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Ai margini e sullo sfondo

L’arte secondo Vattimo

Daniela Angelucci1

1. Problemi dell’estetico come paradigma

Gli scritti di Gianni Vattimo raccolti nella sezione intitolata


La verità dell’arte nel libro La fine della modernità — originaria-
mente pubblicati sulla Rivista di estetica nel corso degli anni
Ottanta — affrontano una serie di problemi tutt’oggi signi-
ficativi. In primo luogo, Vattimo mette in questione l’inter-
rogativo ontologico, essenzialista sull’arte. La domanda “che
cosa è l’arte?” presuppone una certa visione del mondo che
oggi, argomenta l’autore, ha perso il suo senso. Di quale oggi
stiamo parlando è noto a chi conosca anche solo superficial-
mente la riflessione di Vattimo: ci si riferisce all’epoca di presa
di congedo dalla modernità, che si sottrae alla logica dello svi-
luppo e al pensiero del fondamento, alla stagione “della fine
della metafisica — scrive l’autore — così come Hegel la profe-
tizza, come Nietzsche la vive e come Heidegger la registra”2.
L’arte di cui si parla è dunque l’arte dell’epoca della morte o

1. Università degli Studi Roma Tre e Pontificio Ateneo S. Anselmo.


2. G. Vattimo, «Morte o tramonto dell’arte» (1980), in Id., La fine della moder-
nità, Garzanti, Milano 19993, p. 60.

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meglio del tramonto dell’arte, che è un aspetto del “più ge-


nerale accadimento che è la Verwindung della metafisica”3, la
situazione in cui l’essere non si dà come “ciò che sta”, quanto
piuttosto come ciò che svanisce, ciò che nasce e poi muore.
Quello che è problematico, allora, è il fatto di presuppor-
re che sia possibile una risposta alla domanda “che cos’è?”,
a meno di non utilizzare categorie metafisiche proprie di un
tempo ormai finito. Si tratta di un punto che era e rimane
importante, poiché questa domanda è invece ancora oggi al
centro della riflessione estetica di vari autori, di stampo so-
prattutto analitico4, e corre spesso il rischio di condurre a ri-
sposte tautologiche o comunque riduttive. Pur non essendo
l’unico tema della tradizione filosofica analitica angloameri-
cana, certamente il problema ontologico è uno dei temi fon-
danti e più frequentati, animando una discussione che ha con-
dotto a risposte anche molto differenti tra loro. Se la vivacità
del confronto tipica di questo ambito di riflessione risulta ap-
prezzabile, tale prospettiva sconta spesso la ripetitività di un
approccio volutamente ingenuo e diretto, come anche l’idea
preliminare di un soggetto sempre e univocamente raziona-
le. La proposta di Vattimo, volta a scardinare l’idea che vi sia
un essere come “ciò che sta”, pone giustamente in questione,
alla radice, la possibilità di individuare un’essenza dell’arte
come fondamento.
Tuttavia, al contrario di ciò che si potrebbe frettolosamen-
te concludere, occorre ribadire che non porsi la domanda
sull’essenza dell’arte non significa nel lavoro di Vattimo un
depotenziamento questa dimensione, né precede la volontà
di consegnarla al silenzio. Conseguentemente a ciò che ab-

3. Ivi, p. 68.
4. Cfr. l’antologia Che cosa è arte. La filosofia analitica e l’estetica, a cura di S.
Chiodo, UTET, Torino 2007.
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biamo appena scritto, dovrebbe infatti risultare chiaro che è il


tempo proprio dell’arte, quello del “salto” e della genialità ar-
tistica, ad essere paradigmatico dell’epoca che stiamo descri-
vendo. Lungi dall’essere una sfera dimidiata (e di cui non si
può parlare), la sfera dell’estetica è esemplare di quella succes-
sione discontinua del tempo post–metafisico, che apre nuove
vie e nuovi orizzonti. Scrive Vattimo:

Che certe opere ‘epocali’ del novecento — dalla Recherche prou-


stiana all’Uomo senza qualità all’Ulysses e al Finnegan’s Wake — sia-
mo concentrate, anche sul piano del ‘contenuto’, sul problema del
tempo e dei modi di esperire la temporalità fuori dalla sua linearità
pretesa naturale, tutto ciò non è forse senza significato5.

Se l’essere nasce e muore, in quanto evento e non essenza,


se c’è un cambiamento radicale nel modo di esperire la storia,
che non ci appare disposta in modo lineare, né in una direzione
progressivo–cumulativa, l’esperienza dell’arte si configura allo-
ra come un momento centrale, emblematico del nostro tem-
po. Ne consegue un ruolo difficile ma cruciale per l’estetica:

Ciò che ne risulta è anche il riconoscimento di una peculiare ‘re-


sponsabilità’ dell’estetico; non tanto o solo dell’estetica come disci-
plina filosofica, ma dell’estetico come sfera dell’esperienza, come
dimensione d’esistenza che assume così un valore emblematico, di
modello, appunto, per pensare la storicità in generale6.

Al giusto abbandono della ricerca di una definizione on-


tologica, conformemente alla dissoluzione epocale, propria

5. G. Vattimo, «La struttura delle rivoluzioni artistiche» (1983), in Id., La fine


della modernità, p. 115.
6. Ivi, p. 103.
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della nostra epoca, di ogni fondamento si accompagna — in


modo soltanto apparentemente paradossale — la centralità
dell’estetico, con il suo carattere di autoformatività e di plu-
ralità7.
L’aspetto problematico di questa prospettiva, segnalato in
più punti dallo stesso Vattimo8, riguarda quindi il tramonto
dell’arte considerato da due punti di vista: in una prospettiva
forte, “la fine dell’arte come fatto specifico e separato dal re-
sto dell’esperienza”; in senso debole, “l’estetizzazione come
estensione del dominio dei mass–media”9, nel loro essere pro-
duttori di consenso, di gusti e di sentire comune. Esplicitando
le domande sottese alla riflessione di Vattimo, ci si può quindi
chiedere: se l’estetico pervade il nostro mondo, qual è il senso
(se non l’essenza) dell’arte? C’è la possibilità di non pensare
l’arte confinata in uno spazio separato ma anche, nello stesso
tempo, di evitare un suo dissolvimento, un disfacimento tota-
le, nel momento in cui tutto il mondo appare come un’opera
d’arte?
A tali domande sull’arte si possono affiancare alcuni inter-
rogativi specificamente concernenti l’estetica filosofica: rac-
cogliendo la responsabilità che porta con sé una sfera dell’e-
stetico intesa in questo modo, c’è la possibilità di evitare il
dissolvimento cui si accennava, nel momento in cui l’estetica
viene intesa da una prospettiva che non rinuncia comunque
al confronto con le altre dimensioni? Per porre la questione
in altri termini, ancora più semplici: da una parte, permane

7. I temi di questo paragrafo sono al centro dell’utile articolo di A Bertinetto,


«Arte ed estetizzazione nel pensiero di Gianni Vattimo», in L’apertura del presente.
Sull’ontologia ermeneutica di Gianni Vattimo, Tropos, numero speciale a cura di L.
Bagetto, 2008, pp. 127–144.
8. Per esempio nel saggio «Il museo e l’esperienza dell’arte nella post–moder-
nità», Rivista di estetica 37 (1991), pp. 3–11.
9. G. Vattimo, «Morte o tramonto dell’arte», p. 64.
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l’esigenza di concepire l’estetica insieme alle altre dimensioni,


come uno dei momenti in cui “ne va” della nostra esistenza,
dall’altra, non sparisce la necessità di preservare una sua spe-
cificità e una sua forza peculiare. Infatti, non bisogna tralascia-
re il fatto che in più punti dei suoi scritti Vattimo individua
nell’arte, in particolare nella poesia, un’esperienza privilegia-
ta rispetto a quella comune.
Vale la pena citare a questo proposito Gianni Carchia, al-
lievo di Pareyson come Vattimo, e che con Vattimo si è lau-
reato. Nei suoi scritti Carchia si è occupato di estetica non
rinunciando mai al confronto e all’apertura rispetto ad altri
temi, da una parte volendo impedire un riduttivo restringi-
mento del significato e del compito della disciplina estetica,
ma, dall’altra, rimanendo attento e consapevole del rischio di
un allargamento indiscriminato e dunque di un sempre possi-
bile dissolvimento. E questa preoccupazione è stata presente
nel suo pensiero fino all’ultimo libro pubblicato in vita, de-
dicato all’estetica antica. L’antichità classica è per Carchia in
primo luogo l’epoca in cui si andava cercando proprio una
configurazione artistica

tanto più salda quanto più essa è affidata al gioco [delle] influenze
esterne. Tutte le grandi opere dell’arte classica sono il frutto di un’a-
nanke, di una necessità. Se guardiamo ad esse con un atteggiamento
puramente estetico, che assuma il postulato moderno dell’autono-
mia dell’arte, non riusciamo a coglierne l’essenziale. [...] Tali opere
sono sempre, infatti, il risultato di una tensione, di una lotta: esse
sono, propriamente, esiti, riuscite, nate da una frizione con l’etero-
nomia, con la dipendenza dell’arte da altre sfere di valori10.

Un suggerimento valido prospettato da questa affermazio-

10. G. Carchia, L’estetica antica, Laterza, Roma–Bari 1999, p. VII.


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ne, rispetto alle questioni delineate nelle pagine precedenti,


può essere quello di considerare l’arte e la dimensione esteti-
ca come il risultato di una tensione con ciò che è differente,
esito, appunto, della lotta per una specificità che tuttavia è
sempre, di nuovo, da capo, da conquistare.

2. “Ciò che rimane”: monumento e traccia

Un esito di questo interrogarsi tra l’assunzione dell’arte e


dell’estetica come momenti paradigmatici e la necessità di
mantenere una loro specificità può essere considerata anche
la tesi dell’opera d’arte come evento sostenuta da Vattimo:
si riconosce all’arte una sua specificità, che non sta tuttavia
in qualche proprietà ontologica, ma nel suo essere “messa
in opera della verità”, come Heidegger scriveva in L’origine
dell’opera d’arte (1935–1936). Si tratta di una tesi centrale nel
pensiero di Vattimo sin dal 1967, nel testo Poesia e ontologia. La
verità di cui qui si parla non è ovviamente una verità già data,
che l’arte imiterebbe, dunque non si tratta di un conformarsi,
di un’adeguazione a qualcosa di già precostituito, ma appun-
to di un evento in cui si rivela la verità di un’epoca. Nell’acca-
dere dell’opera si rivela, anzi si costituisce, la verità. In questo
senso, l’opera d’arte organizza nuove forme storico–sociali
(questo aspetto allude anche all’idea kantiana dell’arte come
istituzione di intersoggettività e comunicabilità), sospende
l’ovvietà del mondo costituendosi come causa di spaesamen-
to e istituendo mondi possibili, mondi altri.
Ma la messa in opera della verità di cui si parla è da in-
tendersi soltanto come apertura di mondi storici? Nei testi
«Morte o tramonto dell’arte» (1980) e «L’infrangersi della pa-
rola poetica» (1983) Vattimo supera questa idea riprendendo
la coppia di concetti heideggeriani “esposizione (Aufstellung)
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di un mondo (Welt)” e “pro–duzione (Herstellung) della terra


(Erde)”, concetti che si fronteggiano in un conflitto. Se l’espo-
sizione di un mondo è legata infatti alla dimensione monda-
na, storica, culturale, la citazione che Heidegger propone di
Hölderlin — “Ciò che rimane, lo fondano i poeti” (dall’inno
Andenken, 1803) — si riferisce invece alla terra: “quell’elemen-
to dell’opera che si fa avanti come sempre di nuovo chiuden-
tesi, come una sorta di nocciolo mai consumabile dalle inter-
pretazioni”11.
Nel linguaggio poetico, nell’arte, accanto all’apertura di
mondi e al dispiegarsi dei significati c’è un elemento terrestre,
materiale, che rimanda alla nostra mortalità, che comporta il
nascere e il maturare recando con sé i segni del tempo. Que-
sto elemento materiale e temporale, questo “altro dal mon-
do”, è la monumentalità dell’opera d’arte, della poesia, non
quindi nel senso di una piena coesione ed equilibrio di forma
e contenuto, ma in quanto segno che non si lascia consumare
nel rinvio e nella interpretazione. In questo senso la parola
poetica si “infrange”, come recita il titolo di uno dei saggi di
Vattimo appena citati: il suo infrangersi indica il fatto che la
poesia non è transitiva, non rinvia ad altro, ma è semplice mo-
strare, esibizione di sé.
Precisazione forse ovvia per qualcuno, ma che forse vale la
pena ribadire in questo contesto: l’esposizione alla mortalità,
che per una cosa–strumento ha un senso distruttivo, rappre-
senta una positività per l’opera d’arte: nel conflitto tra mondo
e terra c’è infatti un disvelarsi (mondo) che non ha cancella-
to l’occultamento da cui proviene (terra). In questa “mezza
luce” il vero che si dà non ha i tratti autoritari dell’evidenza
metafisica (in questo senso l’esperienza è paradigmatica): è la

11. G. Vattimo, «L’infrangersi della parola poetica» (1983), in Id., La fine della
modernità, p. 79.
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verità stessa che cambia natura, divenendo “mezza luce”. Il


“ciò che rimane” fondato dai poeti è monumento non soltan-
to e non tanto nel senso di ciò che si conserva, ma nel senso di
ciò che resta, dunque monumento come traccia, temporalità,
finitezza.
Nell’articolo «Ornamento monumento» (1982), dedicato
alla conferenza di Heidegger L’arte e lo spazio (1969), incentra-
ta sulla scultura, Vattimo riconosce nelle pagine del filosofo
tedesco una nuova declinazione della definizione di arte come
“messa in opera della verità”, individuando in esse un’analisi
che va oltre la semplice ripresa dei temi di L’origine dell’opera
d’arte. Questa nuova declinazione può essere compresa a par-
tire dalla domanda: cosa succede se i concetti heideggeriani di
esposizione di un mondo e produzione della terra vengono pensati
non a proposito della poesia, ma applicati alla scultura? Cosa
accade a questi concetti nel passaggio da un’arte temporale a
un arte spaziale? La nuova prospettiva, spostando la questio-
ne dall’accadere temporale dell’essere al suo accadere spazia-
le, chiarisce cosa Heidegger intende con la nozione di terra,
impedendone un fraintendimento che la qualifichi erronea-
mente come fondazione o inaugurazione.
In questo scritto Heidegger descrive l’abitare poetico come
un “disporre località” e un mettere tali località in relazione
con la “libera vastità della contrada”12. Viene proposto quindi
un altro binomio, quello del gioco tra località (Ortschaft) e
contrada (Gegend), che si può intendere ora come una spe-
cificazione della coppia conflittuale mondo–terra. L’opera
dispone località — è “agente di un (nuovo) ordinamento spa-
ziale”13, — nello stesso senso in cui espone nuovi mondi, ma

12. G. Vattimo, «Ornamento monumento» (1982), in Id., La fine della moder-


nità, p. 91.
13. Ibid.
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è anche punto di fuga verso la vastità della contrada, “messa


in avanti” della terra. Lo spostamento dall’idea temporale a
quella spaziale fa sì che si possa intendere meglio il senso di
questa produzione della terra, che non è, appunto, una fon-
dazione o una inaugurazione, ma piuttosto un’apertura come
dilatazione, come sfondamento. La terra — o anche la contra-
da — è, in una parola, lo sfondo.
Tuttavia, è possibile considerare lo sfondo, ciò che sta sul-
lo sfondo, in una doppia accezione: 1) come sfondamento,
apertura, orizzonte, vastità della contrada; 2) come ciò che è
messo in secondo piano, marginale. Approdiamo in tal modo
all’altra espressione presente nel titolo di questo articolo. Es-
sere ai margini, essere marginale — ovvero il riconoscimento
di un aspetto costitutivamente decorativo e ornamentale, pe-
riferico — non riguarda soltanto un tipo particolare di arte,
ma si presenta come carattere proprio di ogni arte, così come
è proprio della verità che mette in opera. Una verità che può
accadere, come evento, “eventualmente”, è appunto un even-
to marginale e di sfondo.

Ciò che davvero è, l’ontos on, non è il centro di contro alla periferia,
l’essenza di contro all’apparenza, il durevole di contro all’acciden-
tale e mutevole, la certezza dell’objectum dato al soggetto, di con-
tro alla vaghezza e imprecisione dell’orizzonte del mondo; l’acca-
dere dell’essere è piuttosto [...] un evento inapparente e marginale,
di sfondo14.

In «Morte o tramonto dell’arte», nello spiegare il carattere


marginale dell’arte (e della verità) come una delle conseguen-
ze della esplosione, della diffusione dell’estetico, Vattimo ri-
manda, tra gli altri autori, anche a Walter Benjamin, e alla ce-

14. Ivi, p. 94.


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lebre nozione del declino dell’aura, intesa come unicità e ori-


ginalità dell’opera. Benjamin, come è noto, individuava nella
perdita dell’aura il destino dell’arte nell’epoca della riproduci-
bilità tecnica e la causa di una nuova modalità di percezione,
svincolata dal contesto contemplativo e cultuale e passibile
di sviluppi progressivi. Ebbene, sebbene Vattimo non lo rile-
vi nel suo scritto, è interessante constatare che nel testo del
1936 Benjamin affrontava la questione della percezione fram-
mentata, dispersiva — attitudine tipica del fruitore dell’arte
di massa della nuova epoca — occupandosi dello spettatore
cinematografico, ma anche della ricezione distratta e collet-
tiva indotta dall’architettura, la quale “ha sempre fornito il
prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella di-
strazione e da parte della collettività”15. Se il cinema è secon-
do Benjamin, lo strumento più potente della sua contempo-
raneità per condurre a una svalutazione del valore cultuale
dell’arte, l’opera architettonica — luogo dentro cui i soggetti
si muovono, si spostano, costretti ad abbandonare l’attitudine
meramente contemplativa — è da sempre l’esempio lampan-
te della possibilità di una percezione obliqua e senza raccogli-
mento, fatta per lo più di sguardi occasionali.
Allo stesso modo, Vattimo nel descrivere l’esplosione
dell’estetico e la sua emblematicità per la nostra epoca si vol-
ge alle arti spaziali, seguendo Heidegger e la sua conferen-
za del 1969. Tale spostamento chiarisce la nozione di terra
(abbiamo detto: non fondazione, inaugurazione, come si po-
trebbe fraintendere in una prospettiva temporale, ma sfon-
damento, apertura, e dunque sfondo come orizzonte aperto
ma anche come marginalità), ma allo stesso modo chiarisce la
questione della monumentalità, anch’essa a rischio di essere

15. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einau-
di, Torino 2000, p. 45.
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intesa come permanenza solida e coesa, fondativa. Nel monu-


mento, la verità messa in opera dall’arte non appare profonda
e essenziale, ma ha il carattere di residuo, di traccia residuale:
si conserva, permane, ma “nella forma di ciò che è morto”,
“non per la sua forza, ma per la sua debolezza”16. E tuttavia
conviene ribadire che questa debolezza non rinuncia, appun-
to, ad una visione anche monumentale dell’arte, se è vero che
“ciò che rimane, lo fondano i poeti”.
Ritornando dunque alle questioni poste nella prima parte
di questo scritto, cioè alla tensione tra pervasività dell’estetico
e perdita di senso, tra una giusta uscita dell’estetica filosofica
da una sfera separata e il suo sempre probabile dissolvimen-
to, propongo, seguendo l’analisi di Vattimo, l’espressione “ai
margini e sullo sfondo”. Lo sfondo e il margine possono es-
sere i termini paradossali — ma tutt’altro che ininfluenti —
della centrale perifericità del fenomeno estetico nella nostra
contemporaneità, in un pensiero che vuole accoglierne l’e-
sperienza in un senso non puramente negativo.

3. Aperture

Nelle ultime pagine di questo scritto vorrei avanzare un bre-


ve confronto tra le nozioni proposte da Vattimo rispetto alla
natura dell’arte di cui si è fin qui scritto e alcuni concetti pro-
posti da Gilles Deleuze. Si tratta di un filosofo di cui Vattimo
non si è mai occupato direttamente, e quello che interessa
qui è collegare i due autori non tanto per quel che riguarda la
cosiddetta postmodernità, o l’idea di una debolezza della veri-
tà — poiché mi sembra che l’uso che Deleuze fa del pensiero
di Nietzsche non vada in questa direzione — quanto in rife-

16. G. Vattimo, «Ornamento monumento», p. 95.


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rimento a un insieme di temi che nel pensiero deleuziano si


possono riassumere sotto il nome di geofilosofia17. Deleuze ne
scrive, con Felix Guattari, dapprima in L’anti–Edipo (1972) e in
Millepiani (1977), ma anche in Che cos’è la filosofia? (1991), dove
il termine geofilosofia dà il titolo al quarto capitolo, composto
da pagine molto dense. L’esigenza teorica da cui scaturisce
questo concetto è quella di abbandonare l’immagine, in pri-
mo luogo platonica, del pensiero come cammino ascendente
dal basso verso l’alto per sostituirla con una sorta di orizzon-
talità, un movimento di superficie, localizzato su un piano
di molteplicità immanenti, che non preveda alcun elemento
che, appunto, lo trascenda. È in questo contesto che i due
autori utilizzano una coppia di concetti che sembra richiama-
re, da una diversa prospettiva, i binomi heideggeriani ripresi
da Vattimo: territorio, inteso come identità dei luoghi, spazio
chiuso e determinato (spazio striato, nella loro terminologia),
e terra, come apertura, variazione infinita, spazio non segnato
da confini interni (spazio liscio).
In questo senso, il movimento di “deterritorializzazione”
— vocabolo deleuziano attualmente molto ripreso da altri au-
tori — rappresenta l’azione di smarcamento, di fuga dal terri-
torio di appartenenza, un’azione che apre ogni spazio chiuso,

17. Questi brevi cenni non sono ovviamente esaustivi, e soprattutto non
approfondiscono un tema che necessiterebbe di molto più spazio, ovvero quello
della differenza tra il pensiero di Vattimo e quello di Deleuze, al di là di alcune loro
possibili convergenze. Per affrontare un simile argomento occorrerebbe partire
dal rapporto di Deleuze con il pensiero di Heidegger, su cui in parte è stato scritto
(cfr. per es. M. Penzo, Tra Heidegger e Deleuze. Saggio sulla singolarità, Cluec, Venezia
1978; G. Rae, Ontology in Heidegger and Deleuze. A Comparative Analysis, Palgrave
Macmillan, New York 2014). Nella lunga nota n. 23 del primo capitolo di Differen-
za e ripetizione (1968) Deleuze stesso sottolinea che Heidegger sembra avere una
concezione della differenza simile alla sua, ma conclude che il suo pensieri non
riesce alla fine a sottrarsi alla subordinazione all’identità della rappresentazione,
prestandosi a fraintendimenti in particolare a causa del concetto di Nulla.
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ogni territorio, verso la terra: verso la “vastità della contra-


da”, diremmo con Heidegger e Vattimo. Ad ogni possibilità
di sottrarsi a un potere da cui si è determinati, conquistando
una funzione che non è quella assegnata, corrisponde però
la possibilità di una nuova “riterritorializzazione”, ovvero il
costituirsi di una ulteriore identità territoriale, da cui da capo
occorre dileguarsi. I due termini — deterritorializzazione e
riterritorializzazione — presi insieme in un binomio, rappre-
sentano quindi gli operatori che rendono dinamico l’intero
rapporto tra territorio e terra (mondo e terra, località e con-
trada), caratterizzato da continue aperture, linee di fuga ver-
so una posizione minoritaria, marginale, aperta, e da altret-
tanti momenti di ricomposizione di uno spazio riconoscibile
e segnato da confini.
Sebbene tale movimento sia secondo Deleuze e Guattari
rintracciabile in tutti gli ambiti (ha ovviamente molto a che
fare con il potere e la politica, ma, scrivono gli autori, anche
il canto può essere una deterritorializzazione della bocca, di-
sponibile a una funzione diversa da quella alimentare), esso è
in primo luogo essenziale perché vi sia un’opera d’arte. È in-
dispensabile nell’arte una congiunzione che tenga insieme il
“blocco di sensazioni” di cui è costituita l’opera, mantenendo
però un’apertura verso la terra: “è necessario un vasto piano
di composizione che operi una sorta di dequadratura secondo
delle linee di fuga, che passi attraverso il territorio solo per
aprirlo sull’universo, che vada dalla casa–territorio alla città–
cosmo”18. Anche in questo caso si riconoscono come elemen-
ti irrinunciabili per l’arte un inevitabile principio di composi-
zione, una cornice, che richiama la disposizione di “località”,
ovvero l’atto di striare, di segnare un territorio, e un principio

18. G. Deleuze–F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), tr. it. a cura di C. Ar-
curi, Einaudi, Torino 2002, p. 189.
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di apertura, di deterritorializzazione, di sfondamento che ri-


manda alla terra come sfondo, alla vastità della “contrada”.
Un’altra vicinanza tra i temi trattati da Vattimo qui sot-
tolineati e il pensiero di Deleuze e Guattari emerge nel ca-
pitolo dedicato all’arte di Che cosa è la filosofia? da cui è tratta
l’ultima citazione. Il capitolo ha inizio con un’affermazione
che può apparire paradossale a chi abbia in mente Deleuze
come filosofo della produzione differenziante, come colui che
ha definito la filosofia un’attività in primo luogo creativa, in-
ventiva. Gli autori vi sostengono infatti che la caratteristica
principale dell’arte è quella di conservare, allo stesso modo in
cui Vattimo sorprende forse il lettore meno accorto parlando
dell’arte come di “ciò che rimane”. Ma anche in questo caso,
come per Vattimo, ciò che si conserva non è mai monumen-
to nel senso di fondamento, fondazione; piuttosto, affermare
l’autoposizione dell’opera d’arte, il suo sostenersi su di sé (nel
conservarsi del blocco di sensazioni dell’opera, al di là del-
la vicenda del suo autore), significa in primo luogo rifiutare
l’idea dell’arte come esperienza eminentemente soggettiva,
dipendente dall’autore. Il blocco di sensazioni che viene cre-
ato nell’attività artistica — ciò che Vattimo chiamerebbe il
monumento come traccia — non è composto infatti di per-
cezioni ed affezioni, ma di «percetti» e di «affetti», termini che
stanno a indicare sensazioni e sentimenti ormai indipenden-
ti, totalmente sganciati dal vissuto soggettivo, a disposizione
di chiunque. La questione della conservazione ha a che fare
dunque con quella riguardante il materiale di cui è fatta l’o-
pera, che ne costituisce la condizione di fatto, ma l’insieme
di sensazioni che esso permette rende autosufficiente l’ope-
ra d’arte dal vissuto soggettivo. Ebbene, anche Vattimo nel
testo sull’“infrangersi” della poesia, presentando la nozione
di monumento si affretta a ribadire che non bisogna riferirla
a una filosofia dell’autocoscienza “per cui l’autoriferimento
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del linguaggio poetico [il suo conservarsi come dimensione


intransitiva, che non si lascia ridurre a segno] sarebbe la con-
dizione per una più autentica libertà del soggetto”19. Il mo-
numento “non è una funzione dell’autoriferimento del sog-
getto”20, esso reca traccia, ma sempre per altri. L’aggregato
sensibile che è l’opera d’arte appare in entrambi i casi come
qualcosa che si svincola dal vissuto soggettivo dell’artista per
conservarsi come traccia, per permanere nella sua intransiti-
vità, nel suo semplice mostrarsi senza rinvii. Questo territo-
rio, necessariamente inquadrato da una cornice, sostenuto da
una qualche “armatura”, è arte secondo Deleuze e Guattari
soltanto quando prevede continue linee di fuga ed aperture,
cioè quando è sfondo, orizzonte, e insieme ricerca di una po-
sizione minoritaria, di una forma di marginalità.

19. G. Vattimo, «L’infrangersi della parola poetica», cit., p. 81.


20. Ibid.

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