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I grandi dischi del rock #21

Prendete una sirena, gettatela in un buco nero. Che suono sentite? Nessuno, la gravità del buco nero
risucchia tutte le eventuali onde sonore. L’informazione è persa per sempre? No: l’energia della sirena
viene trasmessa all’esterno del buco sotto forma di radiazione di Hawking, questa sì convertibile in
suono*. Abbiamo appena ottenuto “Loveless” dei “My Bloody Valentine”.
Per i “My Bloody Valentine” il rumore chitarristico non è fine a sé stesso: è un modo per raggiungere il
trascendente. Questa commistione di violenza e purezza li rende gli zen della new wave. La genialità
dei “My Bloody Valentine” sta nel fatto che non abbelliscono melodie con chitarre distorte bensì le
fanno emergere dal caos strumentale (un altro livello rispetto ai “Jesus and Mary Chain”, cui molto
spesso sono associati). La loro è pertanto una ricerca di tessiture musicali, parente di quella dei Sonic
Youth. “Loveless” rappresenta l’apice di questa idea: un flusso unico nel quale sono immersi rumore e
melodia senza soluzione di continuità, l’uno al servizio dell’altra, l’uno causa e conseguenza dell’altra,
che si incarna in un suono ossessivo, scarno e atono e allo stesso tempo mistico e profondo. A contare
non sono più le canzoni o le melodie in sé ma i vortici di suoni amalgamati fra di loro: ogni canzone è
un diverso impasto sonoro. La loro musica è l’equivalente punk dei quadri di Turner. I pezzi di
“Loveless” sono dei mantra post-industriali: concetti di trascendenza cari alle filosofie orientali sono
raggiunti attraverso infinite stratificazioni di chitarre e synth; i brani vanno alla deriva senza che
succeda nulla, appagati di esistere in questo loro stato di permanente stupore. L’album ha
cambiato il significato della parola “musica” provando l’equivalenza tra “ruomoroso” e
“sinfonico” allo stesso modo con cui Einstein provò l’equivalenza tra massa inerziale e
gravitazionale.
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