Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Dunque balsamo prima, mosto cotto poi. Ma come si uniscono le due parole con l’aceto?
Come si riesce a formare l’aceto balsamico? Per secoli si è parlato, quasi sempre, di aceto;
qualche volta sono apparse nei Tacuinum sanitatis di varie epoche e regioni immagini di
botticelle di aceto poste sotto il tetto, ma anche di botteghe che offrivano mosto cotto
come bevanda. Seguendo la strada del mosto cotto, osserviamo che questa specialità perde
progressivamente il suo carattere prettamente curativo per entrare nel mondo alimentare. È
lo stesso percorso seguito dalle spezie originarie dal lontano Oriente e più tardi da caffè,
tè, cioccolato o tabacco, all’inizio prescritti dai medici per curare numerose malattie, in
seguito entrati a pieno diritto nella pratica culinaria. Una conferma di questa evoluzione ci
viene alla fine del Cinquecento dal medico romano Castore Durante che, parlando della
sapa definita anche “mostocotto”, raccomanda di non usarla come cibo: “ma per
condimento, e seco sempre si pongano pepe, o altre cose aromatiche, l’inverno,
overamente si accompagni con cose acide, che così si temperano l’un l’altro, overo si lasci
affatto, o si usi in poca quantità, con un poco di m(i)ele”.
La fermentazione, come scrive Michael Pollan, non è un intervento umano, così come
non lo è il fuoco, ma non esiste nessuna cultura al mondo che non la conosca. La
fermentazione sembrerebbe un universale culturale, e rimane uno dei più importanti
metodi di trasformazione del cibo. Anche oggi un terzo del cibo consumato nel mondo
viene prodotto utilizzando processi che comportano la fermentazione. Molti di questi cibi
e di queste bevande sono, guarda caso, fra i più apprezzati, benché in molti casi il ruolo
della fermentazione nella loro preparazione non sia compreso appieno. Eppure il caffè, la
cioccolata, la vaniglia, il pane, il formaggio, il vino e la birra, lo yogurt, il ketchup e
moltissimi altri condimenti, la salsa di soia, il miso, alcuni tè, il manzo sotto sale e il
pastrami, e poi ancora il prosciutto e i salumi dipendono tutti dalla fermentazione, e infine
il nostro aceto balsamico.
Gli esseri umani riconobbero subito che la fermentazione di vari alimenti faceva molto di
più che prolungarne la durata, benché quest’ultimo fosse un risultato importante. La
fermentazione dei succhi ricavati dalla frutta non solo sterilizzava la bevanda, ma la
trasformava in un potente inebriante. Dopo la fermentazione, il valore nutritivo di
moltissimi alimenti aumenta significativamente. In alcuni casi, poi, il processo crea
nutrienti completamente nuovi…
La ricerca medica, con un’inversione di tendenza, sta arrivando alla sorprendente
conclusione che, per essere sani, gli esseri umani necessitano di una maggiore esposizione
ai microbi, e non l’inverso; e che uno dei problemi della cosiddetta dieta occidentale –
oltre alla presenza di carboidrati raffinati, di grassi e di sostanze chimiche di sintesi – è
proprio l’assenza di alimenti contenenti microrganismi vivi. Stando a questa teoria, tali
cibi svolgono un ruolo fondamentale nell’alimentare la vasta comunità di microrganismi
che vivono all’interno del corpo umano, i quali a loro volta sono molto più importanti, ai
fini della nostra salute generale e del nostro benessere, di quanto avessimo compreso in
precedenza. Forse, i cibi che non contengono batteri ci stanno facendo ammalare (Michael
Pollan Cotto. Storia naturale della trasformazione, Adelphi 2014).
La fermentazione dunque, appunto come quella dell’aceto balsamico tradizionale, a cui si
aggiunge poi la sapienza umana e il gusto. Fino al 1850 si conosceva l’aceto di Modena,
l’aggettivo balsamico è stato aggiunto, non si sa bene quando, per ricordare che si trattava
di un altro prodotto, molto particolare e prezioso. Lo ricorda Carlo Vincenzi nel suo
Zibaldone: “L’aceto di Modena è tal cosa da far risuscitare i morti – il balsamico poi della
Casa d’Este, che venne con tante altre cose manomesso nel 1796, non aveva pari in copia,
squisitezza ed antichità”.
Squisitezza, un prodotto unico che necessita almeno di cinque botticelle in batteria, ma
qualcuno come i duchi di Modena, poteva avere in batteria anche venti botti, sempre in
ordine decrescente. La corte estense e le famiglie aristocratiche del ducato erano le sole a
potersi permettere una così lunga attesa e un così prezioso prodotto. Napoleone smantellò
le batterie aristocratiche e ducali e ne vendette all’asta i beni, comprese le botti di aceto
balsamico. Vittorio Emanuele II, nel 1860, trasferirà l’acetaia ducale a Moncalieri, dove
andrà perduta a causa della incompetenza dei piemontesi del tempo. Ottavio Ottavi,
famoso enologo piemontese, chiese nel 1862 delucidazioni a Francesco Aggazzotti sul
come condurre un’acetaia. Questa la sua risposta:
L’esperienza praticata ab immemorabili, dà la preferenza per la confezione dell’aceto balsamico all’uva bianca ossia
gialla e precisamente alla Trebbiana, che prospera benissimo nelle modenesi colline di Solignano, Torre Castelvetro,
Levizzano; è uva di grani sferici, non molto fitti, grappolo piuttosto allungato, che prende un bel colore d’oro, ed è
delle ultime a maturare, sicché non raro è sorpresa dalle brinate sulla pianta; è pure quella che, sottoposta al processo
per ottenere alcool, fornisce un maggior prodotto di qualsiasi altra nostrale… Giunta pertanto a maturazione della
Trebbiana, raccoglisi, pigiasi, o ponesi in tino come praticasi per solito nella vinificazione; ma appena sviluppatasi la
fermentazione vinosa, circa dopo ventiquattro ore, ossia appena che saranno venuti a gala le capelle e le graspe (levato
il capello), come dicesi, spillasi il mosto passandolo per setaccio non molto fitto o canestro di vimini…
L’aceto è inoltre citato in un’altra fondamentale opera della Roma antica. Nella sua
Historia naturalis, Plinio il vecchio affermò che il vino di migliore qualità si ottenesse da
vasi che avessero già contenuto aceto. L’autore spiegò inoltre che il vino, per essere
mantenuto sano e bevibile, andava conservato in vasi impeciati. Da questo scritto risulta
inoltre evidente che era ormai consolidata la conoscenza del fatto che il vino col tempo
diventasse aceto.
La preferenza verso gusti forti e ben delineati proseguì per tutto il Medioevo: in questo
periodo l’arte di preparare l’aceto si affina e compare l’agresto, preparato a partire
dall’uva ancora acerba che, con il proprio sapore fresco e acidulo, si contrapponeva
all’eccessiva grassezza dei condimenti. L’utilizzo dell’aceto come condimento era noto
anche nella cucina araba: esso non era infatti colpito dal divieto di consumo che colpiva le
bevande alcoliche e inebrianti.
Nel 1394 venne fondata a Orléans la Corporazione dei fabbricanti d’aceto, la quale
impose ai propri membri il più stretto riserbo sui metodi di lavorazione, pena l’espulsione.
Ciò contribuì alla diffusione degli aceti di Orléans dando vita a una vera e propria
industria.
Nel 1580 la città e i sobborghi arrivarono a contare trentatré produttori, presenza motivata
dal fatto che i vini locali ben si addicevano alla trasformazione in aceto. Orléans, inoltre,
era favorita dalla sua posizione geografica: era l’ultimo porto navigabile sulla Loira per le
mercanzie provenienti dall’ovest. La navigazione, per i battelli che risalivano la corrente,
era molto lenta e ritardata, a causa della portata irregolare del fiume. I vini trasportati,
molto spesso, arrivavano in porto stremati, pronti dunque per l’acetaia, che raggiungevano
mescolandosi ai vini locali con accorti dosaggi.
La rivoluzione delle preferenze alimentari avvenne nel corso di un’epoca ricca di
rinnovamento e trasformazione: il Rinascimento. I banchetti allestiti da signori e sovrani
rappresentavano il trionfo del potere e della ricerca della perfezione tipici dell’epoca. La
vita presso le corti prevedeva rituali rigidi, persino il taglio e la distribuzione della carne
prevedeva cerimonie prestabilite con precisi significati gerarchici. Le visite imperiali o
papali richiedevano il coinvolgimento delle intere corti e città per la loro preparazione,
così come matrimoni, celebrati per creare o saldare alleanze politiche, battesimi e persino
funerali. Il banchetto, apice massimo di tali avvenimenti, era riservato ai pochi che
godevano del privilegio di sedere alla stessa tavola del signore. L’uso dell’aceto finì per
diventare marginale; veniva infatti usato come base di condimenti più elaborati. Il più
diffuso era la cosiddetta salsa reale, prodotta facendo bollire aceto con stecchi di cannella,
chiodi di garofano e zucchero. Un altro suo impiego era come base per l’infusione di
spezie.
All’opulenza dei banchetti aristocratici si contrapponeva la semplicità della cucina
tradizionale popolare, dove l’aceto non era passato di moda.
La fortuna del balsamico, o meglio dei balsamici, iniziò proprio nel Rinascimento, grazie
a un cambiamento dei gusti che si ebbe a partire dall’epoca. Si cominciarono infatti a
privilegiare condimenti raffinati e costosi in grado di armonizzare il sapore delle pietanze
senza l’acidità eccessiva dell’aceto. Già allora le zone maggiormente vocate a tale
produzione risultano essere il Modenese e il Reggiano.
Le vicende dell’aceto balsamico, a partire dal Cinquecento, appaiono strettamente
connesse alla storia del casato degli Este. Lucrezia Borgia, consorte al tempo di Alfonso I
D’Este, si ungeva con l’aceto balsamico per lenire le doglie del parto.
Nel 1518 il poeta e commediografo Ludovico Ariosto, nato a Reggio Emilia e vissuto in
ambito estense, scrisse nella Satira III indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi un
accenno all’utilizzo culinario di “acetto e sapa” come condimenti di uso comune, ponendo
quindi anche un importante riferimento letterario al loro tradizionale utilizzo in area
emiliana.
Inoltre fonti frammentarie di epoca rinascimentale tramandano differenti classificazioni
delle varie tipologie di aceti presenti nel Registro Ducale Estense (1556), e del loro
utilizzo secondo le diverse necessità e occasioni.
Nel 1598, in seguito alla riconfigurazione dei confini degli stati in cui era suddivisa
l’Italia, si ebbe l’annessione di Ferrara allo Stato pontificio e lo spostamento della capitale
del Ducato estense da Ferrara a Modena. Il trasferimento della corte rese necessarie una
serie di trasformazioni urbanistiche che interessarono anche la residenza signorile, i suoi
giardini e le varie dipendenze. Le ristrutturazioni interessarono anche l’acetaia, la cui
attività venne potenziata. Già a partire dello stesso si registrano i primi arrivi di uva e di
vino destinati entrambi all’acetaia.
La fama dell’“aceto del Duca” si diffuse ben presto e venne alimentata anche dall’alone
di mistero intorno alla sua preparazione. La ricetta di questo prodotto, infatti, era
gelosamente custodita. Dai registri emerge però che veniva adoperato solo mosto crudo. Il
mosto cotto, impiegato solamente come additivo, lo si ritrova registrato nelle ricette
utilizzate dalla nobiltà e dalla borghesia modenese. Quest’ultimo era celebre già agli inizi
del Cinquecento e si trattava essenzialmente di una miscela di aceti di vino poi invecchiati.
Le innumerevoli ricette e tradizioni sono confluite in quegli aceti che nel Settecento
vennero denominati “balsamici”, aggettivo che suggerisce capacità terapeutiche e
caratteristiche oltre l’ordinario. Nei registri di Cantina dei Duchi D’Este (XVII-XVIII
secolo) troviamo tre distinte produzioni di aceti: il cosiddetto aceto comune, il mezzo
balsamico e il balsamico fine, ovvero gli attuali aceto di vino, aceto balsamico di Modena
Igp e aceto balsamico tradizionale di Modena Dop. A fianco infatti della produzione di
eccellenza, da tramandare di generazione in generazione come un dono prezioso, era sorta
l’esigenza di sviluppare una produzione, pur eccellente, ma che consentisse un processo
meno costoso e capace di generare maggiori volumi per l’utilizzo quotidiano e,
soprattutto, idoneo per la cottura.
L’aceto balsamico, prima di essere apprezzato per le sue qualità organolettiche, trovava
largo impiego quale rimedio medico. Nel trattato Del governo della peste e delle maniere
di guardarsene, opera scritta dallo studioso modenese Ludovico Antonio Muratori, sono
infatti descritti numerosi rimedi a base di aceto balsamico utili come antidoto contro la
terribile malattia.
Nei registri ducali, però, la dicitura “aceto balsamico” compare solamente dopo il 1747.
Nel Registro delle vendemmie è stata ritrovata la seguente annotazione: “Si sono levati
dalla camera dell’accetto per rincalzare l’aceto balsamico mastelli 3”. Nel 1748 sono stati
prelevati dalla cantina segreta dodici mastelli di vino bianco per rincalzi, nel 1773
“l’accetto” venne integrato con trentatré mastelli di “vino puro ossia mosto”. Nei registri
ducali le citazioni del balsamico si ritrovano, da questo momento in avanti, con sempre
maggiore frequenza.
Un altro illustre personaggio le cui vicende personali si sono intrecciate con quelle del
balsamico è Gioacchino Rossini, solito assumere aceto balsamico per lenire diversi mali.
Il famoso compositore, e altrettanto noto buongustaio scriveva nel 1832 all’amico
modenese Angelo Catellani, maestro di Cappella del Duomo di Modena, che l’aceto che
aveva ricevuto in dono era “certamente dotato di sperimentata efficacia rinfrescante e
balsamica”.
Che l’aceto avesse delle proprietà terapeutiche, e digestive in particolare, era noto già da
secoli, come si evince dal trattato culinario di Apicio (I sec. d.C.) e da alcuni documenti
del XI e del XV secolo. La parola “balsamico”, accostata all’aceto degli Estensi, sembra
perciò attribuibile a un’interpretazione figurativa delle sue proprietà, con riferimento in
particolare alla gradevolezza, alla finezza e alla preziosità dei profumi, degli aromi e dei
sapori.
Nel corso del Settecento andarono a definirsi i passaggi fondamentali della preparazione
famigliare: la raccolta dell’uva, la pigiatura, la cottura del mosto e l’invecchiamento. I
balsamici si caratterizzarono sempre più per il legame col territorio modenese e reggiano,
con i suoi vigneti, con le tradizioni e le essenze legnose impiegate per la preparazione di
botti e botticelle.
Nel momento in cui si chiuse l’epoca delle acetaie ducali cominciò la fortuna delle prime
produzioni destinate alla commercializzazione. Il commercio venne favorito
dall’eliminazione delle barriere doganali avvenuta con la creazione della Repubblica
Cisalpina da parte di Napoleone e successivamente con l’unificazione sotto la corona dei
Savoia.
Nel 1700 l’aceto balsamico era già conosciuto in Europa. Prodotto raffinato, dapprima
destinato solo alle tavole delle famiglie più abbienti, grazie ai Duchi di Modena e Reggio
venne fatto conoscere a membri illustri dell’aristocrazia europea. Nel 1764, di passaggio a
Modena nel corso di una missione diplomatica, il conte Voronzov, cancelliere imperiale di
Russia, chiese di poterne inviare alcune bottigliette alla zarina Caterina la Grande.
Vent’anni dopo, nel 1792, il duca Ercole III ne inviò un flacone a Francoforte come dono
per l’incoronazione di Francesco II d’Austria a imperatore del Sacro Romano Impero,
segno questo del valore che veniva attribuito all’aceto balsamico. Documenti e manoscritti
datati 1796 riferiscono dei mosti ben maturi utilizzati per la produzione dell’aceto
balsamico alla modenese e dei rincalzi dei trentasei barili custoditi nel terzo torrione del
palazzo ducale verso San Domenico.
Da queste prime annotazioni appaiono già due costanti fondamentali per la produzione
dell’aceto balsamico tradizionale: l’impego di mosto ottenuto dalle uve tipiche, quale
prodotto di base, e la dislocazione dei locali di produzione in ambienti alti, generalmente
di sottotetto.
In seguito alla Rivoluzione francese si accusò un primo colpo alla sopravvivenza e al mito
delle acetaie. I termidoriani, infatti, nel tentativo di cancellare ogni traccia dell’aristocrazia
e di annullare il potere delle dinastie, fecero vendere all’asta una serie di vascelli degli
Estensi. Fortunatamente non tutto il patrimonio venne ceduto.
L’aceto balsamico, dopo l’avventura napoleonica, iniziò a essere utilizzato dall’alta
borghesia per pagare debiti e fornitori. Da questo momento il possesso di batterie di aceto
balsamico fu sinonimo di ascesa sociale e sono infatti relativi a quest’epoca molteplici
documenti che fanno riferimento a passaggi, donazioni o lasciti testamentari di batterie di
aceto. Allo stesso tempo divenne d’uso comune nella borghesia annoverare alla dote delle
future spose dei vascelli di valore. Nel 1817, quando Napoleone già era in esilio a
Sant’Elena e le monarchie europee già ristabilite, nel Ducato di Modena, ripristinato in
seguito al Congresso di Vienna, si ebbe la vista di Metternich. In occasione del soggiorno
del Cancelliere austriaco le grandi finestre della Camera del Prato di Palazzo Ducale
furono aperte di nuovo. Metternich era già a conoscenza delle caratteristiche dell’aceto
balsamico modenese in quanto ne aveva sentito tessere le lodi da parte del duca Francesco
IV D’Este, in vista a Vienna. Una volta giunto nel Ducato, chiese infatti di poter degustare
l’aceto tanto magnificato. Per soddisfare la richiesta del diplomatico vennero effettuati
numerosi prelievi nelle acetaie della zona per decretare il migliore. Il vincitore risultò
essere l’aceto prodotto dalla famiglia Guidotti, che si poté fregiare dello stemma della
famiglia Metternich.
Le prime testimonianze (lettere, testamenti e donazioni) che parlano dell’aceto balsamico
come lo intendiamo oggi, si strutturano verso il XIX secolo, anche se contengono poche
informazioni sulle ricette originali e le pratiche produttive correlate. Nel 1830 la
definizione di aceto balsamico venne ulteriormente arricchita, per cui gli aceti presenti a
Corte vennero suddivisi in “balsamici”, “semibalsamici”, “fini” e “comuni”. Iniziò così la
prima diffusione delle conoscenze attorno al balsamico, e nel settembre 1839 il conte
savonese Giorgio Gallesio scrisse con ammirazione delle tecniche di produzione che
aveva osservato nell’Acetaia dei conti Salimbeni di Nonantola.
In occasione dell’annessione dei territori di Modena e Reggio Emilia al primo nucleo del
Regno d’Italia, il 4 maggio 1860 vennero di nuovo aperte le finestre della Camera del
Prato di Palazzo Ducale per una visita di Stato del nuovo sovrano Vittorio Emanuele II e
del primo ministro Camillo Benso, conte di Cavour.
L’apprezzamento nei confronti dell’aceto del Duca fu elevatissimo, tanto che il 24 agosto
venne eseguito l’ordine di selezionare le botti migliori da portare in Piemonte nel castello
di Moncalieri. Una volta trasportato lontano dalle condizioni climatiche di origine, il
balsamico perse le sue proprietà e ammuffì, anche a causa dell’incuria e della non
conoscenza approfondita del prodotto. Paradossalmente quell’insuccesso segnò una tappa
fondamentale per la riscoperta del balsamico tradizionale e per l’affermazione di uno
specifico sistema produttivo. In occasione di tale trasferimento, l’enologo Ottavio Ottavi
chiese indicazioni sull’installazione di una acetaia a un famoso e appassionato produttore:
Francesco Aggazzotti.
La sua risposta, contenuta nella celebre lettera, rappresenta il testo di riferimento per la
produzione di quello oggi indicato come aceto balsamico tradizionale di Modena. L’uso
del mosto cotto, come suggerito dall’Aggazzotti, sembrerebbe essere una sua invenzione
per abbreviare i tempi di invecchiamento senza snaturare il prodotto ottenuto. La
specificità del metodo, che si diffuse a partire dal 1860, consiste nell’utilizzare appunto
solo mosto cotto. Tale usanza era adottata, già dal 1839, dai conti Salimbeni, ma con un
metodo differente e con l’uso di aceto forte. Nel 1839 il conte Giorgio Gallesio, famoso
botanico e autore dell’opera La Pomona Italiana, importante trattato di arboricoltura,
recatosi in visita proprio presso la residenza del conte Salimbeni di Nonantola, rimase così
colpito e incuriosito dalla sua acetaia famigliare che dedicò vari giorni allo studio delle
tecniche di produzione. I suoi manoscritti, ritrovati nel 1993 negli Stati Uniti,
rappresentano il documento più antico in cui si descrive il disciplinare di produzione
dell’aceto a Modena. Per la prima volta vengono classificati gli aceti in due categorie:
quelli ottenuti da solo mosto cotto e quelli da “mosto fermentato e vin fatto”, definendo il
primo come “eccelso”, l’altro come “pure eccellente”.
In un’altra lettera, datata 1862 e destinata all’amico Pio Fabriani, Francesco Aggazzotti
descrisse dettagliatamente le tecniche di produzione e i segreti della propria acetaia di
famiglia. La produzione dell’acetaia della famiglia Aggazzotti venne premiata
all’Esposizione italiana di Firenze del 1861 con la medaglia d’oro.
Nel 1863 il chimico Fausto Sestini effettuò il primo studio scientifico, conducendo analisi
e avvalendosi delle tecniche più moderne a disposizione. Dalle analisi effettuate emersero
le notevoli differenze fra tale aceto rispetto a qualunque altra tipologia.
Nei testi dell’epoca si ritrova infatti: “La produzione degli aceti balsamici resta affidata
alla lenta fermentazione loro propria e all’evaporazione del mosto inacidito, con
accumulamento lentissimo dei principi aceti balsamici meno vaporevoli e fissi, fino a
risultare per volgere d’anni e lustri, l’aceto balsamico quanto più annoso e vecchio, è
squisito e reputato”.
Con la nascita dello Stato italiano si assistette al risveglio dei mercati e a un interesse
sempre maggiore nei confronti dell’aceto balsamico. Tale interesse portò a notevoli
ricerche storiche e bibliografiche attorno a questo prodotto, che stava iniziando a
riscuotere successo.
Ogni famiglia di produttori custodiva gelosamente la propria ricetta e produceva il
proprio balsamico originale. Gli aceti, così prodotti, risultavano essere poco confrontabili
tra loro anche a causa della valutazione sostanzialmente soggettiva che veniva adottata. Le
differenti uve impiegate, i diversi legni delle botti ma anche differenze legate al territorio
rendevano unico ogni balsamico prodotto. Un’importante tradizione si diffuse già a partire
dal Settecento a opera della famiglia Giusti. Tale usanza prevedeva l’utilizzo di mosto
d’uva con eventuale aggiunta di aceto di vino forte invecchiato in botte. Altri produttori,
invece, erano soliti aromatizzare il balsamico con chiodi di garofano e liquirizia.
Alla fine dell’Ottocento l’aceto balsamico di Modena cominciò a comparire nelle più
importanti manifestazioni espositive, creando grande interesse non solo sul territorio
nazionale. La pluralità di prodotti presentati alle grandi Esposizioni universali ha
enormemente contribuito al decollo dei prodotti italiani nel resto dell’Europa. Il più noto
produttore dell’epoca era appunto Giuseppe Giusti, le cui produzioni di balsamico di
Modena sono testimoniate fin dal 1605. Nel 1861 presentò la propria produzione
all’Esposizione di Firenze e successivamente ottenne premi e riconoscimenti a Vienna.
Le Esposizioni universali di Genova e Bruxelles segnarono l’inizio della fortuna dei
prodotti modenesi come lambrusco e insaccati, ma soprattutto dell’aceto balsamico, che
iniziò a farsi apprezzare anche nel resto d’Europa. In questo stesso periodo si assistette
alla nascita delle grandi dinastie di produttori: Monari, Fini, Monari Federzoni, Barbieri,
Obici, Zanasi e Ferrari.
Il 25 marzo 1933 l’allora ministro dell’Agricoltura Giacomo Acerbo riconobbe per la
prima volta con un atto ufficiale la “secolare e caratteristica industria” che si era andata
affermando a Modena e che aveva già iniziato il cammino da protagonista nella storia
gastronomica italiana. Tale atto rappresenta la prima la prima autorizzazione ministeriale a
produrre “l’aceto balsamico del Modenese”.
Il D.P.R. 162 del 1965 recante le norme per la repressione delle frodi nella preparazione e
commercializzazione di vini, mosti e aceti, stabilì in modo definitivo le regole relative agli
aceti ed agri, e sancì la “legalizzazione” di speciali denominazioni qualitative per aceti
prodotti con tecniche e disciplinari particolari, quali l’aceto balsamico di Modena. Sempre
nello stesso anno si giunse anche alla stesura di un disciplinare pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale relativo alle “Caratteristiche di composizione e modalità di preparazione
dell’aceto balsamico di Modena”.
Nel 1977 con l’emanazione del Decreto ministeriale D.M. 9-2-1977 venne assegnata la
Doc all’aceto balsamico di Modena prodotto secondo i metodi tradizionali. Per
distinguerlo dal “balsamico industriale”, che si era ormai affermato tanto sul mercato
interno che su quelli stranieri, venne spesso utilizzato il termine “naturale”. Tale termine
venne però avversato dai produttori del “balsamico industriale”, che ritenevano che
potesse indurre il consumatore a pensare che il loro prodotto fosse di sintesi o comunque
“non naturale”.
Il 5 aprile 1983 venne emanato un Decreto ministeriale con il quale venne ufficialmente
riconosciuta la denominazione “aceto balsamico tradizionale di Modena”. Il Decreto lo
classificò come “condimento alimentare”, mentre l’aceto balsamico di Modena rimase
nella categoria degli aceti in senso stretto. Tale definizione comprendeva tutti i balsamici
tradizionali prodotti nelle due provincie di Modena e Reggio Emilia.
Il 17 aprile 2000 il Consiglio europeo, con l’adozione del Regolamento 813/2000,
riconobbe due differenti Dop agli aceti balsamici tradizionali prodotti nelle due provincie
di Modena e Reggio, definendone vari aspetti, tra cui: la zona geografica di produzione, le
caratteristiche delle materie prime, le procedure di produzione, i requisiti del prodotto
finito nonché ulteriori requisiti inerenti l’imbottigliamento, l’etichettatura e la
presentazione.
L’aceto balsamico di Modena ha invece ottenuto, nel luglio 2009, l’inserimento da parte
della Commissione europea della denominazione “aceto balsamico di Modena” nel
registro delle produzioni Igp (Indicazione geografica protetta).
Oltre all’impiego culinario, molto diffuso era l’uso dell’aceto per scopi terapeutici e
curativi. Nel Trecento la Peste Nera imperversò in tutta l’Europa uccidendo un individuo
su tre e, fino al 1670, ci fu almeno un focolaio di peste all’anno. L’aceto veniva
comunemente impiegato nella profilassi contro la peste. Nel 1720, anno dell’ultima grande
epidemia nell’Europa occidentale, gli abitanti di Marsiglia si difesero dall’aria che “genera
febbri” tenendo in mano una spugna imbevuta d’aceto che veniva inalata. I medici
recavano tale spugna “attaccata al naso” senza respirare mai con la bocca e senza
inghiottire saliva. Un infermiere portava sempre un catino d’aceto, dove il medico
immergeva ripetutamente le mani prima di tastare il malato. Nelle fasi successive
dell’epidemia, si lavavano con aceto i muri delle abitazioni colpite. Una benda inzuppata
d’aceto fasciava la fronte dei monatti di manzoniana memoria che trasportano agonizzanti
e morti senza che ciò impedisca, peraltro, di sfuggire al contagio.
Ma quattro di loro, durante la peste di Marsiglia del 1720, riuscirono a rubare e
saccheggiare impunemente perché immunizzati da abluzioni e gargarismi a base di un
aceto aromatico, la cui composizione risulta essere ignota anche a loro stessi, in quanto
ciascuno portava un ingrediente sconosciuto agli altri. I quattro vennero condannati a
morte per saccheggio e rapina ma vennero poi graziati in cambio della fornitura di questo
aceto, che da allora ha preso il nome di aceto dei quattro ladroni. Una studiosa francese,
Misette Godard, ha provato a ricostruire la formulazione dell’aceto dei quattro ladroni
sulla base della ricetta originale conservata a Marsiglia, che prevedeva l’impiego di molte
erbe, chiodi di garofano, canfora e assenzio, il tutto da unire a tre pinte di aceto.
Un’altra malattia alla cui diffusione si è cercato di porre rimedio per mezzo dell’aceto è il
colera. Si tratta di una malattia infettiva antichissima, originaria dell’Asia, oggi ancora
presente in molti Paesi, tra cui l’Italia. In tutte le epoche storiche il colera è stato
combattuto con l’aceto. Nel corso dell’Ottocento il governo di Vienna, di fronte al
pericolo dell’epidemia, emanò una disposizione secondo la quale le mani, prima e dopo la
visita all’ammalato, e tutta la frutta e le verdure prima della consumazione, dovevano
venire accuratamente lavate con aceto. Le più recenti sperimentazioni, come ampiamente
dimostrato da uno studio di Franco Mecca, indicano che l’aceto possiede un “pronunciato
e preciso” effetto disinfettante sui vibrioni del colera. A contatto con l’aceto i vibrioni che
si trovano sulla superficie di frutta e verdure, vengono distrutti in un tempo variabile dai
trenta secondi a due minuti.
L’aceto veniva inoltre impiegato come prodotto da toeletta. Nell’Ottocento esisteva una
profumeria igienica che ne prevedeva l’uso da parte di re e principi. Come risulta da
un’inserzione pubblicata da Il Secolo il 15 febbraio 1873, il re di Portogallo, la regina
d’Olanda, la regina del Belgio e la principessa di Galles erano stati scelti come
“testimonial” per un aceto da toeletta “che dà all’acqua un gradevole profumo e proprietà
toniche e rinfrescanti”, impedendo il formarsi di geloni e imprimendo “vigore ai muscoli”.
Nello stesso annuncio si parla anche di un sale d’aceto di ammoniaca come disinfettante
necessario a chi deve visitare ospedali, lazzaretti e “tutti i luoghi dove sono presenti
esalazioni puzzolenti e dannose alla salute”. Come ausiliare della pulizia l’aceto è stato,
del resto, impiegato in tutte le epoche. Nell’Ottocento le signore annusavano aceto per
rinvenire se oppresse dal busto troppo stretto o se dovevano scacciare una fastidiosa
emicrania. Le padrone di casa ne lasciavano una bottiglia aperta accanto al capezzale di un
malato d’influenza, per impedire che venissero contagiate le persone addette
all’accudimento.
Richiami storici sulla chimica e la microbiologia del balsamico
Le prime ipotesi riguardo la composizione dell’aceto vennero formulate da un ricercatore
francese nel corso del Seicento. Leymery, infatti, stabilì che la sua acidità dipendesse dalla
presenza di tartaro di vino. Questa affermazione era però contrastata da chi sosteneva che
durante l’acetificazione avvenissero due fermentazioni distinte.
Nel corso della prima fermentazione si aveva la produzione di alcol, che nella seconda
scompariva cedendo il posto a un acido di nuova formazione. Lavoisier, il grande chimico
francese, trovò che l’aria era determinate per la nuova fermentazione, mentre la scoperta
del fenomeno principale dell’acetificazione si deve a sir Humphrey Davy: egli dimostrò
che questo era la trasformazione dell’alcol contenuto nel vino in acido acetico. Pasteur
chiarì ulteriormente il fenomeno dimostrando che l’ossidazione dell’alcol in aceto era
dovuta alla moltiplicazione di un microrganismo che, moltiplicandosi, determina la
formazione della madre dell’aceto.
I primi studi chimici sull’aceto balsamico vennero svolti da Fausto Sestini nel 1863. Da
questi emerse che la densità del balsamico si attestava intorno a 1,5 e che fossero presenti
acido acetico, acido formico, acetato e formiato di etile, acido tartarico e sostanze
organiche fisse nella quantità del 40-50 per cento. In una nota, Sopra gli aceti balsamici
del modenese, lo stesso autore mise in evidenza la notevole quantità di sostanze
responsabili della colorazione scura degli aceti balsamici. Egli sottopose l’aceto balsamico
a dialisi della durata di circa venti giorni, ottenendo nella parte non dializzata umato di
calcio e di ferro, acidi apoglucico e glucico. Fu infatti il primo a parlare di humus
nell’aceto balsamico e giunse alla conclusione che tali acidi “si formano naturalmente per
azione degli acidi liberi sopra le sostanze zuccherine; e perciò costituiscono i prodotti
intermedi della metamorfosi naturale degli zuccheri in sostanze umiche”.
Dopo questi primi di lavori di Sestini, molti illustri chimici dedicarono la loro attenzione
anche allo studio dell’aceto comune derivato dal vino, dalla birra e dal sidro. Tra gli studi
di maggiore rilevanza è da ricordare l’opera fondamentale di Pasteur. Pasteur infatti scoprì
che l’acescenza altro non era che il risultato della fermentazione dell’alcol etilico per
opera di particolari batteri.
Vittorio Peglion, nella sua opera Biologia agraria del 1926, dice a proposito dell’aceto
balsamico: “la fabbricazione del cosiddetto aceto balsamico Modenese si diversifica in
quanto la materia prima non è vino, ma mosto d’uva trebbiana. Si tratta di un processo
complicato in cui partecipano probabilmente fermenti lattici, ma intervengono altre
reazioni non ancore definite”.
Gino De Rossi, nel suo trattato Microbiologia agraria e tecnica, pubblicato l’anno
successivo, cita l’aceto balsamico modenese come “una preparazione domestica del tutto
speciale”. Egli scoprì che la sua produzione avveniva in tempi lunghi a partire da una base
ricca di zuccheri e poco alcolica (mosto di vino Trebbiano che appena iniziata la
fermentazione viene fatto bollire fino a diminuirne il volume del 30-40 per cento).
A dare l’avvio agli studi inerenti la composizione chimica dell’aceto è stato Ernesto
Parisi. Le fonti documentali di primaria importanza lasciate da Parisi sono rappresentate
da tre scritti, due dei quali sperimentali: il primo Sull’aceto balsamico modenese del 1928,
il secondo Sulla fermentazione alcolica dei mosti concentrati, in collaborazione con
Sacchetti e Bruini, e il terzo Aceti di lusso quale capitolo delle sue Lezioni di Industrie
Chimico-Agrarie.
Nello scritto Sull’aceto balsamico modenese riporta la ricetta dell’avvocato Francesco
Aggazzotti, dalla quale emergono chiaramente gli annuali travasi e rincalzi. Nell’opera
sono inoltre citati i risultati delle analisi effettuate su otto campioni diversi di aceto
balsamico, al fine di provare le differenze nella composizione di tale prodotto. Innanzitutto
Parisi osservò una notevole variazione della densità in campioni prelevati in luoghi diversi
e da persone diverse. Le differenze maggiori le riscontrò a carico dei costituenti
fondamentali come acidità, con valori che spaziavano dal 6 per cento circa fino a circa al
18 per cento, e contenuti in zuccheri totali con variazioni dal 26 per cento al 50 per cento
circa.
Da ricerche effettuate da chimici nel passato era emerso che, quando la soluzione
zuccherina supera i 40 grammi per 100 cm3 di liquido, non si hanno fermentazioni, in
quanto viene inibita la moltiplicazione dei fermenti alcolici. Parisi sostenne che
fermentazione alcolica ed acetica non potessero avvenire all’interno dello stesso liquido.
Date altre sue osservazioni, giudicò essere incerta la partecipazione della microflora
alcolica e acetica alla formazione del balsamico sia a causa delle cospicue quantità di
acido da lui riscontrate in vecchi balsamici e sia per la presenza di composti di
provenienza metabolica (acetilmetilcarbinolo, acido succinico, alcol etilico e glicerina)
che comunemente si ritrovano.
Ma a Parisi stesso deve essere riconosciuto il merito di aver interpretato correttamente la
presenza di quei composti di chiara origine microbiologica. Nel suo scritto infatti afferma:
“Tutto parrebbe quindi in favore della tesi del fenomeno chimico di acetificazione”.
Nella già citata nota Sulla fermentazione alcolica dei mosti concentrati, opera di Parisi
scritta in collaborazione con Sacchetti e Bruini, vengono riportate le analisi effettuate su
mosti prima e dopo otto giorni di fermentazione.
Parisi, Sacchetti e Bruini affermano che:
Nonostante la densità elevatissima e la forte percentuale di zucchero, che può raggiungere e oltrepassare il 70 per cento
in volume, i mosti concentrati vanno soggetti a lenta fermentazione che si manifesta con lo svolgimento di minutissime
bollicine di anidride carbonica. Dall’analisi chimica completa prima e dopo la fermentazione si rilevò che alla
diminuzione di zucchero non corrisponde la quantità calcolata di alcol e che oltre all’alcol nel mosto fermentato si
trovano notevoli quantità di aldeide acetica, glicerina, 2-3 butilenglicole e acetilmetilcarbinolo. Infine il dosamento del
rapporto glucosio/fruttosio nel concentrato in esame, prima e dopo la fermentazione, ci portò alla conclusione che dei
due zuccheri fermentescibili viene maggiormente attaccato il fruttosio. Era pertanto logico pensare che la
fermentazione dei mosti concentrati non fosse dovuta ai comuni Saccaromiceti, ma a una flora microbica speciale
dovuta a speciali lieviti osmofili, riferibili al genere Zygosaccharomiceti, che consumano più rapidamente il fruttosio.
Pertanto il valore della deviazione ottica levogira del mosto diminuisce notevolmente e può persino cambiare il segno.
Con l’aggettivo “osmofilo” sono stati definiti quei lieviti che si possono moltiplicare e
che sono in grado di fermentare liquidi contenenti zucchero in quantità pari alla
saturazione. Tali lieviti sono appunto appartenenti al genere Zygosaccharomiceti, presenti
anche nel mosto concentrato.
Il fatto che il fruttosio fermenti più rapidamente rispetto al glucosio è ampiamente
provato e chiarito; quindi, in un concentrato contenente glucosio e fruttosio, il consumo da
parte dei lieviti alcoligeni è rivolto primariamente al fruttosio.
Le ricerche biologiche, dirette all’identificazione degli agenti specifici della
fermentazione dei mosti d’uva, sono state affrontate da Sacchetti con un approccio
sistematico allo studio sui lieviti osmofili.
Le ricerche di Sacchetti vennero effettuate analizzando il contenuto in zucchero riduttori e
in alcol, nel momento in cui si rendevano visibili i segni della fermentazione e in mosti
messi a contatto con l’aria dopo dieci giorni a temperatura ambiente. Lo scopo di tali
osservazioni era di capire la motivazione per cui il tenore alcolico sviluppato fosse al
massimo del 5-6 per cento. Egli prese un matraccio contenente mosto fermentato (che dal
56,6 per cento di zuccheri era sceso al 40 per cento determinando la formazione del 5 per
cento di etanolo) e lo sigillò con un tappo di gomma a due fori con inseriti due tubi a
squadro. Il primo tubo era costituito da due bracci: uno collegato con un filtro di cotone
per l’aria aspirata e un altro pescante dal fondo del matraccio. Il secondo tubo con uno
squadro, collegato a una bottiglia da lavaggio per gas contenete acqua distillata e unita con
una pompa aspirante ad acqua. Con questa aspirazione l’aria passava e gorgogliava nel
mosto trascinando l’anidride carbonica e l’alcol che veniva fermato nell’acqua distillata.
Dopo circa una ventina di giorni di areazione del mosto il passaggio dell’aria spostava
l’alcol determinando un abbassamento della concentrazione zuccherina del mosto dal 40 al
30 per cento, mentre nell’acqua di lavaggio si rilevava un concentrazione di alcol pari al 5
per cento.
Da questo esperimento Sacchetti dedusse che la produzione di alcol era inibita non dalla
concentrazione zuccherina ma dal potere alcoligeno degli Zygosaccharomyces.
Eliminando infatti il freno determinato dall’alcol si riaccende l’attività fermentativa dei
lieviti.
Sacchetti, nell’intraprendere studi inerenti l’aceto balsamico dovette affrontare numerosi
ostacoli, dovuti anche alla difficoltà di reperimento dei campioni da analizzare. La raccolta
dei campioni venne effettuata al momento del rincalzo annuale con mosto di Trebbiano
concentrato. Le prime ricerche microbiologiche effettuate a partire dal 1936 portarono
all’identificazione delle madri, le quali vanno a occupare buona parte del volume dei
vascelli. Il loro aspetto denotava una vitalità decrescente nelle botticelle dalle dimensioni
decrescenti. Inoltre dalle madri e dai liquidi dei primi due recipienti sono state isolate
colonie di acetobatteri. Partendo dal mosto di Trebbiano e dal liquido raccolto da un
vascello appena rincalzato col mosto stesso, sono state isolate colonie appartenenti al
genere Zygosaccharomyces. Le analisi successive hanno evidenziato la presenza nel primo
recipiente di una grande quantità di questi saccaromiceti di dimensioni e morfologia varia.
La loro presenza ha potuto confermare il fatto che avesse luogo una fermentazione
alcolica ma molto lenta e senza sviluppo visibile di anidride carbonica.
Il liquido passa poi dal primo recipiente, che viene alimentato con il mosto bollito e
concentrato, nella botticella successiva, il cui contenuto è già parzialmente inacetito, e
successivamente in altri recipienti dove si ha la prevalenza delle attività chimiche ed
enzimatiche. Il liquido va incontro a successive e lentissime trasformazioni che
determinano la sua concentrazione e l’acquisizione delle caratteristiche organolettiche
proprie dell’aceto balsamico.
Un’ altra serie di prelievi venne effettuata nel 1948, nel periodo intermedio tra i rincalzi,
con lo scopo di identificare le attività microbiologiche in atto e verificare la vitalità dei
microrganismi a distanza di 6-8 mesi dall’introduzione di nuovo mosto zuccherino e dai
travasi che lo accompagnano. I campioni sono stati dapprima sottoposti ad analisi
chimiche e i risultati ottenuti si presentarono del tutto compatibili a quanto emerso dalle
prime analisi effettuate da Ernesto Parisi. Sono stati raccolti campioni dei vari aceti e delle
madri da ognuno dei vascelli costituenti le batterie.
L’esame microscopico, al quale sono stati sottoposti i campioni di aceto e di madri, ha
evidenziato la presenza di blastomiceti nel liquido del primo vascello. L’esame
microbiologico delle madri ha fornito risultati paragonabili con quanto osservato nel 1936.
L’aspetto dei lieviti e degli acetobatteri osservati non pone dubbi circa la loro vitalità;
mentre dal terzo vascello in poi è stata riscontrata la presenza della madri, le quali talvolta
arrivano a occupare quasi interamente il vascello esaminato.
Da ulteriori analisi effettuate, quasi un decennio dopo, sono stati sostanzialmente
confermati i risultati già ottenuti in passato. Nel primo vascello, che riceve il rincalzo
annuale con il mosto d’uva, i lieviti osmofili si mantengono vivi e vitali e in grado di dare
via nuovamente ai processi fermentativi una volta che viene effettuata l’aggiunta di nuovo
mosto.
All’interno di questo vascello sono stati inoltre riscontarti acetobatteri vivi e vitali. Nel
secondo e terzo vascello sono stati riscontrati acetobatteri vivi e vitali; mentre nel terzo
sono già molto scarsi e nulla di vivo si è reperito nei successivi quarto, quinto e sesto,
dove sono state ritrovate esclusivamente madri ridotte in brandelli. In questo modo viene
confermata la teoria che i lieviti possano mantenersi funzionali solo all’interno del primo
recipiente, che riceve i rabbocchi annuali con mosto d’uva. Sono infatti i lieviti che
causano la fermentazione alcolica che si riattiva ogni volta che si immette mosto
zuccherino.
L’esame diretto e le prove colturali hanno evidenziato il fatto che il primo vascello
contenesse una quantità tale di questi blastomiceti da permettere una fermentazione
alcolica lenta ma continua, tipica dei mosti ad alto titolo zuccherino.
La conclusione di questi primi studi fu che la formazione dell’aceto balsamico si
differenzia dalla normale acetificazione in quanto avviene a partire da mosti zuccherini
anziché da liquidi alcolici. I mosti vanno incontro a una lentissima fermentazione alcolica
causata da lieviti osmofili. La fermentazione è scarsamente evidenziabile sia a causa della
densità del mezzo nella quale avviene sia perché contemporaneamente si verifica
l’ossidazione in acido acetico dell’alcol che si è formato grazie agli acetobatteri.
Nel passaggio da un primo recipiente, annualmente alimentato con bollito e concentrato
d’uva, a un secondo, il liquido è passato attraverso una prima fase di acetificazione. Nelle
fasi successive, quando il liquido è travasato in botticelle via via più piccole, prevalgono
poi le attività chimiche ed enzimatiche. Il liquido di partenza va incontro a concentrazione,
fino ad acquisire le caratteristiche organolettiche proprie del balsamico. Altre analisi sono
state effettuate da Sacchetti nel corso degli anni Sessanta, nel momento stesso della
spillatura annuale dell’aceto balsamico ovvero nel momento in cui, prelevato l’aceto dalla
botticella n. 5, si fa posto per successivi passaggi alla n.1, rincalzata col mosto
concentrato.
Anche in questa occasione nelle botticelle sono state identificate le madri, quali
voluminosi sedimenti presenti, ed è stata inoltre confermata la presenza di innumerevoli
lieviti e acetobatteri, appartenenti a specie differenti, vivi e vitali nella prima botticella,
mentre a partire dal secondo rare sono le cellule vive riscontrate.
Sacchetti decise di sottoporre ad analisi campioni raccolti prima del rincalzo, ovvero in un
momento in cui i liquidi sono in uno stato di assoluto riposo.
Il liquido prelevato dalla prima botticella e inoculato in una piastra contenente terreno di
coltura, ha provocato lo sviluppo di lieviti e acetobatteri che, trapiantati in purezza, hanno
originato due ceppi di Zygosaccharomiceti e di Acetobacter. Mentre nei liquidi isolati
dalle successive botticelle non si sono riscontrate cellule vive di lieviti, ma solamente rare
cellule di acetobatteri.
Sacchetti fornì inoltre una spiegazione circa le sostanze responsabili della colorazione
scura del balsamico. La reazione di Maillard spiega come, mescolando zuccheri riducenti
e amminoacidi in soluzione, si abbia lo sviluppo di anidride carbonica e di composti di
colore scuro, le melanine. Tale reazione, a temperatura ambiente, avviene in settimane o
addirittura mesi. Secondo la teoria di Sacchetti sarebbero le melanine stesse le responsabili
della caratteristica colorazione del balsamico. Inoltre le condizioni all’interno dei vascelli
sono tali da consentire la formazione delle melanine, a causa della notevole presenza di
zuccheri riducenti come glucosio e fruttosio e di amminoacidi liberati dall’autolisi di
cellule di lievito. La presenza di zuccheri riducenti, di amminoacidi e il lungo tempo a
disposizione creano le condizioni necessarie e sufficienti alla formazione delle melanine.
Gli anni della ricerca scientifica tra le due guerre mondiali contribuirono notevolmente
alla conoscenza del balsamico di Modena. Il professor Onorato Verona, docente di
Microbiologia agraria e tecnica dell’Università di Pisa, pubblicò nel 1942 un manuale dal
titolo L’aceto, nel quale dedicò ampio spazio al balsamico riportando integralmente le
notizie fornite dall’avvocato Aggazzotti, il quale parla dell’aceto balsamico modenese,
preparato fin dai tempi dei Farnese, a partire da mosto bollito e concentrato.
In un piccolo volume, il professor Alfredo Mazzei definisce il balsamico tra la categoria
degli aceti di lusso , caratterizzati da una particolare fragranza e maggiore delicatezza
rispetto al comune aceto. Nello stesso volume riporta inoltre la procedura risalente
all’Aggazzotti. Citandolo:
Fra gli aceti di lusso gode meritata rinomanza l’aceto balsamico di Modena, un prodotto sciropposo che racchiude dal
40 al 50 per cento di sostanze estrattive: il sapore è dapprima dolciastro e poi alquanto aspro. Contiene una quantità
moderata di acido acetico, ma è assai ricco di eteri composti, di aldeide e di acetale; ha pertanto un profumo intenso e
gradevole. Bastano poche gocce di questo aceto per profumare un litro di aceto comune; da solo non è adatto come
condimento. L’aceto balsamico di Modena viene preparato dal mosto di uva Trebbiano, lasciato fermentare per circa 24
ore in presenza delle vinacce. Il mosto viene quindi passato per setaccio e successivamente concentrato mediante
ebollizione in caldaie di rame, fino a circa due terzi del volume primitivo. Di solito, dopo la cottura, il mosto viene
parzialmente disacidificato con polvere di marmo o con cenere, e poi collocato entro vasi di legno larghi e bassi,
chiamati sogli. Avvenuta la chiarificazione, il liquido viene messo in botti di quercia o di castagno o di gelso. Tali
recipienti (dalla capacità da 20 a 60 litri) vengono dapprima imbevuti con buon aceto e poi riempiti per tre quarti di
mosto. Le botti vengono conservate non nelle cantine, ma in locali elevati. Ogni anno si fa la colmatura dei recipienti
(rincalzo): con il liquido del secondo vaso, si rincalza in primo; con il liquido del terzo, si rincalza il secondo, e così di
seguito. L’aceto viene fatto invecchiare per anni e anni; nelle patriarcali famiglie modenesi se ne trova di cento e anche
centocinquanta anni. Generalmente questo prelibato aceto non viene commercializzato.
In effetti la genesi storica delle due differenti denominazioni origina più da esigenze di
promozione del nome del territorio provinciale che non da significative differenze
produttive o organolettiche. Il fatto stesso che lo sviluppo del balsamico industriale avesse
già imposto sul mercato interno e internazionale il suffisso “di Modena”, ha indotto i
produttori reggiani a ricercare una propria collocazione autonoma sul mercato nel
momento in cui è iniziato il percorso per il riconoscimento della Dop.
Aceto balsamico tradizionale di Modena
Il metodo di produzione descritto da Francesco Aggazzotti nella seconda metà
dell’Ottocento resta tuttora come riferimento per la produzione dell’aceto balsamico
tradizionale di Modena. Il prodotto che si ottiene è un condimento pregiato reperibile sul
mercato in quantità limitatissime. La produzione dell’aceto balsamico tradizionale di
Modena è destinata alle tavole più raffinate, ai collezionisti e veri estimatori. Il prezzo che
oscilla tra i seicento e i duemila euro al litro ne fa un condimento raffinato ed esclusivo.
La produzione è regolamentata dal disciplinare di produzione della Dop (Denominazione
di origine protetta) del 15 maggio 2000. Il disciplinare è preceduto da norme nazionali
datate 1983, 1986 e 1987. Nel 1983, tramite un decreto ministeriale, era stata infatti
riconosciuta ufficialmente la denominazione “aceto balsamico tradizionale di Modena”.
Il prodotto finale deve essere caratterizzato da un colore bruno carico lucente, deve avere
una discreta densità, un bouquet aromatico deciso ma gradevole e aromatica acidità. Il
sapore è caratteristico e dolce agro, ma ben equilibrato con un’acidità apprezzabile.
L’acidità totale, espressa in grammi di acido acetico per 100 grammi di prodotto, deve
essere superiore a 4,5.
Ogni produttore deve conferire al consorzio di riferimento la quantità di aceto che intende
imbottigliare. Un team di assaggiatori è incaricato di valutarne l’idoneità: solo se le
caratteristiche organolettiche sono considerate adeguate, infatti, il prodotto può essere
imbottigliato.
Le differenti tipologie di balsamico tradizionale di Modena sono immediatamente
riconoscibili. Il disciplinare di produzione prevede due tipi di aceto balsamico tradizionale
destinato alla vendita. Il primo è il cosiddetto “affinato”: si tratta di un prodotto
invecchiato almeno dodici anni e identificato da capsule di colore avorio.
Il secondo è l’aceto balsamico tradizionale “extravecchio”: è un aceto invecchiato
almeno venticinque anni e identificato da capsule color oro.
L’aceto balsamico tradizionale deve essere obbligatoriamente commercializzato
all’interno di bottigliette dalla capacità di cento millilitri. La bottiglietta, a forma di goccia
bombata su base quadrata, è stata ideata dal designer Giugiaro.
Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia
L’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, con un metodo simile al balsamico
tradizionale modenese, si ricava dalla fermentazione alcolica e biossidazione di solo
mosto cotto derivante da uve di vigneti della provincia reggiana. In precedenza si usavano
uve di Trebbiano, Sauvignon, Sgavetta, Berzemino, Occhio di gatta, Ancellotta e
Lambrusco.
La lavorazione, l’affinamento e l’invecchiamento devono avvenire all’interno del
territorio della provincia. Le sue caratteristiche organolettiche sono inconfondibili e
derivano da un invecchiamento ottimale del prodotto all’interno di batterie di legni
differenti, dalle dimensioni decrescenti, ma dalla durata mai inferiore ai dodici anni.
L’affinamento del bouquet è un momento molto delicato e complesso e richiede notevole
esperienza da parte del maestro acetaio, il quale dovrà monitorare periodicamente le
trasformazioni e ripristinare annualmente il livello con travasi e rincalzi.
Il prodotto finale ottenuto, frutto di una sapiente lavorazione erede di tradizioni secolari,
si presenta di colore scuro, limpido con una densità quasi sciropposa. Il profumo,
persistente e penetrante, è caratterizzato da una buona acidità e deriva da legni utilizzati
per la costruzione delle botti, all’interno delle quali avviene l’invecchiamento.
Il procedimento di produzione ricalca essenzialmente il metodo previsto dall’Aggazzotti,
in uso per la produzione del balsamico tradizionale di Modena.
Per prima cosa si procede con la vendemmia e, una volta ottenuto il mosto dalla pigiatura
si procede alla sua cottura in caldaie. La cottura determina una progressiva concentrazione
fino 28°-36° zuccherini. Il mosto viene successivamente raffreddato e lasciato decantare
per tutto l’inverno. La primavera successiva segna l’inizio della fermentazione alcolica e
della fermentazione acetica poi l’ossidazione acetica, favorita dall’innesto di batteri, le
cosiddette madri.
Una prima differenza rispetto alla produzione del balsamico la si riscontra nella forma dei
vascelli impiegati: quelli in uso nel reggiano si presentano infatti più allungati rispetto a
quelli fabbricati nel modenese.
I legni utilizzati sono rovere, gelso, frassino e ginepro. Ognuno conferisce al prodotto una
particolare fragranza. Durante i primi dodici anni di invecchiamento, il balsamico viene
gestito mantenendo costante il livello di liquido all’interno dei barili mediante il rincalzo
dal barile adiacente (dal più grande al più piccolo).
Ogni anno, l’evaporazione causa la perdita di circa il 20-30 per cento del liquido. Dopo
almeno dodici anni di maturazione, si inizia a prelevare annualmente l’aceto maturo.
La produzione complessiva di aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia è ridotta
rispetto a quello modenese ma è anch’essa di eccellente qualità e profondamente radicata
nelle tradizioni e nella storia locali.
Nel 2000 l’Unione Europea ha inserito l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia
tra i prodotti a Denominazione d’origine protetta, pubblicandone il disciplinare di
produzione. Inoltre in tale occasione è stato riconosciuto il Pai (Product Authentication
Inspectorate) come organismo di controllo, con il compito di verificare il rispetto e
l’effettiva attuazione del disciplinare produttivo. Nel disciplinare infatti sono dettagliati
tempi e metodi delle diverse fasi produttive ed è prevista l’origine esclusiva del balsamico
da mosto cotto a fuoco diretto proveniente da uve coltivate nella provincia di Reggio
Emilia.
I requisiti del prodotto finale, specificati nel disciplinare stesso, vengono valutati tramite
un esame organolettico da un team di esperti assaggiatori. Tale team è composto da cinque
componenti, selezionati da un albo depositato alla Camera di Commercio di Reggio
Emilia, i quali giudicheranno i campioni resi anonimi. Il giudizio è espresso in punteggio e
riportato su specifiche schede. Se dal punteggio emerge l’idoneità del prodotto si procede
alla sua commercializzazione, in caso contrario viene rimesso nei barili per proseguire
ulteriormente l’affinamento.
Le bottiglie, all’interno delle quali è venduto il balsamico, devono essere a forma di
tulipano capovolto e con la capacità 100 millilitri.
Sulle bottigliette viene apposto un bollino, che può color aragosta, argento o oro. Il
bollino aragosta viene apposto sulle bottigliette degli aceti caratterizzati da dodici anni di
invecchiamento. Il bollino argento identifica un prodotto di medio invecchiamento, che ha
subito una parziale evaporazione dell’acido acetico che permette di apprezzare la sua
maggiore dolcezza. Il bollino oro, infine, identifica un prodotto caratterizzato da un
invecchiamento della durata di almeno venticinque anni.
Tabella 1: Differenze fra il balsamico tradizionale modenese e reggiano
Burrata, tagliolini vegetali, passata di piselli e aceto balsamico di Modena Igp Opera®,
chef Roberto Carcangiu
Insalata di germogli e fiori all’aceto balsamico di Modena Igp Opera®, sulla crème brûlée
di foie gras, chef Stefano Cerveni
Crostino con sorpresa e aceto balsamico di Modena Igp Opera® riserva, chef Lucio
Pompili
Sandwich di triglia e scarola su gazpacho di pomodoro e aceto balsamico di Modena Igp
Opera® riserva, chef Gioacchino Pontrelli
Civet di mare in aceto balsamico di Modena Igp Opera® riserva, chef Silvio Salmoiraghi
Filetto di rana pescatrice al guanciale croccante, passatina di zucca gialla e gocce di aceto
balsamico di Modena Igp Opera®, chef Paolo Amadori
Finta cassata in aceto balsamico di Modena Igp Opera® riserva, chef Pino Cuttaia
Gamberi rossi e carciofi con finto lardo di seppia e aceto balsamico di Modena Igp
Opera®, chef Leonardo Marongiu
Filetto di manzo con cipolla di Sulmona glassata all’aceto balsamico di Modena Igp
Opera®, chef Peppino Tinari
Quaglia dorata con quinoa, crema di topinambur e caviale di aceto balsamico di Modena
Igp Opera®, chef Andrea Valentinetti
Cheescake ai fichi, aceto balsamico di Modena Igp Opera® e gelato al dragoncello, chef
Giovanni Ciresa
Surprise D&G esclusiva Opera®, maestro pasticcere Denis Dianin
Biscotto morbido all’olio d’oliva, aceto balsamico di Modena Igp Opera® e noci, maestro
pasticcere Alessandro Masia
Crostata di uva e crema di ricotta con aceto balsamico di Modena Igp Opera® riserva,
chef Tiziano Rossetti
Croccantino ghiacciato ai lamponi, gelato alla vaniglia e aceto balsamico di Modena Igp
riserva Opera®, maestro pasticcere Andrea Tortora
Pera sciroppata con gelato di aceto balsamico di Modena Igp Opera®, chef Herbert
Hintner
Operose, maestra pasticcera Paola Ziliani, maestro pasticcere Daniele Dallaturca
Chef Isa Mazzocchi
Chef Micol Pisa (foto Roberto Pedi)