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Il Mulino - Rivisteweb

Pietro Saitta
Alice Goffman, On the Run
(doi: 10.3240/78490)

Etnografia e ricerca qualitativa (ISSN 1973-3194)


Fascicolo 3, settembre-dicembre 2014

Ente di afferenza:
Universitgli studi di Milano Bicocca (unibicocca)

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Schede

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Didier Fassin, La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle
periferie urbane, Bologna, La Linea, 2013

La pubblicazione in italiano del lavoro di Didier Fassin sulla polizia francese (La
force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Paris, Seuil, 2011)
rappresenta una fortuna inaspettata: permette di accedere più facilmente a un
lavoro importante che, con un linguaggio chiaro e narrativo, unisce sapiente-
mente descrizione etnografica e analisi sociale. Soprattutto, La forza dell’ordine
è un notevole esempio di uso dell’antropologia come strumento di critica cultu-
rale e sociale. Studiando le squadre di polizia speciali nelle banlieue francesi, il
lavoro offre un efficace strumento per smascherare l’ideologia dominante, il di-
scorso egemonico dell’insicurezza urbana. Uno strumento tanto più utile perché
fondato su un approccio che illustra le contraddizioni e le conseguenze dram-
matiche e a volte assurde delle politiche disciplinari e dell’ideologia securitaria.
Spinto da motivazioni politiche e personali, Fassin ha deciso di osservare
le dinamiche della difficile interazione tra forze dell’ordine e abitanti della pe-
riferia, seguendo una squadra della Brigata anticrimine nelle sue ronde giorna-
liere per quasi due anni, a partire dal 2004. In questo modo, ponendosi accanto
ai poliziotti (ma non «dalla loro parte», come può facilmente accadere nelle
ricerche sulla polizia) è riuscito a indagare pratiche quotidiane, pregiudizi e
rappresentazioni ideologiche della banlieue – a osservare e analizzare, in altre
parole, buona parte dei fattori all’origine dei problemi tra polizia e cittadini delle
periferie. Come noto, i rapporti conflittuali tra polizia e abitanti dei quartieri
popolari sono uno dei grandi nodi all’origine di numerosi incidenti e sommosse.
Attraverso l’osservazione prolungata, a delinearsi è un quadro problema-
tico: l’assenza di fiducia, i pregiudizi e i timori dei poliziotti nei confronti degli
abitanti delle periferie producono una violenza a bassa intensità ma continua,
fatta di pattugliamenti, perquisizioni e arresti immotivati di giovani di classe
povera e immigrati. Una violenza tanto fisica quanto simbolica, che mira all’u-
miliazione e alla riaffermazione delle diseguaglianze sociali.
L’immersione parziale nel mondo dei poliziotti per cercare di comprendere
questo tipo di violenza permette a Fassin di svelare alcuni dei fattori che ne
sono all’origine. Da un punto di vista soggettivo, a influire direttamente sulle
interazioni tra polizia e cittadini delle periferie è la sfiducia reciproca: i poliziotti
non si fidano degli abitanti e tantomeno dei giovani dei quartieri popolari e,

ETNOGRAFIA E RICERCA QUALITATIVA - 3/2014


SCHEDE

in realtà, ne hanno paura, a causa della loro scarsa conoscenza delle realtà in
cui si trovano a lavorare e degli stereotipi negativi, rafforzati durante il loro
addestramento. Il fatto che le statistiche sulla criminalità affermino che gli atti
criminali non siano né frequenti né in aumento in Francia e che i quartieri
popolari siano relativamente tranquilli non modifica questo atteggiamento di
sfiducia. I poliziotti reagiscono alle proprie paure esibendo forza e autorità,
anche con atti vessatori e inutili, generando a loro volta sfiducia e paura presso
i giovani di origine immigrata che rappresentano i bersagli dei loro soprusi.
Lo sfoggio di forza e di autorità si traduce in una discriminazione violenta, il
cui fine principale è l’imposizione di un ordine gerarchico e di classe, prima
ancora che pubblico.
Al di là dei fattori soggettivi, inoltre, è all’opera un insieme di cause politi-
che e ideologiche che vanno ben oltre i singoli casi di discriminazione e violenza
poliziesca. Dietro le concrete azioni di polizia ritroviamo l’ideologia securitaria
sostenuta dai partiti di destra (al governo in Francia all’epoca della ricerca) ma
ormai diffusa anche presso molta parte delle forze europee di centro-sinistra.
Si tratta di un’ideologia che mira a sostituire allo stato sociale uno «stato pena-
le» fondato sul rafforzamento dei metodi di controllo disciplinare nei confronti
delle classi subalterne, sostenendo formazioni discorsive che rappresentano i
giovani immigrati, i sans-papiers e i rom come estranei alla società e come fonti
di pericolo, facendone dei nemici simbolici utili per ottenere consenso eletto-
rale.
L’ideologia securitaria, una volta al governo, si traduce, da un lato, nell’e-
logio e nel rafforzamento delle forze di polizia e, dall’altro, in una pressione sul-
la polizia stessa affinché si aumentino controlli e arresti, spingendo i poliziotti
a concentrarsi sui bersagli più facili, come i giovani di origine straniera e gli
immigrati irregolari, piuttosto che a indagare su crimini più difficili da risolve-
re. Nonostante tale pressione, le politiche repressive trovano consenso presso
i poliziotti, sia per la propensione (riscontrata anche da Fassin tra i membri
della squadra da lui osservata) verso ideologie di destra, sia per il sentimento
di legittimazione garantito dai governi di destra.
La ricerca di Fassin è convincente e dettagliata nel mostrare all’opera, sul
campo, le politiche securitarie, generatrici di una violenza simbolica quotidiana
nei confronti delle classi subalterne delle periferie. Spinta dall’ideologia e dalle
contraddizioni che ne discendono, la polizia si trasforma in «forza dell’ordine»:
strumento disciplinare per tenere sotto controllo gli abitanti delle banlieue, di-
fensore – violento – dell’ordine sociale classista e discriminante, più che dell’or-
dine pubblico.
Ancora una volta, Fassin dimostra di saper impiegare magistralmente l’et-
nografia come strumento di critica e di denuncia, riuscendo inoltre, in questo
libro, a unire i pregi narrativi dell’inchiesta alla ricchezza dell’analisi dei di-
scorsi ideologici.

Carlo Capello
Università di Torino

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SCHEDE

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Alice Goffman, On the Run. Fugitive Life in an American City, Chicago
- London, The University of Chicago Press, 2014

On the Run è un libro splendido e importante, che fa da contraltare al recente


volume di Didier Fassin, La forza dell’ordine, e che, anzi, andrebbe letto in
successione a quest’ultimo. Se il testo di Fassin, infatti, osserva la polizia del
«ghetto», gli uomini che praticano quotidianamente il controllo e l’occupazione
delle periferie, lo studio di Goffman ha per oggetto coloro che sono posti al centro
di queste stesse attività di sorveglianza. E poco importa che le vicende narrate
dall’uno abbiano luogo in Francia, mentre quelle studiate dall’altra si svolgano
negli Stati Uniti: il nuovo management del disordine, improntato ai principi della
«tolleranza zero», dell’etnicizzazione del controllo sociale e dell’organizzazione
«per obiettivi» dell’ordine pubblico, ha infatti sostanzialmente finito col ridurre
le differenze tra gli stili di polizia diffusi tra le due sponde dell’Atlantico (per lo
meno in un certo numero di paesi, tra cui la Francia) e appare caratterizzato
dalle stesse tecniche.
Frutto di una ricerca durata sei anni in un’area disagiata di Philadelphia,
il libro di Alice Goffman offre un ritratto intimo e doloroso di un gruppo di
giovani afro-americani esposti a una scientifica violenza strutturale e attivi nel
mercato informale della droga. La prospettiva impiegata è, in una certa misura,
multisituata: l’autrice assume, infatti, sia il punto di vista dei giovani uomini
che accompagna nel corso delle loro attività illecite e nel tempo libero, sia quello
delle donne che ne sono di volta in volta madri, sorelle e compagne e che sono
sottoposte a limitazioni della propria libertà e qualità di vita in misura equiva-
lente, a prescindere dal loro coinvolgimento diretto in attività criminali.
Come suggerito dal titolo, la fuga è la cifra di vite impegnate a sfuggire sia
una polizia sadica e capricciosa, sia la violenza spietata di competitori e nemici
divenuti tali per motivi spesso futili e casuali. Attraverso minuziose descrizioni
e la riproduzione di fitti dialoghi, Goffman ritrae un’autentica spirale del coin-
volgimento, volta inesorabilmente a trascinare tutti gli attori della narrazione
dentro esistenze quantomeno liminali, quando non pienamente devote alla pri-
gione, alla morte e, per l’appunto, alla fuga – così come accade nella maggior
parte dei casi descritti.
On the Run è uno studio «intimo», che ricerca tanto i sentimenti quanto la
struttura, offrendo un’infinità di spunti relativi tanto alla formazione del sé in un
ambiente deprivato, quanto alle tattiche, le forme di solidarietà, la dissoluzione
della comunità e le molteplici e contraddittorie dinamiche che caratterizzano
l’esistenza di questo gruppo di autentici «perseguitati dallo Stato».
Per oggetto, coinvolgimento e tensione emotiva, il lavoro di Alice Goffman
è affiancabile a Cercando rispetto di Bourgois, di cui ricalca per certi versi
l’importanza e la bellezza. E, se possibile, On the Run è un testo ancora più
«pubblico» di quanto non lo sia quello di Bourgois. Scritto in una lingua «natu-
rale», che non rinuncia cioè a formulazioni quotidiane (attraverso, per esempio,
l’impiego frequentissimo di contrazioni ed espressioni gergali) e che fa un uso
letterario più che accademico della stessa, confinando le discussioni teoriche
e i riferimenti bibliografici nelle note a fine testo, il libro si presta benissimo

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a dialogare con il pubblico dei non addetti ai lavori, intercettando, almeno in


potenza, spazi normalmente preclusi a lavori sociologici così seri e rigorosi (ne
è riprova l’attenzione riservata al libro dal New York Times).
Ma On the Run si apprezza anche perché, pur avendone tutti i requisiti
necessari, non sconfina mai in uno stile etnografico «machista», insieme eroico
ed egocentrico, come quello celebrato per esempio in Ethnography at the Edge
(curato da Jeff Farrell e Mark S. Hamm). Sembra infatti che, pur non negando
mai la propria presenza sulla scena, Alice Goffman mantenga sempre quel gusto
e quella sensibilità necessari a non sopravanzare i soggetti della narrazione,
ponendosi al centro delle vicende osservate e autocelebrandosi. Inoltre, il libro è
inserito avvertitamente all’interno di un «genere»: quello della nuova etnogra-
fia urbana della devianza, impostasi sul finire degli anni Novanta a opera di
autori come Duneier, il già citato Bourgois o Katz. È un testo, infatti, che gioca
consapevolmente con stilemi e riferimenti classici e recenti e che, peraltro, ha
ben presente la magia letteraria di lavori forse un po’ dimenticati come All Our
Kin di Stack o Tally’s Corner di Liebow. A proposito di stilemi, appare davvero
notevole l’appendice metodologica (questa sì a tratti un po’ machista), in cui ap-
prendiamo dei dilemmi, dei drammi e dei traumi esperiti dall’autrice nel corso
di una ricerca che è stata ben più che un esercizio accademico e che ha finito
col coincidere, nel senso più autentico, con la sua stessa esistenza.
È tuttavia importante sottolineare che, pur posto al confine tra la nuova
etnografia urbana, quella dei «sentimenti» (à la Katz) e quella classica, On the
Run sembra anche superare la «prova Wacquant», che consiste nel non dare
l’impressione di sottoporre i poveri a uno scrutinio voyeuristico, pervaso da
un’ideologia protestante molto affine al neoliberismo. Al contrario, Goffman
conduce il lettore per mano in un universo che è per molti versi fuori dal controllo
degli attori e che riduce le scelte e le strutture di opportunità, risucchiando le
persone in vortici drammatici a prescindere dalla loro volontà e dai loro tentativi
di sottrarvisi.
In conclusione, non resta che augurarsi che quanti più lettori e lettrici pos-
sano avvicinarsi a questo splendido testo e raccomandare che qualche editore
possa al più presto tradurlo in italiano.

Pietro Saitta
Università di Messina

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Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione
globale, Milano, Cortina, 2014

Il Futuro come fatto culturale (ed. or. The future as cultural fact. Essays on the
global condition, Londra-New York, Verso, 2013) richiama il percorso di analisi
sul capitalismo globale sviluppato dal Arjun Appadurai negli ultimi trent’anni.
La prima parte ripropone l’originale teoria del valore elaborata nel 1986
e fondata sullo scambio e sulle sue funzioni sociali e culturali. Ritenendo di
dover rompere col punto di vista marxiano, Appadurai, in maniera non sempre

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SCHEDE

condivisibile, arrivava a ripensare lo statuto della merce come una «fase della
vita delle cose» (p. 29). L’importanza della situazione e del movimento degli
oggetti attraverso traiettorie dominanti (paths) e deviazioni contestative (diver-
sions) viene qui ripresa nell’analisi di fenomeni diversi: la politica gandhiana,
il nazionalismo, la violenza etnica. L’obiettivo è riflettere sulla conoscenza della
globalizzazione e sulla globalizzazione della conoscenza, più precisamente sul
divario tra l’importanza assunta dalla dimestichezza del sapere sul mondo e la
possibilità di acquisirla e quindi di agirla. Attraverso l’intreccio tra la circola-
zione di «forme» diverse (narrative, performative, coercitive) e le diverse forme
di «circolazione» (per velocità, scala e circuiti), Appadurai riafferma il progetto
di Modernity at Large (1996) di guardare alle modalità con cui «si produce la
località», alle negoziazioni, cioè, che in maniera sempre temporanea accolgono
o respingono «forme circolanti globalmente» (p. 99).
Nella seconda parte, attraverso l’etnografia su un movimento di attivisti
poveri per il diritto alla casa a Mumbai, l’autore tratteggia i contorni di una
città sempre più ostile verso la povertà, percepita come ostacolo alla valoriz-
zazione del paesaggio, all’ottimizzazione delle risorse pubbliche, all’efficienza
produttiva. Una diffusa ideologia anti-povero che si traduce nelle demolizioni
e negli sfratti a cui sono quotidianamente sottoposti gli abitanti degli slum e
che convive, palesandone il fallimento, con le politiche indiane di condivisione
della ricchezza e di partecipazione politica. In questo scenario i poveri diven-
tano invisibili, relegati ai margini della città e spogliati di diritti come quello
al lavoro – potendo ambire solo al ruolo di «faticatori» occupati a giornata o
a cottimo – e a forme basilari di dignità, quale quella di disporre di servizi igie-
nici. Eloquenti, a questo proposito, sono soprattutto le descrizioni crude della
condizione di soggetti umiliati al punto non solo di dormire sui marciapiedi, ma
di dover defecare in spazi aperti, di provvedere cioè, nell’indifferenza politica,
alla «gestione della propria merda» (p. 233). Per questo Appadurai parla di
«cittadini senza città» e, seguendo Agamben, di «nudi cittadini», cioè soggetti
privati del diritto umano primario a una casa, che garantisca una vita intima
e sociale dignitosa.
In questione è dunque il capitalismo globale e il modo in cui nella località,
cioè nelle azioni e in quelle che, riprendendo Anna Tsing, potremmo chiamare
«frizioni», se ne produce la rappresentazione. L’analisi dei flussi di capitale
slegati dalla produzione e dal lavoro inducono alle riflessioni, prevalentemen-
te teoriche, della terza parte, in cui, attingendo a un ampio repertorio che va
da Weber a Mauss, da Hirschman a Right, Appadurai analizza i processi di
finanziarizzazione dell’economia, il ruolo giocato dal rischio, dall’occasione e
dalla scommessa nell’azione imprenditoriale (le «tecnologie dell’incertezza»),
la privatizzazione della formazione da parte di operatori non indiani che hanno
contribuito a ridurre il sistema universitario in India a una «fabbrica di lauree»
(p. 383). Con questa analisi il cerchio della globalizzazione della conoscenza si
chiude, nella misura in cui queste trasformazioni, ampiamente esperibili anche
altrove, incidono profondamente non solo sulla capacità degli individui di inda-
gare in modo autonomo le proprie vite e i propri mondi, ma anche sulla separa-
zione tra la ricerca «di fascia alta» dei settori tecnologici, quella sociale e quella

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SCHEDE

della stragrande maggioranza della popolazione, sottoposta «al meccanismo di


conferimento di credenziali» (p. 383).
L’ampio panorama temporale e tematico di questo volume abbraccia feno-
meni diversi della contemporaneità, di cui Appadurai – ma si potrebbe dire
la buona pratica etnografica – mostra costantemente le connessioni. Difficile
quindi non trovare importanti suggerimenti su ciò che lo sguardo etnografico
deve includere nell’analisi tanto della povertà nelle megalopoli, quanto dei mi-
granti «faticatori» nelle campagne italiane, o degli anziani poveri invisibili nelle
loro case nell’Europa del Welfare State. Altrettanto difficile non riconoscere la
ragionevolezza della critica rivolta da Appadurai fin dal titolo del volume all’an-
tropologia per aver trascurato, nell’elaborazione di un modello sistematico di
cultura, la dimensione del futuro, intesa come capacità intrinseca alla combina-
zione di norme, disposizioni e pratiche culturali. Prenderne atto significa lan-
ciare la sfida di un nuovo dialogo con le discipline economiche, che più di altre
hanno fatto proprio il campo delle progettualità e delle aspirazioni degli attori,
su un terreno strategico come quello dello sviluppo. Qui, dove non a caso la
presenza degli antropologi (nei progetti quanto nella formazione universitaria)
figura solo come consulenza accessoria, si gioca infatti la partita di una capacità
di aspirare al futuro e di esercitare una critica delle condizioni che la ostacolano,
che non sono mai separabili da linguaggi, valori e norme altamente specifici.
La sfida è dunque lanciata soprattutto agli antropologi, perché abbandonino i
polverosi repertori del passato e della conservazione in cui continuano a trovare
rifugio e si confrontino con la politica e l’economia globali, contribuendo quindi
a superare confini disciplinari ormai irragionevoli, la cui difesa potrebbe solo
segnare il declino delle scienze sociali.

Veronica Redini
Università di Firenze

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Darren Thiel, Builders. Class, gender and ethnicity in the construction
industry, London - New York, Routledge, 2012

La poesia Domande di un lettore operaio di Bertolt Brecht inizia chiedendosi


«Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? Dentro i libri ci sono i nomi dei re. I re
hanno trascinato quei blocchi di pietra?» e continua con interrogativi simili sui
reali costruttori delle case di Babilonia, della Grande Muraglia, degli archi di
Roma, dei palazzi di Bisanzio e della favolosa Atlantide. Questo libro di Darren
Thiel muove da considerazioni simili, evidenziando come «sebbene gli edili
costruiscano, riparino e conservino le infrastrutture fisiche delle nostre società,
lavorino negli spazi privati delle nostre case e dei nostri luoghi di lavoro, [...] il
mondo accademico ha teso a prestare attenzione solo agli edifici, al loro design
ed alle loro tecnologie ma non al lavoro degli edili stessi» (p. 1).
Il libro è l’esito di un’etnografia realizzata all’interno di un cantiere nella
città di Londra, nel quale Thiel è stato impiegato per un anno, conducendo 32
interviste in profondità, registrando molteplici informazioni e raccogliendo altre

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SCHEDE

note in un diario. I limiti incontrati nel lavoro sul campo sono stati molteplici,
anche se la sfiducia e l’incredulità inizialmente espresse dai lavoratori si sono
diluite con il passare delle settimane, nella misura in cui la figura del ricercatore
veniva ricondotta a un ruolo codificato, quello dello studente, mentre i rapporti
negativi con la direzione e gli appaltatori rimanevano inalterati, rendendo più
difficile indagare questi gruppi.
I limiti incontrati, e solo in parte superati, non hanno impedito a Thiel di
perseguire i due scopi principali della ricerca: quello di comprendere il lavoro
svolto nelle costruzioni e quello di evidenziare le relazioni culturali e informali
che regolano questo mondo.
Il primo obiettivo del libro si è concentrato sulla realtà del mondo del lavo-
ro vivo, solitamente trascurato per concentrarsi sul mercato del lavoro e sulla
legislazione che regola l’occupazione. Al centro della ricerca c’è quindi il lavoro
direttamente e concretamente erogato dalla forza-lavoro, con le sue specifiche
culture e pratiche, caratterizzate prevalentemente dall’autonomia professiona-
le. Quest’ultima costituisce storicamente un tratto caratteristico della classe
operaia (già evidenziato in alcuni testi classici come The Making of the English
Working Class di Edward P. Thompson, Memorie di classe di Zygmunt Bauman
e Learning to Labour di Paul Willis) e, in controtendenza rispetto ai processi
di industrializzazione e banalizzazione che hanno interessato il lavoro vivo nel
susseguirsi di diverse ondate di trasformazioni tecnologiche, rimane tale nel
caso del lavoro edile. Questa capacità di autonomia è determinata anche dal fatto
che i lavoratori dell’edilizia sono portatori di un sapere incorporato, un saper
fare mai pienamente trasferibile in specifiche tecnologie. La conservazione e la
riproduzione di un sapere non catturabile dalle macchine e, dunque, irriducibi-
le alla disciplina industriale e a quella dell’appropriazione capitalistica, hanno
consentito, in definitiva, almeno ad alcuni settori della classe operaia edile, di
conservare alti livelli di autonomia nei luoghi di lavoro.
La pratica dell’autonomia costituisce una forma di resistenza ai processi
di disciplinamento e, al tempo stesso, un riferimento materiale per l’identità
sociale dei lavoratori delle costruzioni. Essa è rafforzata dalla centralità che
riveste il corpo in questo tipo di attività produttiva. Il corpo è la fonte di ero-
gazione del lavoro vivo ma anche del potere sociale esercitato dai lavoratori,
così come della riproduzione di codici fondati sulla virilità e la mascolinità. Per
questo Thiel individua nel corpo un vero e proprio capitale fisico, che consente
ai lavoratori di andare oltre i confini simbolici dell’appartenenza di classe per
affermarsi come portatori di specifiche capacità e, dunque, del monopolio di
una forma di potere sociale.
I lavoratori dotati di queste capacità si (auto)collocano al di sopra di figure
sociali considerate marginali, tra le quali essi annoverano anche gli immigrati,
soprattutto quelli di recente arrivo in Inghilterra. Tale distanza sociale e simbo-
lica è accentuata dal fatto di considerare i nuovi immigrati come una minaccia
per i salari e le condizioni di impiego, in un mercato del lavoro già deregolato, in
cui la manodopera è molto flessibile, spesso assunta attraverso sub-contratti e
priva di tutele sindacali. Come è stato messo in evidenza da una ricerca analoga
condotta in Italia da Domenico Perrotta (Vite in cantiere, Il Mulino, 2011), il fatto

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SCHEDE

di proporsi come lavoratori disposti a essere più veloci a un prezzo inferiore


rischia di rompere le gerarchie nazionali del lavoro e gli equilibri che queste
assicurano e di mettere in discussione condizioni, salari e rapporti di forza van-
taggiosi per i lavoratori maggiormente specializzati o comunque con un panie-
re di diritti consolidati. Autonomia e distanza dalla popolazione immigrata si
associano, in definitiva, nelle forme culturali espresse dagli operai edili con cui
Thiel ha svolto la ricerca.
Il secondo obiettivo del lavoro è di osservare direttamente alcuni mecca-
nismi che regolano i rapporti commerciali ed economici nel comparto delle co-
struzioni, dimostrando «come le vite dei lavoratori, il lavoro e l’industria dell’e-
dilizia siano modellati attraverso relazioni culturali forgiate in rapporto a più
generali fattori sociali, economici e politici, che hanno prodotto e riprodotto
modelli di stratificazione sociale» (p. 155). In queste relazioni sono risultate
centrali quelle di tipo informale e illegittimo. Esse regolano i rapporti di sub-
appalto così come il mercato del lavoro e le sue linee di divisione su base etni-
ca. Come è stato studiato anche da una parte della sociologia della cultura e
della devianza, l’informalità nelle relazioni economiche non è una pratica geo-
graficamente localizzata (non si osserva soltanto nei Sud del mondo) né, tanto
meno, è un residuo del passato pre-industriale o pre-capitalista. L’informalità
è una risorsa determinante nella regolazione sociale del comparto dell’edilizia
britannica del nuovo secolo.
Il capitalismo, dunque, si dispiega nei rapporti di produzione giungendo
a influenzare tutte le pratiche di lavoro, ma esso incontra limiti e ostacoli non
sempre prevedibili o visibili, come quelli rappresentati dai capitali dei lavorato-
ri, dai saperi non estraibili e appropriabili, dalle loro riserve di autonomia, così
come dalle tradizioni, dalle relazioni e dalle forme di regolazione sociale vigenti
a livello locale. Questo insieme di condizioni filtra la portata delle trasformazio-
ni e l’impatto dei processi economici globali e rinvia alla necessità (anche) di
ricerche localizzate, riproponendo la rilevanza di un metodo etnografico capace
di osservare i meccanismi e le relazioni sociali nel loro farsi concreto, renden-
doli visibili e comprensibili, riconducendo alla durezza della terra – con i suoi
rapporti materiali di forza e di potere – i dibattiti sull’occupazione, sul mercato
del lavoro così come sull’estetica urbana e l’architettura contemporanea tanto
spesso dispersi nel cielo impalpabile delle idee.

Gennaro Avallone
Università di Salerno

x
Jeffrey S. Juris, Alexis Khasnabish (Eds.), Insurgent Encounters.
Transnational Activism, Ethnography and the Political, Durham
- London, Duke University Press, 2013

Il panorama dei movimenti sociali contemporanei è animato da ondate potenti e


irregolari di protesta e di scontro, nel quadro di una crisi globale che, se in Nord
America e in Europa scuote le basi della coesione sociale, in molti paesi al Sud

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SCHEDE

e alla periferia delle formazioni geopolitiche egemoniche fa sì che estesi movi-


menti di protesta degenerino in guerre civili e regimi militari. L’«altro mondo»
possibile sognato e disegnato dal movimento dei Forum Sociali Mondiali nato
a Porto Alegre nel 2002 sembra scomparso. Per questo è interessante immer-
gersi nella lettura di Insurgent Encounters, una raccolta di saggi dal marcato
carattere riflessivo, che getta una luce retrospettiva sulla genesi dei movimenti
anticapitalisti di oggi, descrivendo il rapporto tra una rete transnazionale di
etnografi e l’articolato movimento «altermondialista» che si è manifestato tra
gli anni ’90 e la prima decade del 2000.
Insurgent Encounters ricapitola, infatti, il lavoro di una rete di ricercatori-
attivisti accomunati dall’interesse per lo studio delle dinamiche dei movimenti
sociali transnazionali, nell’intersezione tra pratica socio-politica e attività di
ricerca. Si tratta quindi di una ricerca dall’interno, che mira a far emergere
processi e dinamiche che spesso «sono rese più oscure da approcci maggior-
mente oggettivisti». In questo senso, la ricerca si inserisce nel solco tracciato
dall’influente lavoro curato nel 1998 da Sonia Alvarez, Evelina Dagnino e Arturo
Escobar, Cultures of Politics, Politics of Cultures. Più in generale, il rapporto
stretto che, soprattutto negli Stati Uniti, lega l’etnografia dei movimenti sociali
agli studi culturali ha contribuito ad approfondire la critica del ruolo delle rap-
presentazioni culturali e delle soggettività nella produzione delle scienze sociali.
Il contesto a cui fanno riferimento tutti i lavori è quello del movimento
per la giustizia globale, erroneamente etichettato in Italia come «No Global»,
che secondo la maggior parte degli autori ha avuto origine nelle contestazioni
del vertice WTO di Seattle nel novembre 1999, generando poi un ciclo trans-
nazionale di proteste dai toni anche molto radicali che si chiude con il vertice
di Heiligendamm (Germania) nell’estate del 2007. Il rapporto tra etnografo-at-
tivista e movimenti sociali è quindi al centro di riflessioni che si interrogano
sulla costruzione dei saperi critici, sul ruolo di etnicità, razza e genere e, più in
generale, delle relazioni di potere tra i membri delle organizzazioni e dei gruppi
informali. I principali contesti delle ricerche sono il movimento dei Forum So-
ciali, a livello globale e regionale, i movimenti indigeni transnazionali, le reti di
attivisti e di eventi di protesta transnazionali e il ruolo delle forme autogestite
di comunicazione elettronica (Indymedia, software libero).
Il saggio di Geoffrey Pleyers, «From Local Ethnographies to Global Move-
ment», presenta una descrizione molto articolata di quattro diverse culture po-
litiche, organizzative e materiali presenti all’interno del cosiddetto movimento
alter-mondialista: i progetti autonomi delle comunità indigene zapatiste messi-
cane, un centro culturale alternativo a Liegi, la frangia radicale del movimento
piquetero argentino e le reti più cosmopolite e mobili dei giovani attivisti in-
ternazionali. Attraverso il montaggio incrociato delle descrizioni di questi mon-
di, Pleyers attinge a uno degli approcci più interessanti e comuni a questa rac-
colta, evidenziando la necessità e le potenzialità di una ricerca multi-situata,
finalizzata cioè a far emergere e valorizzare flussi e connessioni rispetto alla
comparazione di singoli contesti isolati. Di particolare interesse anche il saggio
di Tish Stringer, «This is What Democracy Looked Like», che fornisce una ricca
descrizione dall’interno della nascita del progetto di comunicazione elettronica

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SCHEDE

Indymedia e legge i cambiamenti nella soggettività della ricercatrice in rapporto


alle stesse condizioni materiali della produzione di informazione in rete.
Tutti i contributi del volume si misurano con il tema del significato e delle
forme dell’impegno politico militante dell’etnografo, e quindi del rapporto tra
questo impegno e l’oggettività del lavoro di ricerca. Sebbene nessuna riflessione
riesca a sciogliere interamente i nodi teorici e le tensioni soggettive degli autori,
il fatto di rendere esplicito questo conflitto permette di comprendere le ragioni
del diffuso interesse dei giovani etnografi per i movimenti sociali come oggetto
e contesto di una ricerca socialmente impegnata.
L’approccio metodologico condiviso dalla maggior parte degli autori mostra
forse un limite quando rappresenta l’etnografia come produzione di testi «ca-
ratterizzati da uno spessore descrittivo e da una stretta attenzione al dettaglio,
al contesto, al tono», spostandosi però troppo velocemente dal piano soggettivo
alla formulazione di giudizi di valore. I frequenti riferimenti ai lavori di Bura-
woy non sembrano stimolare nei curatori una più approfondita riflessione sulla
natura dell’osservazione e della raccolta di dati etnografici, spesso presentati
come elemento di cornice e non come base materiale delle elaborazioni teori-
che successive. Grandi assenti dalla maggior parte delle descrizioni sono gli
avversari di questi movimenti, forze attive e passive che ne hanno contrastato
spesso con efficacia l’azione e lo sviluppo: reti di potere transnazionali, forze di
polizia, manager e amministratori pubblici, sistemi tecnici di sorveglianza, ecc.
In questo modo la descrizione della protesta rischia di ridurla a un rituale senza
conflitto e le culture subalterne somigliano a un colorato carnevale di stili di
vita compatibili con la vasta offerta di merci immateriali del contro-movimento
descritto da Burawoy come la terza ondata di mercificazione in corso.
In definitiva, Insurgent Encounters raccoglie un ampio catalogo di descri-
zioni e riferimenti che restituiscono un quadro articolato dei movimenti sociali
anti-capitalisti del decennio passato. Di particolare interesse, per il contesto
italiano, è l’attenzione tipica delle culture antagoniste anglosassoni e sudameri-
cane alla qualità delle relazioni tra militanti, alle caratteristiche della leadership
e alla distribuzione del potere all’interno dei movimenti. Ad eccezione di alcune
ricerche recenti, un simile sguardo non sembra aver attecchito alle nostre lati-
tudini, e già questo è un motivo di riflessione.

Vittorio Sergi
Università di Urbino

x
Adriano Cancellieri, Hotel House. Etnografia di un condominio
multietnico, Trento, professionaldreamers, 2013

In questo volume Adriano Cancellieri presenta i risultati di una lunga etnografia


sulla vita di un grande condominio multietnico situato a Porto Recanati, nelle
Marche. Obiettivo principale dell’autore è comprendere i processi di insedia-
mento residenziale delle minoranze migranti in un contesto in cui (con)vivono
circa quaranta differenti gruppi nazionali.

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SCHEDE

Condominio o «mondodominio» (p. 15) – come l’autore definisce l’ogget-


to e il campo del proprio studio – l’Hotel House è un edificio di architettura
razionalista progettato alla stregua di un complesso residenziale autonomo sul
finire degli anni Sessanta, con 17 piani e 480 appartamenti, progressivamente
trasformatosi da residence di villeggiatura, sua funzione originaria, a luogo di
concentrazione abitativa di popolazioni in prevalenza straniere. Muovendo dal
presupposto che ogni territorio è in divenire, a causa dell’intreccio di dinamiche
endogene ed esogene, Cancellieri narra con precisione sia la marginalizzazio-
ne a cui è storicamente soggetto l’Hotel House sia le forme di riproduzione e
resistenza a simili meccanismi attuate nell’ultimo decennio dai suoi residenti.
Il libro presenta inoltre ricchi stralci di diari di campo, interviste, fotografie,
tabelle, dépliant storici e ritagli di stampa locale.
Il primo capitolo si concentra sulla marginalità morfologica della struttura,
mai integrata al tessuto urbano circostante anche a causa di specifiche congiun-
ture economiche. Il secondo capitolo penetra nel cuore dell’Hotel House con-
temporaneo, proiettando il lettore nell’esperienza degli spazi privati e pubblici
dell’immobile, tra appartamenti privati, rituali collettivi, incontri negli esercizi
commerciali e lungo i porticati del pianterreno. Utilizzando il concetto di «capi-
tale spaziale» (p. 33), Cancellieri avanza con convinzione la tesi che i grands en-
sembles non sono affatto terreno fertile per la proliferazione di comportamenti
anomici e disorganizzazione sociale. In contrasto con una certa vulgata essen-
zialista, l’autore mostra efficacemente come la significazione quotidiana dello
spazio di vita da parte degli attori sociali situati sia cruciale per dare espressione
a identità individuali e sostanziare solidarietà tra soggettività eterogenee.
Sempre di esperienza spaziale trattano i capitoli terzo e quarto, ma adot-
tando prospettive differenti: il primo infatti illustra i vincoli e le opportunità
di cui dispongono le tre principali minoranze nella minoranza – donne, adole-
scenti e italiani; il secondo ripercorre due mobilitazioni di residenti – datate
rispettivamente 2005 e 2011 – che si proponevano di denunciare tanto le attivi-
tà delinquenziali perpetrate nei pressi dell’edificio quanto la stigmatizzazione
mediatica e l’abbandono istituzionale in cui versava il palazzo. Infine, il quinto
capitolo isola gli otto «fattori contestuali» (p. 115) affiorati nel corso dello stu-
dio, suggerendo così un metodo etnografico per osservare, interrogare e ana-
lizzare ulteriori circostanze di «concentrazione residenziale di minoranze» (p.
115).
Oltre a una scrittura densa, guidata da una coerente applicazione della
strumentazione concettuale, ciò che più risulta apprezzabile di questo lavoro
sono almeno due aspetti: l’approccio intersezionale scelto dal ricercatore per
esaminare il fenomeno specifico e il tentativo di sistematizzazione dello sguardo
sociologico a partire dall’osservazione di un solo, esemplare case study.
Di qui tuttavia, a differenza di quanto ci si aspetterebbe, nell’appendice
metodologica l’autore evita di tematizzare l’esemplarità dell’oggetto empirico
trattato. Infatti, l’Hotel House è un margine socio-spaziale più unico che raro
nel paesaggio urbano europeo. E nonostante per Cancellieri il margine sia a
un tempo soggetto della ricerca e chiave ermeneutica attorno cui s’informa lo
studio, in tale sezione egli non intraprende alcuna riflessione sul perché, meto-

– 547 –
SCHEDE

dologicamente, abbia senso generalizzare a partire dall’esame di un peculiare


margine. Utilizzando le parole di un’autrice che del margine ha tessuto l’elogio,
è sul bordo che «la profondità è assoluta» (hooks, Elogio del margine). Un’ultima
segnalazione sull’uso delle immagini, sempre rappresentative benché talvolta
sovrabbondanti: il loro inserimento nel testo sarebbe stato più fecondo se fos-
sero state corredate da adeguate didascalie e commenti.

Lorenzo Pedrini
Università di Milano Bicocca

x
Enzo Vinicio Alliegro, Il totem nero. Petrolio, sviluppo e conflitti in
Basilicata, Cisu, Roma, 2012

Totem nero è un documentatissimo testo che racconta il secolo di «passioni»


suscitate dal petrolio in Basilicata: a Tramutola prima e a Viggiano e nella Valle
dell’Agri poi. La storia del petrolio in questo lembo del Mezzogiorno, infatti,
è qualcosa di più che quella di un pur dibattuto processo d’insediamento indu-
striale. Essa è esattamente una «passione»: un feticcio in grado di veicolare
speranze, sogni, identità e causare reazioni veementi in difesa e in opposizione
all’oggetto stesso.
Ma quella descritta nel libro di Alliegro è anche una storia politica, emble-
matica dei significati e delle pratiche che hanno accompagnato il discorso sullo
sviluppo nelle parti più «arretrate» del Paese. È una vicenda, insomma, che
illustra il modo in cui una risorsa energetica strategica ha finito col contrasse-
gnare orizzonti, discorsi e prospettive pubbliche, seducendo le popolazioni e
le classi politiche succedutesi nel corso del tempo e dando nuova linfa, infine,
a tradizionali divisioni del tessuto sociale intaccato a partire dalla fine degli
anni Ottanta del Novecento dalle trivelle e dal COVA dell’Eni, una famigerata
raffineria eufemisticamente denominata Centro Olio.
Le pagine di Alliegro mostrano come il petrolio, pur essendo venuto a galla
solo in anni recenti, sia stato per tutto il corso del secolo scorso un fenomeno di
fede, se non addirittura para-religioso: infatti, pur in presenza di analisi geolo-
giche contraddittorie che suggerivano la scarsezza e persino l’inesistenza del
prezioso liquido nelle viscere della terra, il mondo politico lucano e le popola-
zioni dell’area non hanno mai smesso di credere che esso fosse presente e che
da questo rinvenimento sarebbe derivato il benessere di quelle zone il cui no-
me risuonava nella storia d’Italia come epitome della povertà e della depressio-
ne. Cotanta fede verrà ricompensata per l’appunto una trentina d’anni orsono,
quando i primi fitti giacimenti verranno ritrovati e l’area della Valle dell’Agri
si ritroverà perforata in lungo e in largo e i fondi agricoli appariranno conti-
nuamente sospesi tra la proverbiale carota, rappresentata da allettanti offerte
d’acquisto, e il bastone, costituito dell’esproprio agito contro quei proprietari
che si mostreranno immuni alle lusinghe del denaro. Sullo sfondo si vede di-
spiegarsi un’Eni volitiva e capricciosa, che si muove in barba ai regolamenti alla
stregua di un’autentica potenza coloniale, approfittando dell’indecisione degli

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SCHEDE

enti locali, oscillanti tra rivendicazioni localistiche, aspirazione alle royalties e


sudditanza nei confronti di un potere illimitato.
In questo quadro di stravolgimenti sociali e ambientali, fanno ben presto
apparizione le lotte. Un associazionismo frammentato, talvolta episodico e fo-
riero di istanze tra loro contraddittorie, come il diritto all’ambiente e quello al
lavoro, prendono ad agitare il campo. E come sempre in questi casi, lo scontro
finirà con l’avere come posta non soltanto la salvaguardia dell’ambiente o dello
sviluppo, ma l’egemonia nel processo di produzione dei «discorsi»: si tratterà,
infatti, di una lotta intorno ai saperi scientifici, ai luoghi e ai modi di produ-
zione delle conoscenze in materia ambientale ed epidemiologica. Si tratterà di
imporre il corpo come spazio e sensore della salute, in contrapposizione alle
tecnologie e ai saperi specialistici. Ma si tratterà anche di stabilire chi e come
debba essere risarcito e chi debba deciderlo. Ed ecco dunque il proliferare di
questioni persino filosofiche con cui gli attori finiranno con lo scontrarsi: è giu-
sto compensare? È possibile cedere l’ambiente in cambio di denaro? E a chi
dovrebbe andare il denaro? Ai Comuni, alla Regioni, alle persone? È credibile
pensare di potere bloccare lo sviluppo?
Questa matassa di temi, la cui discussione prende non a caso oltre 400 pa-
gine, è sviluppata in maniera certosina per lo più attraverso l’impiego di docu-
mentazione giuridica, autorizzazioni amministrative, verbali di Consigli comu-
nali e regionali, esposti alla Procura della Repubblica, denunce presentate alle
autorità di pubblica sicurezza, volantini e materiali prodotti dalle associazioni
ambientaliste. Alliegro tratta questa mole di materiali riuscendo generalmente
a non annoiare il lettore e a trasformarla in qualcosa di vivo. Pur tuttavia – e si
tratta di una critica fatta esclusivamente nella prospettiva di un pubblico com-
posto in massima parte di etnografi – si potrebbe notare che a latitare in questo
libro sono proprio le persone, che parlano per lo più attraverso i propri atti
giuridici. Ne deriva che le interpretazioni di taglio maggiormente antropologico,
per quanto siano sempre plausibili, risultano spesso forzate e sostanzialmente
indimostrate. A tratti si ha l’impressione che il testo avrebbe potuto essere or-
ganizzato in maniera più consecutiva e risultare meno ripetitivo. Infine, non
si può fare a meno di notare che l’analisi appare eccessivamente agganciata
al caso, rinunciando così alla comparazione e lasciando le teorizzazioni a uno
stato «implicito» (anche in ragione della scelta di non citare alcun autore e di
indicare i riferimenti in fondo al testo, come generiche fonti). Nonostante que-
sto, Totem nero appare come un libro istruttivo, che disseziona magistralmente
la vicenda in questione.

Pietro Saitta
Università di Messina

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SCHEDE

x
Andrew Crabtree, Mark Rouncefield, Peter Tolmie, Doing Design
Ethnography, Londra, Springer, 2012

Il libro – composto di 10 capitoli potenzialmente «autosufficienti» e proficua-


mente accompagnati, ciascuno, da un abstract iniziale e da sintetiche linee gui-
da conclusive – è un buon manuale pratico per chi si accosti all’uso dell’etno-
grafia d’ispirazione etnometodologica (ethnomethodologically-informed ethno-
graphy) per la progettazione, lo sviluppo, l’implementazione e la valutazione
di artefatti tecnologici di vario genere, sistemi informativi in primis. Gli autori
– tutti provenienti dalla «scuola» anglosassone che, raccogliendosi attorno agli
studi di Computer Supported Cooperative Work (CSCW) e, più in generale, Hu-
man-Computer Interaction (HCI), ha contribuito a fondare questo approccio –
fanno ampio uso delle proprie variegate esperienze di ricerca per accompagna-
re spiegazioni, indicazioni e suggerimenti con esempi concreti atti a illustrarne
meglio modalità di applicazione, utilità pratica e potenziali risultati. L’obiettivo
dichiarato, infatti, è presentare un approccio che consenta agli sviluppatori di
«fattorizzare» l’organizzazione sociale delle attività umane nella ricerca e nella
progettazione concernenti le tecnologie dell’informazione, e di farlo rispettan-
do il carattere situato, mondano ed emergente (real world, real time) di tale
organizzazione.
È qui che la prospettiva etnometodologica risulta cruciale. Sin dal primo
capitolo (Précis), infatti, si sottolinea come l’approccio presentato si distingua
per l’attenzione alle pratiche di lavoro incorporate che le persone mettono in
atto quotidianamente per portare a termine le proprie attività di concerto con
altri. Due degli autori, Rouncefield e Tolmie, d’altronde, hanno anche curato
una miscellanea, Ethnomethodology at Work (Ashgate, 2008), che, oltre a rac-
cogliere studi etnometodologici del lavoro condotti nei contesti più svariati, si
conclude con un capitolo dedicato alla specificità dell’etnometodologia rispetto
ad approcci – apparentemente simili e speso erroneamente assimilati – che si
concentrano sul lavoro, in particolare tecno-scientifico, e sulla cosiddetta «co-
struzione sociale della tecnologia».
Gli autori del saggio conclusivo appena menzionato, Wes Sharrok e Gra-
ham Button, sono peraltro tra coloro che utilizzano l’ethnomethodologically-in-
formed ethnography nel campo del design e vengono infatti citati tra gli illustri
assenti del gruppo di intervistati le cui voci compongono il secondo capitolo
(Ethnography and System Design) del testo qui considerato, alle quali è affidato
il racconto della storia di quella «scuola» che hanno contribuito a fondare e che
ha dato inizio alla liaison tra etnografia e progettazione informatica. Benché
si parli di Lancaster School, infatti, sono vari i suoi centri di sviluppo, tra cui
Nottingham, presso la cui Università lavorano Crabtree e Tolmie, e Manchester,
dove troviamo invece Sharrock e Button (sulla storia dell’approccio etnografico
al design di sistemi informativi, si veda il saggio di Giolo Fele «Perché l’infor-
matica si interessa all’etnografia? Appunti di una storia in corso», Etnografia e
Ricerca Qualitativa, 1/2009, pp. 49-76). Il terzo capitolo (Our Kind of Sociology),
che entra nel vivo dell’approccio proposto e riesce nel non facile compito di illu-
strare sinteticamente alcuni dei principi teorici fondanti dell’etnometodologia,

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SCHEDE

presenta non a caso un’attenzione specifica alle pratiche di lavoro, oltre che al
lavoro interazionale (the machinery of interaction) che caratterizza qualunque
contesto della vita quotidiana (cfr. anche pp. 174-76), e offre a chi voglia dedi-
carsi alla loro analisi (a fini di design) tanto le ragioni metodologiche quanto le
indicazioni pratiche – entrambe emanazioni dei suddetti principi – per farlo.
Lo stesso può dirsi dei capitoli successivi (a tratti ripetitivi, data la relati-
va indipendenza reciproca, per chi legga il libro «tutto d’un fiato» e non sia
nuovo alla materia). Finding the Animal in the Foliage, ricco di utili esempi, si
concentra sul carattere metodico dell’azione-in-interazione umana quotidiana e
suggerisce come catturare etnograficamente i metodi dei membri. Il tema viene
approfondito nei due capitoli seguenti (capp. 5-6), dedicati al lavoro sul campo
(fieldwork) e alle tecniche di raccolta dati, mentre il settimo capitolo si occupa
dell’analisi, che dovrebbe produrre praxeological accounts del contesto lavora-
tivo in esame (p. 124 ss.), e l’ottavo (Informing Design) del suo «riversamento»
nel processo di design – poiché l’invito, per chi fa etnografia, è a «sporcarsi le
mani nel vero lavoro di design» (p. 137), quello cioè di innovazione (p. 152) tanto
degli artefatti quanto delle pratiche (p. 171). Troviamo validi consigli, infatti,
non solo per il lavoro di campo, ma anche e soprattutto, come già notava Mat-
thews (http://irsg.bcs.org/informer/2012/11/book-review-doing-design-ethno-
graphy/), per far sì che i risultati di tale lavoro possano partecipare attivamen-
te alla progettazione, grazie a strumenti quali documenti di specificazione dei
requisiti, modelli, scenari, storyboard, casi d’uso, sensitising studies, prototipi
e così via.
Benché forse capisca le ragioni della loro insistenza a riguardo, non con-
cordo con gli autori nel proporre ripetutamente l’idea che tutti possano «fare
campo», che sia facile, che non richieda apprendimento (pp. 111, 126, 159).
Mentre l’ultimo capitolo è sostanzialmente riassuntivo, è al nono che vengono
affidate le conclusioni: riprendendo l’idea di cui sopra per evidenziare l’impor-
tanza dell’autodisciplina epistemologica dell’etnografo, che «fa campo» ma an-
che analisi (pp. 159-61), gli autori rispondono a «fraintendimenti, obiezioni e
lamentele» riguardanti l’etnografia che sono comuni tra progettisti, sviluppato-
ri, ecc. Il capitolo rende un ottimo servizio all’approccio etnografico. Ritengo,
tuttavia, che anche il fieldwork necessiti di rigore (cfr. p. 176) e presenti le pro-
prie complessità – e penso che sottovalutarle sia rischioso.
Mi si lasci notare, in chiusura, che il «genere di sociologia» considera-
to solleva crescente interesse da parte di svariate hard sciences – dall’inge-
gneria all’informatica, dalla computer vision al business modeling – che sem-
pre più si focalizzano su aspetti sociali (sulla scia tanto della spinta di Hori-
zon 2020, quanto del fiorire dei big data) e che, nel farlo, paiono ritenere l’et-
nometodologia maggiormente «fattorizzabile» rispetto ad altri approcci tanto
sociologici quanto cognitivisti. Doing Design Ethnography, destinato com’è a
un pubblico multidisciplinare, può giocare un ruolo importante in questo pro-
cesso.

Chiara Bassetti
CNR e Università di Trento

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