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GALILEO E IL CANDORE DELLA LINGUA

ITALIANA
Di Marino Massimo De Caro

Nel 1948 Bruno Migliorini nel suo Galileo e la lingua


italiana così scriveva: “Con il Seicento siamo alla svolta
decisiva:nascono le nuove scienze, svincolandosi dallo sterile
metodo peripatetico, e questo spirito nuovo ha bisogno di una
espressione adeguata. […] Il latino, sia quello di tipo scolastico,
sia quello di tipo umanistico, avrebbe certo il vantaggio di
rivolgersi ai dotti di tutta l’Europa. Ma Galileo non ha solo dei
concetti da esprimere: egli ha in sé un’ energia, un entusiasmo,
un furore di proselitismo che vuol esercitare non sulla
corporazione dei dotti, catafratta di citazioni aristoteliche e di
sillogismi pseudoscientifici, ma sugli uomini che hanno
esperienza di vita e ingegno aperto. A costoro [bisogna parlare
in] una lingua viva, che sia insieme capace di arte e scienza.”

In Galileo il binomio tra arte e scienza trova una delle


sue massime espressioni. Non è questo il luogo dove indagare
e sottolineare le grandi capacità artistiche del Galilei mostrate,
per esempio, nella illustrazione delle prime osservazioni lunari.
Non dobbiamo dimenticare che lo scienziato pisano applicò il
suo ingegno innanzitutto alla musica, unendo alla solida
conoscenza della teoria, sicuramente frutto degli insegnamenti
del padre, una rara abilità come strumentista. A questo
interesse per la musica si accompagnò da subito una velleità
letteraria che lo portò ad approfondire la conoscenza del latino
e del greco ed a darsi avidamente alla lettura dei classici.
Gherardini scriverà nella Vita di Galileo che il suo maestro
fiorentino di grammatica, “più tosto confuso, referì al padre
non esser egli più idoneo per insegnar di vantaggio al
fanciullo.” Mostrando così che la sua fame di conoscenze e
capacità letterarie dava i suoi frutti. Ma la svolta avviene a Pisa
durante i suoi studi di medicina. Galileo non apprezzerà la
vanità della cultura accademica, in seguito vedremo anche
come la avverserà nel suo pregevole scritto Contro il portar la
toga, e soprattutto non apprezzerà gli sforzi della medesima
cultura a dare spiegazioni della realtà utilizzando con un

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metodo logico-deduttivo i precetti aristotelici. In questo “sturm
und drang” emotivo Galileo Galilei decide che si vuole
occupare non del corpo umano, ma del trovare logiche
matematiche che possano rispondere agli interrogativi posti
dalla realtà che lo circondava. Avviene quella che potremmo
definire una conversione scientifica. Banfi nel suo Vita di
Galileo Galilei (1962) ben descrive l’ambiente culturale nel
quale è maturata la coscienza scientifica dello scienziato pisano
e la relaziona alla comprensione della nuova funzione a cui si
candidavano le scienze fisico-matematiche nella vita culturale
e pratica dell’Italia del tempo.

Questa conversione scientifica non ridussero a mero


ricordo l’educazione artistica e letteraria del Galilei. Ma
soprattutto la letteratura costituirà per lui un campo
continuamente frequentato e non tanto per trovare nella
lettura dei buoni autori un momento di riposo, quanto
piuttosto per desiderio di approfondimento critico.

Nacquero da questo impegno le Postille all’Ariosto e le


Considerazioni al Tasso che , mentre danno la misura
dell’amore e della benevola comprensione con cui lesse
l’Orlando furioso e della puntigliosa acrimonia con cui si
accostò invece alla Gerusalemme Liberata, ci offrono
l’immagine di un Galilei perfettamente inserito nel vivo del
dibattito letterario del suo tempo, incentrato sul poema eroico.
Frutto delle “replicate” letture del Canzoniere furono anche le
Postille al Petrarca. Questo aspetto è stato ampiamente
studiato ed analizzato da Vianello nei suoi studi di Filologia
Italiana. Discorso a parte meritano le due Lezioni all’Accademia
Fiorentina, circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di
Dante, opera pubblicata per la prima volta solo nel 1855 ad
opera di Ottavio Gigli nei suoi Studi sulla Divina Commedia.
Sicuramente saremmo delusi se in queste Lezioni cercassimo la
trattazione dei problemi della poesia dantesca. Altro fu
l’obiettivo con cui esse furono scritte, e precisamente quello di
confermare con ragionamenti matematici l’ipotesi topografica
dell’ Inferno di Dante avanzata da Antonio Manetti e ripresa da
Cristoforo Landino, contro la quale, però, si era levata
l’opposizione del Vellutello. Io condivido invece quanto scritto
da Alberto Chiari e cioè “che Galileo le scrivesse […] spinto,
ahimè, dalla malinconica idea di farsi un titolo per una cattedra
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universitaria di matematica”. Cosa che poi avvenne e devo dire
che non ci vedo una accezione così negativa come quella
individuata dal Chiari. Anzi riprova della “sfrortunata” prova
letteraria data con le due Lezioni forse è proprio la sua tardiva
pubblicazione. Appunto solo nel 1855.

L’attività letteraria di Galileo non si limitò solo a questi


esercizi critici. Egli si cimentò anche in componimenti poetici. Il
primo, di sicura ispirazione bernesca è Il Capitolo contro il
portar la toga, scritto in terza rima. Il Capitolo , a mio parere, è
il vero “libro di intenti” del pensiero di Galileo Galile. Come ha
sostenuto anche Maurizio Ripa Bonati, Galileo nel Capitolo
descrive la sua visione di quella che oggi chiamiamo “ricerca
scientifica” o meglio metodo scientifico. E su questo Galilei ha
già idee tanto chiare quanto ardite: “Perché secondo l’opinion
mia, - A chi vuol una cosa ritrovare, - Bisogna adoperar la
fantasia, - E giocar d’invenzione e ‘ndovinare, - E se tu non puoi
ire a dirittura, - Mill’altre vie ti posson aiutare.” Ecco che
Galileo con la sua prosa ci indica la strada da seguire nella
ricerca scientifica. Ecco quindi che si forma l’humus che poi
porterà al grande capolavoro che è Il Saggiatore. Nel Capitolo
lo scienziato pisano ci fa conoscere anche la sua avversione per
il barocco mondo accademico ricco di formalismi e
autocelebrazioni. Ma soprattutto nel Capitolo che possiamo
cogliere i germi di quel modo di dire le cose, tutto galileiano,
tra il logico e lo scherzosamente immaginoso:uno stile che
servendosi anche del ridicolo risolve le questioni molto
complesse. La toga è per Galileo il simbolo della cultura
accademica ufficiale, comicamente colta nel suo tronfio e
vuoto formalismo. Cultura accusata di accettare acriticamente i
precetti aristotelici. A me piace pensare che la toga sia anche
messa sotto accusa perché inibisce la vita spensierata di un
giovane (ricordiamoci che Galileo quando scrisse il Capitolo
aveva solo 25 anni) ben inserito nelle avventurose e gaudenti
brigate cittadine in bettole sudice e vicoli malfamati. Ma
facciamo parlare Galileo: “Dicon ch’è grave errore, e troppo
importa, - che un dottor vadia a casa le puttane: - la togal
gravità non lo comporta.[…] – Ma quand’anche un dottore
andasse fuora, - e d’andar solo pur gli bisognassi, - come si
vede che gli avvien talora, - tu non lo vedi andar se non pè
chiassi, - per la vergogna, over lungo le mura – e in simil altri

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luoghi da papassi” E’ chiaro che Galileo nel Capitolo imiti il
Berni erotico, si capisce anche dall’uso della tecnica
dell’equivoco. Dobbiamo però ricordare che, malgrado
l’imitazione bernesca, il capitolo galileiano si distacca dal
modello poetico del Berni. L’equivoco per Galileo non investe
l’intero componimento, anche perché l’opera non è a carattere
erotico. Infatti il Capitolo ha, come già detto prima, come
obbiettivo il mondo accademico con i suoi costumi e
soprattutto con la sua immobilità nell’ortodossia aristotelica.
Galileo mette, quindi, le collaudate tecniche espressive della
poesia erotica al servizio della satira con cui intende colpire i
fondamentali istituti culturali del tempo, che , dal suo punto di
vista, rischiavano di colpire il progresso scientifico. Questo uso
della letteratura e il richiamare forme e stili a lui conosciuti lo
troviamo anche nel Dialogo della Stella nova. Tralasciamo, in
questa sede, l’analisi scientifica e storica che hanno portato
alla stesura di quello che è, oggi, considerato come il primo
scritto galileiano dato alle stampe. Ma dobbiamo valutare
perché in quest’opera si è potuto vedere quello che Lovarini
nel 1927 definì : l’ interprete del Ruzzante. Partiamo dal 1880
quando uno dei più grandi studiosi galileiani, Antonio Favaro,
pubblica: Galileo Galilei e il Dialogo di Cecco di Ronchitti. Il
Favaro ci spiega magistralmente perché dobbiamo considerare
l’opera non come scritta dallo Spinelli, ma dallo stesso Galileo.
Galileo sceglie la lingua di Ruzzante che aveva incominciato ad
apprendere durante la sua permanenza padovana. Lo
scienziato pisano sceglie di mettere in bocca a due contadini
tesi assolutamente rivoluzionarie. Mette in bocca a due
contadini, come ha scritto il Favaro , “l’occasione di rompere
apertamente con i peripatetici dello Studio di Padova”. La
lingua del Ruzzante non è perfetta in Galileo; leggendo con
attenzione si incontrano errori. E’ certo, però, frutto di una
mente geniale che ancora una volta vuole utilizzare il
linguaggio e l’umorismo per schernire gli avversari. La lingua
italiana, benché nella versione di Ruzzante, usata non per
veicolare il proprio pensiero, ma come vera è propria forma del
pensiero stesso. La scelta del linguaggio, come poi succederà
soprattutto nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, è essa
stessa parte di una strategia. E’ essa stessa parte della
rivoluzione scientifica che sta a fondamento degli scritti del
pisano. Galileo, dopo aver scritto, in volgare, il suo Discorso
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sopra le cose che galleggiano nel 1612, così scrive a Paolo
Gualdo: “Io l’ho scritta vulgare perché ho bisogno che ogni
persona la possa leggere, e per questo medesimo rispetto ho
scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattatello.” Ed
è con lo stesso candore che attribuiva alla luna che Galileo
ammette il suo voler “popolarizzare” la cultura. La cultura non
doveva essere solo per i dotti, che avrebbero potuto intendere
il latino, ma per tutti. Per un pubblico più ampio ed da qui la
scelta del volgare. Perché è vero che bisognava rivolgersi alla
comunità accademico/scientifica, ma la rivoluzione scientifica
che Galileo voleva, doveva necessariamente passare da una
contaminazione, anche popolare, delle idee. Ed allora basta
latino! Ricordiamo che l’unica opera scritta e pubblicata in
latino da Galileo Galilei è stato il Nuncius Sidereus nel 1610. E’
paradossale che il libro di Galileo che meglio rappresenta
l’esempio di questa prosa scientifica sia anche il libro dove le
teorie astronomiche di Galileo non ottengono il riscontro
atteso. Questo volume è il Saggiatore. Come già detto da uno
dei primi biografi di Galileo, Niccolò Gherardini, allo scienziato
piaceva moltissimo, nelle sue opere, battagliare con un
antagonista. Lo stesso Galileo confidava ad un corrispondente
che dagli attacchi dei suoi nemici “più tosto che spavento “
sentiva “accrescere animosità a seguitar la cominciata
impresa” Nasce forse da qui la scelta di accogliere in seno al
Saggiatore il testo della Libra Astronomica di Orazio Grassi.
Infatti il Saggiatore nasce come testo per chiudere, a dire del
Galileo, la polemica sulla origine delle comete. Ed è un testo
polemico già dal titolo. Infatti Orazio Grassi, sotto lo
pseudonimo di Sarsi, scrisse la Libra Astronomica. Testo che
attaccava il Discorso sulle Comete del Guiducci, ma che tutti
sapevano essere frutto della mano e della mente dello
scienziato pisano, e che ne bilancia (appunto l’uso
dell’espressione Libra) la fallaticità. Come risponde Galileo?
Appunto con il titolo di Saggiatore, cioè di colui che doveva
saggiare la corrispondenza della bilancia (Libra) dell’orafo.
Ecco l’uso della lingua come parte del pensiero. Il titolo non
descrive l’opera, ma è parte dell’opera stessa. Il Saggiatore, a
prescindere dal titolo, è un opera con una struttura
ambivalente; da un lato la forma epistolare poiché scritto in
forma di lettera a Virginio Cesarini e dall’altra quella dialogica
che si estrinseca affiancando due metodi, due linguaggi, due
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antitetiche visioni del mondo, espresse, come affermato da
Andrea Battistini, :” come vitale dinamica di un duello che
ribatte colpo su colpo le pretese dogmatiche della tradizione
con le speranze della nuova scienza. Ecco dunque da una parte
il latino scolastico di Orazio Grassi, […] dall’altra l’italiano
sciolto ed elegante di Galileo, la lingua dell’osservazione
diretta, fresca di locuzioni idiomatiche e di giri sintattici
prossimi al parlato, che sono la risposta polemica al gergo
elitario, la contrapposizione anche stilistica di un metodo
moderno che nulla ha da spartire con il vecchio lessico
aristotelico-tolemaico. Il confronto, già agli occhi dei primissimi
lettori, faceva risaltare, per dirla con uno di loro: “La differenza
che è tra l’ambrosia degli Dei e le minestre del vulgo”.
L’assorbimento delle tesi del rivale nel corpo della scrittura
galileiana serve sia a far sentire la presenza continua e
minacciosamente incombente del nemico, sia a lanciargli un
ulteriore sberleffo.”

Ovviamente ne risulta quindi uno stile con un ritmo


totalmente sconosciuto nelle altre opere del tempo. Più che
una polemica scientifica si instaura un dibattito pubblico.
Sembra, leggendo il testo, di trovarsi ad un talk show moderno,
dove gli interlocutori si interrogano a vicenda e si fanno beffe
dell’altro con il palesare contraddizioni. Per essere precisi è
Galileo che è il regista, è lui che guida il dibattito, pur
essendone anche soggetto. Il risultato? Un capolavoro di prosa
scientifica, di dotto italiano e di capacità di prendere il lettore
portandolo a considerare le tesi del gesuita Grassi come frutto
“dell’arroganza di un sofisma pretestuoso”.

Per raggiungere il suo scopo Galileo fa uso di


moltissime figure tipiche dell’arte retorica quali: omeoteleuto e
l’iterazione sinonimica pensiamo, per esempio, nel Saggiatore
a :”fallacie e chimere”, “girandole e vanità” o a “vane e
superflue”. Così come è figura retorica la sermocinatio che,
come ben spiega Angelo Battistini e come abbiamo già detto
prima, Galileo usa frequentemente nelle sue opere.
Sermocinatio che, dopo aver conferito ad un enunciato
dell’avversario la veste più sfavorevole, interviene in un
secondo livello con una spiegazione metalinguistica che ne
smaschera tutta la inconsistenza.

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Ma oltre che per l’uso sapiente delle figure retoriche
Galileo è considerato come un dei migliori scrittori italiani per
l’eleganza dei modi e delle forme del suo scrivere. Sappiamo
che Leopardi nel suo Zibaldone si spinse a descriverlo come il
migliore tra gli scrittori italiani. Così come grandissima
considerazione delle capacità letterarie dello scienziato pisano
aveva Italo Calvino.

Calvino rimase molto colpito dalle descrizioni della luna


che faceva Galileo; infatti in un suo saggio scrive: “ Leggendo
Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della luna: è la
prima volta che la luna diventa per gli uomini un oggetto reale,
che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure
appena la luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una
specie di rarefazione, di levitazione, ci si innalza in una
incantata sospensione.”

Calvino, anche analizzando il commento di Galileo


all’Ariosto, si spinge a intravvedere una linea ideale che sembra
unire gli sguardi che grandi uomini, in tempi diversi, hanno
rivolto alla luna: Dante, Ariosto, Galileo e Leopardi. Noi, a
questo punto, dovremmo aggiungere Calvino.

Ma veniamo ora alle ragioni che hanno ispirato il titolo


di queste mie considerazioni. Penso alla Lettera al Principe
Leopoldo di Toscana sul candore lunare ultima opera scritta, o
meglio dettata stante la sua cecità, da Galileo nel 1640.

La Lettera nasce come risposta alle posizioni di Fortunio


Liceti che individuava la causa della luminosità (candore) della
luna ad un particolare minerale (litephosforo) presente sulla
sua superficie. Come già detto questa lettera è l’ultimo sforzo
di Galileo, morirà di lì a due anni, ma proprio per questo egli si
impegna ed ogni parola viene soppesata e valutata. Galileo ha
avuto grossi problemi nel predisporre questa lettera a causa
della sua cecità e decide di descrivere questa sua situazione
con una meravigliosa metafora: il giocatore di scacchi. Galileo
afferma che scrivere non è come dettare. Lo scrittore ha
sempre necessità di farsi ripetere quanto già scritto. E’ come il
giocatore di scacchi che gioca a volto coperto, dopo poche
mosse ha bisogno che qualcuno gliele ricordi. In pratica per
Galileo, ma la stessa cosa sarà ripetuta in tempi recenti dal
linguista Saussure, ogni parola, ogni frase,ogni periodo sono un
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pezzo dell’insieme e l’insieme viene continuamente modificato
al variare, allo spostarsi, anche solo di un elemento.

Condivido quindi la posizione di chi ritiene che la


Lettera sia così perfetta stilisticamente, nei contenuti e nella
terminologia scientifica proprio perché “scritta” da una
persona che non poteva scrivere, ma che doveva far si che ogni
frase fosse parte perfetta di un puzzle che non si poteva
vedere. Per questo ritengo che la Lettera sul candore lunare
rappresenti al meglio il candore che Galileo ha usato nel
esprimere la lingua italiana. Galileo ha capito la forza del
linguaggio, ha capito come usare la retorica per sbeffeggiare gli
avversari, ha capito che un nuovo paradigma scientifico si
sarebbe potuto affermare solo con un nuovo linguaggio. Un
linguaggio che non utilizza solo i mattoncini dell’espressione
linguistica, le parole, ma anche e soprattutto un linguaggio che
si fonda su basi diverse. Nella filosofia della scienza di Galileo
trova un ruolo centrale l’identificazione del linguaggio proprio
di ogni aspetto. Non esiste un unico linguaggio per descrivere il
mondo. Pensiamo alla Bibbia ed alla concezione tolemaica che
da essa si ricava. Una lettura letterale della Bibbia ci porta a
credere alla centralità della terra nell’Universo. Come spiegare
altrimenti il libro di Giosuè quando testualmente recita:”
Fermati, o sole, su Gabon, e tu Luna, sulla valle di Aialon” (Gs
10,12). Ed infatti Galileo ci ricorda, soprattutto nella Lettera a
Madama Cristina, che è definita come una delle più
copernicane delle lettere di Galileo, che la natura non si deve
spiegare con il linguaggio comune. Difatti per lo scienziato
pisano “dalla Bibbia non potete ricavare come va il cielo perché
la Bibbia insegna un'altra cosa, essa insegna come si va in
cielo”. Ma la sua concezione è ancora più chiara nel Saggiatore
quando afferma che: “ La filosofia naturale è scritta in questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli
occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non
s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è
scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son
triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi
è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è
un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.”

Voglio terminare queste considerazioni ricordando


quello che Ludovico Geymonat scrisse nel 1957 :” Il Saggiatore
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resta uno stupendo capolavoro di letteratura polemica”, anche
se volendone dare, come già detto, un giudizio
“esclusivamente da punto di vista della scienza astronomica
dovremmo francamente riconoscere che è un libro sbagliato”.
E aggiungeva: “La cosa certa è, tuttavia, che il Saggiatore non
costituisce un trattato scientifico: è un affascinante opera di
propaganda culturale, di rottura dei vecchi metodi” – di
apertura, aggiungerei, di nuovi orizzonti e di nuovi mondi.

Con il Saggiatore Galileo decise di attaccare il


mascherato Lotario Sarsi (lo pseudonimo usato dal Grassi nella
stesura della Libra Astronomica) a viso aperto. Cartesio diceva
Larvatus prodeo. Galileo non ama le maschere e attacca a viso
aperto. Oscar Wilde diceva: “dai ad un uomo una maschera e ti
dirà la verità.” Per Galileo non è così. Lui ama la sfida. Lui usa il
linguaggio e la penna come arma di distruzione di massa. Lo fa
con grazia e con il candore con il quale in una notte di inverno
del 1609 la luna gli si mostrò per la prima volta come nessuno
l’aveva mai vista. Fu l’inizio di una rivoluzione, fu l’inizio di un
viaggio ma purtroppo fu anche l’inizio di un delitto come lo ha
definito Massimo Bucciantini.

Un viaggio nella fede, nella scienza e nella lingua


italiana che si concluderà nel 1642 quando gli occhi ormai
ciechi del grande pisano si chiuderanno e la storia comincerà a
diventare leggenda.

BIBLIOGRAFIA

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e prose scientifiche del seicento - 2003

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