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Alain de Benoist

Sull’Orlo
del Baratro
IL FALLIMENTO ANNUNCIATO
DEL SISTEMA DENARO

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Titolo originale: Au bord du gouffre. La faillite annoncée du système de l’argent

© 2012 Editions Krisis


5 rue Carrière-Mainguet - 75011 Paris

traduzione Giuseppe Giaccio


revisione Jeanne Cogolli
editing Claudio Corvino, Valentina Pieri
copertina Matteo Venturi
stampa Tipografia Lineagrafica, Città di Castello (PG)

I edizione aprile 2012 La Cellulosa utilizzata per la produzione della carta su cui sono
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Capitolo 1

Il denaro

Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più che un po’ di me-


no. «Il denaro non dà la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio po-
polare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max
Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per natura” guadagnare
sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vi-
vere e guadagnare quanto gli occorre per farlo». In seguito, numerose
inchieste hanno mostrato una relativa dissociazione tra la crescita del
livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: su-
perata una certa soglia, avere di più non rende più felici. Nel 1974, i
lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di sod-
disfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo
stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei
Paesi sviluppati (questo “paradosso di Easterlin” è stato di recente ri-
confermato). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la
crescita materiale di valutare il benessere reale; soprattutto sul piano
collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che
permetta di associare le preferenze individuali alle preferenze sociali.
È allettante vedere nel denaro solo uno strumento di potenza. Pur-
troppo il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere
e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà ancora a lungo un
sogno. Una volta si diventava ricchi perché si era potenti, oggi si è po-
tenti perché si è ricchi. L’accumulazione del denaro è presto divenuta
non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma
lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non
ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infini-
ta del denaro. La capacità di accumulare denaro dà evidentemente un
potere discrezionale a coloro che la possiedono. La speculazione mo-
netaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo
resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo.

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~ Sull’Orlo del Baratro ~

Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della


moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. È sol-
tanto nello scambio, infatti, che gli oggetti acquistano una dimensione
di economicità, ed è ugualmente nello scambio che il valore economi-
co si trova dotato di una completa oggettività, perché i beni scambiati
sfuggono alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la
relazione esistente tra soggettività differenti. In quanto equivalente ge-
nerale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i be-
ni a un denominatore comune, essa rende allo stesso tempo gli scambi
omogenei, come già constatava Aristotele: «Tutte le cose che vengono
scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è
stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, intermedia-
ria, perché misura tutte le cose». Creando una prospettiva a partire dal-
la quale le cose più differenti possono essere valutate con un numero,
la moneta le rende in qualche modo uguali: essa riporta tutte le qualità
che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è
quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalen-
za astratta di tutte le merci; è l’equivalente generale che riconduce tutte
le qualità a una valutazione quantitativa, dato che il valore commercia-
le è capace solo di operare una differenziazione quantitativa.
Nello stesso tempo, però, lo scambio rende uguale anche la personalità
di coloro che lo esercitano. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e
delle loro domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lun-
go andare, l’interscambiabilità degli uomini, che sono il luogo di questi
desideri. «Il regno del denaro», osserva Jean-Joseph Goux, «è il regno del-
la misura unica, a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane
possono essere valutate […] Appare qui chiaramente una certa configu-
razione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità
monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con
una certa monovalenza teologica». Monoteismo del mercato. «Il denaro»,
scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, per-
ché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci».
Il denaro non è dunque semplicemente denaro, ma molto di più, e
crederlo “neutro” sarebbe l’errore più grande. Come la scienza, la tec-

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~ Il denaro ~

nica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Già ventitré secoli fa, Ari-
stotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». “Insa-
ziabile”, questa è la parola; non ce n’è mai abbastanza e, dato che non
ce n’è mai abbastanza, non può evidentemente mai essercene troppo.
Quello del denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto
perché si nutre di se stesso. La sua quantità, qualunque essa sia, può
infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio vi si
confonde sempre con il più. Non se ne ha mai abbastanza di ciò di cui si
può averne sempre di più. Proprio per questo le antiche religioni euro-
pee ci hanno continuamente messo in guardia contro la passione del
denaro in sé, utilizzando il mito di Gullveig, il mito di Mida, il mito
dell’Anello di Policrate; lo stesso “declino degli dèi” (ragnarökr) è la
conseguenza di una bramosia (l’“oro del Reno”).
«Corriamo il rischio», scriveva alcuni anni fa Michel Winock, «di
vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della
considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati pro-
prio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo.
La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istitu-
zionale, con il pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito
all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il
linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai
il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si
esprimono nel registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia,
non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attra-
verso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora
si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.

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Capitolo 2

Alle origini della crisi finanziaria

Si dice spesso che il capitalismo è sinonimo di crisi, che si nutre delle


crisi che provoca, e anche che la sua “capacità di adattamento” è illi-
mitata, lasciando così intendere che è indistruttibile. In realtà, bisogna
distinguere tra crisi cicliche, congiunturali, e crisi sistemiche, strutturali
(come quelle verificatesi tra il 1870 e il 1893, poi all’epoca della Grande
Depressione del 1929-30, o ancora tra il 1973 e il 1982, quando nei Paesi
occidentali ha cominciato ad apparire una disoccupazione strutturale).
I cicli economici, descritti da economisti come Nicolas Kondratieff
(morto nel 1930) o Joseph Schumpeter (morto nel 1950), sono inscri-
vibili in quello che lo storico Fernand Braudel definiva il tempo della
«lunga durata». I cicli messi in evidenza fin dal 1926 da Kondratieff
hanno una durata oscillante tra i 40 e i 60 anni, che comprende due fa-
si. Nella fase A, ascendente, i profitti sono generati fondamentalmen-
te dalla produzione, mentre nella fase B il capitalismo, per continuare
a far aumentare i profitti, deve “finanziarizzarsi”. I capitali diventano
sempre più titoli di speculazione sull’avvenire, perdendo la loro fun-
zione di investimenti necessari al lavoro.
La fase A, caratterizzata dall’inventiva e dalla diffusione di nume-
rose innovazioni, si accompagna progressivamente a un eccesso di in-
vestimenti, realizzati per fronteggiare la concorrenza, il che provoca un
rincaro dei prezzi e dei tassi di interesse, preludio a un ribaltamento del
ciclo. Nella fase B, discendente, si assiste a un massiccio indebitamen-
to da parte tanto degli Stati quanto dei nuclei familiari. Parallelamente
alla sovraccumulazione del capitale, il rafforzamento del potere finan-
ziario diventa la leva determinante di ogni strategia mirante ad aumen-
tare la redditività del capitale. Nello stadio finale, le “bolle” speculative
esplodono una dopo l’altra, la disoccupazione aumenta, i fallimenti si
moltiplicano ecc. In un clima di distruzione generale del valore (eli-
minazione delle giacenze, chiusura delle imprese e delle filiere meno

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redditizie), l’economia si ritrova in stato di deflazione reale. Il sistema


diventa allora caotico e incontrollabile, e le agitazioni politiche e sociali
contribuiscono ad aggravare ulteriormente la situazione.
Molti economisti pensano che oggi siamo nella fase B di un ciclo ini-
ziato circa 35 anni fa e che la crisi finanziaria mondiale, apertasi negli
Stati Uniti nell’autunno del 2008, sia proprio una crisi strutturale, cor-
rispondente a una rottura della coerenza dinamica dell’insieme del si-
stema. Essendosi prodotta dopo le crisi petrolifere del 1973 e del 1979,
la crisi del debito bancario dei Paesi in via di sviluppo del 1982, la cri-
si del mercato azionario e dei tassi di interesse del 1987, la recessione
americana del 1991, la crisi asiatica del 1997, l’esplosione della bolla dei
valori Internet del 2001, questa crisi, molto più forte delle precedenti, è
incontestabilmente la più grave che si sia vista dagli anni Trenta in poi.
Tanto più che si svolge in un universo ormai mondializzato.
La spiegazione basata sui cicli ha però un valore limitato. Essa la-
scia intendere che le crisi si inscrivono in una sorta di normalità del ca-
pitalismo: se ci sono sempre alti e bassi, è perché questa è la natura del
sistema. Non vi sarebbe, dunque, una vera ragione per preoccuparsi.
Orbene, siamo, in effetti, di fronte a una triplice crisi di natura nuova:
crisi del sistema capitalista, crisi della mondializzazione liberale, crisi
dell’egemonia americana.
La spiegazione addotta il più delle volte per interpretare le origini
della crisi attuale è l’indebitamento delle famiglie americane a causa
dei prestiti ipotecari immobiliari (i famosi subprimes). Ciò non è falso,
ma si dimentica di dire perché si sono indebitate. L’eterno problema
del capitalismo è quello degli sbocchi. In origine, il capitalismo cercava
di vendere sempre di più a persone che tendeva a privare progressi-
vamente dei mezzi per acquistare. Da un lato, esso si compiaceva di
vedere aumentare i suoi utili a scapito dei redditi da lavoro; dall’al-
tro, si rendeva ben conto che, in ultima analisi, bisognava pure che il
consumo progredisse, affinché i suoi profitti potessero continuare ad
aumentare. Ora, ridurre i salari significa anche fare diminuire il consu-
mo. Nella fase fordista, si era capito che non serviva a niente aumen-
tare continuamente la produzione, se le persone non avevano potere

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d’acquisto. Si sono dunque progressivamente aumentati i salari al so-


lo scopo di sostenere il consumo. È da questa fase, la quale ha cono-
sciuto il suo apogeo all’epoca del “Glorioso Trentennio”, che stiamo
ora uscendo. In quello che Frédéric Lordon ha definito «capitalismo
a bassa pressione salariale» si abbandona progressivamente la logica
fordista, fondata sull’idea che occorresse aumentare regolarmente i sa-
lari per alimentare e sostenere il consumo, e si ritorna al capitalismo
iniziale, in cui la ripartizione dei redditi tra il capitale e i salariati era
interpretata come un gioco a somma zero: tutto ciò che veniva guada-
gnato dagli uni veniva perso dagli altri.
Come ritrovare degli sbocchi, quando la proficuità degli investi-
menti tende a calare, ossia quando si assiste a un calo tendenziale del
tasso di profitto? Una prima soluzione è l’allungamento dei tempi la-
vorativi, ma l’aumento dei redditi che ne deriva è molto relativo, tanto
più che il prezzo dell’unità di tempo lavorato non viene evidentemen-
te rivalutato (si deve lavorare di più, ma sempre alla stessa tariffa).
L’obbligo di lavorare di più, di lavorare la domenica, di fare ore sup-
plementari ecc. ha peraltro degli effetti perversi sulla vita quotidiana:
meno svaghi, meno tempo da dedicare alla vita familiare o ai propri
bambini. Una seconda soluzione consiste nel ricorrere a una manodo-
pera a buon mercato, poco qualificata, ma altrettanto poco rivendica-
tiva. Ciò spiega perché il padronato, considerando gli immigrati come
un esercito di riserva del capitale che permette di spingere verso il bas-
so i salari degli autoctoni, abbia sempre favorito l’immigrazione.
La terza soluzione, che è quella cui il capitalismo ha fatto massiccia-
mente ricorso dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto dopo gli
anni Ottanta, è il credito. Tramite il credito, i Paesi occidentali hanno
scelto di privilegiare il consumo come motore della crescita, invece di
fondarla sull’investimento o sull’esportazione. Se la gente si indebita,
disporrà di più mezzi e potrà dunque consumare di più. Il problema, in
questo schema di sostegno al consumo attraverso il credito, è evidente-
mente che si presume che le persone rimborseranno i loro debiti, e che
esse, appunto, non ci riescono più, dal momento che i loro redditi rista-
gnano o diminuiscono. D’altra parte, «si è aperto un prodigioso baratro

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tra le domande di un consumo freneticamente drogato dal credito e le


capacità dell’economia di rispondervi; da qui, il ricorso all’estero con
un cronico deficit commerciale, che provoca un massiccio indebitamen-
to» (Yves-Marie Laulan). Questa è una delle componenti principali del-
la crisi dell’autunno 2008. Negli Stati Uniti, in cui il consumo raggiunge
l’inaudita proporzione del 73% del PNL, mentre il tasso di risparmio è
quasi inesistente, il tasso di indebitamento medio dei nuclei familiari
(il coefficiente del loro indebitamento totale rispetto al loro reddito di-
sponibile) era, nel 2008, del 120%. Nella maggior parte degli altri Pae-
si occidentali, il tasso di indebitamento è ugualmente esploso, e questo
sovraindebitamento va ad aggiungersi al debito pubblico e all’indebita-
mento delle imprese. Da questo, l’esplosiva situazione che conosciamo.
Il salario è oggi schiacciato tra due tipi di costrizioni: da una parte, vi
è la costrizione dell’azionariato; dall’altra, la costrizione concorrenziale.
Uno dei tratti dominanti del “turbo-capitalismo”, corrispondente
alla terza ondata della storia del capitalismo, è il completo dominio
dei mercati finanziari. Questo dominio accresce il potere dei deten-
tori del capitale, e ancora di più degli azionisti, che sono oggi i veri
proprietari delle società quotate in Borsa. Gli azionisti, desiderosi di
ottenere un rendimento sempre più elevato e più rapido dai loro in-
vestimenti, spingono in direzione della compressione dei salari e del-
la delocalizzazione opportunistica della produzione verso quei Paesi
emergenti in cui l’aumento della produttività va di pari passo con dei
costi salariali molto bassi. Parallelamente, le imprese tentano di ottene-
re un tasso di produttività migliore impiegando sempre meno uomini,
il che provoca l’eliminazione di posti di lavoro. Poiché l’aumento del
valore aggiunto giova più ai redditi da capitale che ai redditi da lavo-
ro, la deflazione salariale si traduce nella stagnazione o nella riduzione
del potere d’acquisto e nella diminuzione della domanda solvibile glo-
bale. La concorrenza, dal canto suo, si esprime in termini nuovi, nell’e-
poca della mondializzazione: le delocalizzazioni, che mettono i sala-
riati dei Paesi sviluppati in concorrenza con uomini che all’altro capo
del mondo eseguono lo stesso lavoro a tariffe di dumping assoluto, le
consentono di esercitarsi in condizioni oggettivamente sleali.

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Il risultato finale è che il salario diventa quasi una variabile di aggiu-


stamento macroeconomico e che le eliminazioni dei posti di lavoro si
moltiplicano. L’attuale strategia dei padroni del Capitale è dunque quella
di comprimere sempre di più i salari e di aggravare sempre di più la pre-
carietà del mercato del lavoro, producendo così una relativa pauperizza-
zione delle classi popolari e delle classi medie che, nella speranza di con-
servare il loro livello di vita, hanno come unica risorsa l’indebitamento,
anche quando la loro solvibilità reale continua a diminuire.
La possibilità offerta alle famiglie di ottenere dei prestiti, per copri-
re le spese correnti o acquistare un alloggio, è stata la maggiore inno-
vazione finanziaria del capitalismo del dopoguerra. Le economie sono
state allora stimolate da una domanda artificialmente fondata sulle
agevolazioni del credito. Oltre Atlantico, questa tendenza è stata in-
coraggiata, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, con la con-
cessione di condizioni di credito sempre più favorevoli, senza tenere
in alcuna considerazione la solvibilità dei debitori. Si è così cercato di
compensare il calo della domanda solvibile derivante dalla compressio-
ne dei salari mediante l’imballamento della macchina creditizia. In altri
termini, si è stimolato il consumo attraverso il credito, non potendo sti-
molarlo con l’aumento del potere d’acquisto. Per i detentori di portafo-
gli finanziari, questo era l’unico modo per trovare nuovi giacimenti di
redditività, anche a costo di rischi sconsiderati.
Da qui l’esorbitante sovraindebitamento delle famiglie americane
che hanno scelto da molto tempo di consumare piuttosto che di rispar-
miare (le famiglie americane sono oggi due volte più indebitate delle
famiglie francesi, tre volte più indebitate delle famiglie italiane); dopo-
diché, si è speculato su questi “crediti malsani” tramite la “titolarizza-
zione”, che ha permesso ai grandi attori della sfera del credito di scari-
carsi, rendendoli liquidi, dei rischi di insolvibilità dei loro debitori. La
“titolarizzazione”, che è un’altra delle maggiori innovazioni finanziarie
del capitalismo del dopoguerra, consiste nel tagliare a fette, dette “ob-
bligazioni”, i prestiti accordati da una banca o da una società di crediti,
e nel rivendere poi l’ammontare, ossia il rischio, ad altri agenti finan-
ziari appartenenti al mondo dei fondi di investimento. Si crea così un

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vasto mercato del credito, che è anche un mercato del rischio. Il crol-
lo di questo mercato ha provocato la crisi del 2008. L’imballamento dei
meccanismi del credito, che hanno tecnicamente scatenato la crisi negli
Stati Uniti, è dunque la conseguenza del tentativo del capitale di man-
tenere la capacità di consumo del maggior numero di persone, mentre
i salari e i redditi da lavoro erano messi sempre più sotto pressione. La
crisi attuale si è aperta quando il credito è evaporato. La megaloma-
nia e l’inaudita cupidigia degli alti dirigenti delle grandi società e delle
grandi banche commerciali o d’affari hanno fatto il resto.
Assistiamo però anche a una crisi della mondializzazione liberale.
La brutale trasmissione della crisi ipotecaria americana ai mercati del
mondo intero è il frutto diretto di una mondializzazione concepita e
realizzata dagli apprendisti stregoni della finanza. Al di là della sua
causa immediata, essa costituisce l’esito di quarant’anni di deregola-
mentazione voluta da un modello economico globalizzato secondo le
ricette liberali. È stata infatti l’ideologia della deregolamentazione a ren-
dere possibile il sovraindebitamento americano, così come era già stata
all’origine delle crisi messicana (1995), asiatica (1997), russa (1998), ar-
gentina (2001), eccetera. La globalizzazione, mentre rendeva possibile
ogni sorta di delocalizzazione, ha rafforzato l’organizzazione concen-
trica dei mercati finanziari intorno al polo americano. Essa permette
ugualmente ai capitali di circolare senza controllo da un capo all’altro
del Pianeta e conferisce così ai mercati finanziari, anch’essi mondia-
lizzati e completamente deterritorializzati, una posizione dominante,
il che rafforza la finanziarizzazione del capitale rispetto all’economia
reale: non essendo più la moneta emessa in proporzione alla ricchez-
za creata (la somma dei beni e dei servizi prodotti), immense masse fi-
nanziarie virtuali girano a una velocità crescente intorno al globo alla
ricerca di un investimento redditizio o di un’incarnazione durevole. La
globalizzazione, infine, ha creato una situazione nella quale le maggiori
crisi che si producono nell’uno o nell’altro punto della Terra si propaga-
no ormai quasi istantaneamente, in modo “virale”, come avrebbe detto
il sociologo Jean Baudrillard, a tutto l’insieme del Pianeta. Per questo
la crisi americana ha toccato così presto i mercati finanziari europei, a

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cominciare dai mercati del credito, con tutte le conseguenze che poteva
avere una simile onda d’urto in un momento in cui sia l’economia ame-
ricana che quella dell’Europa erano sull’orlo della recessione.
Non si deve dimenticare, infine, che questa crisi mondiale ha origine
negli Stati Uniti, ossia in un Paese che deve già fronteggiare un deficit
di bilancio abissale, un debito estero che continua a crescere e un deficit
commerciale colossale. Da dieci anni, il motore dell’economia americana
non è più la crescita dovuta alla produzione reale, ma l’espansione del de-
bito e della rendita monetaria derivante dal domino mondiale del dollaro.
Il fatto che il dollaro sia al contempo una moneta nazionale e un’u-
nità di conto internazionale, per giunta liberata da ogni legame con
l’oro fin dal 1971, ha a lungo permesso agli Stati Uniti di affermare e
fare pesare la loro egemonia, pur continuando a registrare dei deficit
colossali. Il procedimento è consistito, per gli americani, nell’esporta-
re sistematicamente i loro titoli di debito verso Paesi eccedentari. In
futuro, l’inquietudine dei grandi fondi pubblici e privati che, partico-
larmente in Asia, detengono considerevoli quantità di titoli pubblici e
parapubblici americani (buoni del Tesoro e altri), e dunque altrettanti
crediti sugli Stati Uniti, sarà determinante. Attualmente, il 70% di tut-
te le riserve estere nel mondo è costituito da dollari, ma questa mas-
sa non ha più da molto tempo il minimo rapporto con il volume reale
dell’economia americana. Nei prossimi anni, non è impossibile che i
Paesi esportatori di petrolio abbandonino a poco a poco il dollaro (i
famosi “petrodollari”) per l’euro. A lungo termine, questa situazione
potrebbe portare paesi come la Cina e la Russia a sollecitare respon-
sabilità finanziarie internazionali, se non addirittura a mettersi d’ac-
cordo per concepire un progetto alternativo rispetto all’attuale ordine
finanziario internazionale. George Soros, nella primavera del 2008, lo
diceva chiaramente: «Il mondo corre verso la fine dell’era del dollaro».
Ora si assicura che basterebbe “regolare” o “moralizzare” il sistema
per evitare questo genere di crisi. Gli uomini politici parlano volentieri
di «deriva della finanza», mentre altri stigmatizzano «l’irresponsabilità»
dei banchieri, lasciando così intendere che la crisi sia dovuta solo a una
regolamentazione insufficiente e che un ritorno a pratiche più “traspa-

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renti” permetterebbe di fare tornare sulla scena un capitalismo meno


avido. Questo è un duplice errore: innanzitutto, perché è stata proprio
l’impotenza dei politici a fronteggiare la crisi di efficacia del capitale ad
aprire la strada alla liberalizzazione totale del sistema finanziario; poi,
e soprattutto, perché significa ignorare che la natura stessa del capita-
lismo ne fa un sistema estraneo a ogni considerazione “morale”. «Il ca-
pitale avverte ogni limite come un ostacolo», diceva già Karl Marx. La
logica dell’accumulo di capitale è l’illimitatezza, il rifiuto di ogni limite,
l’imposizione del mondo attraverso la ragione mercantile, la trasforma-
zione di tutti i valori in merci, il Gestell di cui parlava Heidegger.
Nelle fasi di sovraccumulazione del capitale, il rafforzamento del
potere finanziario diventa la leva determinante di ogni strategia ten-
dente ad aumentare la redditività; però, al di là della sola finanza, è
in effetti la regolazione dell’intera economia attraverso l’unico criterio
del tasso di profitto, senza considerare i fattori umani, i posti di lavoro
distrutti, le vite stritolate, l’esaurimento delle risorse naturali e i costi
non commerciali (le “esternalità negative”), a essere messa in discus-
sione dalla crisi finanziaria. La causa finale di questa crisi è la ricerca
del profitto finanziario più elevato possibile nel minor tempo possibi-
le; cioè, detto chiaramente, la ricerca dell’aumento massimale del valo-
re dei capitali impiegati, escludendo ogni altra considerazione.
Che cosa accadrà, ora? Come si sa, da quando gli Stati hanno rifi-
nanziato le banche per impedirne il crollo, il problema del debito priva-
to è sfociato nel problema del debito pubblico. Per un “effetto domino”,
la crisi può provocare, in prospettiva, dei mancati pagamenti a catena
di tutti gli agenti economici, e dunque un crollo dell’intero sistema fi-
nanziario mondiale? Non siamo ancora a questo punto, ma, nel miglio-
re dei casi, la crisi economica durerà a lungo, con una recessione gene-
ralizzata che provocherà un aumento della disoccupazione. Dovrebbe
derivarne un importante calo dei profitti, che si ripercuoterà inevitabil-
mente sui mercati e i corsi della Borsa. Contrariamente a ciò che alcuni
affermano, il destino dell’economia speculativa condiziona direttamen-
te quello dell’economia reale. Le imprese dipendono infatti dal sistema
bancario, anche solo per il credito di cui hanno bisogno per i loro inve-

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stimenti. Ora, la crisi fa sì che le banche, rese fragili dall’accumulo di


cattivi debiti, riducano oggi seccamente i loro crediti (credit-crunch).
In effetti, o si “risana” il sistema per permettergli di ripartire come
prima, nel qual caso la costrizione dell’azionariato e la costrizione del-
la concorrenza continueranno a spingere nel senso di una riduzione
dei salari e si assisterà appena possibile a un nuovo sovraindebitamen-
to generalizzato, che sfocerà in una nuova crisi di proporzioni ancora
più forti, oppure si mette sotto controllo il debito delle famiglie; in tal
caso, però, il consumo calerà e la crescita rallenterà, e ciò rappresenta
per il Capitale una prospettiva inaccettabile. In passato le guerre han-
no permesso di uscire da questo genere di situazione (nel caso della
seconda guerra mondiale, non fu il New Deal, come spesso si crede, a
tirare fuori gli Stati Uniti dalla depressione e dalla disoccupazione di
massa, bensì la guerra, che trasformò questo Paese in officina militare
delle potenze alleate). È in questa direzione che si orienterà l’America,
per non perdere la supremazia mondiale?
Gli Stati Uniti, che vivono a credito da molto tempo, avevano già
accumulato nel 2008 un debito pubblico eccedente gli 11.000 miliar-
di di dollari, corrispondenti a circa 36.000 dollari per abitante, cui si
aggiungevano 50.000 miliardi di debiti privati (nuclei familiari e im-
prese). In totale, ogni cittadino americano era indebitato per più di
200.000 dollari! Questo gonfiamento del debito provoca un correlati-
vo aumento della massa monetaria, sebbene il Paese che emette que-
sta moneta sia in recessione, produca meno ricchezze e si indebiti ogni
giorno di più. Quanto alla disoccupazione, il suo tasso reale ha già
superato il 10% e già si sa che, malgrado le riforme avviate dal pre-
sidente Obama, il numero di abitanti privi di ogni protezione sociale
raggiungerà presto i 100 milioni, ossia un cittadino americano su tre.
In questo Paese, in cui la ripresa esigerebbe al contempo un calo del
consumo, un aumento del risparmio privato e una riduzione dei defi-
cit, il sistema bancario è in realtà divenuto fin d’ora quasi insolvibile.
Spesso si paragona questa crisi a quella del 1929. In realtà è più gra-
ve, e per almeno tre ragioni. Da un lato, si tratta della prima vera crisi
finanziaria mondiale (quella del 1929, spesso presentata come tale, era

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~

in effetti limitata agli Stati Uniti e all’Europa), la cui ampiezza riflette la


realtà stessa della globalizzazione realizzata dopo il crollo del sistema
sovietico. Dall’altro, le nostre società dipendono dalla sfera finanziaria
molto più di una volta, nella misura in cui il credito al consumo è stato, a
partire dagli anni Ottanta, la chiave della crescita del prodotto nazionale
lordo (PNL). Infine, gli Stati Uniti, che nel 1929 erano ancora una poten-
za in ascesa, oggi, essendo l’epicentro della crisi, sono in declino.
In passato, il crollo del sistema sovietico è avvenuto in seguito a
una crisi sistemica. Può accadere la stessa cosa con il sistema capita-
lista? Alcuni lo pensano; ad esempio, l’economista Immanuel Waller-
stein, per il quale «siamo entrati, dopo gli anni Trenta, nella fase ter-
minale del sistema capitalista», perché il capitalismo non riesce più a
«fare sistema», ossia a ritrovare l’equilibrio dopo avere deviato troppo
dalla sua situazione di stabilità. Wallerstein arriva persino a evocare
un periodo di transizione paragonabile a quello che ha visto l’umani-
tà europea passare dal sistema feudale al sistema capitalista. Senza se-
guirlo fino a questo punto, ciò che si può dire è che il sistema di Bret-
ton Woods (1944) conosce attualmente la sua fase terminale.
Ora, malgrado i proclami del G20, i dirigenti mondiali persistono
a comportarsi come se il sistema finanziario mondiale fosse vittima
soltanto di una crisi di crescita, di un’avaria passeggera, cui si potreb-
be rimediare con la realizzazione di una «governance finanziaria mon-
diale» che si traduca in alcune misure di “regolazione”, nell’iniezione
massiccia di nuove liquidità, nella concessione di nuovi mezzi al Fon-
do monetario internazionale (FMI), in un calo dei tassi di interesse,
in piani di riacquisto degli “attivi bancari tossici” e dei “prodotti spe-
culativi marci” (che non fanno altro che respingere in direzione dello
Stato, e del debito pubblico, il costo dell’uscita dalla crisi), in piani di
rilancio delle industrie minacciate di fallimento, in una superficiale
messa in discussione dei “paradisi fiscali”, ecc. Il modo in cui i diri-
genti hanno unanimemente condannato il protezionismo e afferma-
to che la mondializzazione doveva proseguire a ogni costo, dimostra
che essi non hanno alcuna consapevolezza del carattere sistemico e
storico di questa crisi, che segna anche il fallimento del progetto del

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“nuovo ordine mondiale” formulato negli anni Novanta. Queste mi-


sure sono inoltre destinate all’insuccesso, perché i Paesi che incorrono
in un importante deficit corrente, per rispettare i loro impegni in ma-
teria di debito, dovranno liberare un giorno o l’altro gli eccedenti che
sono oggi incapaci di ottenere, suscitando una contrazione della do-
manda interna equivalente a una recessione profonda e durevole, so-
prattutto quando le loro capacità di esportazione si riducono a causa
dell’indebolimento della loro competitività. In realtà, ci sono fonda-
te ragioni per pensare che le centinaia di miliardi di dollari o di euro
create ex nihilo dalle banche centrali genereranno solo nuove “bolle”,
ancora più mostruosamente nocive delle precedenti. È allora molto
grande il rischio che si creino le condizioni non per una nuova cresci-
ta, ma per un’iperinflazione, che verrà ritenuta in grado di cancella-
re il debito, ma che, in un clima di depressione generalizzata, sfocerà
in effetti nella dichiarazione di insolvibilità di numerosi Stati, nell’e-
splosione mondiale della disoccupazione, nel possibile crollo brutale
dell’insieme dei sistemi pensionistici per capitalizzazione (i celebri
“fondi pensione”) e soprattutto – quando gli Stati Uniti saranno ob-
bligati a monetizzare i loro colossali debiti, perché l’estero non vorrà
più finanziarli come ha fatto finora – nel crollo definitivo del dollaro.
In definitiva, quella che oggi conosciamo è una crisi non soltanto fi-
nanziaria e bancaria, e nemmeno semplicemente economica, ma anche si-
stemica del regime di accumulazione, tipico dell’attuale fase del capitali-
smo, che segna ugualmente il punto culminante di quella che si potrebbe
definire da un punto di vista filosofico-storico la “dialettica dell’avere”.

*****

Da questa crisi finanziaria mondiale, che è visibilmente lungi


dall’essere al termine, è possibile trarre almeno tre insegnamenti. Il
primo, e immediatamente evidente, è una flagrante smentita della tesi
liberale ampiamente esposta da Mandeville nella sua Favola delle api,
secondo la quale i «vizi privati» sarebbero sinonimi di virtù pubbli-
ca: i comportamenti egoistici individuali contribuirebbero al benes-

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sere collettivo perché, cercando di massimizzare il proprio interesse,


gli agenti economici libererebbero una ricchezza globale, di cui fini-
rebbe per beneficiare l’intera società. Gli interessi dei “commercianti”
si confonderebbero con la felicità di tutti. Ora, la deregolamentazio-
ne dell’economia, a partire dagli anni Reagan-Thatcher, dimostra, al
contrario, che la rapacità trasformata in legge generale porta, in real-
tà, all’arricchimento di pochi e all’impoverimento della maggioranza.
Economia interamente lasciata a se stessa, speculazione sfrenata, ri-
cerca di un plusvalore istantaneo, frenesia dell’indebitamento, “bolle”
che esplodono in serie, rivendita accelerata dei prodotti titolarizzati;
tutto questo ha portato un unico risultato: una «catastrofe sociale e
umana di prima grandezza» (Jacques Julliard).
La seconda lezione si riferisce alla “mano invisibile”, che secon-
do i teorici liberali permetterebbe non solo all’offerta e alla domanda
(solvibile) di aggiustarsi miracolosamente, ma anche al capitalismo di
trionfare naturalmente sulle sue crisi, dato che il sistema di mercato è
al contempo autoregolatore e autoregolato. Recentemente, si è giunti
persino a sostenere che «la crisi è la prova che il mercato si regola»! Il
postulato è quello di una concezione normativa della vita sociale basa-
ta sul lasciar fare integrale e sull’autosufficienza di un mercato conce-
pito come una potenza morale che ha sempre ragione, ma, in fatto di
autoregolazione e di “mano invisibile”, è alla visibile mano dello Sta-
to che le grandi società di assicurazione e le banche minacciate di fal-
limento si sono rivolte non appena è scoppiata la crisi. Quello stesso
Stato, di cui si diceva che gli interventi in materia economica e finan-
ziaria non potevano che nuocere al “libero gioco” della concorrenza,
ma delle cui elargizioni si era inopinatamente molto contenti di potere
approfittare. È lo Stato che è venuto in soccorso dei responsabili della
crisi iniettando liquidità per miliardi in circuiti in pericolo («Salvate le
banche!») di cui si “socializzavano” così le perdite. Dopodiché, si può
anche continuare a sostenere che il capitalismo risolve da solo le sue
crisi periodiche o, addirittura, che il liberalismo «non è la causa, ma la
soluzione alla crisi del capitalismo mondializzato» (Nicolas Baverez).
La crisi, in realtà, dimostra che il pianeta finanziario non è in grado di

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autoregolarsi e che la sua capacità di rimbalzo è dovuta innanzitutto


a massicce iniezioni di fondi pubblici, ossia all’intervento puntuale di
una sfera statale, di cui i liberali sono i primi a sottolineare il fatto che
funziona all’inverso rispetto all’azione spontanea dei mercati.
Infine, la cosa sorprendente nella crisi attuale è che, sebbene tut-
ti ripetano che il capitalismo viene ciclicamente colpito da crisi, nes-
suno (o quasi) sembra mai essere capace di prevederne una. Eppure
l’economia pretende di essere una scienza, e per di più una scienza
i cui principi permetterebbero di eliminare il rischio e di assicurare
una crescita lineare permanente. Una scienza esatta «misura e cal-
cola, per prevedere» (Bergson). Perché gli economisti della corrente
dominante non riescono mai né a prevedere le crisi, né a indicare i
mezzi per porvi rimedio? Perché la tesi di un soggetto sociale ridu-
cibile all’Homo œconomicus lascia perlomeno a desiderare. La realtà
sociale non si fa rinchiudere in un’equazione, perché l’uomo non è
né un agente fondamentalmente razionale che cerca sempre di mas-
simizzare il suo interesse, né soltanto un produttore-consumatore.
Di conseguenza, è impossibile isolare un “oggetto economico puro”,
distinto dai fatti umani e sociali ai quali è ineluttabilmente associa-
to. L’economia liberale, neoclassica, afferma che l’uomo è interamente
calcolabile. La crisi attuale fornisce la prova del fallimento di questa
pretesa alla “trasparenza”. La storia, in realtà, è imprevedibile. In essa
abbondano tanto le necessità quanto i casi, i paradossi, le incertezze,
le eterotelie e le alee. Il mondo dell’interconnessione universale, della
liquidità perfetta, che permette una circolazione totalmente “libera”
del capitale, non è altro che un sogno. Non si sfugge alla “opacità”,
a cominciare da quella dei mercati finanziari. La crescente matema-
tizzazione della teoria economica, cui assistiamo da vent’anni, soprat-
tutto nell’ambito del calcolo dei rischi, fornisce, a questo riguardo,
solo un’apparenza di scientificità. La formalizzazione matematica fa
guadagnare in eleganza all’economia ciò che le fa perdere in realismo.
Essa induce soprattutto a trascurare tutti i fattori impossibili da quan-
tificare, a cominciare proprio dalla nozione di rischio, che dipende in-
nanzitutto dal senso che si dà agli avvenimenti.

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~

Le cause immediate della crisi – la pressione concorrenziale mon-


diale nata dalla globalizzazione, che ha generalizzato il modello di un
capitalismo basato sulla deflazione salariale; la ripartizione dal valore
aggiunto, a scapito dei salariati; il calo della domanda e la sua stimo-
lazione artificiale attraverso il credito; l’ascesa dei mercati finanziari
e l’aumento dell’esigenza di redditività del capitale – non debbono
creare illusioni. La crisi attuale non è un incidente di percorso. Non è
una crisi tra le altre già sopravvenute nella storia del capitalismo, ma
una crisi sistemica del regime di accumulazione e di sovraccumula-
zione, ossia del capitalismo stesso, di un capitalismo che domina non
più soltanto formalmente, ma realmente la società globale. Da questo
punto di vista, non serve a niente denunciare gli eccessi, le “derive”
o le disfunzioni di un sistema, che è esso stesso intrinsecamente un
eccesso. La Forma-Capitale è destinata alla perpetua accelerazione del
proprio movimento, ossia all’aggravamento degli squilibri. L’eterno
problema del capitalismo è quello di trovare sempre più cose da ven-
dere a uomini che hanno sempre meno mezzi per acquistare. Antica
maledizione della crematistica, ossia del denaro (ta cremata).
L’idea fondamentale da conservare è che il capitalismo lasciato a se
stesso non può che auto-distruggersi, non può che essere minato dalle
proprie contraddizioni interne, derivanti dal suo principio di illimitatez-
za mediante accumulazione, e dunque dalla propria dinamica: il movi-
mento del capitale raggiunge il suo limite quando non riesce più a fare
sistema, ossia quando il fare del suo mondo non riesce più a riprodurre il
mondo del suo fare. È una magra consolazione per coloro che preferisco-
no credere che sarebbe meglio trionfarne combattendolo frontalmente?
Forse. È un fatto, però, che tutto ciò che esiste muore di ciò che l’ha fatto
nascere. Lo stesso avviene per tutti i sistemi che generano l’alienazione:
quello che in un dato momento li fa vivere, e permette loro di perpe-
tuarsi, crea anche le condizioni per la loro scomparsa. L’articolo di fede
oggi dominante è che il capitalismo è destinato alla vita eterna. Anche se
non si può giudicare sulla base delle impazienze individuali, la verità è
che la “demonìa dell’avere”, l’economia politica del solo profitto, anche
se cerca di eternare il suo percorso, alla fine non sfuggirà al suo destino.

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Indice

Nota dell’editore: Il fallimento del sistema denaro: una opportunità?.................... 5


Prefazione: Il futuro è arrivato e il modello economico è giunto al capolinea..... 10
Introduzione..............................................................................................................12
Capitolo 1: Il denaro ................................................................................................ 21
Capitolo 2: Alle origini della crisi finanziaria .......................................................... 24
Capitolo 3: Il dollaro al centro della crisi ................................................................38
Capitolo 4: Libero scambio e protezionismo ......................................................... 47
Capitolo 5: Morte a credito .....................................................................................64
Capitolo 6: Debito pubblico: come gli Stati sono diventati
prigionieri delle banche ............................................................................................67
Capitolo 7: Bisogna fare dell’euro una moneta comune ......................................84
Capitolo 8: Classi medie e classi popolari: una politica della miseria ......................90
Capitolo 9: L’immigrazione, esercito di riserva del capitale............................... 115
Capitolo 10: Instaurare un reddito di cittadinanza? .......................................... 122
Postfazione: Di fronte alla Forma-Capitale ........................................................ 143
Note.........................................................................................................................173

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