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Alberto Gualandi

Relativismo postmoderno e facoltà di giudizio


Considerazioni critiche in margine al «caso Lyotard»

1. Relativismo classico, relativismo postmoderno


Invitato da Roberto Brigati e Roberto Frega a partecipare a questo di-
battito sul relativismo, mi è parso interessante proporre alla discussione al-
cune riflessioni dedicate a un teorico «continentale» – tanto celebre, quanto
screditato – del postmoderno: Jean-François Lyotard. Obiettivo di questo
scritto non è tuttavia di entrare nel dettaglio delle tesi di Lyotard sul post-
moderno, quanto piuttosto di utilizzare alcune sue analisi al fine di delinea-
re i contorni di una condizione relativistica estrema cui vorrei dare il nome
di relativismo postmoderno. All’ora attuale, credo infatti che la questione del
relativismo non si ponga più nella sua forma epistemologica o ontologica
tradizionale, bensì in una forma «acuita» che, pur avendo anch’essa radici
nell’antichità, vorrei innanzitutto tentare di smarcare dalla forma abitual-
mente ritenuta dalla filosofia classica e moderna. La forma in cui la questio-
ne del relativismo ci è ordinariamente consegnata è riconducibile a Prota-
gora e, in particolare, alla tesi protagorea secondo cui tutto è opinione, poi-
ché l’«uomo» – inteso nella sua triplice accezione di individuo, cultura o
specie – è misura di tutte le cose1. Benché questa questione abbia impegna-
to a lungo la tradizione, credo che, da qualche tempo, essa non rappresenti
più una reale fonte di «preoccupazione». Da Kant in poi, la filosofia ha «e-
scogitato» diversi modi di venire a capo di questo relativismo soggettivisti-
co-individuale, specie-specifico – biologico per alcuni, trascendentale per
altri – o storico-geografico-sociale, senza pretendere di legittimare la pro-
pria soluzione per mezzo di un essere trascendente, come avveniva nella fi-
losofia classica e, in particolare, in Platone. «Analisi critica» delle condizio-
ni di possibilità di ogni affermazione particolare; «integrazione dialettica»
dei contraddittori in una struttura di senso superiore; «ricomposizione fe-
nomenologica» delle diverse prospettive e adombramenti in una struttura
essenziale che funge da invariante oggettuale, esprimono modi diversi di
articolare il gioco dell’identità e della differenza che, pur divergenti negli

1 Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 216-219, DK fr. 80 A 14, trad. it. di M. Timpanaro

Cardini, in I presocratici. Testimonianza e frammenti, Laterza, Bari, 1981; Platone, Teeteto,


166d sgg., trad. it. di M. Valgimigli, Laterza, Bari, 19842.
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esiti e nelle procedure, hanno in comune perlomeno il fatto di ospitare un


certo grado di prospettivismo relativista, senza tuttavia inabissare la verità
nell’oscuro mare dello scetticismo. Senza prendere in esame soluzioni così
elaborate, è del resto sufficiente notare come il «mondo della vita» ci sugge-
risca innumerevoli esempi di procedure dialogiche e «incarnate» in cui la
differenza dei punti di vista ci fornisce l’occasione, non per indulgere allo
scetticismo, bensì per giungere a una migliore intuizione del «che cosa» in
questione: «Se nel vedere non ci fossero differenze, la relazione tra maestro
e scolaro non potrebbe sussistere. Il maestro insegna al suo allievo un mi-
glior punto di vista e, alla fine, una più profonda intuizione su “che cosa”
sia l’oggetto considerato. La differenza dei punti di vista è il presupposto
pratico per una conversazione di valore significativo. In tutte queste rela-
zioni (nello scambio, nell’insegnamento e nelle conversazioni quotidiane) si
rivela lo stesso fenomeno: anche se siamo più d’uno, possiamo vedere in-
sieme la medesima cosa»2. Se dal mondo della vita accediamo poi all’ambito
della scienza, all’ambito per esempio della relatività o della meccanica quan-
tistica, si può notare come il gioco dell’identità e della differenza venga si-
stematizzato e risolto in funzione di una struttura teorica di livello superiore
che articola i rapporti tra l’invariante e le variazioni. I diversi punti di vista
sul mondo vengono riassorbiti all’interno di una matrice concettuale che
regola – attraverso un sistema di variabili probabilistiche e di trasformazioni
metriche – il passaggio da una prospettiva o un sistema di riferimento
all’altro senza concedere nulla al relativismo soggettivista o culturale. La
scienza contemporanea sembra a tal punto dominare la problematica relati-
vistica da giungere ad invertirne lo slogan tradizionale: grazie a essa non si
costituisce infatti una «relatività del vero, ma, al contrario, una verità del
relativo»3. In conclusione, tanto per la filosofia quanto per la scienza mo-
derne, la pluralità e relatività dei punti di vista è condizione effettiva dell’af-
fermazione pratico-teorica del vero, e non un ostacolo. Per entrambe, non
ci sarebbe verità se non ci fosse una relatività e pluralità di punti di vista da
cui fare emergere, lentamente e a fatica, il vero.
La situazione muta tuttavia in modo radicale se alla questione tradizio-
nale del relativismo se ne sostituisce un’altra, più estrema, che potremmo
definire di matrice gorgiana anziché protagorea. In tale prospettiva il pro-
blema non è più quello di articolare la pluralità dei punti di vista che con-
ducono al vero. Ciò che si impone in tale prospettiva è piuttosto la dissolu-
zione della nozione stessa di verità in ragione di un triplice annientamento:

2 E. Straus, Aesthesiology and Hallucinations, in R. May, E. Angel, H.F. Ellenberger, Exi-

stence¸ New York, 1958, trad. it. di P. Gambazzi, Estesiologia e allucinazioni, in E. Minkowski,
V. v. Gebsattel, E. Straus, Antropologia e psicopatologia, Bompiani, Milano, 1967, pp. 207-208.
3 G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Éd. de Minuit, Paris, 1991, p. 123.
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in ragione della sparizione di ogni referente esterno (ovvero per l’impossibi-


lità di distinguere l’essere dal nulla: prima tesi di Gorgia); in ragione del
dissolvimento di ogni relazione di accordo tra la realtà e il pensiero (ovvero
per l’impossibilità di rendere conto del rapporto tra conoscenza sensoriale e
immaginazione: seconda tesi di Gorgia); in ragione dell’incapacità in cui si
trova il linguaggio di veicolare la realtà stabilendo tra gli esseri umani una
reale comunicazione (ovvero per l’incapacità in cui si trovano i simboli so-
nori e grafici di raccordare il pensiero con la realtà sensoriale, e di veicolare
tale accordo nel dialogo intersoggettivo)4. Tale dissoluzione del concetto di
verità ha profonde conseguenze pratiche e teoriche che si ripercuotono sul
contesto di vita e di pensiero contemporaneo. Se, come volevano Gorgia e
Nietzsche, «ogni verità è falsa», non rimarrà infatti altra possibilità che go-
dere il più possibile del potere dell’illusione e della seduzione5. Se ogni veri-
tà è una maschera che cela una volontà di manipolazione, non rimarrà altra
possibilità che prendere parte attiva al gioco universale della persuasione e
dell’auto-persuasione. Se il valore di ogni enunciazione si misura in funzio-
ne degli effetti emotivi e comportamentali che esso produce, si tratterà allo-
ra di massimizzare tali effetti occupando la postazione migliore nel «grande
circuito globale» di coloro che fabbricano e fruiscono l’opinione. È questa
condizione sofistica generalizzata che esprime la variante relativistica estre-
ma – irrecuperabile attraverso i tradizionali metodi di ricomposizione – ca-
ratteristica della situazione contemporanea. Una situazione che, per concre-
tezza dell’argomentazione, vorrei rapidamente raffigurare con qualche im-
magine.
Nelle forme più massicce e penetranti in cui si palesa quotidianamente
negli odierni «mondi della vita», il relativismo non mi pare più interpretabi-
le come il frutto della «diversità soggettiva», individuale, culturale o «spe-
cie-specifica» umana. Raffigurarlo in questa forma significherebbe fornirne
un’immagine edulcorata, utile per gli esercizi di filosofia, ma senza impatto
sulla realtà concreta in cui agiamo e pensiamo. Negli odierni mondi della
vita, esso appare piuttosto come il prodotto dell’ipostatizzazione storica
dell’industria dell’opinione, la sua apoteosi globale o il suo baccanale epo-
4 Gorgia da Leontini, Intorno al non ente o intorno alla natura, trad. it. di M. Untersteiner

in Sofisti. Testimonianze e frammenti, Nuova Italia, Firenze, 1949; Id., Frammenti, trad. it. di
C. Moreschini, Boringhieri, Torino, 1959. Per un’analisi accurata, e una ricontestualizzazione
contemporanea, delle tre tesi del Trattato, cfr. B. Cassin, L’effet sophistique, Gallimard, Paris,
1995 e A.P.D. Mourelatos, Gorgias on the Function of Language, in «Philosophical Topics»,
XV, 2, 1987, pp. 135-170.
5 «[…] come dice Gorgia “per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è in-

gannato è più saggio di chi non lo è”. Chi inganna è più giusto in quanto ha fatto quello che ha
promesso, e l’ingannato è più saggio, perché chi non è insensibile è più facilmente preso dal
piacere delle parole», Plutarco, La gloria degli Ateniesi, in Gorgia, Frammenti, a cura di C.
Moreschini, cit., pp. 55-56.
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cale, l’elevazione a potenza (o, meglio, la leibniziana integrazione infinitesi-


male «in rete») delle sue mille voci in un unico, assordante, clamore. Il cla-
more del «relativismo» ha oggi, per noi, il tono viola-verde-grigio della pla-
stilina quando si miscelano insieme tutti i colori e culture; il gusto agrodolce
della melassa agglutinante attraverso cui tutte le vacche (o pecore Dolly)
appaiono «grigie» (in gelatina crioconservatrice); la tonalità suadente e fal-
samente famigliare del vacarme mediatico del marketing pre-elettorale; la
presenza impercettibile del «rumore bianco» (De Lillo) che emana dal mel-
ting pot consumistico dell’ipermercato mondiale; il fragore apocalittico de-
gli altoparlanti mediatici che surfano tra le bombe intelligenti al ritmo delle
valchirie (o che si strusciano sornionamente le mani mentre, sull’aria di Via
col vento, entra in scena la catastrofe globale). In breve, il relativismo non è
più un problema di punti di vista, di soggettivismo prospettivista, di diverse
tradizioni e culture a confronto, ma è l’assoluto dentro cui, noi, tutti, ormai
viviamo e pensiamo. Ora, se la situazione è veramente questa, chiedere a un
discorso filosofico di mettere un po’ d’ordine in questo assordante fragore,
sarebbe come chiedergli di relativizzare un assoluto di cui non può essere,
esso stesso, che la parziale e frammentaria espressione. Al filosofo non ri-
marrebbe quindi altra scelta che aumentare con la propria opinione l’en-
tropia «doxastica» generale (obiettivo cui sembrano applicarsi con dovizia
numerosi filosofi mediatici), oppure dedicarsi ad una sorta di appartata e
rassegnata ermeneutica (adorniana) della negatività che ha per oggetto il
riflettersi della totalità sulla nostra infelice soggettività individuale. Quale
contributo aspettarsi quindi da un testo filosofico ispirato ad un pensatore
contemporaneo, ormai quasi dimenticato, che secondo molti ha contribuito
in modo rilevante a trasformare in assoluto il «relativismo ambiente»?

2. Tra sofistica e filosofia


Ciononostante, ho scelto Lyotard come punto di partenza per ragioni
che non mi paiono completamente arbitrarie. Innanzi tutto per alcune ra-
gioni interne al nostro dibattito. Mi pare infatti che la riflessione sviluppata
da Lyotard intorno alla facoltà di giudizio permetta di riproporre, da una
diversa angolatura geografico-culturale, questioni analoghe a quelle affron-
tate da autori, sovente citati nel dibattito contemporaneo sul relativismo,
come Stanley Cavell6. Riflettere su questa «similarità-differenza», al di là dei
6 In Lyotard, come in Cavell, il giudizio «riflettente» politico-morale viene contrapposto al

giudizio scientifico «determinante» e alla sua struttura argomentativa consensuale. In Lyotard


come in Cavell, si assegna quindi un valore metodologico e morale al «disaccordo argomenta-
tivo», in contrapposizione all’accordo consensuale che, per entrambi, avrebbe un insostituibile
valore regolativo nella comunità scientifica. Questa tesi è presente in Le différend (1983) e nelle
opere immediatamente successive. In La condition postmoderne (1979), così come nelle opere
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diversi stili di pensiero, tradizioni e appartenenze culturali, mi pare un fatto


già di per sé importante, che ci sollecita ad intraprendere una via piuttosto
difficile: la via che ci spinge a tentare di sopravanzare quel «relativismo teo-
rico», tipico del mondo filosofico contemporaneo, che vincola la riflessione
filosofica a delle scelte di campo a priori – «francesi» o «anglosassoni», ana-
litici o continentali, pragmatisti o fenomenologi etc. – che rendono quasi
impossibile la delimitazione di un terreno comune di discussione. Se la pos-
sibilità di una riflessione e discussione intersoggettiva fosse infatti comple-
tamente condizionata da «decisioni teoriche» o «scommesse soggettive», da
«scelte di stile» o «opzioni» ontologico-metafisiche, i discorsi filosofici si
rivelerebbero metateoricamente incommensurabili e la sofistica l’avrebbe
vinta fin dall’inizio sulla filosofia. La questione del relativismo rappresente-
rebbe quindi una sorta di «buco nero teorico» per la contemporaneità: essa
apparirebbe come quella questione che ci attrae e seduce tutti, ma che non
può mai essere «nominata» direttamente perché, inevitabilmente, in essa
implode la «differenza discorsiva» (di paradigmi, modelli teorici, scuole e
tradizioni, generi e generazioni ecc.) che è la condizione storica, «quasi-
trascendentale», del nostro stesso «dire». In altre parole, sedersi ad un tavo-
lo comune per affrontare direttamente la questione del relativismo signifi-
cherebbe tentare di «saltare due volte al di là della propria ombra», ovvero
contravvenire «performativamente» (in modo duplice) all’orizzonte di sen-
so vigente nel nostro tempo. In breve, significa dirsi e affermarsi, ancora
una volta – ostinatamente, incorreggibilmente, coattivamente – «filosofi».
Questione preliminare, vagamente nietzscheana: siamo veramente così sag-
gi, coraggiosi o folli da osare ancora ciò?
In secondo luogo, ci sono delle ragioni legate allo stesso personaggio
Lyotard. Attorno alla sua opera, e in particolare a La condizione postmoder-
na, si è acceso, più di due decenni fa, un dibattito internazionale – che ha
visto come interlocutori di Lyotard, Rorty, Franck, Wellmer e, indiretta-
mente, Habermas – in cui il concetto lyotardiano di postmoderno è stato
identificato con una forma «tecnologicamente avanzata» di relativismo sofi-
sitico7. Avendo decretato la fine delle «grandi narrazioni della modernità»,

«sofistico-pagane» immediatamente precedenti, Lyotard assegna ancora un valore politico-


morale esemplarmente istruttivo alle argomentazioni «paralogiche» della «scienza rivoluziona-
ria» – argomentazioni in cui il disaccordo verte sulle stesse regole «metadiscorsive» del gioco
linguistico scientifico. Per quanto riguarda Cavell, cfr. in particolare S. Cavell, The Claim of
Reason: Wittgenstein, Skepticism, Morality and Tragedy, Clarendon Press–Oxford University
Press, Oxford, 1979, pp. 259 sgg., trad. it. di B. Agnese, con una postfazione di D. Sparti, La
riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, Carocci, Roma, 2001.
7 Cfr. M. Frank, Die Grenzen der Verständigung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1988, pp. 79-

80; R. Rorty, Habermas and Lyotard on Postmodernity, in R.J. Bernstein, ed., Habermas and
Modernity, Cambridge University Press, Cambridge, 1985; Id., Le cosmopolitisme sans émanci-
pation (en réponse à J.-F. Lyotard), in «Critique», 456, 1985; J. Habermas, Die Moderne – ein
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di quei discorsi di emancipazione attraverso cui l’umanità pretendeva giun-


gere all’«età dell’autonomia» occupando il posto precedentemente assegna-
to al «Padre», Lyotard ha negato all’umanità filosofica la possibilità di rico-
noscersi in un ideale universale, normativamente vincolante, di ragione di-
scorsiva (Habermas, Franck), ma anche la possibilità di identificarsi con
una molteplicità di pratiche autofondanti in cui si esprime concretamente,
storicamente e pluralisticamente la ragione umana (Rorty). Nonostante i
grandi nomi che vi si sono impegnati, il dibattito non è mai andato partico-
larmente a fondo, e vorrei quindi limitarmi a un breve accenno. Lyotard
stesso ha più volte replicato che il dibattito sul concetto di postmoderno
non poteva essere ridotto a semplici contrapposizioni di etichetta – alla con-
trapposizione tra universalismo e relativismo, razionalismo e irrazionalismo
ecc.8 Fin dai tempi della sua militanza nella sinistra antistaliniana9, Lyotard
– a suo dire – avrebbe piuttosto tentato di contrapporre alle «ragioni del si-
stema» la «verità singolare dell’evento». Sia che il nome di quest’evento fosse
«Budapest ’56», la guerra di Algeria, la primavera di Praga, maggio ’68, la ve-
rità artistico-figurale dell’incosciente psicoanalitico, la Shoah, la questione e-
braica, o il torto subito dal lavoratore salariato in «regime capitalista». In altre
parole, pur ritenendo necessario elaborare una diagnosi lucida e distaccata
della condizione postmoderna – diagnosi elaborata sostanzialmente attra-
verso i concetti di «crisi di legittimazione» e «performatività tecnoscien-
tifica» – Lyotard non ha mai rinunciato ad elaborare un discorso filosofico
che preservasse valore e dignità agli ideali di «giustizia» e «verità»10. Tale
fedeltà all’idea di giustizia si è tradotto concretamente nel tentativo di porre
il discorso filosofico stesso – discorso che, a suo dire, non ha identità pro-
pria, che è perennemente alla ricerca di se stesso e che soffre quindi del tor-
to di non vedersi riconosciuto alcun valore in una società postmoderna do-
minata dal criterio dell’efficienza tecnoscientifica e dall’imperativo omni-
pervasivo del «non perdere tempo» – al servizio di quelle verità «singolari»
che subiscono il «torto quasi-trascendentale» di non trovare accoglienza in
alcun «genere di discorso» istituzionalmente costituito11. L’ideale di verità e

unvollendetes Projekt, in Id., Kleine politische Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1990. Cfr.
anche AA.VV., J.-F. Lyotard: réécrire la modernité, in «Les Cahiers de Philosophie», 5, 1988.
8 J.-F. Lyotard, Histoire universelle et différences culturelles, in «Critique», 456, 1985, ora

in Id., Le postmoderne expliqué aux enfants, Galilée, Paris, 1988.


9 Cfr. il gruppo politico Socialisme ou barbarie, in cui Lyotard ha militato insieme a Casto-

riadis e Léfort. Sull’importanza di questi eventi politici per il pensiero di Lyotard, cfr. J.-F.
Lyotard, Histoire universelle et différences de culture, cit., p. 563. Per quanto riguarda l’Algeria
e i testi redatti per Socialisme ou Barbarie, cfr. Id., La guerre des Algériens, Galilée, Paris, 1989.
10 Cfr, J.-F. Lyotard, J.-L. Thébaud, Au juste, Christian Bourgois, Paris, 1979, pp. 141

sgg.; J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Éd. de Minuit, Paris, 1979.


11 Da qui il titolo dell’opera filosofica principale di Lyotard – Le différend, Éd. de Minuit,

Paris, 1983 – un’opera la cui ricezione è rimasta in Italia ingiustamente nell’ombra della Condi-
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di giustizia cui la pratica della filosofia non può che continuare ad essere
fedele, anche in epoca postmoderna, sarebbe quella di «dare voce» – sia sul
piano politico, che su quello etico, estetico, esistenziale e, in ultimo, ontolo-
gico – a ciò che non ha ancora una propria voce, al sentimento muto e «i-
narticolato» che non ha ancora trovato «riparo» in un «idioma» capace di
offrirgli ospitalità e conforto. Lo strumento delegato a tale scopo è, come
abbiamo già anticipato, il giudizio riflettente – strumento flessibile che ha la
capacità di circumnavigare le «isole di senso» che costituiscono l’«arci-
pelago (discorsivo) della ragione», definendone i confini ma tracciando an-
che dei passaggi, delle analogie che permettono di dire ciò che fino a quel
momento non sembrava «possibile dire» (e su cui sembrava necessario, sen-
sato, onesto, «tacere»). In conclusione, «giudizio riflettente» è il nome che
Lyotard assegna all’istanza razionale – senza identità culturale determinata,
poiché condivisa da una generica comunità di sopravviventi – capace di dar
voce filosofica a quei sentimenti muti, a quelle emozioni nascenti, a quelle
«frasi in attesa» che non trovano accoglienza in alcun «genere di discorso»
precostituito e ordinariamente vigente. Un’istanza capace di far fronte a
quei «casi singolari» che, come sosteneva Hannah Arendt in Eichmann a
Gerusalemme, possono essere giudicati soltanto a misura che si presentano,
perché non ci sono regole, schemi, concetti – forniti da una tradizione di-
scorsiva storicamente consolidata – che permettano di giudicare (in modo
determinante) ciò che è «senza precedenti»12. In altri termini, «giudizio ri-
flettente» è ciò che assegna un dignità filosofica all’«evento senza nome»:
ovvero il nome (lyotardiano) dell’operatore filosofico, «libero e indetermi-
nato», ancora capace di offrire accoglienza all’«evento di verità».
Ora, se questo è l’esito ultimo della riflessione lyotardiana sul postmo-
derno, perché nell’«opinione pubblica mondiale» Lyotard ha continuato ad
essere percepito come un sofista contemporaneo che dall’occorrere di ogni
«evento» ha tratto l’occasione per atteggiarsi ad «avvocato delle cause per-
se»13? Dopo avere identificato nell’attività riflettente del giudizio quella fa-
coltà – comune all’umanità del «dopo-Auschwitz» – che costituisce il solo
antidoto possibile al relativismo estremo, e quindi al nichilismo postmoder-

tion. Sarebbe interessante confrontare questo tema lyotadiano con l’analogo problema del di-
saccordo e dell’incomunicabilità in Cavell. In Lyotard il dissidio è dovuto a un meta-disaccor-
do, in quanto i criteri vigenti in un determinato discorso «recano torto» ad una «pretesa» di
razionalità che non ha ancora trovato riconoscimento e voce.
12 Cfr. J.-F. Lyotard, Survivant, in Lecture d’enfance, Galilée, Paris, 1991, pp. 86 sgg.
13 Trae cioè l’occasione per recitare la parte di un moderno Catone: «Victrix causa deis

placuit, sed victa Catoni», Catone il vecchio, citato da H. Arendt, Juger. Sur la philosophie cri-
tique de Kant, Éd. du Seuil, Paris, 1991, p. 20. In altra sede ho sostenuto che in tutto il pensie-
ro di Lyotard è in atto un «corpo a corpo» che rende indistinguibile il filosofo dal sofista, e che
fa in effetti di Lyotard un moderno «filosofista». Cfr. A. Gualandi, Lyotard, Les Belles Lettres,
Paris, 1999, cap. 1 e pp. 159-160.
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no, perché Lyotard ha ritenuto necessario sostituirla con un rassegnato e


malinconico «esercizio di desolazione», con un gesto negativo della ragione
che si compiace dell’impossibilità di «costituirsi in discorso», permanendo
così in uno stato di ontologica mutezza14? Perché Lyotard ha finito, in ulti-
mo, per considerare l’esercizio riflettente del giudizio come un’attività an-
cor troppo «autonoma» (e dunque ancor troppo «moderna») a cui è neces-
sario sostituire l’ontologia negativa del giudizio sublime?

3. L’abisso sublime
In altre occasioni, ho tentato di rispondere a queste domande mostran-
do che la riflessione di Lyotard è fin dall’inizio pervasa da una sorta di di-
stimia emotiva, da una sorta di oscillazione pratico-teorica tra due stati sen-
timentali altalenanti – l’entusiasmo e la malinconia – che scuote alle fonda-
menta la nostra «coscienza intima del tempo»15. L’oscillazione lyotardiana
tra entusiasmo e melanconia esprime nel più profondo la condizione quasi-
sublime dell’umanità postmoderna, ma rischia anche di paralizzare definiti-
vamente quella facoltà di giudizio che per Arendt era già stata messa a dura
prova dalla frattura storica prodotta dall’epoca moderna. In ragione di que-
sta oscillazione emotiva e cognitiva, la «breccia del tempo» si riapre ad ogni
istante come una sorta di abisso16. L’esaltazione per la fine delle grandi nar-
razioni moderne, da un lato, la condizione nichilistica di perdita e di lutto,
che tale fine porta inevitabilmente con sé, dall’altro17, sembrano gettare
l’umanità postmoderna in una sorta di baratro ontologico-esistenziale in cui
viene meno quella capacità di pensare e giudicare – in accordo con se stessi,
pur mettendosi al posto dell’altro – che è a fondamento di ogni scambio ra-
zionale e di ogni azione comune18. In altri termini, la condizione relativistica
14Cfr. J.-F. Lyotard, Survivant, op. cit., p. 87. Cfr. inoltre l’emblematico testo J.-F. Lyo-
tard, Grundlagenkrise, in «Neue Hefte für Philosophie», 26, 1986. pp. 1-33.
15 Su questo tema, cfr. L. Binswanger, Melancholie und Manie. Phänomenologische Stu-

dien, Neske, Pfullingen, 1960, trad. it. di M. Marzotto, Melanconia e Mania, Boringhieri, Tori-
no, 1977, 2001. Cfr. inoltre A. Gualandi, Entre enthousiasme et mélancholie. J.-F. Lyotard et la
critique de la faculté de juger postmoderne, in C. Enaudeau, J.-F. Nordman, J.-M. Salanskis, F.
Worms, éds., Les transformateurs Lyotard, (Actes du colloque, Paris, janvier 2007), in corso di
pubblicazione.
16 Cfr. H. Arendt, Between Past and Future (1954), trad. fr. de J. Bontemps et autres, La

crise de la culture, Gallimard, Paris, 1972, 1989, p. 25.


17 Cfr. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, cit., pp. 68 sgg.
18 «Lo scambio organizzato delle cose, non meno che lo scambio razionale delle idee, richie-

de una certa neutralità nei riguardi dell’oggetto […]. Nei casi patologici, nelle psicosi, ogni possibilità
di con-versare viene meno. Il mondo non è più esperito in un ordine neutrale che ci permettereb-
be, mantenendoci ad una certa distanza dall’oggetto, di mutuare il nostro posto con quello di
un’altra persona, di cambiare il nostro punto di osservazione, di realizzare un’azione in comune.
Ogni possibilità di muoverci insieme, sincineticamente, viene perduta», E. Straus, op. cit., p. 208.
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estrema che caratterizza l’epoca postmoderna assomiglia più a una condi-


zione quasi-psicotica che alla situazione dialettica in cui viene messo in atto
il confronto tra i diversi punti di vista. L’epoca postmoderna sembra così
sprofondare definitivamente in quegli abissi o fratture – tra il pensiero e
l’essere, ma anche tra i sensi e il pensiero; tra i sensi fra loro (la vista e
l’udito, per esempio), ma anche tra i sensi e il linguaggio – che fin dall’an-
tichità furono diagnosticati per la condizione umana da Gorgia19. In breve,
la condizione di relativismo estremo che caratterizza la condizione postmo-
derna sembra «cronicizzarsi» in una condizione epocale quasi-ontologica
dalla quale non esiste ormai più alcuna via di uscita.
Prima di avallare tale diagnosi sconfortata bisogna tuttavia porsi una
domanda: ma che fine ha fatto quell’istanza filosoficamente riflettente che
rappresentava una sorta di sfida per l’epoca postmoderna? Per rendere più
chiaramente ragione dell’oscillazione distimica che caratterizza la condizio-
ne postmoderna, bisognerebbe scandagliare, più a fondo di quanto Lyotard
non abbia fatto, il problema del rapporto tra giudizio riflettente e giudizio
determinante «scientifico» – giudizio determinante cui Lyotard sembra as-
segnare implicitamente il monopolio della «Verità oggettiva». Questa rigida
separazione tra giudizio determinante e riflettente mi è parsa infatti essere
la causa principale della debolezza del modello lyotardiano del giudizio ri-
flettente. Quell’istanza che avrebbe dovuto permettere di superare l’impasse
postmoderna finisce così per contrapporsi «debolmente» alla scienza la-
sciando infine il posto ad un’altra istanza espressiva che, «priva di ogni pre-
tesa cognitiva o etico-politica»20, costituisce una sorta di ipostatizzazione
formale dell’oscillazione postmoderna: il giudizio sublime e l’ontologia ne-
gativa cui esso prelude21. In altri termini, la condizione d’impotenza e di-

19 Su questi diversi tipi di abissi o fratture rintracciabili in Gorgia, cfr. G.B. Kerferd,

Meaning and Reference: Gorgias and the Relation Between Language and Reality, in AA.VV.,
The Sophistic Movement. International Symposium Organized by the Greek Philosophical Soci-
ety, Athens, 1984, pp. 215-222.
20 Cfr. J.-F. Lyotard, Moralités postmodernes, Galilée, Paris, 1993, pp. 93-94.
21 Non bisogna lasciarsi sfuggire il fatto – e vorrei con ciò suggerire un ulteriore punto di

confronto con il problema cavelliano del disaccordo – che il giudizio sublime può assumere
questa posizione centrale nel pensiero di Lyotard perché costituisce una sorta di ipostatizza-
zione trascendentale-ontologica del disaccordo meta-discorsivo: grazie a tale forma «abortita»
di giudizio, il dissidio viene elevato a modello universalmente discordante di pensiero. Già in
Kant, in effetti, il giudizio sublime è prodotto all’occasione di un disaccordo tra la sensibilità,
l’intelletto e l’immaginazione, ed esprime l’impossibilità di fornire una sintesi giudicativa di
«ciò che si presenta» – impossibilità che è però evocatrice, in negativo, di qualcosa d’altro: le
Idee della ragione. Tramite questa modellizzazione dissonante della ragione estetica, Kant –
secondo Lyotard – non ha soltanto anticipato l’estetica romantica, ma anche la poetica di quel-
le avanguardie storiche di cui l’estetica postmoderna costituisce una radicalizzazione. Nell’arte
e nell’estetica postmoderna si potranno dunque reperire svariate declinazioni della categoria
del sublime: sublime metropolitano e sublime tecnologico, sublime «desertificato» (anestetiz-
266 ALBERTO GUALANDI

sperazione che caratterizza l’umanità filosofica postmoderna, deriva in


buona parte da una valorizzazione «schizofrenica» della verità della scienza:
da un lato modello univoco di ogni giudizio determinante e oggettivo,
dall’altro, strumento (tecnoscientifico) di manipolazione dell’essere e sfrut-
tamento del tempo. Schiacciato tra questi due estremi, al giudizio filosofico
non rimane che attribuirsi una forma di razionalità sublime e negativa che,
oltre a rivelarsi impotente nei confronti dell’incessante progresso della
scienza, si rivelerà impotente anche nei confronti di un’altra forma di «Veri-
tà», la cui avanzata o recrudescenza in epoca postmoderna, era stata previ-
sta da Lyotard soltanto in forma «negativa»: il discorso teologico-religioso.
Nella situazione di vuoto in cui si trova l’infelice coscienza odierna, non è
quindi un caso che religione e teologia «positive» trovino lo spazio necessa-
rio per proporsi di nuovo come l’unico vero strumento d’orientamento in
un’epoca di disorientamento, come l’unico vero antidoto contro il relativi-
smo estremo che caratterizza il nostro tempo. Si compie così la predizione
di Gehlen, secondo cui «Dio e la macchina sono sopravissuti al mondo ar-
caico e ora si ritrovano, soli, faccia a faccia» nell’era della post-histoire ovve-
ro nell’epoca postmoderna22.

4. Topici relativisti (postmoderni)


Non vorrei dilungarmi ulteriormente sull’analisi dei presupposti teorici
che regolano la descrizione lyotardiana della condizione postmoderna. Poi-
ché queste note avrebbero dovuto permettere di identificare una condizio-
ne relativistica estrema al fine di poterla riconoscere e giudicare insieme –
mentre, con sgomento, mi accorgo ora che stanno forse ottenendo l’effetto
contrario (altro «effetto collaterale» dell’«assoluto relativista», che si ritorce
contro la hybris filosofica che pretendeva «oggettivarlo», e in tal modo «re-

zato e muto) e sublime della «presenza». Cfr. a questo proposito gli studi dedicati da Lyotard
ad artisti postmoderni: J.-F. Lyotard, Que peindre? Adami, Arakawa, Buren, Éd. de la Diffé-
rence, Paris, 1987; Id., L’inhumain, Galilée, Paris, 1988. Se posso aggiungere a questa lista un
esempio personale di giudizio estetico sublime, mi piacerebbe citare la poetica apocalittica di
Lars von Trier. Dopo la visione di Dancer in the Dark chi non ha avuto la sensazione di trovarsi
nell’impossibilità di «armonizzare» le proprie facoltà intellettuali (sensibilità, intelletto, imma-
ginazione e ragione) determinando univocamente la propria facoltà di giudizio? Da un lato la
sensazione di trovarsi di fronte ad un’opera d’arte geniale, dall’altra la convinzione di confron-
tarsi soltanto con una mistificazione; da un lato l’impressione di avere assistito a una raffigura-
zione epocale dello stato del nostro mondo, dall’altro la sensazione di essere stati manipolati da
un «guru» seducente e senza scrupoli. In breve, un’immagine estetica particolarmente calzan-
te, e un «riflesso» soggettivo ed emotivo straordinariamente potente, di ciò che ho definito
prima la «falsa totalità» ovvero l’«epoca del relativismo assoluto».
22 A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur (1956), Aula Verlag, Wiesbaden, 19865, p. 254, trad.

it. di E. Tetamo, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 269.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 267

lativizzarlo»?) – si tratta ora di cambiare «registro e stile», proponendo una


sorta di «lessico relativista postmoderno» che potrebbe fungere da topica
teorico-retorica per la discussione. A questo proposito mi sembra utile enu-
cleare cinque punti che tenterò ora di definire brevemente:

4.1. Il postmoderno ovvero il relativismo epocale. Lyotard descrive la


condizione postmoderna sostanzialmente attraverso tre categorie: la «fine
dei grandi racconti di emancipazione»; la «delegittimazione delle istituzioni
politiche occidentali (e la conseguente atomizzazione sociale)»; la «legitti-
mazione tramite la performatività ed efficacia della tecnoscienza». Lyotard
non è più un «filosofo di moda», ma non si può negare a questo quadro
concettuale la capacità di descrivere una situazione che in gran parte è an-
cora la nostra. Affinché questo quadro divenga «epocale», aggiungerei an-
cora due cose: ciò che ho chiamato prima l’«industria dell’opinione» – cate-
goria «francofortese» impiegata solo marginalmente da Lyotard (che nella
Condizione si limita invece a descrivere, in modo piuttosto entusiastico, le
«reti del sapere» e la «società della conoscenza») – e ciò che Gehlen chiama
le «patologie dell’individualità»23. Nelle pagine precedenti ho fatto riferi-
mento a una malattia dell’individualità tipicamente postmoderna, malattia
nobile e «sublime», ma non di poco conto: l’incapacità di operare una sin-
tesi del tempo – incapacità che apre un abisso nelle «ek-stasi» temporali e
che lascia la soggettività postmoderna in preda a una continua oscillazione
sentimentale tra entusiasmo e malinconia. Fine dei grandi racconti e pato-
logie della soggettività spianano del resto la strada a uno dei segni più pal-
pabili del relativismo del nostro tempo: a ciò che Lyotard chiama les histo-
riettes, ovvero il bisogno di «piccole narrazioni», consolatorie, ma di poco
conto.

4.2 Le peregrinazioni teoriche postmoderne ovvero il relativismo «modaio-


lo» della filosofia. Nelle opere «sofistico-pagane», Lyotard proponeva ironi-
camente (ma non troppo) di accendere, in tempi di magra, una «candela a
Giove»24. Dopo la riscoperta della morale kantiana e lévinasiana25, e un’in-
fatuazione per l’«eroe postmoderno» (giovane avventuriero «mitomane»,
trafugatore di tesori orientali, e poi ministro di De Gaulle) André Mal-
raux26, Lyotard sembra trovare infine consolazione nell’ascetismo di Ago-

23 Cfr. A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter. Sozialpsychologische Probleme in der

industriellen Gesellschaft, Rowohlt, Hamburg, 1957, trad. it. di A. Burger Cori, L’uomo nell’era
della tecnica, Sugarco, Milano, 1984.
24 Cfr. J.-F. Lyotard, Rudiments païens, U.G.E., Paris, 1977.
25 Cfr. J.-F. Lyotard, Logique de Lévinas, in AA.VV., Textes pour Emmanuel Lévinas, J.-M.

Place, Paris, 1980 ; Id., Heidegger et les «juifs», Galilée, Paris, 1988.
26 Cfr. J.-F. Lyotard, Signé Malraux, Grasset, Paris, 1996.
268 ALBERTO GUALANDI

stino27. In altri termini, oltre ad essersi lui stesso affermato come creatore di
historiettes, Lyotard ha compiuto delle instancabili peregrinazioni teoriche
nei luoghi più «caldi» della filosofia contemporanea28. Non è certo qui il
caso di rievocarli tutti. Ciò che mi interessa piuttosto mettere in evidenza
sono le oscillazioni teorico-sentimentali di un pensatore che, traversando
quasi tutti i luoghi significativi dalla filosofia contemporanea – da filosofo
marxista, militante della sinistra antistaliniana (in un periodo in cui la sini-
stra francese era allineata sulle posizioni filo-sovietiche del PCF), a fenome-
nologo, da freudo-nietzscheano «desiderante» a wittgensteiniano – è quasi
la parabola vissuta delle erranze postmoderne della filosofia contemporane-
a: peregrinazione teorica (relativista) a cui siamo particolarmente sensibili in
quanto filosofi di «professione». A cosa è dovuta tale erranza teorica? È
dovuta, come Lyotard stesso probabilmente credeva, ad una sana elabora-
zione del «lutto per le grandi narrazioni»? Oppure tali peregrinazioni sono
anch’esse l’effetto che produce in filosofia la falsa totalità dell’industria
dell’opinione? E quale «volontà» – la volontà di potenza di Nietzsche, il su-
per-ego di Freud, il potere di Foucault, il nulla di Heidegger – si nasconde
dietro queste grandi creazioni del linguaggio, queste grandi narrazioni che
continuano ad essere le dottrine filosofiche? Che cosa governa e regola il loro
oscillare e peregrinare: il grande nomoteta folle di Lewis Carroll (Humpty-
Dumpty), oppure il divino retore Gorgia, colui che incantava le folle usan-
do come un farmakon le sue parole29? Da un lato si potrebbe affermare che
Lyotard è un pensatore che si entusiasmava per mode passeggere, di cui
poi, inevitabilmente, era malinconicamente deluso: ed in tal caso sarebbe
quindi giusto dimenticarlo, come per l’appunto si sta facendo. Dall’altra, si
potrebbe però sostenere che Lyotard è un filosofo che dietro un’apparente
fragilità della facoltà di giudizio filosofico ha dato prova di una virtù più
grande: quella di esporsi fino in fondo, esistenzialmente e intellettualmente,
al pericolo più temibile per un pensatore contemporaneo: il relativismo so-
fistico estremo che s’incarna storicamente nell’epoca postmoderna. Attra-
verso tale terreno insidioso, Lyotard avrebbe lanciato – secondo Derrida –
una grande sfida al nostro tempo: sfida consistente nel ricordare alla nostra
epoca qualcosa di imprescindibile per l’umanità postmoderna: la sua facoltà
di giudizio30.

27
Cfr. J.-F. Lyotard, La confession d’Augustin, Galilée, Paris, 1998.
28
Cfr, J.-F. Lyotard, Pérégrinations, Galilée, Paris, 1990.
29 Gorgia, Encomio di Elena, in Id., Frammenti, a cura di C. Moreschini, cit., p. 32.
30 Cfr. J. Derrida, Préjugés, in J. Derrida, V. Descombes, P. Lacoue-Labarthe, J.-F. Lyo-

tard et autres, La faculté de juger, Éd. de Minuit, Paris, 1985, pp. 96-97.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 269

4.3. La teoria dei giochi linguistici ovvero il relativismo discorsivo.


Un’altra categoria utilizzata da Lyotard nella descrizione della condizione
postmoderna è quella wittgensteiniana di «gioco linguistico». Ora, non mi
interessa qui stabilire quanto l’uso lyotardiano della categoria di gioco lin-
guistico sia fedele all’ortodossia wittgensteiniana. Sicuramente non lo è, ma
trovo tuttavia pertinente la ragione per cui, nell’opera successiva: Le diffé-
rend, tale categoria è criticata e rivista in senso al contempo trascendentale
ed ontologico. L’idea wittgensteiniana secondo cui il significato è determi-
nato dall’uso appare a Lyotard ancor «troppo antropologica»: da qui l’idea
di sottomettere le «frasi» all’influsso di «agenzie o poteri»31 che ne determi-
nano il «regime trascendentale» (cognitivo, nominale, affettivo, ideale), e di
sottoporle all’azione anonima di «istanze di concatenamento»32 che ne sta-
biliscono l’appartenenza a un determinato «genere di discorso» (della
scienza, della giurisprudenza, della morale etc.). Bisogna inoltre notare che
questo processo di progressiva determinazione discorsiva della «frase», ri-
traduce, in termini lyotardiani, la differenza ontologica attraverso cui l’«es-
sere indeterminato», la frase-sensazione, diviene oggetto di discorso, e cioè
«ente». Ora, perché la critica lyotardiana dell’idea che «il significato è
l’uso» può essere considerata in parte legittima? Perché l’antropologismo di
coloro che si rifanno alla dottrina dei giochi linguistici rimane frequente-
mente tra «virgolette»: come quando si invoca il «fondo roccioso», lo «stra-
to di roccia», lo «zoccolo (antropobiologico) duro» su cui si fondano le pra-
tiche di linguaggio; oppure quando si afferma che, per tal motivo, «le spie-
gazioni hanno un termine»; o quando si sostiene che «anche se parlasse,
non lo potremmo capire» (il leone); oppure quando si pone il concetto di
«reazioni naturali», «reazioni primitive», «atteggiamenti naturali» ancora
tra virgolette33. Se non si accetta l’espediente delle virgolette, credo che
s’imponga allora un’alternativa: o si fa esplicitamente dell’«antropobiologia

31 Poteri che traducono in termini linguistici le «facoltà» kantiane nel primo senso del

termine: sensibilità, intelletto, immaginazione, ragione.


32 Istanze che traducono in termini linguistici le «Facoltà» kantiane nel secondo senso del

termine – nel senso cioè della Facoltà della ragion pura o pratica ma anche nel senso del Con-
flitto delle Facoltà: Facoltà delle scienze della natura, Facoltà del diritto etc. In alcuni luoghi,
Lyotard ipotizza una filiazione quasi diretta tra la filosofia di Wittgenstein e di Kant: «La di-
spersione del linguaggio in famiglie di frasi è il tema che Wittgenstein, sapendolo o no, racco-
glie da Kant e che sviluppa il più lontano possibile in direzione di una descrizione rigorosa»,
J.-F. Lyotard, Introduction à une étude du politique selon Kant, in AA.VV., Réjouer le politique,
Galilée, Paris, 1991, p. 133.
33 «Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si pie-

ga. Allora sono disposto a dire: “ecco, agisco proprio così”», L. Wittgenstein, Philosophische
Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953, trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricer-
che filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, § 217. Per un commento di Cavell a questi passaggi, cfr.
La riscoperta dell’ordinario, cit., pp. 43-45.
270 ALBERTO GUALANDI

del linguaggio», chiedendosi in che modo il linguaggio si radica nella natura


umana – e non è affatto detto che la risposta debba essere quella di
Chomsky o Pinker – oppure non se ne fa. Lyotard sceglie di non farla, e
fonda la differenza linguistica sulla differenza ontologica (e, secondo me,
non fa altro che passare così da un ordine di metafore ad un altro più astrat-
to). Personalmente, io credo che sarebbe meglio farla34 e, in altri luoghi, ho
tentato d’identificare, in modo sicuramente troppo rapido, alcuni indizi te-
orici che potrebbero indurci a tentare di abbozzare un’antropobiologia filo-
sofica del linguaggio per la quale i giochi linguistici teorici e pratici possono
essere ricondotti entrambi a uno: al gioco linguistico della verità (che tanto
nella scienza quanto negli altri domini dell’esperienza comporta sempre un
rapporto tra la temporalità e la realtà per il tramite del linguaggio). Dicendo
questo, so di trovare pochi consensi (ma questo non significa che cerchi in-
34 Fare esplicitamente dell’«antropologia filosofica» non significa presupporre necessaria-

mente una «immodificabilità della natura umana», come sostiene invece la scuola di Franco-
forte (Habermas compreso) a partire dal celebre saggio critico di Horkheimer (cfr. M. Hork-
heimer, Considerazioni sull’antropologia filosofica (1935), in Id., Kritische Theorie, Bd. I, Fi-
scher, Frankfurt a.M., 1968, trad. it. di G. Backhaus, Teoria critica, Vol. I, Einaudi, Torino,
1974; J. Habermas, Antropologia (1958), in AA.VV., Philosophie, Fischer, Frankfurt a.M.,
1958, trad. it. di G.A. De Toni in G. Preti (a cura di), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 1966). Si-
gnifica semmai definire delle «invarianti» antropobiologiche – invarianti empiriche, relative ad
un determinato stadio dell’evoluzione, che da circa centocinquanta mila anni si mantiene piut-
tosto stabile, secondo quanto sostengono la paleoantropologia e la microbiologia contempora-
nee. Ma significa anche definire delle «varianti», possibili o effettive, che mutano, anche in
modo radicale, col mutare della cultura e della storia, pur continuando a fondarsi sulle prime.
Tali invarianti empiriche sono ovviamente delle invarianti corporali e sensoriali, che hanno un
valore di a priori materiale, ma che possono acquisire nell’esperienza umana anche un carattere
simbolico e linguistico che possiamo definire empirico-trascendentale. Le invarianti «quasi-
antropologiche», identificate da Habermas – il «lavoro» e la «comprensione» – non hanno del
resto un valore troppo differente. Rifiutando di fondare la propria epistemologia su un’espli-
cita antropologia filosofica, Habermas lascia tuttavia sospese nel vuoto teorico, «quasi-trascen-
dentale», tali categorie «quasi-antropologiche» (cfr. J. Habermas, Erkenntnis und Interesse,
Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1968, 1973). Anche interpreti e continuatori contemporanei della
dottrina wittgensteiniana dei giochi linguistici, come Stanley Cavell, sembrano talvolta ritenere
necessaria una esatta determinazione epistemologica di cosa s’intenda per «atteggiamenti natu-
rali» (e propendere quindi per l’eliminazione delle virgolette). D’altra parte però, togliere le
virgolette ed addentrarsi esplicitamente in un’antropologia filosofica, per wittgensteiniani co-
me Cavell, come per la Scuola di Francoforte, sembra implicare necessariamente un atteggia-
mento conservatore. Agli occhi di questi autori, il richiamo a fatti di natura, o a una supposta
natura umana «immodificabile» (relativamente a un determinato stadio dell’evoluzione), cela
inevitabilmente una strategia discorsiva tesa a ostacolare il cambiamento di istituzioni, tradi-
zioni, pratiche e norme ereditate dal passato. Cfr. S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario, cit.,
pp. 383 sgg. Se tale tipo di cautela critica può riguardare posizioni come quelle di Pinker (che
però le rinvia al mittente, invertendo soltanto il colore politico: cfr. le polemiche con Rorty e
con Rose contenute in «Micromega» 4/2005 e 1/2006), può essere evitata da un’antropologia
filosofica per la quale il problema principale non è assegnare il primato alla natura o alla cultu-
ra, bensì individuare il luogo antropobiologico preciso in cui la cultura si radica nella natura.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 271

tenzionalmente il sublime «disaccordo» e non mantengo in vista, come o-


rizzonte di possibilità, come ideale regolativo, il prosaico «accordo»). Forse
troverò però qualche consenso osservando un fatto tanto banale quanto
importante che ha a che fare con il relativismo: le descrizioni wittgenstei-
niane dei giochi linguistici valgono per noi postmoderni oppure anche per i
«premoderni» di oggi e di altri tempi? Valgono da noi in occidente o anche
in Africa o tra gli Yanomami? Se sì, allora, in esse c’è qualcosa di antropo-
biologicamente universale che vale la pena di spiegare e di verificare35. Se
no, allora stiamo solo facendo una variante ibrida dell’antropologia culturale,
ovvero un’antropologia culturale quasi-trascendentale che rischia di non
spogliarsi mai del tutto delle proprie virgolette (e che quindi non viene in
chiaro riguardo lo statuto epistemologico del proprio discorso).

4.4. L’opposizione tra giudizio riflettente e determinante; ovvero la relati-


vizzazione soggettiva della ragione «non-scientifica» (pratica, estetica, storica,
filosofica) e, quindi, del «valore». Questa questione è strettamente correlata
con la precedente e, per attirarmi ulteriori critiche, mi esprimerò in modo
un po’ brutale: in ultima istanza, non credo che ci sia una differenza onto-
logica, trascendentale o pragmatica (che in Lyotard si traduce nella diffe-
renza tra regimi di frasi e generi di discorso) tra il giudizio scientifico e il
giudizio «non-scientifico» (morale, estetico, filosofico, esistenziale). Se è ve-
ro che, come riteneva Kant, pensare è giudicare, ci deve essere qualcosa di
riflettente nel giudizio scientifico, così come qualcosa di trascendentalmente
determinante deve essere presente anche negli altri tipi di esperienza e di
giudizio. Per Kant, del resto, era «determinante» anche il giudizio morale, e
giunto alla terza Critica, pare che l’impulso di riscrivere le prime due Criti-
che in funzione di questa «arte nascosta nella profondità dell’animo», che è
il giudizio riflettente, fosse per Kant – come ha notato Lyotard sulla scorta
di altri interpreti36 – piuttosto forte. Ma per esprimermi in modo ancora più
chiaro vorrei aggiungere ciò che segue: la differenza tra il giudizio scientifi-
co e il giudizio in atto negli altri ordini di esperienza dipende più dal suo
oggetto che dalle categorie, principi e schemi trascendentali (o meta-regole
di linguaggio e pratiche argomentative) che dovrebbero fondarne l’eserci-

35 È del resto evidente che concetti come quelli di «reazioni naturali» o «reazioni primiti-
ve» pagano un prezzo piuttosto alto ad una concezione insidiosa della natura umana: il com-
portamentismo. Il carattere insidioso di tale concezione è dimostrato anche dal fatto che alcuni
sostenitori della teoria dei giochi linguistici (non sono però i soli) non hanno ancora finito di
fare i conti con Pavlov e Skinner: a tal proposito cfr. F. Cimatti, Il senso della mente, Borin-
ghieri, Torino, 2005. Per un’interpretazione comportamentista della teoria del linguaggio di
Gorgia, cfr. A.P.D. Mourelatos, op. cit.
36 Cfr. J.-F. Lyotard, Leçons sur l’analytique du sublime, Galilée, Paris, 1991, pp. 196, 261-

262.
272 ALBERTO GUALANDI

zio. L’oggetto della scienza è la natura – un «oggetto» in divenire, che è pe-


rò dotato, per lo meno al livello macroscopico (non-quantistico e non-
cosmologico), di una certa stabilità, non soltanto probabilistica37. L’oggetto
della morale, o delle «scienze umane» in genere, è l’animo umano, le sue
azioni e creazioni: oggetto dotato di una ben più ridotta stabilità e, oltre ciò,
d’intenzionalità – ovvero di una capacità auto-organizzativa di autonomia e,
quindi, di una (non per questo onnipotente) facoltà di giudicare. Ritornia-
mo del resto ancora una volta a Kant: e se l’oggetto della scienza non fosse
poi così stabile? Se la natura fosse travolta – come la nostra mente in certe
condizioni critiche – da un «divenire folle» che la rende completamente in-
stabile? Se «il cinabro fosse al contempo rosso e nero, pesante e leggero»,
sarebbe ancora possibile una scienza trascendentalmente determinante? Se-
condo Kant no, ma purtroppo ha tenuto conto di questa limitazione soltan-
to nella Deduzione della prima edizione della Ragion pura38. Un problema
che a Kant – ma, credo, in una certa misura anche a tutti noi – non era i-
gnoto è che, quando si ha a che fare con l’animo umano, ci si rende ben
presto conto del fatto che la stabilità di tale animo non è qualcosa di indi-
pendente dalla forza (o volontà) con cui si mette in atto la facoltà di giudi-
37 La stabilità è una determinazione ontologico-temporale che, come Aristotele già sapeva,

ha tuttavia bisogno di essere affermata dal giudizio umano per essere oggettivata in quanto
tale. «Il cielo è blu» è una proposizione vera e oggettiva se, oggi, il cielo è effettivamente blu,
ma tale oggettività non è indipendente dal corpo, dai sensi e dal linguaggio umani. Senza un
essere vivente dotato di occhi e cervello simili ai nostri non ci sarebbe il blu, e senza un essere
vivente dotato di linguaggio non ci sarebbe neppure «il» cielo, poiché il cielo, come l’orizzonte
visivo, non è un «oggetto». Possiamo per esempio immaginarci una cultura in cui non esiste
ancora una parola per cielo, ma soltanto una parola per il cielo-sopra-casa mia, o il cielo-
dietro-agli-alberi, o il cielo-che-si-incontra-all’orizzonte-col-mare, e in cui il cielo sarebbe qual-
cosa di troppo grande da nominare – qualcosa di simile a Dio (cfr. a tal proposito A. Gehlen,
Urmensch und Spätkultur, cit., p. 227, trad. it. cit., p. 242)? Dobbiamo allora dire che una tale
cultura, come «quella del leone», non la riusciremmo a capire? Oppure c’è qualche modo per
tradurre i loro concetti e «verità» all’interno della nostra? Ed il contrario sarebbe pensabile?
Contrariamente a quel che riteneva Gorgia, e a quel che, in modi diversi, sostengono Sapir,
Whorf o Quine, credo che ciò sia possibile nella misura in cui condividiamo un’attività lingui-
stica e immaginativa in gran parte simile a quello degli esseri umani appartenenti ad altre cul-
ture, e un corpo biologico non troppo differente da quello del leone e degli altri animali. An-
cora una volta entrano in gioco le varianti/invarianti antropobiologiche. E ancora una volta
non bisogna dimenticare che, se l’antropobiologia del linguaggio e della cultura si fonda sulla
singolare biologia «neotenica» del corpo umano, quest’ultima rappresenta, a sua volta, soltanto
una variante ontogeneticamente «rallentata» della natura biologica degli altri mammiferi «su-
periori». Affermare la «differenza antropobiologica» tra l’uomo e gli altri animali non significa
necessariamente «strappare» l’uomo alla natura biologica e fare della natura umana una inde-
finibile «anatura». Contrariamente a ciò che affermava Habermas (Antropologia, cit.), in tale
rischio incorre talvolta Gehlen, ma anche alcuni biologi contemporanei che pongono giusta-
mente l’accento sui concetti di neotenia ed eterocronia: cfr. A. Prochiantz, La biologie dans le
boudoir, Odile Jacob, Paris, 1995, pp. 143 sgg.
38 Cfr. Kant, KrV, A101.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 273

care, con cui si intenziona «ciò che ci viene dato», con cui si dà voce a quei
sentimenti muti, a quelle frasi in attesa che ci fanno pensare. Se è vero che
la «follia» (biologica o psicologica che sia) annebbia profondamente la fa-
coltà di giudicare, è anche vero che la paralisi della facoltà di giudicare por-
ta ad una più o meno completa (filosofica) follia39. Oltre l’ignoranza ogget-
tiva, in cui inevitabilmente ci areniamo in un mondo ipercomplesso, è que-
sta paralisi-follia che è largamente sfruttata dai creatori di historiettes e dai
fabbricatori di opinione, che mirano a indebolire il nostro – già fragile per
«natura» – «senso» della realtà. In altri termini, la nostra libertà si concre-
tizza nella nostra capacità di giudicare – cosa che il filosofo del postmoder-
no aveva dapprima riconosciuto, e poi disconosciuto, giudicandola troppo
«moderna».
Tutto questo per ritornare a qualcosa di più «concreto», di cui si è di-
scusso anche negli altri interventi che hanno animato il nostro dibattito. Se-
condo Cavell, «un (progetto di) mondo» in cui l’aborto è legalmente per-
messo rappresenta un (progetto di) mondo migliore di quello in cui l’aborto
non è permesso – un’affermazione che, se comprendo bene l’argomentazio-
ne, riceve nel pensiero di Cavell una giustificazione in ultima istanza prag-
matica40. Dal punto di vista di una filosofia del giudizio, si potrebbe forse
offrire una giustificazione più forte di tale affermazione: una giustificazione
implicita nel fatto che colui che vive in tale mondo è, in quanto essere uma-
no razionale, «oggetto» di un giudizio filosofico che gli attribuisce la facoltà
(filosofica) di giudicare. Credo, in altri termini, che il carattere «migliore» sia
dovuto al fatto che, in tale mondo, ciò che viene valorizzata è proprio l’au-
tonoma facoltà di giudicare – e non i comitati di bioetica, la scienza
dell’embrione, la religione o la selezione socio-biologica «naturale». Quale

39 L’atto di giudicare presuppone sempre un tentativo di accordarsi con se stessi oltre che

con l’altro. L’esperienza del pensiero è infatti un’esperienza di dialogo interiore: come se, nel
dialogare con se stessi, fossimo già in presenza di un Altro. In altri termini, il dialogo silenzio-
so, il pensiero, presuppone sempre un’interiorizzazione dell’Altro (cfr. a questo proposito,
Mead, Gehlen, Tugendhat). Il giudizio è quell’atto intra-intersoggettivo di pensiero che sanci-
sce l’accordo raggiunto con noi stessi e con il giudizio, immaginariamente anticipato, dell’Al-
tro. Tale carattere al contempo inter- e intra-soggettivo del giudizio umano era già stato del
resto intuito ed espresso da Kant nella formulazione delle tre massime regolative del senso co-
mune: «Pensare da sé; pensare mettendosi al posto di ogni altro; pensare sempre in accordo
con se stessi», Kant, KU, §40. Filosoficamente intesa, la follia di cui si diceva prima può essere
quindi considerata come un’interruzione del rapporto comunicativo con questo «Altro» inte-
riorizzato – un’alterità che, in Descartes, come in altri autori contemporanei, è interpretata
sovente da un «interlocutore infinitamente maligno». Descartes sfugge del resto al suo «soli-
psismo iperbolico» soltanto ipotizzando un interlocutore infinitamente benigno.
40 In tal caso la pragmaticità si valuta in termini di costi e benefici. Davanti all’aborto si

deve infatti riconoscere che «il costo in termini di sofferenza umana sia incomparabilmente più
grande senza questa possibilità di scelta […]», S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario, cit., p.
356.
274 ALBERTO GUALANDI

istanza razionale può del resto meglio giudicare se la vita valga la pena di
essere «affermata» – non solo vissuta, ma anche «riprodotta» e «continua-
ta» – in queste particolari condizioni affettive, famigliari, sociali, finanziarie
e, più in generale, esistenziali? Quale istanza razionale se non la facoltà di
giudizio di chi deve giorno per giorno aiutare un «essere umano in poten-
za»41 a divenire un individuo dotato di un grado sufficiente di razionale
umanità (cosa che non coincide necessariamente col possedere un certo
grado di Q.I., geneticamente manipolabile)? Un tale giudizio è un compito
difficile che ha talvolta anche un carattere «tragico». In esso rientrano una
molteplicità di giudizi particolari, non escluso quello relativo a ciò che, allo
stato attuale della scienza, «si sa» dello «statuto ontologico (fisiologico, epi-
genetico, neurocerebrale)» dell’embrione (anche se nelle discussioni attuali
tale componente mi pare largamente sopravvalutata). Ciò che credo, tutta-
via, difficilmente realizzabile, è che la scienza sia un giorno in grado di dirci
ciò che in ogni caso singolare è giusto fare. Non perché la scienza non abbia
a che fare con il «senso» e con il «valore», ma perché essa si occupa nor-
malmente del generale e non del singolare, del transitorio, dell’intenzionale,
della progettualità storico-temporale che è propria dell’essere umano indi-
viduale. Oppure dobbiamo immaginarci uno scenario virtuale in cui la
scienza si applichi al caso singolare, calcolando i costi e i benefici, le gioie e
i dolori, oltre che il desiderio di negare, di affermare, di progettare (anche
al di là delle sofferenze di una situazione presente e particolare) che appar-
tiene per natura, in modo inalienabile, a un essere umano individuale? Esi-
sterà una scienza di tal tipo? È auspicabile che esista, in ragione delle sfide
future che l’umanità dovrà affrontare? Oppure essa non è fin d’ora null’al-
tro che il sogno di pazienti e terapeuti che aspirano al posto occupato pre-
cedentemente dai detentori del sapere assoluto o dalla religione? Allo stato
attuale delle cose, in ogni caso, la facoltà di decidere della vita che si porta
in sé, al pari di altri diritti assegnati all’individuo dalla modernità, come il
diritto alla partecipazione democratica, costituisce anche un appello indi-
rizzato ad un’«umanità futura», al suo senso di razionalità responsabile42.
Tale diritto è di per se stesso un giudizio filosofico su ciò che l’umanità è o

41 Secondo Cavell, «l’embrione è un essere umano» non è un’asserzione su uno stato di

cose. Ibid., pp. 358-359.


42 Sia per Cavell che per Lyotard, il tema della responsabilità del giudizio, e della necessità

di una nuova teoria della razionalità ed educazione del pensiero, deve essere assunto a finalità
primaria della filosofia. A tal proposito vorrei osservare che anche nei giudizi «determinanti»
della scienza – che non sono il frutto di un meccanismo logico automatico, ma il risultato
dell’attività umana – è in gioco una responsabilità di giudizio, nei confronti, non soltanto delle
applicazioni tecnologiche, ma anche della verità scientifica. Tale responsabilità nei confronti
della verità è talvolta assente nella filosofia contemporanea, che si rende in tal modo sempre
più indistinguibile dalla sofistica.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 275

può anche essere, un giudizio filosofico sul carattere necessariamente filoso-


fico dell’umanità43.

4.5. La tecnoscienza globale, ovvero come il relativismo si trasforma in un


assoluto in cui più nulla è relativo. La performatività della tecnoscienza, di-
cevamo prima, è una delle categorie con cui Lyotard descrive la condizione
postmoderna. Bisogna tuttavia notare, e Lyotard non lo nasconde, che la
tecnoscienza non è affatto una categoria pluralista, né tanto meno relativi-
sta. Se è vero che attraverso la tecnoscienza il mondo si è frantumato in una
miriade di punti di vista monadici: opinioni, immagini, narrazioni, emozioni

43 Ciononostante non credo che il riconoscimento della legittimità di questo diritto impli-

chi necessariamente anche la legittimazione della libera manipolazione «eugenetica» dell’em-


brione. La facoltà di giudizio non fonda la propria autonomia sul fondamento astratto e vuoto
di una libertà individuale, atomizzata e indeterminata, che non tollera condizionamenti né da
parte della collettività, né da parte della natura corporea. Essa si radica piuttosto in un corpo
che, per l’individuo e la sua progettualità esistenziale, è corpo vissuto (Leib sein) ancor prima che
corpo oggettivabile scientificamente e manipolabile geneticamente (Körper haben). È questo in-
treccio di Leib e Körper, di centricità ed eccentricità (Plessner), di gettatezza e progettualità
storico-temporale, che – argomenta Habermas in Die Zukunft der menschlichen Natur, Suhr-
kamp, Frankfurt a.M., 2001, trad. it. di L. Ceppa, Il futuro della natura umana, Einaudi, Tori-
no, 2002, pp. 15, 37, 52 – verrebbe profondamente modificato da un’auto-interpretazione
dell’umano – avvallata istituzionalmente – che liberalizza la manipolazione eugenetica sul pia-
no della riproduzione individuale. Le preoccupazioni di Habermas mi paiono quindi condivi-
sibili per tre ordini di ragioni: 1) perché concernono questioni che non sono limitate alla sfera
dell’individuale (coloro che propendono per la liberalizzazione eugenetica «individuale» sa-
rebbero anche d’accordo col pianificare una manipolazione eugenetica «di classe» volta ad
ottenere, per esempio, una nuova élite dirigenziale?); 2) perché nessuno, allo stato attuale delle
cose, conosce la percentuale esatta di manipolabilità genetica delle facoltà umane superiori
(emotività, intelligenza, giudizio) e le conseguenze di tale manipolazione neurobiologica; 3)
perché l’«immagine dell’umano» che starebbe alla base di una tale auto-interpretazione è filo-
soficamente e scientificamente inconsistente, e oscilla violentemente tra il riduzionismo geneti-
co e una libera e vuota facoltà di autodeterminazione. Quale sarebbe infatti il modello antro-
polobiologico alla base di una tale auto-interpretazione «eugeneticamente liberale»? Quello
iperadattazionista dei «geni egoisti» di Dawkins e Pinker? Quello fornitoci dal Grande Pro-
grammatore Maligno di Daniel Dennett? O quello «ipercibernetico in rete» delle macchine
neurocomputazionali, autoprogrammanti, di Paul Churchland? Nessuno di questi modelli ri-
duzionisti è in grado del resto di fornire un fondamento a quella facoltà umana di scelta e pro-
gettazione storica che si esplicherebbe in tale programma di liberalizzazione. A questo propo-
sito, cfr. le riflessioni critiche di neurobiologi come S. Rose e A. Prochiantz. (S. Rose, Lifelines,
(1997), trad. it. di L. Comoglio, Garzanti, Milano, 2001; e Id., The 21st Century Brain, Jona-
than Cape-Random House, London, 2005, trad. it. di E. Faravelli, Il cervello del ventunesimo
secolo, Codice, Torino, 2005; A. Prochiantz, La biologie dans le boudoir, cit.; Id., Les anatomies
de la pensée. À quoi pensent les calamars?, Odile Jacob, Paris, 1997, trad. it. di P. Ferrero, A
cosa pensano i calamari ? Anatomie del pensiero, Einaudi, Torino, 1999). Ancora una volta mi
sembra che s’imponga il compito di un’antropologia filosofica, in linea con le più avanzate
scoperte e riflessioni della scienza, capace di ridimensionare l’incidenza pubblica di tali imma-
gini, pericolosamente riduzioniste, dell’umano.
276 ALBERTO GUALANDI

(preconfezionate) e autorappresentazioni (mediatiche), è anche vero che


sotto il suo imperio esso è divenuto sostanzialmente «uno». In altre parole,
la «tecnoscienza» è una categoria totalizzante44. Benché facciano riferimen-
to a diverse narrazioni e tradizioni, Bush e Bin Laden «utilizzano» entrambi
aerei, lottano per il petrolio e tramano per il possesso (o per il monopolio)
dell’«atomica»45. È noto che dopo Hiroshima il mondo è accomunato da
una sola grande narrazione, da una sola tragica storia. Riteniamo che il de-
stino dell’umanità sia in tal modo già segnato, oppure che la nostra facoltà
di giudicare possa e debba in qualche modo prendere ancora parte all’ela-
borazione di questa narrazione? Riteniamo che tali questioni siano solo

44 Con «tecnoscienza» s’intende l’idea che la verità della scienza, e del sapere umano in

genere, risiede unicamente nella sua performatività ed efficienza tecnica. Come ogni categoria
totalizzante, bisogna tuttavia notare che anche tale categoria tende ad essere riassorbita, ad
«implodere», nella totalità che descrive, e a divenire paradossalmente una sua «parte». Tale
implosione paradossale mi pare emergere con una certa chiarezza dal discorso sulla tecno-
scienza che tiene Umberto Galimberti – perlomeno se si presta fede alla conferenza (peraltro
pregevole) sulla tecnica da lui proferita, nel quadro del Festival di filosofia, nel settembre 2004,
a Carpi. Sulla base di questa identità tra verità e tecnica, in tale occasione, davanti ad una folla
di qualche migliaio di persone, Galimberti non esitava a diagnosticare per l’umanità, comple-
tamente assoggettata al Gestell tecnoscientifico, un destino inesorabilmente infausto: compresa
la rielezione di Berlusconi alle passate elezioni (del 2006). Tra le migliaia di uditori assoggettati
dal fascino delle sue parole, qualcuno si sarebbe tuttavia potuto levare per obiettare: Prof. Ga-
limberti chiarisca meglio lo statuto «epistemologico» del suo discorso. O quello che Lei ci sta
dicendo è, anch’esso, tecnoscientificamente vero, e allora Lei – novello Gorgia che usa le paro-
le come un apocalittico farmakon – ci sta manipolando (e per sottrarsi a tale «apocalisse di-
scorsiva» la prima cosa da fare sarebbe tapparsi le orecchie sottraendosi così all’influsso sedu-
centemente de-realizzante delle sue parole). Oppure quello che Lei ci dice è vero in un senso
diverso da quello dell’efficacia-performatività tecnoscientifica: in tal caso, però, in quanto «ve-
ro», il suo discorso è anche «falso». In tal caso Lei sarebbe infatti costretto a riservare al suo
discorso uno «spazio» filosofico di verità che consente al suo uditorio, e all’umanità in genere,
di riappropriarsi (filosoficamente) di se stessa. Il riconoscimento della verità oggettiva del pro-
cesso storico (tecnoscientifico) che Lei descrive con il suo discorso implica la possibilità di un
giudizio filosofico, individuale e collettivo, in grado di oggettivarlo ed in tal modo arginarlo,
«relativizzando» il suo carattere di assoluto. Ma a quanto pare, per Galimberti, come per
l’ultimo Lyotard, nel contesto tecnoscientifico postmoderno l’unico spazio di riappropriazione
è assicurato all’essere umano da una sorta di ascesi agostiniana. Credo che l’esempio di Lyo-
tard-Galimberti mostri anche che, dietro al corpo a corpo tra il filosofo e il sofista, si celi anche
uno scontro più cruciale per l’umanizzazione o la disumanizzazione dell’uomo. Su quest’ul-
timo tema, cfr. E. Melandri, La linea e il circolo, Quodlibet, Macerata, 2004, p. 755.
45 La manipolazione «eugenetica», se fosse fino in fondo realizzabile, non avrebbe forse

anch’essa un interesse strategico-militare cruciale? Nonostante la sua ostentata fede nella crea-
turalità dell’uomo, Bush sarebbe probabilmente molto interessato ad una manipolazione euge-
netica capace di produrre una nuova élite dirigenziale, fatta di schiere di superuomini e super-
donne, assolutamente fedeli ed efficienti come Condoleezza Rice (superuomini oppure auto-
mi?), e magari anche nuove truppe d’assalto, superspecializzate e votate alla morte. Bin Laden
sarebbe probabilmente meno interessato perché truppe votate alla morte ce le ha già: il posto
della manipolazione eugenetica è occupato dal fanatismo della religione.
RELATIVISMO POSTMODERNO E FACOLTÀ DI GIUDIZIO 277

compito della scienza, perché tra giudizio determinante e riflettente c’è una
differenza ontologico-trascendentale? Oppure che esse debbano continuare
ad essere distinte perché i «criteri» dell’argomentazione scientifica differi-
scono pragmaticamente da quelli dell’argomentazione morale? In altre oc-
casioni ho ripreso la distinzione formulata da Apel tra «verità-sopravvi-
venza» e «verità-emancipazione» tentando di mostrare la loro stretta inter-
connessione46. Ma al di là di queste sottili distinzioni «filosofiche», credo
che la situazione attuale dimostri, come forse mai prima d’ora, quanto que-
ste due categorie della verità siano strettamente correlate in ogni ambito
della nostra storia ed esperienza. Da Le scienze del novembre 2005 traggo le
seguenti informazioni: 1,1 miliardi di esseri umani vivono ancor oggi in
condizioni di estrema indigenza (p. 62) e nel 2050 la popolazione mondiale
aumenterà del 50% circa (9,1 miliardi, p. 52). «Già ora emettiamo anidride
carbonica tre volte più velocemente di quanto gli oceani e la Terra siano in
grado di assorbirla; […] il riscaldamento globale inizierà a farsi sentire sul
serio intorno alla metà del secolo [e] al ritmo attuale, le foreste e le riserve
di pesca si esauriranno anche prima» (p. 46). «Le emissioni mondiali di
CO2 nel 2030 cresceranno del 35-60 per cento» e tra cinque anni sarà pro-
babilmente già raggiunto il picco nella produzione del petrolio, dopodiché
inizierà il declino (p. 80). Nel 2020 le malattie legate allo stile di vita – ma-
lattie cardiovascolari, depressione e incidenti stradali – saranno al primo
posto (dell’indice DALY degli anni di salute persi, p. 107), e diversi ele-
menti indicano che gli Stati Uniti, al pari di altri paesi ricchi, sono già entra-
ti nella fase di crescita «antieconomica»47.
Crediamo forse che simili cambiamenti «fattuali» non avranno ricadute
sul nostro giudizio «riflettente» filosofico-politico-morale o che non avran-
no alcuna incidenza sui nostri «valori»? Crediamo che la ricerca di possibili
soluzioni sia soltanto compito della scienza, e che alla filosofia non spetti
per esempio il compito di ricordarci che tali processi possono essere regola-
ti soltanto grazie a istituzioni politiche internazionali, per mezzo di un’at-
tività collettiva di giudizio, in cui le componenti «determinanti» scientifiche
sono praticamente indistinguibili da quelle «emancipatorie-riflettenti»? Op-
pure riteniamo che la mega-macchina tecnoscientifica potrà regolare da so-

46 K.O. Apel, Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundlagen der Ethik,
in Transformation der Philosophie, Bd. 2, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1973. Il problema del
rapporto tra verità-sopravvivenza e verità-emancipazione è anche al centro dell’etica della re-
sponsabilità di Hans Jonas. Cfr. L. Guidetti, La materia vivente. Un confronto con H. Jonas,
Quodlibet, Macerata, 2007, pp. 113 sgg.
47 «La crescita diventa antieconomica quando gli incrementi della produzione costano, in

termini di risorse e benessere, più del valore dei prodotti. La crescita antieconomica deriva da
un equilibrio indesiderato di utilità e disutilità». Le scienze. Strategie per la Terra. Idee e proget-
ti per uno sviluppo sostenibile, novembre 2005 p. 115.
278 ALBERTO GUALANDI

la, «automaticamente», questi problemi «gestionali» (e non filosofici)? Se


ciò avvenisse, anche i filosofi sarebbero ridotti ad ingranaggi di un Gestell
totale che ci sovrasta, ma che ci farà probabilmente ancora credere alla fa-
vola del nostro inalienabile relativismo soggettivo, e del nostro prospettivi-
smo culturale-individuale. Personalmente credo che la nostra facoltà di
giudizio possa giocare ancora un ruolo in questo destino o che, in altri ter-
mini, l’umanità del futuro sarà filosofica o non sarà. Lascio a voi decidere se
tale affermazione rappresenta un funesto presagio o un inguaribile atto di
fiducia nell’umanità.

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