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STEFANO ZAMBONI
Bioetica e spiritualità
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pre percorsi, ma oggi è forse necessaria una maggiore consapevo-
lezza, perché il riconoscimento e l’adesione ai valori in questione
non sono così scontati. Tali ambiti sono: il vangelo della vita, in-
tesa come accoglienza e donazione; la gloria del corpo, luogo di
apertura e comunione con l’altro; il senso della malattia come
tempo propizio per la fede; la morte quale compimento libero
dell’esistenza nel completo affidamento di sé.
1
Evangelium vitae 1: EV 14/2167.
2
Cf. G. DE SIMONE, La rivelazione della Vita. Cristianesimo e filosofia in Michel
Henry, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2007.
3 Evangelium Vitae 37: EV 14/2290.
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è in radice esperienza del riceversi, sul modello del Figlio di Dio
che si riceve totalmente dal Padre.
E, quindi, è vocazione alla consegna di sé, esigenza di dono:
la vita veramente degna di un uomo non consiste in un’autorea-
lizzazione individualistica, ma in una consegna di sé per far esse-
re l’altro. Anche qui Gesù si rivela come vivente vangelo della vi-
ta, essendo il pro-esistente per eccellenza, l’uomo-per-gli-altri.4 È
in lui che «si può comprendere e realizzare il senso più vero e più
profondo della vita: quello di essere un dono che si compie nel do-
narsi».5
Il vangelo della vita reclama pertanto un’idea di vita che supe-
ri la sua riduzione a bios. In effetti, nella rivelazione neotestamen-
taria essa è costitutivamente aperta alla dimensione dell’eternità,
alla vita piena (zoe). La spiritualità cristiana favorisce la compren-
sione della vita come dinamica e non semplicemente come fatto.
Vita è dono, non semplice fatto: e come tale vocazione, responsa-
bilità, destinazione. Il bios in se stesso richiede un ethos: questa è
la grande sfida dinanzi al pensiero della modernità, dove «bios ed
ethos hanno da lungo tempo preso sentieri divergenti, tanto da di-
venire del tutto estranei e irrelati».6
4 Cf. S. ZAMBONI, «Il Servo, il Figlio, il Fratello. L’essere per gli altri di Gesù,
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Del resto la prassi di Gesù di Nazaret va in questa direzione.
Il Verbo della Vita non solo si fa contemplare e udire: si fa anche
toccare (cf. 1Gv 1,1). «Un corpo mi hai dato»: è lo slogan, se si può
dire così, della missione del Figlio di Dio; e il corpo, riconosciuto
come dono, è il luogo del con-tatto salvifico. Il corpo di Gesù è
fatto per essere incontrato, toccato, contemplato: lo sanno bene
quanti si stringono attorno a lui per toccarlo e così essere guariti.
È la prossimità del Santo, ormai non più pensabile come il puro,
il separato, l’incontaminato. È la prossimità, per l’appunto, di un
tatto che risana.
Il corpo di Gesù è, insomma, corpo «dato», e dato per la co-
munione. E questo appare in maniera insuperabile nell’eucaristia,
paradigma per eccellenza della gloria del corpo.7 Il gesto di offer-
ta dell’ultima cena è anticipazione del venerdì santo e della do-
menica di Pasqua. Il corpo che i discepoli vedranno sulla croce è
un corpo fragile, inerme, profanato; il corpo risorto, glorioso, non
è un corpo diverso rispetto a questo, ma ne è svelamento del sen-
so, e della gloria. Il corpo glorioso, in cui rimangono le piaghe
della passione, è un corpo compiutamente donato. Per questo
l’eucaristia è comunione col corpo del Signore nell’atto del suo
darsi, cioè nella massima espressione della vita, se è vero – come
si ricordava sopra – che il suo senso si rivela come dono che si
compie nel donarsi.
Contro ogni disprezzo gnostico della carne, che fin da subito
tenta il pensiero cristiano (si pensi alla grandiosa opera di Ireneo,
tutta volta a smascherarne l’insidia), va ribadito il carattere euca-
ristico – e con ciò «carnale» – della spiritualità cristiana. La carne
non è mai riducibile a un insieme di cellule, il corpo non è mai
semplicemente corpo oggettivabile. È sempre corpo vivo, corpo
vissuto: «questo è il mio corpo dato per voi». La gloria del corpo è
nella sua possibilità, costantemente aperta, di essere corpo della
persona, corpo «mio», e con ciò luogo di dono, di comunione con
altri.
7
Cf. R. TREMBLAY, «L’eucaristia e la gloria del corpo», in L. MELINA – J.J. PÉ-
REZ-SOBA (a cura di), La soggettività morale del corpo (VS 48), Cantagalli, Siena 2012,
189-203.
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LA MALATTIA TEMPO PROPIZIO PER LA FEDE
cura di), Etica teologica nelle correnti della storia. Contributi dell’Accademia Alfonsiana
al secondo Congresso mondiale dei teologi morali cattolici, Lateran University Press-Edi-
tiones Academiae Alfonsianae, Città del Vaticano 2011, 97-107.
9 Cf. G. ANGELINI, La malattia, un tempo per volere. Saggio di filosofia morale, Vi-
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chiede solo l’accoglienza della fede. La malattia è così, non certo
l’unico, ma fra i più rilevanti, kairos della fede. Perché ciò sia pos-
sibile occorre però che il malato sia aiutato a entrare in questa
prospettiva, nient’affatto scontata né spontanea. Occorre che altri
lo aiutino a vivere così, a sentire la decisività di questa prova. Si
legga, a questo proposito, il suggestivo episodio evangelico del pa-
ralitico che viene portato davanti a Gesù da quattro persone (Mc
2,3-12). È perché Gesù vede la «loro» fede (cf. Mc 2,5) che può
compiere la guarigione e rimettere i peccati del malato. La malat-
tia diventa così esperienza, insieme, di relazione, affidamento, cu-
ra, perdono, salvezza. In una parola, di fede.
12 Cf. K. RAHNER, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio,
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nica veramente «buona». Il «corpo dato» fino alla morte è testi-
monianza della libertà più grande e dell’obbedienza più piena al-
la volontà del Padre. Offrendosi al Padre «con uno Spirito eterno»
(Eb 9,14), Gesù svela pienamente ciò di cui è vissuto; nella mor-
te egli può dare se stesso, compiutamente, irrevocabilmente. E
dandosi, suscitare comunione, perché il discepolo possa chiedergli
di morire con lui, come lui: «che io muoia per amore dell’amor
tuo, come tu ti sei degnato morire per amore dell’amor mio.13
Così la morte, enigma di condanna, può diventare «miste-
ro»,14 vale a dire libera ricapitolazione di quel vangelo della vita
che ostinatamente ci ricorda che essa – la vita – è dono, compito
e promessa.
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