Sei sulla pagina 1di 20

Iran, Clinton annuncia accordo sulle sanzioni No di Turchia e Brasile - "Ora negoziare"

repubblica.it — View original

Sei in:
Repubblica
Esteri
Clinton: accordo sulle sanzioni a Iran …

NUCLEARE
Clinton: accordo sulle sanzioni a Iran
No di Turchia e Brasile: “Ora negoziare”
La bozza al Consiglio di sicurezza: embargo su armi, controlli su conti bancari, cargo. Erdogan
chiede sostegno al patto per lo scambio dell’uranio iraniano in Turchia. Lula: “Anche noi nel
gruppo 5+1”
NEW YORK - All’indomani della sigla dell’accordo tra Teheran, Brasilia e Ankara per l’invio
di uranio in Turchia in cambio di combustibile nucleare per centrali atomiche, il segretario di Stato
americano Hillary Clinton ha annunciato l’esistenza di un accordo con Cina e Russia su una bozza di
risoluzione per le sanzioni sull’Iran. La bozza di risoluzione, da approvarsi entro la metà di giugno,
espande l’embargo delle armi e prende mira le banche sospette e le transazioni finanziarie e
assicurative di Teheran. Prevede inoltre l’instaurazione di un regime di severi controlli dei mercantili
iraniani in mare e nei porti. Il documento esorta i paesi memebri dell’Onu a una “vigilanza globale
(sulle attività) dei Pasdaran, su tutte le transazioni bancarie iraniane, inclusa la banca centrale”. Il testo
chiede anche la messa al bando si ogni licenza all’estero per gli istituti di credito degli ayatollah se
sospettati di aver legami con il programma di proliferazione nucleare. Il documento chiude ribadendo
la “grave preoccupazione” per la decisione di Teheran di proseguire comunque le attività di
arricchimento dell’uranio al 20%.
“Abbiamo lavorato strettamente con i partner del gruppo 5+1 e sono felice di dichiarare che
oggi abbiamo un accordo su un progetto forte con la cooperazione di Russia e Cina”, ha detto il
segretario di Stato. All’Onu l’ambasciatore britannico alle Nazioni Unite, Mark Lyall Grant, ha
confermato “progressi all’interno del gruppo dei cinque più uno”, riferendosi ai Paesi con potere di
veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Gb, Francia, Russia e Cina, più la Germania) chiamati a
valutare il dossier iraniano sul nucleare. Al 5+1 intendono adesso unirsi anche Brasile e Turchia, ha
fatto sapere un consigliere del presidente brasiliano, Ignacio Lula da Silva. E il Brasile sembra voler
sparigliare le carte anche nel Consiglio di sicurezza. Membro non permanente, come la Turchia, si è
rifiutato di esaminare la bozza di risoluzione alla luce della “nuova situazione” creata dall’accordo
siglato proprio da Lula e dal premier turco Erdogano con Ahmadinejad per lo scambio tra l’uranio
debolmente arricchito dell’Iran e il combustibile turco per le centrali “a scopo civile” di Teheran.
L’accordo annunciato ieri dall’Iran aveva ricevuto immediate critiche dagli Usa e dall’Ue che
avevano fatto sapere che questo non avrebbe evitato l’applicazione di nuove sanzioni a Teheran.
Secondo Hillary Clinton, attraverso l’accordo sull’uranio negoziato dall’Iran con Brasile e Turchia,
l’Iran avrebbe solo cercato di allontanare la pressione internazionale e l’attenzione sulle sanzioni.
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto un appello da Madrid alla “comunità
internazionale, affinché sostenga” l’accordo raggiunto tra Iran, Turchia e Brasile. “Faccio appello alla
comunità internazionale affinché sostenga la dichiarazione finale in nome della pace mondiale.
Abbiamo dimostrato che con la diplomazia, l’Iran può sedersi attorno a un tavolo e negoziare”, ha detto
Erdogan, invitando l’Occidente ad abbandonare la strada delle sanzioni. Dopo quest’accordo, ha
continuato Erdogan, “noi dobbiamo smetterla di parlare di sanzioni”. Secondo il premier turco,
l’accordo è “importantissimo” per sbloccare la questione nucleare iraniana, perché permette a Teheran
di recuperare “in meno di sei mesi” il combustibile arricchito.
La proposta iraniana, cui hanno fatto da sponda Turchia e Brasile, prevede lo scambio in
Turchia di 1.200 chili di uranio debolmente arricchito (3,5 per cento) iraniano con 120 chili di uranio
arricchito (20 per cento) destinato al reattore di ricerca nucleare a Teheran. L’accordo è stato accolto
con cautela dalla comunità internazionale.
Parigi giudica positivamente l’accordo. Il presidente francese Sarkozy ha fatto sapere con una
nota che considera l’intesa “un passo positivo” ma che aspetta di leggerne i dettagli nella missiva che
Teheran invierà all’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Il trasferimento di 1.200 chili di
uranio alla Turchia, ha sottolineato Sarkozy, “deve essere accompagnato, com’è logico, da una
sospensione del processo di arricchimento dell’uranio al 20%”. La Francia, afferma Sarkozy, “valuterà
con il Gruppo dei Sei. Siamo pronti a discutere senza preconcetti tutte le conseguenze sull’intero
dossier che riguarda l’Iran”.
Dallo scorso autunno l’Iran ha aumentato del 50% il suo stock di uranio scarsamente arricchito,
che secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), è di oltre 2.400 chili. A febbraio, la
Repubblica islamica ha anche lanciato la produzione di uranio altamente arricchito (20%). Da Parigi il
portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero ha fatto sapere che la proposta d’accordo
dell’Aiea per la consegna all’estero da parte dell’Iran di 1.200 chili di uranio scarsamente arricchito,
ripresa in parte in una dichiarazione firmata ieri dall’Iran con Brasile e Turchia, potrebbe essere
aggiornata. “Se l’Iran rispondesse finalmente alla proposta fatta in ottobre dall’Aiea, bisognerebbe
forse vedere di quali quantità si parla - ha detto Valero -. Attendiamo la risposta dell’Iran” e “il giorno
in cui risponderanno, forse bisognerà formulare delle domande”.
Israele invece non ha ancora reagito ufficialmente all’annuncio dell’accordo, ma già ieri le
posizioni espresse da fonti ufficiose a Gerusalemme erano di scetticismo e di sospetto che la nuova
mossa dell’Iran serva a ingannare la comunità internazionale e continuare al tempo stesso il suo
programma nucleare che Israele, insieme a molti altri stati, teme che abbia fini militari. La stampa
israeliana odierna nei commenti ritiene comunque che l’accordo sia un successo diplomatico per l’Iran,
in quanto sembra concretamente allontanare la minaccia di sanzioni, ma un male per Israele, convinto
sostenitore di una linea di grande fermezza nei confronti del regime al potere a Teheran.

(18 maggio 2010) © Riproduzione riservata

repubblica.it — View original

Non avrei mai scritto Gomorra – Nazione Indiana


nazioneindiana.com — View original
Non avrei mai scritto Gomorra – Nazione Indiana

Vai al contenuto

Non avrei mai scritto Gomorra

di Roberto Saviano
Mi ha generato un senso di smarrimento e paura la dichiarazione di voler tutelare la privacy dei
boss mafiosi. Molti boss è proprio quando parlano con i familiari che danno ordini di morte. Ed è
proprio quando i familiari a loro volta parlano con amici e conoscenti che rendono palesi le volontà di
chi è latitante e impartisce ordini. È proprio nei momenti di maggiore intimità che viene fuori la
mappatura criminale di un territorio. Addirittura osservando le conversazioni dei figli dei boss sui
social network si possono evincere informazioni che probabilmente seguendo altri canali potrebbero
sfuggire. Famiglie potentissime che festeggiano compleanni nel chiuso di quattro mura con pochi
intimi: significa che non è il momento adatto per esporsi, significa che ci sono problemi sul territorio.
Quando si ha a che fare con le organizzazioni criminali tutto può essere utile per comprenderne
i meccanismi. Per questo limitare l’utilizzo delle intercettazioni, renderne più ardua la disposizione e
impedire che certe informazioni vengano pubblicate è un grave danno per il contrasto alla criminalità
organizzata. Tutelando chi è vicino alle organizzazioni si tutelano indirettamente anche le
organizzazioni stesse.
Nella maggior parte dei casi i filoni di indagine maggiori hanno preso le mosse da indagini
secondarie che nulla sembravano, a primo acchito, avere a che fare con i reati commessi dalle
associazioni mafiose. Quello che c’è da sperare, ora, è che chi fa queste dichiarazioni semplicemente
non sappia di cosa sta parlando e non sia in malafede. Non so cosa sia meglio per il Paese, se avere a
che fare con incompetenti, i dilettanti dell’antimafia, o con persone che invece agiscono
consapevolmente in malafede. Non saprei decidere.
Il rischio che la legge sulle intercettazioni pregiudichi in maniera profonda la libertà di
informazione e prima ancora la possibilità di fare indagini adeguate è troppo alto per poter lasciare il
dibattito a chi, da una parte e dall’altra, ha solo interesse che la vicenda venga strumentalizzata. Contro
il Ddl intercettazioni proposto dal ministro Alfano e in discussione al Senato insorgono magistrati,
giornalisti, editori e l’opinione pubblica è divisa, quando non è confusa. Il governo parla di vietare la
diffusione delle intercettazioni e del loro contenuto fino all’udienza preliminare, ovvero fino a quando
il magistrato competente non abbia formalizzato l’accusa. E nel frattempo cosa possono scrivere i
giornalisti? E cosa può sapere l’opinione pubblica? Che si stanno svolgendo indagini? A carico di chi e
per che cosa?
La materia è assai vasta per poterne dare una valutazione complessiva, ma se prendiamo il caso
del sottosegretario Nicola Cosentino, nessuno avrebbe potuto scriverne perché l’accusa è stata
formalizzata solo dopo molto tempo dall’avvio delle indagini. Indagini che peraltro riguardavano
illeciti commessi molti anni prima e i cui effetti erano sotto gli occhi di tutti. Poteva esser scritto che
era partita una inchiesta dell’Antimafia di Napoli senza però poter indicare le ragioni, a quel punto
sarebbe equivalso a non scrivere niente. A oggi non è stata ancora formalizzata una richiesta di rinvio a
giudizio, il che significa che se vigesse già la legge in discussione nessuno potrebbe spiegare sui
giornali, in modo chiaro, perché Cosentino dovrebbe essere arrestato. Lo stesso vale per la vicenda
Bertolaso; nessuno potrebbe spiegare con elementi concreti chi sono Anemone e Balducci.
L’esigenza legittima di dare una misura, di porre un argine alla pubblicazione delle
intercettazioni ossia di difendere la regolarità dello svolgimento delle indagini non deve in alcun modo,
però, impedire la libertà di raccontare, di informare la gente su quel che sta accadendo. Perché se da un
lato è necessario tutelare chi è oggetto di indagini da atteggiamenti giustizialisti o da garantismi
pretestuosi, quello che non deve in alcun modo essere limitato è la possibilità di utilizzare tutte le
risorse a disposizione degli inquirenti per fare chiarezza.
Ma in realtà questa legge è figlia diretta della logica mediatica. È una verità evidente sino a ora
trascurata. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che sa bene come funziona l’informazione
e ancor più l’informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c’è il rinvio a
giudizio, se da un lato è garanzia per gli indagati, dall’altro genera un enorme vuoto che riguarda
proprio quel segmento di informazioni che non possono essere rese di dominio pubblico. Questo
sembra essere il vero obiettivo della legge: impedire alla stampa, nell’immediato, di usare quei dati che
poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate
rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili.
Quello che mi sento di dire è che governo, magistratura e stampa, in questa vicenda, dovrebbero
trovare un terreno comune di discussione, perché di questo si tratta, di riappropriarsi di un codice
deontologico che renda inutile il varo di leggi che limitino la libertà di stampa, di espressione e di
ricerca delle informazioni. Non è limitando la libertà di stampa e minacciando l’arresto dei giornalisti
che si arriva a creare una regola condivisa. E in questa discussione mi sento profondamente coinvolto
perché sotto la legge che si vorrebbe far passare, il mio lavoro e quello di molti miei colleghi sarebbe
stato notevolmente più arduo se non, in certe sue fasi, impossibile. Se ci fosse stata questa legge non
avrei potuto scrivere intere parti di Gomorra, il cui dialogato talvolta è formato da intercettazioni che
ho utilizzato molto prima del rinvio a giudizio e che avevano un valore di inchiesta ancor prima che un
valore giudiziario.
Mostravano come in certe aree d’Italia, in quel caso a Secondigliano, un omicidio venisse
definito “pezzo” i politici fossero chiamati “cavallucci” su cui puntare. Ma ancor più importante,
perché come ho detto prima non si tratta solo di descrivere un contesto, quello avrei potuto farlo con
parole mie, quelle intercettazioni descrivevano come un sindaco avesse partecipato direttamente a un
agguato, mostrando, in questo modo, lo stato di salute di un intero Paese.
Nel Ddl intercettazioni è anche inserito un emendamento, la “norma D’Addario” che regolamenta l’uso
delle registrazioni. Seguendo quanto prescritto non avrei potuto registrare molte delle testimonianze
che ho raccolto senza l’esplicito consenso del mio interlocutore e che ho riportato in Gomorra;
testimonianze che di certo non sarebbero rientrate in quelle eccezionalmente fatte per la sicurezza dello
Stato.
Molte vicende non sarebbero mai venute alla luce e benché spesso io abbia omesso i nomi reali
e mi sia limitato a raccontare i meccanismi, credo che neppure quello sarei stato in grado di fare,
rischiando pene severissime. Quando, non molto tempo fa, ho incontrato un pentito e ho registrato
quello che mi ha raccontato, l’ho fatto senza sua autorizzazione e senza sapere quale sarebbe stato
l’esito di quell’incontro. Di fatto, se non c’è reato in quello che viene registrato, si rischia molto e
questo può pregiudicare anche la lotta alle estorsioni poiché chi ne è vittima e decide di presentarsi
microfonato a un colloquio, se l’estorsione non avviene ed è scoperto a registrare, rischia fino a quattro
anni di carcere. Tutto questo per dire che togliere la libertà a chi racconta, togliere gli strumenti per
capire cosa sta accadendo non è un modo per difendere il diritto delle persone, non è un modo per
salvaguardare la privacy.
L’uso delle intercettazioni deve essere regolamentato. Le regole devono essere condivise e
affrontate insieme, non imposte. Questa legge rischia di essere, se non verrà profondamente modificata,
solo l’affermazione che il potere non può essere raccontato, descritto, ascoltato. In una parola che tutto
gli è concesso.

Altri articoli su questo argomento:


Il male maggiore, Saviano e i letteratidi Andrea Inglese Vi è un grande compiacimento quando
due o più italiani, siano essi di destra o di sinistra,…
Cosa vuol dire libertà di stampadi Roberto Saviano Molti si chiederanno come sia possibile che
in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da…
Il coraggio dimenticatofoto di Luigi Caterino di Roberto Saviano Chi racconta che l’arrivo dei
migranti sui barconi porta valanghe di criminali, chi…
Il lutto della giustizia.Evelina Santangelo «Il terzo livello non si tocca», questo dice l’esito della
votazione che ha negato l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni…
da “SUD” n°3: Il mestiere dei soldidi Roberto Saviano – Ma che mestiere è questo? Non è un
mestiere! È una follia, un crimine, un delirio….

Questo articolo è stato scritto da roberto saviano, e pubblicato il 24 maggio 2010 alle 08:35, archiviato
in carte e contrassegnato intercettazioni, legge bavaglio, mafie, Roberto Saviano. Salva nei segnalibri il
permalink. Seguine i commenti qui con il feed RSS di questo articolo. Commenti e trackback sono
attualmente chiusi.

nazioneindiana.com — View original

Manuale di infiltrazione nei lavori per Expo e di connivenza alla milanese


feedproxy.google.com — View original
Manuale di infiltrazione nei lavori per Expo e di connivenza alla milanese

Vai al contenuto

Manuale di infiltrazione nei lavori per Expo e di connivenza alla milanese

di Giuseppe Catozzella

Procediamo con ordine. Le ultime tre settimane sono state fondamentali per comprendere quello che si
sta preparando al tribunale di Milano, quale sarà lo scenario a cui assisteremo nei prossimi mesi.
Lunghi anni di indagini su moltissimi fronti separati stanno infatti cominciando a portare i primi frutti.
Si comincia a intravedere quella che sarà una stagione durissima di condanne alla mafia lombarda,
simile a quella degli anni Novanta, gli anni dei maxiprocessi per mafia al tribunale di Milano, quelli
che comminarono migliaia di anni di carcere agli affiliati alle cosche.
Quello che viene fuori dai recentissimi eventi è da un lato un manuale della perfetta infiltrazione nel
tesoro dell’Expo e dell’altro la fotografia di una classe di imprenditori, quelli lombardi, che non solo
non denuncia affatto e mai, ma che spesso preferisce la collusione per motivi di affari.

Negli ultimi venti giorni, infatti, il tribunale di Milano ha sancito, se ce ne fosse stato bisogno, con una
sentenza di primo grado per associazione mafiosa nel processo Cerberus e con la recentissima
ordinanza di custodia cautelare in carcere per tutto il clan Valle (legato a doppio filo al potentissimo
clan dei De Stefano, protagonista della sanguinosissima faida da centinaia di morti con il clan Condello
e di nuovo imputato adesso a Milano di associazione mafiosa, oltre che di estorsione, usura e
intestazione fittizia di beni), che il sindaco Moratti e le autorità si sbagliavano quando negavano
l’esistenza della mafia nell’ex capitale morale del Paese e quando si scioglieva frettolosamente la
neonata commissione antimafia che avrebbe dovuto cercare di vegliare sul promesso tesoro dell’Expo.

Il processo Cerberus ha visto la luce alla conclusione dell’omonima inchiesta condotta dal Gico della
Guardia di Finanza di Milano che ha eseguito otto arresti su ordine del gip di Milano Piero Gamacchio.
Otto arresti che tagliano la testa a uno dei più potenti clan lombardi, quello dei Barbaro-Papalia, che
dominano il settore del cemento nell’hinterland milanese: il boss Domenico Barbaro, detto Mico
l’australiano, i figli Salvatore e Rosario Barbaro, Pasquale Papalia (figlio del super boss Antonio
Papalia) già condannato con rito abbreviato, Mario Miceli, Maurizio De Luna (che ha scelto il rito
abbreviato), Maurizio Luraghi e la moglie Giuliana Persegoni. L’accusa è, appunto, di associazione a
delinquere di stampo mafioso finalizzata all’estorsione, al porto abusivo di armi e al riciclaggio di
denaro. L’11 giugno 2010 la sentenza di primo grado letta dal giudice Aurelio Barazzetta dà ragione
quasi su tutto all’impianto accusatorio della pm Alessandra Dolci, e condanna a 9 anni di carcere
Salvatore Barbaro, ritenuto il “promotore” dell’associazione mafiosa, a 7 anni Mico l’australianoe
l’altro figlio, Rosario. 6 anni di carcere, invece, per Mario Miceli. Ma, insieme a loro, in quella che è
una sentenza destinata a fare storia, c’è Maurizio Luraghi, l’imprenditore milanese che ha recentemente
avuto le telecamere di Annozero a disposizione per giurare la sua innocenza (nonostante l’esistenza di
intercettazioni ambientali in cui lui, parlando con i Barbaro, si dice commosso per aver tirato su
insieme a loro tutto l’hinterland sudovest di Milano), che è stato condannato a 4 anni e 6 mesi per le
attenuanti generiche, mentre sua moglie è stata assolta per non aver commesso il fatto. Sono decaduti il
reato di estorsione e quello dell’uso delle arimi. Quindi, questa sentenza, che sancisce come gran parte
del ciclo del cemento (dai lavori di scavo a quelli di movimento terra, al nolo a freddo e al nolo a caldo,
all’intermediazione edilizia) dell’hinterland milanese sia stato per anni in mano ai Barbaro-Papalia,
sancisce anche il ruolo di un imprenditore lombardo come parte attiva all’interno dell’associazione
mafiosa. Chi ha seguito le fasi dibattimentali del processo, come chi scrive, ha in mente benissimo le
negazioni di tutti gli altri imprenditori sentiti come testi dall’accusa e dalla difesa. Tutti, senza
eccezioni, hanno negato qualsivoglia attività intimidatoria o estorsiva da parte del clan. Che però è poi
stata sancita dalla sentenza.

Al processo Cerberus sono poi legate altre due indagini, che scaturiranno in altrettanti processi. Nel
novembre 2009, infatti, scatta il seguito dell’inchiesta Cerberus con l’operazione Parco Sud che porta
in cella, tra gli altri, anche gli imprenditori Andrea Madafferi e Alfredo Iorio, accusati di essere il
braccio economico-finanziario del clan. Cattura anche per i calabresi Antonio Perre, detto totò ‘u cainu,
e Domenico Papalia, il figlio minore del boss Antonio, sfuggiti all’arresto e tuttora latitanti.

Il 22 febbraio del 2010, poi, è la volta dell’operazione Parco Sud II, quella che ha visto gli arresti
eccellenti tra i politici: sono scattate le manette anche per l’ex sindaco di Trezzano sul Naviglio,
Tiziano Butturini e l’assessore del Pdl Michele Iannuzzi.

Stessi scenari, dunque: mafiosi in associazione mafiosa con imprenditori, e in alcuni casi con uomini
politici. Niente di nuovo? Tutto nuovo, invece, perché questo segna e deve segnare nella coscienza dei
cittadini lombardi un cambiamento di rotta, una conquistata consapevolezza del ruolo di alcuni
imprenditori e politici. Sono sentenze su cui è obbligatorio riflettere anche alla latitudine padana.

Arriviamo a qualche giorno fa, con l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giuseppe Gennari
su richiesta della pm Ilda Bocassini della DDA di Milano. In cella il clan Valle che, secondo l’accusa,
si sarebbe procurato un enorme patrimonio poi rinvestito in almeno 15 società (immobiliari, edili,
ristorazione, locali notturni, videopoker) con la sola usura ed estorsione. Centinaia gli imprenditori e i
commercianti vittime dell’estorsione. 138 immobili sequestrati, 15 aziende, per un totale di circa 8
milioni di beni.

Ma, di nuovo, sono le durissime parole del pm Bocassini che devono far riflettere i cittadini lombardi, e
devono segnare una importante svolta. “Sono tantissime le vittime, ma nessuno ha denunciato” dice
Ilde Bocassini. “Nel Sud c’è una speranza, nel Nord non c’è la disponibilità a usare lo strumento della
denuncia.” E ancora: “Abbiamo riscontrato il totale assoggettamento del tessuto sociale, degli
imprenditori e dei commercianti coinvolti nelle estorsioni”. “Bisogna mettersi in testa che
un’operazione del genere poteva avvenire tranquillamente a Siderno, a San Luca. O si sta con lo Stato o
si sta contro lo Stato.” Le parole più dure il procuratore aggiunto le riserva proprio agli imprenditori
che non hanno denunciato. linea della procura sarà durissima. casi borderline, dove non si capisce bene
il ruolo delle vittime, la magistratura sarà molto rigida. Quando c’è connivenza la linea della Procura
sarà durissima. Non si possono avere alibi.”

È infatti evidente dalla natura del reato, l’usura, che questo trova linfa vitale proprio in forti momenti di
crisi economica e di mancanza di liquidità. Ecco, allora, che le ‘ndrine fanno ciò le banche non possono
più fare. Le banche, il polmone dell’economia lombarda. “Perché gli imprenditori non denunciano?”,
chiedo al pm Bocassini. “In molti casi perché così a loro conviene”, è la secca risposta.

Una risposta che certo non mette tranquillità, quando pare che stiano per arrivare i fondi, i 24 miliardi,
per l’Expo. E infatti questa operazione, oltre a essere un manuale di mafia tradizionale, “esattamente
come opera la Casa Madre” calabrese (per tutti gli elementi attinenti alla villa bunker di Cisliano, “La
Masseria”, dotata di decine di telecamere, cani rotweiler, sensori, allarmi e una studio di osservazione
audio-video con cui 24 ore su 24 i luogotenenti del boss Franscesco Valle si assicuravano di poter
percuotere e picchiare indisturbati i debitori, e per le vedette che sono arrivate anche a seguire per 20
chilometri l’auto di un poliziotto in borghese per poi fermarlo e chiedergli perché fosse passato due
volte lì sotto) è un manuale di infiltrazione nei lavori dell’Expo.

Dice l’ordinanza di custodia cautelare in carcere: “La totale condivisione di interessi tra Adolfo
Mandelli (imprenditore del campo immobiliare, tra gli arrestati, nrd) e i Valle emerge anche in data 23
gennaio 2009, quando Valle ha contattato Mandelli per avvisarlo di aver ottenuto dal Comune di Pero
le licenze per aprire un ‘mini casinò’, una discoteca ed anche attività di ristorazione, in quanto in quella
zona il Comune, in virtù del prossimo Expo, aveva intenzione di riqualificare l’area. Tutto ciò è
avvenuto anche grazie all’amicizia con Davide Valia (assessore comunale a Pero)”. Citiamo anche una
delle intercettazioni che sole, data l’assenza totale di denunce, hanno portato alla conclusione della
difficilissima operazione. dice: “Minchia, meglio di Davide che è a Pero… cosa dobbiamo avere?”.
Dalle intercettazioni, si legge ancora nell’ordinanza, “è emerso inequivocabilmente che la licenza per il
mini casinò è stata ottenuta anche grazie all’interessamento del politico, il quale si adopera pure per
altri favori”. E in un’informativa della Mobile di Milano si afferma che Valia “si prodigò per far
ottenere» a Fortunato Valle «le autorizzazioni per l’avvio di esercizi pubblici e a metterlo in contatto
con altri amministratori locali di altri Comuni da lui conosciuti per favorirlo nei suoi affari”.

Tutti questi procedimenti penali, a cui si aggiungono il processo Ortomercato e il processo Isola, e
destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi mesi, dovrebbero far comprendere ai cittadini
milanesi e ai lombardi l’importanza della scelta civica della denuncia, fondamentale strumento per non
sperperare il tesoro destinato ai lavori dell’Expo.

E certo è difficile dimenticare il contributo arrivato nel processo Cerberus dall’ex sindaco di
Buccinasco Maurizio Carbonera, più volte minacciato e oggi alla guida dell’opposizione, che ha
raccontato tutte le minacce subite, le auto bruciate, le famose tre croci lasciate in un prato accanto al
Comune durante i giorni dell’approvazione del Pgt. Un tributo di tenacia e di coraggio fondamentali
per la sentenza di condanna ai Barbaro-Papalia.

“Senza denunce il nostro lavoro diviene molto più difficile. Ci possiamo appoggiare solo sulle
intercettazioni telefoniche e ambientali” tuonano le parole del procuratore aggiunto Bocassini.

Pubblicato in forma ridotta su L’espresso

Altri articoli su questo argomento:


A cento passi dal Municipiodi Gianni Barbacetto I boss stanno a cento passi da Palazzo Marino,
dove il sindaco di Milano Letizia Moratti lavora…
A Milano la mafia non c’èdi Giuseppe Catozzella Due cuori e una casa popolare. Potrebbe
essere una calzante descrizione della capitale morale d’Italia. Milano possiede…
Nella bocca di Milanodi Giuseppe Catozzella “Negli anni dal 2001 al 2006 in cui sono stato alla
Commissione parlamentare antimafia, non siamo mai…
Piovra Replay. Si intomba a cento passi da Palazzo Marinodi Giuseppe Catozzella La piovra sta
avvinghiata sulla testa ben acconciata del Paese. Quella fashion, quella cool, quella impegnata,
quella…
Intervento di Gianni Lannes su libertà di stampa, centrali nucleari, navi dei veleni e…
«leggerezze» di StatoQuesto accadeva a Palermo appena qualche mese fa (il 12 dicembre 2009),
all’assemblea del Popolo delle Agende Rosse convocato in…

Questo articolo è stato scritto da marco rovelli, e pubblicato il 6 luglio 2010 alle 10:44, archiviato in
allarmi, carte e contrassegnato ‘Ndrangheta, expo, giuseppe catozzella, mafia, Milano. Salva nei
segnalibri il permalink. Seguine i commenti qui con il feed RSS di questo articolo. Commenti e
trackback sono attualmente chiusi.

feedproxy.google.com — View original

Carmilla on line ®
carmillaonline.com — View original
Carmilla on line ®
Sei qui: HomepageControinformazione, SpecialiIL BOICOTTAGGIO, L’EDITORIA, LE
SCORCIATOIE DEL POPULISMO - Versione stampabile

IL BOICOTTAGGIO, L’EDITORIA, LE SCORCIATOIE DEL POPULISMO

Florilegio impopolare e anti-demagogico a cura della redazione di Carmilla


Parole di Massimo Mantellini, Antonio Moresco, Carlo Lucarelli, Adriano Prosperi, Wu Ming,
Massimo Roccaforte, Girolamo De Michele, Michela Murgia, Antonio Pennacchi, Evelina Santangelo,
Luca, Alain Badiou.
N.B. I titoli sono di Carmilla.

PARLANDO IN GENERALE. SULLE MOBILITAZIONI DI “SOLI CLICK”, OVVERO:


TUTTI LEONI SU FACEBOOK

Posso partecipare ad un movimento politico mettendo un adesivo sulla


carrozzeria della mia auto? Oppure iscrivendomi ad un gruppo su Facebook? O firmando la vibrante
lettera aperta di un gruppo di intellettuali sul sito web di un quotidiano? E’ certamente possibile ma, nel
momento in cui un simile impegno sostituisce del tutto altre forme di mobilitazione sociale, il lato
oscuro della medaglia finisce per prevalere su quello migliore e illuminato e Internet consuma il
proprio potenziale di formidabile strumento di aggregazione e diffusione all’interno di prassi
frequentemente irrilevanti.
Pur con luci ed ombre negli ultimi anni anche in Italia alcuni eventi politicamente significativi sono
nati e cresciuti in rete per poi diventare tema centrale nelle cronache dei giornali e concreta discesa
popolare in piazza, tuttavia, anche da noi, nella stragrande maggioranza dei casi, iniziative di
sensibilizzazione popolare nascono e muoiono ogni giorno in rete senza avere la capacità di spostare un
singolo piccolo sassolino.
Come si esce da un simile impasse? Intanto aggiungendo sacralità al punto di vista delle
persone in rete. Ciò significa intanto rifuggire dall’abuso degli strumenti di aggregazione popolare on
line. Perché accanto ad un attivismo dei fannulloni che cliccano svagatamente qualsiasi campagna on
line, esiste anche un ben più colpevole attivismo dei propositori, quella spiacevole tendenza, anch’essa
a costo zero, di chiamare il popolo alle armi per ogni piccola quisquilia o, peggio, per
banali ragioni di personale visibilità. A minimizzare il danno democratico dello slacktivism c’è poi da
considerare, per lo meno nel nostro paese, il contesto civile generale. Una identità dei cittadini verso la
politica ai minimi storici, una capacità dell’associazionismo di radunare istanze modestissima, una
autorevolezza sindacale ormai ridotta al lumicino, sono paradossalmente elementi che depotenziano i
rischi delle mobilitazioni on line. Che con ogni probabilità non andranno ad incidere su nulla di più
della nostra autostima ma che, in molti casi, non rischiano altro di sostituirsi al nulla che le precedeva.
- Stralcio dall’ultimo “Contrappunto” di Massimo Mantellini

SCENDENDO NEL PARTICOLARE. QUALCUNO SPERA DI SCROLLARE L’ALBERO

In questi giorni [di fine estate] i giornali stanno parlando molto


dell’ennesima legge “ad personam” (in questo caso “ad aziendam”) che consente alla Mondadori di non
pagare al fisco una cifra enorme. Dopo la presa di posizione pubblica di Vito Mancuso, che ha espresso
i suoi dubbi se continuare a pubblicare con questo editore e che ha chiamato, nome per nome, alcune
persone che pubblicano presso lo stesso a pronunciarsi, si è dato fuoco alle polveri. Opinionisti,
giornalisti e politici abituati a capitalizzare fulmineamente ogni cosa si sono gettati sulla vicenda con
continue richieste di abiura editoriale rivolte a scrittori e saggisti (i poeti -chissà perché- non vengono
presi in considerazione) che pubblicano con questo editore e con questo gruppo. Argomenti
moralmente e politicamente ricattatori, ironie e sfottimenti in caso di risposte non gradite o evasive,
esibizione di superiorità civile e morale, soprattutto da parte di giornali di gruppi editoriali concorrenti
e di persone bene acquartierate in essi. Perché in Italia le cose funzionano così. Si invitano gli scrittori a
schierarsi su questa “crisi di coscienza” trasformata in una macchina da guerra contro un’altra
macchina da guerra, ad abbandonare questo editore per altri più virtuosi, ciascuno vantando le proprie
benemerenze e la propria superiorità etica, in una battaglia che viene da lontano e che nasconde anche
altri fini, sperando tra l’altro di scrollare l’albero e di accaparrarsi qualche frutto caduto, soprattutto se
questo ha una buona quotazione di mercato e porta quattrini. Perché in Italia le cose funzionano così,
tanto più in questi anni difficili, torbidi, in questo clima intossicato da una situazione politica, sociale e
civile sempre più difficile da sopportare.
Così può succedere che persino gli scrittori -che in Italia non sono tenuti in gran conto, a meno che non
rimpinguino i fatturati- vengano utili all’interno di questi movimenti militari e di queste campagne.
Lavagnette e specchietti con tanto di elenchi e faccine dei buoni, dei meno buoni e dei cattivi, di quelli
più virtuosi e di quelli meno virtuosi. Pareri usa-e-getta da inserire in questo mosaico, esibizione di
muscoli, esercitazioni, parate. Perché in Italia le cose funzionano così.
- Estratto da: Antonio Moresco, “Pensieri a cranio scoperchiato, dal blog “Il Primo Amore”
[In calce al post, Moresco chiede che, in caso di riproduzione, il testo venga pubblicato “per intero
[senza] mutilarlo pescando qualche frase qua e là e distorcendone il senso”. Poiché questo è
dichiaratamente un florilegio, abbiamo disatteso la lettera della prima indicazione, ma pensiamo di
averne rispettato lo spirito.]

SULLA PELLE DI CHI?


Rispetto tutte le posizioni individuali di chi intende fare una scelta diversa,
ma per me andarmene [dall’Einaudi] sarebbe solo una fuga, un gesto facile, buono far bella figura e a
farsi pagare meglio da un’altra parte (ho la fortuna di essere un autore appetibile), ma inutile,
incoerente e per di più dannoso. Passare in blocco, come si chiede a molti di noi, ad altre grandi case
editrici significherebbe occupare lo spazio di chi già c’è e vende meno di noi (siamo in periodo di crisi
e questa è la logica del mercato) oltre che lasciare il nostro posto ad autori più in linea con i desideri del
padrone. Passare armi e bagagli a case editrici più piccole ma più “pure” (con le quali molti di noi
comunque pubblicano particolari progetti con grandi e reciproche soddisfazioni) significherebbe
caricarle di un lavoro che non potrebbero soddisfare in pieno, limitando la penetrazione del libro.
Tutto questo, assieme alla proposta di boicottaggio della Mondadori – che in un paese di non lettori
come l’Italia si traduce in un boicottaggio del libro e della lettura - significa solo meno spazi, meno
voci, meno libri in libreria. E meno spazio ovunque, dal momento che la coerenza chiederebbe a molti
di noi di uscire anche dalla televisione. E chiederebbe anche, sia a noi che al lettore, di esercitare lo
stesso boicottaggio su tutti i numerosi e spesso sconosciuti esempi di conflitto di interesse che, come fa
notare Diego Cugia, sono tanti e non si limitano soltanto all’editoria.
Cosa che riporta tutto al nocciolo della questione: il conflitto di interesse, mai risolto da politici ed
elettori, che adesso sembra avere l’ultimo campo di battaglia sulla pelle di un pugno di scrittori.
Un conflitto di interesse che una volta risolta l’anomalia Berlusconi si riproporrà di nuovo per altri
soggetti, anche se in modo meno appariscente. Ma questa è un’altra storia.
- Estratto da: Carlo Lucarelli, risposta al mail-bombing della campagna “Mondadori No Grazie”

IL CLIMA CHE STA MONTANDO

Vorrei dire due parole sulla questione aperta - e chiusa - da Vito Mancuso.
Lo faccio sfidando consapevolmente un forte senso del ridicolo. Che l’opinione di qualche saggista e di
qualche professore sulla propria collaborazione con le edizioni Einaudi e Mondadori possa avere un
qualche interesse per i lettori o addirittura un peso politico è - secondo me - un seducente autoinganno.
Ma il problema soggettivo e morale esiste: e vorrei spiegare come l’ho personalmente affrontato. Lo
faccio in pubblico perché mi preoccupa il clima che sta montando intorno a un ambiente di lavoro che
conosco e che mi è caro: quello, appunto dell’Einaudi. Anni fa, quando avvenne il passaggio di
proprietà della Mondadori e dell’Einaudi, la scelta di andarsene da parte di autori storici come Carlo
Ginzburg e Corrado Stajano pose anche agli altri il problema della compatibilità tra il lavoro
intellettuale e il rapporto con la proprietà di Berlusconi. La mia scelta privata, privatissima, fu quella di
continuare in una collaborazione da cui avevo avuto ben più di quanto potessi sperare di riuscire a dare.
Pensai allora che la corruzione di un sistema si ostacola cercando di contendergli il terreno, di salvare
quello che vale la pena di trasmettere. Avevo in mente il modo in cui Benedetto Croce aveva risolto il
problema - ben più grave - del suo rapporto con l’Italia fascista: espatriare o restare? Un problema che
qualcuno si è posto di nuovo in questi anni e che forse potrebbe diventare attuale se andranno in porto
le “riforme” della giustizia, l’informazione, la scuola e l’università concepite dal regime attualmente
dominante. Arginare la corruzione, salvare gli strumenti e la memoria del lavoro culturale. Questa fu la
giustificazione morale che mi detti e che ancor oggi mi sembra valida. L’Einaudi valeva la pena.
Einaudi era allora - e continua a essere oggi - una casa editrice con una identità scolpita nel suo
catalogo, con una storia speciale nel contesto della cultura italiana: una storia condivisa e mantenuta in
vita da una folla di dirigenti, redattori, impiegati, collaboratori, autori, traduttori, correttori di bozze e -
non certo ultimi - da una rete di librai e di venditori rateali, tramite prezioso con la comunità dei lettori.
Farne parte, sia pure a livelli minimi, era - è - un onore: un onore per se stessi, un qualcosa che
rincuora, non una patacca di appartenenza a una scuderia di cavalli di razza. Perché una cosa va detta a
scanso di equivoci: non si è “autori di qualcuno”; non si è una merce posseduta da un padrone.
Nell’umbratile campo dove lavoro l’unica cosa di cui si ha bisogno è la libertà.
- Estratto da: Adriano Prosperi, “La cultura e l’aria di Libertà”, Repubblica, 05/09/2010

LA QUESTIONE EINAUDI + DUE O TRE COSETTE CHE I BOYCOTT BOYS NON SANNO

L’Einaudi non è Berlusconi, perché quest’ultimo passa, mentre l’Einaudi


resterà. Resterà il catalogo, per dirla con Valter Binaghi, “poeticamente più sovversivo del mondo”.
Resterà quel soggetto, quella voce nel dibattito culturale e civile. Quindi […] bisogna TENER DURO,
“resistere un minuto più del padrone”. Bisogna lottare dentro, per salvaguardare i margini e gli spazi di
autonomia rispetto alla proprietà, per riequilibrare con mosse “buone” ogni concessione o cedimento,
ogni eventuale “scivolone”. Date un’occhiata al catalogo e vedrete quali e quante sono le mosse
“buone”. Abbiate un po’ di pazienza e vedrete, quest’autunno, alcune uscite strategicamente
fondamentali. Perché dalle pagine culturali dei giornali (e siti) berlusconiani, molti scrittorucoli di
destra attaccano soprattutto gli autori di sinistra che pubblicano con Einaudi o Mondadori? Magari chi
non è dentro quel mondo non se ne accorge, ma è una vera e propria grandinata di lamentele e
contumelie, e dura da anni e anni. La risposta è semplice: perché reclamano i nostri posti. Vorrebbero
esserci loro al posto nostro, e si lamentano a gran voce: ma come? Quelle case editrici sono di proprietà
di Berlusconi e proprio noi, autori berlusconiani, non abbiamo tappeti rossi srotolati davanti ai nostri
piedi e ancelle che ci precedono gettando petali di rosa?
Questi sgomitano con violenza, da anni. Ma l’Einaudi non li pubblica e in genere non li pubblicano
nemmeno le collane più prestigiose di Mondadori, perché i capi-collana come Repetti e Cesari in
Einaudi o Brugnatelli in Mondadori non sono yes-men. Così si riesce, non senza sbavature ma
comunque ci si riesce, a salvaguardare il catalogo.
Se chi in Mondadori non la pensa come Berlusconi uscisse dal gruppo editoriale, quei posti verrebbero
presi all’istante da yes men. Al posto dei libri di Saviano o di Cantone, nella collana “Strade Blu” di
Mondadori vedremmo quelli di svariati scalzacani. Ma è doveroso portare la logica del boicottaggio un
po’ più in là, fino alla massima coerenza. Se tutti gli autori che osteggiano Berlusconi uscissero
dall’Einaudi, come sembrano auspicarsi i Boycott Boys, significherebbe soltanto DISTRUGGERE
L’EINAUDI, senza peraltro sconfiggere Berlusconi, che in un paese di non-lettori come questo non
vedrebbe in alcun modo intaccato il suo consenso di massa, consenso che ha presso persone che NON
leggono libri Einaudi. E così, alla fine del ciclo berlusconiano, ci ritroveremmo senza l’Einaudi.
Avremmo distrutto una delle più prestigiose case editrici di sinistra, e un pilastro storico della cultura
antifascista in Italia. Bel risultato! Tutto questo perché si è presa una scorciatoia, perché si è sacrificato
il lungo periodo alle pressioni della contingenza. Ma che senso ha? Il boicottaggio è uno strumento
importante, ma per metterlo in pratica servono dei requisiti. Uno dei quali è: conoscere l’industria che
vuoi boicottare. Infatti chi promuove il boicottaggio alla Nike sa tutto di quest’ultima, sa dove sono gli
stabilimenti, conosce gli organigrammi, segue le dichiarazioni dell’amministratore delegato, etc. Nel
caso di questo boicottaggio agli autori Mondadori ed Einaudi, questo requisito manca totalmente. In
giorni e giorni di perlustrazione della rete, non [abbiamo] trovato una presa di posizione una (nemmeno
una!) che faccia pensare a una benché minima conoscenza dell’Einaudi, della sua storia, del suo
catalogo, di cosa si muove là dentro, di quali siano gli equilibri. Non solo: chi promuove questo
boicottaggio sembra NON SAPERE NULLA DI EDITORIA, tout court. Sfuggono i meccanismi
basilari, manca l’ABC […] si schiaccia totalmente l’Einaudi sulla Mondadori e quest’ultima su
Berlusconi. Così facendo, si danneggia in primo luogo chi, come noi e tantissime altre persone, là
dentro cerca di lavorare per un’Einaudi post-Mondadori e post-Berlusconi. Credete che sia una cosa
facile, soprattutto di questi tempi, ribadire che si continuerà a lavorare con l’Einaudi finché sarà
possibile (finché qualcuno non ci caccerà)? Pubblicare con Einaudi sta diventando la scelta più
impopolare in una fase di populismo acuto e di capi carismatici […] Fatevi un giro nei forum, nei blog,
nei profili Facebook che fanno riferimento a grillini, BoBi e dintorni. E’ tutta un’ingiuria contro di noi,
contro Lucarelli, contro Saviano e mille altri. Bene, noi non ci facciamo intimidire, serve anche e
soprattutto il coraggio di essere impopolari. Solo che il danno sarà sistemico: aumenterà la quantità di
veleni e di falsi problemi agitati come drappi rossi di fronte a masse in cerca di semplificazione delle
questioni.
Anche se questo boicottaggio fallirà (perché è stupido e mal concepito), il gioco non sarà a somma
zero. Ne usciremo con sempre più divisioni “a sinistra”, e con una lacerazione dei rapporti tra
intellettuali e masse (e stavolta, almeno per una volta, NON sarà colpa degli intellettuali).
Non c’è sito o blog dove si discuta di questo tema in cui gli scrittori (e, attenzione, soltanto loro) non
vengano chiamati in causa.
Infatti, nessuno ha ancora chiesto agli editori “virtuosi” di boicottare le librerie Mondadori rifiutandosi
di mandarci i libri che pubblicano, o di boicottare la distribuzione Mondadori non affidandole gli
scatoloni. Del resto, anche gli editori concorrenti più “barricaderi” si guardano bene dal farsi avanti con
un beau geste di questo tipo, che pure sarebbe molto più clamoroso e di sostanziale impatto della tanto
reclamata diserzione di questo o quell’autore. Nessuno ha chiamato in causa editor e capi-collana etc.
Tutti i chiamanti in causa hanno chiamato in causa gli autori. Che non si sono tirati indietro, e hanno
fatto bene a rispondere, ciascuno a suo modo.
Come fanno bene a spiegare alcune cose che sfuggono al “general public” e, soprattutto, sfuggono ai
Boycott Boys.
Ad esempio, che la famiglia Berlusconi è azionista del gruppo Rizzoli/RCS. Non solo è azionista
direttamente, ma esercita un controllo azionario indiretto, dato che l’azionista di maggioranza è
Geronzi. Non si contano le volte al giorno in cui, qui o là, veniamo invitati a lasciare Mondadori e
addirittura Einaudi “perché è di Berlusconi”, e ci sentiamo dire che “esistono altri grandi editori, come
Rizzoli”. Tra l’altro, ehm, noi per Rizzoli pubblichiamo già. E via così, col pilota automatico,
ignorando davvero troppe cose. Proviamo a farci questa domanda: chi boicotta la Nestlé, dove le ha
attinte le informazioni su quest’ultima? La risposta è abbastanza semplice: ha studiato. Ha letto le
pagine di economia, ha perlustrato il sito e le comunicazioni ufficiali dell’azienda, ha socializzato tra
tante persone saperi parziali che, un po’ alla volta, hanno composto un quadro generale. Idem per la
Nike e tutte le altre campagne di boicottaggio. Idem per i pompelmi israeliani. Un boicottaggio non si
improvvisa alla carlona, mettendo su un sito in 24 ore e invitando la gente a fare mail bombing a
casaccio. L’Annosa Questione esiste da quindici anni, c’era tutto il tempo, da parte di chi l’ha sollevata,
di fare ricerche, compilare dossier e “libri bianchi”, leggersi libri di storia dell’editoria (in questo thread
abbiamo fornito parecchi link). Con tutta evidenza, questo è un lavoro che nessuno ha fatto. […] Se un
autore che pubblica per il gruppo Mondadori decidesse di smettere di farlo, priverebbe il gruppo stesso
dei proventi derivati dalla vendita dei suoi libri? Solo parzialmente. La percentuale del prezzo di
copertina che spetta all’editore in effetti finirebbe nelle tasche di un’altra casa editrice, ma questa è solo
una fetta della torta. Infatti il gruppo Mondadori è anche azionista di maggioranza del principale
distributore di libri italiano, nonché titolare di una delle due più grosse catene di bookstore del
Belpaese. Significa che se si volesse evitare di portare soldi nelle tasche della famiglia Berlusconi
bisognerebbe anche chiedere al proprio nuovo editore di non affidare la diffusione dei propri libri al
suddetto distributore e di non venderli nei bookstore della catena Mondadori. Altrimenti sarebbe un
boicottaggio parziale: vale a dire una contraddizione in termini. E’ significativo che Mancuso, nella sua
ingenuità, non abbia nemmeno preso in considerazione la faccenda, proprio mentre ancora oggi su
Repubblica ripropone la questione mettendo al centro l’aspetto prettamente economico (“a chi faccio
fare i soldi con i miei libri?”). Questo dimostra una volta di più quanto i fautori del boicottaggio alla
Mondadori ignorino i meccanismi dell’industria editoriale italiana e siano piuttosto in cerca di bei gesti
di delegittimazione del tiranno. Il desiderio di semplifcazione che ormai ha contagiato la società
italiana è il principale sintomo della vittoria psichica del berlusconismo. Ma la realtà resta più
complessa e non si può districare con i bei gesti, solo con pratiche di resistenza lenta e duratura.
Le pratiche di resistenza pertengono al modo in cui si decide di svolgere il proprio mestiere di scrittori.
E questo riguarda il contenuto di ciò che si scrive; come si affronta il problema dell’estinzione dei
lettori, o quello dell’impatto ecologico della propria attività, o ancora quello della fruizione dei testi
letterari; insomma il tipo di cultura e di consapevolezza che si alimenta.
- Wu Ming 1 e Wu Ming 4, montaggio di interventi da questa discussione su Giap + un commento
lasciato su Vibrisse in calce all’intervento di Moresco

ATTENTI A NON CADERE IN UNA NUOVA TRAPPOLA

Credo che la questione di una “fuga dalla casa editrice” così come è stata
posta nei giorni scorsi su alcuni quotidiani nazionali, non centri il reale problema che attraversa oggi il
mondo editoriale italiano. Cerco di spiegarmi: Mondadori è la più importante casa editrice che abbiamo
in Italia, probabilmente quella che più di altre ha determinato le politiche della produzione editoriale e
che, con i dovuti, grandi, distinguo del caso, insieme ad altri 4 o 5 gruppi definisce la connotazione del
mercato editoriale in senso assoluto. Chiarito questo scenario, trovo auto censoria, sbagliata e forse
pericolosa una campagna di autoesclusione dal principale gruppo editoriale italiano incentrata e
proposta solamente degli autori. Vorrei con il mio intervento contribuire al dibattito cercando di
spostare l’attenzione su un altro punto della questione. Non è che l’aria sta diventando talmente
irrespirabile che alla fine si sia, o si sarà, costretti a “lasciare nelle mani” di chi ha sempre fatto del
disprezzo della cultura con la C maiuscola una sua bandiera, la maggiore e più importante casa editrice
che abbiamo in Italia? Di conseguenza non si rischierebbe di ridurre, con questa scelta, il grado di
autonomia del mercato e dunque la possibilità di vendita e scelta per librai e lettori? Non si sta cadendo
in una trappola ponendo la questione nei termini in cui è stata posta in questi giorni? Il silenzio o i
freddi comunicati, dei dipendenti e dei collaboratori della casa editrice, in tal senso sono il segnale più
preoccupante e secondo me indicativo di un’aria che forse sta davvero cambiando, in un ambiente che a
certi livelli non credo abbia grandi problemi a “privarsi” di certi autori per dirottare sempre di più la
propria produzione su autori più consenzienti o commerciali. In un mercato come quello editoriale
dove tutta la filiera è controllata e dove spesso è il mercato stesso a creare la domanda, ritirarsi dal
catalogo di un grande editore non mi sembra la politica più giusta o quantomeno salutare all’ambiente
culturale. Io credo che in editoria, come nel resto della società, il problema principale in questa fase sia
resistere con la propria identità e le proprie istanze là dove ci si trova, senza cedere un passo
all’arroganza e alle scorrettezze di un potere che si sta facendo sempre più cupo. Non sto con questo
chiedendo ad autori o lavoratori dell’editoria di intraprendere campagne politiche all’interno di
Mondadori o che altro editore, ma sto ragionando sulla necessità che autori, editor, distributori, librai e
lettori contribuiscano tutti insieme, con il loro lavoro e le loro scelte quotidiane alla difesa della
circuitazione e produzione editoriale indipendente nel nostro paese. Quanto è in gioco adesso è molto
di più, con il dovuto rispetto, di un problema morale; la partita che stiamo giocando è sull’autonomia
del mercato e della produzione editoriale, qualcosa che con parole grosse potremmo definire come il
futuro di un buon pezzo della Cultura in Italia.
Si tratta di difenderla da chi sempre di più vuole definire chi scrive, cosa si scrive, come si vende, dove
si vende. In una fase così penso sia molto utile che ognuno resti al suo posto a fare le cose che sa e ama
fare, cercando con le proprie azioni di affermare che questo paese non è la classe politica o
imprenditoriale che in questi anni, e peggio ancora negli ultimi mesi, la sta rappresentando.
- Estratto da: Massimo Roccaforte, “NdA (distribuzione indipendente) sul caso Mondadori

QUERCE CHE NON VEDREMO CRESCERE, MICA RUCOLA PER LA PIADINA

Gli “autori che pubblicano per Mondadori” NON ESISTONO: nel senso
che non sono una corrente, un partito, una lobby, una frangia organizzata, una fazione. Non concordano
una linea, neanche ce l’hanno una linea comune (tutti quanti insieme, intendo). Ciascuno risponde per
quello che scrive nei propri libri: e avrebbero diritto di sentirsi porre questioni che partono dai
contenuti dei libri che pubblicano per una collana che afferisce a B. Ma se questo avvenisse, molti di
questi autori potrebbero, contenuti alla mano, dimostrare che quello che fanno non è aggirare un
problema, ma di porre un problema al signor B.
Porre la questione annoserrima tradisce un’idea del narratore, o dell’autore, idealistica, barbuta e
monocoluta, alla Croce o Omodeo: che i libri spostano le montagne e cambiano il mondo solo perché,
esistendo, svelano la verità e sconfiggono il male. Beh, toglierselo dalla testa: i libri producono effetti
sul lungo periodo, a volte sul lunghissimo (e spesso non ne producono alcuno). L’intero lavoro
intellettuale (la battaglia delle idee, come si diceva una volta) dev’essere impostata come lotta di
lunghissima durata, dagli esiti incerti: i narratori piantano querce che forse non vedranno crescere, mica
rucola per la piadina. E quindi tutelare, finché si può, la possibilità di una buona diffusione,
circolazione, visibilità, reperibilità è cosa fondamentale. Se poi tutto questo è possibile senza subire
censure, né preventive né implicite, tanto meglio: se qualcuno non crede all’esistenza di nicchie di
qualità e di onestà nel Sistema Editoriale Omologato, tanto peggio per lui.
- Da un intervento di Girolamo De Michele nella citata discussione su Giap

SE C’È QUALCUNO CHE È FUORI POSTO IN EINAUDI…

Se c’è qualcuno che eticamente è fuori posto in Einaudi, costui è Silvio


Berlusconi e tutta la sua prole, non io o chi come me rivendica il diritto di starci a condizioni di libertà.
Trovo inquietante che qualcuno possa considerare un traguardo democratico vedere Einaudi diventare
un ghetto berlusconiano dove abbiano diritto di cittadinanza solo gli scrittori (e gli addetti ai lavori) non
antagonisti. Agli amici che mi dicono: “ma gli fai guadagnare dei soldi” dico che hanno ragione, e non
farò finta che questo non sia un problema, visto che i soldi sono parte significativa della sua forza […]
Il mio obiettivo resta quello di dire quello che penso a più gente possibile nel modo più efficace, con la
speranza che, unitamente alla voce di altri, questo possa contribuire a offrire più strumenti di dissenso a
chi ne sta cercando. Questo per me è fare cultura. E se è vero che questo si può fare in molte altre case
editrici, resto convinta che in Einaudi ci siano per me le condizioni per farlo meglio che altrove: per
tradizione consolidata, per qualità di relazione, per livello di professionalità, per potenzialità di
diffusione e dunque per efficacia. Queste valutazioni hanno pesato più di altre in ogni circostanza in cui
il conflitto si è fatto più evidente, e fino a quando sarà così io non andrò via da Einaudi. “Ma stavolta è
diverso”, leggo da qualche parte. In cosa esattamente sarebbe diverso? In che modo questa legge ad
personam dovrebbe scuotere la mia coscienza più di quanto non abbiano già fatto la cancellazione del
reato di falso in bilancio, la legge Cirami, il lodo Alfano, il decreto salva Rete4, i condoni edilizi nelle
aree protette, l’impedimento sulle rogatorie internazionali, il rientro agevolato dei capitali dall’estero,
la proposta della legge bavaglio e varie ed eventuali che qui mi sfuggono? In che modo essere scrittore
per una casa editrice che approfitta di un condono fiscale è peggio che essere cittadino di un paese dove
il presidente del Consiglio si fa continua beffa del principio di legalità, piegandolo ai suoi interessi,
compresi quelli fiscali?
Il problema per me non è che Mondadori benefici di un condono di cui qualunque azienda avrebbe
approfittato (e molte altre infatti lo faranno), ma che Silvio Berlusconi governi questo paese. E poiché
anche se io me ne andassi da Einaudi Silvio Berlusconi continuerebbe ad essere il presidente del
Consiglio, forse non ha molto senso chiedersi se andare o restare, ma piuttosto dov’è che posso io fare
una pur minima differenza con le mie competenze.
La risposta per me è restare in Einaudi, e rivendico di starlo facendo non nonostante Berlusconi, ma
proprio perché Berlusconi è il proprietario. Cercare di fare continuità con le scelte che hanno fatto di
questa casa editrice un riferimento culturale per intere generazioni resta per me l’unico modo valido per
partecipare dell’esistenza (e della resistenza) di una proprietà morale in Einaudi, rappresentata dagli
autori e dai professionisti che l’identità di questa casa editrice l’hanno costruita in anni di lavoro, e che
continua ad esistere a prescindere da chi detiene le quote finanziarie. Se necessario, non ho dubbi che
saprà essergli anche antagonista.
A molti certo non basterà, e per stimare di più me e gli altri autori Einaudi avrebbero preferito che
facessimo tutti insieme l’inutile beau geste.
In quello magari li accontenterà il dottor Mancuso, non appena finirà l’ennesimo tentativo di giocare
allo psicodramma collettivo dalle pagine di Repubblica.
- Estratto da: Michela Murgia, “La scelta di esserci”

LA RIVOLUZIONE VE LA DEBBONO FARE GLI AUTORI MONDADORI?

Dice: “Ma questo è matto, ma come gli è saltato in mente di mandare in


quel posto don Gallo?”. Be’, a parlare dopo, sono buoni tutti. Bisogna vedere prima, però, quello che
ha fatto o detto don Gallo.Adesso dice che sono un tipo simpatico e lo ringrazio. Pure lui – fino a
qualche giorno fa – stava simpatico a me. Ma è lui che aveva espresso di fatto un giudizio morale
negativo su di me e su chiunque altro continuasse ancora a pubblicare con Mondadori. Lui in realtà –
aveva detto – non se ne era accorto subito, aveva peccato anche lui, pubblicando pure lui coi reprobi.
Poi però sull’avviso ce lo aveva messo un angelo – il padre spirituale suo, Beppe Grillo –
telefonandogli una mattina presto: “Ma che stai a fa’?” (è così che funzionano le annunciazioni oggi). E
allora lui lì se ne è accorto, s’è pentito, e con Mondadori non pubblicherà mai più, perché – dice – non
paga le tasse, e lo stesso dovrebbero fare tutti quelli che ci pubblicano, se davvero hanno a cuore gli
interessi del Paese. “Pensi a chi evade le tasse, Pennacchi” dice don Gallo.Ci penso, don Ga’, ci penso.
Ci penso da una vita – vita che ho passato soprattutto in fabbrica – pagandole ogni mese in busta paga e
pagandole adesso regolarmente sui miei diritti d’autore. Sapesse quanto ci penso e ci ho pensato,
soprattutto a quelle che non paga la chiesa sull’Ici. Com’è, quando gli sconti Berlusconi li fa a voi,
allora vanno bene? Quando invece se li fa a sé stesso, ci debbo pensare io? Fammi capire, don Ga’: non
lo ha risolto Prodi in quattro anni di governo il conflitto d’interessi, e adesso vuoi che te lo risolva io?
La Rivoluzione ve la debbono fare – da soli – gli autori Mondadori? E i Padri della Patria chi sarebbero
a questo punto, Rizzoli e Feltrinelli? Paolo Mieli premier? Don Ga’, se tu non lo sai, queste a casa mia
sia chiamano contraddizioni in seno alla borghesia. Io sono proletariato. E’ un’altra cosa.Io faccio lo
scrittore, don Ga’. Scrivo i libri. E sono responsabile di quello che scrivo. Se non ti piace ciò che
scrivo, hai tutto il diritto di dirmelo, ci mancherebbe altro. Ma solo di quello, però, non altro. Quando
stavo in fabbrica non t’è mai venuto in mente di dirmi che ero responsabile anche di quello che poi
faceva il padrone mio. Perché dovrei esserne responsabile solo adesso e solo io, e non magari pure
l’operaio, il redattore o lo stampatore di Mondadori? Ci licenziamo tutti allora e andiamo tutti da
Rizzoli, toccando ferro e facendo le corna, nel caso magari che anche lì non paghino le tasse? Ma che ti
dice la capoccia, don Ga’? Io – come allora – rispondo della mia produzione e basta. Si chiama
economia di mercato. Divisione del lavoro. Capitalismo. Io sto dall’altra parte. Proletariato. Porto il
frutto del mio lavoro al mercato e lo vendo – derubato sempre (si chiama plusvalore) – a chi lo compra.
Sono un lavoratore come gli altri. E a me tutti gli altri editori non m’hanno voluto. Rizzoli e Feltrinelli
– tanto per non fare nomi – i miei libri me li hanno rifiutati più volte. Mo’ che debbo fare, don Ga’: me
li debbo venire a pubblicare al ciclostile della parrocchia tua? Dice: “Vabbe’, ma che c’entra: quello è
stato prima, mo’ che hai vinto lo Strega ti pubblicano di corsa tutti quanti”. Eh no, troppo comodo –
oltre che a casa mia si chiamerebbe “infamità” – mo’ se ne vanno loro in quel posto, se mi permetti, e
ci vanno, per me, con tutte le scarpe. A me da Mondadori – oramai – mi debbono cacciare solo con il
manico della scopa. Sennò non me ne vado, don Ga’. Mi lego con le catene. E voi piangete quanto vi
pare.Ciao, e amici come prima. Anzi, pure più di prima per me, se vuoi.
P.S. – Rispetto al Conte “chierichetto” di don Gallo però – che prima mi riempie d’insulti, poi dice che
avrei vinto il premio Strega “solo grazie alla forza d’urto di Mondadori”, e infine ammette
candidamente di non avere letto il libro, che per inciso si chiama Canale Mussolini – che cosa dire,
poverino? Ma stai zitto, no? Che parli a fare? Leggiti almeno il libro, prima. Di’ che non ti piace. Come
fai sennò a poter sostenere che ho “miracolato” lo Strega, senza neanche averlo letto? Poi dice che non
ci sono più i chierici di una volta, e gli Strega gli tocca di vincerli agli operai. Altro che “forza d’urto di
Mondadori”, beato a te. Qui al contrario, sotto l’usbergo dell’opposizione a Berlusconi – che se mi si
permette è pure battaglia mia – qui è in atto una classica guerra di mercato tra gruppi editoriali
contrapposti (contraddizione in seno alla borghesia, appunto), condotta attraverso una vera e propria
campagna di intimidazione ai danni degli autori Mondadori. E’ questo che è ignobile, caro il mio
“chierichetto”. Battiti il petto – se hai onestà intellettuale – e prega Mea culpa.
- Antonio Pennacchi sul suo “vaffanculo” rivolto a Don Gallo, “Il Secolo XIX”, 28/08/2010

QUESTO È IL MOMENTO DI NON ANDARSENE

Io oggi non me ne vado [dall’Einaudi] perché non ascolto i bravi


«consigliori», appunto, che sanno alla perfezione dove sta il giusto e l’ingiusto, e il giusto, guarda caso,
sta sempre dove stanno loro, anche se, a ben guardare, non è che abbiano poi fatto così tanto per stare
nel giusto, e a volte non hanno fatto un bel niente, e a volte hanno fatto più o meno quel che io stessa
ho fatto: il mio «mestiere» con indipendenza, passione, scienza e coscienza, e uno studio matto e
disperatissimo che dura da decenni. […] Io oggi non me ne vado perché è un sacrilegio abbandonare la
cultura al suo destino all’interno di una casa editrice che, nonostante tutto, produce ancora cultura,
traduce cultura, conserva cultura in un mal paese dove predomina e la fa da padrone la più greve,
arrogante, spocchiosa, irrazionale o, di contro, calcolatissima sottocultura. Io oggi non me ne vado
perché non vedo il motivo per cui debba andarmene io da una casa editrice che è stata comprata con un
atto di corruzione da una proprietà truffaldina. Io oggi non me ne vado perché l’Einaudi forse è ancora
uno dei posti meno corrotti di questo paese, nonostante sia proprietà di un corruttore (materiale e
spirituale), che forse, sino ad ora, almeno, aveva altre cose per la testa, altre priorità che distruggere
l’Einaudi.
Io oggi non me ne vado perché non me ne sto zitta anche se collaboro e pubblico prevalentemente con
Einaudi, mentre qualcuno («Libero», «il Giornale») vorrebbe che i collaboratori e gli autori Einaudi se
ne stessero zitti e buoni, come se fossimo servi di un padrone (cfr. l’articolo del caporedattore delle
pagine culturali di «Libero», Francesco Borgonovo, del 1° dicembre 2009: «Berlusconiani ma
compagni. A Einaudi la lotta continua»). E siccome io non ho padroni e non ho attitudine da serva: che
mi si paghi per il mio lavoro intellettuale (quel poco che oggi è pagato spesso il lavoro intellettuale)
come è giusto che sia! perché, beh, una cosa è pagare il lavoro e tutt’altra cosa è comprare il silenzio.
Io oggi non me ne vado perché l’ultima fatica che ho consegnato all’Einaudi è la traduzione
(faticosissima) di Rock ’n Roll di Tom Stoppard. E in quel dramma, giustappunto, si parla di regimi,
«normalizzazioni» e intellettuali. E in quel dramma, giustappunto, c’è un passaggio in cui tra le altre
cose si dice che, quando si comincia ad accettare quel che fa comodo al regime, si finisce per cadere
completamente nelle grinfie del regime. E, per me oggi, andarmene o auspicare che quelli che stimo se
ne vadano via dall’Einaudi per lasciare tutto quel patrimonio di intelligenza e cultura in balia di
Berlusconi o dei suoi accoliti è fare proprio quel che fa comodo al regime: togliermi dai coglioni e
lasciar campo libero a chi sa benissimo come far dimenticare davvero l’Einaudi, una volta per tutte. Io
oggi non me ne vado perché allora me ne dovrei andare dall’Italia, che nel suo insieme è di gran lunga
peggiore dell’Einaudi. Almeno nei corridoi dell’Einaudi può capitare ancora di incontrare una figura
garbata e appassionata come Roberto Cerati. Io oggi non me ne vado perché, quando finalmente si
comincerà a ricostruire materialmente, moralmente, culturalmente, spiritualmente questo paese, credo
che il fatto che una casa editrice come Einaudi non sia andata distrutta sarà una garanzia e un valore per
tutti.
Io oggi non me ne vado perché, anche se fossi costretta ad andarmene o decidessi di andarmene per le
ordinarie ragioni che spingono gli autori a cambiare case editrici, vorrei che tutti gli altri rimanessero.
- Estratto da: Evelina Santangelo, “Dichiarazione di una collaborazionista”

IL “VOYEURISMO D’OPPOSIZIONE” CI FARÀ ENTRARE NEL POST-BERLUSCONISMO


IMPREPARATI E CONFUSI

Una cosa che mi sconvolge, in questa diatriba infinita, è come essa sia
esemplare di un fenomeno più ampio e devastante, il “voyeurismo” d’opposizione. Si tratta di un’ansia,
un’ossessione, una richiesta compulsiva di assistere al “Gesto”, finale e definitivo, che archivi una fase
storica, che termini un incantesimo. Chiunque venga identificato, per un momento e senza basi
concrete, come ipoteticamente in grado di agirlo, quel “Gesto”, viene investito, anche solo per un
giorno, di questa sacra missione, e dopo poco, come è ovvio, va a rimpolpare le schiere degli stronzi e
dei venduti. Siano Saviano o Fini, gli Scrittori o l’ultimo magistrato, il penultimo prete sociale o il
prossimo giornalista d’inchiesta, c’è l’attesa salvifica di una ‘mossa fine di mondo’ che tagli la testa al
problema. Ecco, questo è esattamente il “berlusconismo”. Ragazzi, non sarà Bresci a salvarci. B. non è
Sauron. B. NON HA prodotto questo paese, E’ un prodotto di questo paese, dei suoi flussi profondi,
sociali culturali antropologici geografici, che lo attraversano da oltre un secolo e che rimangono non
solo irrisolti ma proprio inaffrontati. Il “berlusconismo” è la scorciatoia. Che porta dritti dritti contro un
muro. Noi, tutti, la stiamo percorrendo, caso mai convinti di essere su fronti opposti, e la buona fede in
questi casi serve alla propria coscienza e poco altro. il “berlusconismo” post-B. potrà essere anche
molto peggio della merda di oggi, per quanto facciate fatica ad immaginarlo. Perchè sarà rimozione e
archiviazione, ancora scorciatoia, a cui farà immediato seguito il conto, e vedrete che lo pagheremo,
che si proverà a saldare con semplificazioni barbare di negazione della convivenza. Il muro è più vicino
di quanto crediamo. La cosa abbastanza terribile, ai miei occhi, è che B. sia l’ultimo collante virtuale
che tiene un paese che già non c’è più. Già lacerato, irriducibile e diseguale, frammenti molto difficili
da ricomporre. B. non può fare a meno dell’italia. Il “berlusconismo” sì.
Il “dopo” arriverà rapido, e come sempre ci troverà impreparati.
- Luca, commento alla citata discussione su Giap
NÉ TOPI NÉ DEPRESSI. UN PUNTO REALE SUL QUALE NON RECEDERE

Lacan diceva che l’essenziale in una cura è “elevare l’impotenza


all’impossibile”. Se siamo affetti da una sindrome il cui sintomo più importante è un’impotenza
effettiva, allora possiamo elevare l’impotenza all’impossibile. Ma cosa significa? Molte cose. Significa
ad esempio reperire un punto reale sul quale non recedere, costi quel che costi. Sottrarsi alla trama
confusa dell’impotenza, della nostalgia storica e della componente depressiva e trovare, costruire e
mantenere un punto reale, che sappiamo di poter tenere fermo proprio perché non si può inscrivere
nella legge della situazione. Se riuscite a trovare un punto, di pensiero e d’azione, che non sia
inscrivibile nella situazione e che l’unanime opinione dominante considera allo stesso tempo (e in
maniera contraddittoria…) deplorevole e impraticabile, ma che voi giurate a voi stessi di tener fermo,
costi quel che costi, allora sarete in grado di elevare l’impotenza all’impossibile.
[…] Far questo significa costruire, in seno alla temporalità dell’opinione, un’altra durata… Se si resta
prigionieri della temporalità dell’opinione… nella migliore delle ipotesi ci si deprime, nella peggiore si
diventa topi. Topo è chi, tutto all’interno della temporalità dell’opinione, non può sopportare
d’attendere […] Topo è chi ha bisogno di precipitarsi nella temporalità che gli viene offerta, senza
essere affatto in grado di stabilire una durata propria. Trovare un punto significa trovare la possibilità di
ammettervi una durata differente. Non essere topi né depressi significa costruire un tempo altro rispetto
a quello che ci assegna lo Stato o lo stato della situazione. Un tempo impossibile, ma che sia il nostro
tempo.
- Estratto da: Alain Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome?, Cronopio, Napoli 2008.

Pubblicato Settembre 7, 2010 12:00 AM | TrackBack

versione stampabile

carmillaonline.com — View original

Potrebbero piacerti anche