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CRISI DELLA RAGIONE


di Aldo Giorgio Gargani - XXI Secolo (2009)

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Crisi della ragione

La revisione critica della nozione di razionalità Pubblicità

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criṡi
L’ingresso nel 21° sec. non ha visto l’elaborazione di nuove proposte riguardo a progetti criṡi (ant. criṡe) s. f. [dal lat. crisis, gr.
teorici forti di razionalità filosofica quali erano stati, per es., il modello di razionalità κρίσις «scelta, decisione, fase decisiva di
una malattia», der. di κρίνω «distinguere,
epistemologica del Circolo di Vienna, del neopositivismo logico, del falsificazionismo giudicare»]. – 1. Nel linguaggio medico:
a. Repentina modificazione, in senso
popperiano, della semantica su base naturalistica di Willard Van Orman Quine, della favorevole, o anche sfavorevole, di
stati...
semantica formale dell’interpretazione radicale di Donald Davidson, e, infine, della teoria
referenzialista e realista dei mondi possibili di Saul Kripke.

Lungo un versante diverso le versioni del neopragmatismo americano a opera specialmente


di Richard Rorty, Nelson Goodman, Cornel West, Richard Bernstein e altri risultano
impegnate in una concezione indebolita di razionalità e in una concezione ‘deflazionista’
della verità.

Emerge anche una revisione della ricerca filosofica, non più destinata a confutare con
strategie argomentative lo scetticismo filosofico bensì a ritrovare, in termini
dichiaratamente antifondazionalistici, una presenza in una forma di vita (Lebensform, form
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of life), in un radicamento entro un mondo che non è suscettibile di essere dimostrato
contro i dubbi del filosofo scettico, bensì che deve essere accettato (accepted) e riconosciuto
(recognized), come variamente asseriscono Stanley Cavell, Barry Stroud e Michael Williams.

L’orizzonte culturale del nuovo secolo dischiude piuttosto lo scenario di una varietà di
operazioni teoretiche, destinate a riconsiderare analiticamente le ambizioni dei progetti
filosofici forti e sistematici del secolo precedente, alla luce di approcci volti anzitutto a
ricalibrare le condizioni di legittimità che ne erano alla base.

L’indagine che ne risulta è di conseguenza quella di un ponderato riesame storico-critico


piuttosto che di una rifondazione sistematica relativamente alla nozione di razionalità.

La svolta linguistica: mondo della vita e linguaggio comune

In tale prospettiva d’insieme, si può considerare la revisione critica, che talora diviene un
vero e proprio demolition job, condotta oggi nei confronti dell’analisi del linguaggio del
secondo Ludwig Wittgenstein e delle scuole del linguaggio ordinario di Oxford e di
Cambridge, ossia delle scuole di John L. Austin, Gilbert Ryle, Peter F. Strawson, Paul
Grice, Elizabeth Anscombe, John Wisdom, Richard M. Hare, Norman Malcolm. L’analisi
del linguaggio quotidiano aveva attaccato come insensati sia l’intuizionismo filosofico della
metafisica tradizionale, sia le metodologie rigide e sistematiche del logicismo,
dell’atomismo logico di Bertrand Russell così come l’epistemologia del Circolo di Vienna e
del neopositivismo logico. Ma è proprio nei confronti del carattere asistematico, empirico,
definito contingentemente volta a volta dell’analisi del linguaggio comune a opera delle
scuole di Oxford e di Cambridge e dei loro derivati in tutto il mondo anglofono (e non
solo) che la filosofia analitica, ossia la filosofia promossa dal linguistic turn, dalla svolta
linguistica (secondo la fortunata espressione introdotta da Rorty), rivendicava un nuovo e
diverso approccio metodologico fondato invece su un progetto teorico sistematico. Un
criterio di razionalità universale e sistematico presiedeva infatti ai programmi destinati a
ritrovare una cornice complessiva e unitaria entro cui racchiudere le fioriture delle varie
classi di espressioni e proferimenti linguistici nei quali veniva fatto consistere il pensiero
stesso, quest’ultimo assunto come indistinguibile dalla codificazione linguistica. Le teorie
semantiche di Kripke, David Kaplan, Richard Montague, Davidson, largamente influenzate
dalla teoria logico-linguistica di Alfred Tarski, a partire dagli anni Sessanta del 20° sec.
avevano perseguito in vario modo lo scopo di restaurare nelle varie aree del linguaggio una
metodologia ispirata da un lato a una concezione forte, unitaria e sistematica della
razionalità umana, e dall’altro lato a una concezione altrettanto forte e fiduciosa della verità.
Sulla base di questi presupposti veniva riscattato il valore insostituibile del predicato ‘vero’
contro le dottrine o concezioni del secondo Wittgenstein, radicate sullo sfondo
antropologico di una ‘forma di vita’ e degli analisti di Oxford quali Austin e Strawson,
fautori di una teoria della verità in termini di atti linguistici, di atti locutivi, illocutivi e
perlocutivi. Austin e Strawson avevano avuto il merito indubbio di illustrare la circostanza
che non tutte le espressioni o enunciati linguistici hanno un carattere descrittivo: i
proferimenti relativi al battesimo di una nave, di un infante o alla cerimonia nuziale non
descrivono ma realizzano (perform) qualcosa. In questo senso, «dire è fare qualcosa». Ma
questa performatività si estendeva, secondo Strawson, anche agli enunciati del linguaggio
descrittivo e veritativo, al linguaggio aletico, ossia ai candidati al calcolo delle funzioni di
verità. In questo senso, con la teoria degli atti linguistici (speech acts), asserire che «Ciò che
dice Oscar è vero» è traducibile nel proferimento «Io confermo/concedo/faccio
mio/approvo/sottoscrivo ciò che dice Oscar».

Un approccio teorico sistematico di carattere logicizzante, come quello sostenuto


recentemente da Scott Soames (2003), cerca invece di dimostrare l’impossibilità di una tale
assimilazione, individuando una serie di paradossi che si generano negli enunciati
attraverso la sostituzione del predicato ‘vero’ con le espressioni e i termini del vocabolario
performativo proprio della dottrina degli speech acts. È stato anzitutto obiettato che il
proferimento «Se io prometto di restituirti il libro, tu puoi essere fiducioso che esso ti
venga restituito» non ha carattere performativo ma decisamente descrittivo. È stato
rilevato contro la dottrina degli speech acts la derivazione di enunciati devianti o paradossali
sostituendo al predicato ‘vero’ le espressioni performative quali «io concedo, approvo,
sottoscrivo» e simili. Per es., nel linguaggio aletico asseriamo (a) «Se la proposizione che vi
sono tre 7 consecutivi nell’espansione di π è vera, allora vi sono tre 7 consecutivi
nell’espansione decimale di π»; tradotta nella dottrina degli atti linguistici essa diviene: (b)
«Se io confermo/concedo/approvo che vi sono tre 7 consecutivi nell’espansione decimale
di π, allora vi sono tre 7 consecutivi nell’espansione decimale di π», che risulterebbe essere
un’asserzione dubitabile e non un’analisi adeguata dell’asserzione precedente. Peraltro, la
validità di questa analisi non è così facilmente decidibile, nel senso che una riflessione
metafilosofica, poggiante sulla dottrina degli atti linguistici, potrebbe riconvertire lo stato
della questione: anzitutto perché la dottrina degli atti linguistici dovrebbe restituire i
medesimi risultati dell’analisi in termini del predicato ‘vero’? Una concezione
costruttivistica della matematica potrebbe costituire uno sfondo di legittimazione
dell’analisi di tipo (b).

La crisi della razionalità sistematica

Se una revisione critica radicale dell’analisi del linguaggio comune di Wittgenstein e delle
scuole di Oxford e Cambridge si è prodotta in nome delle istanze di una teoria sistematica e
cogente a partire dagli ultimi decenni del 20° sec., alle soglie del 21° si è anche verificata una
revisione critica di quello che è stato il progetto più avanzato e comprensivo nell’ambito
della teoria del significato, ossia il programma di ricerca della teoria dell’interpretazione
radicale di Davidson e dei suoi scolari. Tale programma si era segnalato anche per la sua
capacità di mediare fra un approccio logico-linguistico formalizzato e specialistico e un
approccio più sensibile alle ragioni tradizionali di un discorso filosofico generalizzato.

Il programma di Davidson enfatizzava una concezione potente e fondazionale del predicato


‘vero’. Questo è anche il suo tratto caratteristico e distintivo in una fase storico-culturale in
cui la nozione di verità fra concezioni ‘ridondantiste’, ‘deflazioniste’ e ‘minimaliste’
attraversa un’epoca di angustie. Secondo il progetto di Davidson, che si richiamava
all’eredità di Quine (messa al bando di significati, intensioni, enunciati analitici, stati
modali, stati intenzionali, verità come corrispondenza, empirismo riduzionistico), il punto
centrale e più ambizioso era dedurre una teoria del significato, ossia una teoria
dell’interpretazione, da una teoria della verità. E in vista di questo scopo Davidson aveva
esteso la teoria della verità di Tarski – che il logico polacco aveva limitato ai sistemi
formalizzati della logica e della matematica – ai linguaggi naturali. In sostanza la teoria di
Tarski introduce una fondamentale distinzione fra un linguaggio oggetto e un
metalinguaggio. Infatti impiegare le categorie sematiche – quali verità, senso, significato,
referenza, soddisfacimento – in un linguaggio chiuso (come può essere la lingua italiana o
inglese che si riferiscono unicamente a sé stesse) ha l’effetto di generare i paradossi
insiemistici (per es., la classe delle classi che non appartengono a sé stesse si appartiene o
non si appartiene? Se si appartiene allora non si appartiene, se non si appartiene allora si
appartiene) e i paradossi semantici (per es., il paradosso di Grelling: «monosillabico» non è
monosillabico, «lungo» non è lungo, cioè sono termini eterologici, che non appartengono a
sé stessi, ossia x ∉ x). Le categorie semantiche non devono comparire pertanto nel
linguaggio oggetto – questo è un requisito fondamentale delle teorie di Tarski, Quine e
Davidson. Come Tarski, Davidson esclude una definizione di verità in generale, valida in
un linguaggio L variabile. Il predicato ‘vero’ non gode di uno statuto di generalità illimitato
in accordo a una presunta struttura universale della razionalità, ma è definito
estensionalmente dalla classe degli enunciati che risultano veri in tali linguaggio. Sulle
tracce dell’opera di Tarski, la semantica formale di Davidson costituisce una teoria della
verità e presuntivamente dell’interpretazione se per ogni espressione enunciativa di un
linguaggio L è in grado di generare un teorema della forma «‘s’ è vero se e soltanto se p»,
dove s è un’espressione del linguaggio oggetto e p è un’espressione parafrastica di s nel
metalinguaggio (a destra del bicondizionale materiale «se e soltanto se»). Sulla base della
teoria di Davidson verità e interpretazione vengono certificati consecutivamente attraverso
una teoria finitaria, ossia mediante un numero finito di passi, e al tempo stesso
assiomatizzabile, cioè per mezzo di una rete di assiomi che connettono ciascuna unità sub​-
enunciativa di un’asserzione alla rispettiva referenza. Non si tratta però di una teoria della
verità e della razionalità in termini di corrispondenza, della tradizionale tesi dell’adaequatio
rei et intellectus, che Davidson trovava inintelligibile, quanto piuttosto di un sistema di
relazioni che correlano i termini con le entità alle quali si riferiscono.

La teoria di Tarski-Davidson è neutrale, ossia può soddisfare sia una teoria della verità
come corrispondenza, oppure come coerenza, sia una teoria epistemica o verificazionista
sia una teoria pragmatista, sia una semantica intensionale. Ma l’assunto fondamentale del
programma di Davidson era quello di derivare una teoria dell’interpretazione, ossia di
derivare i significati degli enunciati dalle loro condizioni di verità. Come a dire, che
afferriamo la verità di un enunciato senza conoscere ancora il suo significato, che nelle
intenzioni del filosofo americano era derivabile dalla convenzione di Tarski in forza
dell’olismo semantico costituito dal sistema di assiomi.

Ma è proprio su questo assunto fondamentale che il programma di Davidson mostra i


propri limiti, come viene mostrato in questi anni nel corso di un’ampia revisione critica. Le
proposizioni vere di Davidson non hanno proprietà traduttiva e pertanto non sono
sufficienti a fondare una teoria dell’interpretazione. La sostitutività di enunciati veri, ossia
equivalenti, e la sostitutività di termini coreferenziali consente di generare asserzioni
devianti del tipo «‘la neve è bianca’ è vero se e soltanto se l’erba è verde», oppure di formare
asserzioni che associano enunciati veri e significati falsi, del tipo «‘la neve è bianca’ è vero se
e soltanto se la neve è bianca e le teorie dell’aritmetica del primo ordine sono incomplete».
Il punto critico è costituito ancora una volta dall’inderivabilità del senso di un enunciato
dalle sue condizioni di verità. E a questo riguardo viene avvertita negli anni di transizione
dal vecchio al nuovo secolo una crisi della razionalità universale che coincide con una crisi
della nozione di verità, che viene considerata come sopravvalutata in alcuni settori della
filosofia analitica. Lo scacco costituito dall’inderivabilità del senso degli enunciati dalla loro
verità mette in crisi l’assunto di Davidson secondo il quale non vi sarebbe verità senza
traduzione e sarebbero insensate le tesi di Thomas Kuhn e di Paul Feyerabend
sull’incommensurabilità delle teorie scientifiche. Ma era proprio nei termini di tale assunto
che Davidson aveva lanciato la sua sfida al relativismo epistemologico e allo scetticismo
filosofico. Lo stesso Davidson ha successivamente allentato lo statuto formale della propria
metodologia introducendo la nozione di passing theories, ossia di ‘teorie occasionali del
linguaggio’ che non assumono il linguaggio nei termini di padronanza del linguaggio, di un
meccanismo logico perfettamente integrato e universalmente governato da regole rigide,
bensì lo consegnano alle pratiche dei parlanti sul campo, on the field, e ai loro tentativi di
ottimizzare la loro comunicazione attraverso l’accertamento di porzioni di accordo e di
disaccordo. «Il linguaggio non esiste, perlomeno non se il linguaggio è ciò che i filosofi
hanno pensato che fosse. Di conseguenza non c’è qualcosa da apprendere o da
padroneggiare. Dobbiamo rinunciare all’idea di una struttura ben definita e condivisa
padroneggiata dagli utenti del linguaggio e poi applicata ai singoli casi. Dovremmo
abbandonare il tentativo di far luce sul modo in cui comunichiamo facendo appello a
convenzioni» (D. Davidson, A nice derangement of epitaphs, in Truth and interpretation, ed. E.
Lepore, 1989, p. 446).

Teorie della verità

Seguire le tracce della crisi della ragione è così al tempo stesso seguire il destino di quella
nozione in angustie che è appunto la nozione di verità nel corso della transizione dal 20° al
21° sec. e che è caratterizzata dalle concezioni ridondantiste (già preannunciate da Gottlob
Frege, Alfred J. Ayer, Frank P. Ramsey), da quelle deflazionistiche e da quelle minimaliste.
Variamente coniugate fra loro, tali concezioni ridimensionano il ruolo del predicato ‘vero’,
negando che sia un predicato o una proprietà naturale delle asserzioni (nel senso in cui
l’esser rosso è una proprietà o un predicato di un fiore o di un vestito). Questa crisi della
razionalità è da ricondurre al crollo della nozione di verità come corrispondenza fra
pensiero-linguaggio da un lato e realtà dall’altro, in quanto era solo sul potente mito di tale
corrispondenza che l’esser vero di un enunciato era garantito da un’autorità che
trascendeva il linguaggio e il pensiero dei soggetti umani. Grazie a quella corrispondenza
gli uomini credevano di poter fare quello che in realtà non possono e non devono fare, ossia
«tentare di uscire dalla propria pelle linguistica» (Quine), o affidarsi a «episodi non verbali
che autenticano sé stessi» (Wilfrid Sellars), o ancora rifugiarsi, per un bisogno di sicurezza,
in una sorta di figura paterna rassicurante (Rorty). Ma appunto come ha decisamente
dichiarato Rorty nella sua ultima opera, Truth and progress (1998), sulla verità c’è meno da
dire di quanto hanno creduto fino a oggi i filosofi. Il mondo non parla, sono gli uomini che
lo fanno parlare per mezzo dei loro vocabolari decisivi.

Su un ridimesionamento della nozione di verità, senza per questo considerarla superflua o


ridondante, si basa la recente concezione minimalista della verità, dovuta a Paul Horwich,
Soames e altri, i quali, pur non assumendola come un predicato o un genere naturale,
nondimeno ne riconoscono la funzione e la legittimità. Anche la concezione minimalista, al
pari delle teorie della verità di Tarski, Quine e Davidson, connette la funzione del predicato
‘vero’ alle ineludibili esigenze di quantificazione o di generalizzazione degli enuncati o a
quella che Quine definiva l’ascesa semantica (semantic ascent). Come scrive Horwich, «non
sembra esserci alcun esempio di affermazioni che richiedono il concetto di verità che non
siano manifestazioni della sua funzione generalizzante [...]. In ciascuno di questi casi si
consegue un progresso verso formulazioni più chiare, e verso una migliore comprensione
di dove risiedano effettivamente i problemi, rendendosi conto che la verità è
metafisicamente banale: nulla più che un espediente per la generalizzazione» (Truth, 1990;
trad. it. 1994, pp. 185-86). Se da un lato il minimalismo riconosce al predicato della verità il
suo contributo alla generalità e dunque all’universalità della ragione, dall’altro esso nega
ogni profondità a tale predicato.

Il minimalismo assume il concetto di vero nei termini di un’autoriflessività, ossia


l’enunciato p è vero se e soltanto se p. Senza ricorrere all’«ingombrante apparato» della
teoria di Tarski, ritenuto incapace di catturare i controfattuali, gli stati intensionali, gli atti
intenzionali, i contesti opachi, gli asserti prescrittivi, il minimalismo dichiara di generare
una formula semplice e lineare della verità che è neutrale rispetto alle differenti opzioni di
una teoria semantica, nel senso che la formula della verità minimalista può tollerare una
concezione corrispondentista, coerentista, verificazionista, epistemica, pragmatista,
intensionalista o referenzialista delle categorie semantiche. In sintesi, l’assunto del
minimalismo consiste in uno schema di equivalenza che consente la generalizzazione degli
enunciati senza implicare paradossi insiemistici o semantici: «È vero che p se e solo se p». In
base allo schema di equivalenza diremo che un enunciato x appartiene o è riducibile alla
teoria minimalista se e soltanto se, per qualche enunciato y, c’è una funzione E* che
applicata a y fornisce il valore x; in simboli: (x) (x è un assioma di TM ↔ (∃ y) (x=E* [y])).
Attraverso il principio di equivalenza il minimalismo può generare un’infinità di enunciati
veri e catturare conseguentemente le diverse intuizioni del concetto di verità rimanendo
neutrale rispetto a differenti opzioni epistemiche o ontologiche. «Non solo la concezione
minimalista della verità è del tutto neutrale rispetto ai due aspetti centrali del realismo (vale
a dire, i problemi della credenza giustificata e della riducibilità empirica), ma lo stesso si
può dire di concezioni alternative. Come vedremo adesso, la scelta di una teoria della verità
è ortogonale ai temi che hanno a che vedere con il realismo. La teoria della verità può non
avere nessuna determinata implicazione per la componente gnoseologica o semantica del
problema» (Horwich, Truth, 1990; trad. it. 1994, p. 74).

La crisi del rappresentazionalismo e il neopragmatismo

Se la crisi della ragione classica ha generato, da un lato, la rivalutazione di una razionalità


storicizzata, probabilistica, relativistica o addirittura, come vedremo in seguito, scettica e in
ogni caso attraversata da rotture epistemologiche e da relazioni di incommensurabilità fra
le teorie scientifiche riconducibili alle alternative fra diversi «paradigmi», «versioni del
mondo», «schemi di accettabilità razionale», «modelli della scoperta scientifica» (da
Goodman a Norwood Russell Hanson, da Kuhn a Yehuda Elkana, da Feyerabend a Michel
Foucault), dall’ altro lato ha restituito, alla svolta tra 20° e il 21° sec., nuovo vigore alla
concezione neopragmatista della razionalità nei lavori di Rorty, Bernstein, Robert
Brandom, Cornel West, Richard Rajchman, oltreché – fatto per nulla trascurabile – nelle
strategie pragmatiste di volta in volta adottate da filosofi che non si dichiarano
espressamente o compiutamente pragmatisti (quali, per es., Davidson e Hilary Putnam).

Il neopragmatismo americano nella transizione al nuovo secolo rivendica e pone in primo


piano l’istanza di una razionalità non più concepita in termini puramente concettuali e
intellettuali, bensì radicata in abiti di credenze e di azioni che hanno come sfondo una
forma di vita, un contesto antropologico socioculturale in cui i processi del linguaggio,
dell’espressione e della comunicazione sono concepiti come manifestazioni di un’arte
sociale e non già come fenomeni di un’esperienza privata, in prima persona, del soggetto
conoscente della tradizione metafisica. Come ideologia liberale e democratica, il
neopragmatismo riscopre e rivendica i valori etico-sociali celebrati da William James fino a
John Dewey, ne recupera la matrice naturalistica e consegna la razionalità a una concezione
antimetafisica, storicista e antifondazionalista. Riprendendo un tema decisivo e distintivo
di James, Rorty attacca la nozione tradizionale di verità come corrispondenza come quella
concezione che, per un bisogno di sicurezza e di stabilità, anche sul piano sociale, delinea la
realtà come se essa fosse già prestabilita e predefinita e fosse out there (là fuori) per essere
scoperta e rappresentata. Di questo atteggiamento è testimonianza significativa la
frequenza delle metafore visive fin dalla filosofia antica. Ma bersaglio del neopragmatismo
è appunto il rappresentazionalismo, ossia la concezione secondo la quale la conoscenza e la
sua verità consisterebbero in una rappresentazione adeguata (adequate representation) del
mondo. Concezione che storicamente ha trovato la sua definizione e la sua focalizzazione
dal momento in cui René Descartes ha trasformato la filosofia in una epistemologia avente
come protagonista un soggetto spettatore di idee chiare e distinte, generando da un lato la
tradizione della filosofia razionalistica e dall’altro prestando la strumentazione analitica alla
scuola dell’empirismo inglese, a partire da John Locke il quale fonda quello che Sellars
definirà «the myth of the immediately given», il mito filosofico del dato immediato come
banco di prova della razionalità e della verità. Facendo esplodere quel mito filosofico, sulle
tracce dell’opera di Gilbert Ryle The concept of mind (1949), Sellars e poi Rorty hanno
sostituito alla razionalità e alla verità come rappresentazioni adeguate della realtà il
concetto di giustificazione. Avanzando una concezione linguistico-sociale della
consapevolezza in luogo di un concetto di verità astorico, atemporale e apodittico, essi
hanno introdotto la nozione di giustificazione, ossia l’attitudine e la capacità di addurre
ragioni e motivazioni a favore di un asserto in un contesto argomentativo. Il mito del dato
immediato, caratteristico della tradizione empiristica – da Locke a David Hume, George
Berkeley, Russell, Ayer fino ai neopositivisti – è dissolto. Rorty e Sellars risolvono la
nozione di verità in quella di giustificazione, ossia di asseribilità garantita nello spazio logico
del chiedere e del dare ragioni: «Nel caratterizzare un episodio o uno stato come proprio
del conoscere, noi non stiamo dando una descrizione empirica di quell’episodio o stato: noi
lo stiamo collocando nello spazio logico delle ragioni, della giustificazione e dell’essere in
grado di giustificare ciò che si dice» (W. Sellars, Science, perception and reality, 1963, p. 169).

Il linguaggio comune e le teorie scientifiche non vengono confrontate con la realtà, ma si


misurano in modi alternativi con un mondo che è previamente articolato dal codice di un
linguaggio. In questo senso, il rifiuto del mito filosofico del dato immediato dell’esperienza
e la concezione pragmatista delle teorie come strumenti porta a concludere che le teorie non
implicano l’esistenza degli oggetti e dei fatti ai quali si riferiscono. La linguisticità
dell’esperienza esclude che l’osservazione empirica, la Konstatierung dei neopositivisti
viennesi, sia fondata su un genere primitivo di consapevolezza preconcettuale. Se la
filosofia analitica di esportazione europea nel corso degli anni Trenta e Quaranta del secolo
scorso aveva conquistato un’egemonia indiscussa nella cultura filosofica degli Stati Uniti,
relegando il pragmatismo tradizionale a un ruolo marginale, è proprio in forza
dell’assorbimento del linguistic turn che il pragmatismo può compiere decisivi avanzamenti
nel dibattito sulla razionalità all’affacciarsi del 21° secolo. È in virtù infatti del parametro
della linguisticità che il neopragmatismo di Rorty e di Robert Brandom acquisisce nuove
valenze sul terreno di questa discussione. Se infatti il pragmatismo tradizionale, da James a
Dewey, riconduceva il predicato di verità al risultato utile di un processo, di un’azione o di
una procedura, attraverso le opere di Rorty e di Brandom la nozione di utilità si connette
alla funzione dinamica e mediatrice dell’inferenza linguistica. In altri termini, attraverso
l’articolazione linguistica l’enfasi non è più circoscritta al risultato utile di un’azione, quale
che sia ivi compresa l’asserzione, ma è estesa alla funzione prassiologica dell’inferire
giustificazioni, motivazioni e ragioni, e della capacità di stabilire nuove, inaudite
connessioni tra parole e concetti. Non è più una realtà prestabilita e predefinita che aspetta
out there di essere scoperta e portata alla luce a costituire il fondamento della nozione di
verità e di razionalità dei filosofi neopragmatisti contemporanei, bensì è il ruolo della
credenza (belief) a costituire il valore normativo di ciò che essi riconoscono come verità.
Riecheggiando James, Rorty ribadisce che «true is what is good in the way of belief», vero è
ciò che è buono, valido dal punto di vista della credenza. La verità cessa di avere
implicazioni ontologiche, metafisiche e perfino epistemiche: essa diviene una strategia
pragmatica sullo sfondo di valori socialmente condivisi come la solidarietà, intesa dai
neopragmatisti non solo nei termini psicologici di empatia e di atteggiamento cooperativo,
ma anche in quelli di una condivisione di norme, procedure e scopi; e in questo senso anche
la scienza fisico-matematica è un’impresa solidaristica che presuppone – in analogia con
l’epistemologia dei paradigmi di Kuhn – la condivisione di obiettivi, valori, costellazioni di
concetti, modelli formali, procedure e apparati teorico-sperimentali. Ma, e questo è uno dei
punti distintivi del neopragmatismo, la rete e l’articolazione del discorso non riflette, non
rispecchia una realtà o un ordine di razionalità prestabiliti. L’esercizio della razionalità può
articolarsi in due modi fondamentali secondo Rorty: l’uno è costituito dalle ordinarie
pratiche inferenziali fra proposizioni all’interno di un linguaggio condiviso (ossia, la scienza
normale di Kuhn che riflette the epistemology of the day), l’altro è costituito dall’invenzione
di nuovi vocabolari alternativi (per es., le rivoluzioni scientifiche, un nuovo lessico poetico,
una nuova teoria dell’armonia musicale e simili).

La dissoluzione del primato scientifico della filosofia ha altresì portato Rorty a sollevare i
testi letterari e poetici a una pari dignità rispetto a quelli filosofici e scientifici. In una
conferenza tenuta in Italia nel 2005 il filosofo americano diceva che «al cuore del
pragmatismo c’è il rifiuto della teoria della verità come corrispondenza – dell’idea che gli
enunciati veri debbano essere rappresentazioni accurate della realtà. Al cuore del
romanticismo è la dottrina del primato dell’immaginazione sulla ragione – della tesi che la
ragione può soltanto percorrere i sentieri che l’immaginazione ha aperto. Entrambi questi
movimenti sono stati reazioni contro l’idea che vi sia qualcosa di non-umano là fuori (out
there) con cui gli esseri umani dovrebbero mettersi in contatto. L’effetto di entrambi è stato
quello di portare la poesia al centro della cultura – il luogo un tempo occupato dalla teologia
e più tardi dalla filosofia». Non c’è solo il pragmatismo di quelle che sono vere e proprie
azioni, ossia modificazioni della realtà pratica, ma per Rorty esiste anche un pragmatismo
testuale. Si potrebbe dire con Wittgenstein che «le parole e i concetti sono azioni». Di qui
l’importanza che Rorty attribuisce alla poesia: fra i tanti esempi il suo commento, ancora
inedito, al saggio di Percy Bysshe Shelley, A defence of poetry. La poesia è una matrice
generatrice di metafore, live metaphors. Questa concezione della metafora si distingue da
quella tradizionale e originariamente aristotelica secondo la quale la metafora sarebbe un
discorso figurato sempre suscettibile di essere parafrasato nel linguaggio ordinario di
codice.

La live metaphor di Rorty invece è un costrutto nuovo, originario, inaudito che non è vero
né falso, ossia non è un buon candidato per il calcolo delle funzioni di verità; un costrutto
inoltre che addirittura non ha nemmeno significato in quanto non è decodificabile rispetto
al linguaggio ordinario. Ma è proprio attraverso la produzione di metafore vive che gli esseri
umani danno espressione e voce alla propria identità personale. Infatti, abbandonata come
impraticabile una concezione sostanzialistica e aprioristica dell’io, Rorty ravvisa nella
costruzione narrativa la matrice dell’identità personale. È piuttosto la prassi d’uso del
vocabolario e della grammatica adottati che stabilisce quello che possiamo poi definire
come un ordine possibile della razionalità. Ed è a partire da una prassi effettuata che
possiamo risalire ai titoli della razionalità e della verità. Questa concezione concerne il
sapere scientifico, le procedure della vita quotidiana, le relazioni sociali, ma anche i processi
dell’identità personale. Abbandonato il mito filosofico di un io sostanziale o quello di un io
trascendentale che accompagnerebbe secondo Immanuel Kant le nostre rappresentazioni, i
neopragmatisti scoprono nella narrazione, nella testualità narrativa la fonte dell’identità
personale. Dire quello che si è, è dire quello che ne è stato di noi mentre eravamo alle prese
con il problema di definire la nostra identità. Alasdair McIntyre definisce la narrazione la
fonte principale del sapere sociale e questa consapevolezza ha prodotto una grande svolta
negli studi sulle istituzioni sociali, aziende e organizzazioni produttive (Czarniawska 1997;
Gabriel 2000). Ogni narrazione sancisce una nuova nascita dell’individuo, lo stile secondo il
quale e nel quale ciascuno esige, in base alla propria narrazione, di essere compreso dagli
altri membri della comunità sociale. Ma se non esiste un ordine aprioristico e apodittico di
razionalità, come si può spiegare la presenza dell’errore? I neopragmatisti rifiutano di
declinare il discorso filosofico in termini di teorie, di costruzioni concettuali sistematiche e
in questo senso non v’è errore di carattere filosofico. Così come la verità è un successo della
prassi riuscita, così anche l’errore, il falso sono modalità dell’azione. Secondo Rorty la
concezione del moto di Aristotele, la dottrina dell’adaequatio rei et intellectus, il foro interno
di Descartes, la dottrina dell’intenzionalità di John Searle, e infine, i sense-data di Russell e di
Ayer non sono errori filosofici, per la semplice ragione che i loro autori li hanno
semplicemente inventati mentre credevano di scoprirli.

L’aspetto più nuovo e originale del neopragmatismo in questi anni è costituito


dall’impronta prassiologica che sancisce il primato dell’espressione rispetto alla verità. Questo
tratto distintivo trova la sua elaborazione più avanzata nell’opera di R. Brandom, Making it
explicit (1994; ma v. anche Brandom 2000), secondo la quale il compito della razionalità
consiste fondamentalmente nel portare a un livello di espressione esplicita le connessioni e
le inferenze che a livello implicito e anche inconsapevole guidano le pratiche simboliche
umane. Non esiste, secondo Brandom, una struttura logica prestabilita e preordinata
sottostante ai nostri esercizi di pensiero e di linguaggio. La razionalità si costruisce
piuttosto passo passo attraverso una pratica espressiva esercitata nel processo di chiedere e
dare ragioni a sostegno delle asserzioni proferite e scambiate fra gli interlocutori. Gli
interlocutori sono presi in questo gioco di scambio di ragioni e giustificazioni da un
impegno di carattere normativo, deontico consistente nel rispetto del commitment, della
responsabilità assunta nei confronti di un proferimento e nell’entitlement, ossia nell’aver
titolo competente in sostegno di un dato proferimento. Attraverso la pratica dello scambio
di ragioni e giustificazioni, gli interlocutori conseguono un punteggio, uno scorekeeping,
rispetto ai proferimenti di cui si dichiarano assertori. Ma appunto ciò che essi devono
portare all’esplicitazione non è una struttura logica prefissata e sedimentata quale presunto
deposito della razionalità e della verità, bensì relazioni e inferenze materialmente valide di
carattere contenutivo per la scoperta ed esplicitazione delle quali la logica risulta essere lo
strumento, ma non il fondamento. Di qui il carattere contenutistico e materiale – non
logico-formale – delle inferenze implicite. Il pragmatismo razionalistico e inferenziale di
Brandom rovescia il modello normale e tradizionale di origine platonica secondo il quale
prima si ha una presa sulla verità e poi si spiega l’inferenza, prima ci sono le cose o i loro
concetti, ossia i referenti o designata, e poi seguono le inferenze su di essi. Al contrario,
Brandom sostiene la priorità dell’inferenza rispetto alla verità, così come asserisce la
priorità dell’inferenza rispetto alla referenza. Il punto centrale presentato da Brandom, sulla
scorta di Sellars, è che avere un contenuto concettuale è praticare un ruolo nel gioco
inferenziale di proferire asserzioni e dare e chiedere ragioni. In questo senso Brandom
riconduce l’asserito all’atto dell’asserire, il fatto all’atto del fare. La logica pertanto non è la
struttura sottostante alle nostre pratiche e ai nostri abiti di pensiero e di linguaggio, bensì
risulta essere lo strumento formale per investigarli nel gioco del dare e chiedere ragioni dei
nostri proferimenti, ossia di inferenze materialmente valide. Il processo dell’esplicitazione,
del making it explicit, stabilisce la transizione dalla capacità di fare, da una competenza
pragmatica, da un know-how, a un sapere, a un know that. Un esempio del primato
prassiologico nella concezione della razionalità di Brandom lo si può cogliere nelle forme
che egli adduce di sillogismo pratico: «piove e quindi se voglio rimanere asciutto devo
prendere l’ombrello». Davidson ha obiettato che l’inferenza è scorretta in quanto non
sarebbe valida per chi assumesse la premessa di lasciarsi bagnare dalla pioggia, come Gene
Kelly in Singing in the rain. Ma va osservato che l’inferenza risulterebbe scorretta nel
presupposto di uno sfondo completo, esaustivo di tutte le premesse possibili, ossia di una
versione tradizionale di una razionalità dispiegata e onnicomprensiva. Ma appunto la forza
dell’inferenza materialmente valida è quella di stabilire pragmaticamente la connessione di
quel sillogismo pratico senza dover assumere che tutte le possibili premesse siano già
definite da sempre. «Ma il fatto che l’aggiunta di una premessa incompatibile con il
desiderio di restare asciutti infirmerebbe l’inferenza (la tramuterebbe in una cattiva
inferenza) non dimostra che questo desiderio svolgesse già da prima il ruolo di premessa
implicita: una simile conclusione si renderebbe necessaria solo se il ragionamento in
questione fosse monotonico [...]. Ma l’inferenza materiale non è in generale monotonica»
(Brandom 2000; trad. it. 2002, p. 91).

L’impronta prassiologica ridimensiona il ruolo della logica formale nel pragmatismo


razionalistico di Brandom; la logica non risulta più essere un campo distintivo e specifico di
inferenze formali e, in questo capovolgimento di prospettiva, essa risulta invece essere al
servizio di un materiale o contenuto non logico-formale. «La logica è piuttosto lo studio
dei ruoli inferenziali di parti del lessico che svolgono un ruolo espressivo particolare, quello
di codificare in forma esplicita le inferenze implicite nell’uso del vocabolario ordinario, non
logico. [...] Il compito della logica è principalmente quello di aiutarci a dire qualcosa sui
contenuti concettuali espressi utilizzando il vocabolario non logico, non quello di provare
qualcosa sui contenuti concettuali espressi utilizzando il vocabolario logico. Secondo questa
concezione, la correttezza formale dell’inferenza, che riguarda essenzialmente il suo
vocabolario logico, deriva dalla correttezza materiale dell’inferenza, che riguarda
essenzialmente il suo vocabolario non logico, e dev’essere spiegata in questi termini
piuttosto che nel senso opposto. Di conseguenza, la logica non è un canone o uno standard
di retto ragionamento» (p. 39).

L’espressivismo assume dunque un ruolo prioritario e prevalente rispetto alla procedure


delle dimostrazioni logico-formali. Tuttavia l’espressivismo del pragmatismo razionalista
implica anche il rifiuto della conoscenza come rappresentazione e della episte​mologia e della
sematica del rappresentazionalismo filosofico. «Il pragmatismo in materia di norme implicite
nell’attività cognitiva ci deriva da tre linee di ricerca indipendenti della prima metà del
Novecento: il pragmatismo classico americano, che ha il suo culmine in Dewey, lo
Heidegger di Essere e tempo e il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche [...] Inoltre, Dewey e
James, il primo Heidegger e l’ultimo Wittgenstein si opposero tutti, ciascuno a suo modo,
al paradigma semantico della rappresentazione» (pp. 42-43).

L’impronta linguistico-espressivista del pragmatismo razionalista di Brandom genera


spiegazioni che prendono il loro avvio non da inferenze relative alle forme degli enunciati,
bensì dalle inferenze materiali o di contenuto corrette. L’inferenza non riflette una forma
logica prestabilita e prefissata, ma traccia il gesto originario di una connessione tra
contenuti. Per inferire qualcosa bisogna fare qualcosa, occorre cioè produrre un’estensione
non conservativa del linguaggio. L’esercizio della razionalità non consiste per Sellars, Rorty e
Brandom nell’illuminazione di un’intuizione introspettiva cartesiana, bensì nella
padronanza pratica (practical mastering) di un certo agire inferenziale. A sua volta, questa
padronanza si manifesta in una prassi linguistica, e per questa ragione da James a Dewey, da
Sellars a Rorty e Brandom «afferrare un concetto è padroneggiare l’uso di una parola».

Una nuova relazione fra semantica ed epistemologia

Nell’esordio del 21° sec. le istanze ineludibili della linguisticità, della ‘schiusura linguistica’
propria della filosofia ermeneutica o della svolta linguistica, nel caso della filosofia analitica,
si intrecciano criticamente in una costellazione di componenti semantiche e di fattori
epistemologici che devono restituire una normatività ai processi cognitivi e comunicativi e
un controllo sperimentale dei fatti intramondani. Questo è il progetto che viene ora
avanzato da Jürgen Habermas e da Karl-Otto Apel. Sottratta all’autosservazione
introspettiva di tipo cartesiano, ha osservato Habermas, l’esperienza «viene analizzata nel
contesto di verifica di azioni guidata dall’esperienza, dal punto di vista di un attore
coinvolto. Il mentalismo viveva del ‘mito del dato’; dopo la svolta linguistica ci è inibita una
presa linguisticamente immediata su una realtà interna o esterna. La presunta
immediatezza delle impressioni sensoriali non funge più da infallibile istanza d’appello»
(Habermas 1999; trad. it. 2001, p. 16). Se Habermas si riconosce nella svolta pragmatica di
Rorty e se inoltre respinge come impraticabile la concezione realista della conoscenza
fondata sulla corrispondenza fra proposizioni e fatti, nondimeno egli ripropone l’esigenza
di una nozione di referenza che giustifichi la circostanza che noi riusciamo a riferirci al
medesimo oggetto o al medesimo fatto sia pure attraverso descrizioni e teorie diverse.
Queste istanze definiscono la complessità del progetto filosofico di Habermas e di Apel. Se
da un lato essi riconoscono la svolta linguistica, dall’altro lato non intendono assumerla
come una struttura rigida, prefissata e come tale immodificabile (sia nel caso di Heidegger e
della sua dottrina dell’ascolto della voce dell’Essere, sia nel caso di Wittgenstein dello
Sprach​spiel, del «gioco linguistico»). Al contrario, la pragmatica dell’esperienza e della
ricerca sui fatti intramondani ha la facoltà di modificare e perfezionare l’assetto linguistico-
concettuale di una cultura. Se la cartina della reazione al tornasole dovesse colorarsi di
azzurro, anziché di rosso, questa circostanza modificherebbe il nostro concetto di sostanza
acida. In altri termini, non esiste una pragmatica univocamente e asimmetricamente
determinata dall’assetto semantico di una cultura, ma c’è uno scambio di azioni e reazioni
fra l’assetto semantico e la prassi della ricerca empirica di quella cultura. Pertanto – e questa
è precisamente la critica che Habermas e Apel dirigono nei confronti del neopragmatismo
di Rorty, Sellars e Brandom e di certa parte della filosofia analitica – l’inevitabile istanza
realista immanente alla conoscenza ci impone di oltrepassare il confine della linguisticità.
«Comunque ci si immagini la funzione rappresentativa delle asserzioni, come
‘soddisfacimento’ di condizioni di verità oppure come ‘adattarsi’ dei fatti alle proposizioni, si
avranno sempre davanti agli occhi immagini di relazioni che vanno oltre il linguaggio»
(Habermas 1999; trad. it. 2001, p. 245).

Ma il superamento del confine linguistico, ossia la combinazione di componenti


semantiche e di apprendimento epistemico dei fatti intramondani, in conformità al
requisito realista ripropone la distinzione fra verità e giustificazione. Se gran parte
dell’epistemologia analitica nel corso del 20° sec. aveva identificato la verità con il concetto
di giustificazione, ora, all’inizio del 21° sec., Habermas ripropone questa distinzione sulla
base del sospetto del fallibilismo che deve accompagnare il compimento di qualsiasi
conoscenza. Se la giustificazione è il contesto delle ragioni che possono essere validamente
addotte per corroborare un asserto, la verità è invece il valore-limite in considerazione del
quale possiamo respingere una giustificazione come illegittima. Si tratta per Habermas di
un concetto non epistemico di verità in quanto assolve piuttosto a una normatività di
condizioni ideali immanente alla sua pragmatica trascendentale. Non è un concetto
epistemico di verità in quanto è una sorta di idea-regolativa di impianto kantiano, quale era
stata teorizzata anche da Hilary Putnam nel volume di circa vent’anni prima, Reason, truth
and history (1981; trad. it. 1985) al quale Habermas si sente vicino. Nel confronto fra
semantica e pragmatica le conoscenze vengono allora interpretate da Habermas come
riconoscimenti di delusioni epistemologiche performativamente esperite.
«All’accertamento autoriflessivo di una soggettività attiva in foro interno, al di là dello spazio
e del tempo, subentra, allora, l’esplicarsi di un sapere che è di natura pratica e mette soggetti
capaci di linguaggio e di azione in grado di partecipare a siffatte pratiche superiori e di
fornire prestazioni corrispondenti [...]. Nella visuale pragmatista le ‘conoscenze’ risultano
dalla rielaborazione intelligente di delusioni esperite performativamente» (Habermas 1999;
trad. it. 2001, pp. 15 e 17).

La crisi della traducibilità universale dei linguaggi

Conclusivamente, si può osservare come l’affacciarsi del 21° sec. non presenti nuove
proposte teoriche forti, nuovi paradigmi di ricerca, ma piuttosto proponga una sobria linea
di contenimento, rielaborazione e revisione di programmi già introdotti nel secolo scorso.
Se sul piano della cultura di ispirazione ermeneutica il postmodernismo e il
decostruzionismo mostrano di essere avviati verso un processo di dissolvenza, come
testimonia anche il revival di una filosofia ontologica che in parte subentra al suo posto e
nei suoi stessi fautori e interpreti, su quello della filosofia analitica si constata la crisi dei
grandi impianti teoretici ai quali subentra una varietà di modalità riflessive che interessano
sia la ricerca teoretica pura sia l’esegesi e la ricostruzione storiografica. È un significativo
sintomo di questa situazione culturale la crisi della nozione di verità, una crisi in cui, fra
ridondantismo, deflazionismo e minimalismo, si sospende la legittimità di un ordine
concettuale universale della razionalità, di un super-ordine di super-concetti, mentre si
avalla la presenza di una razionalità scettica. La sequenza e la consistenza delle critiche al
programma di Davidson, come abbiamo visto, mettono in dubbio il principio della
traducibilità universale dei linguaggi e delle culture diversi riaprendo ed estendendo i
margini dell’incommensurabilità delle teorie filosofiche e scientifiche. Soprattutto mettono
in evidenza la circostanza che se la traducibilità è possibile, lo è in quanto risulta possibile
costruirla con procedure semantiche e pragmatiche, non già alla luce di principi astorici e
atemporali. A un’analoga crisi è andata incontro la teoria dei mondi possibili di S. Kripke,
che aveva tentato di sostituire a una teoria del significato intensionale una teoria del
riferimento diretto, distinguendo la capacità di riferimento di un termine a un oggetto o
un’entità (per es. di ‘gatto’) dalla conoscenza di tale oggetto o entità. Quantunque le nostre
conoscenze scientifiche dei gatti siano enormemente superiori a quelle degli antichi egizi,
costoro non avevano una minore capacità di riferimento nei confronti dei gatti.
L’argomento di Kripke aveva una sua efficacia contro la semantica tradizionale di carattere
intensionale: quest’ultima ravvisava infatti nel significato (descrizione, definizione, senso,
intensione) di una parola la via del riferimento. Ma i controfattuali mettevano in dubbio la
semantica intensionale: infatti, se cambiamo il senso, ossia la descrizione di un concetto,
come possiamo garantire che stiamo trattando ancora del medesimo oggetto? Se parliamo
di Dante che non ha scritto la Divina commedia o che non ha conosciuto Beatrice, stiamo
ancora identificando Dante? Bisognava, secondo Kripke, abbandonare i significati come
merce inutile e abbracciare la dottrina dei «designatori rigidi», ossia stabilire causalmente
nomi come riferimenti diretti degli oggetti (al di fuori di pratiche conoscitive) e poi farli
accedere a mondi possibili, in ciascuno dei quali gli oggetti considerati potevano assumere
significati e proprietà eventualmente differenti senza perdere la sicurezza del riferimento e
senza generare contraddizioni e anomalie. Ma, ecco il problema, la teoria di Kripke non
sembra in grado di fronteggiare la dinamica dei concetti scientifici nel senso che la stessa
nozione di «designatore rigido» perde la sua legittimità allorquando non possiamo
garantire o riconoscere l’identità di un oggetto. Se la massa per Isaac Newton è una cosa,
ossia la quantità di materia racchiusa nell’unità di volume, qual è il designatore rigido di
essa allorché Ernst Mach definisce la massa come la relazione tra le accelerazioni che si
imprimono due corpi reciprocamente? La storia della massa è una storia diversa dalla storia
dei gatti e degli egizi.

La stessa pervasività del neopragmatismo, non solo di quello espressamente professato e


teorizzato, ma di quello che circola in questi anni in forma implicita e tacita, costituisce la
conferma di una crisi della ragione classica quale sistema e repertorio di concetti universali,
astorici e atemporali. La prassi è il fattore o l’elemento che viene a saturare quelle lacune,
quei salti che nelle inferenze sono lasciati scoperti da una razionalità classica che era stata
idealizzata e sublimata, che era assurta a grande, e forse al più grande, mito filosofico. Il 21°
sec. nel suo esordio sembra commentare questa situazione di crisi della ragione,
riesaminando i blocchi teorici trasmessi come eredità del passato attraverso metodologie e
riflessioni che alla contrapposizione forte antepongono un’analisi critica circostanziata e un
riesame di ciò che si pretende dalla filosofia. La crisi della razionalità classica viene a
implicare una cifra più variegata e complessa dei modi di fare filosofia, coinvolge
un’ibridazione e un’osmosi di codici intellettuali e disciplinari eterogenei. Ne sono una
prova, per es., in questi anni l’interesse crescente della filosofia nei confronti della poesia e
della narrazione o viceversa il ruolo che vengono a svolgere riflessioni di carattere
eminentemente filosofico in testi di fisica teorica (Lee Smolin, Julian Barbour, Roger
Penrose, Brian Green, Carlo Rovelli) apparsi a partire dal 2000 in un contesto di alternative
teoriche che non hanno o non hanno ancora avuto una conferma sperimentale.

Un altro aspetto significativo di tale varietà e complessità è fornito da nuove esegesi


storiografiche che appaiono meno dipendenti dalle pratiche istituzionalizzate e canoniche
di analisi e di ricerca. In questa direzione una testimonianza significativa è costituita da un
gruppo di autorevoli filosofi americani, fra i quali S. Cavell, Michael Kremer, Warren
Goldfarb, Cora Diamond, James Conant, Arnold Davidson, i quali assumono il lavoro
filosofico come un processo di rigenerazione interiore, di rinascita etica e talora di terapia
logico-linguistica. Alcuni di loro hanno contribuito al volume, apparso nel 2000,
significativamente intitolato The new Wittgenstein, la cui tesi fondamentale consiste nel
ravvisare nel Tractatus logico-philosophicus non già l’analisi di proposizioni – che come tali
sarebbero insensate – bensì il raggiungimento di un nuovo atteggiamento interiore, di un
nuovo modo di guardare all’esperienza da parte del lettore e perfino dell’autore attraverso
proposizioni riconosciute come insensate dal loro stesso autore.

La transizione dalla filosofia analitica – centrata su un’analisi teorica sistematica e


fondazionalista del linguaggio e su metodologie canoniche di ricerca – alla filosofia
postanalitica, antifondazionalista, antiessenzialista, scevra da canoni rigidi di indagine,
comporta un’estensione dei vocabolari filosofici, una cifra analitica più complessa, una loro
articolazione lungo argomentazioni che connettono tematiche e istanze tra loro differenti e
variegate. Ne sono testimonianza i saggi raccolti in L’immaginazione e la vita morale (2006)
di Diamond, la quale attacca severamente lo scolasticismo della tradizione etica proprio
della filosofia analitica, che aveva generato il mito filosofico dei valori come se essi fossero
racchiusi magicamente in concetti e parole quali ‘bene’, ‘dovere’, ‘virtù’ e simili, quasi che
questi termini contenessero ed esprimessero i valori attraverso una suggestione ipnotica.
Laddove per Diamond quei concetti e quelle parole devono essere considerati non come
etichette di valori, ma come speech organizers, come organizzatori di un discorso che
coinvolge in un unico contesto discorsivo processi cognitivi, atteggiamenti valoriali,
attitudini pratiche, emozioni, affetti, sentimenti, immaginazione, linguaggio e memoria.
L’etica ha un carattere complessivo e la filosofia dell’etica per Diamond, così come per John
McDowell, consiste nel restituire agli uomini i concetti che essi hanno perduto, di cui
risultano mutilati – in una parola consiste nel ritornare a essere umani.

Bibliografia

B. Czarniawska, Narrating the organization. Dramas of institutional identity, Chicago-London


1997 (trad. it. Torino 2000).

R. Rorty, Truth and progress, Cambridge-New York 1998 (trad. it. Milano 2003).

J. Habermas, Wahrheit und Rechtfertigung. Philosophische Aufsätze, Frankfurt am Main 1999


(trad. it. Roma-Bari 2001).

R. Brandom, Articulating reasons. An introduction to inferentialism, Cambridge (Mass.)-


London 2000 (trad. it. Milano 2002).

Y. Gabriel, Storytelling in organizations. Facts, fictions, and fantasies, Oxford 2000.

S. Soames, Philosophical analysis in the twentieth century, Princeton 2003.

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