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GABRIELE D’ANNUNZIO (1863-1938)

Gabriele d’Annunzio incarna fino in fondo i nuovi miti del progresso, della mondanità, dell’irrazionalismo,
vivendone allo stesso tempo le contraddizioni e i conflitti. Egli seppe dare una interpretazione al problema
dell’identità e del ruolo dell’intellettuale, in bilico tra critica verso la società borghese e sfruttamente dei
mezzi di comunicazione di massa. Egli mostra fin da subito una grande capacità di usare tutti i mezzi a sua
disposizione per farsi pubblicità, dalla letteratura al giornalismo, dalla pubblicità al teatro, dal cinema alla
politica, creando un vero e proprio mito di sé, innescando anche un falso scoop su una sua presunta morte
dovuta ad una caduta da cavallo, per attirare i maggiori esponenti della critica. Il gusto dominante negli
ambienti artistici del primo Novecento è l’Estetismo, di cui d’Annunzio è il maggiore interprete. Egli ne fa un
vero ideale di vita, dedicando la sua intera vita al cult00o0 del bello e della bellezza. Il mito dell’esteta
implica una visione aristocratica della vita, che si riflette tanto nei protagonisti dei romanzi dannunziani che
nel loro autore; egli aspira a vivere la propria vita come un’opera d’arte. L’arte viene concepita dal nostro
poeta come una dimensione superiore a ogni altra esperienza umana. In questa prospettiva, il culto della
bellezza diventa diventa l’unico valore possibile sopra tutti gli altri. Egli utilizza vocaboli aulici e ricercati,
difficili da comprendere ai molti, ricchi di tecnicismo, grecismi e latinismi. La sua poesia diventa così non per
tutti. La svolta ideologica del nostro poeta avviene nel 1892, con la scoperta del superuomo di Nietzsche. Al
poeta interessa soprattutto la dimensione di superiorità accordata soltanto agli uomini straordinari, diversi
dalla massa. Grazie a ciò egli sviluppa una ideologia di potenza in cui sono presenti caratteristiche affini con
le teorie del filosofo:

-la polemica antidemocratica

-l’esaltazione della vita e dei sensi

-l’individuo eccezionale che si pone al di fuori di ogni limite morale e sociale.

I romanzi di d’Annunzio appaiono dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al Il fuoco (1900). Egli, sin dagli
esordi narrativi, ribalta il canone veristico dell’impersonalità, personalizzando il racconto e abbandonando
la tematica sociale. Si focalizza sui tratti psicologici dei suoi personaggi, i quali appartengono alla classe
borghese o sono aristocratici, descrivendone l’introspettiva e le emozioni. Inevitabilmente è presente il
vissuto persona dell’autore, in uno scambio continuo tra arte e vita, anche se questo non vuol dire che la
presenza dell’autore assuma una forma direttamente autobiografica. La dimensione individualistica dei
personaggi li rende prettamente esteti, celebratori della bellezza e spregiatori della folla. Quando falliscono
nel loro tentativo di autoaffermazione, sono condannati al ripiegamento e alla sconfitta: delusi e frustrati,
questi uccidono o si suicidano.

IL PIACERE

Il primo romanzo dannunziano è Il piacere, composto tra il 1888 e il 1889, viene pubblicato nello stesso
anno di Mastro-don Gesualdo di Verga. Il titolo denuncia la centralità dell’eros nella vita del giovane
aristocratico protagonista, Andrea Sperelli. In questa opera, d’Annunzio tende a presentare la ricerca del
piacere come unico fulcro dell’esistenza. Tutti gli avvenimenti narrati sono contemporanei all’autore, ma la
vera storia è tutta mentale, scandita dall’incrociarsi di sensazioni e ricordi. Il romanzo, articolato in tre libri,
narra gli amori e gli interessi artistici del giovane intellettuale Andrea Sperelli. Chiuso nella sua fastosa
dimora, egli spera di recuperare il rapporto con la seducente Elena Muti, la quale si è sposata con
gentiluomo inglese e che infrangerà il cuore del nostro protagonista. Nel frattempo, egli conosce Maria
Ferres, la moglie di un diplomatico, che diventa la sua nuova amante, ma in contemporanea continua a
frequentare Elena. Il rapporto con le due donne gli procura delle emozioni nuove, ma mentre consuma la
prima e ultima notte d’amore con Maria, egli pronuncia il nome di Elena. Abbandonato da entrambe le
donne, egli si rinchiude penosamente tra le mura del suo palazzo. Andrea incarna la sintesi decadente del
Dandy e dell’Esteta, cultore del bello e dai gusti raffinati. Esperto di arte, campione di equitazione e
scherma, amante e seduttore raffinato, egli costituisce l’artista ideale, che non conosce leggi morali ma solo
estetiche. Di conseguenza, risulta vittima della sua incostanza, in una continua ricerca senza centro; egli è
vittima della malattia della volontà, di quella moltiplicazione della personalità che caratterizza tutti gli eroi
dannunziani. L’architettura narrativa si organizza intorno al tema del doppio, costituito dalla
sovrapposizione delle due donne amate da Andrea: Elena e Maria, le quali rappresentano il contrapporsi di
sensualità e spiritualità, già a partire dai nomi. Il romanzo è intessuto di simboli, in quanto si privilegia un
modo di leggere la realtà che privilegia la sensazione. Il finale mostra come l’ansia del possesso e
l’ossessione della bellezza si rovescino in una azione distruttrice e autolesionista.

IL FUOCO

Il romanzo Il fuoco, pubblicato nel 1900, racconta le vicende dell’inquieta relazione amorosa tra Stelio
Effrena, proiezione dello stesso d’Annunzio, e Foscarina, matura attrice drammatica ispirata alla figura di
Eleonora Duse. Le vicende si svolgono a Venezia, dove il nostro protagonista si occupa di un’opera d’arte
totale (sintesi di poesia, musica e danza). Il suo modello esplicito è il grande musicista Wagner, di cui sono
narrati i funerali, simbolo della decadenza dell’arte e della morte del Bello, travolti dal tempo, dal gusto
borghese e dai valori mercantili imposti dalla logica dell’utile. L’opera è costituita sul motivo centrale del
fuoco, immagine della combustione poetica e della ritrovata unità tra arte e vita. Venezia, la città per
eccellenza delle contraddizioni fa da sfondo alla storia d’amore tra il passionale e focoso Stelio e la pacata
Foscarina, in un incontro-scontro continuo tra i due amanti.

IL NOTTURNO

L’ultimo periodo artistico di d’Annunzio è contrassegnato dal Notturno, un diario scritto dal poeta in seguito
a un incidente di volo che, nel febbraio del 1916, o aveva costretto ad una temporanea cecità. Pubblicato
nel 1921, Il Notturno è suddiviso in tre parti: nella prima ricorre il tema della sofferenza e dell’immobilità
nel letto; nella seconda parte è presente un continuo ricorrere di ricordi di infanzia e della madre; nella
terza sono presenti visioni di morte e guerra che si chiudono con la pasqua, simbolo di speranza e
liberazione. Questa opera può essere definita come diario della malattia. La novità rilevante del libro sta
nella scoperta della sofferenza fisica. L’impossibilità di muoversi permette all’opera di divenire un diario
della scrittura, la storia della sua vita e, infine, il diario delle sue memorie.

ALCYONE

Esce come terzo libro delle Laudi nel dicembre del 1903. Il filo conduttore dell’opera è il trascorrere della
stagione estiva sin dalla tarda primavera, quando l’io lirico si ferma dall’impiego politico e morale della
precedente produzione poetica. Il poeta si rifugia nella natura, cercandone un contatto in una sorta di
fusione vitalistica, insieme alla sua Ermione (nome mitologico per indicare le donne amate dal poeta e
soprattutto Eleonora Duse), con la quale trascorre effettivamente una estate in Versilia. Dopo la sensualità
e l’energia dell’estate, giunge il malinconico autunno. Qui, il poeta si sente riemergere l’antica Grecia e i
suoi miti, in un intenso rapporto con la natura. La poesia registra una metamorfosi tra uomo e natura, in cui
si sentono le tracce del latino Ovidio. L’unione con la natura implica l’allontanamento del soggetto dalla
società, con il conseguente spazio al motivo della solitudine dell’eroe dannunziano che sente attenuarsi
ogni aspirazione superomistica. Con il terminare della stagione estiva si insinua l’ansia per il trascorrere
rapido del tempo con il conseguente presagio di morte del mito.

SERA FIESOLANA

Pubblicata nel novembre del 1899 e infine inserita nel primo gruppo di liriche di Alcyone, in essa non vi è un
centro narrativo, ma un libero fluire di immagini paesaggistiche, incentrate sui temi della dolcezza e della
freschezza. Protagonista è, dunque, la sera che assume i tratti di una figura femminile e il poeta tende ad
essere soltanto una voce che loda. Qui il poeta vuole esprimere la musica segreta delle cose, il comporsi
armonioso degli oggetti, nella continua metamorfosi del flusso vitale. Il ritmo della lirica, fatto di attese e
sospensioni, è ampio e solenne. Il componimento sin articola in tre tempi, coincidenti con le tre strofe, a cui
segui una lode della sera in tre versi. Il motivo della lode cela l’allusione a una poesia delle origini in cui è
rivelata nella sua purezza la meraviglia della natura. In questa perfetta musicalità si nascondono echi della
tradizione letteraria, in particolare di Petrarca, attraverso l’uso della sinestesia.

PIOGGIA NEL PINETO

L’opera risale all’agosto del 1903. Essa illustra il vagare senza meta del poeta e della donna amata Ermione,
in un bosco solitario nel litorale pisano. Domina in tutto il componimento una trama musicale data dal
ritmo della pioggia, in una sinfonia boschiva, creando un senso di comunione fra tutti gli esseri della natura.
Il tema della passeggiata nel bosco, che in genere fissa un incontro amoroso, qui è invece occasione di
rivelazione inaspettata e di metamorfosi. L’elemento musicale predomina, insieme alla resa delle altre
impressioni sensitive, le quali trasmettono una sensazione segreta che il poeta subisce in silenzio con una
estatica attenzione, invitando Ermione a fare lo stesso. Il tema della pioggia viene costruito,
mimeticamente, a partire da versi brevi e ritmati e attraverso rime distanziate, in un impasto di suoni che
creano un gioco continuo di assonanze e consonanze, con un riecheggiamento reciproco tra le parole. La
pioggia rielabora un vero e proprio discorso musicale e altre voci si fondono a questa, alternandosi e
mescolandosi in un’ampia melodia. Il fulcro del componimento è ‘’la favola bella’’, che illustra attraverso il
chiasmo il gioco di reciproche illusioni tra il poeta e la donna. La favola della vita, degli affetti, la loro dolce
illusione, cambia come la pioggia: l’amore è solo un momento del perenne fluire della realtà, che ritorna
ciclicamente su se stessa. L’io lirico è ormai tratto fuori dall’inganno. L’amore ora illude solo la donna,
perché il poeta è regredito mitica profondità della natura remota e senza tempo.

I PASTORI

Pubblicata nel 1903, questa lirica unisce suggestioni e ricordo, memoria e idealizzazione del passato
mostrando un d’Annunzio autunnale, stranamente nostalgico e pacato. L’apertura, con una sorta di
discorso diretto, introduce la voce del poeta che si confonde con quella dei pastori. Nel filale chiude la lirica
una esclamazione del poeta, che questa volta denuncia apertamente la propria distanza dai luoghi evocati;
evidente è come la cove segni la poesia e ne moduli lo svolgimento: è la voce del poeta a risuonare, quella
dei pastori viene prima mimata e poi descritta. Non è una rappresentazione verista o realista, ma
fortemente soggettiva. Due distese di colori, verde e beige, esprimono la nostalgia di un tempo antico,
dell’infanzia e del legame con la terra natia, che per i pastori sembra essere una possibilità di pace.

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