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1 Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 216-219, DK fr. 80 A 14, trad. it. di M. Timpanaro
stence¸ New York, 1958, trad. it. di P. Gambazzi, Estesiologia e allucinazioni, in E. Minkowski,
V. v. Gebsattel, E. Straus, Antropologia e psicopatologia, Bompiani, Milano, 1967, pp. 207-208.
3 G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Éd. de Minuit, Paris, 1991, p. 123.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 259
in Sofisti. Testimonianze e frammenti, Nuova Italia, Firenze, 1949; Id., Frammenti, trad. it. di
C. Moreschini, Boringhieri, Torino, 1959. Per un’analisi accurata, e una ricontestualizzazione
contemporanea, delle tre tesi del Trattato, cfr. B. Cassin, L’effet sophistique, Gallimard, Paris,
1995 e A.P.D. Mourelatos, Gorgias on the Function of Language, in «Philosophical Topics»,
XV, 2, 1987, pp. 135-170.
5 «[…] come dice Gorgia “per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è in-
gannato è più saggio di chi non lo è”. Chi inganna è più giusto in quanto ha fatto quello che ha
promesso, e l’ingannato è più saggio, perché chi non è insensibile è più facilmente preso dal
piacere delle parole», Plutarco, La gloria degli Ateniesi, in Gorgia, Frammenti, a cura di C.
Moreschini, cit., pp. 55-56.
260 ALBERTO GUALANDI
80; R. Rorty, Habermas and Lyotard on Postmodernity, in R.J. Bernstein, ed., Habermas and
Modernity, Cambridge University Press, Cambridge, 1985; Id., Le cosmopolitisme sans émanci-
pation (en réponse à J.-F. Lyotard), in «Critique», 456, 1985; J. Habermas, Die Moderne – ein
262 ALBERTO GUALANDI
unvollendetes Projekt, in Id., Kleine politische Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1990. Cfr.
anche AA.VV., J.-F. Lyotard: réécrire la modernité, in «Les Cahiers de Philosophie», 5, 1988.
8 J.-F. Lyotard, Histoire universelle et différences culturelles, in «Critique», 456, 1985, ora
riadis e Léfort. Sull’importanza di questi eventi politici per il pensiero di Lyotard, cfr. J.-F.
Lyotard, Histoire universelle et différences de culture, cit., p. 563. Per quanto riguarda l’Algeria
e i testi redatti per Socialisme ou Barbarie, cfr. Id., La guerre des Algériens, Galilée, Paris, 1989.
10 Cfr, J.-F. Lyotard, J.-L. Thébaud, Au juste, Christian Bourgois, Paris, 1979, pp. 141
Paris, 1983 – un’opera la cui ricezione è rimasta in Italia ingiustamente nell’ombra della Condi-
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 263
di giustizia cui la pratica della filosofia non può che continuare ad essere
fedele, anche in epoca postmoderna, sarebbe quella di «dare voce» – sia sul
piano politico, che su quello etico, estetico, esistenziale e, in ultimo, ontolo-
gico – a ciò che non ha ancora una propria voce, al sentimento muto e «i-
narticolato» che non ha ancora trovato «riparo» in un «idioma» capace di
offrirgli ospitalità e conforto. Lo strumento delegato a tale scopo è, come
abbiamo già anticipato, il giudizio riflettente – strumento flessibile che ha la
capacità di circumnavigare le «isole di senso» che costituiscono l’«arci-
pelago (discorsivo) della ragione», definendone i confini ma tracciando an-
che dei passaggi, delle analogie che permettono di dire ciò che fino a quel
momento non sembrava «possibile dire» (e su cui sembrava necessario, sen-
sato, onesto, «tacere»). In conclusione, «giudizio riflettente» è il nome che
Lyotard assegna all’istanza razionale – senza identità culturale determinata,
poiché condivisa da una generica comunità di sopravviventi – capace di dar
voce filosofica a quei sentimenti muti, a quelle emozioni nascenti, a quelle
«frasi in attesa» che non trovano accoglienza in alcun «genere di discorso»
precostituito e ordinariamente vigente. Un’istanza capace di far fronte a
quei «casi singolari» che, come sosteneva Hannah Arendt in Eichmann a
Gerusalemme, possono essere giudicati soltanto a misura che si presentano,
perché non ci sono regole, schemi, concetti – forniti da una tradizione di-
scorsiva storicamente consolidata – che permettano di giudicare (in modo
determinante) ciò che è «senza precedenti»12. In altri termini, «giudizio ri-
flettente» è ciò che assegna un dignità filosofica all’«evento senza nome»:
ovvero il nome (lyotardiano) dell’operatore filosofico, «libero e indetermi-
nato», ancora capace di offrire accoglienza all’«evento di verità».
Ora, se questo è l’esito ultimo della riflessione lyotardiana sul postmo-
derno, perché nell’«opinione pubblica mondiale» Lyotard ha continuato ad
essere percepito come un sofista contemporaneo che dall’occorrere di ogni
«evento» ha tratto l’occasione per atteggiarsi ad «avvocato delle cause per-
se»13? Dopo avere identificato nell’attività riflettente del giudizio quella fa-
coltà – comune all’umanità del «dopo-Auschwitz» – che costituisce il solo
antidoto possibile al relativismo estremo, e quindi al nichilismo postmoder-
tion. Sarebbe interessante confrontare questo tema lyotadiano con l’analogo problema del di-
saccordo e dell’incomunicabilità in Cavell. In Lyotard il dissidio è dovuto a un meta-disaccor-
do, in quanto i criteri vigenti in un determinato discorso «recano torto» ad una «pretesa» di
razionalità che non ha ancora trovato riconoscimento e voce.
12 Cfr. J.-F. Lyotard, Survivant, in Lecture d’enfance, Galilée, Paris, 1991, pp. 86 sgg.
13 Trae cioè l’occasione per recitare la parte di un moderno Catone: «Victrix causa deis
placuit, sed victa Catoni», Catone il vecchio, citato da H. Arendt, Juger. Sur la philosophie cri-
tique de Kant, Éd. du Seuil, Paris, 1991, p. 20. In altra sede ho sostenuto che in tutto il pensie-
ro di Lyotard è in atto un «corpo a corpo» che rende indistinguibile il filosofo dal sofista, e che
fa in effetti di Lyotard un moderno «filosofista». Cfr. A. Gualandi, Lyotard, Les Belles Lettres,
Paris, 1999, cap. 1 e pp. 159-160.
264 ALBERTO GUALANDI
3. L’abisso sublime
In altre occasioni, ho tentato di rispondere a queste domande mostran-
do che la riflessione di Lyotard è fin dall’inizio pervasa da una sorta di di-
stimia emotiva, da una sorta di oscillazione pratico-teorica tra due stati sen-
timentali altalenanti – l’entusiasmo e la malinconia – che scuote alle fonda-
menta la nostra «coscienza intima del tempo»15. L’oscillazione lyotardiana
tra entusiasmo e melanconia esprime nel più profondo la condizione quasi-
sublime dell’umanità postmoderna, ma rischia anche di paralizzare definiti-
vamente quella facoltà di giudizio che per Arendt era già stata messa a dura
prova dalla frattura storica prodotta dall’epoca moderna. In ragione di que-
sta oscillazione emotiva e cognitiva, la «breccia del tempo» si riapre ad ogni
istante come una sorta di abisso16. L’esaltazione per la fine delle grandi nar-
razioni moderne, da un lato, la condizione nichilistica di perdita e di lutto,
che tale fine porta inevitabilmente con sé, dall’altro17, sembrano gettare
l’umanità postmoderna in una sorta di baratro ontologico-esistenziale in cui
viene meno quella capacità di pensare e giudicare – in accordo con se stessi,
pur mettendosi al posto dell’altro – che è a fondamento di ogni scambio ra-
zionale e di ogni azione comune18. In altri termini, la condizione relativistica
14Cfr. J.-F. Lyotard, Survivant, op. cit., p. 87. Cfr. inoltre l’emblematico testo J.-F. Lyo-
tard, Grundlagenkrise, in «Neue Hefte für Philosophie», 26, 1986. pp. 1-33.
15 Su questo tema, cfr. L. Binswanger, Melancholie und Manie. Phänomenologische Stu-
dien, Neske, Pfullingen, 1960, trad. it. di M. Marzotto, Melanconia e Mania, Boringhieri, Tori-
no, 1977, 2001. Cfr. inoltre A. Gualandi, Entre enthousiasme et mélancholie. J.-F. Lyotard et la
critique de la faculté de juger postmoderne, in C. Enaudeau, J.-F. Nordman, J.-M. Salanskis, F.
Worms, éds., Les transformateurs Lyotard, (Actes du colloque, Paris, janvier 2007), in corso di
pubblicazione.
16 Cfr. H. Arendt, Between Past and Future (1954), trad. fr. de J. Bontemps et autres, La
de una certa neutralità nei riguardi dell’oggetto […]. Nei casi patologici, nelle psicosi, ogni possibilità
di con-versare viene meno. Il mondo non è più esperito in un ordine neutrale che ci permettereb-
be, mantenendoci ad una certa distanza dall’oggetto, di mutuare il nostro posto con quello di
un’altra persona, di cambiare il nostro punto di osservazione, di realizzare un’azione in comune.
Ogni possibilità di muoverci insieme, sincineticamente, viene perduta», E. Straus, op. cit., p. 208.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 265
19 Su questi diversi tipi di abissi o fratture rintracciabili in Gorgia, cfr. G.B. Kerferd,
Meaning and Reference: Gorgias and the Relation Between Language and Reality, in AA.VV.,
The Sophistic Movement. International Symposium Organized by the Greek Philosophical Soci-
ety, Athens, 1984, pp. 215-222.
20 Cfr. J.-F. Lyotard, Moralités postmodernes, Galilée, Paris, 1993, pp. 93-94.
21 Non bisogna lasciarsi sfuggire il fatto – e vorrei con ciò suggerire un ulteriore punto di
confronto con il problema cavelliano del disaccordo – che il giudizio sublime può assumere
questa posizione centrale nel pensiero di Lyotard perché costituisce una sorta di ipostatizza-
zione trascendentale-ontologica del disaccordo meta-discorsivo: grazie a tale forma «abortita»
di giudizio, il dissidio viene elevato a modello universalmente discordante di pensiero. Già in
Kant, in effetti, il giudizio sublime è prodotto all’occasione di un disaccordo tra la sensibilità,
l’intelletto e l’immaginazione, ed esprime l’impossibilità di fornire una sintesi giudicativa di
«ciò che si presenta» – impossibilità che è però evocatrice, in negativo, di qualcosa d’altro: le
Idee della ragione. Tramite questa modellizzazione dissonante della ragione estetica, Kant –
secondo Lyotard – non ha soltanto anticipato l’estetica romantica, ma anche la poetica di quel-
le avanguardie storiche di cui l’estetica postmoderna costituisce una radicalizzazione. Nell’arte
e nell’estetica postmoderna si potranno dunque reperire svariate declinazioni della categoria
del sublime: sublime metropolitano e sublime tecnologico, sublime «desertificato» (anestetiz-
266 ALBERTO GUALANDI
zato e muto) e sublime della «presenza». Cfr. a questo proposito gli studi dedicati da Lyotard
ad artisti postmoderni: J.-F. Lyotard, Que peindre? Adami, Arakawa, Buren, Éd. de la Diffé-
rence, Paris, 1987; Id., L’inhumain, Galilée, Paris, 1988. Se posso aggiungere a questa lista un
esempio personale di giudizio estetico sublime, mi piacerebbe citare la poetica apocalittica di
Lars von Trier. Dopo la visione di Dancer in the Dark chi non ha avuto la sensazione di trovarsi
nell’impossibilità di «armonizzare» le proprie facoltà intellettuali (sensibilità, intelletto, imma-
ginazione e ragione) determinando univocamente la propria facoltà di giudizio? Da un lato la
sensazione di trovarsi di fronte ad un’opera d’arte geniale, dall’altra la convinzione di confron-
tarsi soltanto con una mistificazione; da un lato l’impressione di avere assistito a una raffigura-
zione epocale dello stato del nostro mondo, dall’altro la sensazione di essere stati manipolati da
un «guru» seducente e senza scrupoli. In breve, un’immagine estetica particolarmente calzan-
te, e un «riflesso» soggettivo ed emotivo straordinariamente potente, di ciò che ho definito
prima la «falsa totalità» ovvero l’«epoca del relativismo assoluto».
22 A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur (1956), Aula Verlag, Wiesbaden, 19865, p. 254, trad.
it. di E. Tetamo, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 269.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 267
industriellen Gesellschaft, Rowohlt, Hamburg, 1957, trad. it. di A. Burger Cori, L’uomo nell’era
della tecnica, Sugarco, Milano, 1984.
24 Cfr. J.-F. Lyotard, Rudiments païens, U.G.E., Paris, 1977.
25 Cfr. J.-F. Lyotard, Logique de Lévinas, in AA.VV., Textes pour Emmanuel Lévinas, J.-M.
Place, Paris, 1980 ; Id., Heidegger et les «juifs», Galilée, Paris, 1988.
26 Cfr. J.-F. Lyotard, Signé Malraux, Grasset, Paris, 1996.
268 ALBERTO GUALANDI
stino27. In altri termini, oltre ad essersi lui stesso affermato come creatore di
historiettes, Lyotard ha compiuto delle instancabili peregrinazioni teoriche
nei luoghi più «caldi» della filosofia contemporanea28. Non è certo qui il
caso di rievocarli tutti. Ciò che mi interessa piuttosto mettere in evidenza
sono le oscillazioni teorico-sentimentali di un pensatore che, traversando
quasi tutti i luoghi significativi dalla filosofia contemporanea – da filosofo
marxista, militante della sinistra antistaliniana (in un periodo in cui la sini-
stra francese era allineata sulle posizioni filo-sovietiche del PCF), a fenome-
nologo, da freudo-nietzscheano «desiderante» a wittgensteiniano – è quasi
la parabola vissuta delle erranze postmoderne della filosofia contemporane-
a: peregrinazione teorica (relativista) a cui siamo particolarmente sensibili in
quanto filosofi di «professione». A cosa è dovuta tale erranza teorica? È
dovuta, come Lyotard stesso probabilmente credeva, ad una sana elabora-
zione del «lutto per le grandi narrazioni»? Oppure tali peregrinazioni sono
anch’esse l’effetto che produce in filosofia la falsa totalità dell’industria
dell’opinione? E quale «volontà» – la volontà di potenza di Nietzsche, il su-
per-ego di Freud, il potere di Foucault, il nulla di Heidegger – si nasconde
dietro queste grandi creazioni del linguaggio, queste grandi narrazioni che
continuano ad essere le dottrine filosofiche? Che cosa governa e regola il loro
oscillare e peregrinare: il grande nomoteta folle di Lewis Carroll (Humpty-
Dumpty), oppure il divino retore Gorgia, colui che incantava le folle usan-
do come un farmakon le sue parole29? Da un lato si potrebbe affermare che
Lyotard è un pensatore che si entusiasmava per mode passeggere, di cui
poi, inevitabilmente, era malinconicamente deluso: ed in tal caso sarebbe
quindi giusto dimenticarlo, come per l’appunto si sta facendo. Dall’altra, si
potrebbe però sostenere che Lyotard è un filosofo che dietro un’apparente
fragilità della facoltà di giudizio filosofico ha dato prova di una virtù più
grande: quella di esporsi fino in fondo, esistenzialmente e intellettualmente,
al pericolo più temibile per un pensatore contemporaneo: il relativismo so-
fistico estremo che s’incarna storicamente nell’epoca postmoderna. Attra-
verso tale terreno insidioso, Lyotard avrebbe lanciato – secondo Derrida –
una grande sfida al nostro tempo: sfida consistente nel ricordare alla nostra
epoca qualcosa di imprescindibile per l’umanità postmoderna: la sua facoltà
di giudizio30.
27
Cfr. J.-F. Lyotard, La confession d’Augustin, Galilée, Paris, 1998.
28
Cfr, J.-F. Lyotard, Pérégrinations, Galilée, Paris, 1990.
29 Gorgia, Encomio di Elena, in Id., Frammenti, a cura di C. Moreschini, cit., p. 32.
30 Cfr. J. Derrida, Préjugés, in J. Derrida, V. Descombes, P. Lacoue-Labarthe, J.-F. Lyo-
tard et autres, La faculté de juger, Éd. de Minuit, Paris, 1985, pp. 96-97.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 269
31 Poteri che traducono in termini linguistici le «facoltà» kantiane nel primo senso del
termine – nel senso cioè della Facoltà della ragion pura o pratica ma anche nel senso del Con-
flitto delle Facoltà: Facoltà delle scienze della natura, Facoltà del diritto etc. In alcuni luoghi,
Lyotard ipotizza una filiazione quasi diretta tra la filosofia di Wittgenstein e di Kant: «La di-
spersione del linguaggio in famiglie di frasi è il tema che Wittgenstein, sapendolo o no, racco-
glie da Kant e che sviluppa il più lontano possibile in direzione di una descrizione rigorosa»,
J.-F. Lyotard, Introduction à une étude du politique selon Kant, in AA.VV., Réjouer le politique,
Galilée, Paris, 1991, p. 133.
33 «Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si pie-
ga. Allora sono disposto a dire: “ecco, agisco proprio così”», L. Wittgenstein, Philosophische
Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953, trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricer-
che filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, § 217. Per un commento di Cavell a questi passaggi, cfr.
La riscoperta dell’ordinario, cit., pp. 43-45.
270 ALBERTO GUALANDI
mente una «immodificabilità della natura umana», come sostiene invece la scuola di Franco-
forte (Habermas compreso) a partire dal celebre saggio critico di Horkheimer (cfr. M. Hork-
heimer, Considerazioni sull’antropologia filosofica (1935), in Id., Kritische Theorie, Bd. I, Fi-
scher, Frankfurt a.M., 1968, trad. it. di G. Backhaus, Teoria critica, Vol. I, Einaudi, Torino,
1974; J. Habermas, Antropologia (1958), in AA.VV., Philosophie, Fischer, Frankfurt a.M.,
1958, trad. it. di G.A. De Toni in G. Preti (a cura di), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 1966). Si-
gnifica semmai definire delle «invarianti» antropobiologiche – invarianti empiriche, relative ad
un determinato stadio dell’evoluzione, che da circa centocinquanta mila anni si mantiene piut-
tosto stabile, secondo quanto sostengono la paleoantropologia e la microbiologia contempora-
nee. Ma significa anche definire delle «varianti», possibili o effettive, che mutano, anche in
modo radicale, col mutare della cultura e della storia, pur continuando a fondarsi sulle prime.
Tali invarianti empiriche sono ovviamente delle invarianti corporali e sensoriali, che hanno un
valore di a priori materiale, ma che possono acquisire nell’esperienza umana anche un carattere
simbolico e linguistico che possiamo definire empirico-trascendentale. Le invarianti «quasi-
antropologiche», identificate da Habermas – il «lavoro» e la «comprensione» – non hanno del
resto un valore troppo differente. Rifiutando di fondare la propria epistemologia su un’espli-
cita antropologia filosofica, Habermas lascia tuttavia sospese nel vuoto teorico, «quasi-trascen-
dentale», tali categorie «quasi-antropologiche» (cfr. J. Habermas, Erkenntnis und Interesse,
Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1968, 1973). Anche interpreti e continuatori contemporanei della
dottrina wittgensteiniana dei giochi linguistici, come Stanley Cavell, sembrano talvolta ritenere
necessaria una esatta determinazione epistemologica di cosa s’intenda per «atteggiamenti natu-
rali» (e propendere quindi per l’eliminazione delle virgolette). D’altra parte però, togliere le
virgolette ed addentrarsi esplicitamente in un’antropologia filosofica, per wittgensteiniani co-
me Cavell, come per la Scuola di Francoforte, sembra implicare necessariamente un atteggia-
mento conservatore. Agli occhi di questi autori, il richiamo a fatti di natura, o a una supposta
natura umana «immodificabile» (relativamente a un determinato stadio dell’evoluzione), cela
inevitabilmente una strategia discorsiva tesa a ostacolare il cambiamento di istituzioni, tradi-
zioni, pratiche e norme ereditate dal passato. Cfr. S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario, cit.,
pp. 383 sgg. Se tale tipo di cautela critica può riguardare posizioni come quelle di Pinker (che
però le rinvia al mittente, invertendo soltanto il colore politico: cfr. le polemiche con Rorty e
con Rose contenute in «Micromega» 4/2005 e 1/2006), può essere evitata da un’antropologia
filosofica per la quale il problema principale non è assegnare il primato alla natura o alla cultu-
ra, bensì individuare il luogo antropobiologico preciso in cui la cultura si radica nella natura.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 271
35 È del resto evidente che concetti come quelli di «reazioni naturali» o «reazioni primiti-
ve» pagano un prezzo piuttosto alto ad una concezione insidiosa della natura umana: il com-
portamentismo. Il carattere insidioso di tale concezione è dimostrato anche dal fatto che alcuni
sostenitori della teoria dei giochi linguistici (non sono però i soli) non hanno ancora finito di
fare i conti con Pavlov e Skinner: a tal proposito cfr. F. Cimatti, Il senso della mente, Borin-
ghieri, Torino, 2005. Per un’interpretazione comportamentista della teoria del linguaggio di
Gorgia, cfr. A.P.D. Mourelatos, op. cit.
36 Cfr. J.-F. Lyotard, Leçons sur l’analytique du sublime, Galilée, Paris, 1991, pp. 196, 261-
262.
272 ALBERTO GUALANDI
ha tuttavia bisogno di essere affermata dal giudizio umano per essere oggettivata in quanto
tale. «Il cielo è blu» è una proposizione vera e oggettiva se, oggi, il cielo è effettivamente blu,
ma tale oggettività non è indipendente dal corpo, dai sensi e dal linguaggio umani. Senza un
essere vivente dotato di occhi e cervello simili ai nostri non ci sarebbe il blu, e senza un essere
vivente dotato di linguaggio non ci sarebbe neppure «il» cielo, poiché il cielo, come l’orizzonte
visivo, non è un «oggetto». Possiamo per esempio immaginarci una cultura in cui non esiste
ancora una parola per cielo, ma soltanto una parola per il cielo-sopra-casa mia, o il cielo-
dietro-agli-alberi, o il cielo-che-si-incontra-all’orizzonte-col-mare, e in cui il cielo sarebbe qual-
cosa di troppo grande da nominare – qualcosa di simile a Dio (cfr. a tal proposito A. Gehlen,
Urmensch und Spätkultur, cit., p. 227, trad. it. cit., p. 242)? Dobbiamo allora dire che una tale
cultura, come «quella del leone», non la riusciremmo a capire? Oppure c’è qualche modo per
tradurre i loro concetti e «verità» all’interno della nostra? Ed il contrario sarebbe pensabile?
Contrariamente a quel che riteneva Gorgia, e a quel che, in modi diversi, sostengono Sapir,
Whorf o Quine, credo che ciò sia possibile nella misura in cui condividiamo un’attività lingui-
stica e immaginativa in gran parte simile a quello degli esseri umani appartenenti ad altre cul-
ture, e un corpo biologico non troppo differente da quello del leone e degli altri animali. An-
cora una volta entrano in gioco le varianti/invarianti antropobiologiche. E ancora una volta
non bisogna dimenticare che, se l’antropobiologia del linguaggio e della cultura si fonda sulla
singolare biologia «neotenica» del corpo umano, quest’ultima rappresenta, a sua volta, soltanto
una variante ontogeneticamente «rallentata» della natura biologica degli altri mammiferi «su-
periori». Affermare la «differenza antropobiologica» tra l’uomo e gli altri animali non significa
necessariamente «strappare» l’uomo alla natura biologica e fare della natura umana una inde-
finibile «anatura». Contrariamente a ciò che affermava Habermas (Antropologia, cit.), in tale
rischio incorre talvolta Gehlen, ma anche alcuni biologi contemporanei che pongono giusta-
mente l’accento sui concetti di neotenia ed eterocronia: cfr. A. Prochiantz, La biologie dans le
boudoir, Odile Jacob, Paris, 1995, pp. 143 sgg.
38 Cfr. Kant, KrV, A101.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 273
care, con cui si intenziona «ciò che ci viene dato», con cui si dà voce a quei
sentimenti muti, a quelle frasi in attesa che ci fanno pensare. Se è vero che
la «follia» (biologica o psicologica che sia) annebbia profondamente la fa-
coltà di giudicare, è anche vero che la paralisi della facoltà di giudicare por-
ta ad una più o meno completa (filosofica) follia39. Oltre l’ignoranza ogget-
tiva, in cui inevitabilmente ci areniamo in un mondo ipercomplesso, è que-
sta paralisi-follia che è largamente sfruttata dai creatori di historiettes e dai
fabbricatori di opinione, che mirano a indebolire il nostro – già fragile per
«natura» – «senso» della realtà. In altri termini, la nostra libertà si concre-
tizza nella nostra capacità di giudicare – cosa che il filosofo del postmoder-
no aveva dapprima riconosciuto, e poi disconosciuto, giudicandola troppo
«moderna».
Tutto questo per ritornare a qualcosa di più «concreto», di cui si è di-
scusso anche negli altri interventi che hanno animato il nostro dibattito. Se-
condo Cavell, «un (progetto di) mondo» in cui l’aborto è legalmente per-
messo rappresenta un (progetto di) mondo migliore di quello in cui l’aborto
non è permesso – un’affermazione che, se comprendo bene l’argomentazio-
ne, riceve nel pensiero di Cavell una giustificazione in ultima istanza prag-
matica40. Dal punto di vista di una filosofia del giudizio, si potrebbe forse
offrire una giustificazione più forte di tale affermazione: una giustificazione
implicita nel fatto che colui che vive in tale mondo è, in quanto essere uma-
no razionale, «oggetto» di un giudizio filosofico che gli attribuisce la facoltà
(filosofica) di giudicare. Credo, in altri termini, che il carattere «migliore» sia
dovuto al fatto che, in tale mondo, ciò che viene valorizzata è proprio l’au-
tonoma facoltà di giudicare – e non i comitati di bioetica, la scienza
dell’embrione, la religione o la selezione socio-biologica «naturale». Quale
39 L’atto di giudicare presuppone sempre un tentativo di accordarsi con se stessi oltre che
con l’altro. L’esperienza del pensiero è infatti un’esperienza di dialogo interiore: come se, nel
dialogare con se stessi, fossimo già in presenza di un Altro. In altri termini, il dialogo silenzio-
so, il pensiero, presuppone sempre un’interiorizzazione dell’Altro (cfr. a questo proposito,
Mead, Gehlen, Tugendhat). Il giudizio è quell’atto intra-intersoggettivo di pensiero che sanci-
sce l’accordo raggiunto con noi stessi e con il giudizio, immaginariamente anticipato, dell’Al-
tro. Tale carattere al contempo inter- e intra-soggettivo del giudizio umano era già stato del
resto intuito ed espresso da Kant nella formulazione delle tre massime regolative del senso co-
mune: «Pensare da sé; pensare mettendosi al posto di ogni altro; pensare sempre in accordo
con se stessi», Kant, KU, §40. Filosoficamente intesa, la follia di cui si diceva prima può essere
quindi considerata come un’interruzione del rapporto comunicativo con questo «Altro» inte-
riorizzato – un’alterità che, in Descartes, come in altri autori contemporanei, è interpretata
sovente da un «interlocutore infinitamente maligno». Descartes sfugge del resto al suo «soli-
psismo iperbolico» soltanto ipotizzando un interlocutore infinitamente benigno.
40 In tal caso la pragmaticità si valuta in termini di costi e benefici. Davanti all’aborto si
deve infatti riconoscere che «il costo in termini di sofferenza umana sia incomparabilmente più
grande senza questa possibilità di scelta […]», S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario, cit., p.
356.
274 ALBERTO GUALANDI
istanza razionale può del resto meglio giudicare se la vita valga la pena di
essere «affermata» – non solo vissuta, ma anche «riprodotta» e «continua-
ta» – in queste particolari condizioni affettive, famigliari, sociali, finanziarie
e, più in generale, esistenziali? Quale istanza razionale se non la facoltà di
giudizio di chi deve giorno per giorno aiutare un «essere umano in poten-
za»41 a divenire un individuo dotato di un grado sufficiente di razionale
umanità (cosa che non coincide necessariamente col possedere un certo
grado di Q.I., geneticamente manipolabile)? Un tale giudizio è un compito
difficile che ha talvolta anche un carattere «tragico». In esso rientrano una
molteplicità di giudizi particolari, non escluso quello relativo a ciò che, allo
stato attuale della scienza, «si sa» dello «statuto ontologico (fisiologico, epi-
genetico, neurocerebrale)» dell’embrione (anche se nelle discussioni attuali
tale componente mi pare largamente sopravvalutata). Ciò che credo, tutta-
via, difficilmente realizzabile, è che la scienza sia un giorno in grado di dirci
ciò che in ogni caso singolare è giusto fare. Non perché la scienza non abbia
a che fare con il «senso» e con il «valore», ma perché essa si occupa nor-
malmente del generale e non del singolare, del transitorio, dell’intenzionale,
della progettualità storico-temporale che è propria dell’essere umano indi-
viduale. Oppure dobbiamo immaginarci uno scenario virtuale in cui la
scienza si applichi al caso singolare, calcolando i costi e i benefici, le gioie e
i dolori, oltre che il desiderio di negare, di affermare, di progettare (anche
al di là delle sofferenze di una situazione presente e particolare) che appar-
tiene per natura, in modo inalienabile, a un essere umano individuale? Esi-
sterà una scienza di tal tipo? È auspicabile che esista, in ragione delle sfide
future che l’umanità dovrà affrontare? Oppure essa non è fin d’ora null’al-
tro che il sogno di pazienti e terapeuti che aspirano al posto occupato pre-
cedentemente dai detentori del sapere assoluto o dalla religione? Allo stato
attuale delle cose, in ogni caso, la facoltà di decidere della vita che si porta
in sé, al pari di altri diritti assegnati all’individuo dalla modernità, come il
diritto alla partecipazione democratica, costituisce anche un appello indi-
rizzato ad un’«umanità futura», al suo senso di razionalità responsabile42.
Tale diritto è di per se stesso un giudizio filosofico su ciò che l’umanità è o
di una nuova teoria della razionalità ed educazione del pensiero, deve essere assunto a finalità
primaria della filosofia. A tal proposito vorrei osservare che anche nei giudizi «determinanti»
della scienza – che non sono il frutto di un meccanismo logico automatico, ma il risultato
dell’attività umana – è in gioco una responsabilità di giudizio, nei confronti, non soltanto delle
applicazioni tecnologiche, ma anche della verità scientifica. Tale responsabilità nei confronti
della verità è talvolta assente nella filosofia contemporanea, che si rende in tal modo sempre
più indistinguibile dalla sofistica.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 275
43 Ciononostante non credo che il riconoscimento della legittimità di questo diritto impli-
44 Con «tecnoscienza» s’intende l’idea che la verità della scienza, e del sapere umano in
genere, risiede unicamente nella sua performatività ed efficienza tecnica. Come ogni categoria
totalizzante, bisogna tuttavia notare che anche tale categoria tende ad essere riassorbita, ad
«implodere», nella totalità che descrive, e a divenire paradossalmente una sua «parte». Tale
implosione paradossale mi pare emergere con una certa chiarezza dal discorso sulla tecno-
scienza che tiene Umberto Galimberti – perlomeno se si presta fede alla conferenza (peraltro
pregevole) sulla tecnica da lui proferita, nel quadro del Festival di filosofia, nel settembre 2004,
a Carpi. Sulla base di questa identità tra verità e tecnica, in tale occasione, davanti ad una folla
di qualche migliaio di persone, Galimberti non esitava a diagnosticare per l’umanità, comple-
tamente assoggettata al Gestell tecnoscientifico, un destino inesorabilmente infausto: compresa
la rielezione di Berlusconi alle passate elezioni (del 2006). Tra le migliaia di uditori assoggettati
dal fascino delle sue parole, qualcuno si sarebbe tuttavia potuto levare per obiettare: Prof. Ga-
limberti chiarisca meglio lo statuto «epistemologico» del suo discorso. O quello che Lei ci sta
dicendo è, anch’esso, tecnoscientificamente vero, e allora Lei – novello Gorgia che usa le paro-
le come un apocalittico farmakon – ci sta manipolando (e per sottrarsi a tale «apocalisse di-
scorsiva» la prima cosa da fare sarebbe tapparsi le orecchie sottraendosi così all’influsso sedu-
centemente de-realizzante delle sue parole). Oppure quello che Lei ci dice è vero in un senso
diverso da quello dell’efficacia-performatività tecnoscientifica: in tal caso, però, in quanto «ve-
ro», il suo discorso è anche «falso». In tal caso Lei sarebbe infatti costretto a riservare al suo
discorso uno «spazio» filosofico di verità che consente al suo uditorio, e all’umanità in genere,
di riappropriarsi (filosoficamente) di se stessa. Il riconoscimento della verità oggettiva del pro-
cesso storico (tecnoscientifico) che Lei descrive con il suo discorso implica la possibilità di un
giudizio filosofico, individuale e collettivo, in grado di oggettivarlo ed in tal modo arginarlo,
«relativizzando» il suo carattere di assoluto. Ma a quanto pare, per Galimberti, come per
l’ultimo Lyotard, nel contesto tecnoscientifico postmoderno l’unico spazio di riappropriazione
è assicurato all’essere umano da una sorta di ascesi agostiniana. Credo che l’esempio di Lyo-
tard-Galimberti mostri anche che, dietro al corpo a corpo tra il filosofo e il sofista, si celi anche
uno scontro più cruciale per l’umanizzazione o la disumanizzazione dell’uomo. Su quest’ul-
timo tema, cfr. E. Melandri, La linea e il circolo, Quodlibet, Macerata, 2004, p. 755.
45 La manipolazione «eugenetica», se fosse fino in fondo realizzabile, non avrebbe forse
anch’essa un interesse strategico-militare cruciale? Nonostante la sua ostentata fede nella crea-
turalità dell’uomo, Bush sarebbe probabilmente molto interessato ad una manipolazione euge-
netica capace di produrre una nuova élite dirigenziale, fatta di schiere di superuomini e super-
donne, assolutamente fedeli ed efficienti come Condoleezza Rice (superuomini oppure auto-
mi?), e magari anche nuove truppe d’assalto, superspecializzate e votate alla morte. Bin Laden
sarebbe probabilmente meno interessato perché truppe votate alla morte ce le ha già: il posto
della manipolazione eugenetica è occupato dal fanatismo della religione.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 277
compito della scienza, perché tra giudizio determinante e riflettente c’è una
differenza ontologico-trascendentale? Oppure che esse debbano continuare
ad essere distinte perché i «criteri» dell’argomentazione scientifica differi-
scono pragmaticamente da quelli dell’argomentazione morale? In altre oc-
casioni ho ripreso la distinzione formulata da Apel tra «verità-sopravvi-
venza» e «verità-emancipazione» tentando di mostrare la loro stretta inter-
connessione46. Ma al di là di queste sottili distinzioni «filosofiche», credo
che la situazione attuale dimostri, come forse mai prima d’ora, quanto que-
ste due categorie della verità siano strettamente correlate in ogni ambito
della nostra storia ed esperienza. Da Le scienze del novembre 2005 traggo le
seguenti informazioni: 1,1 miliardi di esseri umani vivono ancor oggi in
condizioni di estrema indigenza (p. 62) e nel 2050 la popolazione mondiale
aumenterà del 50% circa (9,1 miliardi, p. 52). «Già ora emettiamo anidride
carbonica tre volte più velocemente di quanto gli oceani e la Terra siano in
grado di assorbirla; […] il riscaldamento globale inizierà a farsi sentire sul
serio intorno alla metà del secolo [e] al ritmo attuale, le foreste e le riserve
di pesca si esauriranno anche prima» (p. 46). «Le emissioni mondiali di
CO2 nel 2030 cresceranno del 35-60 per cento» e tra cinque anni sarà pro-
babilmente già raggiunto il picco nella produzione del petrolio, dopodiché
inizierà il declino (p. 80). Nel 2020 le malattie legate allo stile di vita – ma-
lattie cardiovascolari, depressione e incidenti stradali – saranno al primo
posto (dell’indice DALY degli anni di salute persi, p. 107), e diversi ele-
menti indicano che gli Stati Uniti, al pari di altri paesi ricchi, sono già entra-
ti nella fase di crescita «antieconomica»47.
Crediamo forse che simili cambiamenti «fattuali» non avranno ricadute
sul nostro giudizio «riflettente» filosofico-politico-morale o che non avran-
no alcuna incidenza sui nostri «valori»? Crediamo che la ricerca di possibili
soluzioni sia soltanto compito della scienza, e che alla filosofia non spetti
per esempio il compito di ricordarci che tali processi possono essere regola-
ti soltanto grazie a istituzioni politiche internazionali, per mezzo di un’at-
tività collettiva di giudizio, in cui le componenti «determinanti» scientifiche
sono praticamente indistinguibili da quelle «emancipatorie-riflettenti»? Op-
pure riteniamo che la mega-macchina tecnoscientifica potrà regolare da so-
46 K.O. Apel, Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundlagen der Ethik,
in Transformation der Philosophie, Bd. 2, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1973. Il problema del
rapporto tra verità-sopravvivenza e verità-emancipazione è anche al centro dell’etica della re-
sponsabilità di Hans Jonas. Cfr. L. Guidetti, La materia vivente. Un confronto con H. Jonas,
Quodlibet, Macerata, 2007, pp. 113 sgg.
47 «La crescita diventa antieconomica quando gli incrementi della produzione costano, in
termini di risorse e benessere, più del valore dei prodotti. La crescita antieconomica deriva da
un equilibrio indesiderato di utilità e disutilità». Le scienze. Strategie per la Terra. Idee e proget-
ti per uno sviluppo sostenibile, novembre 2005 p. 115.
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