Sei sulla pagina 1di 20

DIRITTO DELL’INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE – Paolo Caretti

1 - STAMPA

La libertà di stampa nel periodo statutario

La tutela della libertà di stampa si afferma insieme all’affermarsi della forma di Stato liberale. E’
solo con le due grandi rivoluzioni della fine del 700, quella americana e quella francese, che
cominciano a definirsi modelli stabili di tutela della libertà di stampa: da una parte il modello
americano di stampo giusnaturalista, che trova espressione nel 1° emendamento della Costituzione
del 1787; dall’altra il modello francese positivista che trova espressione nella Dichiarazione dei
diritti dell’uomo del 1789 e poi nella Costituzione del 1791. Sarà proprio questo secondo modello
quello al quale si ispireranno le Costituzioni liberali europee del secolo scorso.

In questo contesto si inserisce perfettamente anche lo Statuto Albertino del 1848, divenuto
successivamente Carta costituzionale del Regno d’Italia. Nel 1848 viene pubblicato anche l’Editto
sulla stampa che affronta tutti i profili fondamentali della disciplina della libertà di stampa:
dall’introduzione del divieto di ogni forma di censura preventiva, alla definizione dei reati a mezzo
stampa ecc. Da notare, all’interno dell’Editto, l’ampiezza della nozione di abuso nell’esercizio della
libertà di stampa e la sua potenziale utilizzazione in chiave repressiva del dissenso politico espresso
attraverso la stampa. Tuttavia, questo primo atteggiamento di favore nei confronti della libertà di
stampa presente nell’Editto subirà col tempo una progressiva trasformazione in senso più restrittivo,
mano a mano che emergerà con maggiore evidenza il nesso tra stampa e politica. Espressioni chiare
di questo sono da un lato le prassi applicative delle norme dell’editto, di cui spesso si accentuano gli
elementi meno “liberali”, dall’altro le varie leggi di polizia che si succedono nei decenni che
accompagnano e seguono l’unificazione del paese.

Solo con l’avvio del periodo giolittiano, in virtù delle condizioni generali di maggior stabilita
politica e sociale che lo caratterizzano rispetto al passato, appaiono i primi segnali chiari di una
attenuazione delle tendenze restrittive in materia di libertà di stampa.

La svolta in senso liberale che la disciplina della libertà di stampa avrebbe potuto ricevere subì però
una brusca battuta d’arresto con l’inizio della guerra. Con la legge n. 83 del 1915, infatti, si stabilì
di attribuire all’Esecutivo il potere di vietare la pubblicazione di ogni notizia di carattere militare. Si
diede il via a un generalizzato sistema di censura preventiva degli stampati. Questo sistema,
giustificato dalle esigenze legate alla sicurezza nazionale durante il periodo bellico, continuò,
tuttavia, a trovare parziale applicazione anche nell’immediato primo dopoguerra, caratterizzato da
forti tensioni sociali e politiche, e fu alla base di quello che da lì a poco sarebbe divenuto l’asse
portante della legislazione fascista in materia.

La disciplina della stampa durante il periodo fascista

Durante il periodo fascista fu significativa la tendenza del regime ad estendere il proprio controllo
sulle stesse condizioni di esercizio della libertà di stampa. Importante fu anche l’istituzione
dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti. Questa costituì un meccanismo di filtraggio e selezione
“politica” di coloro che volessero esercitare l’attività giornalistica. L’ Albo si componeva di 3
elenchi:
1- quello dei giornalisti professionisti (nel quale potevano essere iscritti coloro che avessero
esercitato la professione in via esclusiva per almeno 18 mesi)
2- quello dei praticanti (nel quale potevano iscriversi coloro che avessero esercitato in via
esclusiva l’attività giornalistica per un periodo inferiore ai 18 mesi o che non avessero
ancora compiuto i 21 anni di età)
3- quello dei pubblicisti (nel quale potevano essere iscritti coloro che esercitavano l’attività
giornalistica non in via esclusiva)

Per l’iscrizione all’Albo, oltre ai requisiti “positivi” (possesso della cittadinanza italiana, godimento
dei diritti civili, attestato dell’attività svolta presso un’impresa editoriale), si richiedevano anche
alcuni requisiti “negativi” che consistevano in una serie di divieti come ad esempio un divieto di
iscrizione per coloro che avessero riportato una condanna a pena detentiva superiore ai 5 anni, un
divieto a carico di coloro che avessero svolto una “pubblica attività contraria agli interessi della
Nazione”, e si esplicitava l’esigenza dell’ allineamento politico di fondo di ogni giornalista con i
principi del nuovo regime che il richiedente era costretto a certificare legalmente dal Prefetto.

In realtà l’Ordine non fu mai istituito e le funzioni ad esso attribuite furono di fatto esercitate dal
sindacato nazionale fascista dei giornalisti.

Il nuovo assetto della disciplina della libertà di stampa trova un suo svolgimento nella nuova
disciplina dei reati a mezzo stampa stabilita dal codice Rocco del 1930. Con il codice Rocco l’intero
settore dei reati a mezzo stampa è ricondotto nell’ambito della disciplina codicistica. Essa tocca in
primo luogo il profilo dell’imputazione della responsabilità per la commissione di reati di questo
tipo. La nuova disciplina codicistica si segnala per un notevole arricchimento dei tipi di crimine (es.
il vilipendio, la diffamazione, i reati a mezzo pubblicitario) e l’ aggravamento delle pene relative.
Tra il 1926 e il 1931 si verifica inoltre l’ampliamento dei poteri di intervento preventivo
dell’autorità di polizia sulla stampa. L’autorità di pubblica sicurezza è abilitata ad intervenire anche
al di là delle ipotesi che lasciano presumere l’esistenza di un reato, ogni qual volta si sia in presenza
di scritti che si presentino come contrari agli ordinamenti politici, sociali o economici costituiti
nello Stato o lesivi del prestigio dello Stato o dell’autorità o offensivi del sentimento nazionale, del
pudore, che minacciano la sicurezza pubblica o che facciano propaganda indiretta o diretta di mezzi
anticoncezionali.

La politica fascista si mosse anche sul versante del sostegno economico alle imprese editoriali,
dando vita a forme di aiuto destinate a rimanere per lungo tempo, anche successivamente al crollo
del fascismo, tra gli elementi portanti del sistema dell’intervento pubblico in questo settore. Nella
prima metà degli anni 30 prende corpo la prima forma istituzionalizzata di sostegno economico alla
stampa. Essa nasce in realtà insieme alla costituzione dell’Ente nazionale cellulosa e carta.

Si assiste anche alla nascita di apparati amministrativi sempre più consistenti che operano su due
versanti:
1- quello dei controlli sul contenuto dell’informazione stampata
2- quello degli interventi economici.

Nel 1923 l’Ufficio stampa viene spostato dal Ministero dell’ Interno alla Presidenza del Consiglio.
A partire dal 1924 esso svolgerà il compito di fornire agli organi di stampa le informazioni politiche
ufficiali al fine di assicurare un omogeneo allineamento dell’informazione soprattutto politica agli
indirizzi politici del regime.

Nel 1937 ci fu poi la sostituzione del Ministero per la Stampa e la propaganda con il Ministero di
cultura popolare, cui il regime assegnò il compito di coordinare le diverse forme di controllo
esercitate dallo Stato sulla stampa e su ogni altro aspetto della vita culturale del paese.
Nel 1940 viene costituito l’Ente stampa che era chiamato a svolgere un’azione tesa a garantire
l’omogeneità e il coordinamento dei diversi organi di informazione.

La libertà di stampa durante il periodo costituzionale provvisorio

I primi interventi normativi relativi all’esercizio della libertà di stampa, adottati subito dopo la
caduta del fascismo, risentono di 2 elementi:
1- il perdurare dello stato di guerra
2- la situazione di sovranità limitata in cui versa l’ Italia in questo periodo e che si traduce, nel
settore in esame, nell’emanazione di direttive vincolanti da parte di un apposito organismo
(il Psychological Warfare Branch), istituito dalla autorità occupanti.

E’ solo con l’imminenza dell’avvio dei lavori dell’Assemblea costituente che si assiste al varo di un
primo significativo provvedimento legislativo che segna una svolta radicale rispetto al passato e che
testimonia del maturare di un atteggiamento favorevole alla restituzione alla stampa della sua
dimensione di diritto di libertà e non più di strumento di sostegno e propaganda degli assetti di
potere costituiti. Si tratta del d.l. n. 561 del 1946 che ridisciplina lo strumento del sequestro. Le
nuove disposizioni aboliscono il sequestro preventivo ad opera dell’autorità di pubblica sicurezza e
limitano il ricorso ad esso ai soli casi di sentenza di condanna irrevocabile per l’accertata
commissione di un reato a mezzo stampa.

Nello stesso periodo ci fu la riconduzione alla Presidenza del Consiglio delle competenze
amministrative in materia di stampa.

La nuova disciplina costituzionale della libertà di stampa nel dibattito in Assemblea costituente

Si cerca di ridimensionare i danni provocati durante il regime fascista.

Si realizza un’inversione di tendenza rispetto al passato nella definizione dei rapporti tra autorità
giudiziaria e autorità di pubblica sicurezza in materia. Applicando lo schema base di tutela dei diritti
di libertà vengono così trasposti i due istituti della riserva di legge e della riserva di giurisdizione,
secondo i quali solo la legge del parlamento può stabilire le ipotesi in cui il diritto di libertà è
suscettibile di incontrare delle limitazioni e solo il giudice può disporre l’applicazione a singole
fattispecie concrete.

Affermato al secondo comma il divieto di sottoporre la stampa ad autorizzazioni e censure, l’ultimo


comma dell’art. 21 individua nella sola tutela del buon costume il fondamento di possibili
limitazioni alla libertà di stampa. Il terzo comma individua nel sequestro l’unica forma di intervento
autoritario sull’esercizio della libertà di stampa, cui solo il giudice può ricorrere e solo nelle ipotesi
di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo preveda. Nel quarto comma si dispone
invece che gli ufficiali di polizia giudiziaria, sempre secondo gli estremi previsti dalla legge, siano
abilitati in caso di urgenza a disporre il sequestro dello stampato. Si tratta tuttavia di un
provvedimento non definitivo che deve essere convalidato dal giudice.

Attenzione assai minore ebbero invece i profili legati allo sviluppo del settore dell’informazione
rispetto alle esigenze di pluralismo e diversificazione delle fonti che è necessario soddisfare in un
sistema democratico. L’unica disposizione a riguardo si trova nel comma n. 5 dell’art. 21 in cui
vengono dettate norme di carattere generale che consentano di pubblicizzare i mezzi di
finanziamento delle imprese editoriali nel settore della stampa periodica. Era una disposizione che
mirava a garantire al trasparenza a tutela dell’interesse degli utenti dell’informazione, ossia dei
cittadini.
L’attuazione del dettato costituzionale: la legge n. 47 del 1948

In relazione alla stampa periodica la vera novità sta nell’abolizione dell’autorizzazione dell’autorità
prefettizia e la sua sostituzione con un semplice obbligo di registrazione delle testate presso
l’autorità giudiziaria.

Con l’introduzione dell’istituto della registrazione scomparivano anche le vecchie norme fasciste
relative al riconoscimento del direttore responsabile, la cui figura resta inalterata.

Un ultimo aspetto della legge in esame è quello relativo alle integrazioni che essa contiene in ordine
alle fattispecie di reati a mezzo stampa.

I residui poteri di intervento preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza e i reati a mezzo stampa
al vaglio della Corte costituzionale

Sono state eliminate, in seguito a una pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 1 del 1956),
le licenze di polizia relative all’affissione degli stampati, disciplinate dall’art. del t.u. delle leggi di
pubblica sicurezza del 1931. Il risultato delle varie modifiche introdotte dalla legge n. 47 del 1948 è
stato la sopravvivenza, accanto alle ipotesi connesse alla tutela dei diritti individuali di un folto
numero di fattispecie di reato, connesse all’esercizio della libertà di espressione, a tutela della
personalità dello Stato, a tutela del sentimento religioso, a tutela dell’ordine pubblico, cui è difficile
riconoscere un sicuro fondamento costituzionale. Solo di recente la disciplina codicistica è stata
modificata provvedendo a sfoltire la trama fittissima dei reati connessi all’esercizio della libertà di
manifestazione del pensiero.

La riforma della disciplina dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti: con la legge n. 69 del 1963 si è
proceduto alla completa riforma della precedente legislazione fascista relativa all’Ordine e all’Albo
dei giornalisti. La legge prevede che tutte le attività connesse alla tenuta dell’Albo siano affidate
all’Ordine dei giornalisti, articolato in consigli regionali o interregionali e dal consiglio nazionale,
istituito presso il Ministero di Grazia e giustizia e composto da due giornalisti professionisti e da un
pubblicista per ogni consiglio regionale o interregionale.

Ai consigli regionali o interregionali spetta, tra l’altro, oltre alla cura dell’osservanza della legge
professionale, la tenuta dell’Albo: essi decidono in merito alle iscrizioni e alle cancellazioni, ed
esercitano il potere disciplinare nei confronti dei loro iscritti. Quanto alle modalità di iscrizione
all’Albo, esse si differenziano a seconda che si tratti di giornalisti professionisti (coloro che
esercitano la professione giornalistica in modo continuativo ed esclusivo) o di pubblicisti (coloro
che invece esercitano l’attività giornalistica in modo non occasionale e retribuito, ma non
esclusivo).

Per l’iscrizione nell’elenco dei giornalisti professionisti si richiede, oltre al raggiungimento del
ventunesimo anno di età, l’iscrizione nel registro dei praticanti, l’esercizio continuativo della pratica
giornalistica per un periodo di tempo non inferiore ai 18 mesi, il superamento con esito favorevole
di una prova di idoneità professionale, da svolgersi davanti a una commissione mista composta da 5
giornalisti professionisti e 2 magistrati, nominati dal Presidente della Corte d’Appello di Roma.
Accanto a questi requisiti positivi, la legge ne richiede anche di negativi, come il non aver riportato
condanne penali che comportino l’interdizione dai pubblici uffici. Quanto all’iscrizione all’elenco
dei pubblicisti, si prevede che i richiedenti, oltre ai requisiti per l’iscrizione all’Albo dei giornalisti
professionisti, siano tenuti a documentare un’attività pubblicistica retribuita svolta per almeno 2
anni.
Ai consigli regionali o interregionali spetta ogni decisione in merito alla cancellazione dall’Albo, la
quale può intervenire o per perdita di uno dei requisiti richiesti per l’iscrizione, per cessazione
dell’attività o per inattività protratta per un periodo di tempo da 2 a 3 anni.

Secondo quanto disposto dall’art. 48 sono passibili di essere sottoposti a procedimento disciplinare
gli iscritti all’Albo che “si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità
professionali, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’ordine.” Tale
procedimento si conclude con una decisione del consiglio che può comportare l’irrogazione di
sanzioni che vanno dal semplice avvertimento a cambiare condotta, alla censura, alla sospensione
dall’esercizio della professione, fino alla radiazione dall’Albo nei casi più gravi. Ai soggetti colpiti
da sanzione disciplinare si riconosce il diritto di esperire tutti i ricorsi che la legge prevede.
Nell’ipotesi di radiazione si riconosce il diritto all’interessato di richiedere la reiscrizione all’Albo,
dopo che siano trascorsi almeno 5 anni dal giorno della radiazione.

In base a quanto è stato disposto dall’art. 21, 1° c., Cost., che dà a tutti il diritto di manifestare il
proprio pensiero, sono nati dei dubbi sulla legittimità costituzionale sull’istituzione dell’Ordine e
dell’Albo dei giornalisti, cui ha risposto la Corte Costituzionale con una pronuncia del 1968 in cui
la disciplina che regola la professione giornalistica viene vista come un elemento che tutela la
libertà di stampa.

Diritti e doveri del giornalista

Quanto ai diritti, essi consistono nella insopprimibile libertà di informazione e di critica “limitata
all’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui.”

Quanto ai doveri, essi si riferiscono all’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti,
all’obbligo di rettificare le notizie che risultino inesatte e di riparare agli eventuali errori, all’obbligo
di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto.

Si prevede che chi si senta fatto oggetto di notizie false o inesatte abbia il diritto di chiederne la
rettifica all’organo di stampa, che deve essere sollecita ed avere lo stesso rilievo tipografico di
quello riservato alla notizia cui la rettifica si riferisce.

Contrattazione collettiva: ha introdotto le c.d. “clausole di coscienza”, che consentono al giornalista


che non condivida il mutamento di linea editoriale del periodico presso il quale presta la propria
attività di sciogliere unilateralmente il rapporto, senza perdita delle indennità di fine rapporto.

Si è assistito alla mancata ridefinizione legislativa degli esatti confini del diritto di cronaca. Ciò ha
consentito la permanenza di una disciplina codicistica del segreto di Stato, estesa non solo alla
tutela della sicurezza nazionale, ma anche dell’interesse politico dello Stato che solo con la legge n.
801 del 1977 ha conosciuto una modifica che ha ricondotto la nozione del segreto penalmente
tutelabile all’unico interesse costituzionalmente rilevante e cioè quello legato alla sicurezza dello
Stato.

Bisogna sottolineare anche la permanenza del segreto istruttorio che non realizza affatto quel giusto
contemperamento tra diritto di cronaca ed esigenze della giustizia che sarebbe viceversa
auspicabile.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n.5259 del 1984, ha esteso i limiti del diritto di cronaca
identificandoli nella verità dei fatti descritti, nella rispondenza dei medesimi ad un interesse sociale
effettivo alla loro conoscenza e nella correttezza della loro esposizione.

Il nuovo codice di procedura penale prevede una parziale estensione del diritto di astenersi dal
testimoniare anche per i giornalisti. Ai sensi, infatti, dell’art. 200, 3° c., tale diritto viene
riconosciuto ora anche ai giornalisti professionisti iscritti all’Albo professionale con riferimento “ai
nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario.”

Attività giornalistica e tutela della “privacy”

La legge sulla privacy: legge n. 675 del 1996, che rappresenta l’adempimento del legislatore
italiano agli obblighi derivanti sia dalla Convenzione di Strasburgo del 1981, resa esecutiva con
legge n. 98 del 1989, sia dall’Accordo di Schengen del 1985, sia da atti normativi comunitari e da
varie raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

Oggetto della disciplina posta dalla legge è la raccolta e il trattamento dei dati personali (ossia
informazioni relative a persone fisiche, persone giuridiche, enti o associazioni, identificati o
identificabili), effettuati da qualunque soggetto sul territorio nazionale.

Per ciò che attiene alla raccolta e al trattamento effettuati da soggetti privati la tutela si realizza
essenzialmente attraverso tre strumenti:
a) l’imposizione a carico del soggetto che realizza le dette attività di raccolta e trattamento di
dati personali di una serie di obblighi che vanno dall’informazione degli interessati, alla
richiesta di un apposito consenso da parte degli stessi.
b) la costituzione di una serie di diritti per coloro che sono oggetto delle attività suddette, che
vanno dal diritto di accesso ai propri dati, al diritto di controllo e di rettifica, al diritto di
opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati stessi.
c) l’istituzione di un’apposita Autorità di garanzia (il Garante per la protezione dei dati
personali) composta da 4 membri di nomina parlamentare con compiti di vigilanza sulla
corretta applicazione della legge, nonché compiti di intervento volti a far cessare
comportamenti contrari alla legge.

La legge contiene una disciplina specifica sulle attività di raccolta e trattamento dei c.d. “dati
sensibili”, ossia quei dati che sono in grado di rilevare l’origine razziale ed etnica delle persone, le
loro convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, l’adesione a partiti e sindacati, le condizioni
di salute, le abitudini sessuali. A questo riguardo, si prevede infatti che il trattamento, quando
effettuato da soggetti privati, possa avvenire solo con il consenso scritto degli interessati e previa
autorizzazione dell’Autorità garante, mentre quando è effettuato da soggetti pubblici, possa
avvenire solo nelle ipotesi in cui esso è autorizzato da espresse previsioni legislative.

Ai giornalisti e a tutti coloro che esercitano l’attività di informazione si consente di raccogliere e


diffondere dati personali, compresi i dati sensibili, senza incontrare tutte le limitazioni previste
dalla legge in via generale. La legge prevede inoltre l’adozione di uno speciale “codice di
deontologia” approvato da parte dell’Ordine dei giornalisti in dialettica collaborazione con
l’Autorità garante nel luglio 1998. Al suo interno si è stabilito che il giornalista è tenuto solo a
rendere nota la propria identità, la propria professione e la finalità della raccolta di dati. Il codice
deontologico contiene inoltre importanti disposizioni relative ai minori e alla tutela della dignità
personale. Infine il codice prevede che le sue disposizioni si applichino non solo ai giornalisti
professionisti, ma anche a tutti coloro che anche occasionalmente esercitino l’attività pubblicistica.
Gli interventi sui mezzi (le imprese editoriali): il soggetto economico alla stampa

Gli interventi sulle condizioni economiche nelle quali operano le imprese editoriali: fino agli anni
70 l’unico rilevante strumento in tale direzione è stata l’integrazione del prezzo della carta, operata
dall’ente nazionale cellulosa e carta. A questo strumento si aggiungono poi le forme di sostegno
indiretto rappresentate da alcune agevolazioni fiscali e riduzioni tariffarie. Solo con la legge n. 1063
del 1971 si assiste all’introduzione di 3 importanti integrazioni al sistema di sostegno economico
alla stampa sino ad allora vigente. Vengono decisi anche dei contributi straordinari per le imprese
editrici, finanziati direttamente dal bilancio dello Stato. Si è poi stabilito che le imprese editoriali
possano accedere a forme di credito agevolato.

In seguito viene approvata la legge n. 172 del 1975 in cui si stabilisce una sempre più stretta
relazione tra sostegno economico dello Stato e programmi di riconversione tecnologica delle
imprese editoriali. Obiettivo principale di tale impostazione resta quello di mantenere un livello
sufficiente di pluralismo informativo.

E’ con la legge n. 416 del 1981, successivamente modificata dalla legge n. 67 del 1987, nonché
dalla più recente legge n. 250 del 1990, che la disciplina della materia in esame compie un decisivo
salto di qualità. La linea di fondo di questa normativa è rappresentata dal tentativo di ridefinire
l’intervento di sostegno statale, abbandonando progressivamente la strada del sostegno diretto, di
natura sostanzialmente assistenziale, a favore di un intervento di sostegno soprattutto indiretto e
mirato a favorire il processo di modernizzazione tecnologica in atto nel settore editoriale. I
contributi indiretti ruotano attorno all’istituzione di due fondi speciali volti ad agevolare l’accesso al
credito da parte delle imprese editrici impegnate in specifici programmi di ristrutturazione tecnico-
economica. Accanto alle forme di mutuo agevolato disposte a favore delle imprese editrici di opere
di elevato valore culturale sono anche previste agevolazioni concernenti le tariffe telefoniche,
telegrafiche, postali e dei trasporti. Sulla base di quanto disposto dalla legge n. 67 del 1987 e dalla
legge n. 250 del 1990, l’area dei possibili destinatari di interventi di sostegno economico diretto si
riduce fino a ricomprendere solo alcune particolari categorie di imprese editrici. Questa decisione
ha suscitato numerose critiche per aver ignorato l’esigenza del pluralismo informativo nel preferire
solo alcune imprese editrici. In parallelo alla drastica riduzione degli interventi di sostegno
economico diretto e all’accentuazione degli interventi indiretti a favore della stampa, si è proceduto
all’abolizione del meccanismo del prezzo amministrato. La fissazione in via amministrativa del
prezzo dei quotidiani rappresentava il corrispettivo che veniva imposto alle imprese editrici, in
cambio della garanzia di un approvvigionamento costante della materia prima, ossia la carta. A
questa ragione se ne aggiunse un’altra e cioè la necessita di mantenere basso il prezzo dei
quotidiani, ritenuti i maggiori veicoli di informazione, in generale, e di informazione politica, in
particolare.

Riguardo agli altri interventi legislativi, si è assistito anche all’introduzione di un tetto massimo
degli introiti pubblicitari. L’art. 5 della legge n. 67 del 1987 stabilisce l’obbligo per le
amministrazioni statali e gli enti pubblici non territoriali di destinare alla pubblicità su quotidiani e
periodici almeno il 50 % delle spese complessivamente sostenute per pubblicità.

Di recente si è inoltre assistito ad interventi a riguardo non solo da parte dello Stato ma anche delle
Regioni. Tutti gli statuti regionali infatti recano una serie di disposizioni che alludono ad un
impegno delle Regioni a favorire le condizioni per lo sviluppo di un sistema informativo in grado di
assicurare un’effettiva e consapevole partecipazione dei cittadini alle scelte politiche regionali. Tali
disposizioni sono rimaste a lungo sulla carta in quanto c’ è stata l’opposizione del Governo
nazionale a riconoscere la legittimità di leggi regionali a riguardo.
Le nuove norme in materia di vendita di quotidiani e periodici

Con la legge n. 108 del 1999 sono state stabilite le regole sulla vendita di quotidiani e periodici.
All’interno di questa legge si è deciso di sperimentare altri possibili punti vendita che vadano ad
integrare la rete fissa dedicata. A tal fine si è prevista una prima fase di sperimentazione cui
possono partecipare alcuni esercizi commerciali espressamente indicati sull’intero territorio
nazionale e destinata all’acquisizione di elementi conoscitivi circa le variazioni prodotte da queste
nuove forme di vendita sul mercato della stampa quotidiana e periodica. Agli esercizi che
partecipano alla sperimentazione (bar, rivendite di carburante ecc.) oltre all’obbligo di assicurare la
parità di trattamento alle testate poste in vendita, sono imposti altri obblighi nei confronti degli altri
rivenditori (mantenimento dello stesso prezzo, predisposizione di appositi spazi espositivi ecc.).

Alla verifica trimestrale dell’andamento della sperimentazione è preposta una Commissione


paritetica Governo-editori. Si prevede che, ultimata la sperimentazione della durata di 18 mesi, il
Governo provveda ad adottare un decreto legislativo diretto a far nascere un sistema misto di
diffusione.

Le norme anticoncentrazionistiche

A questo riguardo è importante l’art. 3 della legge n. 67 del 1987, che stabilisce che si considera
dominante sul mercato la posizione di chi si trovi ad essere editore o a controllare società che
editano testate quotidiane, la cui tiratura abbia superato nell’anno precedente, il 20 % della tiratura
complessiva dei giornali quotidiani in Italia. Allo stesso modo, è considerata dominante la posizione
di chi edita direttamente o controlla società che editano un numero di testate quotidiane superiore
del 50 % di quelle edite nell’anno precedente.

Quanto alla nozione di controllo, l’ art. 2359 afferma che sono considerate società controllate:
1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza di azioni o quote richiesta per la
deliberazione dell’assemblea ordinaria
2) le società che sono sotto l’influenza dominante di un’altra società a causa di legami
contrattuali

Sono stati previsti 1) tutta una serie di obblighi di trasparenza a carico delle imprese editrici 2)
l’individuazione di appositi organi incaricati del compito di assicurare la corretta applicazione della
legge 3) la definizione di uno specifico sistema sanzionatorio.

1) Gli obblighi di trasparenza consistono nel rendere pubblici gli assetti proprietari di chi opera nel
settore dell’informazione per la conoscenza degli assetti societari e dei loro eventuali mutamenti.
Essi consistono nell’obbligo di iscrizione al Registro nazionale della stampa e in quello di
depositare annualmente presso il Registro il proprio bilancio annuale, nonché l’obbligo di
comunicare ogni trasferimento di azioni, partecipazioni o quote di proprietà di imprese editrici di
quotidiani, se la quota supera il 10 % del capitale sociale. Obblighi aggiuntivi sono inoltre previsti a
carico di quelle imprese che controllano più quotidiani o periodici e tra questi quello di presentare
un bilancio consolidato di gruppo. Obblighi e limiti analoghi a quelli riferiti alle imprese editoriali
sono previsti dalla legge anche nei confronti delle concessionarie di pubblicità, da cui dipende in
gran parte la sopravvivenza economica delle diverse iniziative editoriali.

2) Con la legge n. 416 del 1981 è stata stabilita l’istituzione di un Garante che doveva acquisire
informazioni circa l’identità e la situazione patrimoniale dei soggetti che risultassero titolari
di azioni o di quote di società editrici di quotidiani o periodici. Non si prevedeva però con
questa legge alcun diretto potere ispettivo ai fini della verifica della veridicità delle
informazioni così raccolte. La situazione muta con la legge n. 67 del 1987, la quale
introduce tra i poteri del Garante quello di intervenire direttamente in modo da fornire la
relativa informazione al Parlamento. Inoltre la legge prevede che il Garante possa chiedere
al giudice provvedimenti di urgenza. Un’ulteriore novità si trova nella legge n. 223 del
1990 che prevede il trasferimento dal Servizio dell’editoria al Garante della tenuta del
Registro della stampa e il rafforzamento dell’apparato di supporto all’azione del Garante.
Inoltre si prevede in questa legge l’estensione dell’intervento del Garante ai processi di
concentrazione incrociata stampa-radiotelevisione, con la previsione dia autonomi poteri
sanzionatori di carattere amministrativo.

3) Per quanto riguarda infine il profilo sanzionatorio va sottolineato che l’ eventuale violazione
dei limiti di soglia fissati dalla legge e degli obblighi di trasparenza ad essa connessi
comporta anche la sospensione o perdita degli aiuti economici da parte dei soggetti in
posizione dominante beneficiari cui si aggiungono anche sanzioni di carattere penale.

2 - RADIOTELEVISIONE

1. Sistema radiotelevisivo e forma di Stato

2. Elementi comuni nell'esperienza dei paesi europei in materia di informazione radiotelevisiva

2.1. Il periodo tra le due guerre mondiali


Se si guarda ad un'esperienza che copre ormai poco meno di un secolo non è difficile individuare in
essa una linea di sviluppo comune, che ha conosciuto tre fasi distinte:
la fase della introduzione di forme di monopolio pubblico;
la fase della riforma del regime pubblicistico;
la fase della introduzione di un sistema misto, in parte pubblico e in parte privato. La prima fase è
quella che caratterizza la disciplina del sistema radiotelevisivo tra le due guerre. La scelta a favore
di un regime pubblicistico nasce all'origine da ragioni di ordine sia tecnico, che legate alla
particolare natura del mezzo. Tuttavia, per l’affermazione del monopolio pubblico, resta decisivo il
fattore di ordine politico legato alla scoperta dell'efficacia del nuovo mezzo quale strumento per la
conquista e il consolidamento del consenso sociale a favore degli assetti politici costituiti.

2.2. Le innovazioni introdotte dalla legislazione tra gli anni '60 e '70
L'abbandono del modello pubblicistico, così come ereditato dal passato, doveva rivelarsi tutt'altro
che agevole, risultando una delle maggiori difficoltà quella rappresentata dall'assenza nelle
Costituzioni di questo periodo di una espressa disciplina del mezzo radiotelevisivo. Di qui lo
sviluppo di un ampio dibattito che si incentrava, da un lato, sulle caratteristiche tecniche del mezzo
stesso (che utilizza risorse, le frequenze via etere, non illimitate), dall'altro, sul suo impatto sociale,
da valutare in termini di incidenza sulla informazione e sulla formazione culturale e politica dei
cittadini. Si assiste così all’introduzione di una serie di correttivi e di adattamenti che si muovono
essenzialmente su tre piani diversi: 1) il riequilibro del ruolo svolto in questo settore rispettivamente
da Governo e Parlamento; 2) la definizione di un più stretto rapporto tra strutture radiotelevisive e
autonomie locali; 3) l’introduzione di forme di partecipazione dei gruppi sociali alla gestione ed
utilizzazione del mezzo (programmi dell’accesso).

2.3. Le leggi della «terza generazione» e il superamento del monopolio pubblico radiotelevisivo
Con l'inizio degli anni '80, prende avvio la terza fase dell'evoluzione dei sistemi radiotelevisivi
europei, si tratta di quella che potremmo definire la legislazione della «terza generazione» chiamata
a fronteggiare una realtà assai complessa ed articolata: dall'accelerazione delle innovazioni
tecnologiche (reti via cavo, satelliti da punto a punto e poi a televisione diretta e così via), che
conducono verso il superamento della limitatezza «oggettiva» del mezzo, alla crescente pressione
esercitata dal mondo imprenditoriale e pubblicitario per una liberalizzazione e privatizzazione
dell'attività radiotelevisiva, alle esigenze di equilibrio generale del sistema dell'informazione, ormai
sempre più difficilmente scomponibile (e regolabile) per comparti separati. Nasce così un sistema
radiotelevisivo «misto» pubblico-privato, nel quale il soggetto pubblico tende a mantenere una
posizione di preminenza, a volte legislativamente sancita, ma i cui equilibri appaiono spesso precari
e destinati ad ulteriori inevitabili assestamenti. Anche la legislazione della «terza generazione» non
sembra affatto destinata a rappresentare un punto d'arrivo definitivo; al contrario, le incertezze che
percorrono la disciplina degli attuali sistemi radiotelevisivi «misti» inducono a ritenere che essa non
rappresenti altro che una tappa importante, ma ancora intermedia di quella evoluzione.

3. Il caso italiano: la disciplina della radiofonia durante il periodo fascista

In questo processo evolutivo si inseriscono, in modo del tutto coerente, anche le vicende del sistema
radiotelevisivo italiano. Un vero e proprio intervento organico nel campo della radiofonia si ha, in
Italia, solo con l'avvento del regime fascista, in sintonia con un indirizzo generale volto ad estendere
il controllo dei pubblici poteri sull'intero sistema dell'informazione mentre nel periodo
immediatamente precedente, l'attenzione del legislatore verso i problemi relativi ad un settore che
ancora non era uscito da una prima fase di sperimentazione era stata modesta. Con una prima serie
di interventi del 1924 si procedeva al rilascio di una concessione in esclusiva ad un'unica società,
l'Unione radiofonica italiana (uri). Ma è tre anni più tardi, nel 1927, che il settore della radiofonia
assume il suo assetto definitivo, quando si porta a compimento il processo di pubblicizzazione della
concessionaria: divenuta proprietà della sip, essa assume il nome di Ente italiano per le audizioni
radio-foniche (eiar). Gli interventi successivi non fanno che completare questo assetto: nel 1935 si
procede ad una razionalizzazione delle diverse competenze in materia ripartite tra vari organi
governativi e l'anno successivo, sulla base di una legge di delegazione del Parlamento (legge n. 336
del 1933), viene varato il codice postale (r.d. n. 645 del 1936), che come vedremo sarà destinato a
sopravvivere a lungo alla caduta del regime fascista.

4. L'assetto del settore durante di periodo costituzionale provvisorio e nell'immediato secondo


dopoguerra

Il regime giuridico continuava a far perno sulla riserva allo Stato dei servizi di radio e
telecomunicazione, cosi come definita dal codice postale del 1936 ribadito poi da un decreto del
1947, e sul modello di concessione del servizio in esclusiva ad una società a capitale in prevalenza
pubblico. Un ruolo assolutamente centrale veniva riservato al Ministero delle Poste e
telecomunicazioni, cui spettava, oltre alla vigilanza generale sugli impianti, l'approvazione dello
statuto della concessionaria, il controllo contabile sulla gestione della stessa, la nomina del
Presidente e dell'amministratore delegato della concessionaria. Presso il Ministero di settore, veniva
inoltre creato un apposito Comitato per la definizione delle direttive di massima culturali, artistiche
ed educative cui avrebbe dovuto uniformarsi l'attività di diffusione dei programmi, che esprimeva
un parere sul piano triennale della programmazione che la concessionaria era tenuta a presentare per
l'approvazione al ministro. Il secondo obiettivo perseguito dal decreto del 1947, e in ciò sta la sua
vera novità rispetto al passato, era quello di coinvolgere nel governo del settore radiotelevisivo
anche il Parlamento con l'istituzione di una commissione parlamentare di vigilanza, cui veniva
affidato il compito di assicurare l'imparzialità politica e l'obiettività dell'informazione trasmessa
dalla concessionaria. Questo quadro normativo non cambia, ma anzi riceve una puntuale ed
articolata conferma con la nuova concessione del servizio alla rai del 1952, che precede di due anni
l'inizio delle trasmissioni televisive. Non doveva tuttavia passare molto tempo perché questa
operazione di mera cosmesi della disciplina ereditata dal fascismo mostrasse tutti i suoi limiti a
fronte dei nuovi principi costituzionali e, più precisamente, con quella affermazione contenuta
nell'art. 21, Cost.

5. Il ruolo della Corte costituzionale: dalla conferma della legittimità del monopolio pubblico alla
riforma del 1975

Nel 1960, con la sentenza n. 59, si arriva così alla prima pronuncia della Corte in tema di legittimità
costituzionale del modello pubblicistico di esercizio dell'attività radiotelevisiva. Una pronuncia di
grande rilievo perché in essa si coglie immediatamente quale ruolo decisivo la Corte intenda
assumere in questa difficile opera di ridefinizione. Chiamata a decidere circa i dubbi di legittimità
costituzionale della riserva allo Stato del servizio di radio e telediffusione, sancita dall'art. 1 del
vecchio codice postale del 1936, la Corte arriva ad una decisione di rigetto che poggia su tre ordini
di motivazioni, tra loro strettamente collegati: 1) trattandosi di un mezzo di comunicazione che si
avvale di una risorsa (le bande di frequenza) oggettivamente limitata, esso non poteva a priori
essere parificato agli altri mezzi di comunicazione; 2) affinché un regime differenziato per il mezzo
radiotelevisivo fosse coerente con le garanzie costituzionalmente previste, dovesse essere
comunque evitato il rischio del formarsi di situazioni di monopolio od oligopolio privato, contrarie
al principio del necessario pluralismo informativo che la Costituzione impone di rispettare; 3) la
soluzione di assoggettare il settore ad un regime di monopolio pubblico, pur non rappresentando
una soluzione costituzionalmente obbligata, doveva ritenersi una soluzione consentita, alla luce del
combinato disposto degli artt. 21 e 43 Cost.: il regime pubblicistico doveva cioè considerarsi quello
che meglio di ogni altro assolveva al compito di assicurare il tasso di pluralismo necessario. Più in
particolare, essa affermò che una disciplina pubblicistica avrebbe dovuto prevedere la possibilità di
un accesso al mezzo da parte di tutte le diverse correnti culturali e politiche, nonché un
ridimensionamento del ruolo del Governo a tutto favore del Parlamento. Da questa sentenza del
1960 doveva passare oltre un decennio prima che la Corte intervenisse ancora due pronunce del
1974 con le sentenze 225 e 226. Mentre con la sentenza n. 225 viene dichiarata costituzionalmente
illegittima la riserva allo Stato dell'attività di ritrasmissione di programmi di emittenti estere e se ne
ammette l'esercizio anche da parte di soggetti privati, con la sentenza n. 226, dichiarandosi
l'illegittimità costituzionale della riserva statale nel settore dei servizi radiotelevisivi via cavo se ne
consente l'ingresso alle iniziative private (previa introduzione di un apposito regime autorizzatorio),
sia pure con riferimento al solo livello locale, mentre viene fatta salva la relativa riserva per ciò che
attiene il livello nazionale. Ad orientare la Corte in questa direzione è la considerazione
dell'inesistenza di possibili attentati al pluralismo informativo (mera ritrasmissione di programmi
esteri); nel secondo caso, in ragione della natura del mezzo tecnico, il cavo appunto, suscettibile di
garantire una sua utilizzazione illimitata e comunque tale da fare salvo il principio pluralistico.
Sotto il secondo profilo, la Corte riprende le indicazioni già fornite con la sentenza n. 59 del 1960
per ribadire, questa volta in maniera assai più puntuale, le condizioni che il legislatore avrebbe
dovuto sollecitamente soddisfare in sede di riforma della disciplina del monopolio pubblico: 1)
sottrazione degli organi di vertice della concessionaria del servizio all'influenza esclusiva o
prevalente dell'Esecutivo; 2) necessaria garanzia dell'imparzialità e completezza dell'informazione,
nel rispetto di tutte le tendenze culturali e politiche; 3) necessario coinvolgimento del Parlamento
nella definizione delle direttive generali, nonché nell'esercizio del controllo circa la loro effettiva
applicazione; 4) necessaria tutela dell'autonomia professionale degli operatori dell'informazione
all'interno della concessionaria; 5) necessaria predisposizione di limiti quantitativi alla pubblicità
commerciale, a tutela della possibilità di sviluppo di altri mezzi di informazione ed in particolare
dell'informazione stampata; 6) necessaria disciplina del diritto di accesso al mezzo radiotelevisivo;
7) necessaria disciplina del diritto di rettifica. Si tratta di quelli che verranno chiamati i «sette
comandamenti» della Corte costituzionale.

6. La legge di riforma n. 103 del 1975 e la sua rapida obsolescenza


La legge di riforma del monopolio pubblico che il Parlamento finalmente vara nel 1975 si muove
lungo le linee tracciate dalla Corte nelle pronunce da ultimo ricordate. Definita la radiodiffusione
circolare, nel quadro di quanto disposto dall'art. 43 Cost., se ne afferma la riserva allo Stato e la
conseguente sottrazione alla libera disponibilità dei privati (art. 1). Tale riserva non si estende,
tuttavia, né all'attività diretta alla gestione di impianti ripetitori di programmi stranieri e nazionali,
né all'installazione e all'esercizio di impianti di diffusione via cavo, a livello locale (art. 2). Con
riferimento alla gestione dei ripetitori di programmi esteri e di quelli nazionali, la legge prevede
(artt. 38 ss.) il rilascio di un'apposita autorizzazione. Anche per l'attività radiotelevisiva via cavo, a
livello locale, la legge introduce un regime autorizzatorio (artt. 24 ss.). In secondo luogo, l'ossequio
ai «comandamenti» della Corte, nasce la Commissione bicamerale per l'indirizzo generale e la
vigilanza dei servizi radiotelevisivi (artt. 4 ss.). Un nuovo assetto assumone il rapporto tra gli organi
interni della concessionaria e che vede il Presidente e il Direttore generale esercitare le loro funzioni
(il primo come responsabile della rispondenza della gestione aziendale agli indirizzi generali fissati
dalla Commissione bicamerale di vigilanza, il secondo come responsabile dell'attuazione dei
deliberati del Consiglio). Terzo profilo importante toccato dalla legge di riforma, quello
dell'inserimento delle Regioni nel quadro del nuovo sistema. Accanto al canone, resta confermata
l'entrata derivante dalla pubblicità commerciale, ma con un doppio limite: il primo, legato ad una
soglia massima non valicabile dall'indice di affollamento (5%), il secondo, di ordine finanziario,
determinato da una soglia massima di introiti pubblicitari, da determinarsi ogni anno da parte della
Commissione bicamerale. Ma, ad un solo anno di distanza dall'approvazione della legge di riforma
n. 103, è di nuovo il giudice costituzionale a determinare una svolta nell'evoluzione del sistema
radiotelevisivo. La Corte fa propria la tesi sostenuta dai ricorrenti, volta a sostenere l'esistenza, a
livello locale, di una disponibilità di frequenze utilizzabili sufficiente a scongiurare il formarsi di
monopoli con possibili conseguenze negative sul pluralismo informativo. Di qui l'apertura alle
iniziative private dell'esercizio dell'attività radiotelevisiva via etere, a livello locale, in analogia alla
radiodiffusione via cavo. Ciò che preme sottolineare di questa sentenza, davvero storica, è che
segna una svolta netta nell'itinerario logico sino ad allora seguito dai giudici costituzionali, nella
sentenza n. 202 lo stretto nesso tra i due elementi (limitatezza delle frequenze e ruolo essenziale del
sistema radiotelevisivo) appare irrimediabilmente spezzato: ciò che assume rilievo decisivo
nell'orientare la Corte è la sola motivazione di ordine tecnico, sganciata da ogni riferimento all'altro
tipo di valutazione. È sufficiente per la Corte accedere alla tesi dell'aumento delle disponibilità
tecniche di trasmissione a livello locale (pur nella loro perdurante limitatezza) per ritenere di per sé,
e per ciò solo, soddisfatte le esigenze connesse al pluralismo informativo. Una conclusione che
finisce per rendere ambigua la nozione di attività radiotelevisiva: si appanna la nozione di servizio
pubblico essenziale; le ragioni del servizio pubblico paiono ricondotte alla sola attività svolta
dall'emittente pubblica, là dove, per il settore privato lo stesso tipo di attività pare attratto
nell'ambito della libertà di iniziativa economica e delle sue regole, quasi che il livello nazionale o
locale di esercizio della medesima attività possa determinarne un mutamento di natura quanto ai
riflessi sociali che essa produce. Si tratta, come vedremo, di un elemento di ambiguità che peserà a
lungo non solo sugli sviluppi successivi della giurisprudenza costituzionale in materia, ma anche
sull'operato del legislatore.

7. Il lento cammino verso la disciplina del sistema «misto» pubblico e privato: dalla normativa
transitoria della legge n. 10 del 1985 alla sentenza n. 826 del 1988 della Corte costituzionale

La ricordata sentenza n. 202 del 1976 apre un lungo periodo, destinato a chiudersi solo con
l'approvazione della legge n. 223 del 1990, caratterizzato, da un lato, dai tentativi numerosi del
Parlamento di arrivare alla definizione del nuovo assetto del sistema radiotelevisivo imposto dalla
pronuncia della Corte, dall'altro, dallo sviluppo sempre più consistente e tumultuoso di iniziative
private a livello locale. Nel perdurare della latitanza del legislatore, il settore privato, si avvia
sempre più verso la concentrazione (una grande emittente, rispetto alla quale le altre svolgono
sostanzialmente la funzione di semplici terminali per la diffusione dei programmi). Questo alimenta
la spinta alla polarizzazione della risorsa pubblicitaria attorno alle iniziative private di maggiore
consistenza e si realizza attraverso varie forme di interconnessione funzionale, fino alla messa in
onda in contemporanea di programmi preregistrati, superando così, di fatto, l'ambito locale cui la
Corte aveva ancorato il «diritto» dei privati all'esercizio dell'attività radiotelevisiva. Con la sentenza
n. 148 del 1981 la Corte avverte chiaramente che una maggiore disponibilità tecnica del mezzo non
può considerarsi condizione di per sé sufficiente a garantire il pluralismo informativo, ma c’è
bisogno di una disciplina del «mercato» dell'informazione radiotelevisiva tale da eliminare ogni
rischio del formarsi di situazioni di monopolio od oligopolio privato. All'elemento di ordine tecnico,
la Corte aggiunge ora un elemento di ordine economico, ma ciò accentua l'ambiguità, già a suo
tempo segnalata, circa il modo d'intendere la natura dell'attività radiotelevisiva. La sentenza n. 148
del 1981 rappresenta un'ulteriore tappa nella discontinuità aperta dalla sentenza n. 202 del 1976, di
cui la pronuncia del 1981 costituisce in qualche misura il logico sviluppo. Questo nuovo intervento
della Corte determina un completo mutamento di prospettiva per il legislatore: se fino ad allora il
legislatore si era mosso nell'ottica di una «concorrenza» pubblico-privato (al polo pubblico =
servizio radiotelevisivo di livello nazionale, polo privato = l'ingresso al solo livello locale, in
seguito il nuovo sistema «misto» comincia a delinearsi come sistema a concorrenza generalizzata.
Inizia da questo momento una sorta di gara più o meno sotterranea, indiretta e impari tra il
legislatore da una parte e le maggiori emittenti private dall'altra. Il Governo decide di intervenire
con una disciplina transitoria (il d.l. n. 807 del 1984, convertiro nella legge n. 10 del 1985,
altrimenti detto dl Berlusconi), che avrebbe dovuto restare in vigore per non più di sei mesi e verrà
sostituita solo nell'agosto del 1990. Come contropartita a questa legittimazione «transitoria» si
estendono alle emittenti private alcuni obblighi, analoghi a quelli gravanti sull'emittente pubblica.
Ma il d.l. n. 807 del 1984 non rappresenta soltanto una testimonianza evidente di un ormai acquisito
mutamento di prospettiva, ma anche delle difficoltà che il legislatore si trova ad affrontare nella
definizione di un nuovo quadro normativo di riferimento. L'analisi della legge riflette tutta
l'ambiguità e l’incertezza del legislatore, un'incertezza che, come vedremo meglio più avanti, non
verrà dissipata nemmeno dalla legge di riforma del 1990, lasciando aperti numerosi interrogativi di
non facile risoluzione. L'incapacità del legislatore di superare in tempi ragionevoli le difficoltà,
sono alla base di un nuovo importante intervento della Corte, che contribuisce in maniera decisiva
ad accelerare il dibattito parlamentare su quella che diventerà la legge n. 223 del 1990. Si tratta,
come è noto, della sentenza n. 826 del 1988, una sorta di summa dell'intera giurisprudenza della
Corte in materia di informazione radiotelevisiva e, insieme, uno dei tentativi più arditi di
condizionare l'operato e i tempi del legislatore. La corte decide per una sorta di «assoluzione
condizionata» di una disciplina di legge ordinaria, ritenuta in sé incostituzionale, ma
provvisoriamente assolvibile in ragione proprio della sua transitorietà.. Tre sono le accezioni che la
Corte individua: 1) quella di pluralismo esterno, inteso quale presenza attiva del maggior numero
possibile di fonti; 2) quella di pluralismo interno, maggior numero possibile di opinioni, tendenze
politiche, ideologiche e culturali; 3) pluralismo inteso quale possibilità di scelta tra una molteplicità
di fonti informative. Si tratta dei diversi ruoli che emittenza privata ed emittenza pubblica sono
chiamate rispettivamente a svolgere: la prima legata al pluralismo esterno; la seconda al pluralismo
interno. La Corte ricava alcuni importanti corollari applicativi, che possono riassumersi in cinque
punti: 1) la necessità di una disciplina dei flussi di risorse finanziarie, tale da garantirne una
distribuzione equilibrata tra i diversi settori in cui esso si articola; 2) l'esigenza di una disciplina
della pubblicità radiotelevisiva a tutela dell'utente-consumatore; 3) ribadisce l'esigenza della
introduzione di una normativa antitrust; 4) l'affermazione della necessaria tutela delle emittenti
locali; 5) la sollecitazione rivolta al legislatore ad immaginare soluzioni di prospettiva che tengano
conto degli sviluppi tecnologici in atto.

8. La necessaria attuazione della normativa comunitaria in materia di pubblicità televisiva


Un altro stimolo nella stessa direzione viene dalla direttiva del Consiglio del 3 ottobre 1989, n. 552,
dedicata al «coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative
degli Stati membri concernenti l'esercizio delle attività televisive».. Il cuore della direttiva è
rappresentato dalle disposizioni relative alla pubblicità commerciale e ne affronta quattro diversi
profili: contenuto, modalità di trasmissione (riconoscibilità del messaggio pubblicitario e divieto
della pubblicità subliminale, gli spot tra e non nelle trasmissioni), indice di affollamento,
sponsorizzazioni (limitare le sponsorizzazioni al «mecenatismo d'impresa».. Con la direttiva,
89/552/CEE siamo di fronte ad una serie di disposizioni per una disciplina comune della pubblicità
commerciale, con riflessi immediati sugli equilibri complessivi del settore dell'informazione. Un
tentativo concepito in termini sufficientemente puntuali e tali da produrre conseguenze di grande
rilievo soprattutto in quegli ordinamenti, come quello italiano, nei quali meno attenta e sollecita era
stata, sino ad allora, l'azione del legislatore.

9. La legge 6 agosto 1990, n. 223 sulla nuova disciplina del sistema radiotelevisivo «misto»
pubblico e privato

La nuova disciplina avrebbe dovuto risolvere le complesse questioni legate al difficile


contemperamento tra libertà di informare e libertà di iniziativa economica, con la necessaria
garanzia del pluralismo quantitativo e qualitativo delle fonti. Solo con l’approvazione della legge n.
223 del 1990 si arriva ad una disciplina il sistema radiotelevisivo misto pubblico-privato.
L'impianto della legge ruota attorno a cinque assi portanti:
I principi comuni. L'attività diretta alla diffusione di programmi radiofonici e televisivi è attività di
«preminente interesse generale», e «i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo, che si
realizzano con il concorso di soggetti pubblici e privati» (art. 1). Proprio nell’assoggettare ad una
serie di principi comuni l'attività radiotelevisiva, la legge contiene un elemento di forte ambiguità:
mentre, infatti, l'impostazione unitaria dell’art. 1 sembrerebbe consentire la previsione di limiti
comuni all'uno e all'altro settore, la scissione cui pare alludere l’art. 2 sembrerebbe poter giustificare
un regime di limiti differenziato, nel quale il rispetto dei c.d. principi comuni venga in realtà
affidato soltanto, o prevalentemente, alla concessionaria pubblica. Si tratta di un elemento di
ambiguità che peserà in modo non indifferente su alcuni contenuti di rilievo della legge.
Il regime concessorio. La disciplina del regime concessorio, intesa come individuazione dell'organo
titolare del potere di rilasciare, sospendere o revocare la concessione, dei criteri per l'esercizio di
tale potere, nonché come definizione dei requisiti dei richiedenti e del contenuto della concessione,
ha la sua premessa fondamentale in due atti di pianificazione: il piano nazionale di ripartizione (che
provvede a ripartire le bande di frequenza utilizzabili tra i diversi servizi di telecomunicazione) e il
piano di assegnazione delle frequenze (che provvede ad assegnare le bande di frequenza tra i vari
bacini di utenza, nei quali viene diviso il territorio nazionale per la radiodiffusione). L'approvazione
del piano di ripartizione delle frequenze spetta, oggi, al ministro delle Comunicazioni su parere
dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, mentre il piano di assegnazione è approvato da
quest'ultima. Questa attività di pianificazione non si esaurisce affatto in un'operazione
esclusivamente tecnica, ma incide profondamente sul numero complessivo delle emittenti
teoricamente attivabili, ossia sul tasso di «pluralismo esterno» presente nel settore radiotelevisivo.
L'art. 16 si occupa della definizione dei criteri cui ancorare il rilascio delle concessioni. Essi
poggiano essenzialmente sulla potenzialità economica delle diverse iniziative, sulla natura dei
progetti tecnici presentati, sulla qualità della programmazione prevista, nonché sulla base della
qualità e della quantità della programmazione prodotta, degli assetti aziendali e degli indici di
ascolto. Se la disciplina delle fasi essenziali del procedimento relativo al rilascio della concessione è
riassunta unitariamente nelle disposizioni dell'art. 16, altrettanto non può dirsi per quella relativa
agli obblighi che la legge prevede a carico dei concessionari, solo alcuni dei quali sono contenuti in
quanto disposto dall'art. 20. Gli obblighi comuni attengano essenzialmente a due profili: quello
relativo alla gestione dell'impresa e quello relativo al contenuto dei programmi. Tra i primi, si
possono far rientrare l'obbligo di iscrizione nel Registro nazionale delle imprese radiotelevisive; di
comunicazione dei trasferimenti di proprietà; di promuovere azioni dirette a realizzare condizioni di
«pari opportunità» nei rapporti di lavoro; di trasmettere lo stesso programma in tutta l'area
geografica per cui è rilasciata la concessione; di rispettare le leggi e le convenzioni internazionali in
materia di telecomunicazioni e di tutela del diritto d'autore; di rispettare determinate modalità di
trasmissione dei messaggi pubblicitari, nonché i limiti in materia di sponsorizzazioni; di rispettare i
limiti massimi di affollamento pubblicitario; relativo alla trasmissione gratuita di brevi comunicati
per conto di vari organi pubblici; di rispettare i limiti previsti in ordine alla trasmissione di opere
cinematografiche; di rispettare il diritto di rettifica. Tra gli obblighi della seconda categoria, cioè
relativi al contenuto dei programmi, possono farsi rientrare l'obbligo di non trasmettere messaggi
subliminali; di non nuocere allo sviluppo psichico e morale dei minori; di rispettare il divieto di
trasmettere messaggi pubblicitari che possano ledere valori di rilievo costituzionale, nonché di
rispettare il divieto di trasmettere messaggi pubblicitari relativi a certi prodotti. Si aggiungono poi
quelli specifici posti a carico della concessionaria pubblica (trasmissione dei messaggi di «utilità
sociale», e quello, previsto come transitorio, di rispettare un «tetto» massimo negli introiti
pubblicitari annuali) e dei concessionari privati (prestare una cauzione e pagare un canone per
l'esercizio della concessione), quello di rispettare un livello minimo di ore di trasmissione e quello
di riservare una parte della programmazione a programmi di informazione.
La normativa antitrust. Il «cuore» della legge n. 223 è rappresentato dalla normativa diretta a
contenere i fenomeni di concentrazione in atto, al fine di assicurare un sufficiente tasso di
pluralismo. Tale disciplina tocca tre diversi aspetti del fenomeno delle concentrazioni: il primo,
relativo ai rapporti tra le emittenti radiotelevisive; il secondo, relativo ai rapporti tra emittenti
radiotelevisive e stampa; infine, il terzo, relativo ai rapporti tra emittenti radiotelevisive e
concessionarie di pubblicità.. Circa il primo profilo, la legge si preoccupa di stabilire il numero
massimo di concessioni rilasciabili ad uno stesso soggetto, distinguendo il livello nazionale dal
livello locale. Quanto al profilo relativo ai rapporti tra emittenti radiotelevisive e stampa, la legge,
abbandona la c.d. «opzione zero», e adotta una linea più flessibile. Infine, per ciò che attiene ai
rapporti tra emittenti e concessionarie di pubblicità, la legge prevede che queste ultime non possano
raccogliere pubblicità per più di tre reti televisive nazionali, per più di due reti nazionali e tre locali
ovvero per più di una rete nazionale e sei locali, comprese quelle di cui sono titolari i soggetti
controllanti o collegati. Ogni ulteriore attività di raccolta pubblicitaria deve essere indirizzata verso
mezzi di comunicazione e in ogni caso non può superare il 2% del totale degli investimenti
pubblicitari complessivi dell'anno precedente.
La disciplina della pubblicità radiotelevisiva. Si tratta di un «corpo» di regole che segnano una
svolta decisiva rispetto alla situazione normativa precedente. La legge n. 223 affronta
organicamente il tema della pubblicità radiotelevisiva sotto cinque distinti profili: quello relativo al
contenuto dei messaggi pubblicitari; quello relativo alle modalità di trasmissione degli stessi; quello
relativo agli indici di affollamento; quello, di cui si è già detto, relativo ai rapporti tra emittenti e
imprese concessionarie di pubblicità; quello, infine, relativo alle c.d. sponsorizzazioni. Una diversa
attenzione che si spiega soprattutto con l'esigenza di dar seguito alle indicazioni che su questo
terreno gli erano venute, come si è sottolineato, sia dalla Corte costituzionale che dalla normativa
comunitaria. A quelle indicazioni, il contenuto della legge risulta solo in parte fedele (solo nelle
parti relative ai contenuti e agli indici di affollamento). Discorso diverso vale per le modalità di
trasmissione dei messaggi pubblicitari (i messaggi pubblicitari vanno trasmessi «tra» e non
«all'interno» delle trasmissioni). Ma le discrasie tra normativa nazionale e normativa comunitaria
risultano ancora più marcate con riferimento alla disciplina delle sponsorizzazioni. Tale omissione
rende quasi indecifrabile la linea di demarcazione tra questo tipo di pubblicità e quella ordinaria
facendo così venir meno ogni giustificazione ad un suo trattamento differenziato. Si tratta
ovviamente di una discrasia così grande che, come vedremo, di lì a poco il legislatore dovrà tornare
sul punto per eliminarla.
Gli strumenti di garanzia di una fedele applicazione della legge. A garanzia di un'effettiva e fedele
applicazione della complessa trama di limiti e di obblighi che si sono più sopra sinteticamente
richiamati, la legge predispone tutta una serie di meccanismi di controllo e sanzionatori che fanno
capo essenzialmente al Garante per la radiodiffusione e l'editoria e al ministro delle Poste e
telecomunicazioni. A questo scopo, la legge attribuisce al Garante numerosi e rilevanti poteri di
proposta e consultivi, regolamentari, di controllo e sanzionatori. I poteri di controllo consistono
essenzialmente nella tenuta del registro nazionale delle imprese radiotelevisive, cui sono tenute ad
iscriversi obbligatoriamente anche le imprese concessionarie di pubblicità e le imprese produttrici di
programmi; nell'esame dei bilanci societari e della relativa documentazione; nello svolgimento
dell'attività istruttoria ed ispettiva tesa ad assicurare il rispetto dei limiti e degli obblighi previsti
dalla legge; nella vigilanza sulla rilevazione e pubblicazione degli indici di ascolto. Infine, quanto ai
poteri sanzionatori, la legge stabilisce che il Garante, ove accerti violazioni di alcuni obblighi, una
volta diffidati gli interessati può irrogare delle sanzioni pecuniarie ovvero disporre la sospensione
della concessione per un periodo da uno a dieci giorni (trenta giorni nei casi di recidiva). Nelle
ipotesi più gravi, può chiedere al ministro la revoca stessa della concessione. Sempre al Garante
spetta intervenire nelle ipotesi di accertata violazione della normativa antitrust. Assai più consistenti
sono i poteri sanzionatori riconosciuti dalla legge al ministro di settore. Per effetto della legge n.
249 del 1997 le competenze spettanti al Garante sono state trasferite all'Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni.

10. I provvedimenti legislativi in materie radiotelevisive successivi alla legge n. 223 del 1990: la
disciplina della radiotelevisione via cavo e via satellite

Successivamente all'entrata in vigore della legge n. 223 numerosi sono stati gli interventi normativi
integrativi, attuativi o modificativi della legge. Vale la pena di segnalare il d.lgs. n. 73 del 1991 che
ha dettato la nuova disciplina dell'attività radiotelevisiva via cavo e via satellite e che sostituisce
integralmente quella a suo tempo dettata, a questo riguardo, dalla legge n. 103 del 1975. Esso
distingue, innanzitutto, tra attività di installazione e di gestione di reti ed impianti di diffusione
sonora e televisiva via cavo (monocanale e pluricanale) e attività diretta a distribuire programmi
attraverso detti impianti. Il primo tipo di attività viene riservato allo Stato, ma se ne prevede un
esercizio o diretto o indiretto attraverso soggetti privati, che abbiano ottenuto un'apposita
concessione da parte del ministro delle Poste e telecomunicazioni. Il secondo tipo di attività, non è
invece coperto da alcuna riserva statale e può essere svolto da chiunque purché in possesso di
un'autorizzazione, sempre rilasciata dal ministro di settore. Si applicano le disposizioni della legge
n. 223 relative al limiti e agli obblighi da essa previsti a carico dei titolari di concessioni
radiotelevisive via etere, ivi compresi i limiti antitrust. Quanto all'attività radiotelevisiva diretta via
satellite, essa trova ora le sue regole essenziali in alcune disposizioni della legge n. 249/97. I profili
toccati dalla detta disciplina attengono soprattutto al regime e alle condizioni di esercizio di tale
attività, nonché alle relative norme antitrust. Si prevede che la diffusione radiotelevisiva via
satellite originata dal territorio nazionale è soggetta ad un'apposita autorizzazione, rilasciata
dall'Autorità, istituita dalla stessa legge. Si stabilisce innanzitutto che nessun soggetto destinatario
di autorizzazioni per emittenti televisive via cavo o via satellite possa raccogliere proventi superiori
al 30% del totale delle risorse del settore considerato. Infine, altro aspetto toccato dalla legge che
interessa anche la disciplina della radiotelevisione via satellite è quello relativo alla c.d. piattaforma
digitale. Con tale termine si intende alludere ad una infrastruttura (ossia ad un complesso di
apparati) necessaria a trasformare i segnali televisivi analogici in segnali digitali compressi e
all'invio dei medesimi o ad una rete via cavo o ad un satellite. Una infrastruttura dunque che
consente di fornire al pubblico, sfruttando la nuova tecnica digitale servizi via satellite e via cavo,
nonché trasmissioni codificate in forma analogica su reti terrestri, ricevibili e decodifìcabili
attraverso un unico decoder.
11. (segue) La nuova disciplina della pubblicità televisiva e delle sponsorizzazioni

Si è già accennato alle anomalie che la legge n. 223 del 1990 contiene in ordine alla disciplina sia
della pubblicità radiotelevisiva, che delle sponsorizzazioni rispetto alle disposizioni dettate al
riguardo dalla direttiva comunitaria n. 552 del 1989. Tali anomalie hanno costretto il legislatore a
modificare tale disciplina. Per ciò che attiene alla pubblicità televisiva, delle modifiche agli indici di
affollamento per le emittenti private sono state introdotte dalla legge n. 650 del 1996, sì che il
quadro che oggi ne risulta può essere sintetizzato nel modo che segue: a) per la concessionaria
pubblica: 4% dell'orario settimanale e 12% di ogni ora di programmazione; b) per le emittenti
televisive private: 15% dell'orario giornaliero e 18% di ogni ora di trasmissione, per quelle che
operano a livello nazionale; 20% di ogni ora di programmazione, per quelle che operano a livello
locale; c) emittenti radiofoniche private: 18% di ogni ora di trasmissione, per quelle che operano a
livello nazionale; 20% di ogni ora, per quelle che operano in ambito locale; 5% per le emittenti
nazionali o locali a carattere comunitario. É inoltre previsto che tali limiti tali affollamento
pubblicitario vengano elevati qualora vengano trasmesse anche forme di pubblicità come le offerte
dirette al pubblico della vendita, dell'acquisto o noleggio di prodotti o servizi, le c.d. televendite. Un
migliore adeguamento della legislazione alle regole comunitarie è venuto dall'approvazione della
legge n. 122 del 1998, che contiene, tra l'altro, l'affermazione del carattere eccezionale degli spot
pubblicitari e di televendita isolati; l'affermazione per cui, di regola, tali forme di pubblicità
debbano essere inserite «tra» i programmi e non «nel corso» degli stessi; la previsione di regole
particolari per l'inserimento di messaggi pubblicitari con riferimento a programmi composti di parti
autonome, ai programmi sportivi, i lungometraggi cinematografici, ecc.; la previsione dell'intervallo
minimo di venti minuti tra un'interruzione pubblicitaria e l'altra nei programmi diversi da quelli ora
menzionati; il divieto di interruzioni pubblicitarie per la trasmissione di funzioni religiose, nonché
per i notiziari, le rubriche di attualità, i documentari, i programmi religiosi e quelli per bambini di
durata inferiore ai trenta minuti. Si tratta dunque di un intervento legislativo che non tocca il profilo
dei «tetti» pubblicitari, ma invece quello delle modalità di inserimento dei messaggi pubblicitari.
Dei «tetti» o indici di affollamento pubblicitario torna invece ad occuparsi la già richiamata
direttiva comunitaria n. 36 del 1997, che introduce alcune modifiche non secondarie alla precedente
direttiva n. 552 del 1989 proprio a questo riguardo. La nuova estende fino a tre ore al giorno il
tempo che può essere dedicato alle c.d. finestre di televendita, prevede la distinzione tra spot
pubblicitari ed «altre forme di pubblicità». Non è difficile capire come l'applicazione di queste
nuove regole ripropone il problema più volte sottolineato dalla Corte di una distribuzione delle
risorse economiche derivanti dalla pubblicità commerciale sull'intero sistema dei «media» a tutela
del principio del pluralismo informativo. L'attuazione sul piano del diritto interno della nuova
disciplina della pubblicità televisiva disposta dalla direttiva non è tuttavia obbligatoria per gli Stati
membri, si che essa è rimessa ad un'autonoma valutazione di opportunità da parte dei legislatori
nazionali, tra i quali quello italiano, per il momento, ha provveduto ad un'attuazione parziale
attraverso la ricordata legge n. 122 del 1998. Anche con riferimento alla revisione della disciplina
delle sponsorizzazioni contenuta nella legge n. 223/90, la spinta decisiva è venuta dalla
Commissione europea e poi dall’apertura di una procedura d'infrazione contro l'Italia avente come
specifico oggetto l'ambigua ed eccessivamente ampia nozione di sponsorizzazione fatta propria
dalla legge n. 223. La risposta del nostro legislatore non poteva farsi attendere: con la legge n. 483
sempre del 1992, con la quale si riconduce alla più ristretta nozione comunitaria la definizione
legislativa di sponsorizzazioni. Tuttavia, a riprova di quanto poco questa vicenda si presti ad essere
letta soltanto in chiave di tecnica interpretativa ma della straordinaria consistenza dello scontro di
interessi che essa ha fatto emergere, stanno i suoi sviluppi successivi. Esclusa dal dettato legislativo,
la sponsorizzazione, per così dire, a contenuto promozionale diretto ha finito per ritrovare una sia
pur parziale legittimazione in sede di predisposizione del nuovo regolamento ministeriale in
materia. Di fronte al nuovo dettato legislativo, il tentativo subito posto in essere da chi vedeva
pregiudicati per il futuro i propri introiti pubblicitari è stato quello di sostenere l'assimilazione delle
sponsorizzazioni a contenuto promozionale diretto (ribattezzate «telepromozioni») nell'ambito delle
c.d. «vendite dirette al pubblico».. Per questa via, le telepromozioni non solo avrebbero mantenuto
diritto di cittadinanza, ma sarebbero state escluse dal calcolo dell'indice di affollamento orario per
incidere invece solo sul calcolo dell'indice giornaliero. Un risultato, dunque, che si sarebbe tradotto
in un'operazione meramente trasformistica e che avrebbe lasciato sostanzialmente inalterati i dubbi
e le perplessità circa l'idoneità di tale disciplina ad assicurare una ripartizione effettivamente
equilibrata della risorsa pubblicitaria tra i diversi mezzi di informazione, circa la sua reale
rispondenza a quel principio di giusto contemperamento dei diversi interessi in gioco (libertà di
informazione, libertà di impresa, interessi degli utenti), al cui rispetto la Corte costituzionale aveva,
in più di un'occasione, richiamato il legislatore e di cui si era data carico la stessa normativa
comunitaria più volte richiamata. Il nuovo regolamento ministeriale in materia di sponsorizzazioni e
di vendite dirette al pubblico, nel respingere questa impostazione, disciplina correttamente, in modo
distinto, le sponsorizzazioni, nell'unica accezione consentita dalla legge n. 483 del 1992 (in
ossequio alla direttiva comunitaria), e le vendite dirette al pubblico, anch'esse nell'unica accezione
corretta di programmi dedicati alla commercializzazione di beni o servizi attraverso il mezzo
radiotelevisivo. Esso tuttavia, non vieta del tutto quelle che abbiamo chiamato le sponsorizzazioni a
contenuto promozionale diretto, ma le assimila agli ordinari messaggi pubblicitari ai fini del calcolo
degli indici di affollamento giornaliero e orario. Si tratta di una soluzione di compromesso che, se
pur meno rigorosa di quella individuata in sede comunitaria, ha comunque il pregio di non tradirne
la ratio di fondo e consente di restituire una coerenza logica complessiva alla disciplina di questo
non secondario aspetto del sistema dell'informazione.

12. (segue) La nuova disciplina della comunicazione politica

Una delle lacune più vistose della legge n. 223 del 1990 era rappresentata dalla mancata disciplina
delle trasmissioni politiche, e, in particolare, di quelle elettorali. A questa lacuna aveva cominciato a
porre rimedio la nuova legge elettorale per i Comuni e le Province (legge n. 81 del 1993), che
dettava una serie di regole per il solo periodo della campagna elettorale. A questa legge è poi
seguita la n. 515 del 1981 la quale dettava una disciplina di questa materia assai più complessa e
articolata, anch'essa limitata all'accesso ai grandi mezzi di informazione da parte dei partecipanti
alle diverse competizioni elettorali e, da ultimo, la legge n. 28 del 2000. Essa non punta soltanto a
regolare le condizioni di accesso ai mezzi di informazione da parte di partiti e movimenti politici
nel corso delle campagne elettorali, ma a regolare più in generale la comunicazione politica, in
ispecie quella televisiva, anche al di fuori di tali periodi. Tanto la disciplina generale della
comunicazione politica, quanto quella più specificamente dedicata alle campagne elettorali si
ispirano ai principi della parità di trattamento e dell'imparzialità (la c.d. «par condicio»). L'intero
impianto della legge ruota attorno alla distinzione tra comunicazione politica (tutti quei programmi
radiotelevisivi nel corso dei quali si mettono a confronto in forma dialettica e discorsiva le varie
opinioni) e messaggio autogestito (forme di comunicazione volte ad illustrare una singola opinione
politica). È lecito chiedersi, di fronte ad una disciplina così articolata e dettagliata, ricca di divieti e
di obblighi che toccano pur sempre l'esercizio di una libertà costituzionalmente garantita e nei
termini particolarmente garantisti dell'art. 21 Cost., se essa risponda davvero ad un'esigenza
anch'essa di rilievo costituzionale. La risposta a tale interrogativo è certamente positiva per tutta
quella parte della legge che punta a rendere effettivo il pluralismo dei programmi di comunicazione
politica dei vari partiti o movimenti politici.

13. (segue) L'annullamento parziale della normativa antitrust da parte della Corte costituzionale e la
risposta del legislatore

Si è detto come uno dei contenuti centrali della legge n. 223 del 1990 è rappresentato
dall'introduzione, per la prima volta nel settore radiotelevisivo, di una normativa antitrust.
L'introduzione di tali norme ha segnato il passaggio da una situazione di anarchia ad una nella quale
risultano definite alcune soglie massime di concentrazione; e tuttavia era apparso a molti che esse
finissero per fotografare l'assetto allora esistente. La fissazione a tre del numero massimo di
concessioni radiotelevisive di livello nazionale cristallizzava una situazione che già la Corte
costituzionale, nella richiamata sentenza n. 826 del 1988, aveva valutato negativamente. Nessuna
meraviglia dunque se, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di quella disposizione,
l'abbia dichiarata incostituzionale (sentenza n. 420 del 1994). Nella stessa pronuncia, la Corte, a
regolare la situazione che così si veniva a creare, in attesa della annunciata riforma nella disciplina
del sistema radiotelevisivo (annunciata ma a tutt'oggi non ancora varata dal Parlamento), consentiva
tuttavia che transitoriamente i soggetti titolari del numero di concessioni dichiarato illegittimo
continuassero ad operare alla base di concessioni appunto a durata transitoria. Dalla sentenza della
Corte sono ormai passati oltre sei anni, ma la situazione non è sostanzialmente mutata se non per
ciò che al riguardo è previsto dalla legge n. 249 del 1997 che, in ossequio al disposto della decisione
della Corte, ha stabilito che ad uno stesso soggetto non possano essere rilasciate concessioni o
autorizzazioni che consentano di irradiare più del 20% delle reti televisive o radiofoniche
analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in ambito nazionale, trasmessi su
frequenze terrestri, sulla base del piano di assegnazione delle frequenze e che i soggetti che
superino quella soglia possano transitoriamente proseguire l'esercizio delle reti eccedenti, a
condizione che le trasmissioni siano diffuse contemporaneamente su frequenze terrestri e via
satellite o via cavo e successivamente solo via satellite o via cavo. Tale passaggio è legato alla
fissazione di un termine da parte dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in relazione
all'effettivo e congruo sviluppo di queste nuove tecnologie trasmissive (termine che non è ancora
stato fissato).

14. I problemi aperti: il servizio pubblico tra diritto interno e diritto comunitario

Oggi non è più possibile affrontare il problema del ruolo e della disciplina del servizio pubblico
radiotelevisivo in un'ottica esclusiva di diritto interno. La tendenza espansiva del diritto comunitario
nell'area dei servizi pubblici si è sviluppata sulla scorta di quanto previsto dall'art. 86 del Trattato ce
in base al quale anche le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale
sono sottoposte alle regole del Trattato, il che significa, in altre parole, sottrarre alle decisioni
sovrane degli Stati membri decisioni fondamentali in ordine alla definizione dei loro rapporti con i
cittadini. Il rilievo e le conseguenze che una tale linea di tendenza presenta sono alla base delle
resistenze che sono venute dagli Stati membri e che hanno portato all'affermazione di un importante
principio che afferma da un lato, l'intento di valorizzare quella che potremmo sinteticamente
indicare come la funzione sociale dei servizi pubblici e, dall'altro, il riconoscimento del ruolo
primario degli Stati membri nella disciplina di questo settore e quello solo sussidiario delle
istituzioni comunitarie. Ma, resistenze ancora maggiori sono venute dagli Stati membri con
riferimento a quello specifico servizio pubblico che è quello radiotelevisivo. Tali resistenze hanno
portato all'approvazione di un apposito protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica negli Stati
membri che fa salve e giustifica a priori l'esistenza di servizi pubblici radiotelevisivi, in quanto
collegati ad esigenze insopprimibili di ogni società (esigenze democratiche, sociali e culturali): con
il che si esclude un controllo comunitario circa i presupposti che ne giustificano l'esistenza. Dove si
situi il punto di equilibrio tra le esigenze legate alla libera concorrenza e le esigenze legate alla
missione del servizio pubblico radiotelevisivo è compito degli Stati membri stabilire, ma le
decisioni al riguardo potranno essere censurate in sede comunitaria. In conclusione, sembra di poter
dire che, allo stato, se la sopravvivenza dei servizi pubblici radiotelevisivi non è messa in
discussione dal diritto comunitario, la sua concreta disciplina da parte dei legislatori nazionali
appare oggi assai più condizionata che non in passato e per aspetti non certo marginali. Dal
legislatore (non solo quello italiano, ovviamente) ci si attende una nuova disciplina dell'emittenza
pubblica in grado di rispondere ai principi posti dal protocollo di Amsterdam; dalla sua capacità di
coniugare in modo equilibrato le esigenze del servizio pubblico e quelle di un libero mercato
concorrenziale. Ma, nella direzione di una riforma dell'attuale disciplina del servizio pubblico
radiotelevisivo spingono anche ragioni legate agli sviluppi che il complessivo sistema
dell'informazione ha subito dal 1990 ad oggi. Basti qui ricordare due dati: l'avvenuta abrogazione ad
opera del referendum tenutosi l’11 giugno del 1995 dell'inciso «a totale partecipazione pubblica»
contenuto nell'art. 2, 2° c. della legge n. 223 del 1990 e riferito alla concessionaria del servizio
pubblico e lo straordinario sviluppo di nuove tecnologie trasmissive. Il primo dato, cui sin qui il
legislatore non ha dato seguito, allude alla trasformazione della concessionaria del servizio
radiotelevisivo da società a totale proprietà pubblica a società almeno in parte aperta al capitale
privato. Il secondo dato pone la questione di ricalibrare tutto l'apparato concettuale che sino ad oggi
ha costituito lo sfondo sul quale si è svolto il dibattito sul ruolo del servizio pubblico: dalla nozione
di pluralismo informativo, agli obblighi che ne derivano, alla loro ripartizione tra i diversi soggetti
pubblici e privati che operano nel settore integrato della comunicazione, ai contenuti della missione
del servizio pubblico alla luce della nuova nozione di servizio universale e così via. Delle esigenze
cui si è ora fatto riferimento punta a rispondere il disegno di legge governativo n. 1138, da tempo in
discussione in Parlamento. Tale disegno di legge richiama il processo di convergenza tecnologica in
atto tra il settore delle telecomunicazioni e quello radiotelevisivo come linea di guida dell'intero
impianto della nuova disciplina. Quest'ultima prevede, infatti, il passaggio obbligatorio dal sistema
analogico a quello digitale per le trasmissioni su frequenze terrestri. Da questo punto di vista si può
dire che il principio del pluralismo informativo tenda, nella logica del disegno di legge, a realizzarsi
soprattutto attraverso un'accentuazione del c.d. pluralismo esterno, ossia della presenza del maggior
numero possibile di fonti, numero oggi, almeno sul piano tecnico, potenzialmente in grado di
dilatarsi in modo considerevole.

Potrebbero piacerti anche