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Giovanni Maddalena

Vago/sintetico/analitico: Peirce contro Kant

La filosofia, in particolare quella analitica, è stata profondamente cam-


biata negli ultimi vent’anni da un fenomeno che si può definire come svolta
pragmatica o pragmatista. Il pragmatismo sembra indicare l’intrinseca ca-
pacità valutativa/applicativa di ogni tipo di ragionamento1. Tuttavia, riman-
gono aperti molti problemi – basti pensare in campo epistemologico alla
teoria del riferimento, a quella del rinvenimento delle ipotesi, ai fondamenti
dei ragionamenti, alle teorie dell’identità e della vaghezza – che segnalano
una difficoltà a comprendere il concreto sviluppo della conoscenza umana.
Anche le nuove forme di filosofia analitica, ormai impregnate di pragmati-
smo, continuano a poggiare su definizioni e su inferenze che non sembrano
garantire la soluzione di quelle questioni. Anzi, ci si trova molte volte impi-
gliati in antiche distinzioni – come quella fra scienze della natura e dello
spirito, tra mente e corpo, tra giustificazione soggettiva e verità oggettiva –
riformulate in chiave contemporanea. Da questo punto di vista, il neo-
pragmatismo di Brandom ha gli stessi difetti della filosofia di Cavell o di
Taylor, di Ricoeur o di MacIntyre; tutti sono tentati dalla formulazione del-
la massima pragmatista ma dimostrano di non cogliere il cuore dell’episte-
mologia pragmatista che ha nella continuità e nel concetto di segno i due
elementi centrali per superare ogni dicotomia. Qui si sosterrà che questo
atteggiamento in fondo dicotomico che nasce dall’antirappresentazionali-
smo2 permane perché poggia in ultimo su una certa accezione di «analisi»

1 Senza ricorrere alle celebri affermazioni del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, di

Quine e di Sellars, vere e proprie riabilitazioni del pragmatismo in chiave analitica, a titolo di
esempio si possono vedere gli studi neopragmatisti di Rorty, Putnam, Brandom (cfr. Calcater-
ra, 2006). In altri ambiti filosofici basti pensare alle opere di Apel e Habermas, che riprendono
esplicitamente da Peirce la massima pragmatica e il concetto di comunità che essa implica; la
filosofia della scienza di impronta pragmatista che si trova in Rescher e in Haack; e la costella-
zione di studi, soprattutto americani, di autori come MacIntyre, Taylor, Cavell, giustamente
riuniti da Frega in ottica pragmatista (Frega, 2009).
2 Rorty dice addirittura che l’antirappresentazionalismo è la nota dominante del pragmati-

smo («Introduzione» a Murphy, 1990). È chiaro che i pragmatisti si oppongono alla rappre-
sentazione e alla corrispondenza intese come «copia» o come una statica «identità» ma sono
ben lontani dal negarle o rifiutarle una volta che se ne sia esclusa l’a-prioricità e l’a-storicismo
propri del razionalismo (anche di quello dialettico). Basti vedere la difesa della corrispondenza
ne Il significato della verità (James, 2009).
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derivata dalla distinzione kantiana tra sintetico e analitico. Come si vedrà, la


paradossale unione tra antirappresentazionalismo e concezione kantiana
dell’analisi blocca una comprensione unitaria e concreta del pensiero uma-
no alla quale lo stesso Kant aspirava.
La prima parte di questo saggio sarà dunque dedicata a far vedere che
sia le filosofie analitiche sia quelle ermeneutiche partono da un assunto co-
mune condividendo la medesima esclusione del concetto di «rappresenta-
zione» e di quello, correlato, di segno. Così facendo, si cercherà anche di
riassumere lo sviluppo del pensiero peirceano sulla rappresentazione facen-
do emergere come esso si allontani progressivamente dall’idea kantiana vol-
gendosi a una visione della conoscenza sempre più realista – nel senso tec-
nico del realismo scotista3. Infine, si vedrà come le aporie dello stesso pen-
siero peirceano siano attribuibili al rapporto irrisolto con il retaggio kantia-
no e come esse possano essere utilizzate per tentare una nuova definizione e
nozione della sinteticità e dell’analiticità, alle quali – peirceanamente – oc-
correrà aggiungere il concetto di vaghezza, peraltro molto studiato di recen-
te in ambito analitico4.
Ciò che si vuole sostenere, in ultimo, è che il pragmatismo (non solo
peirceano) è stato più l’occasione di una svolta che un effettivo cambiamen-
to e che se non si capisce il profondo antikantismo della sua proposta, lo si
inserisce all’interno di una tradizione e di un insieme di pensieri che non gli
appartengono.

1. Riferimento, ipotesi, rapporto epistemologia-metafisica: i tre momenti in


cui la rappresentazione è necessaria
Le tre teorie del riferimento, dell’ipotesi e del rapporto epistemologia-
metafisica sono un puzzle quasi irrisolvibile nelle diverse correnti della filo-
sofia analitica e sono spesso destituite di autentica problematicità in campo
ermeneutico. Ci sono molti modi di sistemarle, ma si ha sempre l’im-
pressione del senso comune che qualcosa non funzioni.
Incominciamo dalla prima. La teoria del riferimento propone due ma-
cro-opzioni: da un lato la teoria descrittivista del paradigma dominante,
dall’altro quella causalista. Ci sono, ovviamente, molte modificazioni dell’u-
na o dell’altra, ma sostanzialmente il panorama resta dicotomico. Entrambe
le prospettive mostrano una loro validità. Il descrittivismo può vantare la
difesa della molteplicità del senso e della generale equiparazione di cono-
scenza e riferimento. D’altro canto, il causalismo rende conto della «resi-

3 Per la relazione fra Peirce e il realismo scotista si vedano Boler (1963), Short (2007: 46-

53), Mayorga (2007).


4 Cfr. Ferraris (2008: 672-695).
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stenza» intuitiva della realtà alla nostra conoscenza. Le altre vie, come quel-
la della competenza lessicale di Marconi, pur nella loro plausibilità e nelle
diverse forme combinatorie, non cambiano in fondo il panorama di queste
due «intuizioni» originarie5.
I due schemi restano alternativi ed entrambi accettano in fondo l’assun-
to fregeano della soggettività e dello psicologismo connesso alla rappresen-
tazione6. La rappresentazione, regno di mezzo fra l’oggetto e il suo modo di
darsi, resta un elemento impossibile da prendere in considerazione ai fini
della logica. Tuttavia, Peirce – che condivideva appieno le critiche allo psi-
cologismo e che aveva anticipato di molto la contestazione della possibilità
di un linguaggio privato7 – pensava che proprio lo studio della rappresenta-
zione coincidesse con la logica. In questo senso, lo studio della teoria del
riferimento, come della filosofia del linguaggio e della logica formale, non è
altro che un aspetto della più vasta logica dei segni. Per rimanere solo alla
tricotomia essenziale (delle dieci che secondo Peirce costituiscono un in-
sieme di 59049 segni validi), quella che considera il segno come icona, indi-
ce e simbolo in quanto rapporto con l’oggetto dinamico rappresentato ri-
spettivamente per somiglianza, connessione o interpretazione, essa ci per-
mette di risolvere in modo diverso, e non alternativo, il problema del rife-
rimento. Le considerazioni del descrittivismo fanno parte di un utilizzo
simbolico dei segni mentre quelle causaliste sono l’espressione della fase
indicale dei segni. Parlo qui di fasi, perché i segni possono evolvere mo-
strando diversi aspetti. Se quest’ipotesi è vera, si avrà allora anche una fase
iconica dei segni del riferimento.
Per fare un esempio, tratto almeno parzialmente da Peirce, il nome pro-
prio sarà un indice puro (cioè che porta al proprio interno un’icona) quan-
do si è per la prima volta al cospetto di una persona che ci dice il suo nome

5
Si veda Marconi (1997).
6
Nella filosofia novecentesca, tanto nell’ermeneutica quanto nell’analitica, lo studio della
rappresentazione è stato bandito. L’esempio fregeano del cannocchiale in cui il significato è
l’oggetto di riferimento ed è oggettivo, il senso è l’immagine che tale oggetto lascia sulla lente
del cannocchiale ed è dunque ancora oggettivo, mentre la rappresentazione sarebbe l’imma-
gine mentale che è diversa in tutti i soggetti, rimane per molti versi il comune sfondo delle teo-
rie del riferimento (Frege, 1892: 21-22). Ma anche in ambito ermeneutico la condanna di Hei-
degger (1984: 83-84) resta come un ostacolo insormontabile. La fenomenologia husserliana,
matrice dell’ermeneutica, considera questo livello rappresentativo come psicologismo. La rap-
presentazione non viene qui intesa in senso psicologico ma logico, segnalando il modo in cui la
realtà viene tradotta in categorie uguali per tutti. Si evita così quella separazione tra realtà e
pensiero che è la vera radice di ogni nominalismo, secondo un’accezione del termine che sarà
ripresa più avanti in questo testo. D’altro canto, anche la condanna dello psicologismo, dopo
tutte le ricerche del Novecento, desta ormai molti dubbi suggerendo che forse aveva ragione
James che vedeva nella stessa struttura psicologica un’incarnazione dei processi epistemologici.
7 Per questo confronto si veda Calcaterra (2003: 43-55).
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o nel caso dei soprannomi8; un indice degenerato, ossia puramente referen-


ziale, quando si usa in assenza di quella persona; un simbolo quando il no-
me proprio sarà associato con un’interpretazione o una descrizione definita.
La rappresentazione non è in questi casi affatto soggettiva perché esprime
una relazione molto ben determinata e facilmente riconoscibile da una co-
munità di ricercatori.
Anche nel caso dell’ipotesi, il ricorso alla rappresentazione è decisivo
per non lasciare un aspetto tanto determinante per l’esistenza in balia di
«intuizioni pre-teoriche» (Popper, 1934) irrazionali o a-razionali e in ogni
caso extrametodiche. Com’è noto, è lo stesso Peirce che ha formulato e cer-
cato di correggere per tutta la sua vita la ratio dell’abduzione. L’abduzione
è il passaggio dal conseguente all’antecedente9. Nient’altro che questo e,
dunque, una fallacia dal punto di vista della logica deduttiva. Ma come sap-
piamo, la logica deduttiva non è l’unica logica10. Per questo nell’ultima for-
mulazione peirceana dell’abduzione troviamo che l’elemento determinante
è la partenza del ragionamento da un «fenomeno sorprendente», una dizio-
ne abbastanza vaga ma essenziale per capire che l’abduzione è un tipo par-
ticolare di ragionamento che lega ciò che avviene nella nostra mente alla re-
altà (Peirce, 1998: 231). La formulazione peirceana si può tradurre nei se-
guenti 4 passaggi:

1) Ci si imbatte in un fenomeno sorprendente C.


2) Formulazione della regola condizionale: «Se A, allora C sarebbe spie-
gato».
3) Verifica deduttiva delle conseguenze concepibili di A.
4) Verifica induttiva dell’effettiva esistenza delle conseguenze tramite
esperimenti.
8 Per la distinzione peirceana tra indici puri e degenerati e la loro applicazione al campo
della teoria del riferimento dei nomi propri e per la mia proposta di esemplificare l’utilizzo
delle icone negli indici attraverso l’esempio dei soprannomi si veda Maddalena (2009: 41-56).
9 Al proposito è molto utile consultare Niño (2007). L’autore fa vedere come l’idea di

un’inferenza esplicativa dell’ipotesi come ragionamento a posteriori dal conseguente all’ante-


cedente sia sempre stata presente nell’opera di Peirce a partire dai primi scritti del 1864 (MS
744).
10 L’idea che la logica deduttiva sia un ambito ristretto rispetto a più ampie logiche è stata

più volte messa in luce durante il corso del Novecento. Tuttavia, mi sembra di particolare inte-
resse, per la forza della critica e allo stesso tempo per la valorizzazione dei risultati ottenuti, la
critica formulata da F. Zalamea (2008). Secondo lo studioso colombiano occorre innanzi tutto
– sulla scorta dell’insegnamento peirceano – affrontare il logicismo asserendo che non è la lo-
gica che fonda la matematica ma viceversa è la matematica che fonda la logica. In secondo luo-
go, bisogna riconoscere che la logica deduttiva novecentesca che si conclude con il teorema di
Gödel è il frutto della teoria (logica) degli insiemi che è solo un limite inferiore di studi mate-
matici ben diversi che partono dalla continuità invece che dalle quantità discrete rappresentate
dagli insiemi.
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L’abduzione avviene solo in casi in cui non si possa far riferimento in-
duttivamente all’esperienza precedente. «Sorprendente» vuol dire dunque
che si tratta di un particolare la cui appartenenza a un genere non è ancora
stata appurata. La regola condizionale del secondo passo è un tentativo di
dimostrare tale appartenenza e i passi deduttivi e induttivi ne sono la verifica.
Il problema dell’abduzione si concentra sul passaggio da 1) a 2). Come
ci viene in mente la regola A da utilizzare come ipotesi? Di certo essa parte
dal conseguente C. Ma che cosa permette a essa di dimostrarsi valida?
La mia sistemazione degli scritti peirceani consente di identificare tale
passaggio in una lettura estetica ed etica (intese gnoseologicamente come
«ciò che è ammirabile» e «ciò che è plausibile») dei segni iconici e indicali.
L’ipotesi nasce da un’interpretazione e non da un’intuizione, ma si tratta di
un’interpretazione di tipi di segno che si trovano al di sotto della simbolici-
tà e che allo stesso tempo possono poi essere tradotti simbolicamente. Dal
giallo degli Assassinii della Rue Morgue fino alla scoperta di Keplero e al
problema della realtà di Dio, non c’è soluzione teorica che non abbia biso-
gno di segni11.
Lo stesso Peirce si domanda poi come possiamo avere questa capacità di
leggere i segni e invoca come spiegazione il fatto di essere noi stessi parte di
quella realtà che dobbiamo comprendere. Il nome di questa capacità, nella
dizione peirceana, è «istinto razionale», che con l’andar del tempo il filoso-
fo americano immette sempre più profondamente all’interno del funziona-
mento della ragione stessa, come una radice segreta rispetto alla quale il
pragmatismo, inteso come l’insieme dei passi 2)-4) si trova in una condizio-
ne solo ausiliaria di verifica, addirittura non in grado di gettare uno sguardo
sulla «verità, sulla bellezza, sulla bontà morale, le uniche tre cose che innal-
zano l’umanità al di sopra dell’animalità» (Peirce, 2005: 712).
In ultimo, il rapporto tra epistemologia e metafisica spesso si sviluppa
intorno al dilemma tra realismo e varie forme di idealismo/strutturali-
smo/costruttivismo. La soluzione è di difficile composizione proprio perché
permane l’idea che la realtà non possa essere «segno» di qualcosa di meta-
fisico e che la rappresentazione possa o debba esprimere solo una posizione
soggettivistica. Il solco tra il fenomeno e il noumeno tracciato da Kant si è
ampliato considerevolmente rendendo ardua l’impresa di mantenere una con-
tinuità tra realtà e pensiero che rispetti quella riscontrata dal senso comune.
Peirce recupera la metafisica a partire dalla sua logica rappresentaziona-
lista. La metafisica è il risultato del fatto che la logica simbolica alla quale
approda il nostro ragionamento, così come la teoria degli insiemi che la

11 Si veda per questo lo studio dell’abduzione in Maddalena (2009: 57-78). Per le citazioni

di Peirce sui due punti menzionati si veda Peirce (2005: 631) (l’esemplificazione dell’ab-
duzione tramite il racconto di E.A. Poe) e CP 1.71-75; 2.96-97; 2.707 (l’abduzione e Keplero).
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rappresenta, non riesce a esaurire la rappresentazione della realtà la cui


continuità inevitabilmente sfugge come dimostrato dal teorema e dal para-
dosso di Cantor, che Peirce aveva scoperto indipendentemente dal matema-
tico tedesco. La continuità della realtà che ci è necessaria per capire come
mai i nostri ragionamenti, soprattutto quelli ipotetici, funzionano, non può
essere colta completamente dalla logica e, d’altro canto, ogni sua descrizio-
ne ci fa approfondire tipi di modalità (la possibilità e la necessità in partico-
lare) che derivano dalla logica. Se Aristotele aveva creato un plesso inscin-
dibile tra epistemologia, logica e metafisica, Peirce disloca le tre discipline
in un’evoluzione progressiva (dalla matematica e dalla fenomenologia alla
metafisica passando per estetica etica e logica). La metafisica è qui ricono-
sciuta come campo residuale rispetto alla logica grazie alle prove matemati-
che di cui si è detto. Si tratta di un residuo metodologico: serve un metodo
ulteriore rispetto a quello della logica. D’altro canto, retrospettivamente o a
posteriori, essa fonda la logica stessa.
Paradossalmente si può dire che per Peirce la metafisica spiega a poste-
riori le cose perché essa è l’ultima delle discipline teoretiche a intervenire
nella nostra epistemologia, confermando così il grande assunto pragmatista
che gli effetti fondano il significato. È un tipo di «fondazione» un po’ parti-
colare, che James e Dewey condivideranno, e che permette di evitare la ri-
proposizione di una metafisica a-priori sconfitta dalla storia e affermare in-
vece un nuovo tipo di realismo all’interno del quale l’evoluzionismo può
giocare una parte rilevante. Qualcosa è perché opera, perché cambia la real-
tà circostante. La condizione necessaria e sufficiente è dunque l’operare, del
quale l’essere è una conseguenza.
I tre campi delineati – il riferimento all’oggetto, il ragionamento, il rap-
porto epistemologia-metafisica – mostrano che la profonda convinzione
peirceana riguardo alla validità e all’oggettività del segno non può essere
scartata senza vedere la soluzione che essa fornisce. Certo, si tratta di consi-
derazioni che si appoggiano sui punti limite della conoscenza e che forni-
scono un accesso alla metafisica solo come realtà «residuale». Non solo, lo
stesso Peirce non arrivò mai a questa sistematizzazione del proprio pensie-
ro, ma la propose – tra dubbi e incertezze – nelle sue quasi 80000 pagine di
manoscritti dedicate per la maggior parte a una classificazione meticolosa di
tipi di segno sempre più infinitesimali. Per aumentare ancora l’impressione
che a Peirce si applichi l’«inutile e incerto» che Pascal affibbiò a Descartes
(Pascal, 1670: § 50), è doveroso segnalare che anche il filosofo americano
non riuscì mai a liberarsi del tutto dall’idea kantiana di analisi il cui corolla-
rio è una conoscenza ottenuta per composizione e scomposizione. Nel caso
di Peirce si tratta di un genere di «scomposizione e composizione» estre-
mamente agile, in grado di arrivare nei suoi punti limite ad affermare il
cambiamento storico dei segni attraverso cui si sviluppa la conoscenza
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dall’oggetto alla mente, il percorso ipotetico dell’abduzione che viola la fal-


lacia deduttiva dell’affermazione del conseguente, il riconoscimento della
continuità. Tuttavia, anche Peirce non riesce ad uscire dallo schema kantia-
no tentando sempre una classificazione microscopica di segni sempre più
minimali senza rendersi conto invece che la vera innovazione consisteva nel-
la dinamica del processo di pensiero descritto dal suo pragmatismo e dalla
strana fondazione a posteriori che esso permette.
Per utilizzare l’espressione dell’ultimo Schelling, il percorso delineato da
Peirce è di tipo «negativo», ma il senso comune avverte che deve essere
possibile anche prendere in considerazione e giustificare direttamente il
percorso «positivo» della conoscenza che ogni giorno si attua non solo in
casi limite (Schelling, 1858: 123-155). Proverò ora a suggerire un’ipotesi di
questa linea di pensiero alla quale darei il nome di «filosofia sintetica» rin-
tracciando una nuova definizione per la classica distinzione kantiana e con-
cependo tale proposta come un modo di accentuare un carattere processua-
le della conoscenza che certo era presente anche nell’idea di sintesi kantia-
na, ma che nell’autore tedesco – e, ancor di più, nell’eredità da lui trasmessa
alla successiva storia della filosofia – veniva messo in secondo piano dalla
tentata ricerca di una sinteticità a priori alla quale legare il concetto di ne-
cessità, due connotati propri dei giudizi analitici.
Con ciò non si vuole sminuire i meriti – evidenti, soprattutto in logica –
del pensiero analitico. Lo si vorrebbe piuttosto completare, rintracciando la
razionalità di tante operazioni mentali che non sono analizzabili in senso
kantiano, e che tuttavia sarebbe ripugnante abbandonare alla mera logica
della violenza.

2. Una filosofia sintetica


È noto il canone kantiano secondo il quale i giudizi analitici sono quelli
in cui soggetto e predicato sono pensati come identità (e dunque hanno già
in sé tutto il proprio contenuto), mentre quelli sintetici sono quelli in cui
soggetto e predicato sono pensati senza identità (e dunque si aggiunge un
contenuto empirico attraverso il predicato). I primi si legano poi ad apriori-
cità e necessità mentre i secondi ad aposteriorità e contingenza. E come si
sa, il tentativo kantiano è proprio quello di conferire ai secondi la necessità
dei primi.
Nello stesso Kant, però, troviamo anche un’altra definizione che forse ci
può aiutare nella nostra ricerca. Parlando della matematica egli afferma che
essa è uno studio sintetico, nel quale si studia l’individuo singolo. In questo
senso la matematica studia sempre l’universale nel concreto mentre la filo-
sofia il particolare nell’universale.
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Nell’uso empirico non si richiede alcuna critica della ragione, poiché i principi di
quest’ultima vengono continuamente sottoposti ad esame con la pietra di paragone
dell’esperienza; non necessita di tale critica neanche la matematica, lì dove i concetti
devono essere esposti immediatamente in concreto nell’intuizione pura e ogni cosa
infondata e arbitraria diviene perciò subito evidente. […]
La conoscenza filosofica, quindi, considera il particolare solo nell’universale, mentre
quella matematica considera l’universale nel particolare, anzi addirittura nel singolo,
anche se a priori e per mezzo della ragione, di modo che, come questo singolo è de-
terminato entro certe condizioni universali della costruzione, così l’oggetto del con-
cetto – cui questo singolo corrisponde soltanto come suo schema – dev’essere pen-
sato come universalmente determinato [Kant 1787: 1011-1017].
Kant si ferma qui, mentre Peirce prosegue questo tipo di ragionamento
individuando il «fare concreto» come fondamento stesso della matematica,
nel senso che il fare matematico, quello che io chiamo «il gesto matemati-
co» – disegnare dei diagrammi nella mente o sulla lavagna – è un tipo di a-
zione che collabora alla creazione dei propri fondamenti metafisici. Che co-
sa vuol dire? Le costruzioni matematiche sono costruzioni umane che fanno
parte dello sviluppo della realtà stessa. Quando facciamo matematica noi
individuiamo delle relazioni, a volte costruendole, altre volte ricavandole da
costruzioni già stratificate nella storia del pensiero. Tali relazioni possono
essere più o meno valide e infatti il corso della storia, lo sviluppo della real-
tà, si preoccuperà di eliminarle o renderle necessarie. In questo secondo ca-
so esse mostrano di essere «corrispondenti» con la realtà, nel senso che ne
sono parte integrante e, in quanto tale, necessaria. In questo senso, prima si
compie il «gesto matematico» e poi lo si trova «fondato» (per questo Peirce
come Cantor non temeva la crisi dei fondamenti, perché se la matematica
c’è, sarà fondata; i fondamenti si trovano a posteriori e, pur essendo a po-
steriori, sono necessari).
Questo tipo di ricostruzione potrebbe essere applicata allo stesso modo
ad altri campi creativi, come il gesto attraverso il quale si immagina un per-
sonaggio letterario o come, più in generale, quei gesti che presiedono a pra-
tiche significative. Le pratiche hanno in sé la propria normatività in quanto
gesti, ossia in quanto azioni cariche di un significato, ma non si può rintrac-
ciare tale normatività se non a partire dai gesti12. Bisognerà poi vedere come
si produca tale sinteticità e, in ogni caso, compiere su di essa anche
un’analisi. Il significato che troviamo in azione, infatti, è analiticamente
scomponibile nei termini di una semiotica peirceana in icone, indici e sim-
boli, ossia in rappresentazioni per similarità, contiguità e interpretazione
(un terzo che sta verso il suo oggetto nella stessa relazione del secondo).

12 In questo senso condivido la critica di McDowell a Sellars e Brandom in Calcaterra

(2006: 49-66).
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Sinteticamente noi vediamo crescere in continuità il significato attraverso i


gesti che incarnano questi segni. Solo da questi ultimi si ingenereranno
quelle pratiche che sono state al centro di tanto dibattito alla fine del secolo
scorso. La novità sta qui nell’affermare che il significato si sviluppa dall’e-
sperienza in una continuità ideale che può essere tecnicamente descritta at-
traverso una fenomenologia – le cui caratteristiche dovranno essere messe al
centro di ulteriori studi – e di una semiotica di stampo peirceano che pre-
vede una genetica evolutiva dei segni stessi.
Si noti che questo tipo di necessità a posteriori coincide con molta parte
degli studi kripkeani dei quali qui si condivide la disarticolazione dell’unità
tra necessario, analitico e a priori (Kripke, 1980). Anche nell’ipotesi che si
vuole proporre c’è un’asimmetria tra il piano semantico, quello epistemologi-
co e quello metafisico. Il «gesto» copre un livello epistemologico indicando
una soluzione metafisica e suggerendo uno studio diverso a livello semanti-
co, laddove sarebbe da approfondire la logicità intrinseca di icone e indici13.
Passando dunque a una definizione metodologica della razionalità sinteti-
ca che i «gesti» suggeriscono, si può forse tentare di ridefinire i concetti di
analitico e sintetico. La mia proposta è quella di toglierli dalla staticità – per
quanto ciò sia paradossale in una definizione – per rispettare la razionalità che
la matematica, come tante altre attività creative, esprime nel suo fare e che lo
stesso Kant ritiene l’unica alternativa alla sua classificazione di analitico.
Provo a definire dunque la sintesi come «riconoscimento di identità in
un cambiamento», l’analisi come «dissolvimento di identità in un cambia-
mento». E aggiungerei a essi la vaghezza, tanto cara a Peirce, come «non-
riconoscimento di un’identità in cambiamento».
Così facendo si rispettano alcuni criteri essenziali che emergono proprio
nell’esempio della matematica: la storicità, la verità a posteriori, la fallibilità
e soprattutto l’unità tra teoria e pratica. D’altro canto essa rende conto della
quotidiana esperienza dell’impossibilità di una definizione assoluta in ter-
mini analitici: le definizioni analitiche dissolvono l’identità nel senso che si
può sempre giungere a una parte più infinitesimale generando l’impressione
di senso comune che le definizioni siano sempre o troppo larghe o troppo
strette.
I tre tipi di giudizio (e di ragionamento) permettono in questa nuova
versione di tenere insieme l’identità e la storia così come avviene nei pro-
blemi del riferimento, dell’ipotesi e della metafisica delineati in precedenza.
D’altro canto i termini richiedono una specificazione.

13 Peirce, nei suoi ultimi anni di vita, sperava di trovare una logica delle icone e degli indici

(MS 200: 49), una logica che venga prima della logica dei simboli con la quale si può dar ra-
gione dell’intera logica classica e di quella formale (Parker, 1998: 143, 161), ma non si può
spiegare l’intera ragionevolezza umana.
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Innanzi tutto occorre una precisazione dal punto di vista storico-


filosofico. Kant stesso aveva ben illustrato il problema del mutamento inse-
rendolo nella prima analogia dell’esperienza, il principio di permanenza
della sostanza. In Kant il mutamento assoluto è impossibile perché esso si
riferisce solo a ciò che permane e ciò che permane muta per ciò che «ri-
guarda soltanto le determinazioni che possono cessare o anche iniziare»
(Kant, 1787: 373). Il mutamento assoluto, cioè non di una sola determina-
zione, è impossibile perché esso non sarebbe mai percepito. In ciò Kant ha
ragione: c’è cambiamento solo di ciò che è permanente, cioè della sostanza.
Qui però egli legge questo termine, equiparato con ciò che permane, alla
luce dell’idea che esista un’appercezione originaria nella quale si produce
quell’«io penso» che accompagna tutte le altre rappresentazioni. La sostan-
za permane come prodotto dell’intelletto già all’opera dentro la sensibilità.
Se si toglie il pesante apparato critico, tuttavia, resta il fatto che le de-
terminazioni che cambiano si riferiscono a qualcosa di stabile che deve es-
sere riconosciuto anche nei diversi cambiamenti. È l’operazione cominciata
da Peirce con Una nuova lista di categorie (Peirce, 1868: 71-82) e portata
poi ai suoi estremi nella matura logica novecentesca. Per esprimere in una
sola battuta tutta la distanza fra l’impostazione trascendentale kantiana e
quella real-idealista di Peirce basta ricordare ciò che Peirce dice in un ma-
noscritto già tardo:
C’è un famoso passo nella seconda edizione della Critica della Ragion pura, un passo
davvero notevole, in cui Kant dice che “l’Io penso” – “Das: Ich denke” – dev’essere
in grado di accompagnare tutte le sue idee, “perché altrimenti non mi apparterreb-
bero veramente”. Un uomo meno portato per i discorsi potrebbe affermare leggen-
dolo: “Per conto mio non ritengo le mie idee mia proprietà privata; pensavo invece
che fossero della Natura e che appartenessero all’autore della Natura”. Tuttavia, ciò
sarebbe fraintendere Kant. Nella sua prima edizione non nomina l’atto dell’“Io pen-
so”, ma “l’oggetto=X”. Ciò che l’atto deve influenzare è la consequenzialità delle
idee: ora, il bisogno di consequenzialità di idee è un bisogno logico, e non dovuto,
come Kant pensa, al loro prendere la forma dell’Urtheil, dell’asserzione, ma al loro
costituire un argomento; e non è l’“Io penso” che sempre accompagna virtualmente
un argomento, ma è: “Non pensi? [Don’t you think so?]” [1909, MS 636: 24-26].
La prima caratteristica che questo brano sottolinea è che la conoscenza
non ottiene una comprensione trascendentale, ma pragmatica, secondo l’an-
tica formulazione della regola negli scritti peirceani del 1878: «considerare
quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pen-
siamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora la concezione di
questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto» (Peirce, 1878: 215).
Significativamente, Peirce aveva qui descritto questa regola come un grado
di chiarezza delle idee superiore a quello della familiarità (della semplice
accettazione di certe idee o di appartenenza a certe forme di vita) e a quello
VAGO/SINTETICO/ANALITICO 73

delle definizioni (il nostro stadio analitico composto di regole grammaticali


e sintattiche). Il fissare il significato in base a tutte le conseguenze possibili
vuol dire infatti accettarne a un tempo storicità e precisione, insaturabilità e
utilizzabilità efficace, fallibilismo delle credenze e conoscibilità assoluta del-
la verità in un ideale «long run».
A confermare la profonda natura semiotica di questa impostazione, nei
suoi scritti più tardi egli identificherà i gradi di chiarezza con gli interpre-
tanti, ossia con le funzioni logiche che il segno crea (che sono altri segni): la
familiarità con l’interpretante immediato, la definizione con l’interpretante
dinamico e la regola pragmatica con l’interpretante logico-finale.
Le idee appartengono alla Natura, intesa come la realtà nel suo com-
plesso che svelerà a posteriori la sua modalità metafisica. L’atto, come ogni
cambiamento, avviene all’interno di un argomento, ossia di un processo in-
ferenziale che compone l’intera realtà. Per questo noi capiamo argomenti
non simbolici perché in ogni atto (nostro o della Natura, per usare l’e-
spressione di Peirce) c’è un argomento che si esprime attraverso segni ico-
nici e indicali e che necessita poi, come tutti i segni, di un’interpretazione. È
questa adesione agli argomenti formati dalla realtà stessa ciò che ogni gesto
richiede appellandosi al nostro assenso («non pensi?»). L’assentire farà sì
che l’argomento stesso della realtà si possa sviluppare14.
Con Peirce scompare l’idea della capacità trascendentale dell’impo-
stazione kantiana perché tale funzione viene inserita all’interno del processo
semiotico come una forma di interpretante (dinamico). In Peirce la sostanza
«non permane» perché essa è uno sviluppo logico nel senso ampliato già
specificato; d’altro canto, ciò non significa che «non ci sia», ma che essere e
agire coincidono senza che il secondo esaurisca il primo e senza che il pri-
mo fondi «a-priori» il secondo. Quando dalla logica si passa alla metafisica,
il nostro agire logico dimostra la sua validità (o meno) costituendo effetti
che seguono le modalità della metafisica: possibili, esistenti o necessarie.
Per la nostra proposta di cambiamento delle definizioni di sintetico e
analitico a partire dalla sinteticità abbiamo qui aggiunto che «i gesti» (anche
solo virtuali) della matematica come del pensiero in generale producono un
cambiamento nel quale l’identità si preserva come conseguenze. In secondo
luogo, che tale cambiamento può essere riconosciuto perché formato da se-
gni non solo simbolici. In terzo luogo, che questo cambiamento appartiene
all’ordine logico dell’intera realtà.
Che cos’è la conoscenza sintetica, per ora? Un gesto, anche un gesto del
pensiero, che fa sviluppare le conseguenze della realtà producendo un ar-
gomento.

14 Il «Sì» a un’azione come «Sì» a un argomento è anche in Brandom (1994: 262-266).


74 GIOVANNI MADDALENA

3. L’identità figurale e l’identità narrativa


Che cosa sia l’identità, anche una volta che si sia tolta dall’apparato cri-
tico kantiano, resta comunque il problema fondamentale. Dire che è la real-
tà stessa che cambia fa capire che sono gli oggetti di riferimento a mutare
determinazioni e che queste conseguenze esprimono il significato dell’og-
getto stesso (o dell’idea), ma non aiuta a capire come si formi questa identi-
tà e in che cosa consista.
Per quanto riguarda la prima domanda, e tralasciando per ora il dibatti-
to tra tridimensionalisti e quadridimensionalisti15, l’identità a cui il ragio-
namento sintetico fa riferimento coincide con ciò che molti critici attenti
hanno già introdotto: un’identità storica e narrativa, già descritta da Rico-
eur, Cavell, Colapietro, MacIntyre e molti altri16. Di tale identità vorrei qui
considerare però soprattutto il valore teleologico introducendo quella che
chiamerei, sulla scorta dell’idea di Auerbach, un’identità figurale (Auer-
bach, 1929: 190, 209, 212-213). Riconosciamo un oggetto perché si pone
nella medesima narrazione come fine di quell’altro oggetto da cui eravamo
partiti. Per averne degli esempi basta prendere l’esperienza comune di rico-
noscimento di oggetti (o anche di se stessi) in momenti diversi, i personaggi
letterari o artistici in generale, ma anche – nel caso di una scoperta scientifi-
ca – l’oggetto ormai spiegato che si mostra all’interno della nuova teoria
che, a differenza della precedente, riesce a interpretarlo. Sono sempre gli
stessi oggetti le cui determinazioni sono cambiate o per mutamento auto-
nomo o perché inseriti in contesti esplicativi diversi. L’identità narrativa è
l’inserirsi dell’oggetto all’interno di quello sviluppo tra antecedenti e conse-
guenti che forma la realtà. Il passaggio continuo tra l’uno e l’altro è la forza
principale del ragionamento sintetico guidato dai gesti. Ma la figuralità ag-
giunge un elemento permettendoci forse di uscire dalle secche dell’identità
staticamente intesa come luogo degli attributi.
Rispetto agli autori citati occorre allora sottolineare due importanti dif-
ferenze o precisazioni.
La prima riguarda la logica in senso stretto: il principio che regola
l’identità narrativa è quello della «vera continuità» matematica17. In essa,

15
Si veda il riassunto del dibattito in Ferraris (2008: 583-600).
16 Per una trattazione unitaria in chiave pragmatista si veda il già citato libro di R. Frega
(2009: 85-195). Dei singoli autori i punti forse più espressivi di tale concezione sono After Vir-
tue (MacIntyre, 1981), Sé come un altro (Ricoeur, 1990), Must we mean what we say? (Cavell,
1969), Permettere alle noste pratiche di parlare per se stesse: Wittgenstein, Peirce e le loro linee
di intersezione (Colapietro, 2006).
17 La «vera continuità» è il termine con cui Peirce indicava la continuità che sfugge al

computo della teoria degli insiemi. Il filosofo americano aveva infatti scoperto, indipendente-
mente da Cantor, il teorema e il paradosso di Cantor e ne aveva fatto tema di una lettera del
dicembre 1900 indirizzata al matematico tedesco (NEM3: 767-776). Peirce pensava quindi che
VAGO/SINTETICO/ANALITICO 75

una volta che la si intenda non secondo la logica degli insiemi, ciò che è
continuo è tale in virtù di una regolarità essenziale, nel senso antico della
parola. La continuità non è una somma di eventi ben coesi, ma viceversa la
condizione degli eventi distinti. La narratività non è dunque un problema
morale ma una funzione logica, sebbene si debba concepire questo termine
– come già sottolineato molte volte – in termini molto diversi dagli usuali.
La storicità della narrazione è la realizzazione di abiti all’interno dei quali
sono cristallizzati certi significati che, a loro volta, sono frutto di una storia
iconica e indicale che realizza il rapporto con i fenomeni. Tale unitarietà
della storia precede i singoli elementi sintetici e non ne è la somma così co-
me la «vera continuità» non si può raggiungere operando sugli insiemi. In
questo senso, la continuità precede la divisione e la sintesi precede l’analisi,
rispettando così l’assunto esperienziale da cui il pragmatismo ha tratto le
mosse.
Di che cosa è composta questa «vera continuità»? Ancora una volta gli
studi di Peirce possono qui tornare utili. Secondo il filosofo americano, la
continuità eccede ogni computo metrico e dunque è una connessione po-
tenziale o essenziale che diventa necessaria. Si tratta di una regolarità inter-
na che perviene all’essenza stessa degli oggetti, essenza che dobbiamo am-
mettere come punto limite di riferimento per gli oggetti stessi. La regolarità
di questo legame tra essenze è ciò che si manifesta nella nostra lettura este-
tica ed etica dei segni nel caso delle abduzioni.
In secondo luogo, tale continuità deve aver un fine, almeno potenzial-
mente ultimo. Se così non fosse l’identità nel cambiamento diventerebbe
indifferenza e prevarrebbe quella a-normatività che giustamente Frega rim-
provera sul piano etico-politico ad autori come MacGilvray (Frega, 2009:
227-234). Se la narratività fosse priva di criteri di giudizio, qualunque svi-
luppo dovrebbe essere accettato rendendo di fatto insostenibile ogni civile
convivenza. E rimanendo su un piano etico, come è possibile decidere quale
insieme di valori adottare, l’immagine di sé che si vuole perseguire, se non
mirando alla sua compiutezza, per quanto vagamente intesa?
Ma anche sul piano puramente epistemologico, che il fine decida del si-
gnificato è proprio il cuore del pragmatismo; con ciò non si vuole affermare
una versione jamesiana – spesso nemmeno sostenuta dall’autore – di totale
arbitrarietà nella costruzione valoriale che presiede alla ricerca. Al contrario

la teoria degli insiemi producesse inevitabilmente paradossi perché gli insiemi di partenza era-
no comunque individui singoli. Il paradosso era la prova che la logica insiemistica è un aspetto
limitato di una realtà continua più vasta da capire al di là di ogni computo metrico tramite ca-
tegorie metafisiche. A sua volta, Cantor (1980: 378) pensava che l’infinito raggiunto attraverso
la propria teoria fosse quello matematico che si distingue tanto da quello assoluto proprio di
Dio quanto da quello che esiste nel mondo creato. Per un resoconto dell’affascinante questio-
ne dibattuta da Peirce e Cantor mi permetto di rimandare a Maddalena (2009: 137-192).
76 GIOVANNI MADDALENA

il finalismo che si vuole sostenere implica solo quel movimento lungo la


continuità (o della continuità in una versione più real-idealista) che l’ab-
duzione garantisce. Comprendiamo i fenomeni sorprendenti come segni di
un ordine o di una continuità essenziale, e il modo di quella comprensione
parte dal conseguente per arrivare all’antecedente. D’altro canto, il ragio-
namento è garantito dalla natura reale di quella continuità che esso rintrac-
cia e verso la quale ogni ragionamento, quello abduttivo al pari di quello
deduttivo e induttivo, tende. È quanto già Peirce sosteneva in un manoscrit-
to degli ultimi anni:
Tuttavia, visto che me lo si chiede, non ho difficoltà a dire che, secondo me, quel
che rende un ragionamento provato è la legge reale che dice che il metodo generale
che quel ragionamento persegue più o meno coscientemente deve tendere al vero.
La vera essenza di un argomento – quel che lo distingue da tutti gli altri tipi di segni
– è che esso professa di essere rappresentativo di un metodo generale di procedura
che tende verso la verità [MS 465: 4].
L’identità figurale si distingue dunque da quella narrativa per l’in-
trinseco criterio valutativo che comporta, criterio che è stabilito dal fine
della narrazione stessa. In questo senso, non ogni parte della narrazione è
uguale alle altre. Come nella vita di ciascuno, per ogni oggetto ci sono gesti
più o meno significativi, a seconda che essi siano pre-figurazione dell’esito
finale o meno.
Tornando alla nostra proposta di definizioni, si può dire che c’è identità
in un cambiamento perché si sa che c’è una direzione e questa implica un
fine. L’identità di oggi è in questo senso il segno dell’identità finale così
come la credenza di oggi è, pragmatisticamente, il segno della verità finale.
Certo, questa verità finale è un termine regolativo dal punto di vista episte-
mologico, ma se esso non ci fosse, non sarebbero più comprensibili i pas-
saggi e non avremmo alcuna garanzia di successo nei nostri argomenti. Cer-
to, ciò implica anche che la verità, che è epistemologicamente regolativa,
una volta provata, sia ontologicamente necessaria. Le orbite ellittiche, una
volta scoperte, sono necessarie così come lo è il fatto che don Rodrigo
muoia di peste e che Achille Compagnoni sia stato il primo alpinista a scala-
re il K2.
Non si tratta allora dello stesso studio ricoeuriano sul mantenimento
della promessa e di un’identità scissa in idem e ipse? Non penso. Infatti,
l’analisi ricoeuriana tratta l’abito come un’interazione di definizioni (Ri-
coeur, 1993: 244-257), mentre la mia idea è che la realtà osservata dal punto
di vista «sintetico» definito in precedenza – riconoscimento dell’identità in
un cambiamento – fa sì che l’abito esprima non una combinazione (lineare,
a incastro, interattiva) ma un’identità o un’unità che nasce da una razionali-
tà propria. Quest’ultima, poi, consiste nel riconoscere l’inserimento di un
VAGO/SINTETICO/ANALITICO 77

particolare (non diviso fra idem e ipse) all’interno del flusso della causalità
di un’esperienza così vasta da comprendere cause di ordine materiale, men-
tale, spirituale e modalità possibili, attuali e necessarie. Epistemologicamen-
te si ha qui una profonda distanza dalla forma brandomiana di neo-prag-
matismo: invece che «rendere esplicito il significato» – operazione che rien-
tra sempre nel canone analitico – si vuole qui vedere come esso si «renda
implicito». Dal punto di vista metafisico, si crea così la già citata inversione
del paradigma classico sostenendo che la vera teoria si capisce nella pratica
perché l’operare è condizione necessaria e sufficiente dell’essere. «È se ope-
ra» e non «se è, opera» è la comprensione più profonda dei concetti.
Rimane da affrontare il tema cruciale del «riconoscimento». Nella storia
della filosofia ci sono almeno due modelli principali: uno prevede la per-
manenza di certi attributi che permettono di identificare un medesimo og-
getto, l’altro è quello che in qualche modo si riferisce alla dialettica hegelia-
na, che ciò poi avvenga in ambito idealista o ermeneutico o pragmatista18.
Né il riconoscimento di attributi né quello dialettico corrispondono
all’identità figurale che occorre riconoscere. In questo senso, il riconosci-
mento è solo, ancora una volta, l’inserirsi dei gesti all’interno della continui-
tà e il ri-conoscerli in virtù della loro intrinseca semioticità come parte della
medesima continuità così come essa sarà in quel futuro di cui il caso in que-
stione è già un esempio. L’Ulisse omerico (nel caso del tirar l’arco e non in
quello della cicatrice) o il Gesù dei Vangeli della risurrezione sono ottimi
esempi di riconoscimento che avviene tramite l’attuarsi di gesti. Certo, si
tratta di casi limite, ma come spesso accade i casi limite illustrano il metodo
che rimane confuso nei casi più quotidiani. Anche in questi ultimi, tuttavia,
si può osservare la medesima dinamica: il funzionamento della memoria, le
diagnosi mediche, i processi indiziari, poggiano tutti sulla possibilità di «i-
dentificare» un oggetto o una persona sulla base di un singolo segno (incar-
nato in gesti) che proletticamente illustra la totalità a cui si fa riferimento.
Ri-conoscere non è conoscere di nuovo ciò che si è già visto, ma inferire
l’identità del quale il gesto presente è pro-fezia e la totalità che è destinata a
comprenderlo. La sottolineatura di atti performativi come la promessa o il
giuramento con il loro mantenimento – ben delineati da Ricoeur – sono
senza dubbio una delle vie sulle quali la filosofia sintetica deve avviarsi. Ma
ciò che non emerge nel filosofo francese è la differenza figurale di questi atti
– tutti i gesti sono narrativi ma non tutti sono ugualmente importanti per
l’identità –, ossia non tutti hanno la medesima rilevanza nei termini di
un’identità in cambiamento. Ciò che manca è proprio il partire da una con-
cezione continua ed essenziale dello sviluppo storico che permetta di capire

18 Per l’applicazione ermeneutica si veda il ritorno dello storicismo attraverso l’opera di

Gadamer, per quella pragmatista basti pensare al chiaro influsso hegeliano su Dewey.
78 GIOVANNI MADDALENA

il valore epistemologicamente retroduttivo e metafisicamente prolettico dei


nostri giudizi.

4. Alcune strade di ricerca


Da ciò che si è detto emergono alcuni percorsi che la ricerca deve segui-
re per confermare quanto si è detto.
Innanzi tutto occorre stabilire il nesso tra la semiotica e il «gesto» e,
prima ancora, tra la semiotica e la fenomenologia. Bisogna capire in che
senso i segni riescono a rappresentare i fenomeni e come questi ultimi pos-
sono essere concepiti in continuità con la semiotica. Per quanto riguarda lo
studio dei segni bisognerà cercare di stabilire una logica delle icone e degli
indici, i segni minimali che introducono alla rappresentazione simbolica,
l’unico tipo di rappresentazione su cui si è soffermata la logica dall’inizio
della storia della filosofia.
Proseguendo questo discorso occorrerà capire come i simboli, soprattut-
to quelli linguistici, nascano da questo tipo di rappresentazione. Si tratta, in
altri termini, di vedere se esiste un’altra linguistica, diversa da quella pog-
giata su logiche simboliche, che possa spiegare gli stessi fenomeni mettendo
in luce questa radice storica. Tale studio filogenetico della lingua a partire
dal significato sintetico è stato proposto – occorrerà verificare con quali esi-
ti – da Owen Barfield e, per quanto riguarda la creazione artistica, in modo
non sistematico, dal suo amico J.R.R. Tolkien.
In terzo luogo, occorrerà chiarire i punti di intersezione fra la filosofia
analitica e quella sintetica. Dove, come e quando i due tipi di ragionamento
si incontrano e come essi si aiutino reciprocamente. Lo studio dei punti-
limite della filosofia analitica sembra essere un buon punto di partenza che
dovrà essere integrato e approfondito soprattutto in chiave metodologica. A
questo proposito alcuni dibattiti contemporanei come quelli sulla vaghezza
e sul dilemma tra tridimensionalismo e quadridimensionalismo sono fecon-
di terreni da esplorare. Ci sono stati spesso studi che hanno messo in luce la
duplice matrice – sintetica e analitica – del pensiero, basti pensare a Pascal
o più recentemente a Bergson o a James, ma alla fine i due ragionamenti e i
giudizi corrispondenti sono stati considerati come alternativi, concorrenti o
di diverso valore ontologico. Il mio studio della filosofia sintetica vuole in-
vece far vedere come i due tipi di ragionamento si integrino da un punto di
vista tecnico.
Infine, bisognerà capire come la metafisica giochi un ruolo positivo nella
filosofia sintetica. Infatti, mentre è chiaro che essa viene affermata per as-
surdo in quella analitica, della parte sintetica sappiamo solo che vi è un
transito perenne fra le modalità (possibilità, esistenza, necessità), secondo
un’idea che trova conferma nei più recenti studi di matematica. La metafisi-
VAGO/SINTETICO/ANALITICO 79

ca è dunque intesa come la continuità del reale di cui la storia è esplicita-


zione o gesto. Tale continuità non necessita di alcuno studio dialettico, ma
ha bisogno invece di una chiarificazione epistemologica dalla quale traspaia
la sua vera natura. Finora si capisce che il risultato è quello di una continui-
tà profondamente relazionale, esteticamente ordinata, teleologicamente in-
dirizzata.
Sono più aperture verso ricerche che risultati, tuttavia lo stabilire questo
percorso è già un esito delle accurate ricerche attestate dal primo paragrafo
e da esso comunque emerge una delle grandi istanze pragmatiste: il suo ra-
dicale antinominalismo. Si dirà subito che lo stesso James si vantava del suo
essere un nominalista, ma qui il nominalismo è inteso in una forma partico-
lare messa in luce ancora una volta da Peirce, come la separazione tra la re-
altà e il pensiero. I pragmatisti classici, James compreso, erano profonda-
mente avversi a questa separazione che rende inintelligibile tutto ciò che è
più interessante: l’esperienza, la radice affettiva della ragione, la sua tenden-
za alla metafisica, l’intrinseca normatività dei nostri ragionamenti. Il nomi-
nalismo, che nel Novecento ha assunto le forme dell’antirappresentaziona-
lismo, si priva così della possibilità di gettare lo sguardo su quella totalità di
orizzonte che solo distingue «l’umanità dall’animalità».

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