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Clinton: accordo sulle sanzioni a Iran …
NUCLEARE
Clinton: accordo sulle sanzioni a Iran
No di Turchia e Brasile: “Ora negoziare”
La bozza al Consiglio di sicurezza: embargo su armi, controlli su conti bancari, cargo. Erdogan
chiede sostegno al patto per lo scambio dell’uranio iraniano in Turchia. Lula: “Anche noi nel
gruppo 5+1”
NEW YORK - All’indomani della sigla dell’accordo tra Teheran, Brasilia e Ankara per l’invio
di uranio in Turchia in cambio di combustibile nucleare per centrali atomiche, il segretario di Stato
americano Hillary Clinton ha annunciato l’esistenza di un accordo con Cina e Russia su una bozza di
risoluzione per le sanzioni sull’Iran. La bozza di risoluzione, da approvarsi entro la metà di giugno,
espande l’embargo delle armi e prende mira le banche sospette e le transazioni finanziarie e
assicurative di Teheran. Prevede inoltre l’instaurazione di un regime di severi controlli dei mercantili
iraniani in mare e nei porti. Il documento esorta i paesi memebri dell’Onu a una “vigilanza globale
(sulle attività) dei Pasdaran, su tutte le transazioni bancarie iraniane, inclusa la banca centrale”. Il testo
chiede anche la messa al bando si ogni licenza all’estero per gli istituti di credito degli ayatollah se
sospettati di aver legami con il programma di proliferazione nucleare. Il documento chiude ribadendo
la “grave preoccupazione” per la decisione di Teheran di proseguire comunque le attività di
arricchimento dell’uranio al 20%.
“Abbiamo lavorato strettamente con i partner del gruppo 5+1 e sono felice di dichiarare che
oggi abbiamo un accordo su un progetto forte con la cooperazione di Russia e Cina”, ha detto il
segretario di Stato. All’Onu l’ambasciatore britannico alle Nazioni Unite, Mark Lyall Grant, ha
confermato “progressi all’interno del gruppo dei cinque più uno”, riferendosi ai Paesi con potere di
veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Gb, Francia, Russia e Cina, più la Germania) chiamati a
valutare il dossier iraniano sul nucleare. Al 5+1 intendono adesso unirsi anche Brasile e Turchia, ha
fatto sapere un consigliere del presidente brasiliano, Ignacio Lula da Silva. E il Brasile sembra voler
sparigliare le carte anche nel Consiglio di sicurezza. Membro non permanente, come la Turchia, si è
rifiutato di esaminare la bozza di risoluzione alla luce della “nuova situazione” creata dall’accordo
siglato proprio da Lula e dal premier turco Erdogano con Ahmadinejad per lo scambio tra l’uranio
debolmente arricchito dell’Iran e il combustibile turco per le centrali “a scopo civile” di Teheran.
L’accordo annunciato ieri dall’Iran aveva ricevuto immediate critiche dagli Usa e dall’Ue che
avevano fatto sapere che questo non avrebbe evitato l’applicazione di nuove sanzioni a Teheran.
Secondo Hillary Clinton, attraverso l’accordo sull’uranio negoziato dall’Iran con Brasile e Turchia,
l’Iran avrebbe solo cercato di allontanare la pressione internazionale e l’attenzione sulle sanzioni.
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto un appello da Madrid alla “comunità
internazionale, affinché sostenga” l’accordo raggiunto tra Iran, Turchia e Brasile. “Faccio appello alla
comunità internazionale affinché sostenga la dichiarazione finale in nome della pace mondiale.
Abbiamo dimostrato che con la diplomazia, l’Iran può sedersi attorno a un tavolo e negoziare”, ha detto
Erdogan, invitando l’Occidente ad abbandonare la strada delle sanzioni. Dopo quest’accordo, ha
continuato Erdogan, “noi dobbiamo smetterla di parlare di sanzioni”. Secondo il premier turco,
l’accordo è “importantissimo” per sbloccare la questione nucleare iraniana, perché permette a Teheran
di recuperare “in meno di sei mesi” il combustibile arricchito.
La proposta iraniana, cui hanno fatto da sponda Turchia e Brasile, prevede lo scambio in
Turchia di 1.200 chili di uranio debolmente arricchito (3,5 per cento) iraniano con 120 chili di uranio
arricchito (20 per cento) destinato al reattore di ricerca nucleare a Teheran. L’accordo è stato accolto
con cautela dalla comunità internazionale.
Parigi giudica positivamente l’accordo. Il presidente francese Sarkozy ha fatto sapere con una
nota che considera l’intesa “un passo positivo” ma che aspetta di leggerne i dettagli nella missiva che
Teheran invierà all’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Il trasferimento di 1.200 chili di
uranio alla Turchia, ha sottolineato Sarkozy, “deve essere accompagnato, com’è logico, da una
sospensione del processo di arricchimento dell’uranio al 20%”. La Francia, afferma Sarkozy, “valuterà
con il Gruppo dei Sei. Siamo pronti a discutere senza preconcetti tutte le conseguenze sull’intero
dossier che riguarda l’Iran”.
Dallo scorso autunno l’Iran ha aumentato del 50% il suo stock di uranio scarsamente arricchito,
che secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), è di oltre 2.400 chili. A febbraio, la
Repubblica islamica ha anche lanciato la produzione di uranio altamente arricchito (20%). Da Parigi il
portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero ha fatto sapere che la proposta d’accordo
dell’Aiea per la consegna all’estero da parte dell’Iran di 1.200 chili di uranio scarsamente arricchito,
ripresa in parte in una dichiarazione firmata ieri dall’Iran con Brasile e Turchia, potrebbe essere
aggiornata. “Se l’Iran rispondesse finalmente alla proposta fatta in ottobre dall’Aiea, bisognerebbe
forse vedere di quali quantità si parla - ha detto Valero -. Attendiamo la risposta dell’Iran” e “il giorno
in cui risponderanno, forse bisognerà formulare delle domande”.
Israele invece non ha ancora reagito ufficialmente all’annuncio dell’accordo, ma già ieri le
posizioni espresse da fonti ufficiose a Gerusalemme erano di scetticismo e di sospetto che la nuova
mossa dell’Iran serva a ingannare la comunità internazionale e continuare al tempo stesso il suo
programma nucleare che Israele, insieme a molti altri stati, teme che abbia fini militari. La stampa
israeliana odierna nei commenti ritiene comunque che l’accordo sia un successo diplomatico per l’Iran,
in quanto sembra concretamente allontanare la minaccia di sanzioni, ma un male per Israele, convinto
sostenitore di una linea di grande fermezza nei confronti del regime al potere a Teheran.
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di Roberto Saviano
Mi ha generato un senso di smarrimento e paura la dichiarazione di voler tutelare la privacy dei
boss mafiosi. Molti boss è proprio quando parlano con i familiari che danno ordini di morte. Ed è
proprio quando i familiari a loro volta parlano con amici e conoscenti che rendono palesi le volontà di
chi è latitante e impartisce ordini. È proprio nei momenti di maggiore intimità che viene fuori la
mappatura criminale di un territorio. Addirittura osservando le conversazioni dei figli dei boss sui
social network si possono evincere informazioni che probabilmente seguendo altri canali potrebbero
sfuggire. Famiglie potentissime che festeggiano compleanni nel chiuso di quattro mura con pochi
intimi: significa che non è il momento adatto per esporsi, significa che ci sono problemi sul territorio.
Quando si ha a che fare con le organizzazioni criminali tutto può essere utile per comprenderne
i meccanismi. Per questo limitare l’utilizzo delle intercettazioni, renderne più ardua la disposizione e
impedire che certe informazioni vengano pubblicate è un grave danno per il contrasto alla criminalità
organizzata. Tutelando chi è vicino alle organizzazioni si tutelano indirettamente anche le
organizzazioni stesse.
Nella maggior parte dei casi i filoni di indagine maggiori hanno preso le mosse da indagini
secondarie che nulla sembravano, a primo acchito, avere a che fare con i reati commessi dalle
associazioni mafiose. Quello che c’è da sperare, ora, è che chi fa queste dichiarazioni semplicemente
non sappia di cosa sta parlando e non sia in malafede. Non so cosa sia meglio per il Paese, se avere a
che fare con incompetenti, i dilettanti dell’antimafia, o con persone che invece agiscono
consapevolmente in malafede. Non saprei decidere.
Il rischio che la legge sulle intercettazioni pregiudichi in maniera profonda la libertà di
informazione e prima ancora la possibilità di fare indagini adeguate è troppo alto per poter lasciare il
dibattito a chi, da una parte e dall’altra, ha solo interesse che la vicenda venga strumentalizzata. Contro
il Ddl intercettazioni proposto dal ministro Alfano e in discussione al Senato insorgono magistrati,
giornalisti, editori e l’opinione pubblica è divisa, quando non è confusa. Il governo parla di vietare la
diffusione delle intercettazioni e del loro contenuto fino all’udienza preliminare, ovvero fino a quando
il magistrato competente non abbia formalizzato l’accusa. E nel frattempo cosa possono scrivere i
giornalisti? E cosa può sapere l’opinione pubblica? Che si stanno svolgendo indagini? A carico di chi e
per che cosa?
La materia è assai vasta per poterne dare una valutazione complessiva, ma se prendiamo il caso
del sottosegretario Nicola Cosentino, nessuno avrebbe potuto scriverne perché l’accusa è stata
formalizzata solo dopo molto tempo dall’avvio delle indagini. Indagini che peraltro riguardavano
illeciti commessi molti anni prima e i cui effetti erano sotto gli occhi di tutti. Poteva esser scritto che
era partita una inchiesta dell’Antimafia di Napoli senza però poter indicare le ragioni, a quel punto
sarebbe equivalso a non scrivere niente. A oggi non è stata ancora formalizzata una richiesta di rinvio a
giudizio, il che significa che se vigesse già la legge in discussione nessuno potrebbe spiegare sui
giornali, in modo chiaro, perché Cosentino dovrebbe essere arrestato. Lo stesso vale per la vicenda
Bertolaso; nessuno potrebbe spiegare con elementi concreti chi sono Anemone e Balducci.
L’esigenza legittima di dare una misura, di porre un argine alla pubblicazione delle
intercettazioni ossia di difendere la regolarità dello svolgimento delle indagini non deve in alcun modo,
però, impedire la libertà di raccontare, di informare la gente su quel che sta accadendo. Perché se da un
lato è necessario tutelare chi è oggetto di indagini da atteggiamenti giustizialisti o da garantismi
pretestuosi, quello che non deve in alcun modo essere limitato è la possibilità di utilizzare tutte le
risorse a disposizione degli inquirenti per fare chiarezza.
Ma in realtà questa legge è figlia diretta della logica mediatica. È una verità evidente sino a ora
trascurata. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che sa bene come funziona l’informazione
e ancor più l’informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c’è il rinvio a
giudizio, se da un lato è garanzia per gli indagati, dall’altro genera un enorme vuoto che riguarda
proprio quel segmento di informazioni che non possono essere rese di dominio pubblico. Questo
sembra essere il vero obiettivo della legge: impedire alla stampa, nell’immediato, di usare quei dati che
poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate
rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili.
Quello che mi sento di dire è che governo, magistratura e stampa, in questa vicenda, dovrebbero
trovare un terreno comune di discussione, perché di questo si tratta, di riappropriarsi di un codice
deontologico che renda inutile il varo di leggi che limitino la libertà di stampa, di espressione e di
ricerca delle informazioni. Non è limitando la libertà di stampa e minacciando l’arresto dei giornalisti
che si arriva a creare una regola condivisa. E in questa discussione mi sento profondamente coinvolto
perché sotto la legge che si vorrebbe far passare, il mio lavoro e quello di molti miei colleghi sarebbe
stato notevolmente più arduo se non, in certe sue fasi, impossibile. Se ci fosse stata questa legge non
avrei potuto scrivere intere parti di Gomorra, il cui dialogato talvolta è formato da intercettazioni che
ho utilizzato molto prima del rinvio a giudizio e che avevano un valore di inchiesta ancor prima che un
valore giudiziario.
Mostravano come in certe aree d’Italia, in quel caso a Secondigliano, un omicidio venisse
definito “pezzo” i politici fossero chiamati “cavallucci” su cui puntare. Ma ancor più importante,
perché come ho detto prima non si tratta solo di descrivere un contesto, quello avrei potuto farlo con
parole mie, quelle intercettazioni descrivevano come un sindaco avesse partecipato direttamente a un
agguato, mostrando, in questo modo, lo stato di salute di un intero Paese.
Nel Ddl intercettazioni è anche inserito un emendamento, la “norma D’Addario” che regolamenta l’uso
delle registrazioni. Seguendo quanto prescritto non avrei potuto registrare molte delle testimonianze
che ho raccolto senza l’esplicito consenso del mio interlocutore e che ho riportato in Gomorra;
testimonianze che di certo non sarebbero rientrate in quelle eccezionalmente fatte per la sicurezza dello
Stato.
Molte vicende non sarebbero mai venute alla luce e benché spesso io abbia omesso i nomi reali
e mi sia limitato a raccontare i meccanismi, credo che neppure quello sarei stato in grado di fare,
rischiando pene severissime. Quando, non molto tempo fa, ho incontrato un pentito e ho registrato
quello che mi ha raccontato, l’ho fatto senza sua autorizzazione e senza sapere quale sarebbe stato
l’esito di quell’incontro. Di fatto, se non c’è reato in quello che viene registrato, si rischia molto e
questo può pregiudicare anche la lotta alle estorsioni poiché chi ne è vittima e decide di presentarsi
microfonato a un colloquio, se l’estorsione non avviene ed è scoperto a registrare, rischia fino a quattro
anni di carcere. Tutto questo per dire che togliere la libertà a chi racconta, togliere gli strumenti per
capire cosa sta accadendo non è un modo per difendere il diritto delle persone, non è un modo per
salvaguardare la privacy.
L’uso delle intercettazioni deve essere regolamentato. Le regole devono essere condivise e
affrontate insieme, non imposte. Questa legge rischia di essere, se non verrà profondamente modificata,
solo l’affermazione che il potere non può essere raccontato, descritto, ascoltato. In una parola che tutto
gli è concesso.
Questo articolo è stato scritto da roberto saviano, e pubblicato il 24 maggio 2010 alle 08:35, archiviato
in carte e contrassegnato intercettazioni, legge bavaglio, mafie, Roberto Saviano. Salva nei segnalibri il
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di Giuseppe Catozzella
Procediamo con ordine. Le ultime tre settimane sono state fondamentali per comprendere quello che si
sta preparando al tribunale di Milano, quale sarà lo scenario a cui assisteremo nei prossimi mesi.
Lunghi anni di indagini su moltissimi fronti separati stanno infatti cominciando a portare i primi frutti.
Si comincia a intravedere quella che sarà una stagione durissima di condanne alla mafia lombarda,
simile a quella degli anni Novanta, gli anni dei maxiprocessi per mafia al tribunale di Milano, quelli
che comminarono migliaia di anni di carcere agli affiliati alle cosche.
Quello che viene fuori dai recentissimi eventi è da un lato un manuale della perfetta infiltrazione nel
tesoro dell’Expo e dell’altro la fotografia di una classe di imprenditori, quelli lombardi, che non solo
non denuncia affatto e mai, ma che spesso preferisce la collusione per motivi di affari.
Negli ultimi venti giorni, infatti, il tribunale di Milano ha sancito, se ce ne fosse stato bisogno, con una
sentenza di primo grado per associazione mafiosa nel processo Cerberus e con la recentissima
ordinanza di custodia cautelare in carcere per tutto il clan Valle (legato a doppio filo al potentissimo
clan dei De Stefano, protagonista della sanguinosissima faida da centinaia di morti con il clan Condello
e di nuovo imputato adesso a Milano di associazione mafiosa, oltre che di estorsione, usura e
intestazione fittizia di beni), che il sindaco Moratti e le autorità si sbagliavano quando negavano
l’esistenza della mafia nell’ex capitale morale del Paese e quando si scioglieva frettolosamente la
neonata commissione antimafia che avrebbe dovuto cercare di vegliare sul promesso tesoro dell’Expo.
Il processo Cerberus ha visto la luce alla conclusione dell’omonima inchiesta condotta dal Gico della
Guardia di Finanza di Milano che ha eseguito otto arresti su ordine del gip di Milano Piero Gamacchio.
Otto arresti che tagliano la testa a uno dei più potenti clan lombardi, quello dei Barbaro-Papalia, che
dominano il settore del cemento nell’hinterland milanese: il boss Domenico Barbaro, detto Mico
l’australiano, i figli Salvatore e Rosario Barbaro, Pasquale Papalia (figlio del super boss Antonio
Papalia) già condannato con rito abbreviato, Mario Miceli, Maurizio De Luna (che ha scelto il rito
abbreviato), Maurizio Luraghi e la moglie Giuliana Persegoni. L’accusa è, appunto, di associazione a
delinquere di stampo mafioso finalizzata all’estorsione, al porto abusivo di armi e al riciclaggio di
denaro. L’11 giugno 2010 la sentenza di primo grado letta dal giudice Aurelio Barazzetta dà ragione
quasi su tutto all’impianto accusatorio della pm Alessandra Dolci, e condanna a 9 anni di carcere
Salvatore Barbaro, ritenuto il “promotore” dell’associazione mafiosa, a 7 anni Mico l’australianoe
l’altro figlio, Rosario. 6 anni di carcere, invece, per Mario Miceli. Ma, insieme a loro, in quella che è
una sentenza destinata a fare storia, c’è Maurizio Luraghi, l’imprenditore milanese che ha recentemente
avuto le telecamere di Annozero a disposizione per giurare la sua innocenza (nonostante l’esistenza di
intercettazioni ambientali in cui lui, parlando con i Barbaro, si dice commosso per aver tirato su
insieme a loro tutto l’hinterland sudovest di Milano), che è stato condannato a 4 anni e 6 mesi per le
attenuanti generiche, mentre sua moglie è stata assolta per non aver commesso il fatto. Sono decaduti il
reato di estorsione e quello dell’uso delle arimi. Quindi, questa sentenza, che sancisce come gran parte
del ciclo del cemento (dai lavori di scavo a quelli di movimento terra, al nolo a freddo e al nolo a caldo,
all’intermediazione edilizia) dell’hinterland milanese sia stato per anni in mano ai Barbaro-Papalia,
sancisce anche il ruolo di un imprenditore lombardo come parte attiva all’interno dell’associazione
mafiosa. Chi ha seguito le fasi dibattimentali del processo, come chi scrive, ha in mente benissimo le
negazioni di tutti gli altri imprenditori sentiti come testi dall’accusa e dalla difesa. Tutti, senza
eccezioni, hanno negato qualsivoglia attività intimidatoria o estorsiva da parte del clan. Che però è poi
stata sancita dalla sentenza.
Al processo Cerberus sono poi legate altre due indagini, che scaturiranno in altrettanti processi. Nel
novembre 2009, infatti, scatta il seguito dell’inchiesta Cerberus con l’operazione Parco Sud che porta
in cella, tra gli altri, anche gli imprenditori Andrea Madafferi e Alfredo Iorio, accusati di essere il
braccio economico-finanziario del clan. Cattura anche per i calabresi Antonio Perre, detto totò ‘u cainu,
e Domenico Papalia, il figlio minore del boss Antonio, sfuggiti all’arresto e tuttora latitanti.
Il 22 febbraio del 2010, poi, è la volta dell’operazione Parco Sud II, quella che ha visto gli arresti
eccellenti tra i politici: sono scattate le manette anche per l’ex sindaco di Trezzano sul Naviglio,
Tiziano Butturini e l’assessore del Pdl Michele Iannuzzi.
Stessi scenari, dunque: mafiosi in associazione mafiosa con imprenditori, e in alcuni casi con uomini
politici. Niente di nuovo? Tutto nuovo, invece, perché questo segna e deve segnare nella coscienza dei
cittadini lombardi un cambiamento di rotta, una conquistata consapevolezza del ruolo di alcuni
imprenditori e politici. Sono sentenze su cui è obbligatorio riflettere anche alla latitudine padana.
Arriviamo a qualche giorno fa, con l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giuseppe Gennari
su richiesta della pm Ilda Bocassini della DDA di Milano. In cella il clan Valle che, secondo l’accusa,
si sarebbe procurato un enorme patrimonio poi rinvestito in almeno 15 società (immobiliari, edili,
ristorazione, locali notturni, videopoker) con la sola usura ed estorsione. Centinaia gli imprenditori e i
commercianti vittime dell’estorsione. 138 immobili sequestrati, 15 aziende, per un totale di circa 8
milioni di beni.
Ma, di nuovo, sono le durissime parole del pm Bocassini che devono far riflettere i cittadini lombardi, e
devono segnare una importante svolta. “Sono tantissime le vittime, ma nessuno ha denunciato” dice
Ilde Bocassini. “Nel Sud c’è una speranza, nel Nord non c’è la disponibilità a usare lo strumento della
denuncia.” E ancora: “Abbiamo riscontrato il totale assoggettamento del tessuto sociale, degli
imprenditori e dei commercianti coinvolti nelle estorsioni”. “Bisogna mettersi in testa che
un’operazione del genere poteva avvenire tranquillamente a Siderno, a San Luca. O si sta con lo Stato o
si sta contro lo Stato.” Le parole più dure il procuratore aggiunto le riserva proprio agli imprenditori
che non hanno denunciato. linea della procura sarà durissima. casi borderline, dove non si capisce bene
il ruolo delle vittime, la magistratura sarà molto rigida. Quando c’è connivenza la linea della Procura
sarà durissima. Non si possono avere alibi.”
È infatti evidente dalla natura del reato, l’usura, che questo trova linfa vitale proprio in forti momenti di
crisi economica e di mancanza di liquidità. Ecco, allora, che le ‘ndrine fanno ciò le banche non possono
più fare. Le banche, il polmone dell’economia lombarda. “Perché gli imprenditori non denunciano?”,
chiedo al pm Bocassini. “In molti casi perché così a loro conviene”, è la secca risposta.
Una risposta che certo non mette tranquillità, quando pare che stiano per arrivare i fondi, i 24 miliardi,
per l’Expo. E infatti questa operazione, oltre a essere un manuale di mafia tradizionale, “esattamente
come opera la Casa Madre” calabrese (per tutti gli elementi attinenti alla villa bunker di Cisliano, “La
Masseria”, dotata di decine di telecamere, cani rotweiler, sensori, allarmi e una studio di osservazione
audio-video con cui 24 ore su 24 i luogotenenti del boss Franscesco Valle si assicuravano di poter
percuotere e picchiare indisturbati i debitori, e per le vedette che sono arrivate anche a seguire per 20
chilometri l’auto di un poliziotto in borghese per poi fermarlo e chiedergli perché fosse passato due
volte lì sotto) è un manuale di infiltrazione nei lavori dell’Expo.
Dice l’ordinanza di custodia cautelare in carcere: “La totale condivisione di interessi tra Adolfo
Mandelli (imprenditore del campo immobiliare, tra gli arrestati, nrd) e i Valle emerge anche in data 23
gennaio 2009, quando Valle ha contattato Mandelli per avvisarlo di aver ottenuto dal Comune di Pero
le licenze per aprire un ‘mini casinò’, una discoteca ed anche attività di ristorazione, in quanto in quella
zona il Comune, in virtù del prossimo Expo, aveva intenzione di riqualificare l’area. Tutto ciò è
avvenuto anche grazie all’amicizia con Davide Valia (assessore comunale a Pero)”. Citiamo anche una
delle intercettazioni che sole, data l’assenza totale di denunce, hanno portato alla conclusione della
difficilissima operazione. dice: “Minchia, meglio di Davide che è a Pero… cosa dobbiamo avere?”.
Dalle intercettazioni, si legge ancora nell’ordinanza, “è emerso inequivocabilmente che la licenza per il
mini casinò è stata ottenuta anche grazie all’interessamento del politico, il quale si adopera pure per
altri favori”. E in un’informativa della Mobile di Milano si afferma che Valia “si prodigò per far
ottenere» a Fortunato Valle «le autorizzazioni per l’avvio di esercizi pubblici e a metterlo in contatto
con altri amministratori locali di altri Comuni da lui conosciuti per favorirlo nei suoi affari”.
Tutti questi procedimenti penali, a cui si aggiungono il processo Ortomercato e il processo Isola, e
destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi mesi, dovrebbero far comprendere ai cittadini
milanesi e ai lombardi l’importanza della scelta civica della denuncia, fondamentale strumento per non
sperperare il tesoro destinato ai lavori dell’Expo.
E certo è difficile dimenticare il contributo arrivato nel processo Cerberus dall’ex sindaco di
Buccinasco Maurizio Carbonera, più volte minacciato e oggi alla guida dell’opposizione, che ha
raccontato tutte le minacce subite, le auto bruciate, le famose tre croci lasciate in un prato accanto al
Comune durante i giorni dell’approvazione del Pgt. Un tributo di tenacia e di coraggio fondamentali
per la sentenza di condanna ai Barbaro-Papalia.
“Senza denunce il nostro lavoro diviene molto più difficile. Ci possiamo appoggiare solo sulle
intercettazioni telefoniche e ambientali” tuonano le parole del procuratore aggiunto Bocassini.
Questo articolo è stato scritto da marco rovelli, e pubblicato il 6 luglio 2010 alle 10:44, archiviato in
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Vorrei dire due parole sulla questione aperta - e chiusa - da Vito Mancuso.
Lo faccio sfidando consapevolmente un forte senso del ridicolo. Che l’opinione di qualche saggista e di
qualche professore sulla propria collaborazione con le edizioni Einaudi e Mondadori possa avere un
qualche interesse per i lettori o addirittura un peso politico è - secondo me - un seducente autoinganno.
Ma il problema soggettivo e morale esiste: e vorrei spiegare come l’ho personalmente affrontato. Lo
faccio in pubblico perché mi preoccupa il clima che sta montando intorno a un ambiente di lavoro che
conosco e che mi è caro: quello, appunto dell’Einaudi. Anni fa, quando avvenne il passaggio di
proprietà della Mondadori e dell’Einaudi, la scelta di andarsene da parte di autori storici come Carlo
Ginzburg e Corrado Stajano pose anche agli altri il problema della compatibilità tra il lavoro
intellettuale e il rapporto con la proprietà di Berlusconi. La mia scelta privata, privatissima, fu quella di
continuare in una collaborazione da cui avevo avuto ben più di quanto potessi sperare di riuscire a dare.
Pensai allora che la corruzione di un sistema si ostacola cercando di contendergli il terreno, di salvare
quello che vale la pena di trasmettere. Avevo in mente il modo in cui Benedetto Croce aveva risolto il
problema - ben più grave - del suo rapporto con l’Italia fascista: espatriare o restare? Un problema che
qualcuno si è posto di nuovo in questi anni e che forse potrebbe diventare attuale se andranno in porto
le “riforme” della giustizia, l’informazione, la scuola e l’università concepite dal regime attualmente
dominante. Arginare la corruzione, salvare gli strumenti e la memoria del lavoro culturale. Questa fu la
giustificazione morale che mi detti e che ancor oggi mi sembra valida. L’Einaudi valeva la pena.
Einaudi era allora - e continua a essere oggi - una casa editrice con una identità scolpita nel suo
catalogo, con una storia speciale nel contesto della cultura italiana: una storia condivisa e mantenuta in
vita da una folla di dirigenti, redattori, impiegati, collaboratori, autori, traduttori, correttori di bozze e -
non certo ultimi - da una rete di librai e di venditori rateali, tramite prezioso con la comunità dei lettori.
Farne parte, sia pure a livelli minimi, era - è - un onore: un onore per se stessi, un qualcosa che
rincuora, non una patacca di appartenenza a una scuderia di cavalli di razza. Perché una cosa va detta a
scanso di equivoci: non si è “autori di qualcuno”; non si è una merce posseduta da un padrone.
Nell’umbratile campo dove lavoro l’unica cosa di cui si ha bisogno è la libertà.
- Estratto da: Adriano Prosperi, “La cultura e l’aria di Libertà”, Repubblica, 05/09/2010
LA QUESTIONE EINAUDI + DUE O TRE COSETTE CHE I BOYCOTT BOYS NON SANNO
Credo che la questione di una “fuga dalla casa editrice” così come è stata
posta nei giorni scorsi su alcuni quotidiani nazionali, non centri il reale problema che attraversa oggi il
mondo editoriale italiano. Cerco di spiegarmi: Mondadori è la più importante casa editrice che abbiamo
in Italia, probabilmente quella che più di altre ha determinato le politiche della produzione editoriale e
che, con i dovuti, grandi, distinguo del caso, insieme ad altri 4 o 5 gruppi definisce la connotazione del
mercato editoriale in senso assoluto. Chiarito questo scenario, trovo auto censoria, sbagliata e forse
pericolosa una campagna di autoesclusione dal principale gruppo editoriale italiano incentrata e
proposta solamente degli autori. Vorrei con il mio intervento contribuire al dibattito cercando di
spostare l’attenzione su un altro punto della questione. Non è che l’aria sta diventando talmente
irrespirabile che alla fine si sia, o si sarà, costretti a “lasciare nelle mani” di chi ha sempre fatto del
disprezzo della cultura con la C maiuscola una sua bandiera, la maggiore e più importante casa editrice
che abbiamo in Italia? Di conseguenza non si rischierebbe di ridurre, con questa scelta, il grado di
autonomia del mercato e dunque la possibilità di vendita e scelta per librai e lettori? Non si sta cadendo
in una trappola ponendo la questione nei termini in cui è stata posta in questi giorni? Il silenzio o i
freddi comunicati, dei dipendenti e dei collaboratori della casa editrice, in tal senso sono il segnale più
preoccupante e secondo me indicativo di un’aria che forse sta davvero cambiando, in un ambiente che a
certi livelli non credo abbia grandi problemi a “privarsi” di certi autori per dirottare sempre di più la
propria produzione su autori più consenzienti o commerciali. In un mercato come quello editoriale
dove tutta la filiera è controllata e dove spesso è il mercato stesso a creare la domanda, ritirarsi dal
catalogo di un grande editore non mi sembra la politica più giusta o quantomeno salutare all’ambiente
culturale. Io credo che in editoria, come nel resto della società, il problema principale in questa fase sia
resistere con la propria identità e le proprie istanze là dove ci si trova, senza cedere un passo
all’arroganza e alle scorrettezze di un potere che si sta facendo sempre più cupo. Non sto con questo
chiedendo ad autori o lavoratori dell’editoria di intraprendere campagne politiche all’interno di
Mondadori o che altro editore, ma sto ragionando sulla necessità che autori, editor, distributori, librai e
lettori contribuiscano tutti insieme, con il loro lavoro e le loro scelte quotidiane alla difesa della
circuitazione e produzione editoriale indipendente nel nostro paese. Quanto è in gioco adesso è molto
di più, con il dovuto rispetto, di un problema morale; la partita che stiamo giocando è sull’autonomia
del mercato e della produzione editoriale, qualcosa che con parole grosse potremmo definire come il
futuro di un buon pezzo della Cultura in Italia.
Si tratta di difenderla da chi sempre di più vuole definire chi scrive, cosa si scrive, come si vende, dove
si vende. In una fase così penso sia molto utile che ognuno resti al suo posto a fare le cose che sa e ama
fare, cercando con le proprie azioni di affermare che questo paese non è la classe politica o
imprenditoriale che in questi anni, e peggio ancora negli ultimi mesi, la sta rappresentando.
- Estratto da: Massimo Roccaforte, “NdA (distribuzione indipendente) sul caso Mondadori
Gli “autori che pubblicano per Mondadori” NON ESISTONO: nel senso
che non sono una corrente, un partito, una lobby, una frangia organizzata, una fazione. Non concordano
una linea, neanche ce l’hanno una linea comune (tutti quanti insieme, intendo). Ciascuno risponde per
quello che scrive nei propri libri: e avrebbero diritto di sentirsi porre questioni che partono dai
contenuti dei libri che pubblicano per una collana che afferisce a B. Ma se questo avvenisse, molti di
questi autori potrebbero, contenuti alla mano, dimostrare che quello che fanno non è aggirare un
problema, ma di porre un problema al signor B.
Porre la questione annoserrima tradisce un’idea del narratore, o dell’autore, idealistica, barbuta e
monocoluta, alla Croce o Omodeo: che i libri spostano le montagne e cambiano il mondo solo perché,
esistendo, svelano la verità e sconfiggono il male. Beh, toglierselo dalla testa: i libri producono effetti
sul lungo periodo, a volte sul lunghissimo (e spesso non ne producono alcuno). L’intero lavoro
intellettuale (la battaglia delle idee, come si diceva una volta) dev’essere impostata come lotta di
lunghissima durata, dagli esiti incerti: i narratori piantano querce che forse non vedranno crescere, mica
rucola per la piadina. E quindi tutelare, finché si può, la possibilità di una buona diffusione,
circolazione, visibilità, reperibilità è cosa fondamentale. Se poi tutto questo è possibile senza subire
censure, né preventive né implicite, tanto meglio: se qualcuno non crede all’esistenza di nicchie di
qualità e di onestà nel Sistema Editoriale Omologato, tanto peggio per lui.
- Da un intervento di Girolamo De Michele nella citata discussione su Giap
Una cosa che mi sconvolge, in questa diatriba infinita, è come essa sia
esemplare di un fenomeno più ampio e devastante, il “voyeurismo” d’opposizione. Si tratta di un’ansia,
un’ossessione, una richiesta compulsiva di assistere al “Gesto”, finale e definitivo, che archivi una fase
storica, che termini un incantesimo. Chiunque venga identificato, per un momento e senza basi
concrete, come ipoteticamente in grado di agirlo, quel “Gesto”, viene investito, anche solo per un
giorno, di questa sacra missione, e dopo poco, come è ovvio, va a rimpolpare le schiere degli stronzi e
dei venduti. Siano Saviano o Fini, gli Scrittori o l’ultimo magistrato, il penultimo prete sociale o il
prossimo giornalista d’inchiesta, c’è l’attesa salvifica di una ‘mossa fine di mondo’ che tagli la testa al
problema. Ecco, questo è esattamente il “berlusconismo”. Ragazzi, non sarà Bresci a salvarci. B. non è
Sauron. B. NON HA prodotto questo paese, E’ un prodotto di questo paese, dei suoi flussi profondi,
sociali culturali antropologici geografici, che lo attraversano da oltre un secolo e che rimangono non
solo irrisolti ma proprio inaffrontati. Il “berlusconismo” è la scorciatoia. Che porta dritti dritti contro un
muro. Noi, tutti, la stiamo percorrendo, caso mai convinti di essere su fronti opposti, e la buona fede in
questi casi serve alla propria coscienza e poco altro. il “berlusconismo” post-B. potrà essere anche
molto peggio della merda di oggi, per quanto facciate fatica ad immaginarlo. Perchè sarà rimozione e
archiviazione, ancora scorciatoia, a cui farà immediato seguito il conto, e vedrete che lo pagheremo,
che si proverà a saldare con semplificazioni barbare di negazione della convivenza. Il muro è più vicino
di quanto crediamo. La cosa abbastanza terribile, ai miei occhi, è che B. sia l’ultimo collante virtuale
che tiene un paese che già non c’è più. Già lacerato, irriducibile e diseguale, frammenti molto difficili
da ricomporre. B. non può fare a meno dell’italia. Il “berlusconismo” sì.
Il “dopo” arriverà rapido, e come sempre ci troverà impreparati.
- Luca, commento alla citata discussione su Giap
NÉ TOPI NÉ DEPRESSI. UN PUNTO REALE SUL QUALE NON RECEDERE
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