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premio Campiello 2019) fa leggere a Igor Stravinskij il diario che racconta la vicenda del
attorno a cui ruota Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri), il nuovo romanzo di Andrea
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La cinquina del premio Campiello 2019
Carlo Gesualdo uccide la moglie, Maria D’Avalos, perché colpevole di averlo tradito con il
nobile Fabrizio Carafa. La legge dell’epoca non può perseguirlo perché ha fatto il suo dovere per
proteggere il casato e ha agito nel pieno del suo diritto: una moglie fedifraga minaccia la
Da questo momento poi la storia finisce e iniziano le leggende: nascono ballate, voci popolari
consuetudini della sua epoca, Carlo scopre il suo talento: inizia a comporre, diventando uno dei
Tarabbia, che precedentemente ha pubblicato, tra gli altri, Il giardino delle mosche (Ponte alle
Grazie), libro con cui è stato finalista al premio Campiello nel 2016, scrive la storia tormentata
di Carlo, che nella finzione del romanzo è letta da Igor Stravinskij, che ne trova il diario.
Il giardino delle mosche
A. Tarabbia
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Io sono una creatura infelice, un inscatolato, un beffato dal destino. Trovo una consolazione, a
volte, restando accanto al mio padrone, ascoltandolo, consigliandogli ciò che è giusto e
seguendolo anche in ciò che credo sia sbagliato. Ma è, appunto, una consolazione, non una
felicità: credo anzi di non essere stato felice una sola volta – ma non è il mio ruolo e nemmeno il
mio compito. Provai però qualcosa che sta vicino alla contentezza, quella sera fatale, e non mi
duole confidarlo a queste pagine. Sono passati molti anni, avevamo scoperto che donna Maria si
incontrava con il duca d’Andria anche nelle sue stanze private di Palazzo di Sangro, e dunque
non si poteva più stare a guardare. Perché provai della contentezza? Perché bisogna fare ciò che
è giusto, anche se è doloroso e anche se le conseguenze saranno terribili come terribili sono state.
Ma soprattutto perché anch’io, quella sera, mi appropriai del suo odore, e ancora lo sento,
specialmente la sera, quando mi corico nella mia scatola dove da tempo non ho più né spazio né
modo di tracciare i miei disegni, perché il mio padrone si è ormai ritirato a una vita di monaco in
cui entrano solo la musica e il silenzio, io lo sento, sento l’odore del suo corpo che si aprì a me
fino a mostrarmi le viscere, sento il tuo profumo di femmina sulle mie braccia, Maria, e mi
ricordo e mi immagino le rotondità del corpo tuo, il biondo colore dei tuoi capelli, il timbro della
tua voce, che non aveva nulla diverso da quello di molte altre dame, ma che abbinato al moto
delle tue labbra diventava un emblema di desiderio, il compendio animale di tutto ciò per cui si
spasima e si muore. Eravamo a tavola, e lei chiamò a sé Laura Scala, che attendeva in un angolo:
la serva le si fece vicino e si chinò, quasi appoggiando l’orecchio alla bocca di Maria. Le mani di
Carlo si aggrapparono al legno del tavolo mentre guardavamo le due donne senza riuscire a
capire che cosa la moglie del mio padrone sussurrasse alla sua cameriera. Laura Scala uscì e
Maria, senza dire nulla, senza nemmeno rivolgere uno sguardo di spiegazione o complicità a suo
marito, finì di sorbire ciò che aveva nel piatto. Carlo si fece forza, coprì con un piatto la pietanza
che stava consumando, chiamò il Bardotti con un gesto delle dita e chiese che gli fosse versato
del vino nella coppa. Il pranzo proseguì in silenzio finché, da dietro la porta, si sentirono i passi
di qualcuno che si avvicinava e la voce di un bambino che rideva. Laura Scala entrò per prima
nella sala da pranzo, seguita da Silvia Albana che teneva in braccio il piccolo Emanuele e che si
Il piccolo Emanuele guardò la madre che gli allungava le braccia e, d’istinto, posò la testa sul
«Stavo per farlo addormentare» disse Silvia Albana, come a voler giustificare il gesto del
piccolo.
«Posalo a terra» disse Maria, e poi, rivolgendosi al figlio. «Vediamo se vieni da solo fino alla
tua mamma».
Silvia Albana accompagnò Emanuele a terra, lo aiutò a mettersi a quattro zampe, poi gli diede un
Emanuele rimase fermo per un istante, come interdetto. Si guardava le manine schiacciate sul
pavimento e ogni tanto sollevava la testa e vedeva Maria, che adesso si era inginocchiata e lo
fece alcuni
passi indietro verso la porta, avvicinandosi alla nutrice e osservando il piccolo che adesso aveva
portato avanti una manina sul pavimento e guardava la mamma, e quasi rideva, e spingeva con il
«Su, amore, vieni dalla mamma! Metti avanti l’altra manina!» ripeteva intanto Maria che,
camminando sulle ginocchia, si era nel frattempo avvicinata al piccolo di qualche passo.
Emanuele lanciò un verso, forse una piccola risata, e mosse all’improvviso le mani e le gambe:
fece un passo, forse due, e si stupì egli stesso di ciò che aveva fatto. Così si fermò, si mise
goffamente a sedere e, guardando ora la madre ora Silvia Albana, si mise a ridere e accennò un
breve applauso – cosa che probabilmente aveva imparato a fare insieme alla nutrice. Maria non
resistette e corse verso il figlio, lo prese tra le braccia che ancora applaudiva e lo riempì di baci
sulla guancia. Poi si voltò verso Carlo, per un istante madre e figlio guardarono il mio padrone, e
la madre, sul cui volto, adesso, stava la stessa luce che hanno le madonne nei dipinti del pittore
Carlo, che per tutto il tempo era rimasto seduto e in silenzio, sorrise e fece per dire qualcosa, ma
fu interrotto da un grido improvviso di Emanuele, che si era messo a piangere. Maria tentò di
consolarlo dandogli dei colpetti tra le scapole, mentre Silvia Albana, immobile sulla porta,
guardava madre e figlio senza poter intervenire, e in quello sguardo io colsi un lampo di
sufficienza. Il bimbo non si calmava, dalla sua faccia congestionata colavano lacrime e bava, ed
egli guardava un punto preciso dentro la sala da pranzo: il punto da dove, ritto in piedi, il mio
corpo aveva osservato tutta la scena. Infine Maria si decise, consentì a Silvia Albana di entrare
nella sala da pranzo e le mise in braccio il figlio. La nutrice lo trasse a sé, gli pulì il viso con un
fazzoletto, poi appoggiò l’ampio seno alla guancia del piccolo e cominciò a fare con la bocca il
verso che si fa per chiamare i gatti, ma con lentezza, e alternandolo a una breve nenia che ai miei
orecchi suonò come un «No no no» ripetuto sottovoce. Ben presto il piccolo si calmò, lo
«Dorme, padrona» disse lei, tenendo una mano sulla testa del piccolo, come a proteggerla.
«L’ho fatto piangere» disse Maria, dal cui volto era scomparsa la luce.
«Ma no, padrona: era solo stanco. Quando ci avete chiamati, lo stavo facendo addormentare».
«Certo che si è divertito» rispose Silvia Albana. «Siete la madre. Avete visto come vi è venuto in
(continua in libreria…)
GLI APPUNTAMENTI
-Mercoledì 27 febbraio, Libreria Coop Ambasciatori di via degli Orefici 19, Bologna, ore 18.
Tuena.
-Lunedì 11 marzo, Circolo dei Lettori di Torino, ore 19. Intervengono Federica Manzon e
– Sabato 16 marzo, Libri Come, Auditorium Parco della Musica, Roma, ore 15. Interviene
Tommaso Pincio.