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MATERIALE BIBLIOGRAFICO

RECENSIONI

Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers», con


testo originale a fronte, prefazione e cura di Olivia Guaraldo, Genova-Milano,
Marietti, 2006, pp. 86.

In occasione del primo centenario della nascita di Hannah Arendt, Olivia


Guaraldo ripropone al pubblico italiano La menzogna in politica, tradotto per
la prima volta in una raccolta ormai introvabile a cura di Paolo Flores D’Arcais
(Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985), che comprendeva anche i due
saggi del 1970 Sulla violenza e La disobbedienza civile.
Come emerge nella densa Prefazione della Curatrice, che intreccia sapien-
temente i percorsi filosofici e politici del pensiero arendtiano, La menzogna in
politica testimonia la sensibilità di un’intellettuale che non fu mai sostenitrice
acritica della «leggenda americana». L’ultima Arendt, in particolare, partecipò
in più occasioni al dibattito culturale su politica e democrazia negli Stati Uniti
e, nel 1971, l’occasione per un articolato intervento le fu data dal cosiddetto
«scandalo dei Pentagon Papers».
Nel giugno del 1971, il «New York Times» decideva di dare alle stampe
ampi estratti commentati di un rapporto top secret che ricostruiva la Storia del
processo decisionale statunitense sulla politica in Vietnam. Il rapporto, lungo 46
volumi, era frutto di una ricerca commissionata nel 1967 a un gruppo di esperti
dal Sottosegretario alla Difesa Robert S. Mc Namara, che di lì a poco avrebbe
lasciato il Pentagono in dissenso con le scelte del Presidente Johnson.
L’impatto dei «Pentagon Papers» sull’opinione pubblica americana fu
molto forte e l’attenzione degli intellettuali, tra i quali Hannah Arendt e Noam
Chomsky, si concentrò immediatamente sulle conferme che venivano date ai
critici della guerra in Vietnam: fin dal 1950 le valutazioni dei servizi america-
ni di informazione, a partire dalla CIA, avevano realisticamente analizzato e
previsto le gravi difficoltà che il conflitto avrebbe comportato. Come osserva
in un’intervista Daniel Ellsberg, uno dei trentasei esperti della commissione,
«questo fatto poneva un importante interrogativo. Come si era potuto verifica-
re che tutta una serie di Presidenti fossero stati indotti ad accrescere il nostro
impegno, o anche solo a mantenerlo, quando veniva loro ripetuto dai rapporti
dei servizi di informazione che quello che stavano facendo sarebbe stato inade-
guato per conseguire qualsiasi tipo di successo e avrebbe potuto portare solo
a un nostro ritiro nel futuro o a un ulteriore allargamento della guerra? Perché
i Presidenti, secondo tutte le apparenze, non avevano tenuto conto di queste
informazioni?» (cit. da S. Borelli, Introduzione a N. Sheehan – H. Smith – E.W.

FILOSOFIA POLITICA / a. XXII, n. 1, aprile 2008


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Kenworthy – F. Butterfield, I documenti del Pentagono. La storia segreta della


guerra nel Vietnam, Milano, Garzanti, 1971, 2 voll.).
Olivia Guaraldo suggerisce la direzione in cui potremmo muoverci, con
Hannah Arendt, per rispondere alla domanda di Ellsberg. In primo luogo non
ci sono elementi per ritenere, con Noam Chomsky, che Arendt sottovalutasse
l’atteggiamento imperialista degli Stati Uniti (cfr. N. Chomsky, The Pentagon
Papers and U.S. Imperialism in South East Asia, in «The Spokesman», 1972/73).
Nel saggio arendtiano questo tema è assente perché l’autrice non si interro-
ga sulle motivazioni originarie della guerra in Vietnam, ma sulle ragioni di un
coinvolgimento così protratto in un conflitto che anno dopo anno si rivelava,
secondo le stesse indicazioni dei servizi segreti, sempre più fallimentare. Perché
le scelte del Pentagono non avevano tenuto conto di quelle indicazioni? Perché
i governi che si erano succeduti nella gestione della guerra avevano continuato
a mentire all’opinione pubblica in merito all’andamento del conflitto, attraver-
so una costante manipolazione dei dati e delle informazioni disponibili?
In secondo luogo occorre problematizzare, come Arendt fa a partire dal
titolo del suo intervento, il rapporto tra politica, verità e menzogna (Verità e
politica è, d’altra parte, il titolo di un saggio arendtiano del 1967; ma la que-
stione attraversa il pensiero dell’autrice da Le origini del totalitarismo fino alle
Lezioni sulla filosofia politica di Kant, pubblicate postume e tradotte in Italia
con il titolo Teoria del giudizio politico). Arendt è ben lontana dal condannare
sic et simpliciter la menzogna in favore della verità: se la politica è l’ambito del
cambiamento o della libertà intesa come possibilità di «nuovi inizi», la menzo-
gna, in quanto frutto dell’immaginazione e forzatura del reale, rappresenta essa
stessa una forma di libertà. D’altra parte, fatti ed eventi rappresentano il vinco-
lo con cui la libertà di «dare inizio a qualcosa di nuovo» deve confrontarsi: fatti
ed eventi non possono essere negati senza incontrare resistenze, né tantomeno
senza conseguenze.
Potremmo dunque ipotizzare, stando alle premesse della riflessione
arendtiana, che esistono una fisiologia e una patologia della menzogna in po-
litica. E, se è vero che il «patologico» non è negazione ma amplificazione del
«normale», dovremmo concludere con Arendt che la menzogna si rivela incom-
patibile con la politica quando persegue sogni di onnipotenza: quando – come
osserva Olivia Guaraldo – «la menzogna mira a sostituire sistematicamente la
realtà, e la contingenza viene rimpiazzata da una implausibile coerenza» (p.
XIV). Nel caso del Vietnam, secondo Hannah Arendt, i vari Presidenti degli
Stati Uniti si erano mossi proprio in questo senso, finendo per fare qualcosa di
più che mentire all’opinione pubblica: essi avevano mentito anche a se stessi.
Nel tentativo di «adattare la loro realtà – che, dopotutto, è stata creata dagli
uomini e può sempre essere altrimenti – alla loro teoria», avevano finito per
credere ciecamente nelle teorie e nelle previsioni ottimistiche che i problem
solvers, gli esperti di strategia del Pentagono, erano stati incaricati di elabo-
rare anche a costo di manipolazioni palesi e pesanti delle informazioni fornite
dall’intelligence.
Per Hannah Arendt, il problema del rapporto tra politica e menzogna ri-
guarda il rischio dell’autoinganno prima e ancor più dell’esercizio deliberato
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dell’arte di ingannare. Verità e Politica cita a questo proposito l’aneddoto me-


dievale di una sentinella che, dopo aver lanciato per gioco l’allarme, finisce per
correre in difesa delle mura insieme alla folla spaventata. Arendt afferma, a tal
riguardo, che è difficile mentire agli altri senza mentire anche a se stessi, perché
«la nostra apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mon-
do con gli altri». Ma in La menzogna in politica la questione si complica: coloro
che elaborarono scelte e strategie tese a giustificare la permanenza in Vietnam
sarebbero caduti nell’autoinganno perché reclusi nella «torre d’avorio» degli
ambienti governativi, sordi alle critiche provenienti dalla società e ciechi di
fronte ai fatti documentati dai servizi segreti. L’incapacità di padroneggiare
menzogne da noi stessi prodotte avrebbe dunque a che fare non con una ge-
nerica pressione psicologica di gruppo, ma con le modalità di organizzazione
e con le dinamiche di funzionamento dei contesti sociali. Questa è, del resto,
la tesi che Arendt aveva implicitamente sostenuto in Le origini del totalitari-
smo, quando aveva dipinto la struttura «a cipolla» del regime nazista. In una
società totalitaria, ogni strato sociale sarebbe collocato tra una serie di strati
interni sempre più estremisti, perché sempre più vicini al nucleo del potere,
e una serie di strati esterni sempre più moderati, fino ad arrivare all’ampia
fascia esterna degli «innocui simpatizzanti» in grado di svolgere un duplice
ruolo: «di facciata» per il mondo non totalitario, e di «protezione dall’urto del-
la realtà» (dall’impatto con versioni del reale diverse dalla versione di regime)
per il mondo totalitario. L’unica via d’uscita da una situazione di questo tipo
si trovava, per Arendt, nell’impossibilità di forme di isolamento totale di un
gruppo sociale dal mondo esterno: per quanto raffinate possano essere le tecni-
che e le organizzazioni preposte alla costruzione dell’isolamento, per quanto si
ostacoli il confronto con altre versioni del reale, finendo per favorire fenomeni
di autoinganno, un controllo onnisciente della rete delle relazioni umane non
appare facilmente realizzabile («nel nostro attuale sistema di comunicazione
mondiale, che copre un gran numero di nazioni indipendenti, nessun potere
esistente è abbastanza grande da rendere la sua ‘immagine’ infallibile»: cit. da
H. Arendt, Verità e politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 67).
La domanda sull’attualità della riflessione arendtiana si rivela chiaramente
inevitabile. Olivia Guaraldo, evocando le più recenti menzogne politiche chia-
mate a giustificare la guerra in Iraq («le armi di distruzione di massa») e un bel
saggio di Simona Forti sugli Spettri della totalità (in «Micromega», 2003, n.
5), sottolinea giustamente alcune differenze che si presentano nella situazione
attuale: «oggi, anche di fronte allo svelamento delle menzogne, l’opinione pub-
blica non si indigna, come se oggi, a differenza di allora, fossimo di fronte ad
una costruzione molto più efficace, molto più riuscita, di un reticolo di finzioni
che sostituisce la realtà. Come se, in altri termini, la fiduciosa convinzione di
Arendt, per la quale nessuna finzione è tanto grande da occultare in maniera
totale – e politicamente efficace – la realtà, fosse davvero svanita nel nulla,
proprio perché ciò a cui oggi assistiamo è l’efficacia politica delle finzioni –
ideologiche e mediatiche – pur di fronte allo svelamento della loro falsità» (p.
XXXIII). Anche nel caso di La menzogna in politica, come talvolta accade leg-
gendo le pagine di Arendt, si ha l’impressione che intuizioni originali e degne
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di grande interesse fatichino a raggiungere un adeguato grado di elaborazione


teorica. Quel che è certo, tuttavia, è che a partire dalla vicenda dei «Pentagon
Papers» Arendt allude alla necessità di una teoria critica delle forme di ingan-
no e autoinganno nella dimensione politica. A questo proposito, dovremmo
probabilmente interrogarci sul significato dell’autoinganno anche a partire da
una distinzione che Kant aveva ben chiara, ma di cui la filosofia politica ha
raramente tenuto conto: la differenza che passa tra ciò che illude (le cose in cui
continuiamo a credere, in qualche modo, anche quando diveniamo coscienti
che si tratta di illusioni) e ciò che inganna (le cose in cui, una volta scoperto il
«trucco», non crediamo più). Per dirla in termini non arendtiani, occorrerebbe
indagare la soglia cognitiva che avvicina e distingue autonomia ed eterono-
mia: in contesti come quelli democratici, entro i quali la verità è sempre in
gioco poiché nessuno ne è considerato a priori il detentore, i «nuovi inizi»
legati all’apprendimento, alla critica, al gioco delle relazioni politiche e sociali
non sorgono da una semplicistica contrapposizione tra verità e menzogna; essi
muovono piuttosto da giochi di opinione e credenza, da un’interazione che per
definizione amplifica i giochi di inganno e illusione in quanto manifestazioni
della libertà umana. Il problema, in tal senso, è come evitare che questo libero
gioco intraprenda le strade totalizzanti e senza uscita dell’autoinganno: come
riformulare, forse, la questione dell’ideologia in contesti democratici.

Ilaria Possenti

Joan C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura,
edizione italiana a cura di Alessandra Facchi, Reggio Emilia, Diabasis, 2006,
pp. 208.

Joan C. Tronto – docente di Political Science e Women’s Studies presso


l’Hunter College della City University di New York – analizza con rigore logi-
co, in questo testo, l’esistenza di confini morali che operano una riduzione epi-
stemologica nelle riflessioni di filosofia morale e politica. Tronto appartiene alla
tradizione del «secondo femminismo» americano che, dopo le rivendicazioni
volte al raggiungimento dell’uguaglianza, abbraccia le tematiche della differen-
za di genere come paradigma per un ripensamento dell’alterità nei diversi modi
in cui essa si presenta.
I confini morali di cui parla Joan Tronto nella sua opera principale, ora tra-
dotta in italiano (l’edizione originale è del 1993: Moral Boundaries. A Political
Argument for an Ethic of Care, London-New York, Routledge) sono tre, ed è
attorno a essi, essenzialmente, che ruota la trattazione sviluppata dall’Autrice.
In primo luogo, la separazione tra morale e politica: considerata oggi come
una necessità, questa separazione è una costruzione intellettuale del pensiero
moderno, che nasce nel XVIII secolo e che quindi va vista in riferimento a
quel particolare contesto storico. «Considerare la politica e la morale come
ambiti separati della vita rende estremamente difficile che gli argomenti morali
possano acquisire molto potere politico» (p. 13). Secondo l’Autrice, nel XVIII
secolo avvenne una profonda trasformazione della società, che dovette ade-
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guarsi a un mondo geograficamente vasto e orientato al mercato, che richiedeva


l’adeguamento a norme morali tali da poter essere rispettate da tutti e quindi
avere un fondamento universale e razionale. La morale universalistica si adatta
perfettamente a una società nella quale è difficile gestire le differenze e le di-
stanze; nel tempo molti filosofi e pensatori hanno recepito le categorie morali
kantiane, derivate dalla ragione umana e prive di connessioni con la società e
la politica (per questa lettura interpretativa, cfr., tra gli altri, A. MacIntyre, A
Short History of Ethics, London, Routledge, 19982). Tronto non intende, con
questo, affermare che la prospettiva universalistica sia inadeguata o errata, ma
che essa è una costruzione intellettuale e va considerata in quanto tale e non
come una verità incontrovertibile. Gli approcci contestuali – a partire dalla
teoria morale e politica di Aristotele – ricordano, invece, che la morale dipende
fortemente dal contesto e che solo una condivisione di vita comunitaria può
definire effettivamente il bene comune. Tronto tocca qui uno dei punti critici
delle teorie della giustizia, quello della definizione del bene comune. Le teorie
della giustizia, anche quelle fondate sull’etica del discorso, faticano nel compito
di rifondare il bene comune in modo che sia davvero efficace al fine di riattivare
processi politici e di impegno sociale, poiché esse partono dal presupposto che
il bene comune derivi dagli sforzi dei singoli nel perseguire il loro bene privato.
Le problematiche che attraversano la società occidentale richiedono, invece,
di ripensare la validità di questa separazione. La distinzione tra giustizia e vita
buona è connessa con la restrizione del campo morale a questioni di giustizia,
così come l’ideale di autonomia morale in queste teorie ha come conseguenza la
privatizzazione dell’esperienza delle donne e implica una cecità epistemologica
nei confronti dell’altro concreto. La conseguenza di questa cecità è una carenza
strutturale delle teorie morali universalistiche in quanto esse definiscono l’acco-
glimento del punto di vista dell’altro come essenziale al punto di vista morale.
Il secondo confine analizzato è quello del «punto di vista morale», cioè la
convinzione che i giudizi morali debbano essere formulati da un punto di vista
distante e disinteressato. Ritorna nuovamente la lezione kantiana: per essere
morali bisogna essere non coinvolti e disinteressati, concentrarsi sulla natura
del ragionamento morale e non su come le persone possano concretamente
agire in modo morale. Di contro, tutte le etiche che si preoccupano di salva-
guardare le relazioni e i sentimenti appaiono come inferiori. Il rischio di que-
sta posizione, secondo l’Autrice, è quello di relegare l’altro in un mondo solo
immaginato, dove ogni individuo è pensato in modo distante e disinteressato e
perde ogni caratteristica concreta, il suo essere in carne ed ossa.
È necessario non giustapporre l’altro generalizzato all’altro concreto, o ve-
dere la validità normativa solo nell’uno o nell’altro. La «posizione originaria»
di Rawls illustra una concezione della giustizia come lontananza, ma in questa
posizione gli altri ci sono resi inaccessibili. Innanzitutto la metafora della po-
sizione originaria non tiene conto che ci portiamo sempre appresso i pregiu-
dizi e le assunzioni che abbiamo riguardo gli altri. E poi, anche ammettendo
che questi pregiudizi possano essere disattivati sotto il «velo di ignoranza» in
modo da creare una perfetta simmetria di relazioni, l’alterità rimane una sorta
di fantasma creato a nostra immagine e somiglianza. Questo è il reale pericolo:
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non confrontarsi realmente con l’alterità dell’altro. Solo un dialogo morale re-
almente aperto e riflessivo e che non funzioni con inutili restrizioni epistemiche
può indurre a una comprensione reciproca dell’alterità. Né la concretezza né
l’alterità dell’altro concreto possono essere conosciute nell’assenza della voce
dell’altro. La prospettiva dell’altro concreto emerge così come una prospettiva
distinta e innovativa in quanto la voce dell’altro è ascoltata come risultato di
un’autodefinizione, e non immaginata come risultato di un’astrazione che crea
una falsa uguaglianza.
L’ultimo confine analizzato da Tronto è quello tra vita pubblica e vita priva-
ta: esso viene criticato, in modo particolare, dal pensiero femminile che mette
in evidenza come le donne siano sempre state relegate nell’ambito del privato
e del domestico. Al contrario, il compito politico della donna è – primaria-
mente – quello di ricordare e riconoscere l’eticità della relazione, del debito e
del dono che ci lega reciprocamente, riconoscere la giustizia della vita buona.
Allora la donna non sarà più, hegelianamente, «l’eterna ironia della comunità»
(Fenomenologia dello Spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1970, II, p. 34), ma sarà
l’utopia della comunità, della società, con il compito di ricordare che la felicità
è una promessa da mantenere.
Condividendo questa tradizione di pensiero femminile, in Confini morali,
Tronto riprende la storica querelle Kohlberg-Gilligan, esemplare nel mettere
a confronto due prospettive diverse, o meglio, due voci diverse (cfr. C. Gil-
ligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development,
Cambridge Mass., Harvard University Press, 1982; tr. it. Con voce di donna:
etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1991). La concezione
di Kohlberg del dominio morale è basata su una forte differenziazione fra
giustizia e vita buona. Questa è anche una delle pietre miliari della sua critica
alla Gilligan (cfr. L. Kohlberg, Sinopses and Detailed Replies to Critics, in Id.,
Essays on Moral Development, San Francisco, Harper and Row, 1984). Secon-
do Kohlberg, le dimensioni di fratellanza, amore, amicizia e tutto ciò che ri-
guarda la cura appartengono all’ambito della decisione personale, intenden-
do «personale» come «privato», «soggettivo» opposto a «morale» e, quindi,
pubblico e universalizzabile. Osserva Tronto a questo proposito: «la teoria di
Kohlberg postula lo sviluppo di un io fungibile che può assumere il ruolo di
chiunque in un dato dilemma morale. Benhabib ha chiamato questa capacità
l’abilità dell’io di divenire l’altro generalizzato. […] Benhabib ha notato che
tale abilità generalizzata di rispondere alle situazioni degli altri ignora dimen-
sioni importanti della vita umana e perciò non è tanto utile quanto Kohlberg
e i suoi seguaci hanno sostenuto» (p. 82). Le teorie che fanno riferimento a
un altro generalizzato non riescono a risolvere il problema dell’alterità e della
reciprocità dell’impegno, che presuppone l’assunzione di ruoli sociali diversi
e, quindi, la partecipazione a un gruppo, l’instaurarsi di relazioni significative
e anche il conflitto con un’alterità che rimane impermeabile a ogni tentativo
di assimilazione. Kohlberg, quindi, fa riferimento a una definizione della mo-
ralità che – secondo questa prospettiva d’analisi – inizia con Hobbes, e che
porta ad una separazione radicale tra pubblico e privato, definendo il diritto
come ciò che è razionalmente desiderato per ottenere pace civile e prosperità
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(la lezione di Locke) o come una forma razionale della morale autonomamen-
te considerata (la lezione di Kant).
L’obiettivo dell’autrice è dunque quello di un ripensamento critico di questi
confini in modo da evidenziare chi viene escluso dal potere e chi viene incluso
nell’idea di alterità egemone nelle società occidentali. Trattare moralmente gli
altri come distanti e simili a noi è un paradosso dell’atomismo individualistico
che ci fa applicare le conclusioni dei nostri ragionamenti a un altro indistinto
che ha perso ogni sua specifica identità. L’avvertimento dell’Autrice è che biso-
gna affrontare le questioni della distanza e dell’alterità in un contesto di insie-
me, facendo emergere la vera alterità dell’altro e non un suo fantasma generato
dall’astrazione di ogni differenza in nome dell’uguaglianza. Quando, per risol-
vere i conflitti, si fa appello ai principi, si soffoca la tendenza ben più apprezza-
bile a elaborare soluzioni capaci di superare i conflitti stessi. Secondo Tronto,
quando una persona è impegnata a risolvere un conflitto in termini di giustizia,
prende le distanze dalla situazione, si pone dal punto di vista dell’osservatore
neutrale e fa appello alle regole o a un principio per pronunciarsi sulle pretese
contrastanti delle persone. Quando, invece, le persone ragionano nei termini
dell’etica della cura e della salvaguardia della rete di relazioni interpersonali,
per risolvere un conflitto, si calano nella situazione impegnandosi a scoprire o
a creare un modo per rispondere a tutti i bisogni in gioco.
Tronto sottolinea la precarietà di una concezione puramente «politica»
della società giusta che se, da un lato, come ha cercato di dimostrare Rawls, è
la condizione per la coesistenza e la collaborazione in un contesto frammenta-
to dal pluralismo morale, dall’altra non assicura un adeguato riconoscimento
delle motivazioni e dei bisogni. La concezione puramente politica è certamente
il luogo della tolleranza, ma non assicura l’«interdipendenza» tra le persone,
cioè la necessità che il bene di ognuno possa essere riconosciuto come il bene
comune. La necessaria pluralità deve ritrovare una ricomposizione «nella con-
divisione delle forme fondamentali del bene» (così S. Zamagni, Economia, de-
mocrazia, istituzioni in una società in trasformazione, Bologna, Il Mulino, 1997,
p. 19), assicurata dai diritti umani, i soli a garantire oggi un’etica universale e
– in quest’ottica – il diritto di partecipazione ai discorsi che generano le norme
ci appare come una dimensione fondamentale dell’esercizio di tutti i diritti. La
partecipazione politica nasce dalla partecipazione sociale e dall’allargamento
delle responsabilità, e questa partecipazione è un diritto ma anche un dovere.
Tronto considera come essenziale per la partecipazione politica l’acquisizione
di una mentalità allargata e di un’etica comunicativa di interpretazione di bi-
sogni. È necessario, quindi, chiarire che la distinzione tra le due prospettive,
quella dell’«etica della giustizia» e quella dell’«etica della cura», non è pre-
scrittiva, ma critica. L’obiettivo di Tronto non è, tuttavia, quello di prescrivere
una teoria basata sul concetto di cura. La dignità e il valore delle teorie della
giustizia sono una condizione necessaria ma non sufficiente per definire il pun-
to di vista morale nelle società moderne. In questo senso la cura è un concetto
critico che delinea i limiti ideologici del discorso universalistico. Non si deve
interpretare la cura come particolare e la giustizia come universale, creando uno
falsa dicotomia: «Una teoria della cura è incompleta a meno di non essere an-
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che inserita in una teoria della giustizia, […] tuttavia la giustizia senza un’idea
della cura è incompleta» (p. 186).
Il problema sorge quando dobbiamo adottare un criterio per verificare se
tutti i bisogni sono legittimi e se è possibile comporre le esigenze di tutti. E, nel
tentare di fare questo, dovremo certo avere come riferimento dei principi, ma
dovremo usare il dialogo, la comprensione reciproca, l’ascolto. La cura dà spa-
zio ad una pratica relazionale creativa perché aperta, laddove la giustizia offre
dei diritti che possono essere usati solo come degli scudi per difendersi o per
tracciare dei confini. La cura rappresenta un ponte verso l’altro. Ma è anche un
rivelare i nostri bisogni e la nostra vulnerabilità.
L’etica della cura non è indifferente, quindi, alle esigenze dell’universalità
e, in questo, sembra essere vicina al punto di vista dell’osservatore imparziale
della teoria kantiana e rawlsiana. La sfida che essa lancia è se sia possibile una
teoria in cui l’attore morale, pur ragionando nel contesto e pur occupandosi del
bisogno dell’altro concreto, sia però tendente all’universalità.
La portata innovativa delle tesi di Tronto sta nel considerare la pratica della
cura come un’idea già in sé politica e nel portare l’attenzione al fatto che oggi
la cura è entrata nel mondo del lavoro e del business, ma è anche connessa allo
sfruttamento di chi si occupa concretamente delle attività di cura: «La nostra
società non si rende conto dell’importanza della cura e della qualità morale
della sua pratica, quindi svalutiamo il lavoro delle donne e dei gruppi privi di
potere che se ne occupano» (p. 186). La riflessione di Tronto diviene dunque
essenziale, su un piano più propriamente istituzionale, per ripensare le moda-
lità di attuazione dei sistemi di Welfare, la concezione della cittadinanza e del
potere: «La cura come concetto politico richiede che noi riconosciamo come la
cura segni le relazioni di potere nella nostra società e le intersezioni di genere,
razza e classe con il prestare cura» (p. 188).
Certo la cura non è esente da rischi come il «paternalismo/maternalismo»
o il «particolarismo» (cfr. pp. 189-191), ma proprio per evitare di incorrere in
questi pericoli è necessario integrarla con una teoria della giustizia: «per rende-
re la cura democratica ci si dovrebbe basare su due elementi della teoria della
cura che ho già menzionato: la sua concentrazione sui bisogni e l’equilibrio tra
chi presta e chi riceve cura» (p. 190). Tronto fa così chiaramente trasparire la
sua passione per una teoria filosofica che non sia disgiunta dalla prassi e da una
forte attenzione alla storicità delle realtà sociale.
Esiste una tensione dialettica ma, a ben vedere, anche creativa tra con-
cezioni universalistiche e visioni più particolaristiche del legame con gli altri.
Alla luce di una possibile connessione, l’universalismo della teoria della cura
potrebbe essere allora definito come tensione a estendere il senso di responsa-
bilità e a mantenere e coltivare le relazioni, evitando di imporre l’imparzialità a
spese dei legami in atto.

Cristina Boeris

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