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Lettura globale del vangelo di Marco

Lo scopo di ogni vera esegesi è portare alla comprensione della pienezza del testo in esame, interpretarlo
come un TUTT’UNO, come è stato pensato e prodotto. La nostra è stata una lettura narrativa e non
possiamo esprimere questa totalità che attraverso la trama della storia, che struttura l’insieme ma anche ne
fornisce la prima chiave di interpretazione: si tratta di una storia di svolta che dalla partenza iniziale porta
alla fine come nuova partenza; è una trama d’inizi che permette alla storia delle origini di porre un
protagonista assoluto ma anche gli permette di rimanere tale anche oltre la sua fine. Attraverso di essa si
stabilisce una comunicazione complessa, dove tanto è detto e molto è sottaciuto; dove l’Autore si nasconde
dietro la voce del Narratore ma il Lettore è chiamato in modo sempre più scoperto a prendere parte e
divenire responsabile della storia e della sua forte attualità. Infine presenteremo pochi personaggi,
protagonisti della storia che, pe runa ragione o un’altra, mantengono una forte presenza non solo dentro
ma anche oltre lo svolgersi del racconto.

A. Interpretazioni del Vangelo di Marco


Il Vangelo di Marco è stato letto raramente come racconto; spesso come costruzione teologica o
documento storico. Accenniamone alcune, con la convinzione che il punto di vista narrativo può aggiungere
nuovi e migliori sensi.

Gli Inizi dell’esegesi scientifica e WhilliamsWrede


Nell’esegesi del XIX sec., il Vangelo di Marco è stato considerato il documento storico più antico e
attendibile, a causa della sua presunta scarsa elaborazione teologica, il suo taglio umanistico, l’assenza di
catechesi e insegnamenti ecclesiali. E’ stato W. Wrede che nel suo Das Messiasgeheimnis in den Evangelien,
Vandehoeck & Ruprecht, Göttingen 1901, ha imposto una profonda svolta a questa comprensione
dell’opera. Con la teoria del Messiasgeheimnis, segreto messianico, ha inteso Marco come la strategia per
trasformare il fallimento storico di Gesù con la predicazione kerygmatica della Chiesa. Marco sarebbe
un’operazione ecclesiale fondamentale per sostituire il perdente Gesù della storia con il Cristo glorioso
della fede.Questa posizione ha determinato l’agenda di un secolo.

Marco inteso secondo il metodo storico-critico


In seguito a W. Wrede, gli studi marciani sono sati dominati dall’imperversare di tre categorie esegetiche,
tre theologumenoi: il segreto messianico, la dominanza kerygmatica della Passione, l’incomprensione dei
discepoli.

R. Bultmann non parla di Mc teologo nella sua Teologie des Neuen Testaments; nella Geschchte der
Synoptischen Tradition, Vandenhoeck & Ruprect, Göttingen 1921,356-358 Marco è visto come un editore-
collettore di singole tradizioni collegate in modo non originale per motivi letterari e non storici, con una
certa prospettiva di tempo e con motivi mitici come il Theios aner, il Figlio dell’uomo, il segreto messianico.
Non è un vero autore, perché non è capace di imprimere una sua idea ai materiali che trova nella
tradizione; gli insegnamenti riportati e le figure degli avversari e persino dei discepoli sono schematiche; il
suo scopo principale è unire il kerygma della chiesa ellenistica con la tradizione di Gesù.

W. Marxen, Der Evangelist Markus 1956 ha riabilitato Marco come autore e teologo ma sempre e solo
come collettore delle singole tradizioni che lo hanno preceduto.
K. Kertelge, Die Wunder Jesu im Markusevangelium, SANT XXIII, Kösel-Verlag, München 1970 riprende una
interpretazione di M. Dibelius che il Vangelo di Mc è una ‘unverstandene/verborgene Epiphanie Jesu’.
Questo paradosso serve per indicare l’origine divina di Gesù e la necessità della fede per comprenderlo e
per interpretare adeguatamente le sue gesta. Per questa dialettica i fatti di Gesù – in particolare i suoi
miracoli – hanno un carattere meraviglioso ma anche oscuro; sono dei segni continuamente e più
profondamente da re-interpretare. Epifania è un termine ellenistico corrente, collegato al prodigioso e al
divino. Mc ne fa uso ma lo ricollega al tema della domanda, della paura, dell’incomprensione. Utilizza i
miracoli non come manifestazione della divinità di Gesù ma come ‘allusione’, ‘segno’, che possono essere
incompresi o fraintesi. Gesù agisce anche in territorio pagano e si indirizza a non-ebrei; ciò non chiarisce ma
aumenta lo spessore del mistero epifanico: diretto a tutto, oltre la comprensione di tutti. Tutto diventa
‘segno’, tutto è rinviato alla Pasqua; tutto è lasciato alla comprensione di fede. Tutti i miracoli divengono un
solo vangelo da re-interpretare, una du,namij disponibile ma inesauribile, una storia del divino e un
euvagge,lion, un che salva e sfida ogni uomo.

Uno sviluppo particolare della Cristologia di Mc è legato allo studio dell’espressione figlio dell’uomo, usata
14x in Mc e 81x nei Vangeli (30 Mt, 25 Lc, 12 Gv). Seguendo L.H. Hurtado, Signore Gesù, vol 1, Piadeia,
Brescia 2006, 288-303 (or. ingl.2003) si può riassumere in tre posizioni dominanti l’immenso dibattito:
1. È un tiolo tradizionale nel mondo giudaico. Bousset lo considerava l’essenza della cristologia
primitiva della comunità palestinese; o, secondo molti al tempo della Redaktionsgeschiche come,
un titolo attribuito a Gesù dopo Pasqua per identificarlo come figura escatologica. Oggi è chiaro che
l’espressione è un conio cristiano: non esiste assolutamente in greco prima dei Vangeli e in ebraico
e aramaico, non è usuale come identificazione diretta (cf Dan 7,13: “come un figlio dell’uomo”),
specie con l’articolo determinativo, al singolare.
2. E’ un titolo cristiano per indicare la messianicità di Gesù, formulato da Gesù stesso o dalla comunità
primitiva. Ma neppure nei testi cristiani è mai una definizione o una confessione. C.F.D. Moule
pensava che Gesù stesso si fosse riferito a Daniele per spiegare la sua sofferenza e passione,
mentre N. Perrin pensava che fosse la comunità cristiana che lo aveva identificato come figura
escatologica gloriosa. Altri pensano che il riferimento primo dell’espressione non è Daniele ma i
Salmi 8 (citato in 15,27; Ef 127; Eb2,6; Mt 21,16) o 110,1 o 80,18.
3. E’ semplice indicazione di un essere umano. Seguendo G. Vermes, molti intendono ‘figlio
dell’uomo’ come indicazione di un uomo e sulla bocca di Gesù, di ‘Io stesso’. Per Casey serviva per
indicazioni generici, per Lindars piuttosto per affermare l’appartenenza di un singolo a un gruppo.
L’uso dell’articolo determinativo e la ricorrenza sulla bocca di Gesù, serve proprio ad affermare la
particolarità di quell’uomo e così è stato mantenuto nelle tradizioni evangeliche proprio per la forza
del suo riferimento specifico a Gesù e allargato proprio per significare titoli a lui comuni, come
‘maestro’ o ‘figlio di Dio’ ma più spesso lo lasciarono come citazione dei suoi stessi detti.

E’ chiaro che per la tradizione antica e per Marco, l’espressione ‘figlio dell’uomo’ è complementare a quella
di ‘figlio di Dio’ e serve a mettere in evidenza la sua identità umana e la sua sfera di azione nel mondo.

Marco negli sviluppi linguistici


La vera svolta e riabilitazione di Marco è avvenuta nell’ambito dei nuovi metodi. Studiando Marco come
svolta mediatica dall’oralità alla scrittura, W.H. Kelber, The Oral and the Written Gospel, Indiana University
Press, Bloomington and Indianapolis 1997, 90-139 lo presenta come autore che compie non una semplice
trasmissione della tradizione ma come opera una transmutation canalizzandola in un nuovo medium: la
scrittura. Cambia la destinazione, si altera la oral synthesis, la relazione fra speaker e uditore, la
contestualizzazione nella tradizione diviene contesto letterario nell’evangelo; si sostituisce l’autorità dei
discepoli originari con quella degli evangelisti scrittori. Finisce la mimesi e i discepoli divengono incapaci di
comprensione, perché sono prima e fuori della riorganizzazione letteraria. Mc ri-orienta tutta la tradizione
creando di tanti spazi un unico stage, di tanti fatti un’unica azione, di tanti tempi un’unica storia, il mondo
passato un mondo simbolico. Tutto l’evangelo diviene parabola perché i singoli fatti non esprimono una
sola idea autonoma in se stessa, ma nella contestualizzazione si riferiscono a tutte le altre situazioni e loro
significato, al senso dell’insieme. Alcuni logia e alcuni eventi divengono centrali e capaci di dettare il senso e
ad essi subordinano il resto: guarigioni ed esorcismi assumono il carattere di prassi del Regno, dialoghi e
domande divengono un’unica ricerca dell’identità del Cristo, unico personaggio centrale a tutta la storia; il
racconto diviene cristologia.

V.K. Robbins, nel suo ambizioso The Invention of Christian Discourse, vol 1, Deo Publish Blandford Forum
2009, 272-281 presenta Marco come contributo originale alla costruzione del discorso storico cristiano, che
si aggancia al passato, lo rinnova e lo apre al futuro, ciò che è definito rhetorolect. E’ un sistema retorico
fatto di configurazione di temi, immagini, argomenti. Mc costruisce il suo rhetorolect collegando l’inizio
della storia di Gesù a Isaia 40,3 (che attira anche Es 23,20 e Mal 3,1) e collegando la citazione scritturale a
Giovanni Battista e a Gesù. Tutto diviene parte di un’unica storia che, nelle parole di Giovanni, si apre al
futuro e nel Battesimo coinvolge anche il cielo. In Mc 4 sono introdotti motivi sapienziali che collegano
parola a cuore e ricondotto a Is 6,9-10; questo rhetorolect non ragiona per analogia ma linee storiche. C 7
richiama Is 29,13 e si crea un circuito della difficoltà di comprensione del cuore a vari cerchi: Isaia aveva
predetto l’incomprensione del cerchio esterno , quello dei Farisei e Scribi, ma anche quello dei discepoli che
è presentata come superabile e illuminabile. La questione rimane aperta e viene affidata al lettore. Ma
anche altre linee si sviluppano in Mc nello stesso rhetorolect: es. quella escatologica (pg 450-455). In Mc 9
– Trasfigurazione – sono destinatari di una rivelazione ma che non sono in grado di comprendere; in Mc 13
essi sono posti in un contesto mondiale di eventi e di guerre e solo l’apparizione del Figlio dell’Uomo
permetterà la comprensione in termini di salvezza e comunione definitiva. Il messaggio è ‘vegliate’ e
continuate a ricercare la rivelazione e la presenza del Figlio dell’Uomo.

Marco come Jesus’ Act


Gesù come protagonista/eroe del Vangelo di Marco è stato studiato da vari punti di vista, non
necessariamente alternativi, eppure non tutti pertinenti o soddisfacenti. E’ stato studiato a partire dai titoli,
come portatori di una sintesi già fatta o in via di farsi, ma ciò ignora l’importanza della prassi soprattutto in
un Vangelo come Marco, dove si subordina ogni riconoscimento alla concretezza dell’azione. Si è tentato
poi di definirlo in base alla forma e al contenuto dei suoi insegnamenti, ma il rischio di lasciare fuori con la
prassi il vero senso dell’evangelo è alto. Ho cercato altrove di tracciare un profilo narrativo di Gesù in base
alle sue quattro scelte principali; è così mostrata la progettualità e la lungimiranza di Gesù ma viene
emarginata la sua aderenza al concreto e agli altri, la sua passività. Definirlo attraverso le azioni, con la
conferma più o meno dialettica delle attribuzioni e delle enunciazioni, è la definizione narrativa del
personaggio ma è difficile tenere insieme l’accumulo di tutti i suoi atti, parole e dialoghi senza una griglia
prestabilita.

J.E. Edwards, The Gospel according to Mark, Pillar New Testament Commentary, Eerdmans, Grands
Rapids MI – Cambridge UK 2002, 12-16. Protagonista dinamico e assoluto: ‘uncontestedsubject.. and … man
of action’. Egli non è tanto ciò che dice ma ciò che fa; Marco – a differenza di Giovanni – ha messaggi
impliciti, che si possono cogliere solo entrando nel dramma. E’ chiamato spesso ‘maestro’ ma di rado si
riportano i suoi insegnamenti; importante è la persona del Maestro e non il suo insegnamento. Marco
accentua l’umanità di Gesù: amarezza (14,34), delusione (8,12), dispiacere (10,14), ira (11,15-17), stupore
(6,6), fatica (4,38) e anche ignoranza (cf 13,32). E’ tratteggiato da tre fattori qualificanti:

1. L’autorità , che si manifesta fin dall’inizio nella sinagoga (1,21-28) e mira al riordine sociale; chiama
sovranamente discepoli per ricostituire Israele, ridefinisce la parentela, stabilisce ciò che appartiene
e non appartiene a Cesare. Si manifesta nel ridefinire i comandamenti della Torah sul sabato,
qorban, purità, senso originale del matrimonio. Gesù rivendica l’autorità di Dio stesso: nel liberare
dai mali, nel potere sulla natura, nel perdonare i peccati, nel riformare il culto, nel dominare gli
spiriti, nell’unione con Dio come abba.
2. Servo di Dioche usa la sua autorità non per sé ma per servire gli altri. Egli incarna il Servo di JHWH
di Isaia ne riscatto della vita altrui (Mc 10,45), nell’essere fin dal Battesimo ‘figlio’ in termini di
servo, che nella morte riceverà il vero battesimo (cf 10,38). I tre annunci della Passione e la
Parabola della vigna in 12,6-8 e soprattutto nella Cena egli mostra di perseguire fino in fondo la
missione di Servo.
3. Figlio di Dio è il titolo e la trama principale del Vangelo: cf 1.1 con 15,39, passando per 1,11 e 9,7. I
demoni lo riconoscono come tale (1,24; 3,11; 5,7). Il modo di essere figlio è mostrato nella sua
sofferenza e obbedienza. Il suo riconoscimento come ‘figlio di Dio’ sulla croce è allo stesso tempo
ricco di ironia e di rivelazione inconfondibile della sua identità.

A. Y. Collins, Mark. A Commentary, Hermeneia, Fortress Press, Minnepolis MN 2007, 45-84


E’ più appropriato parlare di ‘interpretazione di Gesù’ che di cristologia perché non è presentato un
sistematico pensieroma solo l’implicita visione del personaggio già presente nelle tradizioni raccolte. Mc
accentua alcuni punti con la ripetizione (per es. , i molti racconti di miracolo) o con la disposizione (per es.
ponendo il tiolo ‘Cristo’ o ‘Figlio d Dio’ ai punti di svolta del racconto). Certi epiteti evocano associazioni
scritturali ma anche tradizionali in altre letterature, quella greca specificamente.
 Gesù come Profeta - Nel periodo del Secondo Tempio si considerava la profezia come passata ma si
attendeva il tempo escatologico del suo ritorno. Giuseppe Flavio attesta l’attesa di nuovi profeti nel
sec. I. Il principale è certo Giovanni il Battista. Per Marco, Gesù è un profeta, dotato di Spirito, con
un messaggio da annunciare, nel tempo che si compie. Da profeta escatologico, Gesù combina il
suo ruolo di maestro con la capacità di compiere esorcismi e miracoli, di salire a Sion per
restaurarla, nell’annunciare e introdurre il giudizio dei tempi finali.
 Gesù come Messia –

Interessante è un saggio assai recente di P. Owen, “Jesus as God’s Chief Agent in Mark’s Christology”, in C.
Keith – D.T. Roth, Mark, Manuscripts, and Monotheism. Essays in Honor of Larry W. Hurtado, LNTS
528,Bloomsbury-T&T Clark, London – New York 2015, 41-57.

Egli sceglie come pista cristologica la ‘divine agency’, il potere di uno secondo solo a Dio, capace di
esercitare e manifestare la sua sovranità. E’ una trama divina ciò che lo rivela.

 Prima di tutto, Owen collega ‘Figlio di Dio’ in 1,1 con la tradizione dell’angelo del Signore evocata in
Mc 1,2-3, dove sono intrecciate tradizioni dell’agente divino presenti in Isaia, Esodo, Malachia. Esso
sarà preceduto da Elia, su di lui riposerà il Nome di Dio ed egli sarà “l’angelo dell’alleanza o della
presenza” e salverà il popolo. Questo angelo è ancora più avvicinato a Dio dalla voce che lo dichiara
‘Figlio’ in 1,11 e 9,7.
 ‘Angelo di Dio’ e ‘Figlio di Dio’ sono termini intercambiabili nell’AT: Gn 6,2.4; Gb 1,6; 2,1; Sl 29,1;
89,6-7 e soprattutto Pv 30,4 e Sl 82,6. ‘Figlio’ e ‘Angelo’ sono collegati soprattutto dalla
caratteristica che essi sono il luogo dove risiede il NOME di Dio. Mc 6,14.50; 9,38; 13,13; 14,62
riecheggiano Es 3,13-14 (IO SONO) e Mc 11,9 riecheggia Es 23,20 (“Benedetto chi viene nel NOME
del Signore”), un NOME che si manifesta in atti di liberazione e, come in Mc 12,6, rivela la presenza
di Dio.
 Il Sl 82,6-8 serve a collegare ‘Figlio di Dio’ e ‘figli di Dio’: cf Gv 10,33-36. Ma anche Mc 4,41 ma
soprattutto Mc 5 (vedi i vv.5-6.9.13) elabora il Sl 82 e fa della figliolanza divina una missione per
rendere ‘divini’ anche gli altri, ‘Dio fra gli dei’ (cf Sl 2,7).
 Il ‘Figlio di Dio’ è presentato in Mc anche come ‘David escatologico’. Mc 12,37 riecheggia il regno
divino futuro di Is 40,10-11 ed Mc 6, 30-44 (moltiplicazione dei pani) riecheggia il nuovo Re di Sl 23
ed Ez 34. David è designato come’ figlio di Dio’ in 2Sm 7,13-14; Sl 2,7-8.11-12; 45,6-7; 89,26-27; Is
9,6-7.

In conclusione la cristologia di Mc è ‘alta’ come quella di Gv. Gesù è JHWH davanti a cui si prepara la via
del Signore (Mc 1,2-3); è il Figlio (Mc 1,11); è l’IO SONO; è l’Angelo del Signore che ha la presenza e la
forza del NOME, è Dio fra gli dei de Sl 82.

Cf anche L.C. Sweat, The Theological Role of Paradox in the Gospel of Mark, LNST 492, 2013.

B. La trama aperta
Ma la cristologia ha bisogno di un metodo: cf E. Boring, “Markan Christology: God’s Language for Jesus” ,
NTS 45(1999) 451-471. Il metodo narrativo è quello che più corrisponde al genere e al genito del Vangelo di
Mc ed è dunque quello più produttivo anche per la sua cristologia.

Nella trama del Vangelo di Marco ha una grande importanza l’inizio, sia come prologo che come apertura
della storia. Nel prologosono costitutivi questi due elementi: la ripresa della linea profetica e la costituzione
del personaggio Gesù. La prima sfocia nell’annuncio del Regno di Dio, la seconda nella definizione
dell’uomo dello Spirito. L’annuncio mostra l’origine trascendente di una notizia, un fatto che si può
apprendere ea cui aderire ma che non deriva dagli uomini ma da Dio per via profetica: le Scritture, Giovanni
Battista. Il personaggio è il ‘Figlio’, che riceve una investitura divina, ma matura un progetto proprio; lo
Spirito lo costituisce radicalmente orientato a Dio e libero.

Nella apertura del racconto la concatenazione di contatti, separazioni, confronti che si realizzano nel
movimento e nella parola, nella salute e nel coinvolgimento personale, imposta la storia come prassi di
trasformazione e come dialogo di condivisione.

Nella sequenza dei contatti Gesù promuove un programma di umanesimo trascendente:la trascendenza si
manifesta nella ripresa delle Scritture e nel movimento inarrestabile; l’immanenza nel dialogo fra le
persone e le varie reazioni che innesta e nell’aderenza a dati naturali: corpo, seme, pane,spazio da
riorganizzare.

Nella sequenza della separazione il racconto dà al programma umanista un quadro totale e radicale:
universale negli orizzonti, non tradizionale nei riferimenti, personale nei costi e nel destino. Tutti e tutto ora
è coinvolto: la totalità dell’esistenza di Gesù, l’organicità dell’esistenza a partire dalla dal progetto del
Creatore che riguarda la donna, i bambini e chiede servizio e sacrifico.

Nella sequenza dei confronti il racconto fissa alternative irriducibili a proposito del tempo, dello spazio e
degli atteggiamenti. Nei luoghi che frequenta e nei gesti che compie, non è più indicato il Tempio ma la
tavola condivisa come spazio della presenza di Dio. Nel Discorso Escatologico, il tempo non deve esser più
dominato dall’interesse per il passato ma deve anticipare il futuro con la vigilanza; negli atteggiamenti di
Gesù si apprende che l’uomo non deve essere più dominato dalla paura che porta al compromesso ma può
esprimere una capacità poietica che costruisce nuovi modi di presenza e di relazione.

Nella chiusura del racconto si ha una paradossale liquidazione della storia ma con la qualificazione somma
dei motivi: Gesù muore trasformando il suo servizio in sacrificio, il suo annuncio in testimonianza, la sua
vita in dono. Nel momento in cui tutto si perde, tutto si consacra definitivamente. Gesù muore e con la sa
morte compie la totalità della sua missione.

Nell’epilogorappresenta un nuovo inizio: protagoniste ora sono le donne e non più i discepoli, Gesù non
annuncia più ma è annunciato, tutto riparte dalla Galilea. E’ una nuova mattina dove la memoria di ciò che
Gesù ha fatto e detto diviene ora programma di vita pieno e definitivo. Egli non c’è più ma è risorto; come
tale deve essere cercato, ritrovato, attuato. Il silenzio finale delle donne mette a rischio l’intera storia, che
può però rivivere nella conoscenza e memoria fedele del lettore.

Si tratta di una storia profetica e umanista, radicale e drammatica, rigenerabile sempre e dovunque. E’ una
esperienza storica e concreta che si rigenera nel sua racconto e nella prassi della sua mimesi.

C. La comunicazione compromettente
Marco è un autore inconfondibile. Desta meraviglia come i fondatori della Formgeschichte lo abbiano
completamente frainteso. Scrive L. Hurtado: “Marco fornisce non solo la più antica ma anche la più serrata
composizione su Gesù … che permette di delineare una figura di Gesù finemente articolata e di grande
effetto… è una figura attiva e rigorosa” (cf ibidem 282-283).

Il narratore
Usa uno stile humilis per mantenersi radente l’esperienza quotidiana ma anche per risaltare di più la
grandezza della dimensione divina di Gesù. Riesce insieme a essere pratico nei riferimenti, prospettico nelle
visioni e discreto nella sua compattezza. Sottolineo tre caratteristiche del suo stile misurato ed evocativo:

1. La sottrazione – che gli serve strategicamente a unire parole e fatti, Gesù e la vita: insegnamenti
senza contenuto, preghiera senza parole, spirare senza invocazione. Omette tanti contenuti,
critica titoli e definizioni confezionate, scuote la logica, dà verità al paradosso. Un esempio
prolungato è rappresentato dal titolo ‘figlio di Dio’, affermato nel titolo del libro, poi reso
sospetto e obbligato al silenzio sulla bocca dei demoni; confermato e consacrato nelle
situazioni limiti davanti al Sommo sacerdote nel processo, mentre muore sulla croce in bocca a
un soldato – il centurione – straniero.
2. L’addizione – che gli serve per rendere i racconti simbolici e simboli visioni. Inserisce nei fatti le
parole che rivelano identità e intenzioni, nei gesti quotidiani la forza del Regno che si attua,
nelle relazioni il giudizio. Così, come è stato detto, i fatti divengono segni e i segni parabola. Un
esempio denso sono le qualificazioni (aggettivi, attributi, apposizioni) che sono rari ma gustosi
in tutto io Vangelo. Ricorre spesso alla polarizzazione delle coppie (santo, impuro; terreno
buono o refrattario; grandi e piccoli; servi e padroni; uomo e donna …); alla dialettica delle
posizioni (penare secondo Dio e gli uomini; perdere e trovare; giusti e peccatori; morire e
vivere; potere e non potere); alla temporizzazione (il vecchio e il nuovo, questa generazione e
quelle passate e future; il Signore è vicino, il Veniente, ‘vedranno’; il seme piccolo e la raccolta).
Marco esprime forti giudizi e chiama a giudicare. Vedi le espressioni: è più facile (2,9; 20.24-25);
o con kalw/j: 7,6.9.37, 12,28.32 e con kalw/j evstin : 9,5.43-49.50; 14,21. Tutto è sottoposto
al giudizio di Dio (cf, ad es., 4,22-23; 12,33.40).
3. La composizione – che rendono tanti fatti una sola storia, i vari dialoghi un solo insegnamento, i
vari atti una sola rivelazione. La presenza e attività di Dio e di Gesù che la media la rendono
salvifica ed esemplare, unica e feconda di tante altre storie, una memoria e un annuncio
insieme; un’opportunità di salvezza e di perdizione. Mc si caratterizza per alcune forme: la
forma a incastro o a sandwich. Essa crea una contaminazione fra fatti, una metafora di sensi e
serve a enfatizzare l’elemento centrale, a confrontare idee in tensione fra di loro, a costruire
modelli complessi, a integrare materiali vari e disparati; cf 3,20-35; 5,21-43; 6,7-30ss; 11,12-25;
14, 53-72. Oppure la giustapposizione: per esempio, fra folle e discepoli o fra essi e gli
Avversari…

Il lettore
Marco è il Vangelo che più densamente costruisce il suo lettore. Il Reader-Response Criticism ha indagato
questo aspetto; cf ad esempio i due libri di B. van Iersel su Mc, Leggere Marco, Edizioni Paoline, Cinisello
balsamo (MI) 1989 (or. fiammingo 1985) e il commentario Marco. Una lettura e una risposta, Queriniana,
Brescia 2000 (or. ingl. 1998) e ci sono studi assai recenti che innovano il rapporto fra Mc e i suoi primi
lettori storici: Mt e Lc. Marco stesso si è fatto lettore e interprete dell’AT e della tradizione cristiana.

Mc compie varie operazioni sul suo lettore:


1. Lo tiene a distanza, presentandogli una storia passata, un’origine non più a disposizione e già
conclusa, che può essere conosciuta solo se accolta, ma non più modificata. Dentro di essa si
manifesta l’autorità massima che è Dio, attraverso le sue Scritture, i suoi Profeti, il suo Figlio.
L’autorità del testo sul lettore è manifestata magnificamente dall’Epilogo: si pone l’annuncio del
Risorto in bocca a un essere celeste e si presenta risposta delle donne come paura e silenzio. La
distanza fra origine e recezione non potrebbe esser rappresentata come più asimmetrica!
2. Lo avvicina al testo, contemporaneamente, lo sollecita a prender posizione e lo include come parte
del suo racconto. L’esempio più pregnante è il discorso escatologico: il tempo si allunga fino a
comprenderlo e a oltrepassarlo; diviene esperienza in fieri ancora da compiere e da determinare;
viene posto nel mezzo di drammi infiniti e davanti a un giudizio, da cui non si può scappare. Egli può
trasformare il timore in speranza se è già capace di mettersi sulle tracce del Figlio dell’Uomo, che
tornerà nella gloria.
3. Lo rende responsabile della tenuta generale e della riuscita del racconto. Questa è esattamente al
funzione del capitolo delle Parabole: il lettore diviene il terreno della semina e dalla cui qualità
dipende in qualche modo la stessa riuscita dell’evangelo; è lui che deve percepire se è fra ‘quelli
dentro’ o ‘quelli fuori’, se vede/ascolta o se guarda/ascolta senza o per non comprendere. Ma
anche la finale è un forte atto di affido del racconto al lettore, nel momento in cui le ultime
protagoniste a cui è affidata l conclusione e il senso globale della storia fuggono via dal racconto e
terrorizzate non raccontano nella a nessuno. Ormai tutto dipende dal lettore.
L’evangelista non considera lettori ideali (spiega loro anche dettagli semplici: cf, ad es., 6,39: l’erba è
verde; o 12,42c …), ma li considera capaci di sfide grandi e li rende responsabili della sua opera stessa:
l’annuncio dell’evangelo. Non li considera gente da catechizzare, ma esseri liberi e intelligenti e capaci delle
sfide più estreme. Gli rende interlocutori e, dopo averli sfidati, ne cerca la collaborazione, la condivisione e
la comunione, da condiscepoli. Son supposti cristiani ma capace di criticarsi e rinnovarsi.
D. Personaggi a confronto
Un lettura narrativa di Marco dovrebbe esser capace anche di offrire la figura matura dei principali
protagonisti, i personaggi che l’attraversano e la sorreggono. Qui ne prendiamo in carico solo due: Cristo e
l’uomo secondo tutto il Vangelo.

Gesù dagli atti suoi


Si è fatto una cristologia per titoli, ma non dà ragione della maggior parte del racconto che è fatti e dialoghi;
si è costruita una cristologia cosmica con il cielo, la terra, gli inferi, il deserto e la Galilea, Gerusalemme e la
tomba e il giudizio ma è troppo aristocratica e focalizzata sugli aspetti sovradimensionati. Una cristologia
narrativa valorizza tutto, soprattutto i fatti; corrisponde più al genito e all’impresa di Mc, alle sue reticenze
e alla sua arte comunicativa.

La figura di Gesù emerge dalla trama e rende la trama compatta e a soggetto.

i. Gesù compare come chi è da Dio, e secondo la profezia ma che matura da sé un suo compito:
messaggio e progetto
ii. Gesù agisce come liberatore fra il popolo, nel villaggio
iii. Gesù si trasforma in servo e ‘figlio dell’uomo’, in sintonia con i bambini
iv. Gesù riforma la società come poieta : critica il Tempio, apre il tempo, convoca la tavola
v. Gesù si dona e rigenera la vita, morendo come vittima e annunciato come presenza per sempre.

Tre elementi sono costitutivi: l’annuncio, la prassi, la morte. Ha la qualità del Profeta e del Maestro perché
la sua parola viene dall’alto e forma uomini nuovi; fa quello che dice e propone ad altri di collaborare
perché la sua è un’azione corale e trasformatrice di tutta la realtà; muore per donare tutto se stesso e per
costituire un modo n uovo di essere persone umane.

Egli rimane sempre ‘figlio’ e non diviene mai padre; egli è solo ed è per tutti; egli per primo, oltre i Profeti,
dispone non del passato ma del futuro. Più è dallo Spirito e più è vicino alla realtà, più è originale e più
trasforma, più è solo e più unisce; più si diversifica e più è lo stesso, più subisce e più incide; più scompare e
più è presente. Tre termini, più di altri, definiscono il personaggio marciano di Gesù di Nazareth: Spirito,
servizio, vita. Forse la figura dello Sposo è ciò che si avvicina di più a una definizione del Gesù marciano.

Di fatto non esiste un’altra categoria biblica o generalmente culturale che mette insieme tutti o larga parte
di questi elementi costitutivi della figura di Gesù: venuta, cura della salute e del corpo, responsabilità
dell’altro e rigenerazione, proposta e protesta, festa, servizio e dono di sé al di fuori della relazione nuziale.
Il carattere monarchico di messia evidenzia la missione, la liberazione e l’abbondanza ma ignora
l’universalità, la relazione, il servizio e il dono di sé; il carattere oblativo del servo unisce bene missione
universale, servizio e sacrificio ma ha estranea l’idea di festa e di cura, di insegnamento e di attività sociale.
L’aspetto indubbiamente religioso del personaggio esprime bene la derivazione e il servizio a Dio e la
dimensione collettiva di festa ma è a disagio a includere attività sociale e cura corporale, servizio e
sacrificio. La definizione di figlio esprime bene la unità d’intenti e la relazione profonda con il Padre che è
nel cielo e, come figlio dell’uomo, con l’umanità intera e i suoi bisogni ma lascia fuori l’idea di responsabilità
primaria, di iniziativa, di festa. E così varie altre categorie si rivelano affette di parzialità e insufficienza.

Se questa posizione è giustificata, allora alcuni passaggi evangelici acquistano particolare importanza per
definire la figura di Gesù, anche se non rilevanti per lo sviluppo della trama: il tempo delle nozze (2,18-19),
la donna che unge Gesù (14,3-9) o il ruolo delle donne che emergono con forza impareggiabile alla fine
globale del racconto (15,43-16,8). Il primo passaggio determina il senso globale dell’evangelo come ‘tempo
di nozze’, il secondo lo consacra come gesto profetico e amoroso, il terzo è l’affidamento dello sposo alla
sponsalità umana in genere.

L’uomo dalle mille facce


Fatto di tante situazioni e di tante facce, rappresenta la sintesi di tutta l’antropologia del Vangelo in cinque
dimensioni oggettive:

i. L’uomo del villaggio – E’ il primo testo della storia che presenta il villaggio come ambiente
letterario. Significa aggancio con al vita quotidiana e abbraccio universale. L’uomo di Mc è un
essere marginale e concreto, capace di rappresentare e significare il più possibile di umanità;
uomo/donna che vive ovunque: si muove, mangia, si ammala, invoca e spera, cerca compagnia e
fa festa, muore desiderando di vivere.
ii. L’uomo in catene – Il Vangelo di Mc presenta una esperienza drammatica della vita: male come
malattia, alienazione, rottura sociale, sfruttato e talora vittimizzato; con la sua cultura
comprensione e la libertà rende solo più amare e dure le sue catene. L’evangelo di Gesù è
pensato come risposta a tale soluzione e come proposta per andare oltre insieme verso la
liberazione e la salute come salvezza globale.
iii. Uomo è la donna che cura ed è curata – Sono le ‘perso umili’ (die Kleineleute) che comprendono,
corrispondono e interagiscono con Gesù; molte di queste sono donne: la suocera di Pietro,
l’emorroissa, al siro-fenicia, la povera vedova, la donna di Betania, le donne ai piedi della Croce e
al sepolcro, che chiudono il racconto. Qualcuna dialoga, convince e insegna a Gesù. le donne
mostrano che nel Vangelo è rappresentata un’umanità bisognosa ma non negativa; capace di
sentimenti e di ragionamenti, di mente e di cuore, di cura ricevuta e donata.
iv. L’uomo canaglia – Nel Vangelo c’è anche una galleria di uomini che mentono e calunniano,
offendono e violentano, invidiano e uccidono: C’è chi cerca davanti alla novità del Regno ma
anche c’è non capisce perché non vuol capire, difende solo i suoi interessi, è chiuso ai bisogni e
all’invocazione degli altri, rifiuta la verità, serve la morte. I compatrioti e la famiglia stessa di Gesù
lo ostacolano e mal interpretano, Pietro diviene Satana e lo rinnega, giuda lo tradisce e gli altri lo
abbandonano; i capi sembrano in particolare esser l’espressione di una strategia di malvagità:
perseguono, spiano, condannano, affrettano l’esecuzione, schiaffeggiano e flagellano; la folla gli
grida contro e ne fa oggetto di scherno; ci sono carnefici e complici. C’è un’umanità peccatrice e
accecata, perversa e venduta, manipolata e crudele.
Tutto ciò contribuisce all’estremo realismo del Vangelo, dove la realtà è disincantata ma tuttavia piena di
speranza. Tre relazioni spingono nella direzione della salvezza, intesa come liberazione + trasformazione:
 La polarità – Nell’evangelo l’umanità reale e quotidiana diviene uno dei poli nella relazione con Dio,
con cui i rapporti vengono intensificati e lo scambio arricchito.
E’ un rapporto di subordinazione, perché l’uomo rimane ben distinto da Dio e a lui subordinato. Dio sta nei
cieli (1,11; 11,25.26) e solo Dio è buono (10,18); è l’Unico (12,29) e degno di essere amato totalmente
(12,30); a lui tutto è possibile (10,27; cf 9,23 e 10,36).
E’ un rapporto talora di contrapposizione – Il pensiero dell’uomo non è quello di Dio (8,33); infatti gli uomini
hanno stabilito tradizioni per annullare la Parola di Dio (7,13), hanno fatto della sua “casa di preghiera per
tutti i popoli una spelonca di ladri” (11,17); hanno ucciso battuto i suoi servi e si apprestano a farlo con il
suo Figlio (1212,1ss); non riconoscono ciò che viene dallo Spirito (3,27; cf 11,31ss); ciò che Dio vuole è
superiore anche al desiderio di tutti – anche di Gesù – di evitare la propria morte (14,35).
Questa polarità attiva l’invocazione e la cura – Gli uomini sono sottoposti al male e al bisogno e chiedono a
Dio che soccorra, guarisca e salvi dal male e dal peccato. L’invocazione attiva la cura che ha tanto spazio
nell’evangelo. Gesù ascolta e interviene, si impietosisce e guarisce, libera e perdona, quando è richiesto e
talora anche solo quando percepisce (cf Mc 2,5; 3,1). Egli ha sulla terra il ‘potere di perdonare i peccati’
(2,10); è il medico venuto per i malati (2,17) e anche i pagani hanno diritto a partecipare al tempo della
grazia (cf 7,24ss). Gesù stesso ricorre all’invocazione e la trasforma in abbandono (14,36).
 La reciprocità – Nell’evangelo, attraverso la cura e la compassione, Dio e gli uomini si incontrano
nell’azione di Gesù e mirano a stabilizzare e rafforzare questo incontro fino al punto in cui Dio e
umanità si intrecciano.
Gesù è causa di molte associazioni. Non è stato molto notato ma Mc è un Vangelo di legami, espressi con
l’uso frequente della preposizione meta,: compare 46x in tutto e in 35 casi stabilisce o rivela un vincolo:
16x vede Gesù come punto di aggregazione in varie direzioni; 10 volte riguarda l’associazione fra Gesù e i
discepoli (tutti o in parte) e 4x li prende con sé; 7volte ha un legame con altri: le fiere, i pubblicani e i
peccatori, i malfattori (seguendo Is 53,12) e altri ancora. Anche i 16 usi dell’avv. me,son – preceduto da
eivj/evn o più frequentemente da dia,- indica l’intreccio evangelico: Gesù è spesso in mezzo alla folla,
sulla frontiera e muore fra due ladroni. L’evangelo è un’esperienza di incontri con le folle, con molti singoli
e il movimento incessante che lo percorre indica l’atteggiamento costante dell’andare incontro a tutti.
Gesù mostra la reciprocità ancor più nel servizio, che è l’atteggiamento con cui Gesù definisce la sua
missione (10,45) ma anche il modo con cui avviene uno scambio profondo: in 1,13 da parte degli angeli; in
1,29-31 con la suocera di Pietro; in 15,41 indicazione globale del servizio delle donne; è l’esempio e
l’insegnamento principale che Gesù lascia ai suoi discepoli: accogliere 9,36-7 e 10,15; servire 10,43-44.
La reciprocità è anche disponibilità. Gesù interrompe la sua missione per rendersi disponibile al lebbroso in
10,40-42, per insegnare e sfamare la gente in 6,30-44 e 8, 1-11, per dare salute e lodare la fede altrui (5,30-
34; 9,23-24). Questa disponibilità diviene consegna nelle mani degli altri: da parte di Dio (passivo divino in
9,31; 10,33a; 14,41; cf 15,37); di Giuda (14,10.11.18.21.41; cf 3,19), dei Sommi Sacerdoti e degli Scribi
(10,33: 15,1-10), di Pilato (15,15). La consegna è i paradosso della reciprocità, che trasforma il tradimento
in sostituzione vicaria (cf 10,45c e 14,22-25).
La reciprocità diviene così comunione. Due segni mostrano la profondità comunionale dell’evangelo: gli
accenni alla nuzialità in 2,17-18; 10,2ss e 14,3-12 e il segno del pane e del vino in 14,22-25. Anche il breve
insegnamento sulla preghiera in 11,23-25 indica il livello di comunione possibile. C’è un’altra situazione
dove la comunione si impone ricomponendo la separazione: la morte. Quella di Gesù che rivela la sua
identità di Figlio di Dio che ha tutto dato per servire gli altri; ma anche le morti della figlia di Giairo, dei due
ladroni sono occasioni di solidarietà e comunione che trasfigura il dolore. Ciò fa pensare che la morte di
ogni uomo può diventare altrettanto. Il segno di Gesù che muore ‘spirando’ sembra indicare che quello
emesso è lo spirito della comunione suprema e universale (cf 15,37.39). Con l’ascolto e la fede, l’uomo
dimostra di accettare e partecipare a questa comunione.
 La maturazione – Per giungere alla reciprocità di comunione e sponsale, il Vangelo pone l’urgenza
di una maturazione e di una trasformazione. L’idea di sviluppo, crescita, evoluzione e cambiamento
– contrariamente a quanto spesso affermato – sono al cuore dell’evangelo. Si tratta di un processo
che riguarda tutti, anche Gesù e - per suo tramite - Dio stesso.
Sottolineo questo aspetto solo indicando alcuni segni trasparenti del fenomeno: 1) la via, con cui il Vangelo
comincia che è la via di Dio fra gli uomini, il percorso della storia di Gesù. Il suo movimento mira prima alla
esperienza del regno di dio, poi alla costituzione di un gruppo, poi di un corpo donato, infine di una meta
dove il tutto si compie e consacra; 2) il seme, che rende la VIA organica e vitale; che ha una spinta insita ma
cerca un terreno adatto dove espletarla; dove dal poco produce molto, fino a divenire pane della raccolta,
della festa e della condivisione; 3) il bambino, motivo e modello di accoglienza, luogo di crescita e di
formazione dell’umanità nuova; indica anche la capacità di rinascita e di giovinezza dell’evangelo; 4) il
giovane delle scene finali, che prima segue in incognito e fugge nudo, ma poi ricompare nel sepolcro per
dare forma e forza all’annuncio decisivo: è ‘la nudità necessaria’ per divenire vero discepolo, 5) ma il
motivo il fattore più potente della trasformazione è il Figlio dell’Uomo, potente – umiliato – esaltato; è il
risultato di un intreccio sostanziale fra Gesù e l’umanità, è il vettore di una inarrestabile finalizzazione alla
vittoria sulla morte, è il coraggio di affrontare e forzare tutti i blocchi.
Dio stesso evolve: 1) nel coinvolgersi in tutta la maturazione dell’evangelo causando tutte le trasformazioni
e fissando a creature una meta vicino a sé, 2) nell’affidare al Figlio il suo progetto sul mondo e
nell’attendere che egli lo compia, 3) nell’assecondare prima e nell’abbandonare poi il proprio figlio a un
destino di morte per il vantaggio di tutta l’umanità. Tutto ciò è solo l’avrch, del suo evangelo nella storia.

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