato dei complessi dell‟umanità, che non ardiva credere
nella propria forza. E sebbene egli avesse una conoscenza di seconda mano dell‟hegelismo
di sinistra, pronunciava le proprie lezioni su Feuerbach in modo interessante e accurato»
(Dostoevskij, Paris, Plon, 1923, p. 36).
27 M. BAKUNIN, L’empire knouto-germanique et la révolution sociale 1870-1871, trad. it. L’im-
pero knouto-germanico e la rivoluzione sociale 1870-1871, Catania, Monforte, 1993, pp. 30 sgg.
28 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., pp. 603-604.
368 Rossella De Rose
messosi a credere nell‟arbitrio, osi affermare l‟arbitrio in tutta la sua pienezza? È come se
un povero avesse ricevuto un‟ eredità e ne fosse spaventato, e non osasse avvicinarsi al sac-
co, stimandosi troppo debole per possederlo. Io voglio affermare l‟arbitrio. Sarò il solo,
ma lo farò» (F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 604).
31 Ivi, p. 606. Cf., al riguardo, le affermazioni di JA.S. GOLOSOVKER: «Il fatto è che
l‟arbitrio è un tiranno che, come insegnano le riflessioni di Max Stirner, conduce alla di-
struzione della libertà. […] Neppure Bakunin ha commesso questo errore. Pur apparte-
nendo agli hegeliani di sinistra, era più interessato alla sociologia che alla metafisica. Come
Hegel, tra l‟altro, egli riteneva che Dio, come ogni signore, esistesse per sé solo grazie al-
l‟altro, l‟autrui, innanzitutto grazie allo schiavo. Perciò la libertà tolta a Dio sta nell‟in-
fluenza, nei rapporti reciproci, e non in una esistenza autosufficiente e nell‟arbitrio della
solitudine» (Dostoevskij i Kant, Moskva, Isdatelctvo, 1953, pp. 44-45).
32 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 107.
33 Ivi, p. 604.
Sulla filosofia della tragedia 369
farà finire il mondo. Chi lo insegnava fu crocifisso. Verrà ed il suo nome sarà uomo-Dio.
Dio-uomo? No, uomo-Dio, c‟è una differenza» (ivi, p. 222).
38 Ivi, pp. 221-222.
370 Rossella De Rose
me uno spazio misterioso, pieno di valori etici, in cui si scatena la lotta tra
bene e male. L‟anticristo moderno si pone, anzitutto, al di fuori di questa
lotta. Cristo non ha affermato che avrebbe liberato gli uomini dal peso del-
la scelta con tocco magico, e che senza sforzi da parte loro li avrebbe tra-
sformati in agnelli innocenti. Egli non prometteva di estirpare i delitti, le
atrocità, le ingiustizie. Al contrario, egli stesso fu coperto di ingiurie ed in-
fine ucciso. Di contro, l‟anticristo afferma che il suicidio pedagogico influi-
rà proprio magicamente sulla volontà di tutta l‟umanità, in modo che, in-
fine, gli uomini diverranno indifferenti al bene e al male. «Comincerò e fi-
nirò e dischiuderò la porta. E salverò gli uomini»39. Vittorio Strada ha trat-
to da questi passi la convinzione che «come modello di “uomo nuovo”, il
moderno anticristo era naturalmente “importato”. Era stato “introdotto” in
Russia dagli hegeliani di sinistra. Ma la sua esasperata crudeltà verso se
stesso è un fenomeno interamente nazionale, “locale”, russo»40. Desideran-
do mostrare a se stesso che gli era assolutamente indifferente vivere o mo-
rire, Kirillov ha concesso il momento del suo suicidio alla organizzazione
rivoluzionaria. Per questo, egli può affermare: «Non so il giorno della mia
morte» (Genesi 27,2). A queste parole egli conferisce un significato origina-
le. A padrone della propria esistenza, egli non ha elevato Dio, ma una or-
ganizzazione alla quale attribuiva tutte le funzioni divine. Nell‟imitare i cri-
stiani, per i quali la libertà suprema consiste nella volontaria restituzione a
Dio della propria libertà naturale, Kirillov, altrettanto spontaneamente,
concede la propria vita all‟organizzazione. «Ma non c‟è stato patto, io non
mi sono legato in nessun modo. Non c‟era altro che la mia volontà, e ora
non c‟è altro che la mia volontà» – si rivolge a Pëtr Verchovenskij quando
si reca da lui con le ultime notizie41. Il fatto che egli prenda su di sé il pec-
cato della organizzazione, ha qui, in realtà, una importanza solo secondaria.
Non è che indice della umiliazione di se stesso. In parte, Kirillov perde se
stesso quasi inconsciamente, in quanto ai suoi occhi l‟esistenza stessa è viltà
e assurdo. In ultima analisi, ha „ceduto‟ la propria morte ad una volontà
che disprezza42. Non crede alla vita e gli è realmente indifferente chi e quan-
do deciderà l‟ora della sua morte, l‟ora della vittoria sulla vita e su Dio.
L‟angelo dell‟Apocalisse, che chiuderà per lui il conto del tempo, sarà l‟ul-
timo dei mascalzoni che egli abbia mai conosciuto. «Tu sei un mascalzone –
dice a Pëtr Verchovenskij – e sei uno spirito falso. Ma io sono tal quale come
39 Ivi, p. 606.
40 V. STRADA, Il superuomo e il rivoluzionario nella prospettiva di Dostoevskij, in Dostoevskij e
la crisi dell’uomo, Firenze, Vallecchi, 1991, p. 166.
41 F.M. DOSTOEVSKIJ, I Demoni, cit, p. 349.
42 S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, cit., p. 67.
Sulla filosofia della tragedia 371
te, e mi sparerò, mentre tu rimarrai in vita»43. Egli ha così privato Dio del
potere sul momento della sua morte, e ne ha investito gli uomini. Cessando
di essere una proprietà di Dio, Kirillov ha insieme cessato di essere una per-
sona; è divenuto lo strumento di una organizzazione politica. E la sua libertà
è scomparsa ancor prima di lui, sebbene l‟intento fosse quello di manifestare
il supremo arbitrio. L‟anticristo ha sostituito al culto „occidentale‟ dell‟indi-
viduo, il culto „orientale‟ della organizzazione, che costruisce il proprio po-
tere sugli individui che ad essa cedono il diritto alla libertà44. San Paolo non
utilizzava il termine «anticristo»45. Pare che esso derivi da S. Giovanni Evan-
gelista. Tuttavia, Paolo parlava dell‟anticristo ricorrendo a varie perifrasi: «la
manifestazione dell‟uomo della iniquità, del figlio della perdizione, colui che
si contrappone è si innalza sopra ogni cosa che viene detta Dio, o è oggetto di
culto; fino ad assidersi nel Tempio di Dio, additando se stesso come Dio»46.
Paolo pareva intendesse riferirsi all‟idea di eterna perdizione, che è l‟opposto
della salvezza eterna. Nell‟anticristo moderno questi due concetti non sono
affatto contrapposti. Anzi egli presenta la perdizione come salvezza, ricor-
dando in ciò proprio gli indiavolati ed insolenti apostati romantici. Ad atten-
derci è il nulla, ed esso rappresenta la nostra felicità suprema. L‟anticristo de
I Demoni – difficile stabilire se consciamente o inconsciamente – infama la fe-
de nella seconda venuta di Cristo. Secondo le norme etiche di Dostoevskij,
egli è purtuttavia un individuo onesto, anche se profondamente immorale. A
Kirillov non interessa fingere di essere un Cristo. Anzi, lotta apertamente
contro quest‟ultimo, ritenendo che Gesù fosse un falso salvatore dell‟uma-
nità. Ma è estremamente importante che Kirillov ricorra alle parole del Fi-
glio di Dio, deformandone continuamente la rivelazione con l‟apologia della
perdizione. Xavier Tilliette ha efficacemente osservato che simile anticristo
non avrebbe potuto apparire in epoca illuminista, quando gli apostati si
battevano innanzitutto contro il Dio Padre. Egli apparve proprio allorché le
diverse ideologie sociali – del resto veramente interessate, a volte, alla sorte
dell‟uomo sulla terra, come il socialismo innanzitutto – iniziarono a mani-
festare un interesse esclusivo per l‟antropologia del Nuovo Testamento, il
cui fondamento è la “scienza” di Gesù Cristo47. In breve, quando ebbe inizio
l‟epoca della riduzione ideologica della religione cristiana, nella civiltà euro-
Cristo della filosofia, a cura di G. Sansonetti, Brescia, Morcelliana, 1997, pp. 145 sgg.
372 Rossella De Rose
pea comparve il vero anticristo preannunciato dal Vangelo. Perciò nel XIX se-
colo il cristianesimo iniziò ad essere sottoposto ad una nuova, più dram-
matica prova.
Nel discorso al Tempio, Gesù affermò: «Se perseverate nella mia parola,
sarete davvero miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà li-
beri» (Giovanni 8,31-32). Il beato Massimo Confessore sottolineava costan-
temente che la libertà di Cristo non era libertà di scelta. Cristo non era
incerto, non esitava e la sua volontà si univa spontaneamente a quella del
Padre. Questo stato della volontà umana nella figura del Cristo veniva defi-
nito dai padri della chiesa «divinizzazione della volontà»48. A sua volta un‟al-
tra insigne autorità della ortodossia, san Giovanni Damasceno, rimarcava
che la volontà di Gesù rimane pur tuttavia umana, proprio a causa della sua
sottomissione al Padre49. Mosso da amore per il creatore, l‟uomo deve vo-
lontariamente adempiere ai suoi comandamenti, come se fosse il suo desi-
derio. Il consenso di Cristo: «Sia fatta la tua volontà» era per Massimo la
più alta manifestazione di libertà. Naturalmente, la morte volontaria sul
Golgota sarebbe stata assurda, se ad essa non avesse fatto seguito la resur-
rezione, che è la risposta divina all‟atto della libera sottomissione della vo-
lontà del Figlio al Padre. Senza la fede nella resurrezione la libertà cristiana
si trasforma in un non-senso. « Se infatti non si dà resurrezione di morti, –
si legge nella Prima lettera ai Corinzi – neanche Cristo è risorto; e se Cristo
non è risorto è inutile la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati»
(15,16-17). Dunque, Kirillov, la cui morte, come la fine di ogni anticristo,
si trasforma nella parodia della morte di Gesù sulla croce, si fa beffe della
idea della fede nella resurrezione. Il buon ladrone non vivrà in paradiso,
poiché non v‟è alcuna vita ultraterrena. Morendo, Cristo ha ingannato se
stesso e i suoi compagni di sofferenza. «Ma hanno obbligato anche lui a vi-
vere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna»50, osserva Kiril-
lov riferendo il suo pensiero al dramma del Golgota. Albert Camus rite-
neva che Kirillov concepisse il Cristo come un proprio pseudo-predeces-
sore: Cristo era soltanto uno pseudo uomo-Dio, che, peraltro, Camus in-
51 A. CAMUS, Le mythe de Sisyphe, Paris, Gallimard, 1942, trad. it. Il mito di Sisifo, in ID.,
Opere, a cura di R. Grenier, Milano, Bompiani, 1992, p. 100. Scrive inoltre Camus: «Un
mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare, ma
viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l‟uomo si sente un
estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o
della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l‟uomo e la sua vita, fra l‟attore e
la scena, è propriamente il senso dell‟assurdo» (p. 30). Camus cerca il rapporto fra l‟as-
surdo e il suicidio, «la misura esatta nella quale il suicidio sia una soluzione dell‟assurdo».
Lo scrittore francese dedica molte pagine a Kirillov (p. 153), ma la interpretazione ch‟egli
fornisce di questa singolare figura non convince appieno. Kirillov non si uccide, come
pensa Camus, perché l‟esistenza gli pare assurda, bensì per affermare il suo libero arbitrio,
perché ha scoperto la leva con cui sollevare il mondo, l‟attributo della sua divinità. La sua
morte sarà lo scandalo che richiamerà l‟attenzione degli uomini sul nuovo evento: la morte
di Dio, la liberazione dalla paura, la razionalità del mondo.
52 Ecco la descrizione del luogo in cui il falso Cristo ha concluso il suo cammino ter-
reno: «Contro la parete opposta alla finestra, a destra della porta, c‟era un armadio. A de-
stra di questo armadio, nell‟angolo formato dall‟armadio e dal muro, stava Kirillov, e stava
in un atteggiamento stranissimo: immobile, rigido, con le braccia tese lungo i fianchi, la te-
sta sollevata e la nuca appoggiata con forza al muro, proprio nell‟angolo, pareva che voles-
se scomparire ( stuševat’sja) e nascondersi» (F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 610). Il
verbo stuševat’sja – si apprende dal Diario di uno scrittore – significa «scomparire, annientarsi,
ridursi, per cosi dire, al nulla. Ma annientarsi non all‟improvviso, non scomparire nella
terra con tuoni e lampi, ma, per cosi dire, delicatamente, pianamente, impercettibilmente,
sprofondandosi nel nulla. A quel modo in cui l‟ombra nella parte sfumata di un disegno si
distende dal nero gradualmente passando al più chiaro fino al completamente bianco, al
nulla» (F.M. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, cit., p. 1145).
53 S. GIOVANNI DAMASCENO, La fede ortodossa, Roma, Città Nuova, 1998, pp. 197 sgg.
374 Rossella De Rose
54 F.M. DOSTOEVSKIJ, Idiot, Moskva, Grazdanin, 1870, trad. it. L’idiota, a cura di A.
falso Cristo per scomparire come una macchia d‟ inchiostro caduta dalla penna di Feuer-
bach» (Dostoevskij, cit., p. 83).
56 F.M. DOSTOEVSKIJ, I demoni, cit., p. 603.
57 Ivi, p. 233.
58 Ivi, p. 604.
59 X. TILLIETTE, Il Cristo della filosofia, cit., p. 71.
60 Ibid. Prosegue Tilliette: «In epoca illuminista gli apostati dichiaravano apertamente
che non esiste Dio, rifacendosi ad un aneddoto arguto o alla scienza. In epoca romantica
essi veneravano Belial. Nella seconda metà del XIX secolo, infine, gli apostati cedettero alla
incredulità, inaugurando con ciò stesso l‟epoca del travisamento della antropologia del Nuo-
vo Testamento, epoca di speculazione ideologica sulla parola di Cristo» (ivi, p. 82).
Sulla filosofia della tragedia 375
dentore sia messo a morte dalla logica infernale della redenzione. È la re-
denzione che bisogna negare, dunque, come bisogna negare Dio che impo-
ne essa dal suo nulla al nulla della terra irredenta, perché la terra sia quella
che è: redenta, così perfettamente redenta da esserlo al massimo grado, ir-
revocabilmente e come oltrepassandosi dall‟uomo al superuomo in quel-
l‟arresto del tempo in cui, per via dell‟identità di istante eterno e morte,
della redenzione non ne è più nulla.
EMILIO MARIA DE TOMMASO
Quella di Uriel era una famiglia di conversos, ebrei convertiti con la forza
al Cristianesimo dalla repressione dei regni iberici. Il padre, Bento, per
ammissione dello stesso figlio era un cristiano convinto, ma la madre, Sa-
rah, pare fosse rimasta legata al credo ebraico. Gabriel (assumerà il nome
the Royal Library of Copenhagen, translation, notes and introduction by H.P. Salomon
and L.S.D. Sasson, E.J. Brill, Leiden, 1993, pp. XI-XIII.
humanae vitae», Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 142-179 (d‟ora in poi Exemplar). Nel de-
scrivere la vicenda di Uriel Da Costa, D. LEVIN commenta: «la sua protesta fu troppo tor-
mentata e intrisa di emozione. Fu una tipica espressione di ciò che doveva significare ribel-
lione nell‟ambiente marrano, in cui le onde che s‟infrangevano contro l‟ortodossia prove-
nivano da due orizzonti: c‟era lo scetticismo profondamente radicato nei confronti dei
dogmi e una vibrante storica influenza del Cattolicesimo» (Spinoza. The young thinker who destroyed
the past, New York, Weybright and Talley, 1970, p. 143).
3 Malgrado che i suoi antenati fossero ebrei, «Gabriel effettivamente non conosceva le
sue origini ebraiche né aveva il minimo sentore del destino dei Marrani. Egli era
tormentato solo dalle importanti questioni della metafisica Cattolica. Qual era la retta via
per l‟eterna salvezza dell‟anima? Esisteva realmente un aldilà? Qual era il rapporto tra fede
e ragione? Queste erano le domande che lo agitavano. La confessione non gli pro-curava
alcun sollievo, il libri e i teologi non fornivano risposte al suo impulsivo questionare. Gli
arrivavano alle orecchie solo parole, parole dagli uomini e parole dai libri […]. Erano vere
le dottrine della Chiesa? Provenivano realmente da Dio? […] Il vero Cristianesimo è nelle
parole che Dio stesso ha pronunciato, tutto il resto è artificiale e falso. Il vero Cri-
stianesimo è solo il Giudaismo rivelato da Mosè e dai profeti» (R. KAYSER, Spinoza. Portrait
of a spiritual hero, New York, Philosophical Library, 1946, pp. 32-33).
4 Exemplar, § 5, p. 145.
Sulle ginocchia di Uriel 379
5 Nel 1348 la Spagna, ormai quasi completamente cattolica, fu colpita da un‟ondata de-
vastante di peste nera che nel giro di quattro anni si diffuse in gran parte dell‟Europa. Le
autorità ecclesiatiche, soprattutto in Germania, ne individuarono la causa nell‟avvelena-
mento dei pozzi d‟acqua, perpetrato, a loro dire, dagli Ebrei. Sin da subito iniziò una cam-
pagna persecutoria violenta, che coinvolse ben presto anche la popolazione civile. Nel 1391 il
pogrom, sommossa popolare antisemita, contro gli Ebrei fu aizzato dall‟arcidiacono Ecija
Ferran Martinez, il quale li aveva definiti “assassini di Dio”. Tra spedizioni mirate all‟incen-
dio delle sinagoghe e tumulti estemporanei, in quattromila persero la vita e chi si salvò fu
costretto a convertirsi al Cristianesimo. L‟appellativo dispregiativo con cui erano indicati
costoro dal resto della popolazione era per l‟appunto Marranos, ovvero “porci”. Il problema
di fondo era che queste conversioni forzate non avevano estirpato il culto ebraico, che se-
gretamente continuava ad essere osservato. «Alla fine del XV sec. – scrive Révah – la mo-
narchia spagnola credette di venire a capo del problema espellendo i giudei e ottenendo dal
Papato la creazione di un organismo giudiziario, l‟Inquisizione, incaricato di sorvegliare il
comportamento religioso dei “Nuovi Cristiani”». Nel 1492 circa trentamila ebrei fuggitivi
furono accolti in Portogallo, dove il re João II concesse loro il diritto di residenza per otto
mesi dietro pagamento di una tassa pro capite. Meno di cinque anni più tardi, però, il nuovo
sovrano Manuel I, in seguito al matrimonio con l‟Infanta Isabella, iniziò l‟opera di cristia-
nizzazione degli ebrei, dapprima con un decreto che lasciava libertà di scelta tra la conver-
sione e l‟espulsione (5 dicembre 1496), poi con altri due decreti (aprile e ottobre 1497)
che imponevano la conversione forzata e il battesimo di massa. A parte il pogrom di Lisbona
del 1506, tuttavia, il Portogallo restò una terra accogliente, grazie anche all‟atteggiamen-
to ambiguo del re, il quale emanò una serie di decreti che impedivano i controlli inquisito-
riali sui conversos. Sebbene già nel 1487 João II avesse richiesto al papato l‟autorizzazione
per l‟istuzione di un tribunale ecclesiastico sul modello spagnolo, fu solo nel 1536, con João
III, che l‟Inquisizione arrivò anche in Portogallo. Cf. I.S. REVAH, “La religion d‟Uriel da
Costa”, Revue d’histoire des religions 156 (1962), pp. 45-76, oggi in ID., Des Marranes à
Spinoza, Paris, Vrin, 1995, pp. 77-108. Si veda anche S. NADLER, Baruch Spinoza e l’Olanda
del Seicento, Torino, Einaudi, 2002, pp. 3-7. Per un‟esaustiva ricostruzione della vicenda
marrana si veda anche O. PROIETTI, op. cit., pp. 49-69.
6 Exemplar, § 7, p. 147. Al contrario di ciò che lascia intendere il testo, secondo I.S.
7 «Entusiasta per natura – scrive L. BROWNE – forse persino un po‟ squilibrato, aveva
immaginato che in Olanda avrebbe trovato la vera Nuova Gerusalemme, una città in cui i suoi
fratelli vivevano come ai tempi della Bibbia, governandosi tutti insieme secondo i cinque libri
di Mosè, nonché comunicando con Dio come i profeti» (Blessed Spinoza, New York, Macmil-
lan, 1932, p. 80). RÉVAH spiega che la religione professata da Uriel era il marranismo, ovvero
una forma di giudaismo impoverito derivante dall‟assenza della letteratura talmudica, che la
conversione violenta del 1497 aveva interdetto ai marrani portoghesi. Ecco perchè l‟impatto
con la comunità di Amsterdam fu tanto sconcertante per lui (op. cit., p. 60 [92]).
8 Exemplar, § 8, p. 147.
9 Cf. L. STRAUSS, La critica della religione in Spinoza, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 30-33.
Révah al riguardo sembra scettico: «ciò che si sa sull‟efficacia del cordone sanitario stabilito
attorno alla penisola iberica dall‟Inquisizione rende, secondo noi, assolutamente inverosimile
l‟ipotesi enunciata. D‟altronde, esistono insormontabili divergenze tra le concezioni metafisi-
che di Uriel da Costa e quelle di Serveto» (I.S. RÉVAH, “Les écrits portugais d‟Uriel da Costa”,
Annuire de l’Ecole Pratique des Hautes Etudes, Quatrième Section: Sciences Historiques et Philologiques
97 (1964-65), p. 273, oggi in ID., Des Marranes à Spinoza, cit., p. 273).
Sulle ginocchia di Uriel 381
10 «Si può affermare – scrive L. STRAUSS – che da Costa non ha respinto l‟immortalità
dell‟anima sulla scorta della Scrittura ma che, al contrario, sulla base di dubbi razionali da
lui nutriti fin dal principio, ha accettato la legge mosaica in quanto conforme alla ragione,
non trovandosi in essa il benché minimo accenno all‟immortalità dell‟anima» (op. cit., p.
30). Dello stesso avviso è Révah, che scrive: «l‟adesione al cripto-giudaismo, a Porto, fu
facilitata dal fatto che l‟affermazione delle sanzioni nell‟oltretomba, debolmente rappre-
sentate nel Vecchio Testamento, è totalmente assente nei cinque libri della Legge» (I. S.
RÉVAH, op. cit., p. 272 [116]).
11 Y. YOVEL (Spinoza et autres hérétiques, Editions du Seuil, Paris, 1991, p. 502) fa nota-
re che il rabbino veneziano rivolse la sua invettiva contro un «eretico amburghese». Seb-
bene l‟identificazione di questi con Da Costa sembri l‟ipotesi più probabile, tuttavia essa
non è stata ancora confermata. Fu Gebhardt a sostenerla con convinzione, avendo ritrovato
un manoscritto di Raphaël Mosé de Aguilar, nel quale ha pensato di rintracciare un com-
pendio delle posizioni eretiche delle Propostas, con l‟aggiunta di alcune considerazioni dello
stesso Aguilar. Più recentemente Osier ha mostrato che in realtà questo manoscritto è la
traduzione portoghese dello stesso Magen vesina, l‟opera in ebraico di Leone di Modena in
cui denuncia per l‟appunto l‟eretico amburghese. Proietti precisa che «con Leone di Mo-
dena inizia un singolare oblio e conservazione del corpus dacostiano», essendo la sua refuta-
zione di Da Costa pubblicata in ebraico solo nel 1856 da A. Geiger, il quale riteneva che le
Propostas, citate nel testo di Modena, fossero un semplice gioco erudito dello stesso rabbino
veneziano. Sarà solo col ritrovamento dell‟Exame das tradições phariseas nel 1993, che verrà
spazzato via ogni dubbio sulla loro paternità dacostiana (O. PROIETTI, op. cit., pp. 75-76).
12 Secondo Proietti il bando in absentia pronunciato da Venezia aveva validità anche per
Spinoza, 1934, tr. fr. La Philosophie de Spinoza, Paris, Gallimard, 1999, p. 670).
14 Cf. O. PROIETTI, op. cit., pp. 77-80.
382 Emilio M. De Tommaso
spettita dalle frequenti visite di Uriel ai parenti stanziati sulle rive del-
l‟Amstel, lo bandì il 15 maggio dello stesso anno. Tutti i membri di quella
comunità lo rinnegarono 15 ed egli, per tutta risposta, l‟anno successivo
pubblicò un altro testo «per mostrare la giustezza della [sua] posizione e
provare pubblicamente, attraverso la Legge stessa, l‟inconsistenza di ciò
che i Farisei tramandano e osservano»16. Si tratta dell‟Exame das tradições
phariseas, opera che riprende quella in cantiere all‟inizio del 1623, ma la
rielabora profondamente17. Questo lavoro, edito nella primavera del 1624
presso l‟editore Ravesteyn di Amsterdam, gli costò una denuncia alle auto-
rità civili della città, una condanna al carcere e al pagamento di un‟ammen-
da, mentre tutte le copie del suo testo erano pubblicamente raccolte e date
alle fiamme18:
Non appena questo mio libello vide la luce, si radunarono gli anziani del su-
premo collegio ebraico e da loro fui deferito al magistrato pubblico: dicevano
che avevo scritto un libro in cui negavo l‟immortalità delle anime; che non mi
limitavo a dannegghiare solo loro, ma che demolivo anche la religione cristia-
15 «Gli stessi miei fratelli – si legge nell‟Exemplar humanae vitae – ai quali in precedenza
avevo fatto da precettore, per il timore che avevano, facevano finta di non vedermi e in
pubblico non mi salutavano» (Exemplar, § 10, p. 149).
16 Ivi, § 11, p. 149.
17 Questa successione temporale (Tratado di Da Silva, bando di Amsterdam e stesura
dell‟Exame), nota Proietti, contraddice la sequenza del racconto dell‟Exemplar, che pone il
bando finanche prima dell‟inizio del trattatello Sobre a mortalidade da alma, e dunque prima
anche dello scritto di Da Silva, di cui tra l‟altro non riproduce correttamente il titolo (Exem-
plar, §§ 10-15, pp. 149-151). Anche questo elemento apre la questione dell‟autenticità del-
l‟Exemplar: non è possibile, da un lato, che si riferisca al bando amburghese, non avendo per
nulla accennato agli anni trascorsi ad Amburgo, ignorando dunque il bando dell‟unica città,
Amsterdam, di cui parla; dall‟altro lato, se il testo si riferisce proprio al cherem di questa città,
tuttavia, ne ignora la precisa collocazione temporale (O. PROIETTI, op. cit., p. 84).
18 S. NADLER, op. cit., pp. 78-79. Nadler riferisce che solo una copia se ne salvò, ma in
un lavoro successivo rettifica che furono due le copie che scamparono al rogo, una delle
quali, però, finì nelle mani del Grande Inquisitore spagnolo, che mise il testo all‟indice nel
1632 (S. NADLER, L’eresia di Spinoza, Torino, Einaudi, 2005, p. 223). O. PROIETTI precisa
che oltre alla copia in possesso nel 1632 del Grande Inquisitore di Spagna, il viceré di Na-
poli, cardinal Antonio Zapata, «una seconda copia, nel 1643, era a disposizione del pastore
luterano di Amburgo, Johan Müller, e una terza copia, infine, risultava dal catalogo dei li-
bri del rabbino David Nunes Torres (L‟Aia 1728)». Tuttavia, continua Proietti, «come di-
mostra il suo De resurrectione, nel 1636 un‟altra copia era nelle mani di Menasseh ben Israel»
(op. cit., p. 18). Il testo oggi è giunto a noi grazie al ritrovamento da parte di H.P. Salomon
della terza copia nella biblioteca reale di Copenhagen, dove era giunta grazie a Otto Thott,
bibliofilo danese, che aveva visitato i Paesi bassi nella seconda parte degli anni ‟20 del XVIII
secolo (URIEL DA COSTA, Examination, cit., pp. XI-XIII).
Sulle ginocchia di Uriel 383
na. Per questa loro denuncia fui incarcerato e venni rilasciato su cauzione do-
po una prigionia di otto o dieci giorni. Il pretore intendeva infliggermi una pe-
na pecuniaria: alla fine fui condannato a pagargli trecento fiorini, e il mio libro
fu sequestrato19.
Così ritrattò pubblicamente per vivere come «una scimmia tra le scimmie»24.
Nel 1633, tuttavia, le accuse di violazione della dieta e la flagranza di un
tentativo di dissuasione di due cristiani, pronti a convertirsi all‟ebraismo
(«ignoravano infatti quale giogo si stessero mettendo sulle loro cervici»),
gli procurarono un altro scontro con le autorità rabbiniche («i rabbini av-
vamparono e la folla insolente gridò: crucifige, crucifige eum»25). Queste lo
19 Exemplar, § 15, p. 151. Nel passo non si fa alcun riferimento al rogo dei libri. La
notizia si trova in un responsum del rabbino veneziano Jacob ben Israel ha-Levi, ritrovato da
Perles solo nel 1877 (O. PROIETTI, op. cit., pp. 91-92).
20 Secondo Proietti, L‟Exame, che è «forse l‟opera più censurata della storia umana»,
costituisce il testo cardine di tutta la produzione dacostiana, «deve essere il punto di par-
tenza per ogni ricostruzione del corpus dacostiano» (ivi, p. 43).
21 Exemplar, § 16, p. 153.
22 O. PROIETTI avvalora questa tesi a partire da un importante atto notarile di Utrecht,
re-datto in nederlandese, in cui compare il nome di Da Costa. (op. cit., pp. 92-95).
23 Exemplar, § 17, p. 153. È difficile da credere che un commerciante come Uriel, che,
come visto, firma atti notarili, redatti in nederlandese, possa ignorare la lingua dei Paesi Bassi.
24 Ibid. Il riferimento temporale che l‟autore propone («erano trascorsi ormai quindici
anni dal momento della mia separazione») indicherebbe che la data di rientro in seno alla
comunità risalga al 1638, essendo il bando di Amsterdam del 1623. Gebhardt, invece, con-
siderando il bando del 1618, l‟anticipa al 1633.
25 Exemplar, § 21, p. 155.
384 Emilio M. De Tommaso
26 Questo cherem, tuttavia, non fu mai verbalizzato nei registri della comunità ebraica,
per cui non ne conosciamo direttamente il testo (H. MÉCHOULANT, Gli Ebrei ad Amsterdam
all’epoca di Spinoza, Genova, ECIG, 1991, p. 45). Proietti mostra con grande perizia come
tutta la costruzione linguista e immaginifica di questo racconto rimandi a luoghi ben cono-
sciuti delle scritture cristiane; l‟Exemplar, § 21, ripropone quasi letteralmente il racconto
della passione di Cristo in Luca, 23,21: «ma essi urlavano “crocifiggilo, crocifiggilo”». Tut-
to è volto a provocare l‟orrore nel lettore cristiano che vede ripetersi eventi e moniti evan-
gelici. Lo studioso, infatti, sostiene che la paternità del testo sia di un autore cristiano (O.
PROIETTI, op. cit., pp. 99-100).
27 «Egli veniva deriso e disprezzato quando si mostrava per strada, i più giovani gli
rompevano le finestre per gettargli in casa rifiuti e carcasse di gatti morti. Divenne una
sorta di spauracchio nel vicinato: i bambini erano terrificati nella loro docilità dalla minac-
cia che egli potesse arrivare e portarli via» (L. BROWNE, op. cit., p. 82).
Sulle ginocchia di Uriel 385
neotestamentarie», che schiaccia la vicenda di Uriel sul modello della passione di Cristo (O.
PROIETTI, op. cit., pp. 44-48). Inoltre Limborch probabilmente entrò in possesso della co-
pia dell‟Exemplar del prozio, non già alla sua morte nel 1643, data alla quale aveva appena
dieci anni, ma nel 1662, quando la ritrovò tra le sue carte allorché lavorava ad un‟edizione
delle opere teologiche di Episcopius. La pubblicò solo nel 1687 (per una ricostruzione e
un‟analisi accurata sulla questione dell‟autenticità dello scritto cf. ancora ivi, pp. 105-132).
30 Cf. I.S. REVAH, “Aux origines de la rupture spinozienne: nouveaux documents sur
conoscesse la vicenda di Uriel Da Costa, e che la sua battaglia sia stata anche una valoriz-
zazione dell‟“eredità” dacostiana. Con un‟analisi attenta si può osservare che nel TTP è ci-
tato e discusso l‟intero dossier dacostiano, a cominciare dalla polemica che, negli anni 1623-
1624, ha visto contrapporsi il Tratado da immortalidade da alma di Da Silva e l‟Exame das tra-
dições phariseas» (O. PROIETTI, op. cit., p. 24).
Sulle ginocchia di Uriel 387
[Dan., 12,2] […] Ma tu va‟ alla fine e riposa, e ti alzerai per la tua sorte alla fi-
ne dei tempi [Dan., 12,13].
In questo luogo Da Costa rintraccia l‟intervento apocrifo dei Farisei, spie-
gando che:
E dizemos que este livro de Daniel naõ he reçebido dos Judeos chamados, Sad-
duçeus, o que soo bastava para lhe tirar o credito, e fé (por se dever ao teste-
munho simplez dos Phariseus mui pouco, conforme ao que ia disemos, visto
serem estes homens tais que tomaraõ por officio, ou por locura, trocar pala-
vras, mudar, torçar, interpretar avesadamente as escrituras para confirmaçaõ,
e firmeza de seus confusos sonhos)32.
32 «Affermiamo che questo libro di Daniele non è accolto dai Giudei chiamati Sadducei,
il che da solo basterebbe per privarlo di credito e fede (fede che dev‟essere prestata in mi-
nima parte alla semplice testimonianza dei Farisei, visto che sono uomini tali da impegnar-
si, per lavoro o per follia, a cambiare le parole, modificare, raggirare e fraintendere le scrit-
ture, per confermare e rafforzare i loro confusi sogni)», U. DA COSTA, Exame das tradições pha-
riseas, in Examination, cit., 1993, pp. 91-92 [141-142], d‟ora in poi Exame.
33 «Sono molti – si legge nell‟ultimo testo dacostiano – quelli che incedono da ipocriti,
fingono di essere religiosissimi e ingannano gli incauti, avvalendosi del paramento religioso
per catturare quante più vittime possibili. Sono certo simili ad un ladro notturno, che as-
sale a tradimento chi dorme» (Exemplar § 51, p. 177). Secondo Proietti, questo è un ulte-
riore elemento che nega la paternità dacostiana dell‟opera, che definisce «un testo costrui-
to con l‟intemporale, astorico latino della Vulgata sixto-clementina, assai diffusa al tempo, e
domi-nato dall‟immagine evangelica del “fariseo”» (O. PROIETTI, op. cit., p. 120).
34 «Non si è mai trovato alcun uomo saggio, il cui intento non fosse altro che distorce-
re la verità, tra i filosofi delle nazioni, che sostenesse che l‟anima fosse mortale, tranne
Epicuro, il quale ha negato completamente la provvidenza divina» (Exame, p. 99 [151]).
388 Emilio M. De Tommaso
ma” si utilizza semplicemente per esprimere la vita, o tutto ciò che è vivente. Sarebbe inu-
tile cercare di sostenerne l‟immortalità. Riguardo al contrario, invece, è visibile in cento
390 Emilio M. De Tommaso
Sebbene in questo luogo non ne venga fornita alcuna prova, in ogni caso,
sembra alquanto evidente che il giovane Spinoza rinneghi ogni dimensione
ulteriore della vita. Uriel Da Costa nota che, quando Dio promise ad Abra-
mo protezione e una lauta ricompensa per la sua fedeltà, questi, pur essen-
do vecchio e prossimo alla morte, non cercò la salvezza eterna per se stesso,
ma richiese a Dio quel figlio che non aveva ancora avuto43. Tutto ciò dimo-
stra, secondo il portoghese, che
os Pais nam atenderam a outra vida, nem trataram dos bens della, como se no-
ta de suas palavras […]. E se Abraham atendera a outra vida, deixara o premio
grande para ella e nam tratara dos bens presentes44.
luoghi e non c‟è nulla di più semplice che provarlo» [J.M. LUCAS, La vie de M. Benoît de Spi-
noza, in Vies de Spinoza, Allia, Paris, 2002, p. 100].
43 «E Abramo disse: “Signore Dio, che mi darai? Io sto per morire senza figli: e il figlio
del mio maestro di casa, questo Eliezer di Damasco, sarà il mio erede?» [Genesi, 15, 2].
44 «I padri non si aspettavano un‟altra vita, né si curavano dei beni di essa, come si evince
dalle sue parole […]. E se Abramo avesse pensato ad una vita ulteriore, avrebbe riservato la
grande ricompensa per essa, non considerando i beni presenti» [Exame, pp. 59-60 (109-110)].
45 TTP III, 47-48 [M 480-481].
46 «Nel capitolo 15 della Genesi si racconta che Dio disse ad Abramo che lo avrebbe di-
feso e largamente ricompensato. Abramo rispose che non si aspettava nulla che per lui fos-
se di qualche importanza, essendo ormai in età avanzata e privo di figli» (ivi, p. 740).
Sulle ginocchia di Uriel 391
3. Conclusioni
Tragicamente intensa, la vicenda di Uriel Da Costa si manifestò alla
stregua di una deflagrazione negli ambienti rabbinici, scuotendo nelle fon-
47 B. SPINOZA, Etica dimostrata con ordine geometrico, II, 13, in Opere, cit., p. 848.
48 Ivi, V, 23, p. 1071.
49 Così la pensa WOLFSON (op. cit., pp. 324-325 [671-672]), il quale, riconoscendo nel
Dio-sostanza di Spinoza una rottura radicale con la tradizione dei teologi, ritiene però che
il “politore di lenti” non fosse pienamente consapevole di questa rottura e non l‟abbia deli-
berata coscientemente. Révah, al contrario, sostiene che, già nel periodo deista, il giovane
Spinoza affermava l‟esistenza di Dio solo “filosoficamente parlando” e ne deduce che «il suo
Dio non aveva nulla a che vedere con quello dei credenti» (I.S. RÉVAH, Spinoza e Juan De
Prado, Paris, Mouton, 1959, oggi in ID., Des Marranes à Spinoza, cit., pp. 173-220).
50 B. SPINOZA, Etica, V, 23, p. 1072.
392 Emilio M. De Tommaso
le cose che possano essere oggetto del discorso» (Inst. Or. II 21 4), soprat-
tutto la loro trattazione appare contigua alla recitazione. Tale accostamento
si somma alle analogie strutturali tra discorso oratorio e testo teatrale in
quanto la ripartizione dell‟orazione in esordio, narrazione, partizione, con-
ferma, confutazione, conclusione, appare affine alla strutturazione del testo
teatrale. Nello specifico, ad un elemento introduttivo come l‟esordio cor-
risponde il prologo e segue uno sviluppo di temi e azioni che l‟eloquenza
affida alla «narrazione» correlativo alla fabula, che trova il suo compimento
nell‟agnizione, momento in cui i nodi sviluppati (peripezia e catastrofe) han-
no risoluzione e compimento (positiva o negativa secondo il genere), così
come l‟arringa termina con la formula della «conclusione», suo momento di
verifica.
La struttura pentapartita comune a retorica e teatro rimanda anche ai cin-
que nuclei della retorica latina: «inventio [scelta], dispositio [collocazione], elo-
cutio [stile], memoria [memorizzazione] e pronuciatio [modo di pronunciare],
altrimenti detta actio [modo di recitare]» (Inst. Or. III 3 1). Cicerone definisce
l‟actio, sia «arte del porgere», che «eloquenza del corpo»; essa è azione ver-
bale sostenuta dalla gestualità, ma è soprattutto rivelazione della natura per
mezzo dei «movimenti dell‟anima» (animus) che si manifesta con lo sguardo
(vultus), la voce (sonus) ed il gesto (gestus) che incita e produce l‟arringa, è
quindi un principio attivo. La definizione del registro gestuale non è fine a se
stessa ma costituisce un elemento di armonica “composizione” modale inte-
grato alle facoltà vocali dell‟oratore. Voce e corpo sono strumenti comunica-
tivi per mezzo dei quali l‟oratore porta a compimento la mimesi e ricostru-
zione concettuale delle passioni e delle azioni. Cicerone sostiene che tale
processo è compiuto in modo differente da attore e oratore: il primo imita le
passioni, il secondo le declara (le mette in luce), offrendo all‟ascoltatore ciò
che il suo animo accoglie confusamente, riproducendone la vasta gamma con
le sfumature della voce. L‟oratore, interiorizzato „freddamente‟ il πατεος
per mezzo di un‟imitazione esemplare e persuasiva, estrinseca poi le passioni
congegnate artatamente come reali.
Secondo Cicerone l‟actor condivide l‟actio con l‟orator, azione verbale e
gestuale da cui ha origine la recitazione e l‟arringa, il cui compimento ri-
chiede il controllo del decorum (“adeguatezza al contesto”), sovrastruttura
moralistica e culturale che inalvea l‟arte del discorso all‟interno del neces-
sario contegno e del rispetto degli statuti sociali, requisito che interessa il
nostro discorso per la ripresa che avrà nel Rinascimento.
396 Carlo Fanelli
del drammaturgo e quello dell‟attore2. Nel primo caso «il fatto» corrisponde
all‟aneddoto (narratio), adatto a «esporre e dare evidenza concreta a situa-
zioni che paiano a un tempo verosimili, come esige l‟aneddoto, e un po‟ ver-
gognose, come richiede l‟umorismo» (De Or. II 66 264); il «detto» invece
corrisponde ai ritratti (imagines) che «prendono di mira deformità o qualche
difetto fisico, confrontandoli con qualcosa di peggio [e ancora] immagini
paradossali, per eccesso o per difetto, che vengono spinte fino all‟incredi-
bile» (De Or. II 267). La distinzione tra aneddoto e ritratto, che proclama la
contrazione dall‟umorismo al grottesco, si rifà alle due tipologie del comico:
l‟umorismo contempla l‟interiorità e gli aspetti filosofici è una categoria ver-
bale consapevolmente irrisoria; il ridicolo, riverbera la corporeità, svela il di-
sprezzo nei confronti di chi ne è vittima, è azione e non solo pensiero, è im-
magine e gesto, oltre che parola.
Per screditare il suo avversario l‟oratore deve cogliere anche i lati
piacevoli e ridicoli delle situazioni facendo uso dei dicta (detti, massime) e
degli ex ambiguo dicta (doppi sensi), di cui Cicerone propone vari esempi:
quelli che scaturiscono dalla delusione delle nostre attese; quelli generati
dalla modificazione di alcune parole, o di un nome (la παρανονιμια greca);
l‟utilizzo di versi e proverbi, le parole colte nel senso letterale, l‟allegoria, la
metafora e l‟ironia (De Or. II 244-260). Anche per Quintiliano, nella restitu-
zione di una circostanza realistica, non sono da disdegnare i «detti popolari e
le massime recepite dall‟opinione pubblica», poiché si rivelano «testimoni-
anze» vertenti alla giustizia ed alla verità (Inst. Or. V 11 37). Si ottiene in tale
modo, lo stesso effetto procurato dalle battute teatrali, in cui, con brevi
scambi verbali, il ritmo serrato del dialogo permette di tenere costante-
mente attivo il tono della comicità.
Tutte le indicazioni fornite da Cicerone e Quintiliano, relative al gesto e
alla parola, riconducono ad alcuni concetti ricorrenti: la necessità di eleganza,
armonia e realismo. Per Quintiliano la declamazione, che è la reale proiezio-
ne del dibattimento forense, deve apparire elegante ma «assomigliare alla ve-
rità», così come fanno gli attori comici:
che non si esprimono nel modo in cui si parla comunemente (che non consistereb-
be una forma d‟arte), eppure non si allontanano dalla naturalezza (in questo difetto
si perderebbe l‟imitazione della realtà), ma adornano la banalità di questo linguag-
gio corrente con quelli che si potrebbero definire abbellimenti teatrali (Inst. Or. II 10 13).
2 Sebbene nel De Oratore Cicerone ponga spesso l‟accento sull‟inferiore efficacia della scrit-
tura rispetto all‟oralità oratoria, giudizio che associato alla naturalezza della dissertazione esal-
ta, indirettamente, la pratica della recitazione.
398 Carlo Fanelli
Ciò determina la possibilità di fare ampio uso delle immagini, dei temi, delle
tecniche del comico, disponendo tuttavia del decorum per compiere la sua
imitazione in una modo virtuoso.
Al comico, che Cicerone definisce «imitatio vitae, speculum consuetudi-
nis, imago veritatis», è dedicato il de ridiculis excursus del Libro II del De oratore,
in cui l‟auctor discute, appunto, sulle facoltà del ridicolo, meccanismo che
deforma immagini, situazioni e parole allo scopo di ottenere un effetto esila-
rante sul discorso. Sulla definizione e le indicazioni di utilizzo del comico Quin-
tiliano è più controllato rispetto a Cicerone, anche se tiene in grande consi-
derazione la commedia, ritenendola „utile‟ all‟eloquenza. In quanto incline al
verosimile, cui adempie imitando caratteri e passioni reali, la commedia for-
nisce all‟oratore un repertorio di caratteri e situazioni per dotare il suo di-
scorso del necessario realismo, mutuandone il linguaggio analogamente mi-
metico e verosimile, utile a corredare l‟orazione delle necessarie doti di per-
suasione e diletto. Il richiamo è alla dottrina peripatetica dei caratteri, posti a
fondamento dell‟ετεος e delle sue manifestazioni nella cultura e nell‟arte,
nell‟eloquenza e nel teatro e alle commedie di Menandro, più moderate ri-
spetto a quelle di Aristofane e dei comici latini3. Come appare evidente sia
Cicerone che Quintiliano, non fermano la loro osservazione sul comico (e
sul teatro) all‟attore ma si rivolgono precisamente anche al drammaturgo. Al
centro dell‟interesse di entrambi, naturalmente, resta la pratica fortemente
regolamentata del riso ed il suo utilizzo, come aggregatore sociale e come
espediente per rendere più chiaro e efficace il discorso. In accordo con Cice-
rone, e recuperando la già menzionata definizione aristotelica, Quintiliano
riconosce che il riso è «qualcosa di deforme e di vergognoso» anzi, considera
la possibilità che una frase ridicola possa essere il più delle volte falsa e volu-
tamente deformata, aggiungendo che il riso scaturisce facilmente dalla «si-
mulazione» e «dissimulazione» (Inst. Or. VI 3 85). L‟utilizzo del riso deve ne-
cessariamente rientrare nella sfera della cosiddetta urbanitas, e non sfociare
nella rusticitas. Tuttavia è innegabile, per Quintiliano, che il riso possieda una
forza «violentissima, alla quale non è assolutamente possibile opporsi»; in più
esso: «svela i pensieri solo tramite l‟espressione del volto e l‟inflessione della
voce, ma scuote tutto il corpo con la sua forza» (Inst. Or. VI 3 9). Al riso
quindi si riconosce una grande forza comunicativa che risiede principalmente
3 Quintiliano limita a Terenzio il suo giudizio positivo sulla commedia latina e non parla
di Plauto. Ciò, ovviamente, è motivato dal diffuso parere sui due autori, considerati più raf-
finato il primo, triviale e „popolaresco‟ il secondo. Lo stesso Terenzio imputava a Plauto di es-
sere fuori moda, ma soprattutto di non avere imitato lo stile limpido, rigoroso e piacevole di
Menandro, deformando lo «specchio della vita» con deteriori „trovate‟ comiche.
Retorica e natura umana nella commedia del Rinascimento 399
nell‟espressione del volto e nella voce, ma costringe il corpo a mosse che po-
trebbero trasgredire il decorum. Non essendo oggetto d‟insegnamento, in quan-
to relativo alla sfera quotidiana, quindi non assimilabile a sovrastrutture con-
cettuali modellanti l‟espressione, il comico, miscuglio tra ridiculus (ridicolo),
salsus (spiritoso) e facetum (faceto) è, tuttavia, capace di sostenere una perfet-
ta imitazione per mezzo del verosimile. Quintiliano estende le capacità mi-
metiche del comico a ogni tipo di discorso: «il ridicolo si basa sulle cose e
sulle parole […] le cose ridicole noi le facciamo e le diciamo. Il riso viene pro-
vocato da una nostra azione alla quale, a volte, mescolato al ridicolo, si trova
un elemento di serietà […] Valga poi la medesima considerazione a propo-
sito di un volto o di un gesto ridicolo» (Inst. Or. VI 3 26). Soprattutto nel-
l‟utilizzo del ridicolo ciò rende cruciale il connubio fra parola e gesto. Pro-
prio per tale motivo il suo concepimento e la sua fase espressiva necessitano
di estremo equilibrio. Come abbiamo già visto, secondo Cicerone, per smi-
nuire l‟immagine pubblica del proprio avversario, se ne propone una rappre-
sentazione comica, verbale e gestuale sfruttando turpitudo et deformitas. Con
tale espediente l‟oratore può guadagnarsi il favore dell‟uditorio, senza ledere
la decenza con l‟immagine spiritosa dell‟avversario che ha creato. Egli deve
rispettare i sentimenti della platea e non offendere con le parole, poiché:
«non può essere oggetto di riso né la malvagità estrema che si è macchiata di
delitti, né, per contro, l‟infelicità estrema: si pretende che i malfattori siano
colpiti da una forza più potente del ridicolo, mentre non piace che gli infelici
siano derisi, a meno che non siano arroganti» (De Or. II 237). Tale specifica-
zione rimanda ai personaggi comici di Aristotele, opposti a quelli che Cicero-
ne definisce: «non meritevoli né di grande odio né di grandissima compassio-
ne» (De Or. II 59 238). Le doti di questi ultimi coincidono, poi, con le qualità
eccezionali di virtù o di giustizia proprie dei personaggi aristotelici passati
dalla felicità all‟infelicità. Il ritratto comico dell‟avversario cui accenna Cice-
rone, utile all‟oratore per prevalere nel foro, è identico a quello del perso-
naggio teatrale canonico.
Quanto sostenuto da Cicerone e Quintiliano sul comico rimarca, ancora
una volta, la centralità dell‟eloquenza e il suo apparentamento col teatro: l‟a-
zione sullo spettatore, la fusione fra ετηικῴν (caratteri) e πατητιχῴν (pas-
sioni), su cui poggia la funzione dell‟eloquenza che deve, come detto, infor-
mare, commuovere e dilettare.
Complementare alle osservazioni sulle trasformazioni linguistiche, in quan-
to sostanza e struttura del discorso, la retorica ha assunto, sino alla sua apparen-
te decadenza (a fine Ottocento), il ruolo di sostenere l‟arte del parlare. La
400 Carlo Fanelli
di distanza nei confronti del modello latino. Non si compie un distacco defi-
nitivo dal prototipo plautino-terenziano ma di una consapevole necessità di
creare una «nova comedia» confacente, oltre alle logiche della μίμεσις anche
ai codici culturali rinascimentali.
Si tratta di un processo di graduale alienazione dal modello latino, solo
esteriormente inattesa e fortuita che conduce a una ricerca di autonomia e
dignità nei confronti della tradizione. Le innovazioni linguistiche introdotte
nel teatro pervengono dalle Prose della volgar lingua di Bembo e dall‟Orlando
Furioso di Ariosto ma soprattutto dal Decameron di Boccaccio, prodigioso ar-
chivio di vocaboli, temi e personaggi comici. Ne scaturisce una combina-
zione tra stile antico, tutelante il rigore classicistico e „nuovo‟ codice lingui-
stico sostegno più efficace alla pratica mimetica della vita reale sulla scena.
Esempio di timida destituzione dalle logiche formali classicistiche e insolito
svelamento dei sentimenti, è la Comedia degli straccioni (1543) di Annibal Ca-
ro che sebbene ancora vicina al modello plautino, risente del mutato clima
culturale e spirituale, quindi la maggiore distanza dalla comicità trasgressiva
di Plauto, a favore di toni e situazioni in cui l‟intento moralistico è più visto-
so e soprattutto sopravanza la volontà di svelare la natura umana e la sfera
affettiva dei due fratelli protagonisti della commedia. La materia drammatur-
gica proposta dal Caro ricostituisce sulla scena, ambienti, costumi, avveni-
menti, definiti da uno stile insieme semplice e vivo, ma caratterizzato da un‟ac-
centuata nota patetica che è, oltretutto, la qualità nuova di questa commedia,
indirizzata all‟apertura alle sensibilità emotiva piuttosto che alla voluttà e al
materialismo comico. Tale accento risente del teatro terenziano, ma avvia il
genere delle commedie «lagrimose» di fine secolo.
Esperienza significativa anche dal punto di vista linguistico è quella delle
commedie di Niccolò Machiavelli. la cui cifra è quella sincretica dell‟«hi-
storico, comico et tragico». Tale indirizzo drammaturgico porta il segretario
fiorentino a caricare di una dimensione psicologica e sociologica personaggi
prima contraddittori, incoerenti, iperbolici, privi di connotati psico-sociali
definiti. Problemi legati alla definizione di una lingua italica, in rapporto alla
commedia, sono affrontati nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in
cui Machiavelli scrive
che il fine d‟una commedia sia proporre uno specchio d‟una vita privata, nondi-
meno il suo modo del farlo è con certa urbanità e termini che suonino riso, acciò
che gli uomini correndo a quella delettazione gustino poi l‟esempio utile che vi è
sotto. E perciò le persone con chi difficilmente possano essere persone gravi la
trattano, perché non può esser gravità in un servo fraudolente, in un vecchio de-
riso, in un giovane impazzato d‟amore, in una puttana lusinghiera, in un parasito
402 Carlo Fanelli
goloso, ma ben risulta di questa composizione d‟uomini effetti gravi e utili alla
vita nostra. Ma perché le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termi-
ni e motti che facciano questi effetti, i quali termini se non propri e patrii, dove
sieno soli, interi e noti, non muovon né posson muovere (MACHIAVELLI 1989:
274-275).
Una delle dimostrazioni del grande valore normativo assegnato alla reto-
rica nella costruzione di un linguaggio comico è presente nella Poetica di Ber-
nardino Daniello (1536), in cui si scorge la combinazione tra i precetti forniti
dall‟Ars poetica di Orazio e l‟eloquenza ciceroniana. Il discorso analitico pro-
posto da Daniello parte dall‟antitesi fra tragico e comico, essendo la com-
media a suo avviso negazione del tragico. Tuttavia, continua Daniello, nono-
stante la posizione antitetica rispetto al genere tragico cui è universalmente
assegnato un altissimo valore da un punto di vista formale e stilistico, il codi-
ce linguistico del comico può ugualmente raggiungere elevazione per mezzo
dell‟elocutio, strumento retorico per mezzo del quale coinvolgere emotiva-
mente lo spettatore. Ovviamente a sostenere l‟impianto retorico del comico,
Daniello chiama in causa anche gli altri assiomi ciceroniani, raccomandando
che l‟organizzazione dei concetti sia condotta nel rispetto di inventio e disposi-
tivo. Infine, ribadendo il necessario rispetto del decorum fa in modo di separa-
re il comico dal ridicolo. Tale principio si connette all‟esigenza avvertita da
Orazio di attenuare le componenti più rozze del disarmonico e grossolano
teatro comico latino, ai suoi occhi indifferente nei confronti della raffinatezza
ellenica. Per mezzo del decorum l‟oratore e l‟attore mantengono fede ai prin-
cipi di misura e contegno necessari a una corretta costruzione del discorso.
Ciò fa si che nella prima metà del Cinquecento, dall‟incontro fra il principio
dell’utile et dulce di Orazio e la dottrina ciceroniana che unisce il piacere este-
tico procurato dai verba (le parole) alla res (la materia), nasca un moderno co-
dice letterario comico destinato alla scrittura, paritetico al linguaggio „ge-
stuale‟ e scenico ugualmente regolato dai principi della retorica. Si definisce,
quindi, una nuova dialettica tra linguaggio del corpo, cioè una recitazione ba-
sata su gesti controllati e meditati e un linguaggio dominato dalla temperanza
e dall‟eloquenza, quindi abile a esprimere le passioni umane.
Altro principio moralizzatore del comico, che dal sistema retorico cice-
roniano, non astrattamente ma concretamente, giunge alla cultura cortigiana
cinquecentesca è l‟utilizzo dei doppi sensi, corrispondenti a un complesso
sistema i cui schemi verbali sono associati a costrutti semantici, in cui parole
atte a suscitare il riso richiamano aneddoti e ritratti emblematici. Ciò aziona
un dispositivo dissimulatorio in cui il concetto ciceroniano di ironia si tra-
sforma nel mascheramento, in un gioco di finzione in cui la situazione oscena
permane, ma giunge paludata da espressioni verbali non sconvenienti. L‟uti-
lizzo delle allegorie rimanda anche all‟antica teoria peripatetica dei «carat-
404 Carlo Fanelli
4. Conclusioni
tiliano come la «più simile all‟oratoria o adatta alla formazione degli oratori».
Poiché tendente al verosimile e all‟imitazione di caratteri e passioni reali, la
commedia offre all‟oratore gli elementi necessari alla riproduzione del reale
durante l‟arringa, mutuandone il linguaggio analogamente mimetico e verosimi-
le, utile a corredare l‟orazione delle necessarie doti edonistiche e persuasive.
Gli elementi di reciprocità fra eloquenza e comico, ritornano nella com-
media rinascimentale, giustificando quindi la preminenza di tale genere nello
spettacolo cinquecentesco quale esito del dibattito culturale del Rinasci-
mento, il cui perno è la retorica. Da tutto ciò, consegue che nel teatro uma-
nistico e specificamente nella commedia, persiste il costante rimando fra la
conformazione etica, antropologica ed estetica del comico e la sua utilità
concreta nella pratica del foro, un connubio teorizzato dagli intellettuali cin-
quecenteschi che equipaggia il teatro a divenire un privilegiato strumento di
conoscenza e svelamento della natura umana.
Bibliografia
Perdonare l’imperdonabile
L‟intento del presente lavoro concerne la questione del rapporto tra per-
dono – considerato entro i limiti delle offese perdonabili e in una dimen-
sione sostanzialmente estranea al diritto e alla giustizia – e offese imper-
donabili. Più precisamente cercherò di comprendere la natura peculiare
che tale rapporto assume nei comportamenti umani alla luce del pensiero
di Vladimir Jankélévitch, di Hannah Arendt e di Jacques Derrida, ed in
particolar modo alla luce della dimensione interpersonale del perdono, ov-
vero, dell‟idea che il perdono sia un dialogo, «un rapporto dialogico con
l‟altro, un rapporto nuovo che comporta la trasfigurazione del colpevole»1.
Al riguardo, la prima domanda da porsi sul tema del rapporto tra per-
dono e offese imperdonabili è se il perdono sia coessenziale ad una conce-
zione espiativa della punizione che equipara il reato al peccato, idea che
presume un colpevole pentito e pieno di gratitudine, che si redime a nuova
vita nell‟atto della sottomissione2.
Tale questione è resa particolarmente complessa dal fatto che, se da una
parte vi è una distanza culturale tra il perdono e i temi della giustizia – gli
assertori di questa tesi ritengono che la riflessione sul perdono sia stata
relegata in una dimensione etico–religiosa che non ci consente di apprez-
zare il suo contributo nella costruzione del sistema giudiziario – dall‟altra,
vi sono, per converso, sensazioni, emozioni e riflessioni che non potreb-
bero né esprimersi né essere sentite senza siffatta distanza culturale.
L‟aspetto più considerevole riguarda per l‟appunto questa distanza del
perdono dai temi della giustizia, definita di recente «profezia straniera»3. Il
perdono sarebbe una «profezia straniera» perché l‟incontro tra il cristianesi-
mo con la cultura greca – che non conosce il perdono – e romana avrebbe
prodotto una concezione meramente riduttiva del perdono quale segno di-
stintivo di una virtù individuale che si esplica nella gratuita remissione di una
colpa. Inoltre, l‟esercizio del perdono sarebbe un comportamento pericolo-
4 Ibid.
5 M. BOUCHARD, G. MIEROLO (eds.), op. cit., p. 64.
6 E. RESTA, La certezza e la speranza: saggio su diritto e violenza, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 69.
7 M. BOUCHARD, G. MIEROLO (eds.), op. cit., pp. 59-60.
8 Ivi, pp. 53 e 59.
9 Ivi, p. 55.
Perdonare l’imperdonabile 409
ti nella dinamica della logica causa ed effetto. È altresì un dono perché com-
porta un‟interruzione non spiegabile razionalmente e cui l‟offeso non è ob-
bligato14. Esso non nasce dalla cancellazione dell‟offesa, ma dalla „buona
memoria‟ dell‟offesa stessa15. È l‟offeso a rinunciare, senza costrizione al-
cuna, ad essere risarcito. La „buona memoria‟ rende, dunque, possibile l‟at-
to del perdono e permette all‟offeso di liberarsi della logica della conse-
quenzialità. Un „dono gratuito‟ che «risolve i rapporti gelati dell‟uomo e
del male». In tal senso, il perdono rivela ciò che lo contraddistingue, il suo
dirigersi, sempre, non verso la colpa, piuttosto verso il colpevole, che
chiama ad un nuovo inizio.
La follia del perdono, il perdono che non si rassegna, al contrario, risolve i
rapporti gelati dell‟uomo e del male […] il perdono libera, liquida, liquefa le
acque vive che il rancore teneva prigioniere, dà una mano alla coscienza bloc-
cata fra i ghiacci16.
Lo sterminio degli ebrei non fu, come i massacri degli Armeni, una fiammata
di violenza: esso è stato dottrinalmente giustificato, filosoficamente spiegato,
metodicamente preparato, sistematicamente perpetrato dai dottrinari più pe-
danti che siano mai esistiti [...]20.
27A. GOUHIER, Pour une métaphisique du pardon, Paris, Edition de l‟Épi, 1969, p. 401.
28V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 18.
29 Ivi, pp. 18-19.
30 Ivi, p. 15.
31 Ivi, p. 19.
32 J. DERRIDA, “Il secolo e il perdono”, in B. MORONCINI (eds.), La lingua del perdono,
33 Ibid.
34 J. DERRIDA, É. ROUDINESCO (eds.), Quale domani, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 223.
35 M. VERGANI, Jacques Derrida, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 137.
36 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 19.
37 Ivi, p. 41.
38 Ivi, p. 23.
Perdonare l’imperdonabile 415
cioè, se la colpa non è di nessuno, se sono tutti innocenti, tanto vale ac-
cusare il “diavolo” di questo genocidio. «Incolpare il diavolo non è una mo-
struosa assurdità, ma piuttosto una scappatoia provvidenziale» perché im-
putare il diavolo di questi crimini non è altro che un tentativo malcelato di
autogiustificazione. «Dal momento che la colpa è del “principio eterno”,
evidentemente non è più di Eichmann né di Bormann né di chiunque
altro39». L‟attenzione di Jankélévitch, sia pure secondo modalità e sensibi-
lità diverse, si sofferma sulla logica condizionale dello scambio, mettendo
in evidenza sia la possibilità di infliggere una pena al crimine ad esso cor-
relato sia di contemplare la richiesta esplicita di perdono. Sebbene non sia
qui possibile ripercorrere nella sua interezza tale problematica, tuttavia, è
necessario il richiamo alla distinzione tra l‟esigenza di un perdono incondi-
zionato, che viene concesso al colpevole senza controparte – anche a chi
non si pente né chiede perdono – e un perdono condizionato, commisura-
to al riconoscimento della colpa, e quindi, al pentimento e alla trasforma-
zione del colpevole che ha chiesto il perdono.
La tematica dello scambio è affrontata con chiara efficacia in Perdonare?.
Lo scritto sviluppa le tesi che Jankélévitch difendeva nel 1965 durante le po-
lemiche relative alla prescrizione dei crimini nazisti: sotto il titolo L’Impre-
scriptible il filosofo si era dichiarato contrario al perdono nella Revue admini-
strative. E la risposta alla domanda: “bisogna perdonare?”, data dal filosofo in
Le Pardon, sembra contraddire quella che emerge in Perdonare?, dove l‟autore
si pone dalla parte dello scambio, «della simmetria tra punire e perdonare».
Tuttavia, è risaputo che nell‟ottica di Jankélévitch, il perdono non avrebbe
più senso laddove un crimine divenisse “inespiabile” come nel caso della Shoah:
«Il perdono è morto nei campi della morte»40. Resta inteso che nei campi
della morte è stato superato il limite che eccede la misura umana e per il
quale mai potrà esserci punizione adeguata. Si ripresenta allora l‟inquietante
interrogativo: nel concreto dell‟esperienza storica si può davvero perdonare
l‟altro? A riguardo la posizione di Jankélévitch non lascia nessun dubbio: «Cia-
scuno è libero di perdonare le offese che ha personalmente ricevuto, se lo ri-
tiene opportuno. Ma quelle degli altri con che diritto le perdonerebbe?»41. Il
crimine commesso ad Auschwitz «è incommensurabile con qualunque altra
cosa»42. Auschwitz non è una atrocità di guerra, ma un‟opera di odio43.
39 Ibid.
40 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare ?, cit., p. 40.
41 Ivi, p. 43.
42 Ivi, p. 31.
416 Antonia Giglio
43 Ivi, p. 27.
44 Ivi, p. 16.
45 Ivi, p. 18.
46 Ivi, p. 21.
47 J. DERRIDA, Il secolo e il perdono, cit., p. 70.
48 Cf. V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 22.
49 J. DERRIDA, Il secolo e il perdono, cit., p. 71.
50 Ivi, pp. 68-69.
Perdonare l’imperdonabile 417
zione con l‟altro. Per essere esatti, il riconoscimento dell‟altro e la non as-
solutizzazione di tale distanza, la possibilità, di nuovo, di essere in due.
A garanzia di una più nitida comprensione del significato del concetto
di perdono e delle sue implicazioni bisogna comprendere cosa si perdona e
a chi si perdona55. In altre parole, si perdona qualcosa o si perdona qualcuno
andando al di là della colpa stessa e della persona che si ritiene colpevole?56
Nella prospettiva cristiana, ritiene Derrida, l‟uomo non è in grado di per-
donare un altro uomo. Solo Dio può farlo. «La facoltà di perdonare, sotto
condizione o in modo incondizionato», sostiene il filosofo, «è sempre un
potere di natura divina, anche quando sembra essere esercitato dall‟uo-
mo». Il fraintendimento è dovuto al fatto che solo l‟uomo può avere qual-
cosa da perdonare o da farsi perdonare. Del resto, solo un essere limitato
come l‟uomo può venire oltraggiato, ferito o anche ucciso. Non a caso,
Derrida riconosce che è proprio la dimensione umana del perdono a rende-
re difficile la sua trattazione57.
C‟è da rilevare, inoltre, che Derrida nutre «qualche perplessità» a di-
scutere le considerazioni di Jankélévitch e di Hannah Arendt riguardo al-
l‟esperienza puramente umana del perdono58. A parere della Arendt il per-
dono rimane un‟esperienza di natura puramente umana, e come tale è pos-
sibile solo laddove si può esercitare il diritto di punire. «L‟alternativa al per-
dono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune col primo il ten-
tativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe pro-
seguire indefinitamente. È quindi significativo che gli uomini siano incapaci
di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato
55 Cf. ivi, p. 73: «Se dico: “Ti perdono a condizione che, chiedendo perdono, tu sia
cambiato e non sia più lo stesso”, ho forse perdonato? Una prima ambiguità sintattica pe-
raltro su cui dovremmo già intrattenerci a lungo: tra domandare “chi?” e domandare “che?”».
56 Cf. ibid.: «Si perdona qualcosa, un crimine, una colpa, un torto cioè un atto o un mo-
mento che non esauriscono la persona incriminata e al limite non si confondono con il col-
pevole che resta quindi a esso irriducibile? O invece si perdona a qualcuno, in assoluto, sen-
za segnare più il limite tra il torto, il momento della colpa, e la persona che si ritiene re-
sponsabile o colpevole?».
57 J. DERRIDA, É. ROUDINESCO (eds.), op. cit., pp. 224-225: «L‟uomo chiede perdono
a Dio, o chiede a Dio di perdonare un altro. Pensiamo alle dichiarazioni delle Chiesa cri-
stiana nei confronti degli ebrei. La Chiesa ha chiesto perdono a Dio di fronte alla comunità
ebraica, ma non ha chiesto perdono direttamente agli ebrei. è Dio che perdona, ed è dun-
que a Lui che si chiede perdono […] Per quanto si possa pensare il contrario, e cioè che so-
lo un essere limitato può venir leso, ferito, o persino ucciso, e dunque aver qualcosa da per-
donare o da far perdonare».
58 Ivi, p. 223.
Perdonare l’imperdonabile 419
a dire: svincolarsi dalle conseguenze del passato apre nuove possibilità per
il futuro. Vero è che la posizione della Arendt , e cioè che «il perdono sia
possibile solo laddove il diritto di punire possa esercitarsi», per Derrida è
assolutamente contestabile. Il perdono deve, invece, restare “eterogeneo”
all‟ambito giuridico. Non è in alcun modo simmetrico né complementare
alla punizione63. Si deve poter perdonare ciò che è imperdonabile, il male
puro, senza condizioni, elevandosi al di sopra del diritto. Perché ci sia
perdono bisogna poter perdonare la colpa e il colpevole in quanto tali, lad-
dove entrambi permangono come un male assoluto, un male che potrebbe
persino ripetersi.
Intimamente connessa alla questione del perdono è la riflessione sul
concetto di crimine contro la sacralità dell‟uomo64. A riguardo si veda l‟ana-
lisi di Derrida, per il quale proprio il Tribunale di Norimberga ha reso pos-
sibile l‟istituzione internazionale di un concetto giuridico come quello di
«crimine contro l‟umanità». Resta allora da interrogarsi su un evento di
portata epocale che si intreccia ma non si confonde con la storia della riaf-
fermazione dei diritti dell‟uomo: perché se è vero che questa «sorta di mu-
tazione» ha dato, poi, il via a uno spettacolo teatrale in cui si recita, più o
meno apertamente, la scena madre del pentimento, è anche vero che la con-
ditio sine qua non delle proclamazioni pubbliche di pentimento sono le richie-
ste collettive di perdono65.
Ripercorriamo, dunque, le osservazioni che Derrida andava svolgendo
sul concetto di «crimine contro l‟umanità», che non a caso costituisce lo
snodo fondamentale di tutta la geopolitica del perdono. Vale a dire: il capo
di accusa di questa auto–accusa e del pentimento con richiesta di perdo-
no66. Per essere esatti, la mondializzazione del perdono ricorda una scena
di confessione in atto. Un processo di cristianizzazione che non ha più bi-
sogno della Chiesa cristiana.
Il proliferare di queste scene di pentimento e di richiesta di “perdono” significa
probabilmente un‟urgenza universale della memoria: è necessario volgersi verso il
passato; e l‟atto di memoria, di auto–accusa, di “pentimento”, di comparsa in
giudizio, è necessario portarlo al di là dell‟istanza giuridica e insieme al di là del-
l‟istanza Stato–nazione67.
delle quali il 90% erano ebree. Conoscere e ricordare la Shoah può essere di valido aiuto
per meglio comprendere le ramificazioni del pregiudizio e del razzismo; per realizzare una
pacifica convivenza tra etnie, culture e religioni differenti; per creare, infine, attraverso la
valorizzazione delle diversità, una società realmente interculturale. Facendo emergere le
pericolose insidie del silenzio di fronte all‟oppressione.
75 V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, cit., p. 47.
GIUSEPPE MACCARONI
Simone Weil: questione antropologica
e riflessione politica
1. I rapporti con i personalisti francesi. Anche in Italia, come in altri paesi eu-
ropei, la ricorrenza della nascita di Simone Weil (Parigi 1909), è stata l‟oc-
casione di numerose iniziative celebrative. Tra queste ricordiamo il dossier a
lei dedicato sulla rivista «Prospettiva Persona» (n. 65/66, 2008) e il Con-
vegno di studiosi internazionali svoltosi a Teramo (10-12 dicembre 2008), i
cui atti sono stati da poco pubblicati con il titolo Persona e impersonale. La que-
stione antropologica in Simone Weil, a cura di G.P. Di Nicola e A. Danese (So-
veria Mannelli, Rubbettino, 2009). Nelle pagine che seguono prenderemo
spunto da alcuni contributi di quest‟ultimo interessante volume, per poi ap-
profondire e sviluppare alcune questioni che le nozioni di persona e imper-
sonale sollecitano in relazione alla riflessione più propriamente politica della
filosofa francese. Per il momento alcune considerazioni sui rapporti della
Weil con il movimento personalista francese degli anni Trenta.
Com‟è noto, almeno a quanti hanno famigliarità con il breve ma intenso
itinerario esistenziale di Simone Weil1, il periodo che all‟incirca si snoda tra
la fine degli anni Venti e l‟inizio del decennio successivo, è un periodo di
grandi interessi politico-intellettuali non disgiunto dall‟impegno militante.
Ora, tenendo conto di questa caratteristica della sua personalità sorprende
che, tra gli scritti editi da Simone, non ve ne sia qualcuno dedicato al movi-
mento personalista francese. Abbiamo precisato tra gli scritti editi, perché a
ben guardare nelle Oeuvres complètes si rintracciano alcuni inediti dedicati pro-
prio ad esponenti del personalismo francese. Anche se si tratta di poche pa-
gine, sono la dimostrazione che quel movimento non è passato invano davan-
ti ai suoi occhi. Le pagine in questione riguardano una recensione probabil-
mente del 1934 al libro La révolution nécessaire di R. Aron e A. Dandieu (Paris,
Grasset, 1933), e una lettera del 1937 ad Emmanuel Mounier in qualità di
Direttore di «Esprit»2. Certo, accanto a questi brevi scritti bisogna annove-
1 Cf. S. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, Milano, Adelphi, 1994. Molte delle que-
stioni discusse nel testo rinviano al nostro Simone Weil. Dalla parte degli oppressi, Lungro,
Marco Editore, 2003.
2 Cf. S. WEIL, “Le groupement de l’«Ordre nouveau»”, in EAD., Oeuvres complètes, tome II,
vol. 1, Paris, Gallimard, 1988, pp. 324-328; EAD., “Une lettre inedite de Simone Weil à Em-
manuel Mounier”, Cahiers Simone Weil 7 (1984) 4, pp. 143-146.
rare anche un altro e ben più significativo inedito, vale a dire La personne et le
sacré, scritto a Londra fra il ‟42 e il ‟43, che è il primo dei saggi raccolti in
Écrits de Londres et dernières lettres (Paris, Gallimard, 1957, pp. 11-44), in cui
fissa in maniera definitiva i suoi rapporti con il personalismo.
Sui personalisti francesi bisogna dire che si tratta, com‟è noto, di una
generazione di giovani intellettuali, i cosiddetti non-conformisti degli anni
Trenta, che al pari di Simone erano animati da uno spirito di rivolta e, sulla
spinta della crisi globale della civiltà che essi denunciavano, progettavano
una rivoluzione con cui edificare un nuovo ordine che ponesse al suo cen-
tro la «persona». Questo movimento diede luogo ad un ricco pullulare di
riviste, di gruppi di ricerca, di circoli di studio. Certo, se ciò che li ac-
comunava era la parola d‟ordine di una rivoluzione personalista, tuttavia
bisogna riconoscere che al loro interno esprimevano scelte politiche dif-
ferenziate e discutibili. Così, ad esempio, «La Jeune Droite», i cui militanti
si definivano cattolici rivoluzionari, era influenzata da Maurras e l‟Action
francaise e può essere considerata un' espressione dell‟estrema destra del-
l‟epoca in Francia. Al contrario, «L‟Ordre nouveau» è il movimento più
originale di quegli anni e ad esso si deve il conio del termine “persona-
lismo” e lo slogan “né destra né sinistra”. Tra i suoi militanti più significa-
tivi figurano intellettuali che avranno una certa notorietà nel panorama cul-
turale francese, come Robert Aron, Arnaud Dandieu, Daniel-Rops, Ale-
xandre Marc, Denis de Rougemont. Infine, bisogna menzionare il gruppo
di «Esprit» che aveva nel giovane Mounier, insieme a Maritain, la guida
politico-culturale e che era il gruppo più orientato a sinistra e meno intra-
nsigente nei confronti del comunismo e del marxismo3.
Il “personalismo” che animava questi gruppi, soprattutto «L‟Ordre nou-
veau» e «Esprit», era una reazione contro il razionalismo idealista (anima
senza corpo), da una parte, e il materialismo marxista (corpo senza anima),
dall‟altra, e si presentava come una filosofia dell‟uomo concreto, reale. In
questo senso, si opponeva ad ogni tendenza che separasse lo spirito dalla ma-
teria e si rifiutava di misconoscere il radicamento carnale e sociale dell‟uomo.
Il materialismo marxista appariva come una reazione giustificata verso ogni
forma d‟idealismo disincarnato, anche se poi finiva per mutilare la persona
umana nella sua realtà spirituale. Il termine “personalismo”, più che un siste-
ma filosofico chiuso, esprimeva un insieme d‟intuizioni comuni a questi mo-
vimenti con cui essi rivendicavano la loro originalità rispetto alle tendenze
3 Cf. J.L. LOUBET DEL BAYLE, I non-conformisti degli anni Trenta, Roma, Edizioni Cinque
Lune, 1972.
Simone Weil: filosofia e politica 425
Castoldi, 1997.
5 Per un‟ampia analisi di questa lettera cf. ivi, pp. 407-414.
426 Giuseppe Maccaroni
il lavoro non qualificato dopo la rivoluzione sarà eseguito non più dai disere-
dati per tutta la loro vita, ma da tutti i giovani per qualche anno come „servi-
zio civile‟. Il resto dell‟esistenza sarà invece consacrato al lavoro qualificato e
soprattutto al tempo libero. Questo lavoro industriale non qualificato avreb-
be un‟organizzazione centralizzata in mano allo Stato. Al contrario, nell‟am-
bito dell‟attività creatrice tutto sarà decentralizzato e nelle mani dei lavora-
tori grazie alle corporazioni. La produzione sarà al servizio del consumo, lo
Stato al servizio delle corporazioni, l‟economico al servizio dello spirituale.
Pur giudicando la separazione della produzione in due sfere organiz-
zate in maniera diametralmente opposta, come la sola idea originale del li-
bro, Simone giudica tale idea puramente “fantastica”, perché lavoro quali-
ficato e lavoro non qualificato si uniscono inestricabilmente nel seno del-
l‟impresa. Inoltre, osserva la filosofa, le corporazioni riproducono neces-
sariamente nelle loro strutture la gerarchia che esiste nelle imprese, perché
questa gerarchia corrisponde alle esigenze attuali della produzione. Esse sa-
ranno nelle mani dei capi d‟impresa, e la loro esistenza non potrà incre-
mentare la parte riguardante l‟iniziativa e la creatività individuale. Da qui
la conclusione secondo cui l‟idea di far compiere tutto il lavoro non qua-
lificato per mezzo di un “servizio civile”, è una «chimera», e che anche
quando un servizio civile di questo genere fosse realizzabile, finirebbe per
dare allo Stato una potenza inaudita sulla vita economica. Si arriverebbe,
applicando una tale concezione, all‟unificazione del potere economico e
politico, cioè ad uno Stato totalitario o ad un regime tecnocratico, che è
quello che Aron e Dandieu precisamente vorrebbero evitare6.
Rispetto ai processi di burocratizzazione e centralizzazione delle impre-
se, e al rapporto sempre più stretto che lega potere economico e potere
politico, Simone ritiene che la sola salvaguardia della libertà potrà dipen-
dere da un‟effettiva decentralizzazione della vita economica, da un control-
lo del funzionamento delle imprese da parte delle masse, dalla qualifica-
zione del lavoro. Ma tutto ciò presuppone una trasformazione totale della
struttura dell‟impresa e della tecnica. Si potrà anche considerare come ir-
risolvibile questo problema, ma intanto esso va „concepito‟. Ed è proprio
ciò che manca ai giovani riformatori di «Ordre nouveau», i quali non solo
non hanno una visione chiara e precisa di ciò che vogliono, ma il loro ap-
pello all‟attivismo, conclude la Weil, li porterà ad urtare con delle realtà
implacabili e in un senso contrario a quanto si propongono7.
9 EAD., “La persona e il sacro”, in Morale e letteratura, Pisa, ETS, 1990, p. 37.
10 Ivi, pp. 38 e 41.
11 G.P. DI NICOLA, A. DANESE (eds.), Persona e impersonale. La questione antropologica in
Weil non sia così lontana dalle più profonde motivazioni del personalismo.
Del resto, si fa notare, tutta la vita e il pensiero di Simone sono orientate ai
prossimi e ai lontani più svantaggiati. Non solo, ma la parte più propositiva
della sua produzione teorica, quella relativa alle obbligazioni verso gli es-
seri umani, non è in contrasto con i concetti fondamentali del personali-
smo. Il rifiuto della persona sarebbe dettato più dal contesto che dai conte-
nuti, ossia il personalismo le apparve legato ad ambienti borghesi, come
l‟esistenzialismo di Sartre e della De Beauvoir19.
3. Persona, diritti e obbligazioni. Le debolezze concettuali della nozione di
persona si manifestano in forme più accentuate, quando essa è associata a
quella di diritto, come avviene a proposito dei cosiddetti diritti della per-
sona. «La nozione di diritto, lanciata attraverso il mondo, nel 1789, è stata,
per sua insufficienza intrinseca, impotente ad esercitare la funzione che le
veniva affidata. Amalgamare due nozioni insufficienti parlando dei diritti
della persona umana non ci porterà molto lontano»20.
Anche in questo caso, osservano Di Nicola e Danese, la Weil si colloca
su una posizione diametralmente opposta ai personalisti, i quali dopo la
seconda guerra mondiale s‟impegnarono nell‟elaborazione della Dichiara-
zione dei diritti dell‟uomo. Il fatto è che la nozione di diritto è giudicata
dalla Weil intrinsecamente insufficiente per svolgere quella funzione uni-
versale che le era stata assegnata dalla generazione del 1789. In primo luo-
go, perché il diritto non è un bene assoluto e incondizionato, ma di esso è
sempre possibile un uso buono o cattivo. In secondo luogo, perché la no-
zione di diritto contiene sempre «una guerra latente e sveglia uno spirito di
guerra». «La nozione di diritto, precisa ancora Simone, è legata a quella di
divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di
per sé il processo, l‟arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della ri-
vendicazione, e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è
subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo»21.
A ben vedere la debolezza della nozione di diritto è ricondotta al suo ca-
rattere storicamente determinato, vale a dire al fatto di essere l‟espressione
di rivendicazioni, non dell‟uomo in generale, bensì di specifici gruppi sociali.
È questa la motivazione fondamentale che induce Simone, durante la sua
breve permanenza a Londra nel ‟43, a scartare il testo sui diritti elaborato
19 G.P. DI NICOLA, A. DANESE (eds.), Persona e impersonale, cit., pp. 8-9. Degli stessi auto-
ri vedi anche Simone Weil. Abitare la contraddizione, Roma, Dehoniane, 1991; e Abissi e vette. Il
percorso spirituale e mistico di Simone Weil, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002.
20 S. WEIL, “La persona e il sacro”, cit., p. 38.
21 Ivi, p. 49.
432 Giuseppe Maccaroni
23 Ivi, p. 43
24 S. WEIL, La persona e il sacro, cit., p. 45.
434 Giuseppe Maccaroni
25 E. BAGLIONI, La lotta contro i poteri. Il radicalismo di Alain, Milano, F. Angeli, 1988, p. 89.
Simone Weil: filosofia e politica 435
materiale degli individui dati nella produzione, con le dinamiche del potere
e della sua parziale autonomia. Più specificatamente la causa dell‟oppres-
sione sociale, nei paesi capitalistici come nell‟Unione Sovietica27, è la pleo-
nexia o lotta per la potenza tra collettività rivali per evitare di indebolirsi.
Lotta che si svolge nell‟arena internazionale e che è causa di un asservimen-
to totale delle masse lavoratrici. La lotta per la potenza, scrive Simone nel-
le Riflessioni, «racchiude una specie di fatalità che grava impietosamente
tanto su coloro che comandano quanto su quelli che obbediscono, più an-
cora, è nella misura in cui asservisce i primi che, per loro intermediario, an-
nienta i secondi»28.
Se ora passiamo a considerare la seconda fase della riflessione politica
sull‟impersonale, veniamo colpiti da una particolare accentuazione del rea-
lismo politico di Simone che fa da singolare contrappunto alla svolta misti-
co-religiosa della sua vita. A tal proposito, non è mancato chi ha rilevato
come l‟attitudine propria e specifica dei mistici, ad onta della loro enig-
matica inclinazione ad entrare in contatto con la realtà trascendente e so-
prannaturale, sia una particolare facoltà a radicarsi nella realtà mondana,
che è l‟espressione di una saggezza pratica che contempera e concilia la lo-
ro stessa capacità di comunicare con il divino.
Questo accentuato realismo politico lo possiamo rintracciare nei saggi
che precedono o che seguono lo scoppio del secondo conflitto mondiale,
vale a dire in Meditazione sull’obbedienza e la libertà [estate 1937], Non rico-
minciamo la guerra di Troia [aprile 1937], Riflessioni sulla barbarie [inizio
1940], L’Iliade o il poema della forza [inizio 1940] e, infine, in Origine dell’hi-
tlerismo del 1939, in cui i diversi argomenti affrontati trovano una loro
sintesi e unità in una sorprendente e originale analisi sulla vocazione totali-
taria dello Stato moderno. Ecco, il realismo politico della Weil assume co-
me oggetto principale d‟analisi, oltre al tema concreto quanto attuale delle
cause prossime e lontane del totalitarismo, i temi del potere, della guerra,
della barbarie e della forza, intesa, quest‟ultima, come unico e vero soggetto
„impersonale‟ della storia umana.
Soffermiamoci brevemente sull‟articolo Meditazione sull’obbedienza e la
libertà, che è occasionato da una rilettura del famoso libro di La Boétie sulla
27 S. WEIL, “Le problème de l‟URSS”, L’effort 406, 2 dic. 1933, ora in S. WEIL, Oeuvres
complètes, tome II, vol. 1, pp. 311-312. Più in generale sulle cause dell‟oppressione e i suoi
possibili rimedi cf. R. CHENAVIER, Simone Weil. Une philosophie du travail, Paris, Les éditions
du CERF, 2001, pp. 191 sgg.
28 S. WEIL, Oppressione e libertà, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, p. 97.
Simone Weil: filosofia e politica 437
30 S. WEIL, Lettera a Georges Bernanos, in EAD., Morale e letteratura, cit., pp. 82-89.
31 EAD., “Réflexion sur la barbarie”, in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1989, t. II, vol. 3, p. 223.
32 EAD., “Méditation sur un cadavere (variante)”, in ivi, p. 288.
33 EAD., “L‟Iliade o il poema della forza”, in La grecia e le intuizioni precristiane, Torino,
Borla, 1967, p. 9. Su questa concezione della forza cf. G. GAETA, “Sotto l‟imperio della
forza. Simone Weil, i greci, la guerra”, Linea d’ombra 6 (1988) 32, pp. 58-61; T. GRECO,
La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 45-61;
M.C. LUCCHETTI BINGEMER, Simone Weil. La debolezza dell’amore nell’impero della forza, Civi-
tella in Val di Chiana, Zona, 2007.
34 S. WEIL, “L‟Iliade o il poema della forza”, cit., p. 33.
Simone Weil: filosofia e politica 439
lessico della poesia romanza delle origini (da qui in poi BDM), in parte già consultabile tramite il
CD-ROM Trobadors (DISTILO 2001).
4 Il lavoro, all‟interno del progetto di lemmatizzazione dei testi della Lirica europea delle
origini, si riallaccia al panorama generale dello sviluppo delle basi dati testuali. Dagli anni
sessanta si lavora alla creazione di banche dati di testi letterari e documentari. Nel campo
della letteratura italiana c‟è la Letteratura Italiana Zanichelli (LIZ a cura di Stoppelli e Picchi),
mentre in Francia si è sviluppata l‟opera del Trésor de la langue française (avviata alla fine degli
anni ‟60 da Imbs) che ha portato alla costituzione dell‟Institut national de la langue française
(INaLF) e della banca dati FRANTEXT. In Italia parallelamente si è lavorato al Tesoro della lingua
italiana delle origini, la prima sezione del Vocabolario storico della lingua italiana. Da citare anche
la Concordance of Medieval Occitan (COM), diretta da Ricketts (2001).
francesistica sui trovieri. Mi riferisco in particolare allo studio di ZUMTHOR (nota 14, pp.
205-206) sul “grande canto cortese”. Lo studioso ha analizzato una canzone di Châtelain de
Couci, basandosi sull‟edizione LEROND (1964). Nell‟analisi relativa al vocabolario i verbi
sono risultati 79 contro 51 sostantivi e 14 aggettivi con una proporzione di un aggettivo ogni
4 nomi. Zumthor riporta anche l‟analisi operata da LAVIS-DUBOIS (1970) su 25 canzoni di
Blondel de Nesle (1730 occorrenze verbali contro 954 di sostantivi).
8 Si dà un quadro riassuntivo delle categorie morfologiche, tralasciando di suddividere le
tab. 1
categoria lemmi frequenza occorrenze frequenza 1
morfologica relativa
sost. 933 39 4711 419
v. 932 39 8170 381
agg. 381 16 2253 170
avv. 137 6 4175 44
serie per esprimere il concetto di “gioia, allegria” che ha tre sostantivi: alegransa, alegratge,
alegrier.
11 GUIETTE 1978: 28.
444 Eugenia Mascherpa
classe chiusa, ad eccezione degli avverbi in –men, suffisso che risulta partico-
larmente produttivo in Giraut12.
12 Per quanto concerne gli aggettivi, si hanno ad es. due sinonimi per “piacevole” con
confermano anche i dati quantitativi presentati sopra. Inoltre la nominalizzazione è una delle
attività principali delle lingue naturali.
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 445
16 Si è tenuto conto anche delle integrazioni apportate nella stesura dei voll. 21-23 del FEW.
17 Per es. nei casi di con hom fols e desmesuratz (242,5), si segue così la tradizione dei
glossari, come DI GIROLAMO 1996, CRESCINI 1892, KOLSEN 1935, GOUIRAN 1985, STRONSKI
1906, BARTSCH, KOSWIWITZ 1904, APPEL 1930.
446 Eugenia Mascherpa
sono tal (75) e negun (8), che marca il valore negativo di ome ed è usato spes-
so con valore superlativo nel senso della perfezione o del suo contrario18.
Lo spazio relativo alla materialità del corpo è dominato da cors (29) nel suo
duplice aspetto di realtà estetica e sensuale (riferito al corpo della donna) e
realtà fisiologica relativa all‟io dell‟enunciazione. Nel primo caso è accom-
pagnato da epiteti generici quali bel, gen, avinen; nel secondo caso dall‟agget-
tivo possessivo mon (mon cors). Sinonimo di cors è faison, mentre semblansa
sembra avere come riferimento l‟uomo. Le parti del corpo femminile più in-
vocate sono le braccia che rappresentano l‟amore sensuale, le mani e il viso19.
Gli occhi sono in pochi casi riferiti alla donna, spesso sono gli occhi del poeta
che ammirano il viso dell‟amata. Tra gli organi e le varie funzioni troviamo più
esteso lessicalmente il campo riferito alla nutrizione, anche se il senso più
importante non è il gusto, ma la vista20. Le altri parti del corpo menzionate nel
canzoniere di Giraut si riferiscono sempre a situazioni che prescindono dal-
l‟amore e dall‟amata. Per esempio boca è sempre riferito all‟io enunciativo
come metonimico per intendere la facoltà del linguaggio, così cais e den. Il les-
sema per testa sembra essere cervitz, mentre cap assolve più funzioni meta-
foriche di “guida”. Il collo è legato all‟atto cruento del soffocamento per impic-
cagione o per decapitazione. Det ha il valore di parte del corpo che serve ad
indicare, calcando forse un modo di dire del tipo “mostrare a dito”.
Della sezione del vocabolario dedicata al pensiero, due lessemi concretiz-
zano la capacità intellettuale dell‟individuo: sen con 48 occorrenze e razon con
29. Ad essi, che rappresentano il buon senso, la saggezza, si oppone la follia
con 35 occorrenze suddivise tra foldat (15), folor (12), folia (6), folatge e
daufeza. Il folle è colui che perde la sua capacità di giudizio e dimentica di com-
portarsi con moderazione21. È proprio Giraut a legare la follia ad una devia-
zione dal codice cortese, causata dall‟amore-passione. Nel componimento
242,39 Ia ·m vai revenen22 l‟argomento è la conciliazione tra amore e follia: l‟in-
importante anche ricordare l‟ambivalenza dei lessemi riferiti all‟aspetto che potrebbero
rientrare anche sotto la classificazione della “percezione”, se intendiamo i processi conoscitivi
sensibili come soggettivi.
21 CROPP 1975: 133-137.
22 Strofe VI, vv. 61-72: Car qui ·l dreg enten / D‟Amor ni ·n sospira / No pod aver sen / De gran
iauzimen / S‟ab foudat no ·i vai; / C‟anc drut savi gai / Non vi, q‟anz esmera / Lo sen la foudatz. / Per o
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 447
s‟amavatz / Ni ·l sen creziatz, / Per pauc de semblan / N‟irais doptan! La strofe potrebbe intendersi
anche ironicamente: solo un folle può innamorarsi e sopportare le privazioni imposte dal codice
con allegria, al saggio infatti non sfuggirebbe il paradosso della convenzione e si mostrerebbe triste.
23 Come nell‟uso dell‟afr. cf. MCCLELLAND 1977: 53.
24 SALVERDA DE GRAVE 1938: 30.
25 Non a caso Giraut ha introdotto la tecnica della canzone dialogata.
26 CROPP 1975: 446.
448 Eugenia Mascherpa
27 Registrata nel PD e nel Rayn, come fatto presente da CROPP 1975: 324.
28 Sh. 71, 2, 36: Qui no ·s sab retener / Si l‟agrat ni ·l plaiszer. Il termine agrat non è pre-
sente in Cropp.
29 Sh. 11, 2, 21: Mas chant per abelimen. Anche tale termine non è presente in Cropp.
30 CROPP 1975: 337-338. Sh. 3, 1, 8: Los gaugs e ·ls bes c‟auri‟adoncx […].
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 449
realizzato31, come jauzimen (12) e jauzida (1). Gli antonimi sono rappresen-
tati da dol e dolor (varianti lessematiche), con sinonimi enoi, pena, pezansa e ira
nell‟accezione di dolore provato; per l‟accezione di dolore come peso fisico
e metaforico abbiamo: fais, fardel, pezar; la sofferenza è rappresentata da
maltrach, maltraire, gensic, lanha e raixe; il dolore manifesto da plan e reclam. Il
tormento è stato considerato equipollente con il pensiero doloroso che
provoca inquietudine ed è stato classificato sotto “cura–affanno”.
Amor è sdoppiato tra entità astratta (58) e personificazione (46). Tale scis-
sione è rilevante perché conferma che non si tratta solo di poesie d‟amore, ma
anche di riflessione sull‟amore cui partecipa come controvoce la stessa personi-
ficazione. L‟appellativo del poeta-amante più frequente è amic, termine a forte
connotazione feudale, legato com‟è al patto di amicizia tra signore e vassallo.
Nella lirica cortese amic diventa l‟innamorato favorito della dama, sottomesso a
lei in quanto di rango inferiore e a lei legato da amicizia e affetto. In questa
accezione amic ha 27 occorrenze, le restanti intendono il rapporto di amicizia
tra uomini. Quando ha il senso di “innamorato” è spesso accompagnato da
epiteti caratteristici della fin‟amor, quali fin (5 volte in solidarietà semantica con
amic), verai (2), car, ioios, ferm, umil, coral. La caratteristica di sentimento
reciproco è condivisa da amador (25), spesso accompagnato dall‟aggettivo fin.
La differenza con amic consiste nell‟essere più generico, un innamorato che si
affaccia al rapporto, ancora tutto da idealizzare, perché non condiviso32. Nella
scala di avvicinamento alla donna, il termine drut (18) sembra occupare un gra-
dino superiore rispetto ad amic e amador: è l‟appellativo di chi ha già ottenuto
qualche favore dalla donna amata. Si trova infatti alcune volte al passato (drutz
ai estat una sazo)33, nei componimenti in cui Giraut ricorda gli avvenimenti
della sua storia d‟amore fino al distacco. Segue aman (16) che rappresenta un
modo distaccato da parte del poeta di percepire gli altri innamorati; ha
l‟accezione piuttosto generica di “colui che ama”, pertanto spesso il suo senso è
determinato da un aggettivo34. Dalla classificazione noemica i termini sem-
brano essere quasi sinonimi per il rinvio a classi differenti: la classe “fiducia-
sfiducia” per i sostantivi amic, amiga, amistat, e quella “desiderio” per i sostantivi
31 Sh. 42, 4, 54: Qe m‟a joia renduda; Sh. 32, 9, 58: No vuelh mai joya qiquir; Sh. 46, 5, 91:
Joias e demoraill.
32 Ad es. nella canzone Ges de sobrevoler no ·m tuoill (242,37) ai vv. 21-22, -c‟anc non vi fin
amador / Ab poder que d‟amar se lais; nella canzone 22 Nuilla res (242,53) ai vv. 17-18: Car si
s‟encontro d‟un voler / Dui fin ami e d‟un talan.
33 242,80 Un sonet fatz malvatz e bo v. 25.
34 Per es. in Sj ·m plagues tant chans (242,71) vv.31-32: Qui demand‟a mans / Dels cobes
amans.
450 Eugenia Mascherpa
aman, amador, amairitz, amansa, amor. Tra gli appellativi femminili il più fre-
quente è domna (44), segue amiga con 17 occorrenze, di cui 8 sono appellativi,
mentre nei restanti esempi rappresenta il legame sentimentale tra la donna e
l‟amante-poeta, confermato in sette dalla presenza del pronome possessivo che
ne evidenzia l‟appartenenza all‟amante; l‟impiego sottolinea reciprocità e vici-
nanza tra due persone, circostanze relazionali che fanno osare epiteti quali mala
e fellona quando il poeta si sente tradito dalla volubilità della donna. Meno
frequenti sono midons e druda. Cropp (1975: 42) nota come Giraut riabiliti in
un certo senso questo termine, che prima era piuttosto generico, e lo introdu-
ca nella lirica cortese con il significato di “donna amata dal poeta” di contro al
marcato “amante, maîtresse”.
Sempre in tema di sentimenti si registra una rilevante presenza di lemmi
indicanti l‟eccesso in amore (7), di cui cinque hapax: sobrardimen, sobretalan,
sobrevoler, tresvoler e tropvoler35. Il campo dei sentimenti esagerati mette in
scena con superba espressività la nullità degli estremi, rimarcando come me-
ritevole la ricerca costante dell‟equilibrio, già vista nella coppia sen / folia.
Forse non è un caso che tra gli utensili citati da Giraut ci sia la bilancia rap-
presentata da balans (4) e balansa (2); il primo termine ha in sé anche il nu-
cleo semico di “slancio, impeto” e come tale trova posto anche sotto la classe
di “entusiasmo”.
Per ogni lessema è stata redatta una scheda con le seguenti informazioni:
il codice numerico, il nome della classe noemica, il lemma, la traduzione
italiana36, l‟etimo con l‟indicazione della lingua di origine, il riferimento al
FEW, la selezione di uno o più contesti di Giraut e, infine, il rinvio all‟edi-
zione di riferimento.
2.2.7.2.1.0.0.0/ Gioia – piacere
abelimen „gradimento‟ [lat. BELLUS (1, 320a)]
mas chant per abellimen GrBorn 242,48 2 21 4
agradatge loc. agg. „piacevole‟ [lat. GRATUS (4, 249b)]
qe rics faigz d‟ agradage GrBorn 242,52 4 38 5
agrat „gradimento‟ [lat. GRATUS (4, 249b)]
35 Oltre ai sostantivi, si ricordano – come nuovi lemmi introdotti dal nostro autore – gli
niere di GrBorn.
Il lessico dei sentimenti in Giraut de Bornelh 451
della gioia: Pero suffertaire / Pren enanz repaire / Qe glotz manassaire, / Cridan / Cals colps faria de
son bran (Sh. 29, 6, 110-114). Sembrerebbe che Giraut ami il momento dell‟attesa più che
della realizzazione vera e propria, immagine che è presente anche negli esordi primaverili
quando descrive la fine dell‟inverno.
454 Eugenia Mascherpa
1.4. Conclusioni
nella tradizione degli studi sulla lirica dei trovatori, è forse l‟aspetto più
caratteristico di Giraut: basti pensare che, su 80 componimenti, 57 sono
classificati come unici nel repertorio di Frank. La materia è sempre la stessa,
le idee sono identiche, ma i significanti cambiano: l‟individualità di Giraut
scatta nelle creazione delle forme, nel disattendere l‟orizzonte d‟attesa della
rima-senso con l‟introduzione di nuovi lemmi nella tradizione lirica.
Nell‟ambito delle strutture concettuali del canzoniere giraldiano, il cam-
po più ricco e interessato da innovazione è quello dei sentimenti. L‟ordina-
mento dei lemmi evidenzia i segni della continuità e della discontinuità con
la tradizione lirica. Certo il confronto con altre classificazioni noemiche di
differenti autori avrebbe consentito di uscire dalla potenzialità dei risultati
per attestarsi sulla rilevanza.
Tale varietà di motivi e lemmi è indice di uno sforzo di variazione del
registro linguistico all‟interno del canzoniere, e, a volte, all‟interno di uno
stesso componimento39. Il modo serrato di enunciare il proprio pensiero fa sì
che il poeta prediliga le frasi brevi e l‟accostamento straniante con oggetti e
idee del vivere quotidiano, preferenze che rendono ancora più difficile l‟in-
terpretazione della sua poesia per noi moderni40.
La pazienza del poeta nella pulitura del suo componimento, nel selezio-
nare e accostare le parole, è paragonabile alla pazienza dell‟amic nei confronti
della donna amata. L‟amore è ricerca incessante di perfezionamento attra-
verso la disciplina del desiderio così come la poesia è ricerca di effetti e di
immagini attraverso un travaglio tecnico che conduce al canto perfetto.
I temi sembrano essere argomenti occasionali per dar vita al gioco della
composizione, nella scelta delle parole rare e nella creazione di nuove,
nell‟incisività del periodo, nella raffigurazione pittorica di alcune metafore
(una per tutte l‟amore che piove dolcemente nel cuore); si tratta di scelte
consapevoli, mirate a destare l‟attenzione del pubblico, chiamato a
partecipare all‟evento secondo il gioco delle parti. Dunque Giraut, come
Bernart de Ventadorn, è il primo e il più ragguardevole poeta di corte che
produce versi avendo ben in mente il patrono e il suo pubblico.
39 SALVERDA DE GRAVE 1978: 46-47: «[Giraut] recherchait une certaine négligence élégante
et évitait un enchaînement trop rigide de la pensée»; e p. 57: «[la construction de la phrase] fait
preuve d‟une certaine tendance, de la part du poète, à la rapprocher de la langue parlée».
40 SALVERDA DE GRAVE 1938. L‟impressione è quella di una grande libertà nell‟uso della lin-
gua, sia nei paragoni improvvisi e concisi (Prec mon coragg‟ e l‟amas /Vas un‟amor e l‟asejn. / Si tot lo
m‟avi‟ espars / Per mantas contradas lojn), sia in parole cariche e piene di significati, per le quali il
traduttore è sempre obbligato a cercare degli equivalenti più precisi (semblam, plach, afar, gen, ric,
franc, prezan).
456 Eugenia Mascherpa
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2 Ivi, p. 54.
3 Ivi, p. 66.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 463
4 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, London, Macmillan, 1920, rist. in The Collected
In Space, Time and Deity Alexander articola più dettagliatamente le sue argo-
mentazioni concentrandosi direttamente sulla distinzione tra mentale e non
mentale. L’atto mentale è simile alla reazione di un essere vivente agli stimo-
li dell’ambiente: gli oggetti della mente sono le cose e non le loro rappresen-
tazioni. La reazione mentale all’oggetto è prova non dell’identità ma dell’in-
siemezza (togetherness) di due esistenze: il mentale e il non mentale. L’atto
mentale è fruito (enjoyed) mentre l’oggetto è contemplato (contemplated). Le
fruizioni, che sembrano rimandare alle «idee di riflessione» di Locke, non sono
separate dalle contemplazioni perché il soggetto si fruisce solo contemplan-
do l’oggetto. La coscienza fruisce immediatamente di sé e l’«io», soggetto
empirico, è tale perché si fruisce. Un oggetto viene ad essere contemplato
dalla mente quando essa è compresente con un altro finito. La compresenza,
che è «la più semplice ed universale delle relazioni», si articola pertanto in
due elementi distinti: l’atto mentale, e quindi la coscienza, da una parte, e
l’oggetto di cui essa è consapevole, dall’altra. Ne deriva che la conoscenza è
resa possibile in due diversi modi: la «contemplazione», che è la conoscenza
che la mente ha degli oggetti ad essa compresenti, e la «fruizione», che è la
7 S. ALEXANDER, “The Basis of Realism”, Proceedings of the British Academy, 28 Jan. 1914, p. 6.
8 Ivi, p. 5.
9 Ivi, pp. 6-7.
466 Spartaco Pupo
permetto di rinviare al mio “La conoscenza come compresenza di finiti nel realismo di Samuel
Alexander”, Segni e Comprensione 19 (2005) 56, pp. 86-93.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 467
mente sia l’indipendenza dalla realtà che la capacità di creazione degli oggetti
reali, ma si contrappone alle tendenze soggettivistiche e coscienzialistiche che
da sempre hanno caratterizzato il filone di pensiero empirista.
Sull’esempio dell’iniziatore del neorealismo inglese G.E. Moore, Alexan-
der sostiene l’assoluta oggettività dei dati che provengono dall’esperienza.
Per Moore, il dato sensibile non era un’entità mentale di tipo soggettivo
(quale poteva essere, ad esempio l’idea berkeleyana) ma era l’oggetto della
percezione, cioè qualcosa che si presenta alla coscienza dall’esterno, che è
dato alla coscienza. A questa linea interpretativa realistica Alexander aggiun-
ge una novità che rende originale il suo pensiero rispetto non solo a quello di
Moore ma anche ai filoni dello scetticismo e dell’agnosticismo che con Hu-
me e Spencer avevano caratterizzato una certa fase dell’empirismo: in con-
trasto con l’empirismo tradizionale, il filosofo realista tende a ridurre l’im-
portanza della conoscenza come mero fatto dell’esperienza, accentuando
quello che è il contenuto della conoscenza. Per questo egli va alla ricerca di
«dati primordiali» in cui possano trovare motivo d’esistenza ogni fatto (psi-
cologico o fisico) dell’esperienza.
Alexander prende le distanze dalla separazione kantiana tra le forme cate-
goriali dell’intelletto e quelle dell’intuizione, e considera le categorie sempli-
cemente come «caratteri categoriali», insiemi oggettivi di relazioni che de-
terminano ogni ente finito. Le qualità sono «caratteri empirici» di cui si nota
la presenza grazie all’esperienza sensoriale e che, in quanto tali, sono pre-
senti in un oggetto una volta e non un’altra. Così come si è in grado di con-
cepire l’«estensione» del colore, allo stesso modo è possibile, grazie alla
«spoliazione delle qualità»14, considerare le cose nel loro carattere più ele-
mentare e pervenire al residuo delle loro qualità più semplici: il «puro
spazio-tempo», la stoffa (stuff) primordiale delle cose15. Rifiutando tanto la
concezione newtoniana quanto quella leibniziana, Alexander vede lo spazio e il
tempo come «interdipendenti» (se non lo fossero, il tempo si ridurrebbe al-
14 Liberare una cosa di ogni sua qualità, dice Alexander, è come voltare all’indietro le
pagine della sua storia, fino a giungere alla prima pagina, che rappresenta lo stadio più sem-
plice dell’esistenza, il livello del puro spazio-tempo. La spoliazione, a ben vedere, ha molto in
comune con l’analisi fenomenologica di Husserl. Anche in Alexander, infatti, l’oggetto su-
bisce una sorta di «devoluzione» che termina nel puro spazio-tempo.
15 Il termine stoffa è quello che Alexander predilige maggiormente, preferendolo spesso a
matrice (matrix) o a medium infinito, per indicare il «materiale», e non la «sostanza» delle
cose. In Space, Time and Deity è contenuta la motivazione di questa scelta: «In verità, lo spazio-
tempo infinito non è la sostanza delle cose ma è la stoffa delle sostanze. Così come un rotolo
di tessuto è la stoffa di cui sono fatte le giacche, ma non è in se stesso una giacca, così spazio-
tempo è la stoffa di cui tutte le cose, come sostanze o sotto ogni altra categoria, sono fatte»
(op. cit., I, p. 341).
468 Spartaco Pupo
l’istante, e nello spazio un punto non sarebbe diverso da un altro) e gli ele-
menti ultimi del reale come punti-istanti che si succedono in un continuum che
si estende infinitamente in avanti e all’indietro lungo le «linee dell’universo».
La metafisica di Alexander è una sintesi straordinaria di kantismo, neohe-
gelismo, neorealismo, empirismo, bergsonismo, psicologia sperimentale,
evoluzionismo e teoria della relatività16. Ma il suo più costante riferimento è
Spinoza. Al correligionario olandese egli dedica un saggio dal titolo emble-
matico Spinoza and Time (1921), il cui tema principale è lo spazio-tempo co-
me infinito di cui gli oggetti empirici e il contrasto vitale sono «modi». Il
tempo, rispetto allo spazio, ha la stessa superiorità che, nell’uomo, ha la
mente rispetto al corpo. Lo spazio è, per analogia, «il corpo del tempo» e il
tempo, corrispondente al «pensiero» spinoziano, è «la mente dello spazio».
Dal momento che la mente è una «forma di tempo», ogni qualità empirica
emerge dal tempo, che nel sistema alexanderiano si eleva a principio di in-
quietudine perenne, vero creatore delle cose, principio costante di caducità.
Il tempo è, in effetti, il vero agente della «cosmogenesi». Dallo spazio-tempo
elementare, nel corso della storia universale, grazie all’azione del tempo,
vengono ad esistenza sempre nuovi complessi di movimento dotati di sem-
pre nuove qualità, e vengono a crearsi diversi livelli di esistenza, in ognuno
dei quali si forma una precisa collocazione di movimenti che appartiene
specificatamente a quel dato livello costituendone la qualità appropriata. Il
processo per cui dal vecchio scaturisce il nuovo senza che il vecchio si perda
ma permanga in esso è da Alexander definito emergenza e viene così descritto:
I nuovi ordini di finiti vengono ad esistenza nel tempo; il mondo si sviluppa dal-
la sua prima ed elementare condizione di spazio-tempo, che non possiede alcu-
na qualità ad eccezione di ciò che siamo d’accordo a chiamare la qualità spazio-
temporale del movimento. Ma nel momento in cui, nel corso del tempo, una
nuova complessità di movimenti viene ad esistenza, emerge una nuova qualità
16 Sul sistema metafisico alexanderiano è concentrata gran parte della non vastissima
letteratura critica europea. A parte la mia monografia Samuel Alexander: naturalismo e democra-
zia delle cose, Cosenza, Brenner, 2003, e il libro di P. DEVAUX, Le Système d’Alexander: exposé
critique d’une théorie néo-réealiste du changement, Paris, Vrin, 1929, i maggiori studi su Alexan-
der sono stati pubblicati tutti negli Stati Uniti: M.R. KONVITZ, On the Nature of Value. The
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Forme di cosmologia politica nel Novecento 469
che è un nuovo complesso che possiede, come materia di fatto empirico osser-
vato, una nuova o emergente qualità17.
Ai critici che gli obiettavano di non avere fornito alcuna spiegazione delle
cause che determinano l’emergenza dei nuovi livelli d’esistenza dai vecchi18,
Alexander ribatte attraverso il culto della fede naturale (natural piety), che
riprende dal poeta inglese Wordsworth e che esprime l’atteggiamento del-
l’investigatore-filosofo che accetta, con lealtà, «i misteri della natura che non
può spiegare e non trova alcuna ragione di spiegare». La natural piety è l’abi-
tudine di «conoscere quando si smette di porre domande sulla natura», di
«descrivere» piuttosto che di «argomentare»19. Nei riguardi della natura, se-
condo Alexander, bisogna usare riverenza e prudenza nei giudizi, evitando
complicate impalcature interpretative, molto spesso fallimentari, e predizio-
ni sul futuro, in gran parte inutili, come quelle del determinista Laplace e del
suo calcolatore. Le qualità emergenti devono essere accettate con fede natu-
rale a causa della grande limitatezza del potere di predizione dei livelli più
alti, che, avverte Alexander, non possono essere conosciuti neanche un at-
timo prima della loro emergenza nel tempo: un essere che ha conosciuto la
vita non è in grado di predire l’emergenza della mente.
A dimostrazione della credibilità della tesi antimeccanicistica di Alexan-
der basta sottolineare l’accoglimento che ne farà, qualche tempo dopo, un
autorevole studioso come C.D. Broad, che dimostrerà come, anche dal pun-
to di vista fisico-chimico, sia impossibile predire le proprietà degli esistenti
emergenti attraverso la conoscenza delle proprietà dei loro costituenti (il le-
game chimico tra idrogeno e ossigeno, e molte proprietà dell’acqua, restano,
nell’esempio di Broad, imprevedibili)20. Ma vale la pena ricordare l’equipa-
rabile posizione di H. Bergson, che più o meno nello stesso periodo denuncia
i limiti della mente calcolante tesa ad assumere il tempo come irreale o l’uni-
verso come completo. Se, nelle parole di Bergson, «tout est donné» (tutto è
dato), noi stiamo avanzando nel tempo seguendo modelli meccanici di un’e-
sistenza già determinata, che preclude ogni possibile emergenza futura. Il che
che è già emersa come tale per i livelli d’esistenza inferiori. Ad ogni livello
d’esistenza, infatti, si dà una deità: per gli esistenti che possedevano solo le
qualità primarie, la deità si presentò come materia; per noi esistenti umani,
dotati di mente, essa è qualcosa di ignoto, poiché «gli altari umani sono an-
cora innalzati al Dio sconosciuto», anche se «siamo speculativamente certi
che l’universo è in procinto di partorirla»24.
Ciò che più colpisce del sistema di Alexander è il messaggio di unità che
trasmette e che investe tutti i campi di indagine, delineandosi come il filo
conduttore che unisce tutte le sue formulazioni. Lo sforzo di costruire l’ar-
monia laddove insiste il conflittuale, l’apparentemente contrapposto, l’in-
compatibile, è il vero motivo trainante della produzione speculativa alexan-
deriana, sia in chiave epistemologica che metafisica. Testimonianza di una fi-
losofia dell’unità armonica del reale è il suo tentativo di condurre ad unità la
varietà della natura, di superare, in ambito etico, mediante la chiarificazione
dei concetti di «ordine» e «progresso», le profonde diversità di vedute tra
idealismo e darwinismo. E sotto l’egida dell’unità si presentano la dottrina
dello spazio-tempo, che concilia due concetti da sempre concepiti separata-
mente, quelli dello spazio e del tempo tradizionalmente intesi, alla teoria
della conoscenza, che colloca il soggetto non al di sopra ma a fianco, com-
presente all’oggetto e ad ogni esistenza reale, alla concezione della mente,
come ente finito che, democraticamente, abita nel mondo, da cui non è più
indipendente, fino alla concezione della deità, che vuole essere sintesi armo-
nica di due dottrine, teismo e panteismo, da secoli agli antipodi.
Tutto l’impianto teorico di Alexander è il frutto di una veduta unitaria
dell’universale e di una continua e costante ricerca di equilibrio. I furori della
prima guerra mondiale, le ripercussioni devastanti sul piano sociale, etico,
economico e politico non hanno lasciato indifferente questo filosofo. I rimedi e
le possibili soluzioni da apportare, sotto il profilo culturale, per la costruzione
di un futuro diverso da ciò che quell’immane conflitto aveva lasciato, hanno
ispirato la stesura di un’opera imponente e dal valore indiscusso, qual è Space,
Time and Deity, pubblicata nel 1920, quindi a ridosso della profonda alterazione
del quadro valoriale dell’umanità, che andava al più presto rivisto e rinnovato.
Alexander, filosofo della riconciliazione, non si è tirato indietro. Ha riflettuto
seriamente sulla possibilità di una concreta affermazione dell’idea di equilibrio
universale, di una democrazia meritocratica regolatrice del cosmo, un’idea su
cui è riuscito a costruire un sistema filosofico ordinato e coerente.
24 Ivi, p. 347.
472 Spartaco Pupo
sione della scienza in “scienza morale” e “scienza naturale”», che ha come di-
retta conseguenza l’idea che il sapere filosofico ha a che fare con «argomenti
riguardanti la mente» mentre la scienza naturale si interessa di «argomenti
riguardanti la materia». Ed è da questa divisione di ambiti che, secondo Whi-
tehead, è derivato, come è scritto in The Function of Reason (1929), «l’antago-
nismo» tra filosofia e scienza naturale, un antagonismo che «ha prodotto
disastrose limitazioni di pensiero da entrambi i lati. La filosofia ha cessato di
esigere la generalità che le è propria, e la scienza naturale si è accontentata
del ristretto cerchio dei suoi metodi»29.
Una delle maggiori prerogative di Whitehead è proprio quella di inver-
tire questa tendenza. In Science and the Modern World (1925), che è una rico-
struzione critica della storia della scienza nel mondo moderno e dei diversi
modelli che essa ha proposto alla riflessione dei filosofi, egli sostiene che per
una visione più comprensiva della realtà è necessario sostituire il modello
organicistico delle scienze biologiche al modello meccanicistico e oggettivi-
stico che le scienze fisiche hanno proposto alla riflessione filosofica fino a
tutto l’Ottocento. La scienza non può più essere solo fisica ma deve iniziare
ad essere insieme fisica e biologica, deve diventare lo studio degli organismi.
Scrive infatti:
La biologia è lo studio degli organismi più grandi, mentre la fisica è lo studio
degli organismi più piccoli30.
Solo una filosofia organica che tenga conto della nuova concezione della
scienza è in grado di conoscere a fondo l’universo, questo eterno processo
creativo. In The Concept of Nature (1920) Whitehead, dopo aver distinto un li-
vello percettivo (o sensoriale) che ha a che fare con gli eventi, da un livello
concettuale che «costruisce» oggetti sottraendoli al flusso naturale incessante
e unitario, descrive la natura come l’ambito della percezione sensibile che ci
restituisce la visione di un mondo che non è semplicemente pensiero ma che
è estraneo al pensiero. Ciò, nell’ottica del filosofo inglese, non implica un
dualismo tra pensiero e natura ma significa solamente che è possibile pensare
la natura in modo «omogeneo», come quel «sistema chiuso» che è oggetto di
indagine della scienza della natura. E ciò non implica, avverte Whitehead, il
pensiero del pensiero. Se si pensa alla natura con riferimento al pensiero al-
lora si è di fronte a una natura pensata in modo eterogeneo e perciò estraneo
alla scienza della natura. Nella percezione sensoriale, il perceptum è un non-
29 A.N. WHITEHEAD, La funzione della ragione, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 67.
30 A.N. WHITEHEAD, La scienza e il mondo moderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1979, p. 127.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 475
pensiero, ossia è un entità che per il pensiero è al di là del fatto della stessa
percezione sensoriale; è semplicemente il termine della sensazione. Alla base
del realismo whiteheadiano, pertanto, c’è la concezione secondo la quale
tutti gli oggetti, siano essi della percezione o del pensiero, sono entità che,
nell’atto stesso di essere percepiti o pensati, restano indipendenti dalla per-
cezione o dal pensiero stessi. In altre parole: si può pensare la natura in mo-
do omogeneo senza, nello stesso tempo, «pensare il pensiero».
Proiettate nella polemica con la filosofia tradizionale e i suoi «errori di con-
certazione» come le «biforcazioni» di sostanza e qualità, soggetto e predicato,
soggetto e oggetto, le nozioni cardine della gnoseologia whiteheadiana sono
sostanzialmente due: le «entità reali», la «prensione» e il «nexus». Le entità rea-
li (dette anche «occasioni reali» o più semplicemente «eventi») differiscono tra
loro per funzione relazionale e grado di importanza, sono i fatti ultimi del rea-
le, le prime categorie dell’esistenza al di là delle quali non esiste altra cosa più
reale, e tutte, da Dio all’ultima cosa del mondo, sono «atti finali», «ugualmen-
te reali», «gocce di esperienza complesse ed interdipendenti»31. Queste entità
reali, divisibili, attraverso l’analisi, in un infinito numero di modi, sono centri
individuali e dinamici di energia che costituiscono il divenire totale dell’univer-
so. La realtà è, infatti, un continuo processo, e ciascuna entità reale è un modo
del processo di «sentire» il mondo, è insieme soggetto e supersoggetto (subject-
superject), immediatezza soggettiva, intrinseca unità emergente nel divenire del
mondo32. Il processo per cui l’entità reale si imbatte nei dati resi utilizzabili da
altre entità reali e vi interagisce creativamente acquistando la sua individualità è
quello che Whitehead chiama «concrescenza»33.
Attraverso la concrescenza naturale ogni singola entità reale «prende» in
se stessa tutte le entità passate e, a sua volta, è presa da tutte quelle future.
Ogni evento è, quindi, un atto concrescente in un rapporto di «prensione»
31 A.N. WHITEHEAD, Processo e realtà. Un saggio sulla cosmologia, Milano, Bompiani, 1965, p. 70.
32 Whitehead afferma che le entità reali (o eventi) sono interdipendenti e hanno sia un
polo fisico che un polo mentale. Con questa posizione egli prende decisamente le distanze da
Leibniz, il quale, sostenendo che le sostanze materiali, considerate nello spazio, non possono
che agire nello spazio, riduceva tutto alla sostanza mentale con la conseguente necessità di
ricorrere a Dio per spiegare la relazione tra il fisico e il mentale. A tale riguardo, cf. E. PACI,
Relazioni e significati, Milano, Lampugnani Nigri, 1965, I, pp. 40-60, e, dello stesso autore,
“Sul primo periodo della filosofia di Whitehead”, Rivista di Filosofia 44 (1953) 4, pp. 397-415.
33 In Adventures of Ideas (1933) Whitehead specifica la derivazione latina del termine con-
crescenza, che si avvicina molto alla compresenza di Alexander, e che vuol dire «crescere insieme»:
la concrescenza è pertanto un crescere insieme dei diversi aspetti dell’esperienza (A.N.
WHITEHEAD, Avventure di idee, Milano, Bompiani, 1961, p. 301).
476 Spartaco Pupo
Il processo creativo, in altri termini, non deve essere inteso come l’azione di
un «agente esterno» poiché «tutte le entità reali condividono con Dio questa
caratteristica di autocausazione»37. La creatività
è sempre priva di un carattere suo proprio, esattamente nello stesso senso in cui
la “materia” aristotelica manca di un carattere suo proprio. È quella nozione
ultima della suprema generalità che sta alla base della realtà. Non può essere ca-
ratterizzata perché tutti i caratteri sono più specifici di essa38.
36 Ivi, p. 74.
37 Ivi, p. 436.
38 Ivi, p. 92.
39 Ivi, p. 125. Che Platone sia un riferimento costante di Whitehead lo testimonia soprat-
tutto una frase, tratta da Process and Reality e divenuta famosa: «La più opportuna caratteriz-
zazione generale della tradizione filosofica europea è l’indicazione che essa consiste di una
serie di note a Platone» (cit., p. 114).
478 Spartaco Pupo
problème de Dieu, Paris, Beauchesne, 1968; K.F. THOMPSON, Whitehead’s Philosophy of Religion,
L’Aja, Mouton, 1971; F. COPPOLA, Il significato della religione in A.N. Whitehead, Napoli,
Tempi Moderni Edizioni, 1988.
480 Spartaco Pupo
44 C.A. MACE, British Philosophy in the Mid-Century, Oxford, George Allen, 1966, p. 128.
Platone, come è noto, nella Repubblica, adoperava il termine sinossi per indicare il primo proce-
dimento dialettico che consiste nel raccogliere il molteplice in un’unica idea. Lo «sguardo d’in-
sieme» cui si riferiva Platone è davvero la principale caratteristica della filosofia di Whitehead.
45 A.N. WHITEHEAD, Avventure di idee, cit., p. 362.
Forme di cosmologia politica nel Novecento 481
46 P. TEILHARD DE CHARDIN, “Il mio universo”, in La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra
(1916-1919), Milano, Il Saggiatore, 1970, p. 342.
47 ID., Il cuore della materia (1950), Brescia, Queriniana, 1993, p. 51.
48 ID., “Note sur le Progrès” (1921), in G. VIGORELLI, Il gesuita proibito. Vita e opere di P.
482 Spartaco Pupo
Abstract
Thought in the first half of XX century was quite influenced by political language
insomuch as some methaphysical thinkers, seemingly uninterested in neither politics
and political philosophy, use political terms and metaphors in order to make clear the
principal concepts of their naturalistic cosmologies. Samuel Alexander speaks of
“democracy of things” in nature; Alfred North Whitehead elaborates an organic theory
of “self-assertion”; the top of Pierre Teilhard de Chardin’s evolutionistic system is the
“supermanization” of nature.
EMILIO SERGIO
mia Ficiniana hanno messo in luce come alcune accademie rinascimentali siano a volte più
il risultato di invenzioni mitografiche che realtà effettive e operanti. Dopo gli studi di J.
HANKINS (“The Myth of the Platonic Academy of Florence”, Renaissance Quarterly 44, 1991,
3, pp. 429-475; ID., “Cosimo de‟ Medici and the Platonic Academy”, Journal of the Warburg
and Courtald Institutes 53, 1990, pp. 144-162), è possibile misurarsi con approcci più rigo-
rosi; anche se, come vedremo, nel caso dell‟Accademia Cosentina, la scarsità di fonti docu-
mentarie non ha impedito il riconoscimento della reale natura di tale istituzione.
4 Cf. MARIO EMILIO COSENZA, Biographical and Bibliographical Dictionary of the Italian
Humanists and of the World of classical Scholarship in Italy, 1500–1800, 6 vols, Boston, G.K.
Hall and co., 1962–1967, a.i.
5 Al febbraio del 1519 risale la composizione, da parte di Antonio, della Oratio in funere
Ioh. Iacobi Trivultii (Mediolani, per Augustinum de Vicomercato), poi riedita nella ANTONII
THYLESII CONSENTINI Opera, a cura di F. Daniele, Neapoli, Fratris Simonii [Paullus et Nico-
laus De Simone], 1762, pp. 193-204. Fino al 1523 non si hanno notizie certe sugli sposta-
menti di Antonio e Bernardino. Terminus ad quem dell‟allontanamento dei Telesio da Mila-
no è il 13 dicembre 1523, data della lettera di Antonio ad Alessandro Caccia (v. nota 6), in
cui Antonio ricorda al suo corrispondente di aver trovato a Roma l‟amicizia e la collabo-
razione di Marco Girolamo Vida, di Paolo Giovio e di Matteo Giberti (ivi, pp. 223-224).
6 Durante il soggiorno romano la produzione letteraria di Antonio comprende l‟Episto-
la ad Alexandrum Cacciam Florentinum ob Clementis VII. Pontificatum Maximum (Romae, 1523); nel
maggio del 1524 una serie di Poemata (Romae, F. Minitium Calvum), voluti da Clemente
VII; nel febbraio del 1525 il De Coronis (Romae, F. Minitium Calvum); intorno al 1527, In
odas Horatii Flacci Auspicia ad Juventutem Romanam; e nel 1526 l‟Epithalamium in Nuptias
Scipionis Capycii & Iuniae Caracciolae (Neapoli, Evangelistam Papiensem).
7 P. GIOVIO, Elogi dei letterati illustri, a cura di F. Minonzio, Torino, Einaudi, 2006, p. 338.
Parrasio in Calabria 489
si trovavano in quegli anni a Roma, come, ad esempio, il più giovane dei fra-
telli Martirano. È appena sufficiente dare uno sguardo agli Auspicia di Anto-
nio, pubblicati in quegli anni ad Juventutem Romanam, per farsi un‟idea precisa
della levatura intellettuale del maestro cosentino8.
Gli anni della permanenza romana furono dunque decisivi per la forma-
zione di Bernardino. Il pontificato di Clemente VII si inaugurava nel segno
della continuità con il mecenatismo culturale di Leone X. Una prova tangi-
bile del fermento culturale di quegli anni ci viene, ad esempio, dalla quantità
di titoli pubblicati dallo stampatore apostolico Francesco Minizio Calvo
(c.1499–1548): dal 1523 al 1527 troviamo, oltre alle opere di Antonio Tele-
sio, scritti e raccolte di Angelo Poliziano, di Paolo Giovio, di Iacopo San-
nazaro, di Erasmo da Rotterdam, di Niccolò Machiavelli, e poi ancora, edi-
zioni delle opere di Galeno, di Ippocrate, di Virgilio e di Plutarco9. D‟altron-
de, non c‟è dubbio che nel quinquennio che va dal 1523 al 1527 le biogra-
fie dei Telesio finiscano col convergere, avendo Bernardino dovuto frequen-
tare, di riflesso, gli stessi ambienti culturali (lo Studium, la corte papale, il
milieu di Paolo Giovio, la cerchia dei Martirano) frequentati dallo zio10.
Sulla partenza di Bernardino per Milano si è già detto nel precedente
contributo11. Dell‟influenza di Antonio sulla formazione culturale di Ber-
nardino si ha notizia, oltre che nella Oratione (1596) di Giovan Paolo D‟Aqui-
no e in raccolte come la Historiarum sui temporis ab anno domini 1543 usque ad
annum 1607 di Jacques–Auguste Thou12, anche nelle prime biografie concer-
Consentini Opera, cit., pp. 207-220. Sull‟interesse di Antonio per la letteratura oraziana, si
ricordano anche le annotazioni aggiunte a quelle di Erasmo, Manuzio, Parrasio, Poliziano,
Perotti ecc. (Q. HORATII FLACCI, Omnia poemata cum ratione carminium, Venetiis, per Ven-
turinum Roffinellum, 1540 (ried. 1544, 1546, 1549, 1553, 1559, ecc.).
9 Si veda infra, Appendice I.
10 Altre figure correlate dell‟ambiente romano sono Vittoria Colonna (1490–1547), a
Roma nel 1520 e nel 1527; Tommaso De Vio (Cajetanus), a Roma nel 1524 e nel 1527;
Agostino Nifo, titolare della cattedra di Filosofia presso lo Studium dal 1515 al 1519; Mat-
teo Giberti, datario papale già sotto Leone X (anche se negli anni 1522–1527 si trova a Ro-
ma solo per brevi periodi). Il sopracitato Giovio fu titolare della cattedra di Filosofia mora-
le, nel 1514–1519, e poi ancora nel 1523–1527 e nel 1540–1549. È utile ricordare che la
cerchia di Vittoria Colonna era in contatto anche col Giovio.
11 Cf. in questo Bollettino, 23 (2007), pp. 433-434, n. 46.
12 Cf. G.P. D‟AQUINO, Oratione in morte di Bernardino Telesio Philosopho Eccellentissimo agli
Academici Cosentini, in Cosenza, per Leonardo Angrisano, 1596; J.-A. THOU, Historiarum sui
temporis ab anno domini 1543 usque ad annum 1607 libris CCCXXXVIII descriptarum continuatio, sive
Thomus quartus, Francofurti, typis Wolfgangi Hofmanni, 1628, p. 265: «Octobri ineunte Co-
sentiae, quae illi patria erat, in Calabria ultimum diem clausit Bernardinus Telesius, qui Anto-
nium patruum habuit philosophicis studiis celeberrimum, ab eoque Mediolani institutus».
490 Emilio Sergio
13 S. SPIRITI, Memorie degli scrittori cosentini, Neapoli, De‟ Muzii, 1750, p. 83.
14 F. DANIELE, Antonii Thylesii Consentini Vita, in ANTONII THYLESII CONSENTINI Opera,
cit., p. XI (anche in ANTONII THYLESII CONSENTINI Carmina et Epistolae, Neapoli, ex Typo-
graphia Regia, 1808, pp. XVII–XVIII).
15 Di Giovanni Antonio Cesario non si hanno più notizie dopo l‟ultimo carteggio con
Parrasio. Suo figlio, Giovan Paolo (detto Giano, 1511–1570), intraprese subito la carriera
di insegnante di lettere. Già intorno al 1530, a Napoli, è insignito del titolo di “publici
doctoris munus”. Amico di Giano Anisio, frequentò per un certo periodo l‟Accademia Co-
sentina nella seconda fase, a Napoli. In seguito insegnò a Roma (1545–1570), tenendo let-
ture di Orazio, Cicerone, Platone. Pubblicò Varia poemata et orationes (Venetiis, 1562);
Orationum et poematum liber secundus (Romae, 1565); Commentarii Iohannis Caesarii Consentini
in triginta duos Horatii Flacci Odas (Romae, 1565). Cf. G. CIANFLONE, “Nella scia del Par-
rasio: i due Cesario”, Archivio Storico per le Province Napoletane 80 (1961), pp. 255-267; M.
VIGILANTE, “Cesario, Giovanni Paolo”, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana (d‟ora in poi DBI), vol. 24 (1980), pp. 211-212.
16 Non è possibile stabilire con esattezza quando i fratelli Martirano lascino Cosenza
per trasferirsi a Roma. Tuttavia, la loro assenza dalla municipalità cosentina, almeno per
una parte degli anni 1520, è una ulteriore prova del declino dell‟Accademia.
17 Ancora più scarse e frammentarie sono le notizie di una presunta attività dell‟accade-
mia negli anni successivi alla morte di Parrasio. A confermare l‟ipotesi di una non facile ripre-
sa degli studia humanitatis a Cosenza c‟è la decisione, da parte di Parrasio, di lasciare la sua
biblioteca di testi e di codici antichi all‟amico Antonio Seripando, fratello del cardinal Gero-
Parrasio in Calabria 491
A supporto dell‟ipotesi che negli anni 1520 la vita culturale cosentina non
registri una straordinaria attività culturale, interviene anche un clamoroso
errore di periodizzazione, perpetuatosi in diverse raccolte biografiche, e
giunto fatalmente fino al celebre studio di Fiorentino. L‟errore consiste nello
spostamento della data di morte di Parrasio al 1534. Tale spostamento ha
avuto come effetto quello di derogare la direzione parrasiana dell‟Accademia
sino a quell‟anno. In questa prospettiva, l‟Accademia non subirebbe interru-
zioni o cesure nel 1521, ma proseguirebbe indisturbata fino al 1534. L‟assen-
za di notizie sulla biografia parrasiana dal 1522 al 1534 ha lasciato intendere
che dopo il suo ritorno a Cosenza, Parrasio continuasse ad esercitare la sua
influenza in città e nell‟Accademia. È evidente che tale errore non ha facili-
tato il lavoro di quegli studiosi che, nel corso del Novecento, si sono ci-
mentati nell‟impresa di ripercorrere le tappe fondamentali dell‟Accademia
Cosentina. Che tale svista ricorresse in un‟autorità come Fiorentino ha re-
so più difficile il riconoscimento di una eventuale cesura delle attività del-
l‟Accademia dopo il 1521. Del resto, coloro che, come la Tristano, hanno
corretto l‟errore retrodatando la morte di Parrasio al 1521, non hanno
avuto nei confronti della storia dell‟Accademia un interesse tale da consen-
tire di soffermarsi sulle conseguenze di quella retrodatazione.
In uno degli studi più recenti sulle origini e sulla natura dell‟Accademia
Cosentina – l‟unico, a mia memoria, che non abbia pedissequamente ripe-
tuto le notizie dei grandi inventari bio–bibliografici e dei primi studi sul-
l‟argomento18 –, un piccolo libretto dal titolo Lineamenti di storia della cultu-
ra calabrese. Ipotesi su un frammento: l’Accademia Parrasiana, l‟autore, Tobia
Cornacchioli, tenta di fare il punto sulla spinosa questione della storia del-
l‟Accademia a partire dagli studi compiuti, agli inizi del Novecento, da Lo
Parco e da Bartelli19. Con il primo, Cornacchioli conviene circa il fatto che
lamo. Alla morte di Seripando, la collezione di testi fu custodita nella biblioteca del convento
di S. Giovanni a Carbonara, a Napoli, e successivamente, con la costituzione della Biblioteca
Borbonica (1799), essa divenne patrimonio dell‟attuale Biblioteca Nazionale di Napoli. Il tra-
sferimento della biblioteca parrasiana a Napoli rese indubbiamente più arduo che qualcuno
dei primi allievi o membri dell‟Accademia potesse continuare l‟attività del maestro, venendo
a mancare lo strumento indispensabile di una scuola di greco e di latino: ossia i libri. Cf. CA-
TERINA TRISTANO, La biblioteca di un umanista calabrese: Aulo Giano Parrasio, Manziana, Vec-
chiarelli, 1989; E. SERGIO, “Telesio e il suo tempo. Alcune considerazioni preliminari”, e C.
FANELLI, “Studia humanitatis e teatro prima di Telesio, tra Cosenza e l‟Europa”, in corso di
stampa sul fasc. 16/1 (2010) di Bruniana & Campanelliana.
18 S. SPIRITI, op. cit.; D. ANDREOTTI, Storia dei Cosentini (1869), 3 voll., a cura di S. Di
Bella, Cosenza, Pellegrini, 1978; F. FIORENTINO, op. cit.; PIETRO DE SETA, L’Accademia Co-
sentina, Cosenza, Casa del Libro di G. Brenner, 1965.
19 T. CORNACCHIOLI, Lineamenti di storia della cultura calabrese. Ipotesi su un frammento:
492 Emilio Sergio
«la data esatta della fondazione dell‟istituto umanistico» vada collocata «in un
periodo di circa nove mesi che va dall‟agosto 1511 all‟aprile 1512»20. Nei
confronti di Bartelli, lo studioso esprime un giudizio più severo, respingen-
do la tesi che «per molti anni [l‟Accademia] seguì l‟indirizzo primitivo, non
discostandosi dalle orme del grande umanista»21. Così facendo, egli tende a
relativizzare la figura di Parrasio sulla scorta di un‟ipotesi che accentua an-
zichè diminuire le continuità storiche: afferma infatti che «il collettivo uma-
nistico delle origini [...] deve essere considerato più che un corpo accade-
mico, come un movimento umanistico che si esprime in un lasso di tempo
più lungo di quanto sinora si fosse supposto, assumendo forme [...] che ri-
mangono fluide ed hanno il compito di attuare uno scambio culturale fra
generazioni»22. Facendo risalire le origini dell‟Accademia ad un movimento
umanistico ancora più tardo, in cui la figura di Parrasio tende quasi a svani-
re, mentre riemergono i nomi di Tideo Acciarino Piceno e di Giovanni Cras-
so Pedacio (che di Parrasio furono maestri), Cornacchioli compie un er-
rore di valutazione, poiché sembra ignorare quali siano gli effetti di una di-
latazione eccessiva dell‟arco temporale, che finisce col dissolvere ogni indi-
vidualità; e tuttavia finisce col consegnarci alcuni spunti di rilievo, utili per
la formulazione della nostra ipotesi di lavoro. Il primo riguarda una rifles-
sione sulla testimonianza lasciata da Leandro Alberti nella sua Descrittione di
tutta Italia, circa il suo soggiorno a Cosenza, risalente al 1526: l‟Alberti in
quell‟occasione stringe rapporti con il padre dei fratelli Martirano, Giovan
Battista, il quale gli parla del Parrasio, di Pietro Paolo Parisio, di Giovanni
Crasso, di Antonio Telesio, di Carlo Giardino e «di assai altri huomini nati
in questa città che gli hanno dato fama colle sue eccellenti virtù»: ma non
una parola sull‟Accademia Parrasiana, sulla sua esistenza e operatività nel
plesso cosentino. «Come mai questa dimenticanza, questo lapsus memoriae?»,
si chiede Cornacchioli – «e, si trattò effettivamente di una dimenticanza? O
forse le cose circa i primi anni di esistenza dell‟Accademia Cosentina si
svolgono in modo diverso da come ci hanno tramandato gli storici?»23.
Cornacchioli dà risposta a tali quesiti attraverso un approccio che, impro-
priamente, potremmo chiamare di «lunga durata»24, dissolvendo la que-
l’Accademia Parrasiana, Cosenza, Pellegrini, 1982 (d‟ora in poi „Ipotesi‟). Cf. F. LO PARCO,
Aulo Giano Parrasio. Studio biografico–critico, Vasto, Anelli, 1899; F. BARTELLI, Note biografi-
che – Bernardino Telesio e Galeazzo di Tarsia, Cosenza, A. Trippa, 1906.
20 Ivi, p. 10. Seguendo Lo Parco, Cornacchioli fa risalire la morte di Parrasio al 1522.
21 Ivi, p. 12.
22 Ivi, p. 26.
23 Ivi, p. 10. Vedi infra, nota 38.
24 La nozione di «longue durée» risale, com‟è noto, allo storico francese Fernand Brau-
variarumque aliarum rerum descriptiones fortasse non inutiles, Neapoli, J. Sultzbach, 1536. At-
traverso gli scritti di Casopero, si desume che Salerno tenne delle lezioni di greco e di lati-
no a Rovito, uno dei casali cosentini. Cf. GREGORIO CIANFLONE, Giano Teseo Casopero, poeta
latino del XVI secolo, e gli umanisti calabresi e veneti, Napoli, Conte, 19552, p. 26.
29 S. SPIRITI, “Brieve Contezza intorno all‟Accademia Cosentina”, in Memorie degli Scrit-
tori Cosentini, cit., pp. 7-13. Si tenga conto che, avendo datato la morte di Parrasio al 1534,
è presumibile che lo Spiriti abbia supposto che la vice–presidenza di Tiberio duri non oltre
la data di rientro del Parrasio a Cosenza; mentre non è escluso che, dopo la scomparsa del
grande umanista (fine novembre–inizi dicembre 1521), la scuola continui per un certo tem-
po sotto la presidenza di Tiberio. Su questo punto, l‟unico dato certo è che l‟accademia
non registri un‟attività tale da dover essere ricordata dai suoi allievi e dai suoi stessi mento-
ri; un dato negativo desumibile, come già ebbe a dire T. CORNACCHIOLI (op. cit., pp. 8-
10), dalle memorie cosentine della Descrittione di Alberti, risalenti al 1526.
30 I rapporti fra Parrasio e Cesario si interrompono dopo l‟ultimo scambio epistolare,
avvenuto nel 1519 circa. Cf. L. GUALDO ROSA, “Un decennio avventuroso nella biografia
del Parrasio (1509–1519): alcune precisazioni e qualche interrogativo”, in Parrhasiana III, a
cura di G. Abbamonte, L. Gualdo Rosa, L. Munzi, Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligra-
fici Internazionali, 2005, pp. 25-36.
31 Questo dato è ricavabile dal primo libro delle Sylvulae, dedicato, per l‟appunto, a
Gaspare Siscari.
32 Negli unici due studi dedicati, nel corso del Novecento, all‟umanista cosentino
(MATTEO MAZZONELLO, Niccolò Salerno. Poeta latino del’Accademia Parrasiana, Napoli, Tipo-
grafia Domenico di Gennaro, 1919; e ANTONIO ALTAMURA, “Per la storia della Parrasiana.
Parrasio in Calabria 495
riodo considerato, egli abbia continuato a costituire un trait d’union tra l‟ari-
stocrazia cosentina e l‟influenza del magistero parrasiano.
Sulla biografia di Salerno si è detto pochissimo, a causa della scarsità
delle fonti; eppure di questo autore disponiamo di una testimonianza d‟ec-
cezione, consistente nelle Sylvulae. La data di edizione, 1536, non ci aiuta
molto nella ricostruzione di una cronologia degli eventi, e tuttavia l‟opera
resta di grande importanza per la conoscenza di quella trama di rapporti
che il letterato calabrese ebbe o intrattenne con molte figure di rilievo del
Viceregno e dell‟Italia del suo tempo33.
Delle Sylvulae vanno ricordati innanzitutto i nomi di alcuni destinatari
dei carmi: Bernardino Martirano, Giambattista Inglisio, Antonio Telesio,
Bernardino e Francesco Ferrario, Leonardo Schipano, Giano Teseo Caso-
pero, Annibal Caro, Marco Antonio Colonna, il marchese Alfonso d‟Avalos
del Vasto; a cui si aggiungono i nomi di Parrasio (soggetto di un epicedio fu-
nebre) e dei membri della famiglia Siscari (Antonino, Gaspare e Alfonso).
Del Parrasio, Salerno ricorda la fama e la gloria che gli fecero meritare un
posto fra le ombre dei poeti latini, dei quali era stato il migliore interprete.
Forte è il rammarico del poeta per la perdita di un così grande umanista:
At tu seu Elysias oras, silvasque virenteis / Gramineunque solum & vernantes
lumine campos, / Aethereo, levis umbra colis, mistusque canoris / Vatibus
incedis, quorum monimenta peritus / Interpres, cunctis patefacta legenda lati-
nis. / Pervigili studio dederas, duroque labore34.
L‟umanista Niccolò Salerno”, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 22 (1953), pp. 31-
38), si scontrano due opposte tesi: secondo la prima, il ruolo di precettore affidato a Saler-
no dalla famiglia Siscari porta a concludere che Salerno non si sia mai allontanato da Cosen-
za; secondo Altamura, invece, Salerno avrebbe insegnato eloquenza anche a Roma, Pavia e
Napoli, come risulta da un passo autobiografico contenuto nell‟epistola a Francesco Ferrario
(Sylvulae, lib. VI, pp. 106-108). Una traccia analoga si trova nelle Sylvae (1535) di Casopero
(v. infra, nota 54). Da parte mia, sono disposto a concedere che Salerno non si mosse da Co-
senza almeno fino agli anni dell‟educazione di Casopero (1509-1537?), cioè, come ricorda
Paolo da Montalto (PAULUM A MONTEALTO SCYLLICAEUM, Jani Thesei Casoperi Psychronaei
Vita, Venetiis, De Vitalibus, 1535, f. [1]), dal 1521 al 1525 circa.
33 Delle Sylvulae ho utilizzato la riproduz. fotostatica dell‟esemplare conservato presso
sensibilità verso le bellezze naturali della sua terra: un intenso, lungo car-
me (il secondo del decimo libro delle Sylvulae) è dedicato alla descrizione
delle risorse naturali, della ricchezza del paesaggio e della varietà di piante
ed animali presenti nell‟altipiano della Sila. Qui, come ha efficacemente
detto Mazzonello, «l‟umanista si spoglia della pesante veste mitologica»,
presente nei primi carmi, per assumere le vesti di cantore della natura35.
Quel che colpisce del De Syla Brutiorum è soprattutto la precisione filologica
con cui Salerno cita le varietà della flora silana. Sotto questo profilo, le Syl-
vulae sono una testimonianza importante del rapporto esistente fra poesia
latina e terminologia scientifica.
L‟opera di Salerno presenta anche un inedito taglio filosofico, che non
può essere a lungo rimasto ignoto ai Telesio: sia pure carico di un apparato
mitologico, il primo libro tratta dell‟origine del mondo, evocando la poesia
di Ovidio e alcuni loci del poema lucreziano. Sulle opinioni di alcuni filosofi è
l‟ultimo carme del libro nono; e il primo carme del secondo libro, dedicato
a Bernardino Martirano, è diretto contro l‟astrologia giudiziaria, un tema sul
quale il poeta ritorna nel terzo carme del quinto libro36. Questo interesse
negativo per l‟astrologia fa supporre che Salerno avesse in mente un preciso
bersaglio polemico; e, se guardiamo più da presso il milieu cosentino, un au-
tore emerge fra tutti – l‟unico, a mia conoscenza, che possa avere suscitato
l‟acredine del poeta, e cioè Tiberio di Tarsia: un intellettuale che, oltre ad
aver ereditato da Parrasio il ruolo di vice–presidente dell‟Accademia (una
carica che potrebbe essergli stata confermata dopo il 1520), nutriva, stando
alle memorie dello Spiriti, un interesse preciso nei confronti dell‟astrologia
giudiziaria37.
Purtroppo nulla ci resta della produzione di Tiberio, eccetto la memo-
ria dello Spiriti. La presenza di testimonianze scritte avrebbe reso senza
dubbio più semplice la ricostruzione dei rapporti esistenti fra il Salerno e
gli intellettuali vicini all‟ambiente dell‟Accademia. Certo, nei carmi come
nei poemetti storici emerge con evidenza il ritratto di un intellettuale pie-
namente integrato nella società dei dotti e letterati del suo tempo; forse
non si spostò dalla sua Cosenza che per pochi anni, ma di fatto i suoi rap-
porti furono intensi: lo dimostra il fatto di conoscere quasi tutti quegli
35 M. MAZZONELLO, op. cit., p. 23. Cf. N. SALERNI COSENTINI, Sylvulae, lib. X, „De Syla
Brutiorum‟, pp. 199-206. Su temi analoghi sono i tre carmi del libro quinto (ivi, pp. 91-
108). Ad Antonio Telesio dedica invece il quarto carme del terzo libro (pp. 61-62).
36 N. SALERNI COSENTINI, Sylvulae, lib. IX, pp. 187–190; lib. II, pp. 27–31; lib. V, pp.
104–108.
37 S. SPIRITI, Memorie degli scrittori cosentini, cit., p. 76.
Parrasio in Calabria 497
38 L. ALBERTI, Descrittione di tutta Italia, Venezia, appresso Paolo Ugolino, 1546, f. 207r:
«assai sono obligato a tanto huomo [Giovambattista Martorano] per l‟umanità da lui a me di-
mostrata, et anche aiutandomi a conoscere gli antichi luoghi di questa Regione, ritrovandomi
quivi nel 1526». Giova notare che l‟Alberti usa il verbo al passato per ricordare i cosentini più
illustri: «[Cosenza] ha prodotto molti nobili ingegni», e cioè «Pietro Paolo Parasio», che fu fat-
to «auditore della Camera Apostolica da Paolo terzo Papa et [...] passò [...] in Roma all‟altra
vita nel 1545»; «Giovan Paolo Parasio, ornato di lettere Grece et Latine [...] Antonio Tilesio,
Antonio, et Niccolò Giardini, tutti tre ben dotti nelle lettere Grece et latine» (ibid., c.m.).
Probabilmente, oltre che dalle Sylvulae di Salerno, l‟errata datazione della morte di Parrasio è
derivata da un‟errata interpretazione della memoria dell‟Alberti.
39 Cf. C. FANELLI, “Studia humanitatis e teatro prima di Telesio, tra Cosenza e l‟Europa”,
cit., pp. 125-137; ID., “Coriolano Martirano e l‟umanesimo pre–telesiano”, in Telesius re-
divivus. Bernardino Telesio, tra naturalismo rinascimentale e scienza moderna, a cura di C. Fanel-
li, S. Plastina, E. Sergio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, in preparazione.
40 Su quest‟ultimo autore, cf. il mio “Due protagonisti dell‟umanesimo pre–telesiano:
Niccolò Salerno e Francesco Franchini”, in Calabria Italia Europa. Immagini della cultura del
Rinascimento, a cura di R. Calcaterra e G. Ernst, Milano, F. Angeli, 2010, in preparazione.
498 Emilio Sergio
41 Le vicende del Sacco di Roma sono evocate nel primo carme (De atrocissima Romanae
urbis direptione) del libro X delle Sylvulae.
42 Sulle imprese di Carlo V, sempre utile è lo studio di GIUSEPPE DE LEVA, Storia docu-
mentata di Carlo V, in correlazione all’Italia, vol. 2, Dalla elezione di Carlo all’impero sino alla
sua incoronazione a Bologna, vol. 3, Dalla dieta di Augusta del 1530 insino alla pace di Crespy
1544, Venezia, P. Naratovich, 1864, 1867; ma cf. anche GREGORIO ROSSO, Historia delle
cose di Napoli, sotto l’impero di Carlo V. Cominciando dall’anno 1526, per insino all’anno 1537.
Scritta per modo di Giornali, Napoli, Giovanni Domenico Montanaro, 1635; e FRANCISCI
FRANCHINI, Poemata, Romae, apud Joh. Honorium, 1554.
43 L‟episodio è ricostruito con dovizia di particolari da DOMENICO ZANGARI, L’entrata
solenne di Carlo V a Cosenza. Con due tavole di fac–simili della relazione anonima, Napoli, Ga-
spare Casella, 1940 (rist. Cosenza, Orizzonti meridionali, 2009). Cf. anche M. BORRETTI,
Il viaggio di Carlo V in Calabria (1535), Messina, Grafiche “La Sicilia”, 1939.
Parrasio in Calabria 499
44 Beninteso, lo scenario dei circoli culturali a Napoli si presenta molto più variegato e
complesso. Ad esempio, la dimora di Ischia di Vittoria Colonna fu, sia pure per brevi pe-
riodi, il ritrovo di molti letterati, tra cui ricordiamo Mario Equicola (c.1470 –1525); e la
stessa Colonna frequentò a Napoli il circolo del Valdés. Sul tema, cf. CARLO DE FREDE, I
lettori di umanità nello studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli, L‟Arte Tipografica,
1960; e PASQUALE ALBERTO DE LISIO, Gli anni della svolta. Tradizione umanistica e Viceregno
nel primo Cinquecento napoletano, Napoli, Società Editrice Salernitana, 1976.
45 G.T. Casopero ad A. Telesio (da Psychron, l‟odierna Cirò), nonis Ianuarii 1533, in
JANI THESEI CASOPERI PSYCHRONAEI, Epistularum libri Duo, Venetiis, Bernardinus De Vita-
libus, 1535, f. 30v, ried. in ANTONII THYLESII CONSENTINI Carmina et Epistolae, cit., p. 58
(v. infra, Appendice III).
500 Emilio Sergio
46 Cf. TOBIA R. TOSCANO, Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà
tonio Terminio (Vinegia, appresso Gabriel Giolito de‟ Ferrari, 1564, 15722), st. LXVI-LXIX
(ried. Il pianto d’Aretusa, a cura di T.R. Toscano, Napoli, 1993, pp. 74-79; un‟edizione di
minor pregio, a cura di P. Crupi, comprendente il poema Polifemo, è stata pubblicata per i
tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002); C. MARTIRANO, Epistolae familiares (Neapoli,
[Simonetta], 1556), VII, XXIV, XXVI, XLII; G. ANISIO, Varia Poemata et Satyrae, Neapoli, per
Ioannem Sultzbacchium, 1531; L. TANSILLO, Il Canzoniere, edito ed inedito. Secondo una copia
dell’autografo ed altri manoscritti e stampe, 2 voll., a cura di E. Pèrcopo, T.R. Toscano, Na-
poli, Liguori, 1996, II, pp. 178-181; B. ROTA, Carmina, Neapoli, apud Iosephum Cacchium,
Parrasio in Calabria 501
zione del „Ninfeo‟, ossia del luogo in cui i Martirano amavano ricevere i
loro ospiti e clientes. Come narra Pometti, ricordando la Descrittione del
Mormile,
nel mezzo della magnifica sala, s‟apriva una fonte, da dove zampillavano sottili
intrecci di acqua della sorgente; in mezzo alla fonte, su d‟un letto di conchiglie, sta
coricata una bellissima Aretusa di marmo ignuda [...]. Accanto alla statua, un
epigramma sculto nel marmo, narrava l‟amorosa istoria di Aretusa48.
1572, p. 34; G. MORMILE, Descrittione della città di Napoli e del suo amenissimo distretto, Napoli,
Tarquinio Longo per Pietro Antonio Sofia, 1617, poi Napoli, Gio. Francesco Paci, 1670, p. 71.
48 Ibid. Sul tema, cf. FRANCESCO POMETTI, “I Martirano”, Memoria della Reale Accademia
dei Lincei 293 (1896), pp. 58-187, qui p. 91; BARBARA AGOSTI, Elementi di letteratura arti-
stica calabrese del XVI secolo, Brescia, L‟obliquo, 2001, pp. 19-23.
49 Nell‟Aretusa, Bernardino evoca le quattro grandi figure che decoravano l‟ingresso del
Ninfeo: «L‟una col mondo in man guarda le stelle / E disprezza le cose inferiori: / L‟altra
al vento contrasta e alle procelle, / Tutta modesta, e il capo ha pien di fiori: / La terza
quel che è suo dona a ciascuno, / La quarta è armata, e il viso ha fiero e bruno» (st. LXIX).
50 A. JANI PARRHASII COSENTINI, In Q. Horatii Flacci artem poeticam commentaria luculentis-
sima, cura et studio Bernardini Martyrani in lucem asserta, Neapoli, Joannis Sultzbachii, 1531.
51 Cf. B. MARTIRANO, Il pianto d’Aretusa, cit., a.i.
502 Emilio Sergio
52 G.P. CIMINIO (ed.), Institutionum grammaticarum libri quinque a Jano Parrhasio olim inventi
ac nunc primum a J. Pierio Cymmino Jani auditore in gratiam adulescentium Consentinorum editi, Nea-
poli, ex officina J. Sultzbachii Hagenovensis Germani, 1532. Nell‟Epistola dedicatoria a Co-
riolano Martirano, leggiamo un passo che ricorda la statura intellettuale di Antonio Telesio e
la giovane età di Bernardino, chiamato per l‟occasione «Thylesinus»: «eruditissimus vir Anto-
nius Thylesius noster, qui ante cineres aeternitatis nomen est assecutus, nec non Bernardinus
Thylesinus ita pangento carmini ac orationi salutae promptus, ut Thylesii patrum alumnus
merito videatur».
53 A.J. PARRHASII, L. SCHIPANI, P. CICADAE CONSENTINORUM, Elegiae et alia Poëmata,
libri duo, eiusdem Elegiarum et Epigrammaton libri quattuor impressit (Venetiis, De Vitalibus,
1535, mense augusto; nel carme del f. 66r Casopero fa riferimento alla presenza di Salerno
a Roma, Napoli e Pavia); PAULUM A MONTEALTO SCYLLICAEUM, Jani Thesei Casoperi Psychro-
naei Vita (1535), cit. Di Casopero resta anche un‟orazione pronunciata in occasione del con-
seguimento, a Padova, del titolo di dottore in legge (Oratio Habita in Celeberrimo Collegio Pata-
vino Post examen in Pontificio et Caesareo Jure Vigesima luce Julii, Venetiis, De Vitalibus, 1537).
55 C. MARTIRANO, Epistolae familiars, cit. Secondo F. POMETTI (op. cit., p. 58), almeno
metà delle epistole risalgono al periodo trascorso tra Napoli e Roma, dal 1530 al 1545. Per
una ricostruzione cronologica delle lettere, cf. le osservazioni di ANTONIO PAGANO (Antonio
Telesio, Nicotera, Istituto Editoriale Calabrese, 19352, a.i.) e quelle, più recenti, di C. FANEL-
LI, “Studia humanitatis e teatro prima di Telesio, tra Cosenza e l‟Europa”, cit., pp. 125-137.
56 NICOLAI SALERNI COSENTINI, op. cit. L‟opera contiene anche quattro epigrammi in
lode del Salerno, composti da Giovan Battista Inglisio, Leonardo Schipano, Giovan Paolo
Cesario e Fabrizio Luna.
Parrasio in Calabria 503
57 A. THYLESII CONSENTINI Opera, cit., pp. 110-112 (v. infra, Appendice II).
58 A. THYLESII CONSENTINI Carmina et Epistulae, cit., pp. 55-58 (v. infra, Appendice III).
Nel 1540 uscivano i commenti parrasiani e telesiani ai carmi oraziani (v. supra, nota 8).
59 A. THYLESII CONSENTINI Carmina et epistolae, cit., pp. 40-45 (v. infra, Appendice IV).
504 Emilio Sergio
tonio non fa cenno alla presenza del nipote in questo viaggio: e tuttavia è
plausibile che, dopo un‟assenza di circa tredici anni, lo stesso Bernardino,
ormai ventenne, volesse fare ritorno in patria insieme allo zio. A ciò si ag-
giunge un particolare di minore importanza, ma rilevante ai fini della bio-
grafia telesiana: nel 1531 si spegneva a Cosenza il padre di Bernardino, quel
Giovan Battista Telesio che circa vent‟anni prima aveva affidato il suo pri-
mogenito alle cure dello zio Antonio. Sulle circostanze della sua morte non
si hanno notizie, ma non è escluso che già nell‟autunno del 1529 le condi-
zioni di salute del nobile cosentino si fossero aggravate.
Il 1529 è una data cruciale, e le circostanze anteriori al rientro dei Tele-
sio in Calabria meritano di essere velocemente ricordate. Esse rimontano
agli ultimi mesi della loro permanenza a Roma, nella primavera del 1527.
Quell‟anno fu una data funesta per lo Studium urbis: Roma fu presa d‟as-
salto e saccheggiata dalle truppe di Carlo V. Trattandosi di una vicenda cru-
ciale della storia europea, connessa in modo significativo alla biografia tele-
siana, ci permettiamo di ricordarne i punti salienti.
La prima fase del conflitto franco–spagnolo si risolse, come si è detto, in
favore di Carlo V, con la vittoria di Pavia (feb. 1525). In quella occasione,
Francesco I fu fatto prigioniero, restando per un anno nelle mani degli Spa-
gnoli, a Madrid. Nel 1526 Carlo V concesse la libertà al monarca francese, in
cambio della rinunzia ai suoi domini in Italia. Francesco I accettò, ma, una
volta libero, ripudiò il trattato, reclamandone la invalidità, essendogli stato
imposto nella condizione di prigioniero. La guerra si riaccese, e questa volta
Carlo V ebbe come avversarie anche la maggior parte delle repubbliche ita-
liane, alleate di Francesco I, a cui si era legato nel frattempo anche Clemente
VII. Quest‟ultimo, patrono di Antonio Telesio (del quale, come si è detto,
promosse con favore la pubblicazione dei Poemata), nel 1523 aveva avuto il
sostegno di Carlo V per raggiungere il soglio pontificio. Ragioni di opportu-
nità politica lo avevano poi spinto ad allearsi con Francesco I. Gli stati italiani
reclamavano allora una maggiore indipendenza dal giogo spagnolo, e France-
sco I fu abile stratega nell‟intercettarne gli umori.
Il secondo conflitto si aprì con alcuni successi della lega franco–italica,
ma nel 1527 la situazione cambiò repentinamente: a Roma fu suscitata una
insurrezione da Pompeo Colonna, mentre dalla Germania calarono in Italia
le milizie mercenarie guidate da Georg Frundsberg. I Tedeschi si unirono
alle truppe spagnole e italiane guidate dal duca di Borbone, e nel maggio
dello stesso anno piombarono su Roma, che fu in breve saccheggiata60.
60 Cf. KENNETH GOUWENS, Remembering the Renaissance. Humanist Narratives of the Sack of
Parrasio in Calabria 505
Rome, Leiden, Brill, 1998; ID., SHERYL E. REISS (eds.), The Pontificate of Clement VII. History,
Politics, Culture, Aldershot, Ashgate, 2005. Per una ricostruzione degli eventi, cf. anche G.
DE LEVA, op. cit. Per un quadro più esauriente sulle condizioni dello Studium durante il pon-
tificato di Leone X e di Clemente VII, cf. EMANUELE CONTE (ed.), I maestri della Sapienza di
Roma dal 1514 al 1787: i rotuli e altre fonti, 2 voll., Roma, Istituto storico italiano per il Medio
Evo, 1991; PAOLO CHERUBINI (ed.), Roma e lo Studium Urbis: spazio urbano e cultura dal
Quattro al Seicento, 2 voll., Roma, Quasar, 1989, Ministero per i Beni culturali e ambientali,
Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1992; LIDIA CAPO, MARIA ROSA DE SIMONE (eds.),
Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza”, Roma, Viella, 2000.
61 L‟episodio è ricostruito con dovizia di particolari da LUIGI DE FRANCO, Introduzione a
nell‟Elogium virorum illustrium (Basileae, Petri Pernae, 1577, p. 204) descrive la fuga di An-
tonio con l‟espressione «effugit cladem» (i.e. sfuggì alla strage). Insieme a F. BARTELLI (op.
cit., pp. 19-21), A. PAGANO (op. cit., pp. 15-17) ritiene che Antonio riuscì a sfuggire alla
furia delle milizie del Frundsberg, non essendo riuscito né a riparare in Castel S. Angelo,
né a portare con sé Bernardino, che cadde perciò in mano al nemico. F. DANIELE (op. cit.,
1762, p. XV) e STANISLAO DE CHIARA (“Antonio Telesio. Appunti”, Giornale Napoletano di
Filosofia e Lettere, Scienze morali e politiche 3 (1881) 13, pp. 1-13) interpretano l‟«effugit»
con «scappò», ma questo non cambia, a mio avviso, la sostanza degli eventi.
63 F. DANIELE, op. cit., 1762, p. XV; A. PAGANO, op. cit., p. 17. Quest‟ultimo cita co-
me fonte i Diarii (Venezia, Tip. Visentini, 1897, t. 46) di MARINO SANUDO. Sempre a Ve-
nezia, Antonio pubblicò due opere fondamentali della sua carriera: il De Coloribus (Ve-
netiis, Bernardini Vitalis, mense Iunio 1528) e l‟Imber Aureus (idem, mense Maio 1529).
506 Emilio Sergio
64 ELDA MARTELLOZZO FORIN (ed.), Acta graduum academicorum ab anno 1526 ad annum
1537, Padova, Antenore, 1970 (Istituto per la Storia dell‟Università di Padova). Cf. L. DE
FRANCO, op. cit., pp. 18-22. Le fonti da cui sarebbe nata l‟ipotesi dell‟iscrizione di Bernar-
dino all‟università di Padova e del conseguimento del titolo di dottore sono, nell‟ordine:
GIOVANNI IMPERIALE, Musaeum historicun et physicum Ioannis Imperialis Phil:[osophi] et Med:[ici]
Vicentini, Venetiis, apud Juntas, 1640, p. 79; NICOLAI COMNENI PAPADOPOLI Historia Gym-
nasii Patavini, Venetiis, apud Sebastianum Coleti, 1726, vol. I, p. 248; IO. GEORGII LOT-
TERI De Vita et Philosophia Bernardini Telesii Commentarius, Lipsiae, apud Bernard. Christ.
Breitkopfium, 17332, pp. 11 e 13. Il Papadopoli, da cui trassero notizia il Lotter e la mag-
gior parte dei biografi posteriori (fino a Fiorentino), affermava che Bernardino avesse con-
seguito nel 1535 il titolo di doctor; una notizia che è smentita sia dalla vicenda biografica di
Antonio Telesio (quest‟ultimo, come si è visto, partì da Venezia alla volta di Cosenza nel
1529, ed è impensabile che non portasse con sé Bernardino); sia dalla fattiva presenza di
Bernardino a Napoli, a partire dalla fine del 1531, come risulta da un breve di Clemente
VII a Pirro de Mendoza, vicerè di Calabria, del 6 novembre 1531, in cui Bernardino è rac-
comandato per affari che dovrà volgere a Napoli (F. RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria,
vol. III, Roma, Gesualdi, 1974, doc. 17024, p. 405).
Secondo De Franco, il caso di Bernardino Telesio non può essere associato a quello di
Giovan Battista Amico (1501–1537), l‟astronomo cosentino autore di una celebre rivisi-
tazione della teoria eudosseo–aristotelica delle sfere omocentriche (De motibus corporum coe-
lestium iuxta propria principia peripatetica sine eccentris et epyciclis, edita per la prima volta a
Venezia nel 1536), generalmente ricordato, insieme a Bernardino, come uno degli allievi
di Federico Delfino (1477–1547), lettore di matematiche a Padova dal 1520 al 1540. Be-
ninteso, sullo stesso Amico la documentazione dell‟Università di Padova risulta lacunosa.
De Franco ricorda che la presenza di Amico a Padova in qualità di discepolo di Delfino è
desunta dall‟epistola dedicatoria al cardinale Nicola Ridolfi, contenuta nel De motibus corpo-
rum coelestium, ma non dai registri ufficiali dell‟università. De Franco aggiunge che, a dif-
ferenza di Amico, il quale ricorda nel De motibus il magistero di Delfino, nell‟opera di Ber-
nardino (a partire da uno dei rari brani autobiografici del filosofo, come il Prooemium alla
prima edizione del De natura) non v‟è alcuna menzione né di maestri padovani né di un pe-
riodo di formazione trascorso a Padova. Certo si tratta di un silenzio che non smentisce il
carattere schivo e prudente di Bernardino, che potrebbe anche avere avuto interesse a non
dare eccessivo clamore ai suoi trascorsi nell‟ambiente patavino. Sul rapporto tra Amico e
Delfino, cf. C. BIANCA, “Delfino, Federico”, DBI, vol. 36 (1988), pp. 552-554; MARIO DI
BONO, Giovan Battista Amico e la teoria delle sfere omocentriche, Genova, CNR, 1990.
Sento di dover rendere giustizia ad un biografo di Telesio, VINCENZO M. EGIDI, il quale,
già nel 1964, in un rendiconto dal titolo “Bernardino Telesio e la sua famiglia nei docu-
Parrasio in Calabria 507
menti degli archivi cosentini”, edito negli Atti del 3° Congresso Storico Calabrese (Napoli, Fau-
sto Fiorentino, 1964, pp. 576-581), aveva sollevato il problema della mancanza di prove
documentali circa il soggiorno di Bernardino a Padova.
65 Di tale argomento mi occuperò più estesamente nella terza parte del nostro contri-
buto, sul numero 26 (2010) di questo Bollettino. Mi limito solo a ricordare che dagli Acta
graduum academicorum dell‟Università di Padova risulta che Vincenzo Maggi, il filosofo
aristotelico a cui Bernardino sottopose nel 1563 le bozze del De Natura, conseguiva il titolo
di doctor il 2 dicembre 1528; è dunque probabile, come ammette lo stesso L. DE FRANCO
(op. cit., p. 34), che in quella circostanza «[Maggi] fosse stato lì conosciuto da Telesio, negli
anni della sua permanenza a Venezia assieme allo zio Antonio».
66 C. MARTIRANO, op. cit., epist. XXXIII e XXXIV, ried. in A. THYLESII CONSENTINI Opera,
cit., pp. 235 e 236-237. Le epistole di Coriolano non recano una data: ma è probabile che
siano state composte intorno tra il 1528 e il 1529.
67 Dopo un periodo trascorso nello Studium pisano (1519-1522) e a Salerno (1523-1531),
Nifo tornò a ricoprire un incarico nella città di Napoli, dal 1531 al 1532, negli stessi anni in
cui a Napoli prendeva vita la „seconda fase‟ dell‟Accademia Cosentina. Su Nifo, cf. CHARLES
H. LOHR, “Renaissance Latin Aristotle Commentaries, Authors N-Ph”, Renaissance Quarterly
508 Emilio Sergio
Aspettando il filosofo
Come abbiamo detto, il 1529 segna la data del rientro dei Telesio in Ca-
labria. Durante la sua permanenza a Cosenza, Antonio verrà in contatto epi-
stolare con Casopero e probabilmente conobbe anche il suo maestro, Nicola
Salerno. Non è possibile sapere con certezza quali degli intellettuali cosentini
e calabresi si trovassero in patria nel 1529. Quel che è certo è che Antonio,
dopo aver trascorso almeno un anno a Cosenza, tra la fine di ottobre del
1530 e gli inizi di dicembre del 1531, si trasferiva a Napoli. Il giovane Ber-
nardino – se stiamo all‟ipotesi che quest‟ultimo segua lo zio nel suo peregri-
nare fino all‟anno della sua morte69 – lo raggiunse probabilmente a Napoli,
32 (1979), pp. 532-539; EDWARD P. MAHONEY, Two Aristotelians of the Italian Renaissance: Ni-
coletto Vernia and Agostino Nifo, Aldershot, Ashgate, 2000; ENNIO DE BELLIS, Bibliografia di Ago-
stino Nifo, Firenze, Leo S. Olschki, 2005; GIOVANNI PAPULI, “Il primo insegnamento napole-
tano del Nifo: una monarchia filosofica”, in Studi in onore di Corrado Dollo, a cura di G. Benti-
vegna, S. Burgio, G. Magnano San Lio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 699-732;
nonché CARLO DE FREDE, Docenti di filosofia e medicina nella università di Napoli dal secolo XV al
XVI, Napoli, Litografia editrice “A. De Frede”, 2001, pp. 58-62.
68 Si tenga conto che, come è stato unanimemente rilevato dai più recenti studiosi di
Telesio, l‟aristotelismo da cui Bernardino trasse linfa fu specialmente quello, studiato anche a
Padova, della scuola di Alessandro d‟Afrodisia. Cf. MARTIN MULSOW, Fruhneuzeitliche Selb-
sterhaltung: Telesio und die Naturphilosophie der Renaissance, Tübingen, Niemeyer, 1998; HIRO
HIRAI, “Il calore cosmico di Telesio fra il De generatione animalium di Aristotele e il De carnibus
di Ippocrate”, in Thylesius redivivus, cit., in corso di stampa; GUIDO GIGLIONI, La filosofia
naturale di B. Telesio, in La filosofia del Rinascimento, a cura di G. Ernst, Roma, Carocci, 2003,
pp. 253-265; dello stesso autore cf. il saggio sulla medicina telesiana in uscita sul fasc. 16/1
(2010) di Bruniana & Campanelliana; e la conferenza tenuta il 26 febbraio 2010 presso la Sala
degli Specchi della Provincia di Cosenza, nell‟ambito delle Celebrazioni del V Centenario del-
la nascita di B. Telesio, presiedute da Nuccio Ordine e Roberto Bondì (di quest‟ultimo, si ve-
da la conferenza “Naturalismo e religione in Bernardino Telesio”, tenuta il 10 febbraio nella
stessa sede); infine, di ALESSANDRO OTTAVIANI, oltre all‟apparato bibliografico della recente
edizione del De Natura 1565 (Torino, Aragno, 2006), si veda la conferenza dal titolo “Nel
cantiere di Bernardino Telesio: dal De rerum natura al milieu cosentino”, tenuta il 9 marzo
2010 nella stessa sede (le conferenze sono disponibili sul sito www.telesio.eu).
69 Il teologo GIOVANNI ANTONIO PANTUSA (?-1562), autore di un commento ai primi
12 libri della Metafisica di Aristotele (Quaestiones super XII libros Metaphysicae, Romae, Asca-
Parrasio in Calabria 509
verso la fine del 153170. A Napoli i due rimasero almeno fino alla fine del
1533 o agli inizi del 1534 (Antonio morì, come si è detto, nel 1534, e certa-
mente tornò a Cosenza, con Bernardino al seguito, prima della sua morte).
Proprio in quegli anni, a Napoli, aveva inizio la „seconda fase‟ dell‟Accade-
mia Cosentina.
(continua)
Abstract
The main subject of this essay is to show the intellectual framework where Parrasio‟s
teachings were transmitted. The foundation of the Accademia Cosentina was the first
stage for the dissemination of Parrasio‟s scholarship in Southern Italy. After Parrasio‟s
death, many of the early members of Parrhasian Academy became the authors of a cul-
tural renewal in the various fields of learning. The main sources of this legacy were
rooted in Parrasio‟s scientific Humanism and Antonio Telesio‟s poetical naturalism, of
which both the „treasures‟ of their libraries and the clues of their biographies remain
the best testimony.
relli, 1524; un‟opera che meriterebbe uno studio comparativo con l‟opus telesiano), dà no-
tizia della morte di Antonio nell‟epistola dedicatoria a Pietro Antonio Sanseverino, princi-
pe di Bisignano (Kalendis Junis 1534) del suo Liber De Coena Domini (Romae, Bladum de
Asola, 1534, p. [3]): «E quibus [Consentinis] (ne omnes recenseamus) nostra aetas Parrhasium
in primis est admirata, tum rerum gravitate tum dicendi copia nemini suae aetatis inferio-
rem, & ex oculis nostris nuper ablatum Thylesium, & carmine & oratione insignem ac ne-
mini secundum, & utrumque in utraque lingua praestantem, qui ambo immatura morte in-
tercepti». Cf. F. DANIELE, op. cit., 1762, pp. XXVI-XXVII. Su Pantusa, cf. D.M. CATARZI, “Il
Cosentino G.A. Pantusa, canonista del XVI secolo”, Calabria Nobilissima 21 (1958) 35, pp. 41-58.
70 Le date del possibile trasferimento di Antonio a Napoli si evincono dal carteggio con
Ramberti (Consentiae, XII febr. 1530; Neapoli, XII dec. 1531) e da una epistola ad Andrea
Franciscio [?] (Consentiae, XIII kal. oct. 1530). Ed è intorno al dicembre del 1531 (non pri-
ma, come si è visto, v. supra, nota 64) che si deve far risalire il trasferimento di Bernardino
a Napoli. Cf. anche L. DE FRANCO, op. cit., pp. 22-23.
510 Emilio Sergio
Appendice I
Estratti dal catalogo dei libri pubblicati dal 1521 al 1527
dallo stampatore pontificio Francesco Minizio Calvo*
* Cf. FRANCESCO BARBERI, Le edizioni romane di Francesco Minizio Calvo, in Miscellanea di scritti
di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze, Olschki, 1952, pp. 57-98; IDEM,
Tipografi Romani del Cinquecento: Guillery, Ginnasio Mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, Firenze,
Olschki, 1983; FERNANDA ASCARELLI, Le cinquecentine romane. Censimento delle edizioni romane
del XVI secolo possedute dalle biblioteche di Roma, Milano, Etimar, 1972.
† L‟elenco contiene diverse bolle apostoliche di Clemente VII e della Santa Sede.
Parrasio in Calabria 511
PLUTARCHI CHAERONEI Disceptatio num recte dictum sit làthe biòsas, id est, sic vive, ut
nemo te sentiat vixisse, Romae, ca. 1524
PLUTARCHUS CHAERONEUS De curiositate. Idem de nugacitate. Interprete Ioanne Lau-
rentio Veneto, Romae, 1524 mense Aprili
PLUTARCHI CHAERONENSIS Historici ac philosophi clarissimi Problemata [interprete Wil-
libald Pirckheimer], Romae, 1524 mense Maio
PLUTARCHI CHAERONEI De vitanda usura libellus aureus, interprete Bilibaldo Pirchimerio
patritio Nurenbergensi, Romae, ca. 1525
ANGELI POLITIANI Oratio pro oratoribus Senensium ad Alexandrum sextum pont. max. in
qua de summa pontificis potestate cum eloquenter, tum erudite agitur. Iasonis Mayni iuriscon-
sulti oratio coram eodem Alex. VI pont. max. habita pro obedientia illustriss. ducis Mediolanen-
sium ubi describitur situs Hispaniarum [Romae, non prima del 1521]
ANGELI POLITIANI Praelectio in priora Aristotelis analytica, titulus Lamia, ubi non sine fa-
bellis amoeniss. saluberrimisque, humanae vitae caecos errores, & labyrinthos aperit, lectorem ad
divina sapientiae studia mire instituens, atque acriter impellens, Romae, 1524 mense Aprili
GIOVANNI GIOVIANO PONTANO Contractus venditionis: antiquis Romanorum temporibus
initus, ex membranis mirae vetustatis nunc primum typis chalcographis descriptus [Romae, n.d.]
TROILUS SABINUS Oratio de laudibus scientiarum, habita in templo divi Eustachii, Romae in
festo divi Lucae, Romae, ca. 1526
TROILUS SABINUS Praelectio in P. Virgilii Maronis Georgica, quae laudes complectitur rei
rusticae, Romae, 1526
MARIO SALOMONIO DEGLI ALBERTESCHI Commentarioli in librum primum Pandectarum
iu. civi. in quibus pulcherrimae adnotationes, & inter coetera, Verus & hactenus non perceptus
sensus. l. I. de Iust. & Iure. Tractatus de bono & aequo ab aliis non explicatus ... Tractatus de
voluntario & involuntario ..., Romae, 1525
ACTIJ SYNCERI SANNAZARIJ De partu Virginis. Lamentatio de morte Christi. Piscatoria,
Romae, 1526 mense Decembri
ANTONII THYLESII CONSENTINI Epistola ad Alexandrum Cacciam Florentinum amicum
optimum, suauissimumque de publica omnium laetitia ob Iulii Medicei, nunc Clementis VII, pon-
tificatum maximum felicissimumque, Romae, 1523
ANTONII THYLESII CONSENTINI Poemata. Cyclops. Reticulum. Hortulus. Galatea. Lucerna.
Tibia. Nautarum labor. Parma. Turris de coelo percussa. Aeneas. Nenia de obitu patris, Ro-
mae, 1524 mense Maio
ANTONII THYLESII CONSENTINI De coronis libellus, Romae, mense Februario 1525
ANTONII THYLESII CONSENTINI In odas Horatii Flacci Auspicia ad iuventutem Romanam,
Romae, ca. 1527
MAXIMILIANI TRANSYLVANI Caesaris a secretis Epistola de admirabili & novissima Hispa-
norum in Orientem navigatione, qua varie, & nulli prius accessae regiones inventae sunt, cum
ipsis etiam Moluccis insulis beatissimis, optimo aromatum genere refertis. Inauditi quoque incolar
mares exponuntur, ac multa quae Herodotus, Plinius, Solinus atque alii tradiderunt fabulosa esse
arguunt. Contra, nonnulla ibidem vera, vix tamen credibilis explicant quibuscum historiis insu-
laribus ambitus describit alterius hemisphaerii, unde ad nos tandem Hispani redierunt incolumes,
Romae, 1523 mense Novembri
PYRRHI ZEPHYRII Epistola ad reverendissimum & amplissimum cardinalem Pompeium Co-
lumnam S.R.E. vicecancellarium de Achmato novo sultano [Romae, 1524]
512 Emilio Sergio
Appendice II
Un‟ode di Antonio Telesio in memoria di Aulo Giano Parrasio
(De obitu Auli Jani Parrhasii)*
Appendice III
Un‟epistola di Giano Teseo Casopero ad Antonio Telesio†
Miraris fortasse, mi Thylesi, cur praeter expectationem tuam, atque etiam meam
Neapoli tam subita profectione decesserim, nec tibi saltem nunciaverim. Deos testor,
atque amicitiam nostram, nequaquam fuisse mihi animum discedendi, nisi te salutato,
ut decebat; atque prius tibi consiliis de abitu communicatis. Sed audi. Quum ad Mar-
tyriani aedes, atque ad tuam peculiariter aulam me contulissem, inveni obserata om-
Appendice IV
Una lettera di Antonio Telesio a Benedetto Ramberti¶
Eo a vobis animo discessi, ut brevi, rebus meis compositis, quas sciebam bello fere
eversas, reverterem ante brumam eodem, quo huc pervectus sum, navigio. Sed ventis
usus nunquam non iniquis, quasi profectionem ad meos mihi impedirent, vix tandem
apud Rossanum Calabriae urbem exponor quadragesimo secundo, postquam conscen-
di, die; ubi cum me rebus omnibus paene consumptum aliquot dies curassem, Cosen-
tiam irrepsi una tantum de causa laetus, quod fratres, reliquosque domesticos, quibus
nonnihil metuebam, sospites inveni; cetera totius patriae ita mutata conspexi; ut non
possem graviter non angi, milliesque dolerem, tibi, qui nihil prorsus praetermisisti,
incommoda, laboresque, & pericula amice, ac vere exponens, ut me de sententia dei-
iceres, non fuisse obsecutum. Quamvis non hic tantum poenitet; sed inter navigan-
dum, quod iter sensi semper non incommodissimum modo, sed formidinis, ac terroris
plenissimum; quibus malis cum versarer, quando Rhamberti mei tristis, [41] ac flebilis
imago ob oculos non versabatur! Et quoniam nescio quo modo suaves sunt, ut dicitur,
acti labores, animusque aliqua voluptate afficitur, eos tibi per epistolam explicare, te-
que eundem existimo amicissimi hominis aerumnas, casusque iam praeteritos iucunde
auditurum, breviter accipe, quam fui, dum rebus meis studui consulere, & desideriis,
quae me huc adegerunt, satisfacere, perpessus. Nam cum mecum ipse constituissem
conscendere, coeloque nubilo bene mane de navigio rogassem, quia certum mihi erat,
atque Apollonio iter ingredi, audio, illud iam ante lucem, atque adeo de nocte solu-
tum passis velis multum fuisse progressum; quod ubi praeter expectationem nuncia-
tum est, statim commotus, an discesserit Apollonius, percontor. Id cum aliqui affir-
massent, etsi non possem non turbari, statueram tamen in melius, quod non datum
erat, Venetiis abire, ut aiunt, accipere. Ecce navicula nescio quonam meo fato obiici-
tur, cuius cum mihi dominus polliceretur, antequam advesperasceret, navigium as-
sequi, in eam confestim insilui; atque diu errabundus ad quartam noctis horam per
summam remigum indignationem ac stomachum; unde solus cum [42] essem inter
nautas inhumanissimos, non semel animo cohorrui: quam quaerebam, vix tandem na-
vim applicui; ac coepi, antequam inscendissem, adsum, Apolloni, non semel clamare;
qui cum nullus responderet, ingens repente invasit animum aegritudo, quae me plane
confecisset, nisi postridie sub lucem quasi divinitus adesset ille, cuius conspectus in-
credibile est quantum me prorsus afflictum excitaverit. Enimvero nisi comitem nactus
essem civem meum summa praeditum humanitate, haud praeclare mecum fuisset ac-
tum. Quid quaeris? Unius tantum suavitate leniebatur quodam modo rerum omnium
acerbitas, quia nunquam quicquam pertuli molestius; nam ut hoc primum audias, quod
me perterrefecit, primum, tanta ventorum vis, postera quam Venetiis discessissem
nocte, incubuit, ut nunquam aeque timuerimus quicquam; cuius cum impetus esset ad
lucem remissus, atque etiam sedatus, incerto cursu modo provecti, revecti modo er-
ramus multos dies; duodecimoque apud Parentium iactis anchoris constitimus; qui si-
nus, ut nosti, noctis unius curriculo transmittitur. Verum ut incommoda, taediaque prae-
teream, quae etsi erant perpessu difficillima, iucunda fere [43] videbantur prae formi-
dine, quae ut umbra nos nunquam deseruit; terribilis tamen apud Lycium Apuliae ur-
bem exstitit; ubi parum abfuit, quin tempestate abrepti naufragio afflictaremur. Ora
iam ubique proxima ventis furentibus exitium minari videbatur. Sed ne te diutius mo-
rer, ad ea respondebo, quae cupis intelligere. Ego, mi Rhamberte, si vestra omnium
in me studia, digna quidem non grata tantum memoria, sed quotidiana testificatione,
sic in animo cohoererent, ut possent aliquo tempore abstrahi, prorsus me inhumanum
faterer; verum ea ita penitus recondita, atque infixa reservo, ut mors tantum queat illa
extirpare; atque utinam non evenisset, ut necessitas, quam non est hic scribendi locus,
in patriam me retruderet, facile vobis animum bene memorem, atque etiam gratum,
non sine aliquo iuventutis beneficio, tuoque in primis, cuius in me amorem sensi egre-
gium, omni ex parte comprobassem; quod spero futurum. Ubi enim ea, quorum gra-
tia huc properavi, ita disposuero, ut absens animi non pendeam, ad vos statim recur-
ram; hac vero hyeme, scio, me ad reditum nemo quamvis iniquus adhortaretur, itine-
re praesertim non tutissimo. [44] Quare nisi quid obstiterit, veris diebus accingar.
Quod autem scribis, Decemviros, quorum auctoritas apud me semper fuit, eritque
maximi, de nostro discessu subqueri, quia illis abierim insciis, quod peccatum fuisset
haud leve, quid? oro te, nonne Dedus Scribarum maximus veniam dederat, consultis
ante Decemviris? quo mortuo Andreas Franciscius eius successor factus fuit a me cer-
tior; quamvis vir ille optimus, ac prudentissimus nunquam destitit me de sententia de-
pellere. Theupulus quoque Decemvir, ut tu ipse saepissime detulisti, cum videret, me
ut discederem constituisse, non semel vir humanissimus doluit. Sed quid in singulis com-
memorandis immomor? Nemo vestri ordinis, iuvenis nemo, qui modo litteris esset
516 Emilio Sergio
imbutus, rem nesciebat; praesertim cum adversa tempestate detentus, impositis iam-
pridem in navim scriniolis, multos dies fuissem ad iter accinctus, Venetiis stomachans
quodam modo, cum mecum nonnunquam esses tu, non posse proficisci. Quod si nihil
aliud praeterea me isthuc repelleret, vel hoc unum ad reditum ageret, ut praesens me
purgarem; quamvis querela illa non tam mihi molesta est; praesertim cum facile pos-
sem apud viros aequissimos me excusare, quam suavis, ubi [45] meam ipse cogito,
fidem, industriamque nostram ab illis, quorum doctrina, & prudentia summa est, desi-
derari. Quanti autem ordo ille summus, & reliqui cives tui a me fiant, ex hoc potes in-
telligere; cum enim ventis delatus apud Ragusium menses tres essem, urbemque fama
celebrem inviserem, ac Ragusaei ultimo ducentos aureos solutos in publici magisterii
mercedem quotannis offerrent, summum etiam inter Scribas locum, unde centenos
praeterea accepissem, conditionem pro temporum iniquitate non malignam, ne vos,
quos equidem pro vestris in me meritis usquequaque venerabor, offenderem, statim
repudiavi. Ad extremum, ut finem scribendi faciam, certum est, brevi apud vos esse,
atque una vobiscum tantae urbis magnificentia, & tranquillitate, quamdiu vixero, frui.
Valete interea Thylesii vestri memores. Salutem omnibus, seorsum tamen, & egre-
giam, honorificisque verbis nunciato iis, quibus scis, me plurimum debere, etiam Ma-
rio adolescenti clarissimo, omnibusque Academicis. Haec exaravi, cum adhuc non pla-
ne essem confirmatus, sed languidus de via. Cosentiae XXV. Novembris 1529.
Has, si tibi videtur, solus lege; scriptae sunt enim non diligenter.
Recensioni
I tre testi seguenti sono trascrizioni degli interventi dalla presentazione dell‟ultimo li-
bro di VALENTINA VALENTINI Mondi Corpi Materie. I teatri del secondo Novecento (Milano,
Mondadori, 2007), tenutasi presso l‟Università della Calabria il 29 gennaio 2008. Un
testo che si propone di essere una Filosofia del teatro della contemporaneità ed un archivio
critico delle esperienze delle neoavanguardie artistiche internazionali.
Un testo che oltrepassa costantemente i limiti della sua disciplina, per ricercare
negli altri campi del sapere moderno frammenti di linguaggi, codici e significati nuovi
che ne possano arricchire le sue antiche capacità emotive (e-movere: “muovere da”,
strettamente correlato quindi con il carattere fondamentale della rappresentazione
scenica: l‟azione). La natura non strettamente teatrologica di questo studio si è river-
berata anche in sede di discussione: difatti due dei tre saggi non sono stati elaborati da
studiosi di Storia del teatro o discipline affini. Il primo è di Rossana De Angelis, dot-
toranda in Filosofia della comunicazione e dello spettacolo; il secondo di Cristina Fal-
cone, studentessa della laurea specialistica in Linguaggi dello spettacolo, del cinema e
del video; il terzo di Antonello Romano, studente della laurea specialistica in Lingue e
letterature straniere moderne.
Tre punti di vista differenti, contraddistinti da un particolare background di cono-
scenze, che si propongono di offrire un quadro articolato degli argomenti del testo e
della varietà di spunti critici emersi.
Valentina Valentini affronta in Corpi Mondi Materie una riflessione sul tea-
tro contemporaneo assumendo punti di vista molteplici, proprio come viene
preannunciato dal titolo. Sin dalle prime pagine si comprende, infatti, come
la scena teatrale contemporanea venga ibridata da una molteplicità di lin-
guaggi che il teatro ha fatto propri, e contemporaneamente come il teatro
sia riuscito a trasformare questi stessi linguaggi. Concisione e chiarezza, uni-
te alla ricchezza di esemplificazioni tratte dalla scena teatrale internazionale
degli ultimi decenni, rendono il libro leggibile anche a un lettore non specia-
lizzato in storia del teatro.
Corpi Mondi Materie discute il teatro contemporaneo da più prospettive pa-
rallele: innanzitutto, una riflessione sulla revisione dei miti, con la conseguente
costruzione di mondi sulla scena, in cui il mito viene smembrato e ricomposto
519
520 Recensioni
in una forma nuova che lo fa essere altro rispetto a ciò che era in origine; la
progressiva presa di distanza dal testo letterario e dalla drammaturgia classica, cui
subentra l‟intervento di altri linguaggi artistici, dalle arti visive e plastiche ai
nuovi media; la scomparsa del personaggio come tradizionalmente inteso, che
cede il posto sulla scena al corpo d’artista, diventato esso stesso personaggio.
1. La presa di distanza dal testo letterario, dunque da una drammaturgia
classica, si mette in evidenza nella prima parte del libro proprio attraverso la
revisione dei miti, come sottolineato nel paragrafo “Dal patetico al fisiologico”:
«la drammaturgia dello spettacolo, nella seconda metà del XX secolo, non
riscrive le opere del passato […], per cui è quasi impossibile rilevare, come fa
Genette in Palinsesti, le operazioni di escissione, riassunto, concisione in cui “la
riscrittura si fa caricatura e la parodia iperpastiche”1. Nel teatro del secondo
Novecento si attinge al mito per dissolverlo, nel senso che il presente della
scrittura di scena fagocita il passato del testo classico e quindi elide la relazione
fra un‟opera anteriore (ipotesto) e quella che la imita, la trasforma (iperte-
sto)»2. Gli ipotesti appaiono completamente svuotati del loro significato ori-
ginario, essendo diventati semanticamente indifferenti, dunque completa-
mente altri rispetto all‟origine: reinvenzione formale e tematica, costruzione
di mondi e quindi ri-costruzione di miti, tra il sublime e il grottesco, con
l‟ironica distanza dalla storia e dal linguaggio drammaturgico classico; mondi
senza confini tra forme animali, vegetali, umane, «in cui il pensiero affonda
nel corpo e il corpo è pensiero». Le categorie del teatro classico esplodono:
niente parodia, niente pastiche; il tragico diventa altro, cioè catastrofe3, e la
catastrofe è quella del corpo e dei codici.
2. La ri-costruzione del testo letterario mitico smembrato e ricomposto,
secondo tecniche che vengono ibridate da altri linguaggi diversi da quello
teatrale, porta alla comparsa di un nuovo tipo di testualità, una nuova forma di
testo scenico che Valentini chiama testo multiplo. La sottrazione al mito e la
completa reinvenzione avvengono grazie a un dispositivo di miscelazione di
elementi presi dal mondo dell‟arte con altri prelevati dai media: da un lato i
riferimenti alle avanguardie storiche e dall‟altro alla cultura dei mass media,
come i serial televisivi o i film popolari.
Il rapporto fra teatro e pittura, ad esempio, può essere compreso a partire
dalle riflessioni di Georges Roque4, che introduce la distinzione nel linguaggio
pittorico dell‟arte astratta fra segno figurativo e segno plastico, intesi entrambi
Quale linguaggio per (e se) quali emozioni con il “nuovo attore”? di CRISTINA FALCONE
La storia della drammaturgia moderna non ha un ul-
timo atto: su di essa non è ancora calato il sipario. […]
Non è ancora giunto il momento di concludere né di
fissare nuove norme. […] È solo giunto il momento di
comprendere cosa è stato fatto e di tentare la formu-
lazione teorica. Il suo compito è la registrazione delle
nuove forme, perché la storia dell’arte non è determi-
nata da idee, ma dal loro realizzarsi in forma. Alcuni
drammaturghi hanno strappato un nuovo modo formale
alla tematica mutata del presente: avrà esso un seguito
in futuro? […] perché un nuovo stile ridiventi possibile
bisognerebbe quindi risolvere, non solo la crisi della
forma drammatica, ma anche quella della tradizione
come tale (P. SZONDI, Teoria del dramma moderno,
1880-1950, p. 136).
8 Ivi, p. 96.
524 Recensioni
cità insaziabile. […] Il mondo in loro precipita, resta inarticolato» (p. 34). Il gio-
co del chiedere è il manifesto di questa teoria, poiché racchiude al suo interno un
universo che è sia quello del teatro che della realtà, un breviario su come vivere
in un teatro-mondo rispettando «l‟etica del domandare e del domandarsi», un
appello-speranza alla interscambiabilità tra vita e arte, un presente che sulla sce-
na possa prendere forma camuffato nella finzione.
Il rapporto del teatro con i tre aggettivi visuale, performativo, mediatico, co-
me viene modellizzato e che interazione (a doppio senso?) si produce tra il pri-
mo aggettivo e ciascun altro? Valentini asserisce che non esiste un dispositivo
dominante, e che dopo l‟osmosi generale emergono categorie disparate, o me-
glio tentativi di ricodifica e rigenerazione di un‟etica/morale e della bellezza
dell‟opera-teatro (d‟arte) originale.
La presenza delle specificità dei dispositivi tecnologici ha prodotto sulla scena
una confusione sulla genuinità dello spettacolo aristotelicamente inteso, poiché
nelle sue peculiarità comportava tanto la vicinanza all‟hic et nunc della fruizione
dal vivo, quanto la tendenza di smembramento del corpo, testuale e plastico-at-
tanziale (effetto di ripetizione, di straniamento, di segmentazione, essenzialmen-
te epico), in voga già a cavallo tra prima e seconda parte del Novecento. Nel real
time film, messo in atto negli spettacoli del Big Art Group (Shelf life, Flicker, House
of no more), produzione dal vivo di un prodotto cinematografico, gli attori, ripre-
si in diretta da un sistema di telecamere, creano davanti agli occhi degli spettato-
ri un prodotto audiovisivo, proiettato anch‟esso dal vivo, rientrante a pieno tito-
lo nella grammatica cinematografica. Qui l‟attante, un «essere drammatico auto-
nomo», impossibilitato a porsi in maniera dialettica nei confronti del mondo, vi-
ve «situazioni sfrangiate, momenti separati», frammenti emozionali, pezzi di
sentimenti. Così lo spectator-voyeur, ingordo d‟immagini, incessantemente mar-
tellato da input di natura multisegnica, prova quel brivido che l‟osserv/azione
diretta sulla realtà non riesce più a procurargli1.
In ultima analisi, le figure del corpo attanziale, ovvero le questioni relative al-
la pura „somaticità‟, virano l‟attenzione sulle problematiche che mettono in
discussione la dicotomia tra attore/personaggio, così come l‟inesorabile ri-
mando tra i due, mediato dal concetto di persona, così che si tramuti nella na-
scita di una figura nuova, quella del performer: «la parte destruens della forma-
zione dell‟attore, il cammino individuale verso la conoscenza di sé, come per-
sona: “io sono me stesso sul palcoscenico. Non desidero vivere la vita di un
altro”, era la tesi di Spalding Gray che […] segna un passaggio importante nel
modo di operare dell‟attore in scena, mostrando come oltrepassare sia l‟unità
di attore e personaggio sia la loro separazione […]. “Mi vedevo come un per-
Le “qualità” della dissoluzione e il “corpo infante” nel teatro del secondo Novecento di
ANTONELLO ROMANO
qualità», pensiero espresso dal filosofo Massimo Cacciari e ripreso dalla Valen-
tini già in due occasioni, per descrivere l‟indifferenza delle dinamiche dell‟arte
contemporanea nel trattare elementi divergenti attraverso un principio unifi-
catore che fa perdere carattere all‟eterogeneità degli eventi. «Ciò che sembra
segnare la nostra esperienza non è, perciò, la riduzione liberale del conflitto
politico a gioco, scambio, mercato – la sua estetizzazione – ma la sua trasfor-
mazione dell‟antagonismo in senso antideterministico, multidimensionale, al
di là di ogni stabile contrapposizione di scelte e valori. Il mondo moderno
della catastrofe si presenta come quello di un‟apocalisse “senza qualità”. […] Il
termine moderno di catastrofe generalizza e secolarizza insieme il simbolo co-
struttivo-distruttivo dell‟apocalisse, rendendone così indicibile il “valore” pro-
prio: quello della redenzione»1. Etimologicamente il termine qualità deriva da
qualis, implicando quindi una determinatezza dell‟oggetto, che nell‟epoca
presente non può più essere stabile: tutto è catastrofe, senza distinzione, o
nulla può essere considerato tale. Cosa si può definire catastrofe? Catastrofe è
propriamente svolta ed entrambi questi concetti vengono discussi in quest‟ope-
ra in modo organico. L‟affermazione di Cacciari può quindi essere riformulata
in questi termini: quale svolta?
L‟importanza concessa alle realizzazioni teatrali dei miti/riti di fondazione,
alle cosmogonie, alla rinnovata denominazione della realtà, alla costruzione
materiale, commiste però alle immagini frante, ferali, grottesche che abbiamo
già descritto, rappresentano un‟evoluzione fondamentale per la prospettiva di
un teatro di nuova concezione, un‟esegesi allargata, un piano di conversione
dell‟artistico in pratico spinto al parossismo già evidenziato in apertura del se-
condo capitolo di Mondi Corpi Materie del mondo teatralizzato e del suo op-
posto: il teatro come mondo compresso e polivalente, luogo politico al di là
del dualismo, territorio dell‟ultima interazione possibile tesa ad eliminare
l‟isolamento dorato dell‟uomo moderno, si pone la questione della problema-
tizzazione della realtà attraverso l‟evidenziazione e l‟ingigantimento dei suoi
elementi, cercando anche di offrire strategie di liberazione. Strategie che pas-
sano naturalmente attraverso la funzione centrale del corpo, come prima por-
zione di realtà sottoposta al cambiamento (il piano di indifferenziazione tra
memoria e azione, secondo Bergson) e catalizzatore di influenza rinnovata sul
reale. Non un corpo qualunque.
Cacciari pone la sua attenzione sull‟elemento dell‟indicibilità del valore
apocalittico. Il corpo nella sua effettività materiale supera di gran lunga la ge-
nia ininterrotta dei segni, eppure se ne fa portatore annullandoli nella sempli-
cità della presenza puntuale. È il corpo infante, quello che non parla, taber-
1 MASSIMO CACCIARI, Catastrofi, in “Laboratorio politico”. Catastrofi e trasformazioni, To-
rino, Einaudi, 1981, pp. 153-158.
Bollettino filosofico XXV (2009) 529
nacolo della sua sensibilità anarchica, della sua semiurgia elementare, refrat-
tario alla spinta simbolica sia dei complessi ancestrali (il mito e le sue riper-
cussioni psicopatologiche), sia alla smaterializzazione del codice binario del di-
gitale. L‟infanzia d‟altronde presuppone una continua scoperta di sé, della
propria geografia e la formazione della coscienza tattile prima che discorsiva. Il
corpo diventa oggetto politico effettuale, di una politica dell‟oblio della parola
e della necessità esegetica abituale. Il teatro come luogo dei corpi muti e fon-
danti è la fucina del nuovo agire politico post-ideologico, che si ciba della real-
tà inglobandola in essa e cambiandola di segno, sovvertendone i valori, allar-
gandosi spazialmente, debordando dal palcoscenico e avvicinandosi minaccio-
samente alla realtà: salva la carne dalla carneficina metaforica dell‟immagine
de-oggettualizzata.
Rifondare la realtà a partire dal corpo, quindi ipostatizzando la cruenza san-
guigna dell‟atto sacrificale: René Girard ne La violenza e il sacro riconosce nel
corporeo, nel suo smembramento, e contemporaneamente nella sua adorazione,
il fulcro della nascita e della rinascita sociale ciclica. Una rinascita come ripro-
posizione di quella differenza che la catastrofe contemporanea non riesce a ri-
scontrare in modo limpido. Il pericolo dell‟indifferenziazione viene superato at-
traverso il corporeo, attraverso la concentrazione dell‟agire sociale sulla carne,
sezionandola e conferendole significati nuovi. Il corpo sovverte l‟ordine, ma ri-
compone le macerie, come espressione di un patto per il nuovo. La nostra era,
quella cristiana, nasce dal suo essere martirizzato e consunto. Il teatro contem-
poraneo svincolandosi dal suo valore puramente estetico può fungere da nuovo
inizio. Percorrere uno spazio, costruire un luogo, la stessa fonazione a-signifi-
cante, non ferina, ma pre- o post-umana, sono cifre del nuovo rito minimalista
di fondazione della realtà scomposta e decomposta. E qui passiamo ad una se-
conda interpretazione della struttura del titolo del testo. Il corpo è centrale tra
due universi simbolici, quello del mito e quello del valore d‟uso della reifica-
zione materiale. Il corpo sfugge a questi codici conservando una consistenza ed
un‟indipendenza quasi totale dal trascendente e dal minerale, vibrando tra questi
estremi. Riscoprire l‟opera come ente reale, come corpo muto a cui dar voce,
non trasmutandola discorsivamente, ma conservandone le opposizioni e le con-
traddizioni: un corpo da sacrificare per mantenerlo vitale e irrevocabile, come
medium plastico da tradurre non in categorie a tenuta stagna a riconferma dello
stato delle cose, bensì in modalità di interpretazione che si intreccino con la si-
tuazione contingente, che propongano modi di percezione applicabili per il frui-
tore nell‟incontro con il mondo delle sensazioni multiple. Bisogna riappropriarsi
del contemporaneo, analizzandone le manifestazioni eterogenee in campo arti-
stico, espressioni del nostro ambiguo Zeitgeist per aprire a nuove vie una critica
che non ha più necessità di giudicare oltre se stessa.
530 Recensioni
essa trova uno sbocco nella teoria delle pratiche teoriche. La pratica teorica, infatti,
ci aiuta a rileggere la produzione e il conflitto come nozioni antagoniste rispetto
all‟orizzonte totalizzante dell‟ontologia. «La teoria attacca le essenze filosofiche,
tiene sotto pressione l‟ideologia», scrive Pardi.
A questo punto l‟operazione diventa duplice: da un lato si svela il sostrato bel-
licoso della pratica filosofica («La filosofia è una particolare declinazione dell‟arte
della guerra, zona d‟operazioni strategiche di natura tutta politica»), da cui emerge
una complicità profonda fra le pratiche di verità e i sistemi di potere; dall‟altro si
cerca di comprendere quali siano i punti strategici dove è possibile staccare le pro-
duzioni di conoscenza dalle forme di egemonia sociali, economiche e culturali che
la filosofia intrinsecamente è portata a sostenere. Si tratta di «cercare un varco ver-
so l‟emancipazione dal dominio». Su questa soglia problematica si innesta la que-
stione decisiva, che riguarda la pratica del conflitto, determinante per spezzare gli
equilibri e rimettere in circolo energie nuove in grado di generare pratiche di li-
bertà, quindi nuova produzione, nuovo conflitto. È un problema di massima im-
portanza, soprattutto se si pensa che oggi il potere si afferma proprio grazie alla sua
capacità di esercitare un dominio nel e attraverso il divenire e la trasformazione, non
istituendo un ordine a priori, bensì esercitando un dominio attraverso sistemi dut-
tili di bloccaggio e di canalizzazione che operano nel divenire, ovverosia nel cuore
delle pratiche conoscitive ed etiche. Ma allora, se il potere produce trasformazione,
la domanda che si pone diventa la seguente: come concepire un potere della tra-
sformazione che non sia più trasformazione del potere, che sia affermazione di
nuova vita, vale a dire di nuovi rapporti che nascono lungo le linee trasversali del
conflitto anziché da quelle integrali del dominio?
Ovviamente la problematicità di una simile domanda è tale che ogni tenta-
tivo di darne un‟articolazione risolutiva risulterebbe arrogante e fallimentare.
Una risposta, come ci insegna Pardi in questo libro, è soltanto possibile rimet-
tendosi sempre e di nuovo a pensare e ad agire affermando lo sforzo inventivo
comune verso un‟altra prassi di pensiero che si fa e deve farsi politica dentro «la
trama complessa dei conflitti che disloca costantemente il fronte che separa po-
tere e subordinazione». Il libro di Pardi ridona una luce particolare a questa bel-
lissima frase di Whitehead: «Il conflitto è il segno che esistono verità più ampie e
prospettive più ricche». Una luce etica e politica che illumina lo scarto fra ciò
che noi siamo e ciò che noi possiamo ancora divenire. Qui il dislivello è talmente
grande che solo una pratica del conflitto sempre rinnovato può aiutarci ogni vol-
ta a colmare. L‟importanza di questo libro, ovviamente, va ben oltre i problemi
che in queste poche righe abbiamo sottolineato. Rimane pertanto lo squilibrio,
assai evidente, fra la ricchezza di un libro così bello e questa fragile combina-
zione di idee, per niente esaustiva, che, al limite, vale solo come timido cenno di
grande ammirazione per il lavoro svolto da Aldo Pardi.
FRANCESCO LESCE
Bollettino filosofico XXV (2009) 533
SABINO CASSESE, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, Ei-
naudi, 2009, € 18,00.
Nel celebre frontespizio del Leviatano (1651), Hobbes rappresentava il sovrano
come un animale mostruoso composto da una molteplicità di individui che in lui
trovavano forma e unità. Il gigante reggeva in mano una spada, simbolo del po-
tere temporale, e nell‟altra il pastorale, simbolo del potere religioso, ad indicare
che i due poteri non vanno mai separati. Gli individui che compongono il gi-
gante sono stretti da un patto con il quale trasferiscono ad un uomo il compito di
esercitare il potere. Secondo Hobbes, il sovrano ha il compito di decidere cos‟è
giusto e cosa ingiusto, tramite le leggi, mentre i sudditi restano liberi in tutti
quegli ambiti che non sono coperti dalla legislazione del sovrano.
Nelle formulazioni successive del rapporto tra potere e sudditi/cittadini,
avanzate dai pensatori liberali e dai teorici dello stato di diritto, il sovrano non è
più detentore di potere assoluto: la sovranità statuale si esprime come esercizio
verticale di un potere politico legittimo perché originato dal popolo ed eserci-
tato per via rappresentativa.
Nel corso dell‟Ottocento e del Novecento, questo modello si evolve e diven-
ta più democratico e pluralistico. Il rapporto tra potere e cittadini si articola nello
stato liberale ottocentesco: si consolidano i parlamenti e i principi del governo
costituzionale, si amplia progressivamente il suffragio e la partecipazione politica e
l‟esercizio del governo si associa a dispositivi di limitazione, divisione e bilancia-
mento dei poteri. Il rapporto tra potere e cittadini diventa ancora più complesso
nel modello novecentesco di stato, la democrazia pluralistica, che si struttura nel
secondo dopoguerra a partire dal modello liberale. Nel modello della democrazia
pluralistica lo stato si costruisce sulle fondamenta di tre pilastri: i diritti sociali, la
rigidità delle carte costituzionali (le disposizioni costituzionali possono essere inte-
grate, modificate o abrogate solo con procedure aggravate) e il controllo di costituzio-
nalità (la funzione di verifica della conformità alla costituzione delle leggi dello
stato e di enti territoriali eventualmente dotati di potere legislativo).
Oggi questo sistema tradizionale delle procedure democratiche di government
sul quale si è fondata la nostra esperienza di stato attraversa una fase di forte de-
cadimento, come pure sembra essere in crisi profonda il ruolo della sovranità
dello stato nello scenario della politica globale: perché?
Che cosa è cambiato nel mondo del diritto e delle istituzioni nell'ultimo se-
colo? Chi sono stati i protagonisti di questi cambiamenti? Quali ordinamenti giu-
ridici sovranazionali e globali si sono sovrapposti agli stati e come il fenomeno
della globalizzazione ha trasformato le componenti fondamentali dello stato mo-
derno? Quale rapporto c‟è tra i poteri dello stato e la globalizzazione giuridica?
Che forma ha una democrazia e una giustizia oltre lo Stato?
534 Recensioni
Sono queste le domande alle quali cerca di dare risposta Sabino Cassese, do-
cente di diritto amministrativo e attualmente giudice della Corte costituzionale,
nei sei capitoli che compongono Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Sta-
to (Einaudi, 2009). Il testo riflette sul fenomeno della globalizzazione, su come
esso intacchi le componenti fondamentali dello stato moderno, e affronta la que-
stione della legittimazione delle istituzioni globali, vaglia le strade che prendono
la democrazia e la giustizia quando travalicano le forme di governo tradizionali.
Cassese inizia il testo introducendo il lettore al dialogo che lega i poteri dello
stato alla globalizzazione giuridica e alla società civile (capitolo I e II). Presenta
cinque casi concreti che illustrano la vastità e pervasività del fenomeno della glo-
balizzazione giuridica (capitolo III). Spiega quali sono le caratteristiche del diritto
globale offrendo analisi di casi concreti e multisettoriali (capitolo IV). Riflette sul
ruolo svolto dai giudici (capitolo V) e descrive come opera concretamente il di-
ritto globale nei confronti degli ordinamenti domenistici in rapporto alla tutela
dei diritti e delle garanzie dei cittadini (capitolo VI).
In Il diritto globale Cassese sviluppa temi e problemi introdotti in Lo spazio
giuridico globale (Laterza, 2003), Oltre lo Stato (Laterza, 2006) e nei suoi libri più
recenti: Il mondo nuovo del diritto. Un giurista e il suo tempo (Il Mulino, 2008) e I
tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale (Donzelli, 2009).
Tutti questi lavori offrono rilevanti contributi, accessibili anche ai non giuristi di
professione, e documentano con straordinaria capacità analitica il grande proces-
so in corso di sviluppo di un diritto globale, che va, appunto, oltre lo Stato, e
sembra diluire la sovranità statale.
L‟economia ha da tempo scavalcato i confini degli stati. I processi della glo-
balizzazione economica hanno sottratto poteri e competenze alle organizzazioni
statuali, depotenziandone l‟esercizio dei poteri. Nel contempo, l‟articolarsi del-
le decisioni politiche ed economiche su piani molteplici – non tutti riconducibili
alla sfera pubblica e politica – ha offuscato la trasparenza delle responsabilità e ha
sottratto spazi di controllo agli istituti democratico-rappresentativi. Decisioni
complesse, dalle enorme ricadute sociali, sono spesso prese in contesti e da at-
tori che non dispongono di alcuna legittimità di tipo rappresentativo. Persino gli
stati hanno scavalcato i propri confini: molte delle loro funzioni essenziali si
svolgono oltre il territorio nazionale, in un‟arena globale. Per questo motivo, in
questo scorcio di nuovo millennio, gli stati non sono più autori esclusivi del di-
ritto e parallelamente il ruolo delle costituzioni formali perde peso, mentre è
sempre più influente il lavoro svolto da Corti, istituti e organismi di varia natura
(imprese multinazionali e Organizzazioni Non Governative, reti e agenzie inter-
nazionali – come la Banca Mondiale e l‟Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico).
Cassese mette ben in mostra come lo spazio giuridico globale sia pieno di re-
Bollettino filosofico XXV (2009) 535
gimi regolatori settoriali, ciascuno con il suo sistema di norme e con un apparato
chiamato a farle osservare: «ognuno ha una competenza specifica, dall‟uso del
mare al trasporto delle sostanze radioattive, alla tutela del patrimonio culturale,
e così via. Manca un sistema unitario di governo». Sono gli stati che danno l‟in-
vestitura iniziale agli organismi globali, ma, poi, l‟azione di questi ultimi si pro-
ietta oltre l'ambito statale: «gli stati da fonte dell‟ordinamento giuridico ultrasta-
tale sono divenuti strumento di quest‟ultimo. D‟altra parte, numerosi organismi
globali non sono stati istituiti da stati, bensì da altri organismi globali» (p. 134).
Ad una politica rigida e gerarchica – il government, il governo verticale dello stato
– si sostituisce la governance, una politica policentrica e orizzontale, fatta di auto-
regolazioni e priva di un sistema unitario di governo.
Secondo Cassese, il cosiddetto diritto globale è caratterizzato da un assetto di
tipo non gerarchico e fa ricorso a procedure spesso informali e flessibili, poco
codificate. Tutto questo potrebbe essere salutato con ottimismo, brindando alla
nascita di una società civile globale e al tramonto del principio della statualità del di-
ritto, tuttavia ci sono molte ragioni per dubitare della retorica dell‟orizzontalità e
per vigilare sull‟attuale ridimensionamento del ruolo dello stato nel governo del
pubblico interesse. Infatti l‟obiettivo delle procedure di governance non sembra
tanto promuovere l‟ampliamento della partecipazione democratica a tutti i livel-
li, quanto piuttosto ad attivare strumenti capaci di controllare il conflitto sociale
e di costruire consenso intorno alle politiche orientate al mercato. De-localiz-
zando e frantumando i fuochi conflittuali per mezzo di reti diffuse di negozia-
zione, i cui nodi diventano i punti sui quali scaricare le tensioni, la governance
svolge un ruolo di stabilizzazione e di conservazione, come nei casi di alcune po-
litiche internazionali di security governance.
Esente dalla retorica ottimistica che non di rado pervade la materia, l‟analisi
di Cassese approccia, in maniera serena ma intelligentemente critica, la difficile
opera di razionalizzazione di un sistema ancora fluido e non organico, aperto a
molteplici scenari ed in grado di fornire esempi più o meno eccellenti in merito
all‟applicazione completa di una rule of law globale.
In Il diritto globale Cassese discute i problemi ai quali la globalizzazione giuri-
dica deve far fronte: in primis la coesistenza di diversi regimi regolatori globali,
la concorrenza di norme globali, norme nazionali e norme locali, in secondo
luogo la difficoltà di individuare i giudici competenti a risolvere conflitti che
sono sia globali sia locali. In tale situazione complessa e in continua trasforma-
zione, occorre, secondo l‟autore, evitare il rischio che il mercato si attesti quale
unica griglia di intelligibilità e di validazione dei criteri di efficacia ed efficienza
dell‟azione politica: «In assenza di una democrazia cosmopolita, quale titolo han-
no gli organismi globali di determinare standard – che i privati devono rispettare
– e di imporre vincoli agli stati nazionali?» (p. 14).
536 Recensioni
PIO COLONNELLO, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Lettera mai scritta, Napoli,
Guida, 2009, € 10,00, pp. 60.
Il genere biografico ha rappresentato in ogni epoca uno strumento indispensabile
per la comunicazione di vicende personali e sociali, pubbliche e private, di per-
sonalità più o meno celebri, di uomini e donne che si sono distinti in uno dei di-
versi campi delle cose umane: la letteratura, la filosofia, le scienze o le arti. La
biografia, o l‟autobiografia, si è sempre accompagnata al bisogno umano della
narrazione e della memoria, della ricerca di un tempo che non potrà più essere,
se non, appunto, nella dimensione del ricordo, della vita immaginata, pensata,
descritta dalla mobilità sincronica della scrittura. E di biografia si è nutrita ogni
Bollettino filosofico XXV (2009) 539
pensiero scolastica, questa semplicità da cui non si deduce nulla che contrasti le
infinite distinzioni reali che gli autori producono: contorsioni verbali oppure on-
tologia paraconsistente? La psicologia divina elaborata dai medievali sarebbe un
ottimo banco di prova per cercare di meglio comprendere i loro discorsi sulle
malattie mentali, su quelli che loro chiamerebbero piuttosto sulla falsariga dei
Padri della Chiesa vizi o peccati. L‟accidia è un candidato eccellente ad antesi-
gnano delle riflessioni moderne sulla melanconia. E il caso dell‟asino di Buridano,
in questa contestualizzazione in cui volontarismo ed intellettualismo si oppon-
gono, diverrebbe un vero e proprio argomento per assurdo: è assurdo pensare
che l‟uomo si comporti come l‟asino che rispetta nella sua mente le leggi espli-
cative di Buridano, intellettualista parigino del XIV secolo. Il filosofo musulmano
Al-Gahazali, scrivendo all'epoca di Sant‟Anselmo, aveva preferito parlare diret-
tamente di un uomo che tra due datteri identici sceglie quello che gli pare e
mangia: l‟agenda del volontarismo, in qualunque tradizione filosofica sorga – la-
tina, araba, giudaica –, sempre spingere verso lidi paraconsistenti. Perché mi
piacerebbe che Mazzeo facesse queste incursioni, muovendosi su un terreno sto-
rico amplissimo che va dalla contemporaneità all‟antichità? Perché troppo spesso
la letteratura che rende conto dei commentari al De anima di Aristotele li relega
anche al dominio dell‟archeologia erudita, mentre sulla falsariga dell‟approccio
di Alain de Libera gli strumenti concettuali usati da Mazzeo potrebbero confe-
rire un interesse agli occhi di qualunque filosofo verso le premesse medievali alla
paraconsistenza.
Insomma, il volume di Mazzeo soddisferà senz‟altro gli appassionati di
filosofia del linguaggio e della mente; intrigherà per i suoi riferimenti ad una let-
teratura antropologica che rinvia alle grandi sintesi di autori come Pierre Legen-
dre, che pure non è citato; appassionerà per la sua capacità di evocare universi
semantici che trascendono gli steccati di mere periodizzazioni cronologiche. E
porrà una sfida intellettuale eccitante: produrre argomenti in favore di una tesi
filosofica che oggi è certamente minoritaria, la tesi che la struttura ontologica
del mondo è paraconsistente.
LUCA PARISOLI
JOHANN JOACHIM BECHER, Magnalia Naturae (1680) – Le grandi cose della natura,
a cura di Emilio Sergio, presentazione di Ferdinando Abbri, Roma, Aracne,
2006, pp. 79, € 6.
scienza e non scienza, questo corpus di saperi ha dato non pochi problemi agli sto-
rici della scienza del secondo dopoguerra – A. Rupert Hall e M. Boas Hall, solo
per citarne alcuni –, data l‟evidente difficoltà a collocare forme ancora incom-
piute di sapere scientifico all‟interno di confini epistemologici e disciplinari mol-
to netti, quali erano quelli di campi scientifici tradizionalmente „forti‟, come le
scienze matematiche e fisiche. Lo sforzo degli storici della scienza nell‟ultimo
trentennio – P. Rossi, M. Hunter, W. Newman, L. Principe – è stato quello di
comprendere e di spiegare non solo il ruolo assunto – in positivo e in negativo –
da saperi come l‟alchimia e la filosofia ermetica nella costruzione dell‟idea mo-
derna di scienza, ma anche le inevitabili contaminazioni esistenti, nel XVII seco-
lo, tra la nuova filosofia sperimentale e alcuni pezzi della tradizione alchemica.
Il volume curato da Sergio ricostruisce un piccolo pezzo di questa storia a
partire dalla traduzione di un testo „minore‟, e tutto sommato poco conosciuto,
delle opere di Becher. Becher fu un autore poliedrico: medico, matematico, fi-
losofo, inventore di linguaggi speciali, economista e alchimista. Il testo qui tra-
dotto, Magnalia Naturae, costituisce a suo modo un simbolo eloquente del pas-
saggio dalle arti pre–chimiche della tradizione medievale e rinascimentale alla
chimica pre–moderna o seicentesca.
In questa piccola opera Becher racconta le vicende di Wenceslaus Seyler, un
frate moravo dell‟ordine agostiniano dalla scarsa vocazione, che con l‟aiuto di un
vecchio frate scopre una scatola di rame contenente una polvere rossa: è la „tin-
tura filosofica‟, detta anche „polvere di proiezione‟, che il vecchio frate rivela a
Wenceslaus essere una sostanza avente la virtù di trasformare i metalli in oro. Il
racconto non è altro che la narrazione delle „scandalose‟ avventure vissute da
Seyler in seguito alla sua scoperta. Ma tra le righe di quello che sembra a prima
vista uno scritto di intrattenimento (come l‟ha definito Lawrence Principe, «a
rather lurid account of Seiler‟s rise to fame»), Sergio scopre un‟operetta dalle
molteplici finalità, sia scientifiche che letterarie e morali. Magnalia Naturae in-
tendeva innanzitutto fornire al pubblico degli „adepti‟ dell‟alchimia come a quel-
lo degli eruditi e dei semplici „curiosi‟ un dettagliato resoconto degli esperi-
menti alchemici di trasmutazione compiuti da Seyler a Vienna durante gli anni
1670; esperimenti di cui oggi rimane traccia in alcuni medaglioni conservati
presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Becher decise di dare alle stampe
lo scritto per rispondere alle richieste di quegli intellettuali (tra cui c‟era anche
Robert Boyle) desiderosi di avere notizie utili sulla vita e sull‟opera del frate mo-
ravo. Come Sergio ricorda nel libro, il racconto era un‟occasione per Becher di
manifestare le proprie idee in merito a quella parte più nobile dell‟alchimia che
era la Chrysopoeia, ovvero l‟arte della trasmutazione. In questo senso, il racconto
di Becher intendeva «riabilitare la verità dell‟alchimia a dispetto dell‟immoralità
di Seyler, e per poterlo fare aveva un solo mezzo: dire tutta la verità sul conto di
Bollettino filosofico XXV (2009) 549
T. CAMPANELLA, Sintagma dei miei libri e sul corretto metodo di apprendere – De libris
propriis et recta ratione studendi syntagma, Edizione, traduzione dal latino, annota-
zioni e Introduzione di Germana Ernst, con una nota iconografica di Eugenio
Canone, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore (Bruniana & Campanelliana. Supple-
menti, XXI – Bibliotheca Stylensis, 4), 2007, pp. 140, € 28,00; IDEM, Del senso
delle cose e della magia, a cura di Germana Ernst, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp.
XXXIV + 262, € 24,00.
Campanella è stato uno degli autori più prolifici della cultura filosofica del Rina-
scimento italiano: grande ammiratore, sin da giovanissimo, della filosofia di Ber-
nardino Telesio, e profondo conoscitore dei classici greci e latini che gli erano
stati tramandati dalla cultura medievale e umanistica, si è occupato di filosofia
naturale, di astronomia e di cosmologia, di metafisica e di teologia, di politica e
di medicina, di retorica e di grammatica; è stato poeta e astrologo, teologo e fi-
losofo, profeta e scienziato. Il suo cursus studiorum è stato formidabile, se si pensa
che trascorse gran parte della sua vita nelle carceri del S. Uffizio, a Roma, e nel
Castel dell‟Ovo, a Napoli. In carcere, nonostante le ristrettezze della sua condi-
zione, le continue torture e i ripetuti sequestri delle sue carte manoscritte, il fi-
losofo calabrese non perse mai di vista le sue ambizioni di letterato e di filosofo.
Incurante delle continue irruzioni e perquisizioni nella sua cella, egli continuò a
scrivere e a riscrivere molte delle sue opere, in segreto, cercando ad ogni oc-
casione di consegnare a coloro che stimava suoi amici, o di cui sentiva di poter
fidarsi, i manoscritti delle sue opere, con la preghiera di renderli noti, di farli
pubblicare e diffondere presso la comunità dei dotti, affidandoli a qualche illumi-
nato editore.
550 Recensioni
Delle finalità pedagogiche del suo programma filosofico fu informato agli inizi
degli anni 1630 Gabriel Naudé, un intellettuale francese ammiratore dello Stile-
se. Campanella si trovava allora a Roma, ed ebbe più di un incontro con l‟erudi-
to francese, il quale conquistò la fiducia del frate. Quest‟ultimo acconsentì alla
richiesta di Naudé di dettargli la sua biografia ed un elenco ragionato delle sue
opere. Hanno così origine una Vita Campanellae e il Syntagma de libris propriis. Ma-
lauguratamente, come ricorda Germana Ernst nella sua Introduzione al Syntagma,
«nessuno dei testi affidati al Naudé vedrà la luce per le sue cure durante la vita di
Campanella». L‟autobiografia del filosofo «andrà miseramente perduta», mentre
il Syntagma sarà pubblicato a Parigi solo dopo la morte di Campanella.
Evidentemente deluso dal Naudé, Campanella non ripenserà più al progetto
di un‟autobiografia. Del resto, negli ultimi anni della sua vita, tra il 1634 e il
1638, a Parigi, sotto la protezione del re di Francia e del cardinale Richelieu,
Campanella impegnerà il suo tempo soprattutto nella pubblicazione di quelle
grandi opere che aveva più volte riscritto, e nella riedizione di quelle altre, come
ad esempio il De sensu rerum et magia, che avevano conosciuto una certa fortuna
dopo la prima edizione latina, e meritavano ora una nuova messa a stampa. La
pubblicazione, nel 1642, del Syntagma, costituì tuttavia un‟occasione unica per la
conservazione di notizie importanti sulla biografia e sulla filosofia dello Stilese.
Nel primo dei quattro libri che compongono l‟opera, oltre ad importanti cenni
sulla sua vita, «Campanella fornisce indicazioni preziose sulla composizione dei
propri testi, a partire dallo scorcio dell‟adolescenza e degli anni giovanili per
giungere all‟età matura, delineando una mappa insostituibile delle complesse,
talora romanzesche, vicende di libri e manoscritti, compresi quelli che non sono
giunti fino a noi» (Introduzione, p. 16). Nella seconda parte, Campanella si sof-
ferma sul corretto metodo di apprendere, e sui requisiti indispensabili affinché
lo studio risulti proficuo; nella terza si discute sul corretto modo di scrivere e
sulle finalità della scrittura; nella quarta ed ultima sono citati gli autori più im-
portanti nei diversi campi del sapere: filosofi e teologi, poeti e scienziati; e qui lo
Stilese, accanto ad un innegabile sfoggio di erudizione, coglie l‟occasione per ri-
badire alcune tesi già espresse in altre opere, come la sua idea di una religione
universale, il suo giudizio sulla poesia, e la sua concezione della retorica.
Dobbiamo all‟impegno di Germana Ernst, curatrice della presente edizione
del Syntagma, e della splendida edizione Laterza del Senso delle cose, la rinnovata
attenzione per il filosofo calabrese, del quale cominciano a venire alla luce, pro-
prio in questi ultimi anni, aspetti fondamentali del suo pensiero, e le vicende
della fortuna e della diffusione che ebbero le sue opere nella cultura europea
dell‟età moderna. L‟edizione italiana del Senso delle cose, finora disponibile nella
edizione di A. Bruers (1925), e più recentemente, nella trascrizione di W. Lupi
di un esemplare manoscritto conservato presso la Biblioteca Civica di Cosenza
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(edito per i tipi della Rubbettino, 2003), è stata emendata in numerosi luoghi
grazie alla collazione con diversi esemplari manoscritti. Si tratta di un lavoro
encomiabile di ricostruzione storiografica, a cui la Ernst ha abituato i suoi lettori
e il pubblico degli studiosi con una serie importante di ricerche e di edizioni, tra
cui ci limitiamo a ricordare qui, fra le più recenti, quelle delle Lettere (1595-
1638) (Pisa–Roma, 2000) non comprese nell‟edizione curata da V. Spampanato
nel 1927; degli Opuscoli astrologici, Milano, 2003 e soprattutto della ritrovata
redazione italiana autografa dell‟Ateismo trionfato, Pisa, 2004.
Campanella non fu un vero „uomo d‟arme‟, come il suo contemporaneo
Descartes, né ebbe incarichi accademici, come il suo corrispondente Galileo.
Egli indossò sin da adolescente il saio dell‟ordine domenicano, e da monaco-
filosofo combatté le sue battaglie, per un rinnovamento culturale e morale, non
solo del suo Meridione, ma dell‟Europa intera; un‟Europa che andava nascendo
anche attraverso l‟impegno e il contributo di quella „République des Lettres‟, di
cui il Nostro è stato senza dubbio uno degli esponenti più illustri*.
EMILIO SERGIO
A distanza di oltre venti secoli dalla nascita della filosofia in Grecia, uno dei lem-
mi centrali del lessico filosofico e scientifico, “Natura”, continua a costituire uno
dei capitoli più affascinanti e problematici del pensiero occidentale: è attorno al
significato di questo termine, ad esempio, che si muove il dibattito contempora-
neo in materia di bioetica, genetica e biologia evoluzionistica; ed è sempre in-
torno ai più recenti risultati nel campo delle neuroscienze, della filosofia della
mente e dell‟etologia cognitiva che la parola “natura” rivela tutto il suo poten-
ziale, sia teoretico che epistemologico.
Potrà risultare strano, e forse singolare, l‟intento di introdurre il presente
potrebbe guadagnare esiti così favorevoli e significativi presso il pubblico di studiosi e bi-
bliofili, se non si accompagnasse ad un‟altrettanto rigorosa ricognizione sui diversi motivi
dell‟iconografia e della biografia degli autori indagati. Ce lo rammenta per inciso M. FAT-
TORI, in un suo contributo al recente volume del Lessico Intellettuale Europeo (Natura, a cu-
ra di D. Giovannozzi e M. Veneziani, vedi infra), a proposito di uno dei frontespizi del De
rerum natura di Telesio, e ce lo ricorda, più compiutamente, EUGENIO CANONE nella „Nota
iconografica‟ all‟edizione sopra citata del Syntagma di Naudé (pp. 115-128).
Bollettino filosofico XXV (2009) 553
Fin troppo facile, quasi scontato evocare, a questo punto, l‟ombra di Euge-
nio Garin. Ma chi voglia aprire, anche solo per una veloce scrutatio, le pagine,
sempre attuali, delle sue Cronache di filosofia italiana (Bari, Laterza, 1966), tro-
verà il senso di un lavoro scientifico ancora attivo, e tuttora valido.
Marco Veneziani, curatore del volume insieme a Delfina Giovannozzi, ha
raccolto i contributi (in tutto venticinque) del convegno internazionale tenutosi
a Roma, come di consueto, nella prima settimana dell‟anno (nel caso presente,
dal 4 al 6 gennaio 2007). Il Colloquio è stato organizzato dal CNR – Lessico In-
tellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI), diretto da Eugenio Canone, in
collaborazione con il Dipartimento di Identità Culturale del CNR, dal Diparti-
mento di ricerche storico-filosofiche e pedagogiche, e dalla Facoltà di Filosofia
dell‟Università “La Sapienza” di Roma.
Nel ricco excursus del volume troviamo tradizioni di pensiero diverse, de-
stinate a percorrere variamente i sentieri della speculazione filosofica e scientifi-
ca, e linee di tangenza, punti di giunzione che non si riducono semplicemente ad
una serie condivisa di questioni filosofiche, ricorrenti, nelle diverse stagioni di
pensiero, a partire dal significato del termine “natura”. Lo spirito di questo volu-
me è quello di voler offrire un reale contributo alla ricerca storica e filosofica,
attraverso l‟analisi delle intersezioni createsi, sincronicamente e diacronicamen-
te, nella storia della fortuna del pensiero di questo o di quest‟altro autore.
Non è possibile, per evidenti limiti di spazio, offrire anche solo breve com-
mento di una scelta fra i venticinque saggi compresi nel presente volume: e tut-
tavia, per lasciare aperte le curiosità del lettore, mi limiterei almeno a segnalare
(arbitrariamente, com‟è inevitabile) alcuni titoli, che mi sono parsi di grande in-
teresse storico e teorico: dal pregevole “Hoc vel forte vel providentia vel utcumque
constitutum naturae corpus” di Luciano Canfora – sulle diverse, sfaccettate fortune
del De rerum natura di Lucrezio –, a “Evoluzione e ambiguità del concetto di na-
tura in Agostino d‟Ippona” di Gaetano Lettieri, da “Mutations et développement
de la notion de natura dans la théologie et la philosophie carolingiennes (VIIIe-IXe
siècles)” di Kristina Mitalaité, a “Natura: la nascita dell‟essenza. Boezio e l‟Aristo-
teles latinus” di Giacinta Spinosa, da “La natura di Leonardo: «più tosto crudele
matrigna che madre»” di Paolo Galluzzi, a “Natura in Ficino e nella successiva
tradizione platonica” di Maria Muccillo, da “L‟idea di natura nella scienza del
Seicento” di Giorgio Stabile, a “«Qui de natura tanquam de re explorata pronuntiare
ausi sunt...». Il nuovo studio della natura proposto da Francis Bacon” di Marta
Fattori, da “Sémantèse de nature/natura dans le corpus cartésien” di Jean-Robert
Armogathe, a “Natura in Spinoza” di Pina Totaro, da “Natural e Supernatural negli
scritti di Locke” di Mario Sina, a “Immagini della natura nella Scienza nuova di
Vico” di Marco Veneziani, da “«La seconda natura» tra Kant e Hegel” di Claudio
Cesa, a “Heilende und tröstliche Gesetzlichkeit zu einigen Aspekten von Goe-
Bollettino filosofico XXV (2009) 555
thes Auffassung und Erforschung der Natur” di Hartmut Reinhardt, allo sti-
molante “Proteo imbrigliato. La natura dai romantici a Helmholtz” di Stefano
Poggi.
EMILIO SERGIO
Apparso nel 1977 presso “Les Cahiers du chemin”, La vita degli uomini infami è,
forse per ragioni editoriali, uno dei testi meno rinomati dell‟intera produzione
foucaultiana. Testo „mancato‟, poiché avrebbe dovuto costituire l‟incipit di un
progetto più ambizioso e mai realizzato – un‟antologia di esistenze, un collage di
alcuni manoscritti resuscitati dal polveroso silenzio degli archivi d‟internamento
carcerari ed ospedalieri – ma straordinariamente denso e folgorante; intriso nel-
la sua interezza da quello stile vibrante e concitato, che ha reso Foucault uno dei
maîtres à penser più influenti del secolo scorso.
Ripercorrere le linee teoriche essenziali del testo significa, anzitutto, perce-
pire quel raffinato „senso storico‟, di matrice nietzscheana, e quello sguardo ar-
cheo-genealogico, che animano dal profondo gli intenti del filosofo francese. La
predilezione e la familiarità manifestate per alcuni testi, appartenenti ad un pe-
riodo storico forse limitato, e che va dal 1660 a 1760, non sono il sintomo di
una presunta carenza metodologica o di rigore, come qualche ierofante del culto
storicista potrebbe obiettare; al contrario, ciò che interessa a Foucault è deco-
struire e oltrepassare una certa idea di storia, assoggettata al mito di un‟illusoria
continuità, per mostrare come quest‟ultima sia, in realtà, un insieme aleatorio-
stocastico, più che un lineare movimento orientato dal suo millenario e apriori-
stico telos. Da questa prospettiva, abbracciare una certa logica evenemenziale,
che introduce il frammentario nella storia, vorrà dire: considerare i fatti nella lo-
ro singolarità di eventi, abbandonando ogni retaggio metafisico, per rinvenire le
reali condizioni d‟insorgenza di determinati discorsi, per districare le sovrap-
posizioni e gli annodamenti ibridi di sapere e potere sul piano d‟immanenza.
Al di là di queste brevi, ma vive considerazioni, ci si chiederà: cosa scorge
Foucault in questi “frammenti di discorso”; cosa si agita spasmodicamente nel li-
rismo e nella violenza di queste parole brucianti ed effimere, che diventano
l‟unica testimonianza di alcune esistenze singolari altrimenti destinate all‟insigni-
ficanza e all‟oblio? Certamente il punto d‟avvio, il movimento generativo di un
mutamento, dal quale è necessario partire per un‟analisi di quell‟Occidente
Moderno profondamente marcato dalle cosiddette “società disciplinari”. È pro-
prio in nome di una certa tensione disciplinare, di un potere che, d‟ora in poi, si
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avvia a diventare sempre più gestione della vita e investimento del corpo, che si
è ritenuto utile annichilire e relegare nella marginalità dell‟internamento deter-
minati individui, come un usuraio atipico o un francescano posseduto dal demo-
ne dell‟anomalia. Questi personaggi, le loro storie opportunamente deformate
ed enfatizzate dalla perversa solennità del giudizio, sono l‟emblema di quelle esi-
stenze sottratte all‟insignificante ordinarietà del quotidiano, da un potere che ha
visto in loro nient‟altro che schegge impazzite capaci di destabilizzare l‟ordine
costituito. Se da un lato, l‟uomo infame può essere considerato come l‟antenato
del cosiddetto monstrum – oggetto d‟interesse del corso su Gli anormali. Corso al
Collège de France (1974-1975), a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Milano,
Feltrinelli, 2009 – dall‟altro, la sua peculiarità non è ascrivibile al clamore dello
scandalo, o ad una qualche forma di erostratismo degna di essere narrata o ri-
cordata. In realtà, si tratta sempre di gente comune, “uomini della folla”; col-
pevoli di crimini o di forme di violenza, ma il più delle volte di qualche bizzarria
che deborda il limite del bene e del male, e che hanno suscitato la reazione di un
intero corpo sociale, a tal punto da scomodare l‟immenso potere sovrano. Di
queste vite non rimane altro che qualche traccia sbiadita negli archivi d‟interna-
mento, della polizia, delle suppliche al sovrano, delle lettres de cachet; del resto,
non potrebbe essere altrimenti. Siamo dinanzi ad una strana leggenda, oscura, di
«vite infime, divenute cenere nelle poche frasi che le hanno stroncate» (p. 11).
Uomini infami, minori, che hanno una storia radicata nella loro stessa sven-
tura, quella di essersi fatalmente scontrati con il potere; quest‟ultimo non solo
ha repentinamente deciso, ma diventa anche, e allo stesso tempo, narratore as-
soluto; condizione di possibilità a partire dalla quale: una storia diventa rilevante,
dicibile e tramandabile. Il discorso non solo mostra una certa dimensione del
reale, ma agisce in esso, lo determina a più livelli, può diventare, come si evince
dai testi considerati da Foucault, una questione di vita e di morte. Le parole che
animano le svariate suppliche, le manifestazioni dell‟odio e del terrore, les lettres
de cachet, sono tutto ciò che il caso ci ha consegnato di questi miserabili, l‟unica
fonte di una strana verità che testimonia la loro esistenza nel mondo. Sarebbe
più corretto affermare che la vita degli uomini infami: «non è alla fine nient‟altro
se non la somma di quello che se ne dice [...] è esattamente riconducibile a quel-
lo che ne è stato detto; di ciò che sono stati o di ciò che hanno fatto non soprav-
vive nulla, se non racchiuso in poche frasi» (pp. 25-26). Queste andranno a co-
stituire il cosiddetto „archivio‟, il quale non è una semplice raccolta di dati, ma
diventa l‟espressione diretta di una certa stratificazione storica che implica la ri-
partizione del visibile e dell‟enunciabile. Per essere più chiari, Foucault allude al
fatto ch‟è stato necessario un certo cambiamento affinché il potere si insinuasse
nella vita quotidiana, affinché focalizzasse la sua attenzione nelle pieghe grigie
dell‟infimo e del comune.
Com‟è già noto, ad esempio ne La volontà di sapere, la pastorale cristiana, at-
traverso il sacramento della confessione, ha dato vita ad una sorta d‟ingerenza
Bollettino filosofico XXV (2009) 557
nel privato: bisogna dar voce alle proprie pulsioni più recondite, cimentarsi in
una sorta di ermeneutica del desiderio al fine di espiare le proprie mancanze e
deiezioni. Ma se questa pratica si esauriva silenziosamente nell‟atto stesso di pro-
ferire i propri peccati, a partire dal periodo storico in questione (1670-1760)
tutto ciò non basta, si assiste ad una evoluzione o, meglio, ad un suo perfeziona-
mento. D‟ora in poi, l‟intero registro dell‟ordinario, con il suo portato di eccen-
tricità, stranezze e devianze, viene investito da una poderosa volontà di sapere;
attraverso le ormai consolidate procedure della denuncia, della querela, dell‟in-
chiesta, dell‟interrogatorio, prende forma quella peculiare “messa in discorso del
quotidiano”, che assume la forma del dato scritto e della registrazione sistema-
tica, andando a costituire uno spaventoso “archivio del male”.
A tale proposito, Foucault sembra volerci dire ancora qualcos‟altro dall‟ana-
lisi di questi documenti. Le suppliche, o ancora meglio les lettres de cachet, forni-
scono un‟ulteriore conferma del fatto che il potere regale ha assunto le sem-
bianze di un servizio pubblico, accessibile a chiunque fosse in grado di usufruirne.
Lo stesso corpo sociale, accecato dal desiderio di persuaderlo, di direzionarlo
verso la figura del „delinquente‟, ha invocato il potere dal „basso‟ – con un lin-
guaggio che molto spesso simboleggia una certa contraddizione, tra l‟insignifi-
canza delle cose narrate e l‟immensa potenza a cui si rivolgeva – affinché discen-
desse nell‟ordinario, nel cuore stesso delle passioni. Si crea una strana com-
mistione che permette al potere di stanare, di vedere ciò che altrimenti sarebbe
rimasto invisibile, ovvero la dimensione più recondita di ognuno, realizzando
quell‟eccesso di visibilità che ha come diretta conseguenza l‟eccesso di controllo.
Ogni gesto, comportamento, stile di vita, viene strappato all‟impercettibilità del
fluire quotidiano, come sua dimensione d‟appartenenza, per diventare materiale
di un archivio dominato da una forza oscura che condanna ad una perversa “etica
immanente del discorso”. Nasce in questo periodo, secondo Foucault, anche una
certa letteratura, che abbandona la sua originaria vocazione per l‟evento straor-
dinario a favore di una predilezione per ciò che, fino ad allora, era ritenuto scial-
bo e privo di tratti interessanti.
Il diagramma foucaultiano, ovvero la cartografia come esposizione dei rap-
porti tra forze, apre ad una nuova concezione del potere. Il modello della vec-
chia sovranità cede il posto ad una logica fondata non più su una certa conce-
zione verticale, bensì trasversale. Se il potere ha potuto fondersi ed interessarsi
alla quotidianità della vita è perché: esso non è più in una posizione di esteriorità,
la relazione tra forze non risponde, come in precedenza, alla modalità del „pre-
lievo‟ e dal dare la morte. Diversamente, le società disciplinari sono caratteriz-
zate da una forma di potere molecolare, microfisico, “disseminato in ogni dove”
che opera a livello della vita in termini di gestione del corpo sociale, e che vede
nella figura dell‟infame un elemento di disturbo per la sopravvivenza dell‟in-
sieme. Si tratta di uno strano dispositivo, dove gli individui non interpretano il
558 Recensioni
ruolo di semplici ricettori immobili, sui quali il potere si abbatte con i suoi attri-
buti negativi e repressivi; quest‟ultimo scorre nel corpo sociale, crea un immen-
so reticolato dove gli individui non sono nient‟altro che punti di raccordo e di
congiunzione, che ne permettono il movimento. L‟infamia descritta da Foucault,
lontana da ogni forma di „fama universale‟, sembra delineare piuttosto una parti-
colare condizione; quella di un uomo „condannato‟ a rinvenire il suo destino, e
il suo momento di maggiore intensità, nell‟inevitabile collisione con il potere e
con il suo discorso, capace di crearlo come sujet referente nell‟atto stesso di no-
minarlo.
La vita degli uomini infami sembra ricondurre alle conclusioni de La volontà di
sapere: esiste solo un monismo del potere, ci sono rapporti di forza dove il sog-
getto si appalesa come un residuo, un derivato di quello che si dice e di quello
che si vede. Questa impasse, lo si sa, è il preludio ad un lungo silenzio durato otto
anni, una nuova frattura nella riflessione del filosofo francese. Scorgere un al di
là del potere, una via d‟uscita che apra, come direbbe Deleuze, «ad una dimen-
sione della soggettività che deriva dal potere e dal sapere, ma non ne dipende»*,
diventa il centro gravitazionale attorno al quale ruoterà l‟ultima fase della rifles-
sione foucaultiana, pensiero della soggettivazione, o della cosiddetta «estetica del-
l‟esistenza».
La nuova edizione de La vita degli uomini infami non apporta sostanziali novità
rispetto alla prima versione italiana contenuta nel secondo dei tre volumi costi-
tuenti l‟Archivio Foucault, una raccolta di interventi, colloqui ed interviste dal
1961 al 1985 edita da Feltrinelli. Al di là di una puntuale postfazione a cura di
Remo Bodei, manca ogni riferimento alla vicenda bibliografica del testo. Il pro-
getto iniziale, un‟antologia di cui il presente testo doveva essere l‟introduzione,
si declinò in altre iniziative editoriali; prima fra tutte “Les vies parallèles”, col-
lezione nella quale Foucault pubblicò le memorie di Herculine Barbin e Le cercle
amoureux d’Henri Legrand. Mentre del 1982 è la pubblicazione di Le désordre des fa-
milles, lavoro a quattro mani tra Michel Foucault e Arlette Farge dedicato alle
lettres des cachet. Accogliamo comunque positivamente questa nuova edizione, se
non altro, con la speranza che possa contribuire alla diffusione di un testo che fi-
nora è stato ingiustamente sottratto alla visibilità che compete al capolavoro.
GIUSEPPE SCALERCIO
* G. DELEUZE, Foucault, a cura di P.A. Rovatti e F. Sossi, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 135.
Bollettino Filosofico
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bliografica: 1) senza bibliografia finale; 2) con bibliografia finale.
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BEHAN (2000a, pp. 528–541).
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In entrambe le modalità di citazione bibliografica, l‟autore potrà fare uso, se
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Finito di stampare nel mese di luglio del 2010
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Usomano bianca Selena 80 g/m2
ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura