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RECENSIONI
Ilaria Possenti
Joan C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura,
edizione italiana a cura di Alessandra Facchi, Reggio Emilia, Diabasis, 2006,
pp. 208.
non confrontarsi realmente con l’alterità dell’altro. Solo un dialogo morale re-
almente aperto e riflessivo e che non funzioni con inutili restrizioni epistemiche
può indurre a una comprensione reciproca dell’alterità. Né la concretezza né
l’alterità dell’altro concreto possono essere conosciute nell’assenza della voce
dell’altro. La prospettiva dell’altro concreto emerge così come una prospettiva
distinta e innovativa in quanto la voce dell’altro è ascoltata come risultato di
un’autodefinizione, e non immaginata come risultato di un’astrazione che crea
una falsa uguaglianza.
L’ultimo confine analizzato da Tronto è quello tra vita pubblica e vita priva-
ta: esso viene criticato, in modo particolare, dal pensiero femminile che mette
in evidenza come le donne siano sempre state relegate nell’ambito del privato
e del domestico. Al contrario, il compito politico della donna è – primaria-
mente – quello di ricordare e riconoscere l’eticità della relazione, del debito e
del dono che ci lega reciprocamente, riconoscere la giustizia della vita buona.
Allora la donna non sarà più, hegelianamente, «l’eterna ironia della comunità»
(Fenomenologia dello Spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1970, II, p. 34), ma sarà
l’utopia della comunità, della società, con il compito di ricordare che la felicità
è una promessa da mantenere.
Condividendo questa tradizione di pensiero femminile, in Confini morali,
Tronto riprende la storica querelle Kohlberg-Gilligan, esemplare nel mettere
a confronto due prospettive diverse, o meglio, due voci diverse (cfr. C. Gil-
ligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development,
Cambridge Mass., Harvard University Press, 1982; tr. it. Con voce di donna:
etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1991). La concezione
di Kohlberg del dominio morale è basata su una forte differenziazione fra
giustizia e vita buona. Questa è anche una delle pietre miliari della sua critica
alla Gilligan (cfr. L. Kohlberg, Sinopses and Detailed Replies to Critics, in Id.,
Essays on Moral Development, San Francisco, Harper and Row, 1984). Secon-
do Kohlberg, le dimensioni di fratellanza, amore, amicizia e tutto ciò che ri-
guarda la cura appartengono all’ambito della decisione personale, intenden-
do «personale» come «privato», «soggettivo» opposto a «morale» e, quindi,
pubblico e universalizzabile. Osserva Tronto a questo proposito: «la teoria di
Kohlberg postula lo sviluppo di un io fungibile che può assumere il ruolo di
chiunque in un dato dilemma morale. Benhabib ha chiamato questa capacità
l’abilità dell’io di divenire l’altro generalizzato. […] Benhabib ha notato che
tale abilità generalizzata di rispondere alle situazioni degli altri ignora dimen-
sioni importanti della vita umana e perciò non è tanto utile quanto Kohlberg
e i suoi seguaci hanno sostenuto» (p. 82). Le teorie che fanno riferimento a
un altro generalizzato non riescono a risolvere il problema dell’alterità e della
reciprocità dell’impegno, che presuppone l’assunzione di ruoli sociali diversi
e, quindi, la partecipazione a un gruppo, l’instaurarsi di relazioni significative
e anche il conflitto con un’alterità che rimane impermeabile a ogni tentativo
di assimilazione. Kohlberg, quindi, fa riferimento a una definizione della mo-
ralità che – secondo questa prospettiva d’analisi – inizia con Hobbes, e che
porta ad una separazione radicale tra pubblico e privato, definendo il diritto
come ciò che è razionalmente desiderato per ottenere pace civile e prosperità
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(la lezione di Locke) o come una forma razionale della morale autonomamen-
te considerata (la lezione di Kant).
L’obiettivo dell’autrice è dunque quello di un ripensamento critico di questi
confini in modo da evidenziare chi viene escluso dal potere e chi viene incluso
nell’idea di alterità egemone nelle società occidentali. Trattare moralmente gli
altri come distanti e simili a noi è un paradosso dell’atomismo individualistico
che ci fa applicare le conclusioni dei nostri ragionamenti a un altro indistinto
che ha perso ogni sua specifica identità. L’avvertimento dell’Autrice è che biso-
gna affrontare le questioni della distanza e dell’alterità in un contesto di insie-
me, facendo emergere la vera alterità dell’altro e non un suo fantasma generato
dall’astrazione di ogni differenza in nome dell’uguaglianza. Quando, per risol-
vere i conflitti, si fa appello ai principi, si soffoca la tendenza ben più apprezza-
bile a elaborare soluzioni capaci di superare i conflitti stessi. Secondo Tronto,
quando una persona è impegnata a risolvere un conflitto in termini di giustizia,
prende le distanze dalla situazione, si pone dal punto di vista dell’osservatore
neutrale e fa appello alle regole o a un principio per pronunciarsi sulle pretese
contrastanti delle persone. Quando, invece, le persone ragionano nei termini
dell’etica della cura e della salvaguardia della rete di relazioni interpersonali,
per risolvere un conflitto, si calano nella situazione impegnandosi a scoprire o
a creare un modo per rispondere a tutti i bisogni in gioco.
Tronto sottolinea la precarietà di una concezione puramente «politica»
della società giusta che se, da un lato, come ha cercato di dimostrare Rawls, è
la condizione per la coesistenza e la collaborazione in un contesto frammenta-
to dal pluralismo morale, dall’altra non assicura un adeguato riconoscimento
delle motivazioni e dei bisogni. La concezione puramente politica è certamente
il luogo della tolleranza, ma non assicura l’«interdipendenza» tra le persone,
cioè la necessità che il bene di ognuno possa essere riconosciuto come il bene
comune. La necessaria pluralità deve ritrovare una ricomposizione «nella con-
divisione delle forme fondamentali del bene» (così S. Zamagni, Economia, de-
mocrazia, istituzioni in una società in trasformazione, Bologna, Il Mulino, 1997,
p. 19), assicurata dai diritti umani, i soli a garantire oggi un’etica universale e
– in quest’ottica – il diritto di partecipazione ai discorsi che generano le norme
ci appare come una dimensione fondamentale dell’esercizio di tutti i diritti. La
partecipazione politica nasce dalla partecipazione sociale e dall’allargamento
delle responsabilità, e questa partecipazione è un diritto ma anche un dovere.
Tronto considera come essenziale per la partecipazione politica l’acquisizione
di una mentalità allargata e di un’etica comunicativa di interpretazione di bi-
sogni. È necessario, quindi, chiarire che la distinzione tra le due prospettive,
quella dell’«etica della giustizia» e quella dell’«etica della cura», non è pre-
scrittiva, ma critica. L’obiettivo di Tronto non è, tuttavia, quello di prescrivere
una teoria basata sul concetto di cura. La dignità e il valore delle teorie della
giustizia sono una condizione necessaria ma non sufficiente per definire il pun-
to di vista morale nelle società moderne. In questo senso la cura è un concetto
critico che delinea i limiti ideologici del discorso universalistico. Non si deve
interpretare la cura come particolare e la giustizia come universale, creando uno
falsa dicotomia: «Una teoria della cura è incompleta a meno di non essere an-
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che inserita in una teoria della giustizia, […] tuttavia la giustizia senza un’idea
della cura è incompleta» (p. 186).
Il problema sorge quando dobbiamo adottare un criterio per verificare se
tutti i bisogni sono legittimi e se è possibile comporre le esigenze di tutti. E, nel
tentare di fare questo, dovremo certo avere come riferimento dei principi, ma
dovremo usare il dialogo, la comprensione reciproca, l’ascolto. La cura dà spa-
zio ad una pratica relazionale creativa perché aperta, laddove la giustizia offre
dei diritti che possono essere usati solo come degli scudi per difendersi o per
tracciare dei confini. La cura rappresenta un ponte verso l’altro. Ma è anche un
rivelare i nostri bisogni e la nostra vulnerabilità.
L’etica della cura non è indifferente, quindi, alle esigenze dell’universalità
e, in questo, sembra essere vicina al punto di vista dell’osservatore imparziale
della teoria kantiana e rawlsiana. La sfida che essa lancia è se sia possibile una
teoria in cui l’attore morale, pur ragionando nel contesto e pur occupandosi del
bisogno dell’altro concreto, sia però tendente all’universalità.
La portata innovativa delle tesi di Tronto sta nel considerare la pratica della
cura come un’idea già in sé politica e nel portare l’attenzione al fatto che oggi
la cura è entrata nel mondo del lavoro e del business, ma è anche connessa allo
sfruttamento di chi si occupa concretamente delle attività di cura: «La nostra
società non si rende conto dell’importanza della cura e della qualità morale
della sua pratica, quindi svalutiamo il lavoro delle donne e dei gruppi privi di
potere che se ne occupano» (p. 186). La riflessione di Tronto diviene dunque
essenziale, su un piano più propriamente istituzionale, per ripensare le moda-
lità di attuazione dei sistemi di Welfare, la concezione della cittadinanza e del
potere: «La cura come concetto politico richiede che noi riconosciamo come la
cura segni le relazioni di potere nella nostra società e le intersezioni di genere,
razza e classe con il prestare cura» (p. 188).
Certo la cura non è esente da rischi come il «paternalismo/maternalismo»
o il «particolarismo» (cfr. pp. 189-191), ma proprio per evitare di incorrere in
questi pericoli è necessario integrarla con una teoria della giustizia: «per rende-
re la cura democratica ci si dovrebbe basare su due elementi della teoria della
cura che ho già menzionato: la sua concentrazione sui bisogni e l’equilibrio tra
chi presta e chi riceve cura» (p. 190). Tronto fa così chiaramente trasparire la
sua passione per una teoria filosofica che non sia disgiunta dalla prassi e da una
forte attenzione alla storicità delle realtà sociale.
Esiste una tensione dialettica ma, a ben vedere, anche creativa tra con-
cezioni universalistiche e visioni più particolaristiche del legame con gli altri.
Alla luce di una possibile connessione, l’universalismo della teoria della cura
potrebbe essere allora definito come tensione a estendere il senso di responsa-
bilità e a mantenere e coltivare le relazioni, evitando di imporre l’imparzialità a
spese dei legami in atto.
Cristina Boeris