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VOCABOLARIO
criṡi
L’ingresso nel 21° sec. non ha visto l’elaborazione di nuove proposte riguardo a progetti criṡi (ant. criṡe) s. f. [dal lat. crisis, gr.
teorici forti di razionalità filosofica quali erano stati, per es., il modello di razionalità κρίσις «scelta, decisione, fase decisiva di
una malattia», der. di κρίνω «distinguere,
epistemologica del Circolo di Vienna, del neopositivismo logico, del falsificazionismo giudicare»]. – 1. Nel linguaggio medico:
a. Repentina modificazione, in senso
popperiano, della semantica su base naturalistica di Willard Van Orman Quine, della favorevole, o anche sfavorevole, di
stati...
semantica formale dell’interpretazione radicale di Donald Davidson, e, infine, della teoria
referenzialista e realista dei mondi possibili di Saul Kripke.
Emerge anche una revisione della ricerca filosofica, non più destinata a confutare con
strategie argomentative lo scetticismo filosofico bensì a ritrovare, in termini
dichiaratamente antifondazionalistici, una presenza in una forma di vita (Lebensform, form
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of life), in un radicamento entro un mondo che non è suscettibile di essere dimostrato
contro i dubbi del filosofo scettico, bensì che deve essere accettato (accepted) e riconosciuto
(recognized), come variamente asseriscono Stanley Cavell, Barry Stroud e Michael Williams.
L’orizzonte culturale del nuovo secolo dischiude piuttosto lo scenario di una varietà di
operazioni teoretiche, destinate a riconsiderare analiticamente le ambizioni dei progetti
filosofici forti e sistematici del secolo precedente, alla luce di approcci volti anzitutto a
ricalibrare le condizioni di legittimità che ne erano alla base.
In tale prospettiva d’insieme, si può considerare la revisione critica, che talora diviene un
vero e proprio demolition job, condotta oggi nei confronti dell’analisi del linguaggio del
secondo Ludwig Wittgenstein e delle scuole del linguaggio ordinario di Oxford e di
Cambridge, ossia delle scuole di John L. Austin, Gilbert Ryle, Peter F. Strawson, Paul
Grice, Elizabeth Anscombe, John Wisdom, Richard M. Hare, Norman Malcolm. L’analisi
del linguaggio quotidiano aveva attaccato come insensati sia l’intuizionismo filosofico della
metafisica tradizionale, sia le metodologie rigide e sistematiche del logicismo,
dell’atomismo logico di Bertrand Russell così come l’epistemologia del Circolo di Vienna e
del neopositivismo logico. Ma è proprio nei confronti del carattere asistematico, empirico,
definito contingentemente volta a volta dell’analisi del linguaggio comune a opera delle
scuole di Oxford e di Cambridge e dei loro derivati in tutto il mondo anglofono (e non
solo) che la filosofia analitica, ossia la filosofia promossa dal linguistic turn, dalla svolta
linguistica (secondo la fortunata espressione introdotta da Rorty), rivendicava un nuovo e
diverso approccio metodologico fondato invece su un progetto teorico sistematico. Un
criterio di razionalità universale e sistematico presiedeva infatti ai programmi destinati a
ritrovare una cornice complessiva e unitaria entro cui racchiudere le fioriture delle varie
classi di espressioni e proferimenti linguistici nei quali veniva fatto consistere il pensiero
stesso, quest’ultimo assunto come indistinguibile dalla codificazione linguistica. Le teorie
semantiche di Kripke, David Kaplan, Richard Montague, Davidson, largamente influenzate
dalla teoria logico-linguistica di Alfred Tarski, a partire dagli anni Sessanta del 20° sec.
avevano perseguito in vario modo lo scopo di restaurare nelle varie aree del linguaggio una
metodologia ispirata da un lato a una concezione forte, unitaria e sistematica della
razionalità umana, e dall’altro lato a una concezione altrettanto forte e fiduciosa della verità.
Sulla base di questi presupposti veniva riscattato il valore insostituibile del predicato ‘vero’
contro le dottrine o concezioni del secondo Wittgenstein, radicate sullo sfondo
antropologico di una ‘forma di vita’ e degli analisti di Oxford quali Austin e Strawson,
fautori di una teoria della verità in termini di atti linguistici, di atti locutivi, illocutivi e
perlocutivi. Austin e Strawson avevano avuto il merito indubbio di illustrare la circostanza
che non tutte le espressioni o enunciati linguistici hanno un carattere descrittivo: i
proferimenti relativi al battesimo di una nave, di un infante o alla cerimonia nuziale non
descrivono ma realizzano (perform) qualcosa. In questo senso, «dire è fare qualcosa». Ma
questa performatività si estendeva, secondo Strawson, anche agli enunciati del linguaggio
descrittivo e veritativo, al linguaggio aletico, ossia ai candidati al calcolo delle funzioni di
verità. In questo senso, con la teoria degli atti linguistici (speech acts), asserire che «Ciò che
dice Oscar è vero» è traducibile nel proferimento «Io confermo/concedo/faccio
mio/approvo/sottoscrivo ciò che dice Oscar».
Se una revisione critica radicale dell’analisi del linguaggio comune di Wittgenstein e delle
scuole di Oxford e Cambridge si è prodotta in nome delle istanze di una teoria sistematica e
cogente a partire dagli ultimi decenni del 20° sec., alle soglie del 21° si è anche verificata una
revisione critica di quello che è stato il progetto più avanzato e comprensivo nell’ambito
della teoria del significato, ossia il programma di ricerca della teoria dell’interpretazione
radicale di Davidson e dei suoi scolari. Tale programma si era segnalato anche per la sua
capacità di mediare fra un approccio logico-linguistico formalizzato e specialistico e un
approccio più sensibile alle ragioni tradizionali di un discorso filosofico generalizzato.
La teoria di Tarski-Davidson è neutrale, ossia può soddisfare sia una teoria della verità
come corrispondenza, oppure come coerenza, sia una teoria epistemica o verificazionista
sia una teoria pragmatista, sia una semantica intensionale. Ma l’assunto fondamentale del
programma di Davidson era quello di derivare una teoria dell’interpretazione, ossia di
derivare i significati degli enunciati dalle loro condizioni di verità. Come a dire, che
afferriamo la verità di un enunciato senza conoscere ancora il suo significato, che nelle
intenzioni del filosofo americano era derivabile dalla convenzione di Tarski in forza
dell’olismo semantico costituito dal sistema di assiomi.
Seguire le tracce della crisi della ragione è così al tempo stesso seguire il destino di quella
nozione in angustie che è appunto la nozione di verità nel corso della transizione dal 20° al
21° sec. e che è caratterizzata dalle concezioni ridondantiste (già preannunciate da Gottlob
Frege, Alfred J. Ayer, Frank P. Ramsey), da quelle deflazionistiche e da quelle minimaliste.
Variamente coniugate fra loro, tali concezioni ridimensionano il ruolo del predicato ‘vero’,
negando che sia un predicato o una proprietà naturale delle asserzioni (nel senso in cui
l’esser rosso è una proprietà o un predicato di un fiore o di un vestito). Questa crisi della
razionalità è da ricondurre al crollo della nozione di verità come corrispondenza fra
pensiero-linguaggio da un lato e realtà dall’altro, in quanto era solo sul potente mito di tale
corrispondenza che l’esser vero di un enunciato era garantito da un’autorità che
trascendeva il linguaggio e il pensiero dei soggetti umani. Grazie a quella corrispondenza
gli uomini credevano di poter fare quello che in realtà non possono e non devono fare, ossia
«tentare di uscire dalla propria pelle linguistica» (Quine), o affidarsi a «episodi non verbali
che autenticano sé stessi» (Wilfrid Sellars), o ancora rifugiarsi, per un bisogno di sicurezza,
in una sorta di figura paterna rassicurante (Rorty). Ma appunto come ha decisamente
dichiarato Rorty nella sua ultima opera, Truth and progress (1998), sulla verità c’è meno da
dire di quanto hanno creduto fino a oggi i filosofi. Il mondo non parla, sono gli uomini che
lo fanno parlare per mezzo dei loro vocabolari decisivi.
La dissoluzione del primato scientifico della filosofia ha altresì portato Rorty a sollevare i
testi letterari e poetici a una pari dignità rispetto a quelli filosofici e scientifici. In una
conferenza tenuta in Italia nel 2005 il filosofo americano diceva che «al cuore del
pragmatismo c’è il rifiuto della teoria della verità come corrispondenza – dell’idea che gli
enunciati veri debbano essere rappresentazioni accurate della realtà. Al cuore del
romanticismo è la dottrina del primato dell’immaginazione sulla ragione – della tesi che la
ragione può soltanto percorrere i sentieri che l’immaginazione ha aperto. Entrambi questi
movimenti sono stati reazioni contro l’idea che vi sia qualcosa di non-umano là fuori (out
there) con cui gli esseri umani dovrebbero mettersi in contatto. L’effetto di entrambi è stato
quello di portare la poesia al centro della cultura – il luogo un tempo occupato dalla teologia
e più tardi dalla filosofia». Non c’è solo il pragmatismo di quelle che sono vere e proprie
azioni, ossia modificazioni della realtà pratica, ma per Rorty esiste anche un pragmatismo
testuale. Si potrebbe dire con Wittgenstein che «le parole e i concetti sono azioni». Di qui
l’importanza che Rorty attribuisce alla poesia: fra i tanti esempi il suo commento, ancora
inedito, al saggio di Percy Bysshe Shelley, A defence of poetry. La poesia è una matrice
generatrice di metafore, live metaphors. Questa concezione della metafora si distingue da
quella tradizionale e originariamente aristotelica secondo la quale la metafora sarebbe un
discorso figurato sempre suscettibile di essere parafrasato nel linguaggio ordinario di
codice.
La live metaphor di Rorty invece è un costrutto nuovo, originario, inaudito che non è vero
né falso, ossia non è un buon candidato per il calcolo delle funzioni di verità; un costrutto
inoltre che addirittura non ha nemmeno significato in quanto non è decodificabile rispetto
al linguaggio ordinario. Ma è proprio attraverso la produzione di metafore vive che gli esseri
umani danno espressione e voce alla propria identità personale. Infatti, abbandonata come
impraticabile una concezione sostanzialistica e aprioristica dell’io, Rorty ravvisa nella
costruzione narrativa la matrice dell’identità personale. È piuttosto la prassi d’uso del
vocabolario e della grammatica adottati che stabilisce quello che possiamo poi definire
come un ordine possibile della razionalità. Ed è a partire da una prassi effettuata che
possiamo risalire ai titoli della razionalità e della verità. Questa concezione concerne il
sapere scientifico, le procedure della vita quotidiana, le relazioni sociali, ma anche i processi
dell’identità personale. Abbandonato il mito filosofico di un io sostanziale o quello di un io
trascendentale che accompagnerebbe secondo Immanuel Kant le nostre rappresentazioni, i
neopragmatisti scoprono nella narrazione, nella testualità narrativa la fonte dell’identità
personale. Dire quello che si è, è dire quello che ne è stato di noi mentre eravamo alle prese
con il problema di definire la nostra identità. Alasdair McIntyre definisce la narrazione la
fonte principale del sapere sociale e questa consapevolezza ha prodotto una grande svolta
negli studi sulle istituzioni sociali, aziende e organizzazioni produttive (Czarniawska 1997;
Gabriel 2000). Ogni narrazione sancisce una nuova nascita dell’individuo, lo stile secondo il
quale e nel quale ciascuno esige, in base alla propria narrazione, di essere compreso dagli
altri membri della comunità sociale. Ma se non esiste un ordine aprioristico e apodittico di
razionalità, come si può spiegare la presenza dell’errore? I neopragmatisti rifiutano di
declinare il discorso filosofico in termini di teorie, di costruzioni concettuali sistematiche e
in questo senso non v’è errore di carattere filosofico. Così come la verità è un successo della
prassi riuscita, così anche l’errore, il falso sono modalità dell’azione. Secondo Rorty la
concezione del moto di Aristotele, la dottrina dell’adaequatio rei et intellectus, il foro interno
di Descartes, la dottrina dell’intenzionalità di John Searle, e infine, i sense-data di Russell e di
Ayer non sono errori filosofici, per la semplice ragione che i loro autori li hanno
semplicemente inventati mentre credevano di scoprirli.
Nell’esordio del 21° sec. le istanze ineludibili della linguisticità, della ‘schiusura linguistica’
propria della filosofia ermeneutica o della svolta linguistica, nel caso della filosofia analitica,
si intrecciano criticamente in una costellazione di componenti semantiche e di fattori
epistemologici che devono restituire una normatività ai processi cognitivi e comunicativi e
un controllo sperimentale dei fatti intramondani. Questo è il progetto che viene ora
avanzato da Jürgen Habermas e da Karl-Otto Apel. Sottratta all’autosservazione
introspettiva di tipo cartesiano, ha osservato Habermas, l’esperienza «viene analizzata nel
contesto di verifica di azioni guidata dall’esperienza, dal punto di vista di un attore
coinvolto. Il mentalismo viveva del ‘mito del dato’; dopo la svolta linguistica ci è inibita una
presa linguisticamente immediata su una realtà interna o esterna. La presunta
immediatezza delle impressioni sensoriali non funge più da infallibile istanza d’appello»
(Habermas 1999; trad. it. 2001, p. 16). Se Habermas si riconosce nella svolta pragmatica di
Rorty e se inoltre respinge come impraticabile la concezione realista della conoscenza
fondata sulla corrispondenza fra proposizioni e fatti, nondimeno egli ripropone l’esigenza
di una nozione di referenza che giustifichi la circostanza che noi riusciamo a riferirci al
medesimo oggetto o al medesimo fatto sia pure attraverso descrizioni e teorie diverse.
Queste istanze definiscono la complessità del progetto filosofico di Habermas e di Apel. Se
da un lato essi riconoscono la svolta linguistica, dall’altro lato non intendono assumerla
come una struttura rigida, prefissata e come tale immodificabile (sia nel caso di Heidegger e
della sua dottrina dell’ascolto della voce dell’Essere, sia nel caso di Wittgenstein dello
Sprachspiel, del «gioco linguistico»). Al contrario, la pragmatica dell’esperienza e della
ricerca sui fatti intramondani ha la facoltà di modificare e perfezionare l’assetto linguistico-
concettuale di una cultura. Se la cartina della reazione al tornasole dovesse colorarsi di
azzurro, anziché di rosso, questa circostanza modificherebbe il nostro concetto di sostanza
acida. In altri termini, non esiste una pragmatica univocamente e asimmetricamente
determinata dall’assetto semantico di una cultura, ma c’è uno scambio di azioni e reazioni
fra l’assetto semantico e la prassi della ricerca empirica di quella cultura. Pertanto – e questa
è precisamente la critica che Habermas e Apel dirigono nei confronti del neopragmatismo
di Rorty, Sellars e Brandom e di certa parte della filosofia analitica – l’inevitabile istanza
realista immanente alla conoscenza ci impone di oltrepassare il confine della linguisticità.
«Comunque ci si immagini la funzione rappresentativa delle asserzioni, come
‘soddisfacimento’ di condizioni di verità oppure come ‘adattarsi’ dei fatti alle proposizioni, si
avranno sempre davanti agli occhi immagini di relazioni che vanno oltre il linguaggio»
(Habermas 1999; trad. it. 2001, p. 245).
Conclusivamente, si può osservare come l’affacciarsi del 21° sec. non presenti nuove
proposte teoriche forti, nuovi paradigmi di ricerca, ma piuttosto proponga una sobria linea
di contenimento, rielaborazione e revisione di programmi già introdotti nel secolo scorso.
Se sul piano della cultura di ispirazione ermeneutica il postmodernismo e il
decostruzionismo mostrano di essere avviati verso un processo di dissolvenza, come
testimonia anche il revival di una filosofia ontologica che in parte subentra al suo posto e
nei suoi stessi fautori e interpreti, su quello della filosofia analitica si constata la crisi dei
grandi impianti teoretici ai quali subentra una varietà di modalità riflessive che interessano
sia la ricerca teoretica pura sia l’esegesi e la ricostruzione storiografica. È un significativo
sintomo di questa situazione culturale la crisi della nozione di verità, una crisi in cui, fra
ridondantismo, deflazionismo e minimalismo, si sospende la legittimità di un ordine
concettuale universale della razionalità, di un super-ordine di super-concetti, mentre si
avalla la presenza di una razionalità scettica. La sequenza e la consistenza delle critiche al
programma di Davidson, come abbiamo visto, mettono in dubbio il principio della
traducibilità universale dei linguaggi e delle culture diversi riaprendo ed estendendo i
margini dell’incommensurabilità delle teorie filosofiche e scientifiche. Soprattutto mettono
in evidenza la circostanza che se la traducibilità è possibile, lo è in quanto risulta possibile
costruirla con procedure semantiche e pragmatiche, non già alla luce di principi astorici e
atemporali. A un’analoga crisi è andata incontro la teoria dei mondi possibili di S. Kripke,
che aveva tentato di sostituire a una teoria del significato intensionale una teoria del
riferimento diretto, distinguendo la capacità di riferimento di un termine a un oggetto o
un’entità (per es. di ‘gatto’) dalla conoscenza di tale oggetto o entità. Quantunque le nostre
conoscenze scientifiche dei gatti siano enormemente superiori a quelle degli antichi egizi,
costoro non avevano una minore capacità di riferimento nei confronti dei gatti.
L’argomento di Kripke aveva una sua efficacia contro la semantica tradizionale di carattere
intensionale: quest’ultima ravvisava infatti nel significato (descrizione, definizione, senso,
intensione) di una parola la via del riferimento. Ma i controfattuali mettevano in dubbio la
semantica intensionale: infatti, se cambiamo il senso, ossia la descrizione di un concetto,
come possiamo garantire che stiamo trattando ancora del medesimo oggetto? Se parliamo
di Dante che non ha scritto la Divina commedia o che non ha conosciuto Beatrice, stiamo
ancora identificando Dante? Bisognava, secondo Kripke, abbandonare i significati come
merce inutile e abbracciare la dottrina dei «designatori rigidi», ossia stabilire causalmente
nomi come riferimenti diretti degli oggetti (al di fuori di pratiche conoscitive) e poi farli
accedere a mondi possibili, in ciascuno dei quali gli oggetti considerati potevano assumere
significati e proprietà eventualmente differenti senza perdere la sicurezza del riferimento e
senza generare contraddizioni e anomalie. Ma, ecco il problema, la teoria di Kripke non
sembra in grado di fronteggiare la dinamica dei concetti scientifici nel senso che la stessa
nozione di «designatore rigido» perde la sua legittimità allorquando non possiamo
garantire o riconoscere l’identità di un oggetto. Se la massa per Isaac Newton è una cosa,
ossia la quantità di materia racchiusa nell’unità di volume, qual è il designatore rigido di
essa allorché Ernst Mach definisce la massa come la relazione tra le accelerazioni che si
imprimono due corpi reciprocamente? La storia della massa è una storia diversa dalla storia
dei gatti e degli egizi.
Bibliografia
R. Rorty, Truth and progress, Cambridge-New York 1998 (trad. it. Milano 2003).
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