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Allievo Docente
Anno I
sulla relazione uomo-ente - o per meglio dire sull’uomo che si affaccia sul mondo ed entra in
relazione con esso- secondo la metafora dell’esperienza visiva. Si dice che ogni cosa si nasconde in
una ruga complessa, finché non la si spiega. Ebbene, nel libro proposto l’obiettivo dell’autore e il
senso dell’intera questione a me sembrano in buona parte spiegati già a partire dal titolo.
Il riferimento alla luce, per esempio ci dice immediatamente che senza di essa non ci sarebbe alcuna
esperienza. Per vedere e riconoscere l’uomo usa il metodo della differenziazione, come Adamo che
differenziando il mare dal cielo dava nomi: “io sono io e non sono tu, questo è il mare e questo è il
cielo e il cielo non è il mare anche se qualche volta il mare sembra il cielo a testa in giù”. E per farlo
ha bisogno della luce che di proposito è stata creata prima di lui. Senza la luce ogni cosa rimane
velata, persa nell’omogeneità delle tenebre e di fatto non creata, inesistente si potrebbe anche dire.
Paul Gilbert cita a proposito un passo del Pensée del hommes et foi en Jésus Christ di Andre Léonardi
nulla vi appare e, tuttavia, apparire è essenziale per quel paesaggio. Questo paesaggio è dunque
inesistente. Spunta la luce e, subito ciascun tratto si delinea e prende vita, gli oggetti e le forme
acquistano il loro contenuto: tutto si schiude e si mostra sotto la sua azione creatrice>>.
L’aggettivo “piccola” riferito alla metafisica non vuole sminuire la stessa, non vuole neanche essere
un modo ironico di parlare della scienza prima. E’ solo un modo per indicarci che nell’ambito
dell’esposizione l’autore userà una sorta di metafisica non per le cose del cielo ma, spiega Petrosino,
delle cose di questa <<terra/cielo che è sempre ogni singolo uomo>>. La scelta, quindi dipende dal
fatto che il libro presenta una questione che appartiene all’orizzonte antropologico che, tutto
sommato, può essere spiegato mediante un “metodo fenomenologico” senza però rinunciare a
raggiungere conclusioni metafisiche. Questa metafisica “dal basso” ci spiega lo stesso autore<<viene
assunta in riferimento all’esperienza umana della luce in quanto sguardo>> (corsivo non mio).
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Prima di entrare nel vivo della trattazione, vanno indicate alcune premesse. La prima riguarda
la natura creaturale dell’uomo che “entra nel mondo come essere del bisogno su cui progressivamente
si innesta il bisogno di essere”ii. Per completezza va detto che l’essere del bisogno è una creatura
vivente, mentre ogni ente - colpito dalla luce - avanza verso lo sguardo mostrando il proprio bisogno
di essere. La seconda premessa riguarda l’ermeneutica che l’uomo applica nella lettura dell’ente che
gli si palesa davanti. L’occhio di chi vede o guarda, in effetti, non è mai un organo vergine ma si
porta dietro un bagaglio di esperienze e preconcetti e questo vale tanto per chi vede un ornitorinco
per la prima volta, tanto per chi guarda un barbone che chiede aiuto.
Fatte le dovute premesse è necessario puntualizzare (anche se a questo punto non dovrebbe
essere necessario) che, al centro della questione non è il ribadire il primato della vista, ma capire
quale esperienza l’uomo viva quando l’altro (ente) illuminato si mostra e soprattutto quale sarà la sua
risposta. L’uomo, entrando in contatto con l’essere del bisogno, cosa farà? E cosa farà davanti all’ente
che ha bisogno di essere? L’uomo dovrà pur fare qualcosa. Ed è questa la questione che il libro ci
propone: capire quale sia l’atteggiamento etico - letto secondo le modalità dello sguardo - dell’uomo
davanti a ciò che gli si fa davanti grazie alla luce. Del resto, l’autore ci spiega come l’ente che
illuminato va incontro all’uomo può farlo nella misura in cui l’uomo può andargli incontro. Il “potere”
andare incontro dell’uomo, la portata della sua risposta, dipende da molti fattori comprese la sua
succitata lettura ermeneutica della realtà, le condizioni vitali in cui si trova, le sue intenzioni. Certo è
che il primo momento che scatena tutto l’iter cognitivo – o per meglio dire l’atto del rispondere,
l’andare incontro, l’agire - è un puro atto di intuizione. È in quell’attimo intuitivo che l’uomo si
stupisce nel cogliere l’invisibile nel visibile. Uno stupore che appassiona e spinge il tentativo di
scoprire l’ente sempre di più, di andare incontro all’ente gli si fa incontro, così come si può. Nel
movimento dialogico di reciproco incontro l’uomo è animato da sentimento, volontà e ragione. Tre
facoltà che intrecciandosi insieme gli permettono di cambiare sempre prospettiva e intenzione, così
che se prima guarda, poi punta, osserva, scruta, guarda dritto e di sbieco. In questo modo l’uomo da
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una parte definisce sempre meglio l’ente che ha davanti e dall’altra va determinando se stesso e quella
misura del suo sguardo o della sua risposta, del suo poter andare incontro.
Per esempio possiamo chiederci qual è la misura dello sguardo dell’essere del bisogno.
Possiamo dire che l’uomo in quanto creatura - che per vivere ha bisogno dell’altro - deve guardare
l’altro. Il suo guardare è un atto dovuto al proprio istinto di sopravvivenza. Il soggetto deve andare
dietro le cose altrimenti morirà o si estinguerà. L’uomo guarda all’acqua altrimenti muore di sete. Il
neonato guarda alla madre che lo protegge altrimenti muore. Il suo sguardo sarà di “appropriazione”
e la misura sarà data dal dovere. Potrà quindi guardare nella misura in cui deve. Non potrà
contemplare il cielo de sarà in una caverna, non potrà dedicarsi ad ammirare un falco che vola se la
Quando l’uomo avrà il desiderio di qualcosa che è slegato dalle necessità primarie, come l’avere tutto
a portata di mano, avere certezze, avere cose migliori degli altri, avere potere o almeno la sensazione
di potere sulle cose e possesso delle cose, allora il suo sguardo virerà dalla modalità di appropriazione
a quello invidioso fino a quello idolatrico. Per quanto riguarda lo sguardo invidioso il Petrosino ci
dice che esso è condizionato da una malizia o peggio da una malvagità che acceca il soggetto. Non è
una cecità reale ma sofferenza nel guardare l’ente che spinge il soggetto a chiudere lo sguardo o a
guardare di traverso fino a che se l’invisibile rimane invisibile, il visibile diventa invisibile o distorto
fino alla sua distruzione. È un po’ il caso di Satana che non potendo avere il bene farà del male il suo
bene. Nel caso dello sguardo idolatrico la questione si fa più complessa e nasce quando il desiderio
ossessionante diventa senso di mancanza e di inquietudine, si confonde insomma con il bisogno. Così
il soggetto per la sua necessità di sentirsi sicuro e appagato a tutti i costi costruisce l’idolo da cui
finisce per essere posseduto proprio per quel godimento che prova e lo appaga.
Per tutte queste modalità dello sguardo: di appropriazione, invidioso, idolatrico a ben vedere,
portano il soggetto a limitare la propria visuale. Sono sguardi ciechi in fondo. A fuoco è l’ente e tutto
guardare solo ciò che si vuole, proprio perché il resto rimane appannato dall’indifferenza.
Nell’applicazione di questi sguardi limitati però l’uomo sembra appagare se stesso. Egli (l’uomo)
convinto di avere ciò che vuole di fatto non si accorge di avere al massimo una vita non autentica.
E’ un po’ il caso di quel don Marignan, parroco descritto da Guy de Maupassant nel suo “Plenilunio”
che vive la propria vita nella certezza che ogni cosa corrisponda ad una funzione o che a tutto ci sia
una risposta che lui possiede. O come Kleinman, impiegato anonimo del film di Woody Allen “Ombre
e Nebbia” che si dice incapace di “fare il salto” per provare finanche la sua stessa esistenza e che si
dispera quando scopre che una stella - la cui vista lo ha abbagliato - potrebbe non esistere più. Per
Kleinman è naturale che quello che si vede sia lì, altrimenti uno potrebbe vedere una sedia e sedendovi
Il dramma per persone come Kleinman e don Marignan - che devono avere tutto sotto mano e sotto
controllo - si consuma quando la realtà quotidiana si manifesta improvvisamente nella sua modalità
più intima al loro sguardo chiuso, sempre in atteggiamento “appropriante”. Il parroco è costretto ad
uscire la notte e vede uno scenario paradisiaco che gli si palesa in tutta la sua fulgida bellezza grazie
al plenilunio. Ne resta folgorato ed è sinceramente stupito. Don Marignan potrebbe godere anche lui
di quel paradiso se solo rispondesse nel modo giusto alle domande che tanta bellezza gli suggeriscono:
“perché tutto questo di notte quando tutti dormono?”, “ma per chi è tutto questo?”.Potrebbe
rispondere “anche per me” invece di negare lo sguardo per scappare via. Ma il “per chi?” è già
inquinato dal “perché?”. “Perché di notte se noi di notte dormiamo?”.Nel parroco c’è già la
predisposizione a collocare l’ente davanti a sé in un posto ben definito della griglia quotidiana per
appagare il proprio bisogno di certezza. Nel momento in cui com-prende che non arriverà mai a dare
una risposta adeguata alle sue domande capisce che non potrà saziare il suo bisogno di incasellare
quella scena, che la ricerca continua necessita di “essere sale e luce” di “passione e struggimento” per
chi vuole vedere le cose esattamente come sono quello che sono( e come chiedono di essere). Allora
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si ritrae, sfugge all’appello e si rintana nella sua quotidiana e cieca certezza che in fondo è l’humus
in cui si è formato il suo vissuto storico che ha condizionato la sua visione e la sua risposta.
Anche Kleinman fornisce la sua risposta ad una notte travagliata di realtà che gli vanno incontro:
finisce col lavorare per un circo diventando l’assistente di un illusionista. Quando l’anonimo
impiegato si propone al prestigiatore per assisterlo nel suo spettacolo, sostiene che la gente “ama” le
illusioni e l’illusionista gli risponde prontamente che la gente non proprio le ama, ma sicuramente ne
ha “bisogno”. Kleinman non abbocca alla battuta ironica e resta nel circo. Egli è in fondo un po’
cinico e anche un po’ malizioso. Non solo sfugge la realtà ma addirittura si pone come creatore di
realtà fittizie per tutti quelli come lui. I quali pur desiderando di amare la realtà provano dolore nello
C’è da chiedersi da cosa realmente siano scappati i nostri due eroi. E’ palese che qualcosa li ha stupiti,
qualcosa che la luce ha messo in chiaro: lo scarto tra l’ente e l’essere e cioè quell’invisibile che sta
dietro il visibile, quel qualcosa che immediatamente si rivela nel punto di massimo svelamento
dell’ente per mezzo della azione “creatrice della luce”. Lo stupore in fondo cosa è se non quella
sensazione di scacco che l’uomo prova di fronte allo scarto che non può cogliere, di fronte a quell’ in
più nel meno, quella idea di infinito che pur desiderando l’uomo non può raggiungere? Accettare lo
stupore e lo scacco è complicato, significa donarsi all’altro che si dona per ciò che è nella modalità
in cui è. È essere u scantatu d’a stidda che pur capendo che il mondo non è a misura dei suoi pensieri,
pur desiderando per sé tutto quel più nel meno, tuttavia apre le braccia come se accogliesse la sfida e
acconsentisse a decidersi a guardare con nuovi occhi quel volto nudo il cui sguardo <<interpella
suscita nell’altro la conoscenza di una responsabilità in cui deve impegnarsi con una risposta libera e
i
Cf. P.P. Gilbert,La semplicità del principio-Introduzione alla metafisica, Piemme Spa, Casale Monferrato 1992,338.
ii
Cf. C. Zuccaro,Teologia morale fondamentale, Queriniana, Brescia 2017,29.
iii
P.P. Gilbert,La semplicità del principio, Piemme Spa, Casale Monferrato 1992,335-336.
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