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Pietro Saitta
Alice Goffman, On the Run
(doi: 10.3240/78490)
Ente di afferenza:
Universitgli studi di Milano Bicocca (unibicocca)
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Schede
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Didier Fassin, La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle
periferie urbane, Bologna, La Linea, 2013
La pubblicazione in italiano del lavoro di Didier Fassin sulla polizia francese (La
force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Paris, Seuil, 2011)
rappresenta una fortuna inaspettata: permette di accedere più facilmente a un
lavoro importante che, con un linguaggio chiaro e narrativo, unisce sapiente-
mente descrizione etnografica e analisi sociale. Soprattutto, La forza dell’ordine
è un notevole esempio di uso dell’antropologia come strumento di critica cultu-
rale e sociale. Studiando le squadre di polizia speciali nelle banlieue francesi, il
lavoro offre un efficace strumento per smascherare l’ideologia dominante, il di-
scorso egemonico dell’insicurezza urbana. Uno strumento tanto più utile perché
fondato su un approccio che illustra le contraddizioni e le conseguenze dram-
matiche e a volte assurde delle politiche disciplinari e dell’ideologia securitaria.
Spinto da motivazioni politiche e personali, Fassin ha deciso di osservare
le dinamiche della difficile interazione tra forze dell’ordine e abitanti della pe-
riferia, seguendo una squadra della Brigata anticrimine nelle sue ronde giorna-
liere per quasi due anni, a partire dal 2004. In questo modo, ponendosi accanto
ai poliziotti (ma non «dalla loro parte», come può facilmente accadere nelle
ricerche sulla polizia) è riuscito a indagare pratiche quotidiane, pregiudizi e
rappresentazioni ideologiche della banlieue – a osservare e analizzare, in altre
parole, buona parte dei fattori all’origine dei problemi tra polizia e cittadini delle
periferie. Come noto, i rapporti conflittuali tra polizia e abitanti dei quartieri
popolari sono uno dei grandi nodi all’origine di numerosi incidenti e sommosse.
Attraverso l’osservazione prolungata, a delinearsi è un quadro problema-
tico: l’assenza di fiducia, i pregiudizi e i timori dei poliziotti nei confronti degli
abitanti delle periferie producono una violenza a bassa intensità ma continua,
fatta di pattugliamenti, perquisizioni e arresti immotivati di giovani di classe
povera e immigrati. Una violenza tanto fisica quanto simbolica, che mira all’u-
miliazione e alla riaffermazione delle diseguaglianze sociali.
L’immersione parziale nel mondo dei poliziotti per cercare di comprendere
questo tipo di violenza permette a Fassin di svelare alcuni dei fattori che ne
sono all’origine. Da un punto di vista soggettivo, a influire direttamente sulle
interazioni tra polizia e cittadini delle periferie è la sfiducia reciproca: i poliziotti
non si fidano degli abitanti e tantomeno dei giovani dei quartieri popolari e,
in realtà, ne hanno paura, a causa della loro scarsa conoscenza delle realtà in
cui si trovano a lavorare e degli stereotipi negativi, rafforzati durante il loro
addestramento. Il fatto che le statistiche sulla criminalità affermino che gli atti
criminali non siano né frequenti né in aumento in Francia e che i quartieri
popolari siano relativamente tranquilli non modifica questo atteggiamento di
sfiducia. I poliziotti reagiscono alle proprie paure esibendo forza e autorità,
anche con atti vessatori e inutili, generando a loro volta sfiducia e paura presso
i giovani di origine immigrata che rappresentano i bersagli dei loro soprusi.
Lo sfoggio di forza e di autorità si traduce in una discriminazione violenta, il
cui fine principale è l’imposizione di un ordine gerarchico e di classe, prima
ancora che pubblico.
Al di là dei fattori soggettivi, inoltre, è all’opera un insieme di cause politi-
che e ideologiche che vanno ben oltre i singoli casi di discriminazione e violenza
poliziesca. Dietro le concrete azioni di polizia ritroviamo l’ideologia securitaria
sostenuta dai partiti di destra (al governo in Francia all’epoca della ricerca) ma
ormai diffusa anche presso molta parte delle forze europee di centro-sinistra.
Si tratta di un’ideologia che mira a sostituire allo stato sociale uno «stato pena-
le» fondato sul rafforzamento dei metodi di controllo disciplinare nei confronti
delle classi subalterne, sostenendo formazioni discorsive che rappresentano i
giovani immigrati, i sans-papiers e i rom come estranei alla società e come fonti
di pericolo, facendone dei nemici simbolici utili per ottenere consenso eletto-
rale.
L’ideologia securitaria, una volta al governo, si traduce, da un lato, nell’e-
logio e nel rafforzamento delle forze di polizia e, dall’altro, in una pressione sul-
la polizia stessa affinché si aumentino controlli e arresti, spingendo i poliziotti
a concentrarsi sui bersagli più facili, come i giovani di origine straniera e gli
immigrati irregolari, piuttosto che a indagare su crimini più difficili da risolve-
re. Nonostante tale pressione, le politiche repressive trovano consenso presso
i poliziotti, sia per la propensione (riscontrata anche da Fassin tra i membri
della squadra da lui osservata) verso ideologie di destra, sia per il sentimento
di legittimazione garantito dai governi di destra.
La ricerca di Fassin è convincente e dettagliata nel mostrare all’opera, sul
campo, le politiche securitarie, generatrici di una violenza simbolica quotidiana
nei confronti delle classi subalterne delle periferie. Spinta dall’ideologia e dalle
contraddizioni che ne discendono, la polizia si trasforma in «forza dell’ordine»:
strumento disciplinare per tenere sotto controllo gli abitanti delle banlieue, di-
fensore – violento – dell’ordine sociale classista e discriminante, più che dell’or-
dine pubblico.
Ancora una volta, Fassin dimostra di saper impiegare magistralmente l’et-
nografia come strumento di critica e di denuncia, riuscendo inoltre, in questo
libro, a unire i pregi narrativi dell’inchiesta alla ricchezza dell’analisi dei di-
scorsi ideologici.
Carlo Capello
Università di Torino
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Alice Goffman, On the Run. Fugitive Life in an American City, Chicago
- London, The University of Chicago Press, 2014
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Pietro Saitta
Università di Messina
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Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione
globale, Milano, Cortina, 2014
Il Futuro come fatto culturale (ed. or. The future as cultural fact. Essays on the
global condition, Londra-New York, Verso, 2013) richiama il percorso di analisi
sul capitalismo globale sviluppato dal Arjun Appadurai negli ultimi trent’anni.
La prima parte ripropone l’originale teoria del valore elaborata nel 1986
e fondata sullo scambio e sulle sue funzioni sociali e culturali. Ritenendo di
dover rompere col punto di vista marxiano, Appadurai, in maniera non sempre
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condivisibile, arrivava a ripensare lo statuto della merce come una «fase della
vita delle cose» (p. 29). L’importanza della situazione e del movimento degli
oggetti attraverso traiettorie dominanti (paths) e deviazioni contestative (diver-
sions) viene qui ripresa nell’analisi di fenomeni diversi: la politica gandhiana,
il nazionalismo, la violenza etnica. L’obiettivo è riflettere sulla conoscenza della
globalizzazione e sulla globalizzazione della conoscenza, più precisamente sul
divario tra l’importanza assunta dalla dimestichezza del sapere sul mondo e la
possibilità di acquisirla e quindi di agirla. Attraverso l’intreccio tra la circola-
zione di «forme» diverse (narrative, performative, coercitive) e le diverse forme
di «circolazione» (per velocità, scala e circuiti), Appadurai riafferma il progetto
di Modernity at Large (1996) di guardare alle modalità con cui «si produce la
località», alle negoziazioni, cioè, che in maniera sempre temporanea accolgono
o respingono «forme circolanti globalmente» (p. 99).
Nella seconda parte, attraverso l’etnografia su un movimento di attivisti
poveri per il diritto alla casa a Mumbai, l’autore tratteggia i contorni di una
città sempre più ostile verso la povertà, percepita come ostacolo alla valoriz-
zazione del paesaggio, all’ottimizzazione delle risorse pubbliche, all’efficienza
produttiva. Una diffusa ideologia anti-povero che si traduce nelle demolizioni
e negli sfratti a cui sono quotidianamente sottoposti gli abitanti degli slum e
che convive, palesandone il fallimento, con le politiche indiane di condivisione
della ricchezza e di partecipazione politica. In questo scenario i poveri diven-
tano invisibili, relegati ai margini della città e spogliati di diritti come quello
al lavoro – potendo ambire solo al ruolo di «faticatori» occupati a giornata o
a cottimo – e a forme basilari di dignità, quale quella di disporre di servizi igie-
nici. Eloquenti, a questo proposito, sono soprattutto le descrizioni crude della
condizione di soggetti umiliati al punto non solo di dormire sui marciapiedi, ma
di dover defecare in spazi aperti, di provvedere cioè, nell’indifferenza politica,
alla «gestione della propria merda» (p. 233). Per questo Appadurai parla di
«cittadini senza città» e, seguendo Agamben, di «nudi cittadini», cioè soggetti
privati del diritto umano primario a una casa, che garantisca una vita intima
e sociale dignitosa.
In questione è dunque il capitalismo globale e il modo in cui nella località,
cioè nelle azioni e in quelle che, riprendendo Anna Tsing, potremmo chiamare
«frizioni», se ne produce la rappresentazione. L’analisi dei flussi di capitale
slegati dalla produzione e dal lavoro inducono alle riflessioni, prevalentemen-
te teoriche, della terza parte, in cui, attingendo a un ampio repertorio che va
da Weber a Mauss, da Hirschman a Right, Appadurai analizza i processi di
finanziarizzazione dell’economia, il ruolo giocato dal rischio, dall’occasione e
dalla scommessa nell’azione imprenditoriale (le «tecnologie dell’incertezza»),
la privatizzazione della formazione da parte di operatori non indiani che hanno
contribuito a ridurre il sistema universitario in India a una «fabbrica di lauree»
(p. 383). Con questa analisi il cerchio della globalizzazione della conoscenza si
chiude, nella misura in cui queste trasformazioni, ampiamente esperibili anche
altrove, incidono profondamente non solo sulla capacità degli individui di inda-
gare in modo autonomo le proprie vite e i propri mondi, ma anche sulla separa-
zione tra la ricerca «di fascia alta» dei settori tecnologici, quella sociale e quella
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Veronica Redini
Università di Firenze
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Darren Thiel, Builders. Class, gender and ethnicity in the construction
industry, London - New York, Routledge, 2012
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note in un diario. I limiti incontrati nel lavoro sul campo sono stati molteplici,
anche se la sfiducia e l’incredulità inizialmente espresse dai lavoratori si sono
diluite con il passare delle settimane, nella misura in cui la figura del ricercatore
veniva ricondotta a un ruolo codificato, quello dello studente, mentre i rapporti
negativi con la direzione e gli appaltatori rimanevano inalterati, rendendo più
difficile indagare questi gruppi.
I limiti incontrati, e solo in parte superati, non hanno impedito a Thiel di
perseguire i due scopi principali della ricerca: quello di comprendere il lavoro
svolto nelle costruzioni e quello di evidenziare le relazioni culturali e informali
che regolano questo mondo.
Il primo obiettivo del libro si è concentrato sulla realtà del mondo del lavo-
ro vivo, solitamente trascurato per concentrarsi sul mercato del lavoro e sulla
legislazione che regola l’occupazione. Al centro della ricerca c’è quindi il lavoro
direttamente e concretamente erogato dalla forza-lavoro, con le sue specifiche
culture e pratiche, caratterizzate prevalentemente dall’autonomia professiona-
le. Quest’ultima costituisce storicamente un tratto caratteristico della classe
operaia (già evidenziato in alcuni testi classici come The Making of the English
Working Class di Edward P. Thompson, Memorie di classe di Zygmunt Bauman
e Learning to Labour di Paul Willis) e, in controtendenza rispetto ai processi
di industrializzazione e banalizzazione che hanno interessato il lavoro vivo nel
susseguirsi di diverse ondate di trasformazioni tecnologiche, rimane tale nel
caso del lavoro edile. Questa capacità di autonomia è determinata anche dal fatto
che i lavoratori dell’edilizia sono portatori di un sapere incorporato, un saper
fare mai pienamente trasferibile in specifiche tecnologie. La conservazione e la
riproduzione di un sapere non catturabile dalle macchine e, dunque, irriducibi-
le alla disciplina industriale e a quella dell’appropriazione capitalistica, hanno
consentito, in definitiva, almeno ad alcuni settori della classe operaia edile, di
conservare alti livelli di autonomia nei luoghi di lavoro.
La pratica dell’autonomia costituisce una forma di resistenza ai processi
di disciplinamento e, al tempo stesso, un riferimento materiale per l’identità
sociale dei lavoratori delle costruzioni. Essa è rafforzata dalla centralità che
riveste il corpo in questo tipo di attività produttiva. Il corpo è la fonte di ero-
gazione del lavoro vivo ma anche del potere sociale esercitato dai lavoratori,
così come della riproduzione di codici fondati sulla virilità e la mascolinità. Per
questo Thiel individua nel corpo un vero e proprio capitale fisico, che consente
ai lavoratori di andare oltre i confini simbolici dell’appartenenza di classe per
affermarsi come portatori di specifiche capacità e, dunque, del monopolio di
una forma di potere sociale.
I lavoratori dotati di queste capacità si (auto)collocano al di sopra di figure
sociali considerate marginali, tra le quali essi annoverano anche gli immigrati,
soprattutto quelli di recente arrivo in Inghilterra. Tale distanza sociale e simbo-
lica è accentuata dal fatto di considerare i nuovi immigrati come una minaccia
per i salari e le condizioni di impiego, in un mercato del lavoro già deregolato, in
cui la manodopera è molto flessibile, spesso assunta attraverso sub-contratti e
priva di tutele sindacali. Come è stato messo in evidenza da una ricerca analoga
condotta in Italia da Domenico Perrotta (Vite in cantiere, Il Mulino, 2011), il fatto
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Gennaro Avallone
Università di Salerno
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Jeffrey S. Juris, Alexis Khasnabish (Eds.), Insurgent Encounters.
Transnational Activism, Ethnography and the Political, Durham
- London, Duke University Press, 2013
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Vittorio Sergi
Università di Urbino
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Adriano Cancellieri, Hotel House. Etnografia di un condominio
multietnico, Trento, professionaldreamers, 2013
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Lorenzo Pedrini
Università di Milano Bicocca
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Enzo Vinicio Alliegro, Il totem nero. Petrolio, sviluppo e conflitti in
Basilicata, Cisu, Roma, 2012
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Pietro Saitta
Università di Messina
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Andrew Crabtree, Mark Rouncefield, Peter Tolmie, Doing Design
Ethnography, Londra, Springer, 2012
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presenta non a caso un’attenzione specifica alle pratiche di lavoro, oltre che al
lavoro interazionale (the machinery of interaction) che caratterizza qualunque
contesto della vita quotidiana (cfr. anche pp. 174-76), e offre a chi voglia dedi-
carsi alla loro analisi (a fini di design) tanto le ragioni metodologiche quanto le
indicazioni pratiche – entrambe emanazioni dei suddetti principi – per farlo.
Lo stesso può dirsi dei capitoli successivi (a tratti ripetitivi, data la relati-
va indipendenza reciproca, per chi legga il libro «tutto d’un fiato» e non sia
nuovo alla materia). Finding the Animal in the Foliage, ricco di utili esempi, si
concentra sul carattere metodico dell’azione-in-interazione umana quotidiana e
suggerisce come catturare etnograficamente i metodi dei membri. Il tema viene
approfondito nei due capitoli seguenti (capp. 5-6), dedicati al lavoro sul campo
(fieldwork) e alle tecniche di raccolta dati, mentre il settimo capitolo si occupa
dell’analisi, che dovrebbe produrre praxeological accounts del contesto lavora-
tivo in esame (p. 124 ss.), e l’ottavo (Informing Design) del suo «riversamento»
nel processo di design – poiché l’invito, per chi fa etnografia, è a «sporcarsi le
mani nel vero lavoro di design» (p. 137), quello cioè di innovazione (p. 152) tanto
degli artefatti quanto delle pratiche (p. 171). Troviamo validi consigli, infatti,
non solo per il lavoro di campo, ma anche e soprattutto, come già notava Mat-
thews (http://irsg.bcs.org/informer/2012/11/book-review-doing-design-ethno-
graphy/), per far sì che i risultati di tale lavoro possano partecipare attivamen-
te alla progettazione, grazie a strumenti quali documenti di specificazione dei
requisiti, modelli, scenari, storyboard, casi d’uso, sensitising studies, prototipi
e così via.
Benché forse capisca le ragioni della loro insistenza a riguardo, non con-
cordo con gli autori nel proporre ripetutamente l’idea che tutti possano «fare
campo», che sia facile, che non richieda apprendimento (pp. 111, 126, 159).
Mentre l’ultimo capitolo è sostanzialmente riassuntivo, è al nono che vengono
affidate le conclusioni: riprendendo l’idea di cui sopra per evidenziare l’impor-
tanza dell’autodisciplina epistemologica dell’etnografo, che «fa campo» ma an-
che analisi (pp. 159-61), gli autori rispondono a «fraintendimenti, obiezioni e
lamentele» riguardanti l’etnografia che sono comuni tra progettisti, sviluppato-
ri, ecc. Il capitolo rende un ottimo servizio all’approccio etnografico. Ritengo,
tuttavia, che anche il fieldwork necessiti di rigore (cfr. p. 176) e presenti le pro-
prie complessità – e penso che sottovalutarle sia rischioso.
Mi si lasci notare, in chiusura, che il «genere di sociologia» considera-
to solleva crescente interesse da parte di svariate hard sciences – dall’inge-
gneria all’informatica, dalla computer vision al business modeling – che sem-
pre più si focalizzano su aspetti sociali (sulla scia tanto della spinta di Hori-
zon 2020, quanto del fiorire dei big data) e che, nel farlo, paiono ritenere l’et-
nometodologia maggiormente «fattorizzabile» rispetto ad altri approcci tanto
sociologici quanto cognitivisti. Doing Design Ethnography, destinato com’è a
un pubblico multidisciplinare, può giocare un ruolo importante in questo pro-
cesso.
Chiara Bassetti
CNR e Università di Trento
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