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1 Senza ricorrere alle celebri affermazioni del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, di
Quine e di Sellars, vere e proprie riabilitazioni del pragmatismo in chiave analitica, a titolo di
esempio si possono vedere gli studi neopragmatisti di Rorty, Putnam, Brandom (cfr. Calcater-
ra, 2006). In altri ambiti filosofici basti pensare alle opere di Apel e Habermas, che riprendono
esplicitamente da Peirce la massima pragmatica e il concetto di comunità che essa implica; la
filosofia della scienza di impronta pragmatista che si trova in Rescher e in Haack; e la costella-
zione di studi, soprattutto americani, di autori come MacIntyre, Taylor, Cavell, giustamente
riuniti da Frega in ottica pragmatista (Frega, 2009).
2 Rorty dice addirittura che l’antirappresentazionalismo è la nota dominante del pragmati-
smo («Introduzione» a Murphy, 1990). È chiaro che i pragmatisti si oppongono alla rappre-
sentazione e alla corrispondenza intese come «copia» o come una statica «identità» ma sono
ben lontani dal negarle o rifiutarle una volta che se ne sia esclusa l’a-prioricità e l’a-storicismo
propri del razionalismo (anche di quello dialettico). Basti vedere la difesa della corrispondenza
ne Il significato della verità (James, 2009).
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3 Per la relazione fra Peirce e il realismo scotista si vedano Boler (1963), Short (2007: 46-
stenza» intuitiva della realtà alla nostra conoscenza. Le altre vie, come quel-
la della competenza lessicale di Marconi, pur nella loro plausibilità e nelle
diverse forme combinatorie, non cambiano in fondo il panorama di queste
due «intuizioni» originarie5.
I due schemi restano alternativi ed entrambi accettano in fondo l’assun-
to fregeano della soggettività e dello psicologismo connesso alla rappresen-
tazione6. La rappresentazione, regno di mezzo fra l’oggetto e il suo modo di
darsi, resta un elemento impossibile da prendere in considerazione ai fini
della logica. Tuttavia, Peirce – che condivideva appieno le critiche allo psi-
cologismo e che aveva anticipato di molto la contestazione della possibilità
di un linguaggio privato7 – pensava che proprio lo studio della rappresenta-
zione coincidesse con la logica. In questo senso, lo studio della teoria del
riferimento, come della filosofia del linguaggio e della logica formale, non è
altro che un aspetto della più vasta logica dei segni. Per rimanere solo alla
tricotomia essenziale (delle dieci che secondo Peirce costituiscono un in-
sieme di 59049 segni validi), quella che considera il segno come icona, indi-
ce e simbolo in quanto rapporto con l’oggetto dinamico rappresentato ri-
spettivamente per somiglianza, connessione o interpretazione, essa ci per-
mette di risolvere in modo diverso, e non alternativo, il problema del rife-
rimento. Le considerazioni del descrittivismo fanno parte di un utilizzo
simbolico dei segni mentre quelle causaliste sono l’espressione della fase
indicale dei segni. Parlo qui di fasi, perché i segni possono evolvere mo-
strando diversi aspetti. Se quest’ipotesi è vera, si avrà allora anche una fase
iconica dei segni del riferimento.
Per fare un esempio, tratto almeno parzialmente da Peirce, il nome pro-
prio sarà un indice puro (cioè che porta al proprio interno un’icona) quan-
do si è per la prima volta al cospetto di una persona che ci dice il suo nome
5
Si veda Marconi (1997).
6
Nella filosofia novecentesca, tanto nell’ermeneutica quanto nell’analitica, lo studio della
rappresentazione è stato bandito. L’esempio fregeano del cannocchiale in cui il significato è
l’oggetto di riferimento ed è oggettivo, il senso è l’immagine che tale oggetto lascia sulla lente
del cannocchiale ed è dunque ancora oggettivo, mentre la rappresentazione sarebbe l’imma-
gine mentale che è diversa in tutti i soggetti, rimane per molti versi il comune sfondo delle teo-
rie del riferimento (Frege, 1892: 21-22). Ma anche in ambito ermeneutico la condanna di Hei-
degger (1984: 83-84) resta come un ostacolo insormontabile. La fenomenologia husserliana,
matrice dell’ermeneutica, considera questo livello rappresentativo come psicologismo. La rap-
presentazione non viene qui intesa in senso psicologico ma logico, segnalando il modo in cui la
realtà viene tradotta in categorie uguali per tutti. Si evita così quella separazione tra realtà e
pensiero che è la vera radice di ogni nominalismo, secondo un’accezione del termine che sarà
ripresa più avanti in questo testo. D’altro canto, anche la condanna dello psicologismo, dopo
tutte le ricerche del Novecento, desta ormai molti dubbi suggerendo che forse aveva ragione
James che vedeva nella stessa struttura psicologica un’incarnazione dei processi epistemologici.
7 Per questo confronto si veda Calcaterra (2003: 43-55).
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più volte messa in luce durante il corso del Novecento. Tuttavia, mi sembra di particolare inte-
resse, per la forza della critica e allo stesso tempo per la valorizzazione dei risultati ottenuti, la
critica formulata da F. Zalamea (2008). Secondo lo studioso colombiano occorre innanzi tutto
– sulla scorta dell’insegnamento peirceano – affrontare il logicismo asserendo che non è la lo-
gica che fonda la matematica ma viceversa è la matematica che fonda la logica. In secondo luo-
go, bisogna riconoscere che la logica deduttiva novecentesca che si conclude con il teorema di
Gödel è il frutto della teoria (logica) degli insiemi che è solo un limite inferiore di studi mate-
matici ben diversi che partono dalla continuità invece che dalle quantità discrete rappresentate
dagli insiemi.
VAGO/SINTETICO/ANALITICO 67
L’abduzione avviene solo in casi in cui non si possa far riferimento in-
duttivamente all’esperienza precedente. «Sorprendente» vuol dire dunque
che si tratta di un particolare la cui appartenenza a un genere non è ancora
stata appurata. La regola condizionale del secondo passo è un tentativo di
dimostrare tale appartenenza e i passi deduttivi e induttivi ne sono la verifica.
Il problema dell’abduzione si concentra sul passaggio da 1) a 2). Come
ci viene in mente la regola A da utilizzare come ipotesi? Di certo essa parte
dal conseguente C. Ma che cosa permette a essa di dimostrarsi valida?
La mia sistemazione degli scritti peirceani consente di identificare tale
passaggio in una lettura estetica ed etica (intese gnoseologicamente come
«ciò che è ammirabile» e «ciò che è plausibile») dei segni iconici e indicali.
L’ipotesi nasce da un’interpretazione e non da un’intuizione, ma si tratta di
un’interpretazione di tipi di segno che si trovano al di sotto della simbolici-
tà e che allo stesso tempo possono poi essere tradotti simbolicamente. Dal
giallo degli Assassinii della Rue Morgue fino alla scoperta di Keplero e al
problema della realtà di Dio, non c’è soluzione teorica che non abbia biso-
gno di segni11.
Lo stesso Peirce si domanda poi come possiamo avere questa capacità di
leggere i segni e invoca come spiegazione il fatto di essere noi stessi parte di
quella realtà che dobbiamo comprendere. Il nome di questa capacità, nella
dizione peirceana, è «istinto razionale», che con l’andar del tempo il filoso-
fo americano immette sempre più profondamente all’interno del funziona-
mento della ragione stessa, come una radice segreta rispetto alla quale il
pragmatismo, inteso come l’insieme dei passi 2)-4) si trova in una condizio-
ne solo ausiliaria di verifica, addirittura non in grado di gettare uno sguardo
sulla «verità, sulla bellezza, sulla bontà morale, le uniche tre cose che innal-
zano l’umanità al di sopra dell’animalità» (Peirce, 2005: 712).
In ultimo, il rapporto tra epistemologia e metafisica spesso si sviluppa
intorno al dilemma tra realismo e varie forme di idealismo/strutturali-
smo/costruttivismo. La soluzione è di difficile composizione proprio perché
permane l’idea che la realtà non possa essere «segno» di qualcosa di meta-
fisico e che la rappresentazione possa o debba esprimere solo una posizione
soggettivistica. Il solco tra il fenomeno e il noumeno tracciato da Kant si è
ampliato considerevolmente rendendo ardua l’impresa di mantenere una con-
tinuità tra realtà e pensiero che rispetti quella riscontrata dal senso comune.
Peirce recupera la metafisica a partire dalla sua logica rappresentaziona-
lista. La metafisica è il risultato del fatto che la logica simbolica alla quale
approda il nostro ragionamento, così come la teoria degli insiemi che la
11 Si veda per questo lo studio dell’abduzione in Maddalena (2009: 57-78). Per le citazioni
di Peirce sui due punti menzionati si veda Peirce (2005: 631) (l’esemplificazione dell’ab-
duzione tramite il racconto di E.A. Poe) e CP 1.71-75; 2.96-97; 2.707 (l’abduzione e Keplero).
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Nell’uso empirico non si richiede alcuna critica della ragione, poiché i principi di
quest’ultima vengono continuamente sottoposti ad esame con la pietra di paragone
dell’esperienza; non necessita di tale critica neanche la matematica, lì dove i concetti
devono essere esposti immediatamente in concreto nell’intuizione pura e ogni cosa
infondata e arbitraria diviene perciò subito evidente. […]
La conoscenza filosofica, quindi, considera il particolare solo nell’universale, mentre
quella matematica considera l’universale nel particolare, anzi addirittura nel singolo,
anche se a priori e per mezzo della ragione, di modo che, come questo singolo è de-
terminato entro certe condizioni universali della costruzione, così l’oggetto del con-
cetto – cui questo singolo corrisponde soltanto come suo schema – dev’essere pen-
sato come universalmente determinato [Kant 1787: 1011-1017].
Kant si ferma qui, mentre Peirce prosegue questo tipo di ragionamento
individuando il «fare concreto» come fondamento stesso della matematica,
nel senso che il fare matematico, quello che io chiamo «il gesto matemati-
co» – disegnare dei diagrammi nella mente o sulla lavagna – è un tipo di a-
zione che collabora alla creazione dei propri fondamenti metafisici. Che co-
sa vuol dire? Le costruzioni matematiche sono costruzioni umane che fanno
parte dello sviluppo della realtà stessa. Quando facciamo matematica noi
individuiamo delle relazioni, a volte costruendole, altre volte ricavandole da
costruzioni già stratificate nella storia del pensiero. Tali relazioni possono
essere più o meno valide e infatti il corso della storia, lo sviluppo della real-
tà, si preoccuperà di eliminarle o renderle necessarie. In questo secondo ca-
so esse mostrano di essere «corrispondenti» con la realtà, nel senso che ne
sono parte integrante e, in quanto tale, necessaria. In questo senso, prima si
compie il «gesto matematico» e poi lo si trova «fondato» (per questo Peirce
come Cantor non temeva la crisi dei fondamenti, perché se la matematica
c’è, sarà fondata; i fondamenti si trovano a posteriori e, pur essendo a po-
steriori, sono necessari).
Questo tipo di ricostruzione potrebbe essere applicata allo stesso modo
ad altri campi creativi, come il gesto attraverso il quale si immagina un per-
sonaggio letterario o come, più in generale, quei gesti che presiedono a pra-
tiche significative. Le pratiche hanno in sé la propria normatività in quanto
gesti, ossia in quanto azioni cariche di un significato, ma non si può rintrac-
ciare tale normatività se non a partire dai gesti12. Bisognerà poi vedere come
si produca tale sinteticità e, in ogni caso, compiere su di essa anche
un’analisi. Il significato che troviamo in azione, infatti, è analiticamente
scomponibile nei termini di una semiotica peirceana in icone, indici e sim-
boli, ossia in rappresentazioni per similarità, contiguità e interpretazione
(un terzo che sta verso il suo oggetto nella stessa relazione del secondo).
(2006: 49-66).
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13 Peirce, nei suoi ultimi anni di vita, sperava di trovare una logica delle icone e degli indici
(MS 200: 49), una logica che venga prima della logica dei simboli con la quale si può dar ra-
gione dell’intera logica classica e di quella formale (Parker, 1998: 143, 161), ma non si può
spiegare l’intera ragionevolezza umana.
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15
Si veda il riassunto del dibattito in Ferraris (2008: 583-600).
16 Per una trattazione unitaria in chiave pragmatista si veda il già citato libro di R. Frega
(2009: 85-195). Dei singoli autori i punti forse più espressivi di tale concezione sono After Vir-
tue (MacIntyre, 1981), Sé come un altro (Ricoeur, 1990), Must we mean what we say? (Cavell,
1969), Permettere alle noste pratiche di parlare per se stesse: Wittgenstein, Peirce e le loro linee
di intersezione (Colapietro, 2006).
17 La «vera continuità» è il termine con cui Peirce indicava la continuità che sfugge al
computo della teoria degli insiemi. Il filosofo americano aveva infatti scoperto, indipendente-
mente da Cantor, il teorema e il paradosso di Cantor e ne aveva fatto tema di una lettera del
dicembre 1900 indirizzata al matematico tedesco (NEM3: 767-776). Peirce pensava quindi che
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una volta che la si intenda non secondo la logica degli insiemi, ciò che è
continuo è tale in virtù di una regolarità essenziale, nel senso antico della
parola. La continuità non è una somma di eventi ben coesi, ma viceversa la
condizione degli eventi distinti. La narratività non è dunque un problema
morale ma una funzione logica, sebbene si debba concepire questo termine
– come già sottolineato molte volte – in termini molto diversi dagli usuali.
La storicità della narrazione è la realizzazione di abiti all’interno dei quali
sono cristallizzati certi significati che, a loro volta, sono frutto di una storia
iconica e indicale che realizza il rapporto con i fenomeni. Tale unitarietà
della storia precede i singoli elementi sintetici e non ne è la somma così co-
me la «vera continuità» non si può raggiungere operando sugli insiemi. In
questo senso, la continuità precede la divisione e la sintesi precede l’analisi,
rispettando così l’assunto esperienziale da cui il pragmatismo ha tratto le
mosse.
Di che cosa è composta questa «vera continuità»? Ancora una volta gli
studi di Peirce possono qui tornare utili. Secondo il filosofo americano, la
continuità eccede ogni computo metrico e dunque è una connessione po-
tenziale o essenziale che diventa necessaria. Si tratta di una regolarità inter-
na che perviene all’essenza stessa degli oggetti, essenza che dobbiamo am-
mettere come punto limite di riferimento per gli oggetti stessi. La regolarità
di questo legame tra essenze è ciò che si manifesta nella nostra lettura este-
tica ed etica dei segni nel caso delle abduzioni.
In secondo luogo, tale continuità deve aver un fine, almeno potenzial-
mente ultimo. Se così non fosse l’identità nel cambiamento diventerebbe
indifferenza e prevarrebbe quella a-normatività che giustamente Frega rim-
provera sul piano etico-politico ad autori come MacGilvray (Frega, 2009:
227-234). Se la narratività fosse priva di criteri di giudizio, qualunque svi-
luppo dovrebbe essere accettato rendendo di fatto insostenibile ogni civile
convivenza. E rimanendo su un piano etico, come è possibile decidere quale
insieme di valori adottare, l’immagine di sé che si vuole perseguire, se non
mirando alla sua compiutezza, per quanto vagamente intesa?
Ma anche sul piano puramente epistemologico, che il fine decida del si-
gnificato è proprio il cuore del pragmatismo; con ciò non si vuole affermare
una versione jamesiana – spesso nemmeno sostenuta dall’autore – di totale
arbitrarietà nella costruzione valoriale che presiede alla ricerca. Al contrario
la teoria degli insiemi producesse inevitabilmente paradossi perché gli insiemi di partenza era-
no comunque individui singoli. Il paradosso era la prova che la logica insiemistica è un aspetto
limitato di una realtà continua più vasta da capire al di là di ogni computo metrico tramite ca-
tegorie metafisiche. A sua volta, Cantor (1980: 378) pensava che l’infinito raggiunto attraverso
la propria teoria fosse quello matematico che si distingue tanto da quello assoluto proprio di
Dio quanto da quello che esiste nel mondo creato. Per un resoconto dell’affascinante questio-
ne dibattuta da Peirce e Cantor mi permetto di rimandare a Maddalena (2009: 137-192).
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particolare (non diviso fra idem e ipse) all’interno del flusso della causalità
di un’esperienza così vasta da comprendere cause di ordine materiale, men-
tale, spirituale e modalità possibili, attuali e necessarie. Epistemologicamen-
te si ha qui una profonda distanza dalla forma brandomiana di neo-prag-
matismo: invece che «rendere esplicito il significato» – operazione che rien-
tra sempre nel canone analitico – si vuole qui vedere come esso si «renda
implicito». Dal punto di vista metafisico, si crea così la già citata inversione
del paradigma classico sostenendo che la vera teoria si capisce nella pratica
perché l’operare è condizione necessaria e sufficiente dell’essere. «È se ope-
ra» e non «se è, opera» è la comprensione più profonda dei concetti.
Rimane da affrontare il tema cruciale del «riconoscimento». Nella storia
della filosofia ci sono almeno due modelli principali: uno prevede la per-
manenza di certi attributi che permettono di identificare un medesimo og-
getto, l’altro è quello che in qualche modo si riferisce alla dialettica hegelia-
na, che ciò poi avvenga in ambito idealista o ermeneutico o pragmatista18.
Né il riconoscimento di attributi né quello dialettico corrispondono
all’identità figurale che occorre riconoscere. In questo senso, il riconosci-
mento è solo, ancora una volta, l’inserirsi dei gesti all’interno della continui-
tà e il ri-conoscerli in virtù della loro intrinseca semioticità come parte della
medesima continuità così come essa sarà in quel futuro di cui il caso in que-
stione è già un esempio. L’Ulisse omerico (nel caso del tirar l’arco e non in
quello della cicatrice) o il Gesù dei Vangeli della risurrezione sono ottimi
esempi di riconoscimento che avviene tramite l’attuarsi di gesti. Certo, si
tratta di casi limite, ma come spesso accade i casi limite illustrano il metodo
che rimane confuso nei casi più quotidiani. Anche in questi ultimi, tuttavia,
si può osservare la medesima dinamica: il funzionamento della memoria, le
diagnosi mediche, i processi indiziari, poggiano tutti sulla possibilità di «i-
dentificare» un oggetto o una persona sulla base di un singolo segno (incar-
nato in gesti) che proletticamente illustra la totalità a cui si fa riferimento.
Ri-conoscere non è conoscere di nuovo ciò che si è già visto, ma inferire
l’identità del quale il gesto presente è pro-fezia e la totalità che è destinata a
comprenderlo. La sottolineatura di atti performativi come la promessa o il
giuramento con il loro mantenimento – ben delineati da Ricoeur – sono
senza dubbio una delle vie sulle quali la filosofia sintetica deve avviarsi. Ma
ciò che non emerge nel filosofo francese è la differenza figurale di questi atti
– tutti i gesti sono narrativi ma non tutti sono ugualmente importanti per
l’identità –, ossia non tutti hanno la medesima rilevanza nei termini di
un’identità in cambiamento. Ciò che manca è proprio il partire da una con-
cezione continua ed essenziale dello sviluppo storico che permetta di capire
Gadamer, per quella pragmatista basti pensare al chiaro influsso hegeliano su Dewey.
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