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Massimo Sabbieti

LA DISCONTINUA LINEARITÀ DEL PROGRESSO QUALE


COSTANTE DELLA CRITICA STORICA

1. L’interpretazione del passato fra storiografia, storicismo e ideologia


Tra le discipline umanistiche quella storiografica è forse la piú difficil-
mente definibile, poiché il tentativo di scoprire gli eventi del passato, for-
mulandone un resoconto intelligibile, implica non soltanto la complessità
stessa insita nell’oggetto storia che si intende esaminare e descrivere, ma
anche l’innegabile diversità prospettica ed interpretativa che caratterizza il
lavoro dello storico. La disamina - sia pur rapida - sull’argomento che si
cercherà qui di proporre richiede una preliminare definizione ‘operazio-
nale’ dei termini di riferimento, in particolare riguardo a categorie spesso
travisate e ricollegate impropriamente all’oggettivo fenomeno storico. La
stessa definizione di ‘storia’ pone infatti una problematicità di non poco
rilievo. Ogni storia è in definitiva il racconto di una particolare dimensio-
ne dell’esperienza passata, e costituisce solo una delle possibili versioni
dei fatti accaduti, che risultano sempre ed inevitabilmente filtrati attraver-
so l’animo e la mente di coloro che li narrano.
Le stesse fonti che permettono allo storico di effettuare la propria inda-
gine possono essere classificate in dirette, se messe in relazione a persone
che hanno vissuto la vicenda storica in questione, o altresì indirette. In que-
sta seconda tipologia rientrano poi non solo le testimonianze di tutti gli
individui ai quali l’evento è stato raccontato, ma soprattutto i documenti
scritti o i reperti archeologici rinvenuti, che rappresentano in effetti l’uni-
ca possibilità di osservazione ed analisi per civiltà che non hanno lasciato
testimonianze piú ‘tangibili’ della loro esperienza. Pertanto, appare piutto-
sto remota la possibilità che il rapporto tra la fonte e il fatto si presenti
semplice ed immediato. La fonte può in effetti rivelarsi distorta o falsa,
frammentaria, incomprensibile o inesatta e di conseguenza diviene un’im-
presa ardua valutare le fonti a cui attingere con un autentico spirito critico.
A tale proposito ha acquisito una peculiare connotazione il concetto di

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storiografia, ovvero la narrazione storica intesa per un verso come proces-


so essenzialmente scientifico, di astrazione e generalizzazione, e per altro
verso riconosciuta come inevitabilmente condizionata da fattori soggetti-
vi, o comunque relativi ad un particolare contesto storico, geografico,
antropico, economico e culturale. Per esemplificare, una disciplina che
punta ad esprimere una propria individualità storico-temporale. Da qui,
sostanzialmente, deriva la difficoltà di raggiungere concretamente una
prospettiva di generalità e di astrazione scientifica, appunto condizionata
pesantemente da particolari dati descrittivi e modelli interpretativi.
A tal proposito la storiografia si configura come la registrazione scritta
di fatti e avvenimenti della vita degli individui e delle società del passato,
quale però risulta dall’interpretazione fornita dai testimoni oculari di que-
gli accadimenti. È quindi evidente come, in tale contesto, il potere discre-
zionale che viene a detenere lo studioso della storia rischi concretamente
di far sconfinare la categoria della storiografia in quella, piú pericolosa,
dell’ideologia. Tale termine costituisce un’ulteriore input, una pressante
sollecitazione verso la complessità dell’argomento ‘storia’, poiché con-
cerne numerosi strumenti di per sé capaci di modificare profondamente la
percezione della realtà.
L’ideologia si propone in definitiva di rendere coerente un insieme di
fenomeni altrimenti privi di senso. Intesa ed esaminata in questo processo
di interpretazione-riduzione, l’ideologia presenta sicuramente aspetti
anche positivi, dal momento che fornisce agli individui ed ai gruppi socia-
li una spiegazione globale della loro esistenza, una sorta di ‘auto-rappre-
sentazione’ che li informa della posizione occupata e della necessaria
diversificazione dei ruoli da rivestire nella società.
Se sotto questo profilo l’ideologia rappresenta un elemento dinamico
per la storia, è però altrettanto vero che in tale riduzione si celano insidie,
fraintendimenti e deviazioni. Non a caso, nell’accezione corrente, la paro-
la “ideologia” incarna una connotazione fortemente negativa, sinonimo di
falsità o di alterazione della realtà fattuale. Ma, a ben vedere, era stato
appunto un contrasto ideologico a generare il rinnovato interesse per la
storia, quale risulta a partire già dal secolo XVI (con Commines e
Guicciardini), ma soprattutto nel secolo seguente, nel Seicento, in coinci-

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denza con l’incipiente impostazione scientifica del sapere (con Galileo,


Cartesio, Leibniz).
Al riguardo, è da evidenziare come proprio nel XVII secolo l’esigenza
di una storiografia che non fosse piú - come nel medioevo - una citazione
erudita degli storici classici, a fini meramente moralistici, subì una meta-
morfosi in ‘storia sacra’, in una ‘storia ideale eterna’. Un esempio illumi-
nante di ciò viene da Bossuet (storiografo di corte di Luigi XIV), convin-
to assertore della storia come manifestazione della volontà e della giusti-
zia divina (come la storia come teodicea). Ma è nel secolo seguente, nel
Settecento, che il rinnovato interesse per la storia si tradurrà in un atteg-
giamento meno fideistico e piú criticamente legato alla realtà effettuale.

2. Il problema della continuità o delle cesure fra le epoche. La storia


come manifestazione di una legge di natura ciclicamente riscoperta e riat-
tuata o come definitiva cesura dal passato?
Il problema che ha diviso e che tuttora anima le convinzioni di molti
intellettuali e filosofi è in sostanza rappresentato dal modo stesso in cui l’i-
dea di continuità, una volta ammessa e riconosciuta la sua esistenza nel
corso della storia, si manifesterebbe. Secondo alcuni, la tematica della
continuità va posta ed analizzata in un’ottica di evoluzionismo - e in que-
sto caso si tratta di stabilire se si tratti di una continuità di tipo lineare (in
sostanza, la posizione di Leibniz) o viceversa di tipo discontinuo (come
nel caso di Vico). Si sono affermate poi le concezioni ‘cicliche’ di questa
continuità e, per converso, quelle che l’hanno intesa in senso progressua-
le. Per le prime, in genere si disconosce la presenza di qualsiasi migliora-
mento registrato nel corso dei secoli per opera del genere umano.
Tale prospettiva è in sostanza una matrice comune al pensiero antico, in
cui prevale l’idea della storia come decadenza da una perfezione origina-
ria (la cosiddetta “età dell’oro”) o come ripetersi ciclico di vicende cosmi-
che. Per le seconde, ovvero le concezioni della storia a piú stadi, si deli-
neano appunto le interpretazioni in senso lineare oppure discontinuo. Su
quest’ultima fattispecie insiste particolarmente Gian Battista Vico, produ-
cendo la formulazione piú innovativa del Settecento europeo. Nel grande

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filosofo napoletano matura l’idea di una successione complessivamente


senza soluzione di continuità nello sviluppo storico, in cui – malgrado
cesure, momentanei e settoriali arresti e retrogradazioni - rimane essen-
zialmente ininterrotto un filo significativo di idee, di valori, di creazioni
istituzionali.
Un’ipotesi che si mostra sicuramente affascinante, dal momento che non
disconosce la radicale frattura che si era verificata tra la cultura antica e
l’epoca medievale, ma riconosceva al contempo le analogie e la continui-
tà che sussistevano tra questi due ciclici di civiltà. La “cesura” storica si
rivelava a Vico per una sorta di sua ‘interfaccia’, per una precisa specula-
rità fra il ciclo discendente delle due epoche e quello ascendente, fra i due
cicli di nascite-sviluppo-morte ed i due di ‘rinascite’ e ‘ricominciamenti’.
Non linearità del progresso, qui, dunque, ma fasi evolutive alternate a
momenti di cesura, di involuzione, in nome di un processo mai definitivo
ed irreversibile. Piuttosto, la continuità fra le epoche si manifestava per
Vico come un passaggio tutto da individuare nei suoi tratti effettivi, ossia
come diretta espressione della mentalità, dei costumi, degli usi e delle
costituzioni create e tramandate da uomini ‘eroici’, modello di comporta-
mento per ogni fase ulteriore al momento della loro fondazione di un supe-
riore ordine umano.
Una continuità che era stata certamente anche sinonimo di progresso,
ma non ad infinitum e continuo, poiché aveva subìto fatalmente battute
d’arresto, a causa della degenerazione di quelle società nate dal tempo
degli ‘eroi’. Quegli stessi intrepidi di cui poi gli ‘uomini’ avevano colti-
vato a lungo l’eredità, ma smarrendone progressivamente la sostanza,
esaurendone i residui ultimi in una razionalità non piú illuminata da quel-
l’originaria sapienza creativa. Il progresso, effettivamente registrato, si era
interrotto negli errori e nelle peregrinazioni senza mèta di una ragione
senza piú riferimento ad un piú alto paradigma, in una ragione non piú
‘eroica’. Viceversa, ormai tutta ripiegata nel proprio particolare, nell’erro-
re di individui che si reputavano del tutto autonomi, senza vincolo con i
princìpi che avevano costituito l’ordine antico, dunque nella “malizia della
ragione riflessa” in se stessa.
Riesaminando, in maniera moderna, nei complessi referenti culturali la

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sequenza delle varie epoche storiche, delle diversità dei popoli e delle cul-
ture, Vico – non diversamente da Montesquieu nell’Esprit des lois – scor-
ge l’insopprimibile ed incontestabile eterogeneità che caratterizza la for-
mazione dei costumi e di istituzioni politiche sociali nei vari popoli e nelle
diverse epoche di incivilimento. Tali elementi inducono il Napoletano a
riconoscere nel senso della complessità la strada del progresso umano, che
si dipana attraverso varie forme di governo, differenti stadi e momenti che
decretano nella storia l’affermazione di una crescita spirituale, culturale,
politica e sociale. Tuttavia, proprio perché ogni ipotesi di ‘spontaneità’ del
progresso e della sua irreversibilità si rivelano come mere utopie, per Vico
anche l’idea di una perfezione ultima, di un compimento della storia, non
trovano corrispondenza puntuale nella natura umana. Anche quando sem-
bra che il cammino dell’umanità giunga a questa perfezione, in effetti si
palesano le incrinature, gli elementi di dissoluzione, che svelano come
ogni comunità umana sia soggetta sempre alle ferree leggi di una ciclica
ascesa-decadenza.
Qualcuno, è vero, ha creduto che ogni retrocessione ad uno stadio pre-
cedente potesse essere, a sua volta, necessariamente l’origine di un nuovo
ciclo. Si potrebbe qui connotare addirittura una precisa tradizione cultura-
le, se non proprio storiografica o storicistica, in questo che è stato il con-
vincimento che volta a volta ha animato le elucubrazioni se non di
Aristotele (troppo legato alla realtà fisica, per pensare davvero anche a
questo aspetto della ‘meta-fisica’), certo di Platone, con la sua idea di un
ciclo eterno di incarnazioni e reincarnazioni sia di anime che di personifi-
cazioni del suo modello ideale. Da qui in avanti, da Polibio, fino a
Machiavelli e Vico, siffatta idea di un eterno ritorno dell’identico si è con
puntualità ripresentata piú volte nella storia filosofica. Sintomo di una
necessità che va al di là della razionalità e dell’evidenza storica, ma anche
segnale di inquietanti fraintendimenti e riproposizioni di un’ideale lineari-
tà della storia.
Quasi contemporaneamente al Vico si affermavano comunque, nell’am-
bito dello stesso illuminismo francese cui apparteneva Montesquieu, alcu-
ne teorie ‘razionalistico-naturalistiche’, tipicamente materialistiche e dei-
stiche. Di rilievo a tal proposito era la teoria di Voltaire, per cui il passato

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aveva una sua rilevanza solo in quanto tappa necessaria per un definitivo
perfezionamento dell’uomo, connesso all’avvento di una piena e comple-
ta razionalità. Qui emerge il convincimento – erroneo - che un tale pro-
cesso verso la razionalità non dovesse niente, se non in negativo (quale
forza di arresto al progresso stesso), al passato medievale. Del resto, è pro-
prio questa l’accusa che gli muoveranno sia David Hume sia, soprattutto,
Edmund Burke, e certo in una prospettiva diversa da quella dell’illumini-
sta francese, che se da un lato denunciava l’autoritarismo morale della
Chiesa, dall’altro appoggiava il dispotismo dei suoi sovrani assolutisti,
verosimilmente dispotici, ma comunque ‘recuperabili’ se ‘illuminati’ dalla
sua filosofia.

3. La nozione del progresso unilineare ed irreversibile


Il tema del progresso introduce in modo quasi automatico un ulteriore
ordine di problemi che trova il suo naturale referente nei molteplici enig-
mi e dicotomie che la storia presenta agli studiosi. Al riguardo, un primo
ostacolo che propone la storia riguarda strettamente la sua ‘portata’. In
altri termini, quando si affronta una disqusizione di carattere storico, a
cosa ed a quale periodo ci si vuol riferire? È conveniente tentare un’anali-
si del corso degli eventi fin dagli albori dell’umanità o piuttosto risulta piú
opportuno effettuare una selezione, soffermandosi magari su determinate
epoche che hanno contrassegnato il cammino dell’umanità in maniera piú
significativa?
Un rapido excursus storico ci porta a ritenere che un concreto tentativo
del primo tipo era stato operato dal già ricordato Bossuet, che nel suo
Discours sur l’histoire universelle del 1681 aveva inteso fornire una visio-
ne ‘universale’ della civiltà, nel tentativo di giungere ad una storia ‘unita-
ria’, dominata da un’idea globale (per l’appunto la realizzazione della
volontà divina, la storia come teodicea). In tal senso, si può già muovere
una critica ai sostenitori di una storiografia universale ed onnicomprensi-
va di tale tipo, che nella ‘globalità’ dei fatti incorre nell’errore di deterio-
rare l’essenza stessa della storia, che è invece sempre da individuare in
eventi concreti e contingenti, senza peraltro rinunciare mai a collocarli

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nella loro relativa appartenenza ad una ‘continuità’.


Se, per certi versi, appare innovativo il contributo fornito da Voltaire, che
rappresenta (malgrado i suddetti limiti razionalistici) uno dei pionieri del
modo radicalmente nuovo di concepire la realtà umana da parte dell’illu-
minismo, d’altra parte non si può negare che, configurando la sua critica
alla storia universale del Bossuet, in sostanza il ‘Patriarca di Ferney’ avan-
zi a sua volta una philosophie de l’histoire, termine che del resto proprio
lui aveva coniato. Nozione funzionale, peraltro, a quello che si rivela un
suo presupposto fideistico. Non meno dello storiografo di Corte di Luigi
XIV, anche Voltaire non mirava tanto ad un accertamento razionale dei fatti
oggettivi, quanto a rivisitare la storia in funzione dell’apologia di quello
che era il suo articolo di fede. Vale a dire, l’autonomia della libertà di pen-
siero e di indagine rispetto alla tradizionale autorità religiosa. Una rivendi-
cazione enunciata per dimostrare la validità dello stesso movimento dei
lumi, e quindi di un ordine nuovo, alla fine estraneo ed incurante degli
antefatti storici, che in definitiva rivestivano una rilevanza secondaria.
In effetti, Voltaire individua solo in alcuni momenti - a suo dire privile-
giati - l’essenziale della sua storia universale. E precisamente nell’epoca
greca (nell’età di Pericle), in quella romana (nell’età di Cesare e Augusto),
nel Rinascimento (nell’età di Firenze e del papa mecenate, Leone X, di
casa Medici) e nel siècle d’or di Luigi XIV (il piú assoluto dei re, il pro-
totipo stesso del monarca assoluto). Questi, dunque, secondo il padre puta-
tivo del libero pensiero, i momenti estremamente positivi e di grande pro-
sperità per l’umanità. D’altronde, i periodi appena citati erano in definiti-
va tutte fasi dominate da personalità di grande spicco, e non già da un
qualche sviluppo dell’intera società. Se ben si considera, Voltaire non
parla mai positivamente di medioevo, di società civile, o quanto meno non
di società di corpi, né di istituzioni politiche (ed anzi scrive contro il
Parlement di Parigi, per avallare il colpo di Stato neo-assolutistico del
cancelliere Maupeou).
Dunque, la storia procederebbe a balzi, si scaglionerebbe in un proces-
so in cui le tappe decisive sono marcate dai grandi uomini. Una siffatta
visione non risulta tuttavia pienamente credibile e soddisfacente, in quan-
to preclude quasi automaticamente la necessità di difendere tradizioni e

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istituzioni. Tutto viene fatto dipendere da una superiore razionalità umana


latente in alcune personalità, che di volta in volta, in connessione con lo
sviluppo ed il progresso di istituzioni autoritarie, si affermano nella storia
per il loro talento, politico, militare, artistico.
Ne deriva un’implicita concezione naturalistica dell’esperienza umana,
l’idea che ogni evento nell’universo sia concatenato e rispondente ad
immutabili leggi naturali che si manifestano nel talento e nel genio di alcu-
ni individui, depositari di una migliore natura e di una piú elevata razio-
nalità. In tal senso si è vicini ad un razionalismo umanistico (non solo e
non tanto fisico-matematico, come in altri philosophes, come D’Holbach
o Lamettrie), ma comunque riflesso spontaneo di un’ottimistica, o per
meglio dire, incondizionata, fiducia nella ragione.
Non va nemmeno trascurato il fatto che un tale razionalismo costitutiva
il presupposto per attaccare e confutare qualsiasi elemento di tipo tradi-
zionale, e non solo la tradizione cristiano-dogmatica, configurata come un
ostacolo che, sulla base delle differenze di religione, impediva l’avvento
di un universalismo di idee e di valori fra i popoli, fra le diverse civiltà,
ormai da commisurare su un medesimo piano di ideali e di importanza.
Resta tuttavia da dirimere il problema fondamentale, ovvero se una siffat-
ta elaborazione teorica possa rappresentare pienamente le complesse
istanze che la storia ci impone, o se piuttosto, aderendo ad una simile tesi,
non vengano affrontate con eccessiva superficialità le sue complesse pro-
blematiche. Ed infatti, non si rischia di svilire la stessa storia, che può tra-
mutarsi ora in un’arbitraria ricostruzione ideologica, ora in una mera nar-
razione di eventi, priva di qualunque spessore?
Da tale prospettiva, la storia illuministica di Voltaire non differisce poi
molto da quella biblico-tradizionalistica di Bossuet, poiché in entrambi i
casi si evoca la storia, ma non vi è nessun referente specifico alla fattuali-
tà dell’esperienza storica concreta. Nel caso di Voltaire, piuttosto, sembra
emergere – malgrado il presupposto razionalista – il vero volto della sua
critica della storia universale ‘vetero-neotestamentaria’ del Bossuet.
Ovvero, quello che si cela dietro la pretesa di contestare il fideismo reli-
gioso mentre in realtà viene riproposto un altro tipo di fideismo, di mora-
lismo ateo, meccanicista, o al piú deista.

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Sotto un altro profilo, a Voltaire può anche essere imputata un’interpre-


tazione lacunosa dei fatti storici. Malgrado fosse conscio di una stretta
connessione causale del divenire (per la quale passato, presente e futuro
sono connessi), alla fine il Parigino si riduce a focalizzare la sua attenzio-
ne sulla inarrestabile dinamicità della storia, sulla sua varietà senza un
significato determinato, quasi fosse costituita secondo le figure continua-
mente mutabili di un caleidoscopio, delle quali si sa precisamente che
sono prodotte “in una forma meccanica, senza tuttavia potere e volere cal-
colare quelle variazioni una per una”1.
Ad un siffatto criterio di indagine, che appare in fondo inesauriente, si
contrappone quella visione - viceversa piú esaustiva - della complessità di
articolazioni della continuità proposta dal Vico, il quale aveva invece indi-
viduato altrove il vero referente del processo storico. Esso andava ricerca-
to non in pochi talenti geniali (di per sé insufficienti a rappresentare e
risolvere la complessità della dimensione politica), bensì nel contesto evo-
lutivo delle istituzioni, in alcune fasi salienti dell’opera creativa di interi
popoli (in particolare i Greci, i Romani e le altre nazioni occidentali, for-
matisi dopo il crollo dell’impero romano).
Da simili individuazioni, il Napoletano aveva tratto i punti di riferimen-
to per definire i momenti decisivi dell’evoluzione dell’intero genere
umano. E ciò in contrapposizione all’idea che la storia sia costituita da un
flusso di passioni umane, dall’irrazionalità di pulsioni istintive, che sareb-
bero poi corrette, temperate e guidate da una ragione superiore, ricondu-
cibile alla volontà divina, che peraltro lascerebbe libertà di movimento
all’individuo nella storia. In conformità a ciò, Vico vedeva accomunate in
uno stesso fraintendimento non solo le tesi seicentesche di Cartesio (di una
razionalità immaginata latente nella natura fisica come nell’animo
umano), e quelle della ‘storia sacra’, ‘ideale eterna’ di Bossuet, ma le stes-
se teorie settecentesche. In particolare, quelle dei philosophes, convinti
dell’esistenza di leggi universali valide per ogni tempo, luogo e società, e
pertanto ritenute congrue per avallare la tesi di una ‘linearità’ della storia
umana.
In tale polemica, Vico riproponeva, al contrario, con energia l’idea di
storia come discontinuità e non come processo unilineare. Una storia che

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anche sotto il profilo universalistico si rivelava nella concreta individua-


zione di situazioni reali, nelle vicende, nei caratteri e nelle prerogative dei
singoli popoli, genti e nazioni. Una storia se vogliamo ‘universale’, e per-
sino una ‘storia ideale eterna’, ma raffrontata costantemente alle istanze ed
ai costumi di un Paese. In questo, peraltro, lo stesso Vico poteva venir
accusato di privilegiare certi piuttosto che altri momenti storici, aspetti
culturali e genialità nazionali. Sotto questa angolazione, è indubbio che la
riflessione del filosofo italiano si dispone su quella linea di rivalutazione
romantica dell’indidivualità dei singoli popoli che da Herder conduce
direttamente a Hume ed a Burke.
A Vico forse può essere imputato l’errore di aver soverchiamente enfa-
tizzato le individuazioni storiche concrete, finendo cosí per idealizzare a
sua volta la storia greca e romana, e dunque anticipando suo malgrado
alcuni degli errori commessi dallo storicismo contemporaneo. Ma a meri-
to del Napoletano va rilevato come questi eviti quell’astrattezza circa il
particolare tipo di individuazione del problema storico che ad esempio
caratterizza Rousseau, il quale riduce alla sola coscienza individuale tutta
quanta l’esperienza. Operando in tal senso, viene privato di qualsiasi rile-
vanza il passato, surrogato con riferimenti allegorici a mitici personaggi
quali Licurgo o Numa (quando non addirittura a protagonisti della ‘storia
sacra’ come Mosè).
In tal senso, alla resa dei conti risulta poco significativo l’ apporto for-
nito dal Rousseau all’edificazione di uno storicismo piú maturo.
Contrariamente a quanto è stato asserito da piú parti, la visione del
Ginevrino appare a questo riguardo quanto meno fuorviante. Se infatti gli
va ascritto il merito di avere, in una qualche misura, esaltato l’importanza
dell’individuo singolo (facendolo protagonista dello ‘stato di natura’ e del
passaggio, tramite il contratto sociale, allo ‘stato politico), è pur vero che
le sue posizioni sono ancora troppo strettamente legate al normativismo
giusnaturalistico per poter spiegare in termini storici il passaggio alla
‘società civile’.
La lettura delle pagine del Contratto sociale dove si pone l’accento sul
dispotismo esercitato dalla ‘volontà generale’ sono in tal senso ampia-
mente esplicative. Ma ciò non toglie che – come rileva uno studioso con-

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temporaneo – non vi è qui traccia di quello che dovrebbe caratterizzare


ogni impostazione storicista, nel senso di una coscienza critica dei proble-
matici rapporti che coinvolgono ineluttabilmente i dualismi finito-infinito,
individuale-universale, fatto-norma2. In altri termini, manca in Rousseau
la capacità di cogliere la complessità talvolta antinomica e talvolta ambi-
gua dell’esperienza fattuale, per cui la sua concezione della storia resta
anch’essa idealizzata, malgrado ogni proposito di concretezza. In un certo
senso, si può sostenere che Rousseau permane in quella dimensione
immobile della storia come teodicea (senza tempo e senza situazioni reali)
dalla quale aveva preteso di emanciparsi, e di emancipare, il genere
umano. In tale ipotesi, alla fine, vi sarebbe anche in Rousseau una persi-
stenza di spiegazioni fataliste, nell’attesa di un radicale cambiamento di
situazione che - non ricollegandosi a nessun contesto storico-istituzionale,
ad alcun preciso tipo di azione risolutrice - scade inevitabilmente in un
vuoto immobilismo. Ciò in definitiva è affine al tradizionalismo proprio di
non pochi talenti geniali, di per sé insufficienti a rappresentare e risolvere
la complessità della dimensione politica, all’incapacità di relazionarsi con
l’esistente. Quest’ultimo elemento non va confuso con l’immobilità, l’i-
nazione, ma viceversa è da intendersi come qualcosa contro cui si deve
costantemente misurare l’azione stessa3.
Qui, dunque, il lavoro dello storico fallisce, perché all’atto pratico si
rivela incapace di relazionarsi con una piú vasta realtà, e quindi scade nel-
l’immobilismo, nello studio della storia senza dinamicità, senza vita. In
altri termini, come è stato giustamente evidenziato, si cade nell’errore di
un conservatorismo incapace di cogliere la tradizione e le ragioni antiche
dell’azione presente4.
Non va però dimenticato che proprio in Rousseau, quindi all’interno
dello stesso illuminismo francese, si avanzano i primi dubbi sulla liceità di
identificare il progresso umano con un processo scontato ed irreversibile,
è tanto meno con il progresso della scienza e della tecnica. Nei suoi
Discorsi Rousseau lamenta in effetti la divaricazione apertasi in quel seco-
lo fra etica e progresso scientifico e tecnologico. Del resto, proprio a moti-
vo della confusione che scorgeva nel filosofare dei suoi colleghi philoso-
phes (anzitutto quella fra progresso e razionalismo, fra etica, naturalismo

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e materialismo), il Ginevrino prese volontariamente le distanze dal movi-


mento illuminista francese. Il presupposto della sua riflessione era essen-
zialmente orientato nel senso che il progresso sociale e politico dipendo-
no da qualità morali che l’uomo deve ritrovare in se stesso, con faticosa e
laboriosa ricerca, attraverso l’auto-imposizione di regole morali senza le
quali non vi potrebbe essere alcuna evoluzione globale della società e del-
l’uomo.
Senza un tale paradigma etico, si potrebbe al piú avere solo un progres-
so settoriale, materiale. Ad ogni modo, strumentale per qualsiasi aberra-
zione umana. Certo, Rousseau non si spingeva oltre nella sua critica alla
concezione del progresso, argomentata – come si è visto - in maniera istin-
tiva e naturalista, in un individualismo che era anche il sintomo della presa
di coscienza degli inquietanti travisamenti che l’uomo poteva compiere
nella sua riflessione sulla storia e sul suo significato.
Del resto, l’illuminismo francese (con la sola eccezione forse di Diderot,
del quale si ricorderà la sua accesa polemica con Voltaire circa l’impor-
tanza storica del Parlement parigino) palesa il suo primo e forse piú evi-
dente limite proprio nell’incapacità di formulare un’oggettiva e razionale
valutazione della storia. Dimostrando perciò l’impossibilità di emancipar-
si sia da un materialismo troppo legato alla sua concezione della ragione,
sia da un preconcetto rifiuto del fenomeno religioso (in particolare dell’e-
braismo e del cristianesimo).
Al contrario, proprio sul fenomeno religioso inteso in senso lato si può
verificare la consistenza o meno di ogni dibattito storicistico, che per non
scadere in concezioni evoluzioniste o meccaniciste dovrebbe sempre
affrontare il quesito del nesso fra valori etici ed azione umana, cercando
appunto di legare assieme (di ‘rilegare’, legare nuovamente, da ‘religare’,
da cui ‘religio’) le motivazioni profonde che possano aver determinato
alcuni uomini a creare un ordine di cose superiore all’immediata espe-
rienza istintiva.
In ultima analisi, una riflessione sensata sul complesso tema del pro-
gresso non può eludere la constatazione che, anche volendo farsi sosteni-
tori di una visione universalistica della storia, non si possono sottovaluta-
re i momenti di rottura, le cesure anche radicali che la stessa registra. A
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

partire da quella prima cesura, da quel momento iniziale di fondazione di


un ordine etico e politico, si diparte la stessa idea di progresso, che nasce
oppure si estingue sempre in relazione all’esistenza o allo smarrimento di
una superiore visione della realtà, di contro alla meccanicità del mondo
fisico. In questi termini anche la nozione di progresso ha una sua origina-
ria connotazione spirituale, una matrice religiosa nel senso lato suddetto.
D’altra parte, nel Settecento l’idea di progresso, collegandosi alla fiducia
nella parte razionale dell’uomo, ed anzi considerandola preminente (quasi
istintuale e naturale, una volta abbattuta la “tirannia della superstizione”,
cioè della religione che ne aveva sin lì impedito la manifestazione sponta-
nea), era stata argomentata non solo da Voltaire e da Rousseau, ma un po’
da tutti i philosophes francesi. Si può anzi asserire che un’ipotesi di pro-
gresso totalmente improntata ad una concezione ottimistica dell’uomo sia
stata teorizzata ancora allo scadere del Settecento, ed anzi in piena
Rivoluzione francese, dal girondino marchese di Condorcet. Il suo Saggio
di un quadro storico dei progressi dello spirito umano costituisce proba-
bilmente la trattazione piú prossima al postulato di un progresso continuo,
illimitato, irreversibile ed al tempo stesso indefinito nelle sue cause prime.
In estrema sintesi, Condorcet vede nella storia un’inarrestabile marcia
verso il rischiaramento della ragione, verso l’illuminazione della cono-
scenza, grazie alla definitiva sconfitta della superstizione e dell’ignoranza.
Si è detto in piú occasioni che l’illuminismo è stato anche un ‘credere’,
una fede forte nell’uomo e nel progresso storico. In tal senso, Condorcet
esprimeva la sua fede nelle capacità dell’uomo di portare la felicità alle
generazioni future attraverso un grande cambiamento, che il secolo dei
lumi stava già attuando. Si tratta di una concezione che sarebbe stata poi
sottoposta a innumerevoli critiche e revisioni. Appare abbastanza eviden-
te infatti come nel politico e filosofo francese l’ottimismo naturalistico si
spingesse ai massimi livelli di parossistica trattazione, sino cioè a consi-
derare l’ineluttabilità di un’eliminazione dei troppo attardati sulle vie del
progresso. Ed in questa direzione, una tale tesi ebbe sicuramente una fun-
zione dirompente nello scalzare la visione cristiana della storia, dipinta
come processo di degradazione e di sconfitta.

149
Massimo Sabbieti

4. La storia fra giusnaturalismo, illuminismo e romanticismo


D’altronde, nello stesso contesto dell’Illuminismo francese ed europeo
si delineano anche posizioni meno radicali nei confronti delle elaborazio-
ni giusnaturaliste, in riferimento cioè alle teorie che sin dall’antichità ave-
vano considerato come immutabile la natura umana, escludendo di rifles-
so ogni ipotesi di cambiamenti radicali nei comportamenti e nelle istitu-
zioni. Non solo, dunque, un diverso contenuto di questa legge di natura si
viene affermando nel Settecento, concepita ora inizialmente in maniera
razionalistica, e via via meccanicista e materialista (come appunto accade
con i philosophes francesi). Si affermano infatti anche concezioni per le
quali questa legge di natura può essere individuata nella particolarità di
determinati popoli, che a differenza di altri rivelano una capacità creativa,
produttiva di una dimensione di civiltà che sarebbe errato concepire come
il prodotto di qualsiasi abbandono istintualistico.
Nasce cosí nello stesso Illuminismo una rappresentazione della natura
umana connotata in termini di ricerca, di laboriosa conquista di una legge
di superiore natura, diversa ed opposta rispetto ad ogni naturalistico istin-
tivismo. Da questo punto di vista si afferma pertanto una concezione sto-
ricistica della natura umana. Come è precisato in Meinecke, il principio
primo di questo storicismo consiste nel sostituire ad una concezione gene-
ralizzante ed astrattiva delle forze storico-umane una considerazione del
loro carattere individuale. Il fondamento di ciò risiede nella convinzione
che l’applicazione di giudizi generalizzanti nei riguardi dell’uomo e dei
fenomeni culturali e sociali “non permetta di localizzare e capire nella loro
sostanza le profonde trasformazioni e la varietà di forme che la vita mora-
le e spirituale dell’individuo e delle comunità subisce ed assume, non-
ostante il permanere immutato di fondamentali qualità umane”5.
Tradotta nel contesto politico dell’epoca, la reazione dell’ordinamento
storicistico si concreta nella negazione della dottrina dei diritti dell’uomo,
quale era stata dapprima elaborata nell’ottica razionalistica con cui i phi-
losophes avevano ridefinito il giusnaturalismo e quindi attuata dalle rivo-
luzioni americana e francese. Specialmente La Déclaration des droits de
l’homme et du citoyen, votata dall’Assemblea francese nel 1789, poneva
in tal senso alla ribalta un ordine di problemi politici e concettuali di non

150
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

poco rilievo. Il manifesto rivoluzionario metteva a confronto due visioni


della storia e degli ordinamenti giuridici antitetiche. La prima - piú astrat-
ta - fondata sulla ragione e sul diritto naturale, l’altra - piú concreta - che
mirava all’organizzazione pratica del potere tramite i precetti del diritto
positivo.
Il sottoporre a critica serrata questa antinomia è l’obiettivo primario, sin
dal XVIII secolo, dello storicismo, ossia l’insieme delle teorie che conte-
stano l’immagine artificiosa ed illusoria di una coincidenza fra legge di
natura e diritto positivo, fra istintualità ed etica politica. Quello che si con-
testa è che questa coincidenza avvenga nei termini di una naturale ten-
denza alla razionalità, che – abbattuti gli impedimenti storici a questa
ragione istintiva – si verrebbe affermando nell’universalità degli uomini e
nella totalità delle singole situazioni storiche.
Sul piano politico, lo storicismo contesta in primis la convinzione che lo
Stato liberale costituisca un modello di validità assoluta e universale, “in
quanto fondato sulle esigenze eterne, e quindi identiche in ogni tempo ed
in ogni luogo, della ragione umana”6. Al contrario, si evidenzia la ‘relati-
vità’ delle istituzioni politiche e sociali e, per converso, la relativa diffu-
sione ed accettazione dei valori espressi dal fenomeno politico. In questo
atteggiamento, lo storicismo contesta il rifiuto della tradizione da parte
dell’illuminismo francese, nel quale (salvo poche eccezioni) il passato,
con i suoi culti ed i suoi costumi, non solo viene bersagliato criticamente,
ma spesso misconosciuto nel suo stesso valore di ‘preliminare’ ad ogni
forma di progresso. In maniera pregiudiziale e sommaria si rifiuta di attri-
buire qualsiasi validità specialmente al Medioevo, nel quale si ravvisano
solamente barbarie ed oscurantismo. Da questo punto di vista, per i philo-
sophes piú estremisti nessuna tradizione, per quanto radicata, è meritevo-
le di reverenza e di rispetto. In ogni tradizione si scorge, talvolta indebita-
mente, un conservatorismo immotivato, privo di obiettività validità.
Al contrario, lo storicismo piú maturo pone giustamente l’accento sul
fatto che le fasi storiche antecedenti debbano essere analizzate nella loro
complessità e nelle loro peculiarità, nei loro limiti ma anche nelle loro
positività. Ed è proprio in siffatta direzione che sembra muoversi lo stori-
cismo romantico, votato ad esaltare il ruolo della storia, a riscoprire nel

151
Massimo Sabbieti

passato il genio e l’anima dei popoli nelle loro peculiarità culturali, reli-
giose e persino folcloristiche. Il concetto di Volksgeist fornisce allo stori-
cismo tedesco l’occasione per sconfessare qualsiasi atteggiamento razio-
nalistico ed universalista, riaffermando i valori della tradizione in nome
della riscoperta di valori spirituali che rendono possibile la formazione di
un autentico spirito popolare. Fattore questo che non scaturisce dall’ac-
cordo sancito dal complesso delle volontà individuali, ma risulta piuttosto
da un implicito consenso fornito dai membri di una comunità in relazione
ad alcuni valori fondanti – quali appunto la tradizione, i costumi, la reli-
gione, le istituzioni – che qualificano inequivocabilmente una determina-
ta società.
Peraltro, è doveroso evidenziare che, sul piano politico, tali idee di
nazione e di individualità dei popoli finiscono poi per essere interpretati
sovente in un senso statico, tradizionalista, conservatore (e pertanto retro-
grado). In effetti, è proprio da questo punto che si origina la legittimazio-
ne ideologica che guidò la politica dei governi al Congresso di Vienna,
dove si cercò di ripristinare in senso reazionario la situazione antecedente
ai disordini rivoluzionari di fine ‘700 e ridare credito alle strutture assolu-
tistiche piú che a quelle di matrice feudale (già caratterizzate da istanze di
rappresentanza politica e da un’esigenza di controllo del potere).
A tale risposta, a sua volta ideologica, al radicalismo delle concezioni
democratico-egalitarie di stampo giacobino (improntate appunto ad un
razionalismo vaneggiante ed artificiosamente imposto come modello di
riferimento per l’Europa) non corrispose una critica effettivamente fonda-
ta sulla tradizione. Se il Romanticismo pone le sue basi sul riconoscimen-
to che i veri moventi dell’animo individuale e collettivo non sono da ricer-
care nell’astratta e fredda razionalità o nell’impersonale concezione uni-
versalistica (che come correlato ha la violenta imposizione di un modello
di comportamento), l’anima del movimento tuttavia non è neanche
riducibile all’autoritarismo di costumi imposti secondo una linea di
conservatorismo.

152
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

5. La storia: magistra vitae o pericoloso strumento di manipolazione


della realtà? Il significato duale della storia fra continuità–discontinuità,
individualità-universalità, storia universale–storia selettiva
Possiamo allora, alla luce di quanto si è qui considerato, affermare che
la storia ed il presente, pur tra antinomie e con la dovuta cautela che il caso
impone, costituiscono le due facce di una stessa medaglia? Si è visto come
una disamina che consideri globalmente la problematica in questione non
possa omettere la presenza di periodi di discontinuità, che intaccano la
linearità (per certi aspetti innegabile nel corso della storia) con fasi invo-
lutive, di degenerazione, caratterizzate talvolta da cesure violente. Si è
anche precisato come nella stessa valorizzazione del passato non devono
essere sottaciute componenti che certamente potrebbero inficiare la vali-
dità di un quadro interpretativo troppo frettolosamente proposto, ma la cui
omissione avrebbe il risultato di originare una visione distorta ed ingan-
nevole degli eventi. Sotto questo profilo, la storia può risultare utile solo
se ben interpretata, ma oltremodo dannosa se fraintesa o artefatta in fun-
zione ideologica.
Una lungimirante tesi su tali problematiche è stata argomentata da
Friedrich Nietzsche nel 1874 nell’opera Sull’utilità e il danno della storia
per la vita, che rappresenta una significativa trattazione dei pro e dei con-
tro cagionati dalla prospettiva storicistica. Se con la conoscenza del pas-
sato si può instaurare un rapporto fecondo al servizio della vita, non si
deve, secondo Nietzsche, eccedere col senso storico, rassegnandosi a vive-
re nel passato, giacché la convinzione che tutto è già stato deciso non può
che generare un inarrestabile processo di decadenza. Il fenomeno in que-
stione, caratteristico della cultura storica dell’Ottocento, viene analizzato
dal filosofo tedesco in rapporto a tre forme di storiografia (monumentale,
antiquaria e critica) che, sia pure entro i limiti di ciascun percorso di ricer-
ca, sanno invece rapportarsi al passato in modo non nocivo per la vita.
La perspicacia del Nietzsche risiede proprio nell’aver aperto un nuovo
fronte di discussione sui soggetti nei confronti dei quali si dispiega l’utili-
tà della storia, nell’aver sancito il principio che, comunque si voglia valu-
tare il fenomeno dello storicismo, all’origine di esso vi è sempre una sorta
di imperativo, un impulso etico dell’uomo a riscoprire se stesso attraverso

153
Massimo Sabbieti

un contatto con il passato. Questo perché la storia è funzionale a due fon-


damentali fattori, la vita e l’azione, che interagiscono stabilmente con
essa. Il referente alla storia, cosí inteso, diviene allora una sorta di cataliz-
zatore delle energie umane ed assume quel ruolo positivo che riveste oggi
il rinvio al passato inteso, con una certa dose di retorica, come magister
vitae.
Analizzando la prima tipologia, la storia monumentale, Nietzsche ne
individua i destinatari negli uomini piú influenti ed ambiziosi, coloro che
in ogni epoca aspirano al potere ed a grandi imprese, gli individui piú cari-
smatici ed impavidi, dotati di spirito d’iniziativa ed abnegazione.
Riferendosi ad un archetipo di tal genere, Nietzsche afferma quanto segue:
“[…] La sua meta è una qualche felicità, forse non la sua propria, spesso
quella di un popolo o quella dell’umanità intera; egli fugge dalla rasse-
gnazione e usa la storia come mezzo contro la rassegnazione. Per lo piú
non lo attende nessuna ricompensa se non la gloria, cioè il diritto a un
posto d’onore nel tempio della storia, dove egli stesso potrà essere mae-
stro, consolatore e ammonitore per i posteri”7.
Una visione cosí grandiosa ed idealistica della storia, aristocratica ed al
tempo stesso volta a ribadire la forte spinta circa la continuità delle tradi-
zioni e dei costumi, è incarnata perfettamente in un tipo di individualità
che, “coltivando con mano attenta ciò che dura fin dall’antichità, […]
vuole preservare le condizioni nelle quali è nato per coloro che verranno
dopo di lui – e cosí serve la vita”8. Si evince da simile concezione una
sorta di sublimazione attraverso la ripetizione di determinati modelli sto-
rici, alla quale ambiscono gli spiriti piú bramosi ed intrepidi.
Qualcosa di molto affine a tale concezione – comunque nel riferimento
ad una prerogativa non esclusiva dei ceti nobiliari, ma tale da potere esse-
re estesa anche ai regimi democratici - era stato formulato da Alexis de
Tocqueville già nella prima metà dell’Ottocento. Il noto liberale francese
aveva infatti ravvisato nelle società d’antico regime l’esistenza di un’élite
nobiliare, erede della gloriosa stirpe dei Franchi, che - nel riferimento
appunto ai monumenti storici tramandati (nel senso di valori, istituzioni,
comportamenti codificati nel costume e nelle leggi fondamentali della
monarchia) – si era dimostrata intenzionata e capace di frapporre un vali-

154
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

do ostacolo alle pretese ed alle spinte dell’assolutismo monarchico. Ciò si


era reso possibile grazie alla continuazione dei suddetti modelli, alla loro
diffusione in piú attuali idee di partecipazione e di rappresentanza degli
interessi collettivi, ossia in valori che prefiguravano quelle istanze demo-
cratiche e liberali che avrebbero meglio garantito l’equilibrato funziona-
mento di un sistema sociale all’avanguardia nello sviluppo del sistema
parlamentare.
Un sistema che dunque Tocqueville identificava negli antefatti storici
della Francia, riconoscendovi un modello che non si era potuto realizzare
nella sua patria, dapprima a causa prima dell’assolutismo monarchico, e
poi del radicalismo innovativo della Rivoluzione. Un sistema che, diver-
samente, si era innestato e plasmato in America, sulla base di una consi-
mile eredità storica, permeata di criteri selettivi e meritocratici, lì concre-
tatasi felicemente in un nuovo assetto costituzionale. Qui, il grande rilie-
vo conferito al principio della pluralità e della suddivisione delle compe-
tenze (applicato non solo in ambito sociale ma anche istituzionale),
mutuato dall’esempio del medioevo pre-assolutistico francese, dal ruolo
pacificatore svolto dai cosiddetti ‘corpi intermedi’, si applicava con suc-
cesso nella democrazia americana.
Infatti, anche negli Stati Uniti la presenza di istituzioni decentralizzate
sviluppava contestualmente sia una funzione di raccordo tra governo ed
istanze popolari, sia una funzione di garanzia (da parte di un selezionato
corpo giurisdizionale) contro le pretese egemoniche di gruppi maggiorita-
ri ed oligarchie. Nell’America della prima metà dell’Ottocento alcune
strutture innovative (prima su tutte la Corte Suprema) si erano dimostrate
in grado di fronteggiare le invadenze delle maggioranze parlamentari, cosí
come secoli prima, in Francia, avevano svolto un analogo ruolo gli antichi
corpi ed il Parlamento di Parigi nei confronti delle pretese assolutistiche
dei monarchi.
Si delinea in questi termini, dunque, in Tocqueville, il riferimento ad una
storia monumentale nel senso del riconoscimento del valore insostituibile
dell’esperienza costituita dalla progressiva ed ardua formazione di uno
spirito politico risultante dal connubio di ragione e religione, di esperien-
ze e conoscenze maturate nei secoli. Su questa stessa linea interpretativa

155
Massimo Sabbieti

degli eventi in termini di continuità storica, a sua volta Nietzsche afferma


che è indispensabile per ogni generazione trasferire ai posteri il patrimo-
nio culturale e politico recepito dagli antecessori. Ma è necessario guar-
darsi da un passato dipinto in modo idilliaco e recepito passivamente, che
nell’edulcorazione degli eventi rischia di degenerare in mitizzazione.
Allora la realtà viene distorta, artefatta, di conseguenza non si riesce piú a
demarcare con precisione il confine tra verità storica ed invenzione.
Non va nemmeno trascurato il pericoloso fenomeno per cui l’archetipo
monumentale finisce inevitabilmente per ignorare interi periodi storici e
personalità a vantaggio esclusivo di altri, il cui ruolo risulta dunque enfa-
tizzato. In sintesi, lo storico che abbraccia una simile concezione si viene
a trovare nella condizione di avere una licenza interpretativa troppo
ampia, che si traduce talvolta in una vera e propria celebrazione di deter-
minate epoche.
Se dunque una storia monumentale non convince appieno, possono
forse riuscire in tale compito le altre due tipizzazioni che Nietzsche pro-
pone, ossia quella ‘antiquaria’ e quella ‘critica’? La storia antiquaria risul-
ta in sostanza come l’espressione di un doveroso ‘ringraziamento’ nei con-
fronti dell’eredità tramandataci, di un atto di fedeltà, una sorta di giura-
mento implicito prestato nei confronti di chi ci ha preceduto. L’individuo
che aderisce alla storia antiquaria palesa il seguente atteggiamento. “La
storia della sua città diventa per lui la storia di se stesso; egli concepisce
le mura, la porta turrita, l’ordinanza municipale, la festa popolare come un
diario illustrato della sua gioventù, e in tutte queste cose ritrova se stesso,
la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e
le sue cattive maniere”9.
Per questo tipo umano, ogni aspetto apparentemente insignificante della
vita di tutti i giorni rappresenta un patrimonio ancestrale, che ha caratte-
rizzato nel tempo una stirpe, una città, un popolo, una nazione. Qui tutte
le piccole vicende che hanno caratterizzato la crescita di una comunità
rientrano di diritto nella categoria antiquaria, che assurge dunque ai ruoli
di tutore e di custode del passato. Simili convincimenti espongono però
chi li vive ad un rischio se vogliamo antitetico rispetto a quello proposto
dalla storia monumentale, ma altrettanto insidioso. Ciò in quanto qui si

156
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

incorre in una possibile ed incauta venerazione non di quanto è meritata-


mente degno di essere considerato un modello da trasmettere, ma di tutto
ciò che porta il marchio del passato, considerato totalmente ed indistinta-
mente come patrimonio insostituibile. Di riflesso, una tale visione rischia
di sminuire il debito che abbiamo comunque verso il ‘nuovo’, verso i pro-
gressi registrati dalle scienze e dalle tecnologie ed in generale verso il
futuro. Si origina cosí una sorta di paralisi dell’azione, una divinizzazione
del passato che in quanto tale si pretenderebbe, a torto, immortale ed
intoccabile.
Ma va anche precisato che in questa critica della storia antiquaria non si
deve commettere l’errore opposto alla sua enfatizzazione. È appena il caso
di osservare che sarebbe un imperdonabile sbaglio rinnegare integralmen-
te il proprio passato, poiché in tal caso si espone inevitabilmente un popo-
lo ad una pericolosa spirale, ad una caotica ricerca di un nuovo impianto
culturale che sostituisca integralmente quello antico, precedente. Sembra
cosí nuovamente riproporsi la consapevole necessità di operare secondo
un filone di continuità con il passato.
In tal senso un forte richiamo alla storia viene da Edmund Burke, auto-
re che si rivela decisamente emancipato dai canoni piú rigidamente intran-
sigenti del razionalismo illuministico francese. Nella stessa seconda metà
del Settecento, questo scrittore irlandese oppone una compiuta consape-
volezza del valore delle istituzioni antiche, delle originarie creazioni di un
ordine non dato in natura, e quindi dello stesso progresso, non circoscrit-
to all’istinto, non determinato da istinti, ma da una naturale tendenza
umana verso il perfezionamento, verso la razionalità da acquisire, da
conquistare.
Secondo Burke, la storia, la conoscenza del passato, è importante per-
ché lì è stata codificata la vera razionalità, risultato del lavoro di intere
generazioni, e non delle fantasie di individui isolati. Una ragionevolezza,
quindi, riflesso di dura fatica per dominare ed educare le passioni e gli
istinti, per innalzarsi nel corso di infinite generazioni ad un gradino sem-
pre piú elevato. Il suo pensiero, come è noto, giunge a piena maturazione
nelle Reflections on the French Revolution, dove – nella confutazione del
radicalismo innovativo della Rivoluzione - emerge energicamente l’esal-

157
Massimo Sabbieti

tazione dell’importanza dei costumi, dei privilegi, delle consuetudini, del


patrimonio legislativo, culturale e spirituale ereditato dai padri.
C’è qui una piena adesione ai modelli di vita dell’antico regime europeo,
e dello stesso Medioevo (tanto denigrato, invece, dai philosophes) e per-
tanto c’è in Burke l’elogio dello spirito cavalleresco, del coraggio, della
generosità, dell’integrità morale, del riconoscimento di una gerarchia di
capacità e meriti. Attraverso la magnificazione dei valori espressi dalle ari-
stocrazie medioevali, Burke intende rimarcare l’errore compiuto dai rivo-
luzionari francesi, che avendo voluto intraprendere un sovvertimento inte-
so alla distruzione totale del vecchio ordine, avevano irresponsabilmente
smantellato ogni traccia delle acquisizioni dovute al Medioevo. Epoca
questa che, ben lontanamente dalle negative considerazioni espresse da
Voltaire e dagli altri scettici philosophes, per Burke ricopriva una grande
rilevanza storica, ingiustamente sminuita e denigrata dall’illuminismo.
Con ciò non si vuol sostenere che l’apprezzamento della storia mostra-
to dal filosofo irlandese sconfini necessariamente nel radicale superamen-
to del pensiero cosmopolitico e giusnaturalistico settecenteschi, né tanto
meno in atteggiamenti che sono alla base della riflessione sulle origini e
sviluppo dell’idea dello Stato moderno (nozione peraltro non dovuta
esclusivamente alla Rivoluzione francese). La concezione storicista di
Burke rende noti infatti quei meriti che Nietzsche riconduce al terzo tipo
di storiografia, quello critico. Se il passato viene analizzato con attenzio-
ne, le vicende del mondo umano non sono piú il prodotto diretto di infal-
libili leggi di natura, o di altrettanto perfette leggi umane, ma si configu-
rano come il risultato di decisioni prese sulla base di un’analisi critica
della realtà, sulla considerazione dell’alternatività delle scelte.
Soltanto una rilettura critica degli avvenimenti permette di superare i
possibili eccessi sia della storia monumentale che di quella antiquaria.
Infatti, entrambe valutano giustamente l’importanza del passato, ma pos-
sono finire per enfatizzarne la validità e la veridicità degli eventi, impe-
dendo appunto ogni prospettiva di futuro progresso ed ogni interpretazio-
ne attuale dell’esperienza. Ciò nonostante, sarebbe sbagliato anche l’at-
teggiamento storiografico che dissolvesse in una critica eccessiva il pas-
sato, vedendovi solo secolari ingiustizie ed iniquità. Il fatto che ogni gene-

158
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

razione, nella prospettiva di continuità che qui si è cercato di delineare, sia


da considerare come prosecutrice di una tradizione tramandata da genera-
zioni precedenti, non comporta comunque ineluttabilmente che si resti pri-
gionieri di una catena di errori e travisamenti che fossero stati commessi
da coloro che ci hanno preceduto.
Tuttavia, è proprio questo il rischio che si corre in ogni interpretazione
data dallo storicismo. In certa misura, si tratta di un’incognita inevitabil-
mente connessa con il nostro profondo legame con le generazioni prece-
denti. Nietzsche, saggiamente, indicava in tale fattispecie il motivo basi-
lare per cui nell’enfatizzazione dell’antefatto storico si rischia di generare
un danno piú che un vantaggio. “[…] Dato che noi siamo i risultati di
generazioni precedenti, siamo anche i risultati dei loro traviamenti, delle
loro passioni e dei loro errori, anzi dei loro delitti; non è possibile staccarsi
del tutto da questa catena. Se noi condanniamo quei traviamenti e ce ne
riteniamo affrancati, non è eliminato il fatto che deriviamo da essi”10. Una
citazione che dunque avvalora ulteriormente l’idea che la storia incorpora
non solo modelli positivi da riassumere come esempio per l’attualità, ma
anche esperienze che talvolta sarebbe meglio evitare di ripetere.
Sotto il profilo della storia critica va certamente considerata la posizio-
ne assunta da Vincenzo Cuoco, che nei diversi momenti della sua militan-
za politica (dapprima in veste di ‘rivoluzionario giacobino’, quindi realiz-
zando un suo piú vero animo liberal-conservatore) dimostra di saper anda-
re oltre le ideologie allora dominanti. Sia riguardo al periodo trascorso a
Napoli prima e durante quella Rivoluzione del 1799, sia nelle successive
esperienze giornalistiche (a Milano e poi di nuovo a Napoli) sotto il regi-
me napoleonico, - un’attenta rilettura delle sue opere ci mostra un’intima
coerenza di una visione d’insieme degli avvenimenti, riconfrontata costan-
temente con le istituzioni e le tradizioni di antico regime. In tal senso,
Cuoco palesa il convincimento (che poi a suo modo verrà reinterpretato da
Croce) della storia considerata e vissuta come “azione”, come capacità di
saper regolare sulla conclamata esperienza del passato le vitali esperienze
sia del presente che del futuro.
Un tale concetto della storicità si incentra nella prospettiva per cui ognu-
no nel proprio tempo ha il compito di ricomporre la frattura tra passato e

159
Massimo Sabbieti

futuro. Ecco perché una storia realmente critica deve raccogliere il meglio
del passato e dare un’interpretazione attuale capace di orientare l’azione
in funzione di un futuro migliore. Un popolo che rinnega il suo passa-
to - sostiene Cuoco – se da un lato ben difficilmente si libera da una qual-
che sopravvivenza di eventuali aspetti deteriori delle trascorse esperienze,
d’altra parte è incapace di vivere sia il presente che il futuro.
Soltanto attraverso la valorizzazione delle memorie, l’esaltazione dei
monumenti e delle opere degli antichi, il perfezionamento delle loro intui-
zioni, una società può realmente vivere e progredire. In questa prospetti-
va, tuttavia, lo studio dell’antichità non può e non deve limitarsi ad una
mera cognizione dei fatti, ma deve essere riadattato al contesto attuale,
rapportato cioè agli usi e costumi del presente, alle istanze ed esigenze
attuali. Attraverso questa interazione fra passato e presente diviene allora
possibile acquisire un autentico spirito critico, che permette di discernere
gli inevitabili errori del passato dai valori e dagli insegnamenti positivi.
“La istoria ci sarebbe interamente inutile, se la cognizione di ciò che si
è fatto non ci servisse di norma a sapere ciò che si deve fare. Ma affinché
l’esempio non sia o inutile o funesto è necessario che nessun fatto sia nella
nostra mente isolato, che di ognuno se ne conoscano le cagioni e gli effet-
ti; che tutte le parti componenti l’antichità formino un insieme”11. I costu-
mi divengono perciò parte integrante delle azioni quotidiane dell’uomo,
perché “hanno per base la natura, che dà a tutti gli esseri ragionevoli le
medesime nozioni di onestà; non dipendono da culti, da legislazioni, da
climi: figli della coscienza, la verità li precede, la felicità li segue”12.
Le credenze, le pratiche, persino il folclore popolare sono aspetti impre-
scindibili che contribuiscono ad accrescere la fama e la considerazione
delle quali gode una comunità. È una verità inconfutabile che in ogni
epoca storica la salvaguardia dei costumi ha decretato la fortuna delle
nazioni che hanno saputo cogliere quel sentimento - ispirato dalla natura
e sviluppato dalla ragione umana - grazie al quale si è riusciti ad antepor-
re il bene pubblico all’interesse privato, la tutela della nazione al mero tor-
naconto personale o settoriale. La storia ha mostrato fulgidi esempi di cit-
tadini in possesso di tale virtù, che hanno mostrato autentico amore per la
patria. Per siffatti motivi, è opportuno che gli emuli degli ‘eroi’ del passa-

160
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

to ne imitino in primo luogo i costumi.


Se analizziamo il suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, in piú
punti si evince come il modello costituzionale inglese appaia agli occhi di
Cuoco l’emblema stesso degli ideali di libertà ed uguaglianza politica,
universalmente ricercati, e – viceversa - artificiosamente sostenuti dalla
democrazia francese trapiantata in Italia. Ecco perché l’alta stima verso il
modello inglese, sebbene dissimulata per la militanza dello scrittore con i
francesi, sembra costituire la premessa per il suo dissenso dal tipo di costi-
tuzionalismo espresso dalla Rivoluzione. Sostanzialmente, la sua critica al
costituzionalismo francese è motivata dallo scorgervi un totale discono-
scimento delle genuine istanze nazionali, dell’interesse del popoli italiani
a recuperare e riattuare gli insegnamenti tramandati dalla propria storia e
dalle proprie istituzioni13.
Tali considerazioni storiche possono apparire discordanti rispetto alla
militanza politica di Cuoco, ma ad una piú attenta analisi vi si può scor-
gere un intento critico nel ripensare sia il presente che il passato, al fine di
saper trarre vantaggio sia dalle occasioni nuove che l’attuale contingenza
storica offre, sia di realizzarvi istanze antiche, che fino ad allora la situa-
zione non aveva permesso di soddisfare. Un profondo senso critico indu-
ce Cuoco a promuovere l’occasione storica offerta dalla rivoluzione e
dalle armate francesi per abbattere le indebite staticizzazioni assolutistiche
che la monarchia borbonica aveva sovrapposto all’antico sistema istitu-
zionale. Dunque la storia critica è il solo metodo di indagine del passato
che renda possibile professare il dovuto riconoscimento alla storia monu-
mentale o alla storia antiquaria, evitando nel contempo qualsiasi soprav-
valutazione di tutto il passato.

6. Storia e storicismo fra Otto-Novecento


È fuori di dubbio che anche lo storicismo fra Otto-Novecento abbia dato
origine ad un’ulteriore complicazione nell’interpretazione della fenome-
nologia storica, specie accentuando in senso conservatore le componenti
irrazionalistiche del Romanticismo tedesco. In Germania, la considerazio-
ne delle vicende storiche come manifestazione di un principio assoluto

161
Massimo Sabbieti

sembra essere il denominatore comune di tutta una tradizione di pensiero,


che trova il suo compimento e la sua composizione in Hegel, che si collo-
ca a mezzo fra l’irrazionalismo romantico ed il materialismo storico14.
Con la scuola romantica, Hegel condivide il concetto di ‘Spirito del popo-
lo’ (il già ricordato Volksgeist), inteso a spiegare l’individualità delle
diverse epoche e quindi dei diversi valori politici che in queste trovano
espressione.
Tuttavia, nel filosofo tedesco questo spirito delle diverse nazioni è
espressione di una ragione universale, che si realizza attraverso l’azione
dei ‘popoli storici’. Esemplificando, quelli che sono capaci di rendersi
interpreti di un’intera epoca, in quanto in essi si manifesta il livello di
avanzamento. Nondimeno, la sua non è una concezione spiritualista o
idealistica come si potrebbe pensare, poiché questo concetto dello ‘spirito
del mondo’, della ‘ragione universale’, viene da Hegel individuato in
situazioni reali. Piú precisamente, nella stessa dimensione della ‘società
civile’, nella quale si riassume tutta quanta la vicenda storica del reperi-
mento dei mezzi materiali necessari alla sua sopravvivenza15.
Analogamente ad Hegel, per il quale in definitiva la storia mondiale è una
progressione di stadi dello spirito verso la consapevolezza di sé, anche in
Marx la storia è dunque una progressiva emancipazione, da lui peraltro
riferita alle condizioni economiche delle classi subalterne.
Nel Novecento, è ancora in Germania che il dibattito storicistico assu-
me contorni di particolare interesse, grazie ai contributi innovativi di
Friedrich Meinecke e di Ernst Troeltsch riguardo alla problematicità del-
l’interpretazione storiografica. Per Meinecke, lo storicismo si connota
come il prodotto che scaturisce dall’insieme dei princìpi della coscienza
storica. In altri termini, è l’espressione dell’individualità e della rivoluzio-
ne che si realizza nella storia; è l’essenza stessa della dinamica tempora-
le; è la materializzazione e l’universalizzazione dei molteplici aspetti che
caratterizzano l’uomo16.
Tale definizione pone però in rilievo un duplice ordine di problemi di
non facile soluzione: da un lato si tratta di valutare la ‘gittata’ della storia,
ossia il peso, la rilevanza da attribuire allo studio del passato. Ed al riguar-
do sembra doverosa una precisazione che tuttavia non chiarisce il quesito.

162
La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

Per un verso, sembra sostanzialmente giusto riconoscere una dimensio-


ne “eroica” che unisce gli spiriti eletti nella fede nel vincolo che salda pas-
sato e presente in un’unica entità. Sotto questo profilo, non appare dunque
una vera novità nemmeno lo storicismo meineckiano, che mira soprattut-
to a rivendicare la scoperta di una nuova dimensione della realtà, il ruolo
svolto dall’individualità, di contro alle visioni universalistiche e genera-
lizzanti del giusnaturalismo e dello stesso illuminismo.
A dire il vero, consimili posizioni storicistiche si erano già delineate nel
Settecento, con Hume, Burke, Vico, Herder. È però certo che la decisa
difesa del principio individualistico rappresentava un radicale mutamento
nella modalità di studio della storia, che in qualche modo poteva essere
assimilato ad una sorta di rivoluzione nel modo stesso di concepire le vere
forze protagoniste del passato. Dunque, una rivoluzione da intendersi
come riscoperta della tradizione, non come sovvertimento inteso ad una
cesura radicale con il patrimonio acquisito nel passato17.
Vale la pena di ricordare, a tal proposito, quanto aveva già scritto in
pagine altamente significative Carlo Curcio, ne L’ostetrica del diritto.
Note per la storia del concetto di rivoluzione, apparso sulla “Rivista inter-
nazionale di filosofia del diritto”, nel 1937. A tal proposito, Curcio osser-
vava come il termine ‘rivoluzione’ evocasse (sull’immagine della rivolu-
zione planetaria che ripercorre tutti i punti già passati) quel ritorno verso i
‘primi princìpi’, che come aveva suggerito Machiavelli era l’unico ed effi-
cace antidoto per qualsiasi regime incamminato altrimenti verso la corru-
zione. Una rivoluzione che si propone perciò di ripercorrere a ritroso il
cammino storico al fine di ritrovare l’integrità del momento della fonda-
zione, l’energia dei primi tempi18.
Ma al di là della pur interessante disquisizione inerente la rivoluzione,
ciò che qui preme sottolineare è la lungimirante intuizione sia di Meinecke
che di Troeltsch di uno dei maggiori problemi che sembrano connaturati
allo storicismo: ossia il relativismo, quale rovescio speculare dell’indivi-
duazione dei fatti storici. Nel deciso rifiuto di ogni generalizzazione, l’e-
vento individuato finisce per assumere un valore assoluto, per rappresen-
tare in situazioni storiche particolari la totalità della storia passata e futu-
ra. La logica conseguenza è lo scetticismo nei confronti del presente,

163
Massimo Sabbieti

delle possibilità di innovare in qualche modo una realtà che appare cri-
stallizzata.
In una simile prospettiva, Troeltsch evidenziava insidiosi fraintendi-
menti nello storicismo, nell’eccesso di individuazione dei fatti decisivi
della storia. Da qui scatirisce “il relativismo estetizzante, per cui ogni cosa
diviene e tramonta, tutto è relativo e condizionato; l’intellettualistico e
camaleontico estraneamento di ogni convinzione personale; la inibizione
di ogni produttività e di ogni robusta forza della semplice fede in norme
di validità universale; il frammentarsi della scienza nella generazione di
infinite imitazioni di ciò che è già stato; l’assuefarsi alla mera routine dello
specialista storiografico [...]”19.
Pertanto, lo storicismo si rivela in ultima istanza inadatto, incapace di
fornire conoscenze del passato dotate di sufficiente oggettività20. In altre
parole, la sopravvalutazione di certi momenti della storia non è in grado di
fornire sufficienti spiegazioni del divenire storico, ad esempio del perché
si produca la frattura fra la fine del medioevo e l’epoca moderna, fra l’an-
tico regime e la Rivoluzione.
Non avendo saputo ricondurre l’esperienza storica a leggi definite scien-
tificamente, lo storicismo non riesce a dar ragione né della continuità, né
del divenire, né della tradizione, né del progresso. Del resto, proprio
Meinecke esorta ad evitare di uscire dalle generalizzazioni ed astrazioni
cui fatalmente approda un’estrema scientifizzazione dello studio della sto-
ria, con l’apparente rimedio di considerare solo certi particolari accadi-
menti, e scartando come insignificanti e secondari tutti gli altri. Cosí
facendo, si finisce per credere di potersi rifugiare nel passato per sfuggire
ad un presente in cui si vede solo il rifiuto di valori collaudati della storia.
Ma in questa fuga dal presente, in un passato frainteso e staticizzato, non
c’è alcuna possibilità di avvenire. Privo di queste sue tre dimensioni tem-
porali, lo studio della storia risulta dunque sterile contemplazione di un
passato senza presente e senza futuro.
Sotto questa angolazione, Benedetto Croce riconsidera il positivo ed il
negativo dello storicismo. Da un lato, confuta quindi la pretesa di una
generalizzazione di leggi storiche. “La ‘storia universale’ non è già un atto
concreto o un fatto, ma una ‘pretesa’; e una pretesa nascente dal crona-

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La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

chismo e dalla sua ‘cosa in sé’, e dallo strano proposito di chiudere, mercé
un processo all’infinito, il processo all’infinito che si era malamente aper-
to”21. Qui, in sostanza, Croce asserisce qualcosa di molto simile a quanto
aveva a suo tempo osservato Humboldt, che pur considerando la possibi-
lità di una ‘storia universale’, non disconosceva il pericolo di astrattezza e
generalizzazione, sfociando in un’erronea considerazione “intellettualisti-
ca” del genere umano22.
Ponendo l’accento sulla storia come azione, come individuazione di fatti
concreti, Benedetto Croce intende riaffermare l’inscindibile legame con il
passato23, l’irrinunciabile necessità della riscoperta della continuità stori-
ca (in termini di condivisione di alcuni valori chiave, in grado di confuta-
re una visione della realtà sconnessa dall’anteriorità e tutta bruciata nel-
l’attimo presente). Ma questo non equivale per Croce ad un’osmosi totale
con il passato, proprio perché la storia è vita, è presente, è azione rivolta a
costruire il futuro pur recependone modelli e sollecitazioni dalla storia.
Qual’è infatti, per Croce, la ragione essenziale che ci induce a studiare
il passato, ovvero a compiere indagini storiografiche? Sicuramente, non vi
è unicamente l’esigenza pratica di conservare il ricordo di quel che è
ormai trascorso, poiché in tal caso, secondo Croce, si avrebbe soltanto
mera cronaca, che in sostanza equivale ad una storia “morta”, priva di
significato. Scartata ogni ipotesi di ridurre il passato alla ‘storia antiqua-
ria’, lo studio della storia si configura diversamente, rivelandosi come una
ricerca di qualcosa di altamente significativo per il presente. I documenti
del passato appaiono allora come oggetti di conoscenza necessari a vive-
re l’attualità24.
Da tale punto di vista, pertanto, uno storicismo inteso come ‘storia cri-
tica’ ha una sua fondata ragione d’essere se riesce ad individuare effetti-
vamente non solo gli antefatti, ma le ragioni della continuità. Dunque,
vanno considerati non solo i precedenti, gli antichi fatti, ma anche le azio-
ni successive agli eventi passati, che dunque non possono essere enfatiz-
zati sino a negare qualsiasi idea di un divenire (costituito da cesure, da
involuzioni e da riprese di progresso)25. E soprattutto lo storicismo, e piú
in generale la storiografia, non deve fungere da giudice per assolvere o
condannare il passato, ma deve cercare di comprenderlo. Solo entro que-

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Massimo Sabbieti

sti suoi limiti criticamente definiti la conoscenza storica compie allora


davvero un’opera chiarificatrice, mediando tra passato e presente, e
ponendosi come la condizione indispensabile per un’azione efficace nella
storia.
Al termine di questo rapido excursus, è lecito domandarsi quale sia oggi
la valutazione che viene data dello storicismo. Sino a che punto si è fatto
tesoro di due secoli circa di controversie interpretative sul significato della
storia? Le correnti odierne sembrano non escludere affatto che lo storici-
smo possa venire assimilato al sapere scientifico, alla conoscenza positiva
dei fatti, eventi e dati storici26. Resta però da chiedersi se la storiografia
attuale abbia davvero superato il pericolo di immedesimarsi nella ‘storia
monumentale’ o nella ‘storia antiquaria’.
Respinta la considerazione della storia come regno dei valori assoluti,
affermatasi cioè una visione piú “critica” della storia, non si sono tuttavia
sciolti tutti i nodi problematici. Anzi, si è ribadita ancora una volta l’im-
portanza della componente individuale-discrezionale nel modo di intende-
re il compito dello storico27. Fino a che punto si può allora evitare il peri-
colo di ricostruzioni arbitrarie, soggettive, qualora si riesca a cogliere
effettivamente ciò che di valido ci può essere nella storia passata per gui-
darci nel presente28? Una risposta potrebbe essere che la conoscenza sto-
rica (non diversamente, d’altronde, da tutta la conoscenza nel campo delle
scienze dell’uomo) deve farsi scienza, ma non solo e non tanto generaliz-
zando fatti e comportamenti, bensì cogliendo la pluralità di modi di esse-
re, operando classificazioni, riconoscendo una complessità di concrete
individuazioni.
D’altro canto, anche nella storia come scienza oggettiva dei fatti storici
non si deve meramente appiattire l’essenza del passato solo su alcuni
aspetti o modelli, ma evidenziare appunto la diversità di ognuna delle mol-
teplici esperienze che la costituiscono. In questa ricostruzione della ‘plu-
ridimensionalità’ della storia indubbiamente lo storico opererà le sue scel-
te, evidenziando cioè la sua libertà di valutazione e di giudizio su quelle
che gli sembrano le epoche e le esperienze piú significative29. Nondimeno,
farà opera di scienza se non pretenderà di ridurre ad un denominatore
comune tutte le vicende, le epoche, i singoli momenti e protagonisti.

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La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

Non si ha una scienza storica, viceversa, laddove in nome di presunte


filosofie della storia si riduce il passato ad un solo processo, ad un unico
aspetto o principio guida. Alla luce di tutto ciò, appare in definitiva assur-
da la pretesa - piú volte avanzata nei secoli e sempre con effetti disastro-
si - di misconoscere il valore della storia e di voler fare “tabula rasa” del
passato per ricreare da zero una “società perfetta”.
In tal senso, come si è detto, le stesse rivoluzioni o comunque le forme
di lotta che operano nella direzione di rinnegare radicalmente il passato
non possono apportare alcun beneficio alle generazioni future. E questo
proprio perché la storia è un tassello di eventi ed esperienze che manife-
stano in ogni tempo e luogo un certo grado di coesione, di interdipenden-
za fra gli eventi, di organicità fra i periodi. Tutti aspetti di una complessi-
tà che solo in un moderno spirito indagatore si può esprimere nella com-
plessa trama di fasi di conservazione e fasi di progresso, momenti di cesu-
ra e di retrogradazione e momenti di avanzamento.
Al di là di generalizzazioni, di universalismi senza senso e senza fonda-
mento, lo storico non deve dunque insistere nel cercare di dimostrare che
le vicende dei singoli popoli convergono verso un solo tipo di organizza-
zione sociale o modello di esistenza. Piuttosto, deve avvalorare il concet-
to di riconoscere l’infinita gamma di possibili diversità nel modo di esi-
stere politicamente e storicamente. Precisato questo sostanziale riconosci-
mento della diversità, lo storico non deve comunque rinunciare a descri-
vere quell’aspetto, quel periodo, quel contesto che gli appaiano degni di
analisi e di studio piú di altri. Il superamento della riduzione soggettivisti-
ca della storia ad un solo tipo non significa rinunciare a classificare secon-
do criteri soggettivi uno piuttosto che un altro contesto di questa realtà
umana riconosciuta nella sua ineliminabile ed insopprimibile complessità
e varietà. Sotto questo profilo, piú che sulla pretesa di una storia univer-
sale, lo studioso della storia dovrà cimentarsi nella ricerca dei caratteri di
differenziazione fra le epoche storiche individuandovi quelle peculiarità
che non dovranno comunque mai essere motivo di esclusione, negazione
o subordinazione di tutti gli altri modi di essere che storicamente si sono
realizzati.

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Massimo Sabbieti

NOTE

1 François VOLTAIRE, cit. da Friedrich MEINECKE, Le origini dello storici-


smo, Firenze, Sansoni editore, 1954, pp. 70-71.
2 Fulvio TESSITORE, La questione dello storicismo, oggi, Soveria Mannelli,
Rubbettino Editore, 1997, p. 24.
3 Fulvio TESSITORE, Comprensione storica e cultura, Napoli, Guida Editori,
1979, p. 444.
4 ID., La questione dello storicismo, oggi, cit., p. 70.
5 Sergio PISTONE, Storicismo in: N. BOBBIO-N. MATTEUCCI-G. PASQUI-
NO, Dizionario di politica, Torino, Utet, 1983, pp. 1156-1157.
6 Ibidem, p. 1157.
7 Friedrich NIETSZCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. A cura
di S. Giametta. Milano, Adelphi Edizioni, 1973-’74, pp. 271-272.
8 Ibidem, p. 272.
9 Ibidem, p. 288.
10 Ibidem, p. 295.
11 Vincenzo CUOCO, Sullo studio dell’antichità, in Scritti giornalistici 1801 –
1815, vol. II. A cura di D. Conte-M. Martirano, Napoli, Fridericiana, 1999, p. 120.
12 ID., Sulla preminenza dei costumi sulle leggi, in: Scritti giornalistici, cit., p.
484.
13 Sulla questione costituzionalista, vedere in particolare il saggio di P. PASTO-
RI, Influssi classici e referenti al costituzionalismo anglosassone nel ‘Saggio sto-
rico sulla rivoluzione napoletana del 1799’ di Vincenzo Cuoco, in “Annali di
Storia moderna e contemporanea”, VI (2000), n. 6, pp. 91-171.
14 S. PISTONE, Op.cit., p. 1158.
15 Ibidem, pp. 1158-1159.
16 F. MEINECKE, Prefazione a: Le origini dello storicismo, cit., p. 10.
17 F. TESSITORE, La questione dello storicismo, oggi, cit., p. 22.
18 Carlo CURCIO, L’ostetrica del diritto (Note per la storia del concetto di rivo-
luzione), “Rivista Internazionale di Filosofia del diritto”, X (1939), fasc. VI,
pp. 720-754.
19 Ernst TROELTSCH, Geschichte und Metaphysik, 1898, cit. in: ID, Etica, reli-
gione, filosofia della storia, a cura di Giuseppe Cantillo, Guida Editori, Napoli,
1974, p. 24.
20 E. TROELTSCH, Lo storicismo e i suoi problemi, 1922, cit. da: F. TESSITO-
RE, La questione dello storicismo, oggi, cit., pp. 13-14.
21 Benedetto CROCE, Teoria e storia della storiografia. A cura di G. Galasso,
Milano, Adelphi Edizioni, 1989, p. 62.
22 Wilhelm HUMBOLDT, Il compito dello storico. A cura di Fulvio Tessitore,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1980, p. 95.

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La discontinua linearità del progresso quale costante della critica storica

23 “Noi siamo prodotto del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt’in-
torno ci preme.[…] Come metterci di sopra del passato, se vi siamo dentro, ed esso
è in noi?” (Benedetto CROCE, La storia come pensiero e come azione, Bari,
Laterza & Figli, 1965, p. 31).
24 Ibidem, p. 7.
25 Ibidem, p. 38.
26 F. TESSITORE, La questione dello storicismo, oggi, cit., p. 24.
27 Va da sé che un’incidenza di fattori soggettivi è qui come in ogni altra disci-
plina inevitabile, e già Humboldt aveva sostenuto, a ragione, che “[…] l’accaduto
è individuabile solo parzialmente, il resto occorre percepirlo, dedurlo, intuirlo”, ed
intuendolo si finisce spesso anche per travisarlo (W. HUMBOLDT, Il compito
dello storico, cit., p. 119).
28 Nell’Ottocento, Droysen aveva dissolto ogni dubbio al riguardo. “Per l’inda-
gine storica il dato non sono le cose passate, giacché esse sono passate, bensì quan-
to di esse nello hic et nunc non è ancora tramontato, sia che si tratti di ciò che fu
ed avvenne, sia di avanzi di ciò che è stato e avvenuto. Ogni punto del nostro pre-
sente è divenuto [...]” (J. G. DROYSEN, Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e
Metodologia della Storia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 340).
29 Su questo punto, un valido referente si ritrova nuovamente in Humboldt, che
a ragione afferma: “Se gli manca quella libertà di visione, lo storico non è in grado
di cogliere tutta l’estensione e profondità degli avvenimenti; se invece non possie-
de la delicatezza moderante, non può che violarne la verità semplice e vivente” (W.
HUMBOLDT, Il compito dello storico, cit., p. 140).

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