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Fabio Sorrentino

LA VIA EROICA
DEL
SANGUE
Memorie di ogni singolo colpo
A Furio Durando,
con gratitudine.

They'll try to push drugs


That keep us all dumbed down and hope that
We will never see the truth around
They will not force us
They will stop degrading us
They will not control us
We will be victorious

Uprising - The Muse


(The Resistance - 2009)

Titolo dell'opera: LA VIA EROICA DEL SANGUE - Memorie di


ogni singolo colpo
Copyright © 2018 by Fabio Sorrentino
Realizzazione Grafica: © Fabio Sorrentino & Maria Barbato
Tutti i diritti riservati.
INCIPIT

Taras,
322 a. C.

Me lo portano al calar del sole, quando il gymnasion è ormai vuoto


ed Eretra ha appena iniziato a fare le pulizie.
Mi giro un attimo indietro, mentre con la pala sto appianando la
sabbia della skamma, e distinguo le loro sagome oltre l'architrave
dell'ingresso, contornate dai barbagli sanguigni del tramonto.
Non ho sentito le voci.
Ormai di spalle è quasi inutile provarci.
Sospiro appoggiandomi al fusto del badile e li guardo avvicinarsi.
Damacete incrocia i miei occhi e solleva appena il mento.
Ha un braccio posato sulle spalle del ragazzo e sembra spiegare
qualcosa a Critodamo, stretto sull'altro fianco del giovane.
Ho afferrato il labiale.
Sta provando a ingrassare ancora il prezzo.
Se quel padre non fosse così ottuso, gli direi il profitto del bastardo
sul vitto e l'alloggio e gli rivelerei quanto costa realmente un mese
di retta in questo buco.
E a Damacete farei sommare le spese mediche a quanto già gli
devo, nel caso si azzardasse a fiatare.
Ma il tipo è più sordo di me nella testa, per quanto convinzione e
denaro gli abbiano preso a pugni i pensieri, e mi ricorda troppo il
mio vecchio per provarne benevolenza.
Del resto, Tersiloco ha la stoffa del campione, ripeteva nell'agorà,
indicando il piedistallo della mia statua, e deve essere seguito dal più
grande pugile nella storia della Magna Grecia.
«Eccoci, pugno degli dèi», saluta stentoreo il mio strozzino, «ti
abbiamo portato il futuro Teogene di Taso».
Il suo sorriso posticcio cozza con il palese imbarazzo del giovane e
perfino il ricco aristocratico Critodamo si schiarisce la gola a quella
insulsa affermazione.
Senza un cenno di benvenuto, porgo la pala al ragazzo e gli dico di
posarla accanto alla rastrelliera dei pesi.

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Suo padre mi fissa basito.
Chissà quale discorso si aspettava nel giorno della sua iniziazione.
Impacciato, Damacete prova a raddrizzare l'incontro riassumendo i
costi per la preparazione atletica: il fitto della camera, le spese per
l'alimentazione e il vestiario, la diaria per me e l'aliquota mensile da
versare al gymnasion.
Un gruzzolo cospicuo di cui si farà carico in prima persona, salvo
poi farsi rimborsare dal nobile Critodamo a ogni sua visita a Thurii.
Ho smesso di seguire le sue labbra alla quarta parola.
«Ragazzo», l'interrompo vedendo Tersiloco tornare indietro, «vai
al korykos e inizia a sciogliere le nocche».
Il volto del padre si accende d'improvviso mentre Damacete ingoia
il nodo di bile che gli è salito alla bocca.
Lentamente mi avvicino all'angolo dei sacchi da tiro e gli altri due
mi vengono dietro come cagnolini.
Se questo è il futuro Teogene, io alla sua età ero Herakles senza
saperlo, penso alla quinta doppietta di colpi.
Anche Lamprias, il più scarso del turno diurno, potrebbe suonargli
una bella ripassata per come sta messo.
Il ragazzo è pieno di schiena ma ancora stretto di petto e porta la
testa avanti come una gallina che si avventa sul becchime.
L'allungo non è male ma tira troppo di braccio e solleva la spalla
destra al cielo. La forza impressa dai suoi colpi è ridicola ed è una
miseria perché per la sua età ha già cosce forti. Però i polpacci non
esistono e non mostra alcuna mobilità nelle caviglie.
Il tronco non si flette come dovrebbe, la guardia è così larga che ci
entrerei a pugni uniti e per mostrarsi agile pensa alla velocità e non
ruota appieno i polsi.
«Non devi accarezzarlo», lo rimbecco rauco, «non è la tua donna,
per Ares. Forza, indietro con quel mento e alza le braccia tra una
serie e l'altra».
Tersiloco si volta appena per annuire e s'impegna per fare come ho
detto. Diventando ancora più lento e ridicolo.
Ma è un buon inizio, perché prova a usare le orecchie.
Critodamo invece sembra essersi calato in faccia la maschera truce
di una farsa di Aristopiro e Damacete mi fissa con aria irrequieta,
grattando con le dita sulla tracolla del borsello.
«Allora?», accenna flebile lo strozzino.

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«Voglio il triplo del compenso», taglio corto incrociando i tratti del
nobile di Thurii.
«E' un affronto» ringhia il tipo, «mio figlio dovrebbe...»
«Ricominciare da zero», l'interrompo malevolo mentre mi arrivano
a stento i colpi incassati dal korykos. «Qui si allenano atleti migliori
di lui e nessuno di loro immagina neanche in sogno di calcare un
giorno l'arena dei Pitici».
Critodamo avvampa d'ira e investe Damacete con il livore delle sue
parole. «Avevi detto che era il migliore!», sbraita accigliato, «uno
abituato a riconoscere a prima vista un vincente! Costui è soltanto
un vecchio avanzo gonfio di superbia, un miserabile che approfitta
delle fortune passate, spacciandosi per un grande allenatore!».
Dietro di noi, Tersiloco ha smesso di tirare al sacco.
Ha la testa bassa, le braccia distese lungo i fianchi e le dita ancora
serrate a pugno. L'emblema della sconfitta.
So perfettamente quello che sta pensando adesso e non ho bisogno
di guardarlo negli occhi.
E' la stessa idea che mi ha perseguitato per metà della mia vita.
Senza replicare al padre, mi volto e raggiungo il giovane, fermo in
piedi davanti al saccone di sabbia.
Il mio passo pesante riecheggia nella sala umida e deserta.
«Perché sei qui, ragazzo?», gli chiedo a tre spanne dal suo naso.
Tersiloco inspira a fondo. «Per migliorare la mia arte».
«In te non c'è arte. Te lo ripeto: perché sei venuto qui?».
Serra forte i denti, ferito chissà quanto nell'orgoglio.
«Per imparare a combattere», replica atono.
«Tuo padre vuole farti partecipare ai Pitici?», l'incalzo scorbutico.
«Lo voglio io per primo».
Piego le labbra in una bozza di sorriso. «Bene, allora colpiscimi».
Il ragazzo si stupisce e allunga lo sguardo, cercando il sostegno del
padre e del suo parassita.
«Non pensare a loro!», gli urlo in faccia. «Ora hai davanti a te un
avanzo di pugile che devi mandare a terra. E devi farlo con un solo
colpo, proprio qui sulla mascella. Allora, sei pronto?».
Il giovane è incerto, non sa cosa fare.
«Avanti, Tersiloco», lo sprona Damacete, «tiragliene uno di quelli
buoni!».

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Lo sento sbuffare sdegno dalle narici.
E' umiliato e rabbioso e, quando infine annuisce, i suoi occhi verdi
brillano per un momento di un'intensità animalesca.
Poi fa un mezzo passo indietro, risolleva le braccia nella guardia e
si bilancia appena col torace per trovare il giusto angolo d'impatto.
Il braccio destro schizza avanti fulmineo e le nocche scaricano tutta
la potenza che ha in corpo sulla mia bazza lunga e ingrigita.
Mi sono preparato in tempo e accuso bene il colpo, assecondando
col collo la forza d'urto del suo pugno non ancora indurito.
Stavolta non ha sollevato la spalla e ha accompagnato la botta con
buona parte del corpo.
La mandibola scatta come ogni volta e avverto sulla lingua il sapore
del sangue per la guancia graffiata all'interno della bocca. Mi piego
appena all'indietro col busto e obbligo le ginocchia distrutte a non
cedere di un'unghia.
Una volta erano reattive, adesso scricchiolano a ogni movimento.
Resto in piedi e con un grugnito raddrizzo la testa sputando a terra.
Tersiloco rimane strabiliato. Allo stesso modo di suo padre.
Damacete no, invece. Lui mi conosce da tanto, troppo per credere
che mi sarei offerto col dubbio di fallire.
«La carcassa è ancora qui», annuncio serafico, «e questo colpo non
è sufficiente nemmeno a superare il primo turno dei gironi».
Poi lo strattono per un braccio e lo piazzo dietro al korykos.
«Tienilo forte», gli dico, sfidando con lo sguardo Critodamo.
Mi piazzo al centro, a un passo abbondante dal sacco, e sollevo le
braccia con i pugni a un soffio dalle guance. Quindi gonfio il torace
e mi preparo al mio tocco vincente, il destro ruotato poco sopra lo
stomaco.
Quello che mi ha consegnato l'alloro ai Giochi Olimpici.
Quello con cui ho conquistato 2 Pitici, 3 Nemei e sessantacinque
vittorie nelle finali di altrettante gare elleniche minori.
Senza la frenesia dello scontro e il vigore degli anni passati, il colpo
ha perso metà della sua potenza ma arriva molto più preciso, limato
nell'esecuzione dall'esperienza. Lo schiocco è acuto e riecheggia fra
le pareti del gymnasion insieme al tonfo del ragazzo, steso schiena a
terra e ancora con le braccia aggrappate al korykos, staccato dalla
sua base.

7
«Dèi del cielo!», esclama il nobile di Thurii.
Mentre i due si avvicinano, getto lontano il sacco e aiuto il ragazzo
esterrefatto ad alzarsi dall'impiantito.
«Tre volte il compenso», ripeto irremovibile quando li ho di fronte,
«oppure potete cercarvi qualcun altro che vi faccia da allenatore».
Oltre l'ingresso della palestra, il carminio del cielo si spande sopra
le chiome folte dei querceti.
Do una voce a Eretra, infilo la cappa consunta e m'incammino sulla
via di casa.

Una mano mi sveglia dal sonno.


Apro gli occhi e sento la testa pesante come una chiatta da carico.
«Stanno buttando giù la porta», mormora agitata la serva.
Strizzo le palpebre e mi libero dalle coperte. «Torna a dormire», le
dico, «ora vado io». Mi tiro su dal letto e mi avvicino all'impannata
della mia stanza mentre lei esce con aria preoccupata.
Fuori e buio pesto e le raffiche di pioggia martellano sui legni del
tetto come se volessero scioglierli. Mi metto addosso uno straccio
ed esco dalla camera, oscillando come sul ponte di una galea.
Maledetto vino scadente e maledetto me che ci ricasco ogni volta.
Nella stretta corte, l'acqua viene giù a secchiate e il freddo azzanna
ogni lembo di pelle scoperta. Cammino rasente al muro e afferro il
primo ramo dalla catasta di legna nell'angolo.
Chiunque sia là fuori, è incappato nella nottata sbagliata.
Supero l'androne in penombra e arrivo al breve corridoio
dell'ingresso. «Chi è?», chiedo stentoreo.
Il bussare insistente continua, accompagnato da una voce ovattata.
«Cerco la casa di Mys. E' questa?».
Stringo meglio il legno sfrondato nella destra.
Tutti nei dintorni della Soteira e nella città bassa sanno dove vivo.
«Chi devo annunciare?», replico scuotendo il capo per riprendere
lucidità.
«Il nuovo ragazzo del gymnasion. Lui capirà».
Sfilo il paletto dietro l'uscio e spalanco il battente.
E' lui, inzuppato come se fosse caduto dai moli del Mare Piccolo.
«Che ci fai qui, per Artemide?», impreco rauco.

8
Tersiloco si asciuga il viso, muovendo un passo avanti. «Posso?».
Mi tolgo dall'ingresso e gli faccio segno di entrare.
Quindi poso il bastone nodoso e mi richiudo la porta alle spalle.
Attende nel corridoio, creando una pozzanghera ai suoi piedi.
Col mento gli indico l'interno e lui mi precede nell'androne.
Accendo un'altra lucerna per vederci qualcosa e gli faccio segno di
sedersi al tavolo.
«Che ti è successo?», domando mentre si accomoda.
Il ragazzo si strofina i riccioli bagnati. «Nulla. Dovevo parlarti».
Lo guardo come se fosse pazzo. «La notte dormo. Torna domani».
«Domani non mi avresti trovato. Rientro a Thurii. Volevo dirtelo di
persona».
Ci sto capendo poco ma non è colpa del vino.
Anzi, quello forse potrebbe aiutarmi.
«Sei arrivato stamattina e domani riparti», riassumo riempiendo la
brocca sul desco dall'anfora poggiata alla parete. «Che c'è?».
Tersiloco si morde il labbro inferiore. «Niente preparazione e non
toccherò mai più un korykos in futuro».
Inizio a capire. Ho perso un cliente prima ancora che iniziasse.
Un cliente ricco che avrebbe riempito le mie tasche sdrucite.
Lo osservo tra lo stranito e l'incredulo. «Era il tuo gemello quello
di oggi pomeriggio nel gymnasion?».
«Cosa?».
«Al tramonto ho parlato con un giovane che voleva sconfiggere il
mondo e certo non può essere lo stesso che a mezzanotte ha deciso
di abbandonare».
Il ragazzo abbassa lo sguardo, tirando su col naso. «Il tuo colpo...»,
sussurra imbarazzato, «mi ha folgorato. Anche se vivessi cento vite
non riuscirei mai a sferrare un pugno come quello. E' da quando
sono uscito dalla palestra che ci rifletto e alla fine mi hai convinto.
Avevi ragione. Io non ho alcun talento in questa disciplina».
Lo fisso negli occhi verdi.
Sono grandi e bruciano di passione e rabbia.
Lui non ha deciso niente fino a quando non lo farò io.
«Il difetto peggiore per un pugile è avere talento», replico atono.
«Le più grandi delusioni sulla skamma vengono tutte da lì».
Tersiloco resta in silenzio, lo stupore dipinto in viso.

9
Afferro un altro bicchiere dalla madia, poi mi siedo e glielo porgo
insieme alla brocca. «Già, ragazzo. Le sconfitte più tremende cui
ho assistito sono state subite tutte da atleti considerati fenomeni,
stilisti puri, quelli dalla classe adamantina».
Sospira.
L'ho agguantato. Ho ancora il suo desiderio tra le mani.
Allora faccio un passo indietro ed esito per un istante.
«A ogni modo, se non te la senti fai bene a smettere».
«Il pugilato è la mia passione, la mia ragione di vita e non posso
pensare a un giorno senza sentire sui polsi il morso degli oxys», si
libera d'un fiato, «ma finora ho vinto solo la metà degli incontri che
ho disputato. Sono solo un mediocre, uno fra i tanti ostinati senza
speranza».
Riabbassa la testa e si versa da bere, ingollando la sua amarezza
insieme alla posca rancida che gli ho offerto.
Ho davanti il me stesso di cento vite passate. Il fanciullo dimesso e
insicuro che entrava per la prima volta nell'Agelaia di Clearco.
«Se è così, allora non hai perso abbastanza», valuto serio. «Ecco il
tuo problema».
Tersiloco indurisce i tratti in una smorfia d'incomprensione.
«Sta' a sentire, ragazzo. E' vero, in te adesso non c'è arte e forse
potrai scavare quanto vorrai senza cavarne mai un ragno dal buco
in fatto di tecnica e di tattica, ma potresti scoprire di avere cuore. E
quella è la reale arma di un vincitore».
Il giovane inspira a fondo e prende un altro bicchiere di vino. Poi
mi lancia un'ultima occhiata vacua e si alza di scatto, passandosi
una mano fra i capelli. Si volta e si avvia verso l'uscio.
Ecco. Ha appena alzato la guardia e lo sto perdendo.
«Dove vai?», l'incalzo duro.
«Grazie per il vino e l'incoraggiamento», replica a mezza voce, «e
scusami per averti disturbato in piena notte. Se passerai per Thurii,
prometti di venire a trovarmi».
Lo seguo con gli occhi mentre passa sotto l'architrave dell'androne
e s'immerge nella penombra del corridoio.
Se esce da questa casa in questo modo avrà alzato definitivamente
l'indice destro.

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Lascio la sedia e gli vado appresso, agguantandolo per un polso a
un passo dall'uscio e strattonandolo indietro. «Quanti anni hai?»,
gli ringhio addosso.
Il ragazzo cerca di divincolarsi. La mia reazione l'ha confuso.
«Perché?», ribatte.
Lo spingo di nuovo verso l'androne. «Quanti!».
«Diciotto da un mese», risponde quasi stizzito.
«E quanti incontri?». Intanto lo riporto nella sala.
«Venti, ma perché?!», domanda di nuovo mentre i nostri sguardi si
incrociano.
«Siediti», gli ordino arrochito.
La brocca tintinna sonora quando gliela sbatto davanti.
Sono accanto a lui, sopra di lui, e lo domino con tutta la mia figura.
«Adesso voglio che tu mi osservi bene in faccia», gli impongo,
piegandomi in avanti e portando il mio viso a una spanna dalla sua
fronte. «Che cosa vedi?».
Tersiloco aggrotta le sopracciglia con aria riflessiva.
Lo scrosciare forte della pioggia annulla ogni rumore intorno.
«Il volto del campione che troneggia nell'agorà di questa città»,
replica serio. «I tratti immortali della vittoria».
Sbuffo e in un attimo incenerisco l'immagine che ha creato di me
nella sua mente. «Stronzate. Guarda davvero».
«Non capisco», si schermisce istintivo.
E' il momento. Devo colpire forte, ora.
«E allora farai bene a mollare tutto perché sei un imbecille!», gli
strepito addosso. «Tu vedi un naso spezzato sette volte in tre punti,
completamente deviato a sinistra, uno zigomo fracassato quattro
volte e calcificato male, un labbro inferiore maciullato all'infinito,
un incisivo e due canini mancanti, due sopraccigli martoriati dai
tagli, una fronte con il ricordo di dieci interventi di sutura e dei
cavolfiori al posto delle orecchie. Ecco cosa c'è davanti a te».
Riacquisto fiato per il lungo elenco e gli do il tempo di riprendersi.
«Vai nella piazza, scala il basamento di quella maledetta scultura e
girale intorno: ti accorgerai di quanti inserti rosso sangue sono stati
sbalzati nel bronzo».
Mi risiedo al mio posto, fissando la sua espressione da sopra l'orlo
del bicchiere che porto alla bocca.

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«Che vuoi dire?», prova a capire il giovane. «Tu sei il grande Mys
di Taras, il più famoso pugile nella storia della Magna Grecia. Tu
sei il pugno degli dèi!».
«Quella statua è un'enorme bugia», sentenzio piatto, «un quarto di
clessidra alla luce abbacinante del sole in una vita intera trascorsa
nell'ombra, in mezzo al tanfo e all'umido».
«Non ci credo, non è possibile», mormora incerto. «Solo ai migliori
è tributato l'onore imperituro di un monumento».
«Allora prendi una mazzola e fracassalo», gli sussurro di rimando,
«perché io non ho vinto nulla fino ai trenta».
Stavolta è caduta. Glielo leggo in faccia.
Ho sentito il tonfo della sua paura.
Lo spezzarsi delle catene che imprigionavano i suoi pensieri.
Gli ho strappato dal cuore ogni triste convinzione e ho ravvivato la
sua speranza snudandogli la squallida realtà della mia vita.
«E adesso fila», aggiungo con l'aria di chi si sente inerme. «Questo
buco gocciolante è troppo piccolo per due carcasse di skamma».
Nel silenzio che spegne le mie parole, la pioggia continua a farla da
padrone lì fuori.
Tersiloco mi fissa con aria assorta, quindi si alza e annuisce appena.
Ora andrà via e domani mattina all'alba sono sicuro che lo troverò
seduto sui gradini del gymnasion.
Ma invece resta dov'è, in piedi, e la mano destra si dilegua sotto la
clamide ancora fradicia per poi riapparire due respiri dopo con una
scarsella fra le dita.
«Tutto quello che ho», soggiunge convinto, facendo tintinnare la
saccoccia. «Tutto in cambio della verità».
«Quale verità?», gli chiedo in un velo d'esitazione.
«Quella sulla tua storia. Fin dall'inizio. La memoria senza filtri di
ogni singolo colpo».
Domando a quanto ammonta il gruzzolo.
«All'incirca tre mesi di compenso, considerando il triplo della tua
diaria».
Stavolta sono io a inspirare a fondo.
Che rimanga o meno per la sua preparazione, quei soldi basteranno
a togliermi una buona fetta di debiti dal groppone.

12
Mi gratto la barba grigia, tentenno e alla fine gli indico il braciere
ormai spento al centro dell'androne.
«Affare fatto. Ora ravviva i tizzoni e avvicinatelo prima che l'alba ti
trovi tremante per la febbre su quella sedia...».

13
Capitolo 1

Sono nato nell'anno in cui agli Olimpici vinsero Damone di Thurii


nello stadio e Labace di Lepreo nel pugilato.
Lo stesso durante il quale Spartani e Ateniesi si fronteggiarono sul
mare davanti a Naxos.
Anche mio padre Agatocle prese parte a quella battaglia.
E se non fosse stato per lui, in Magna Grecia nessuno avrebbe mai
saputo che Taras aveva onorato la chiamata della madrepatria.
La storia è lunga e da bambino l'ho ascoltata tante di quelle volte
da averne la nausea. Quindi ti risparmierò gli infiniti dettagli.
Ti basti sapere che delle sessantacinque triremi al comando di
Polide di Amicle, cinque erano partite dai moli del Mare Grande e
alla barra del timone della loro capitana era stato messo il mio
vecchio, eletto primo locago marino per l'occasione. In pratica, i
Pritani gli avevano appioppato l'incarico ma senza concedergli il
passaggio di grado. Quello sarebbe arrivato al rientro da vincitore.
Per fartela breve, dopo un primo frangente di successo, il navarca
spartano fu sopraggiunto dal grosso della flotta ateniese sul suo lato
destro e quei figli di buona donna gliele suonarono così forte che il
grande spartano vide inabissarsi trentotto delle sue galee in mezza
mattinata. Cabria, lo stratego nemico, fu così intrepido da attaccare
direttamente l'ammiraglia dei Lacedemoni e riuscì a speronarla.
Spacciato e accerchiato da tre galee ateniesi, Polide si gettò in mare
per non finire nelle loro mani e fu allora che le cinque navi di Taras
diedero spettacolo. Mio padre si fiondò sugli assedianti e li aggredì
con tale foga da affondarne tre e squarciare a dritta di prua lo scafo
dello stesso Cabria. Poi recuperò il generale spartano e lo scortò in
salvo all'asciutto. Gli Ateniesi, cinedi spergiuri, riportarono che il
loro eroico navarca aveva preferito lasciare a galla ciò che restava
della flotta sconfitta per mettere in salvo i suoi naufraghi.
Mio padre disse che nessuno dei caduti in acqua rivide più la riva e
che il navarca di Atene fu il primo a lasciare la sua capitana mentre
questa imbarcava acqua e s'impennava rapida a tribordo di poppa.
Comunque la Storia la scrive chi vince oppure quelli che traggono
vantaggio nel raccontarla.
Di Polide non si seppe più nulla in patria.

14
Io però ricordo che mandava ancora lettere a mio padre dieci anni
dopo il suo esilio dalla Grecia.
Gli efori annunciarono che era caduto in battaglia, a bordo della
sua ammiraglia e con il mondo ovviamente negarono sempre la
presenza di navi di Taras nello scontro navale.
Anche gli Ateniesi furono concordi a cancellarci dalle memorie.
Le cinque galee del locago Agatocle erano state le uniche a fargli il
culo viola e a mandare a picco il vittorioso Cabria.
Meglio condividere il punto di vista del potente nemico sconfitto.
A Taras, però, gli uomini al comando di mio padre furono accolti
come figli eroici e lui come un valoroso capitano.
Tanto che gli fu assegnato un seggio fisso nel Pritaneo e il rango di
ipparco per un quinquennio.
All'epoca, mio fratello Bias aveva sette anni e mia sorella Calliope
non era altro che un desiderio celato nel cuore di mia madre.
Lei si chiamava Euridice ed era originaria di Locri Epizeferi.
Conobbe l'intrepido ambasciatore Agatocle durante una cerimonia
in onore di Hera e prima della partenza della delegazione tarantina
i due si erano già promessi amore eterno.
Peritas, mio nonno materno, era un veterano dell'esercito che si era
messo in mostra durante gli anni della guerra tra il feroce Dionisio
I e la lega italiota e gestiva le pese di tutti i mercati cittadini.
Dicono che da giovane riuscisse a intontire un bue con un cazzotto.
Un tipo coriaceo, insomma, ma soprattutto uno sveglio e praticone.
Prima dell'incontro ufficiale, s'informò su chi fosse mio padre, da
quale famiglia provenisse e quale futuro avesse nella politica della
ricca alleata Taras. Perciò acconsentì subito al loro fidanzamento.
Quando avevo cinque anni, la mia famiglia si spostò nella casa dove
sono cresciuto. Era grande e luminosa, eretta su due livelli a pochi
passi dall'acropoli, e aveva una corte con peristilio tanto spaziosa
da poterci allestire una festa con cento invitati.
Avevamo sette camere da letto, un gineceo, due sale da pranzo, un
soggiorno, una cantina e addirittura la scuderia per i cavalli.
La nutrice impazziva quando la obbligavo a giocare a rimpiattino.
Anche i servi non mancavano.
Con noi ce ne erano sette ma quasi il doppio lavorava nella fattoria
che avevamo fuori città, poco a nord di Porta Temenide.

15
Mio padre li teneva con polso di ferro e quando sorgeva qualche
problema il primo a essere battuto era Callisto - il loro intendente -
anche se per nostra fortuna accadeva assai di rado.
Da bambini, io e Bias amavamo trascorrere le giornate al casolare
di campagna. Era solido e ben tenuto, con tre stabbi per gli animali
e un alto deposito per gli attrezzi, il fieno e il raccolto, e si trovava
giusto al centro dei quasi cinque ettari di podere.
Il mio vecchio faceva in modo di passarci quasi tutti i giorni e quel
terreno fruttava come una vacca dalle mammelle inesauribili: orzo,
vino, olio, legumi, fichi e tutto ciò che di stagione in stagione si
poteva piantare. E poi avevamo maiali, pecore, galline e conigli.
L'occhio del padrone ingrassa il vitello, ci ripeteva Agatocle, e devo
ammettere che fino a quando fu in vita la rendita della fattoria fu
sempre cospicua e lui seppe rinvestirla nel tempo, mettendo su un
commercio di tessuti, gioielli e ceramiche così fecondo che in breve
triplicò l'ammontare dei suoi guadagni. Credo che già solo con il
suo stipendio da ipparco - quasi duecentocinquanta stateri mensili -
avremmo potuto ritenerci benestanti. Ma i desideri di mio nonno,
morto da semplice cavaliere, si erano trasformati in ossessioni nella
mente del suo primo figlio e così mio padre aveva profuso ogni sua
energia nel rincorrere quella ricchezza che gli consentisse di entrare
a far parte dell'aristocrazia di Taras.
E ci riuscì, ignaro di quanta sventura possa arrecare la disponibilità
tra le mani di un ambizioso dissennato e privo di ogni valore.
Ero un marmocchio di quattro anni allorché mia madre diede alla
luce Calliope. Qualcosa ricordo ancora, almeno credo.
Una casa addobbata interamente di giallo, un corteo di flautisti e
uno stuolo di amiche di famiglia con cesti colmi di regali. Nel lungo
banchetto di festeggiamento ruppi un vaso corinzio del salone e mi
salvai dai ceffoni di Agatocle solo perché era troppo ebbro di gioia.
L'arrivo inatteso di mia sorella rallegrò tutti.
Oltre a essere bella come la musa di cui portava il nome, Calliope si
rivelò da subito una bambina dolce, solare e piena di vitalità.

16
Le ancelle facevano a gara per prendersi cura di lei ma Euridice era
così gelosa di quel tesoro dai riccioli biondi che preferiva accudirla
di persona, inondandola col suo amore profondo. Perfino il severo
Agatocle si scioglieva davanti ai sorrisi graziosi di quel germoglio di
ninfa. E lei aveva davvero il temperamento di una piccola Oreade.
Non appena imparò a camminare, Calliope divenne la mia ombra e
mi obbligò ad essere il suo compagno di giochi. Spesso sgattaiolava
via dal gineceo e me la ritrovavo dietro quando uscivo in strada con
gli amici e non c'era verso di farla rientrare se non l'accompagnavo
di persona. Con Bias invece è sempre stata più distante, vuoi per la
grande differenza d'età o perché fin dall'inizio era riuscita a sentire
quale fosse la sua reale natura. Semplicemente, lui non se ne curava
e a lei nemmeno interessava. Del resto, ci sono fratelli e fratelli.
A sei anni fui colpito da una febbre alta che mi inchiodò a letto per
quasi venti giorni. Vomitavo e cacciavo sangue dal naso ma il viavai
di medici che entravano e uscivano dalla mia casa non era in grado
di trovare né la causa né la cura a quel malessere. Arrivai a pesare la
metà e mia madre piangeva disperata, strappandosi i capelli all'idea
di doversi rassegnare a perdere uno dei suoi figli.
Solo la caparbietà di Agatocle mi sfilò dalle grinfie di Caronte.
Dopo aver ascoltato invano tutti i dotti pitagorici della città, il mio
vecchio chiese l'intervento di Archita in persona e questi compì il
prodigio di liberarmi dalla malattia.
A quel tempo era ancora un uomo prestante, era già uno dei più
influenti membri del Pritaneo e si apprestava ad accentrare su di sé
l'intero potere politico di Taras per quello che sarebbe stato quasi
un ventennio. La mia nutrice mi raccontava sempre che arrivò sul
fare del tramonto, scortato da un servitore e da tre discepoli della
sua accademia. Mi fece spogliare, mi auscultò il petto e mi esaminò
con una lente speciale ogni lembo del corpo fino a che non
mormorò qualcosa ai suoi accompagnatori. Questi allora uscirono
dalla mia camera chiudendosi la porta alle spalle e imposero ai
familiari di non entrare per nessun motivo, poi lasciarono in fretta
la casa per ritornare solo dopo con le pozioni che gli aveva ordinato
il loro maestro.

17
Quando Archita riaprì il battente si trovò di fronte il viso rigato di
lacrime di Euridice. «E' di origine palustre, causata dal morso di un
tafano», le rivelò flemmatico, tendendole l'involto con i medicinali.
«Sopra ogni tappo c'è scritto come deve assumerle. Sii scrupolosa e
non fare avvicinare gli altri fratelli al suo letto».
Mia madre gli afferrò le mani e stava per aprire bocca ma il grande
studioso l'anticipò con aria austera. «Se il cuore sopporta, la cura è
trovata e potrà farcela. Ma sappi che il corpo ne uscirà distrutto».
Poi, rapido com'era apparso, il pitagorico andò via rifiutando ogni
tipo di compenso. «L'amicizia è nella condivisione del bene», disse
a mio padre che lo ringraziava sull'uscio di casa. «Adesso siamo più
amici di prima, ricordalo in futuro».
Mi ci volle un altro mese per rimettermi in piedi.
Ridotto a pelle e ossa, ero l'ombra del bambino vispo di prima.
Niente più visite alla fattoria, niente più compagni di giochi tra le
vie dell'acropoli. Fui recluso in casa per non so quanto, in attesa
che il mio fisico riacquistasse il vigore e le energie che il morbo mi
aveva prosciugato. Solo quando le giornate erano particolarmente
miti, Euridice consentiva a uno dei servi di scortarmi alla spiaggia
per godere di una mezza mattinata all'aria di mare.
Immagina cosa significhi questo per un fanciullo.
A ogni obolo di carne che riprendevo a fatica, diventavo più spento
e triste.
Una sera, qualche tempo dopo, sentii la voce inasprita di Agatocle
che a cena scoraggiava l'insistenza nelle obiezioni di mia madre.
«E' per il suo bene, vuoi capirlo? E' gracile, insicuro. L'opposto di
suo fratello maggiore. Deve andarci per forgiarsi. E ci andrà!».
Quella stessa notte, mio fratello Bias entrò nella mia camera e posò
sul comodino una tazza fumante, piena fino all'orlo di una mistura
di carne a pezzettini galleggiante in una densa poltiglia scura.
«Cos'è?», ricordo che gli domandai mentre mi mettevo a sedere fra
le coperte.
«L'ho fatto preparare apposta per te. Mangia».
Ne annusai l'odore pungente e titubai.
Bias incrociò le braccia sul petto, accigliato. «Avanti, butta giù».
Assaggiai il primo boccone e d'istinto lo sputai a terra, scuotendo la
testa a occhi chiusi. Aveva un orrendo sapore acidulo.

18
Mio fratello rise di gusto e si piegò in avanti con aria soddisfatta.
«Abituati a finirlo tutto. Fra non molto sarà il tuo pasto fisso».
Lo guardai incredulo. «Che dici! Che cos'è questa porcheria?».
«La zuppa nera degli Spartani. Ciò che ti serviranno ogni giorno
nell'Agelaia, il campo di addestramento di Clearco».

Se vuoi conoscere il luogo dove tutto è cominciato devi recarti nel


quartiere dei ceramisti, a monte di Porta Rinoplia, e dalla statua di
Hermes devi imboccare la piccola stradina che salendo s'infila nella
Bateia. Da lì, seguendo la larga arteria, ti troverai proprio alle spalle
dell'angolo meridionale dell'agorà e di certo noterai di fronte a te
un grande edificio con le finestre del secondo piano tinte di rosso.
Adesso non è granché come struttura ed è adibito a foresteria per
le truppe mercenarie - negli anni ha ospitato parte dei sacrileghi di
Archidamo e dei prezzolati epiroti di Alessandro il Molosso - ma ti
assicuro che c'è stato un tempo in cui era una costruzione mirabile
per linee e interni e se le passavi accanto potevi percepire un senso
di austero potere. Il proprietario, o per meglio dire chi ne pagava la
concessione al Pritaneo, è morto quasi venti anni fa, senza moglie e
privo di eredi, e gli illustri partecipanti all'Assemblea impiegarono
forse due o tre alzate di mano per decidere di cancellare tutto ciò
che di buono aveva realizzato quell'uomo e rimettere nuovamente a
guadagno il fabbricato.
Mio padre mi ci accompagnò appena compiuti gli otto anni e per i
successivi sette quella specie di internato divenne la mia casa.
Era l'Agelaia di Clearco.
Là dove entravi sterco e uscivi bronzo.
Quando io arrivai, la sua struttura ospitava ventiquattro allievi e
aveva tre inservienti a stipendio. Fu il periodo di massima attività in
tutto l'arco della sua trentennale esistenza.
Per ognuno di noi, il maestro percepiva una retta mensile di cento
dracme e tre moggi d'orzo. Neanche insegnasse con quel Platone di
Atene. Ma ripensando alla mia storia e a quella degli altri che erano
con me, posso dire che gli addestramenti di quel bastardo spartano
valevano fino all'ultima moneta.

19
Clearco aveva poco più di trent'anni, una lunga barba a punta e il
fisico di un Aiace Telamonio. I grandi occhi verdi risaltavano in un
incarnato olivastro e, a memoria di allievo, le sue labbra sottili non
avevano mai mostrato un accenno di sorriso. Indossava il mantello
rosso come fosse una corona, estate e inverno, e il mio vicino di
branda Timone giurava di averglielo visto addosso anche a letto.
A dispetto della sua voce profonda, urlava molto di rado.
Ma in compenso aveva delle mani enormi, dure come il granito, e
preferiva usare quelle per riprenderci quando sbagliavamo.
In giro si diceva che avesse lasciato le sponde del fiume Eurota da
fuggitivo e che i tre coadiutori della scuola fossero in realtà membri
della sua stessa krypteia con i quali aveva commesso il sacrilegio di
accoppare quattro Perieci all'interno del tempio di Apollo.
Condannato a morte dagli efori, aveva deciso di riparare insieme ai
suoi compari al di là del mare ed era sbarcato dapprima in Sicilia e
poi aveva raggiunto l'antica colonia della sua madrepatria.
All'epoca della mia iniziazione fra i suoi scolari, Clearco era ormai a
Taras da un decennio e il suo istituto - se così possiamo chiamarlo -
stava in piedi da poco meno poiché lo spartano, da cervello fino,
aveva fatto presto a guardarsi intorno e a capire cosa abbondava tra
i suoi nuovi concittadini e ciò che invece scarseggiava.
In due parole, soldi e disciplina.
Ben lontana dalla propria origine, in quel periodo Taras era quanto
mai florida economicamente e potente sotto l'aspetto commerciale.
Tanto che nei discorsi dei vicini era chiamata La Grassa, la Scrofa
d'oro, la Lasciva o peggio L'Ingorda.
Eppure, nelle ville sull'acropoli, durante i simposi dei ricchi patrizi
profumati e inanellati, il nome di Sparta ispirava ancora reverenza e
gonfiava i petti d'orgoglio al pensiero dell'antico lignaggio.
Per questa ragione, i magistrati avevano accolto a braccia aperte la
proposta dell'ospite lacedemone di fondare una scuola formativa
seguendo gli ineccepibili dettami dell'agoghé e non ci volle molto
prima che l'Agelaia di Clearco si popolasse dell'infanzia più titolata
e problematica dell'intera città.
Tuttavia, al maestro questo non importava.
Anche il figlio del mugnaio, se poteva onorare la retta, aveva diritto
a stare accanto al nipote dello stratego.

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«Ho stretto un patto con i vostri padri», ci ammoniva spesso, «e un
Uguale mantiene sempre la parola data, a costo della vita. Perciò
diverrete i migliori della città o schiatterete provandoci tra queste
mura. Siete sempre in mio potere, ricordatelo bene».
Io ero arrivato a metà anno ed ero l'ultimo della nuova classe.
Oltre a Timone, figlio del taxiarca Ippia e che divenne ben presto il
mio migliore amico, nella squadra da otto c'erano anche Damacete,
primogenito di Alcanto - padrone dei tessuti in Magna Grecia -,
Menandro, figlio del cugino del grande Archita, Sofrone di Thurii,
rampollo del polemarco di quella città, Clito il vecchio, Filomelo
ed Eurito il toro, ultimo dei quattro eredi della ricca etera Lamia di
Leontini. Una combriccola di elementi davvero ben assortita.
Il piano d'istruzione dell'Agelaia era tanto semplice da descrivere
quanto incredibilmente arduo da sostenere: sfrondare fino alle ossa
il fanciullo che vi entrava in modo da scoprire tutti i suoi limiti e
punti deboli per poi limarglieli uno a uno con la raspa, aggiungergli
sostanza e compattezza e infine imprimergli a martellate il marchio
indelebile della scuola.
Per fare ciò, lo scultore Clearco e i suoi tre assistenti usavano come
unico strumento un inflessibile regime di educazione e allenamento
fondato sulla più rigida disciplina e sulla cieca obbedienza.
Al terzo mese dall'iscrizione, almeno un paio sull'intero gruppo di
scolari aveva già provato la fuga. Alcune annate però erano migliori
delle altre e si arrivava anche a cinque. Nel primo semestre, le visite
dei familiari erano in numero di una ogni due giorni di mercato e
nessuno degli allievi poteva tornare a casa per le celebrazioni fino ai
diciotto mesi di formazione. Dopo questo periodo di noviziato, agli
adepti erano concesse due giornate consecutive ogni novantatré da
trascorrere fuori dalla caserma.
Nella struttura non esistevano colazione e cena e il pranzo non si
discostava molto dalla zuppa orrenda che mi aveva rifilato Bias.
Ci si lavava solo due volte a settimana e non era consentito ritirare
capi d'abbigliamento dall'esterno.
Non si potevano indossare clamidi e i due chitoni rossi che ricevevi
dovevano durarti tutto l'anno.
Se venivi beccato a mangiare di straforo restavi sanguinante e pesto
per quattro notti di seguito nel cortile.

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A me capitò solo in tre occasioni ma Eurito il toro credo che abbia
segnato il primato assoluto in questa specialità.
Clearco aveva due educatori esterni di bassa lega per insegnarci la
scrittura, l'epos e a fare i conti mentre lui e i suoi ci spaccavano con
la lotta, la ginnastica, la corsa, il pugilato, lo studio della pratica
militare e la caccia. E poi avevano una mania per il flauto.
Non uscivi dall'Agelaia senza aver imparato a suonarlo.
La maggior parte di noi aveva qualche problemino da correggere -
nessun genitore paga una retta così alta e spedisce il figlio in un
posto simile se non pensa che questa sia l'unica soluzione possibile
- ma lentamente s'innescava nell'aria quella che Clearco chiamava
l'equilibratura e da gruppo eterogeneo gli scolari delle tre squadre
iniziavano a diventare una classe d'individui piuttosto affini, la qual
cosa portava il nostro maestro a metà del suo lavoro: più tempo
passava, infatti, e più i gracili s'irrobustivano, i grassi dimagrivano,
gli introversi si aprivano, gli insicuri acquisivano autostima, i focosi
si calmavano sotto le sferzate, i buffoni calavano le maschere e gli
stupidi rinsavivano. Nei sette anni di formazione ho assistito forse a
quattro casi rarissimi, situazioni davvero disperate, e per questi, alla
fine del noviziato, lo spartano convocò le famiglie restituendogli
metà della retta e li rispedì infastidito alle loro dimore.
Superata la paura di soccombere, gli allievi iniziavano a rassegnarsi
allo stato dei fatti e gradualmente mostravano crescente impegno
nelle attività didattiche. Come per i prigionieri di guerra, fra gli
appartenenti a una stessa cerchia di otto nasceva un forte legame di
cameratismo e infine si accendeva il desiderio di portare il proprio
gruppo a primeggiare sugli altri e ciò aumentava ancor più il livello
dell'agonismo nelle prove e nelle esercitazioni.
Io, Timone e gli altri sei formavamo la cerchia degli ìppodamos, i
domatori di cavalli. Poi c'erano quella degli sporeìs - i seminatori - e
quella dei thalássio paidiá - i figli del mare.
I nomi delle squadre li decideva il maestro e credo che nel nostro
caso avesse a che fare con i gradi militari di mio padre e di Ippia.
Ad ogni modo, passato il quarto anno nella caserma, eravamo tutti
così impregnati delle parole degli educatori che ci sentivamo come
dei piccoli Spartiati, pronti a sacrificarci in qualsiasi impresa avesse
ordinato il nostro re Clearco.

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E fu proprio in quel periodo che io udii il primo richiamo della mia
vocazione.
Ogni due anni l'Agelaia era solita organizzare una serie di gare
atletiche aperte a tutti i ragazzi di Taras, per mostrare alle famiglie
degli iscritti il radicale cambiamento dei loro figli e fare nuovi
proseliti per le stagioni future.
I preparativi nella scuola iniziavano tre mesi prima dell'apertura
delle competizioni e, per quelle discipline come la corsa, il lancio
del giavellotto e la caccia, Clearco affittava intere aree fuori dalla
città bassa e le attrezzava come uno stadio all'aperto.
Per quanto sappia, all'inizio la faccenda era un affare seguito solo
dai parenti degli scolari ma dopo la terza edizione il numero di
interessati s'impennò d'improvviso e all'epoca della mia adesione le
Agelaiadi si erano trasformate nei giochi ufficiali di Taras.
Le liste d'iscrizione venivano attaccate alle porte della scuola e non
bastavano i rotoli per segnare i nomi di tutti i partecipanti nei vari
agoni. File di curiosi venivano dai centri limitrofi per assistere alle
esibizioni e per tre lunghi giorni l'ospite lacedemone diventava più
importante di un polemarco. I pritani, l'ipparco, i locaghi e tutti gli
altri magistrati si svegliavano all'alba per occupare i seggi delle
tribune d'onore mentre Clearco, i suoi tre inservienti e sei estratti a
sorte tra gli ufficiali dell'esercito indossavano l'himation giallo dei
giudici e si spostavano di settore in settore per arbitrare le sfide.
Nel tempo, l'evento divenne così sentito che l'organizzazione dei
tre giorni di gare sopravvisse alla morte del suo stesso inventore e
alla chiusura della scuola, tra l'altro senza cambiare nome.
E ancora oggi le Agelaiadi sono viste come una delle celebrazioni
più attese di Taras, anche se in me suscitano soltanto una profonda
nostalgia e di rado mi faccio vedere in giro durante le competizioni.
Comunque, a circa dodici anni mi ritrovai tra gli atleti in gara.
Agli esterni era consentito iscriversi solo in una specialità mentre
noi della scuola avevamo l'obbligo di partecipare ad almeno tre tipi
di competizioni e il maestro sceglieva per ciascuno dei suoi allievi.
A me capitarono la corsa, il salto con l'asta e il pugilato.
La sera prima dell'apertura dei giochi, uno dei coadiutori mi disse
che aveva ritrovato il nome di Bias negli elenchi dei partecipanti.

23
Restai di sasso, riuscendo a stento a chiedergli sotto quale sigla mio
fratello si fosse registrato.
«Pugilato», mi sentii rispondere.
Anche se avrebbe gareggiato nella categoria degli efebi - quella dai
sedici ai ventuno - il mondo mi crollò addosso.
Ci ho riflettuto a lungo su quest'episodio e ogni volta sono arrivato
alla conclusione che lo avesse fatto di proposito.
Sapeva che quella sarebbe stata la mia prima opportunità di fronte
a nostro padre e come potevo sentirmi per questo.
Almeno in quell'occasione, Agatocle avrebbe assistito ai giochi con
gli occhi rivolti al suo figlio minore. E io avrei sputato sangue, denti
e anima per vederlo impettito e fiero nel momento del mio trionfo.
Ma ciò non poteva accadere secondo Bias.
Così il primogenito bello, impavido, sicuro e sempre protagonista
aveva deciso di deviare l'attenzione del padre, e anzi aveva provato
ad annullare definitivamente la già misera considerazione nei miei
confronti in caso di una sua vittoria nella skamma.
All'epoca non comprendevo perché si comportasse in quel modo.
Per quanto non gli andassi a genio, io lo amavo e ne ammiravo la
velocità di pensiero, l'astuzia e l'attitudine che lo spingeva sempre
al centro della scena. Nei miei pensieri di fanciullo, ancor più del
mio austero vecchio, lui era l'esempio da seguire.
In casa, quelle rare volte in cui parlavamo, ripeteva frasi del tipo gli
dèi amano gli arditi, oppure il braccio scaltro colpisce cento volte
meglio di quello poderoso e ancora sarò il più potente di Taras e io
pendevo dalle sue labbra, quasi avessi davanti il figlio di un nume.
Ero certo che nessuno avrebbe potuto dividerlo dalla fama e dalla
ricchezza che meritava e per me speravo solo che avesse voluto
tenermi accanto mentre avrebbe percorso la lunga via della vittoria.
Tuttavia le cose andarono diversamente alle Agelaiadi.
La mattina della prima gara, mezza città si ritrovò fuori dalle mura
e prese ad affollare le zone dedicate agli agoni.
Era quasi la fine di Targelione e l'afa attanagliava le campagne a est
e sfuocava la linea dell'orizzonte intorno alla zona delle paludi.

24
Nel salto con l'asta, prima di affrontare le fasi eliminatorie, alzai lo
sguardo verso la tribuna meridionale e riconobbi la sagoma di una
bimba che si sbracciava urlando fra una donna e un soldato in alta
uniforme. Era Calliope, la mia adorata sorellina, e con lei c'erano
Euridice e Agatocle.
Mi qualificai per le semifinali e persi di un soffio nella gara contro
Antiloco della squadra dei seminatori, che poi batté Damacete e si
rivelò il vincitore dei giochi nella specialità.
Mentre sfilavamo dietro al campione, scrutai tra le facce sugli spalti
e mi accorsi che mio padre era uno dei pochi a non applaudire.
Nel pomeriggio, mentre assistevo Timone nei preliminari del lancio
del giavellotto, l'eroe di Naxos scese le gradinate e mi raggiunse fin
quasi a bordo pista. Mi chiamò stentoreo, attirando l'attenzione di
uno dei coadiutori, e quando gli fui davanti mi fissò incolore.
«Hai gareggiato bene, figliolo, ma nell'ultimo salto hai staccato
troppo presto». Poi esitò, quasi stesse soppesando le parole fra le
labbra. «Ora punta tutto sulla corsa, mi raccomando».
Per un istante incrociai il suo sguardo, quindi annuii in silenzio e
ritornai accanto al mio amico di camerata.
Non c'era stata durezza nella sua voce, eppure mi incupii.
Avrei dovuto sentirmi gratificato per quella bozza di complimento
e invece nel suo consiglio io avevo letto un monito sottinteso.
Non farai mai meglio di Bias, quindi non provarci nemmeno.
Timone stracciò letteralmente gli avversari del suo girone e passò
facilmente i primi due scontri diretti. Aveva una tecnica incredibile
per un ragazzo della sua età e la folla sugli spalti lo elesse subito
come beniamino. Ma era anche un tipo a cui piaceva strafare e nel
lancio contro il suo avversario di sempre, Locarno dei figli del
mare, forzò al massimo per distruggerlo sotto gli occhi dell'intera
città e finì per stirarsi la spalla. Vinse comunque, ma in finale non
provò neanche a gareggiare, regalando inaspettatamente l'alloro al
figlio di un ricco mercante della Soteia.
Ero accanto a lui, depresso e con lo sguardo lucido a quattro passi
dalla linea di lancio, e gli stavo bendando la zona dolorante quando
si fece vivo Clearco. «Con la tua bravata idiota hai affossato il nome
dell'Agelaia», gli ringhiò truce fra i denti. «Sei un miserabile e nella
lotta voglio vederti morto prima di ritirarti».
Rassegnato, Timone strizzò le palpebre e accennò un sì maestro.

25
«Che voleva Agatocle?», soggiunse lo spartano scrutando gli spalti.
Bloccai la fasciatura sull'omero del mio amico e gli riportai del suo
consiglio.
«Ricordi la combinazione destro-destro-sinistro al fianco?», replicò
asciutto.
«L'ho ripetuta all'infinito, maestro», gli assicurai.
«Bene, allora pensa solo a quella e non contare troppo sulla corsa».
Prima che potessi riaprire bocca, era già di spalle e andava via.

Le gare del giorno successivo erano quelle tanto attese della corsa e
della lotta. A imitazione degli Olimpici, le Agelaiadi prevedevano le
discipline dello stadion, del diaulos e del mezzofondo e nella
categoria dei giovani nessuna di queste andò a vincitori esterni alla
nostra scuola. Sudavamo troppo e troppo a lungo ogni giorno per
non essere tutti abili corridori. Io mi difesi bene nello stadion e fino
alla penultima sfida restai nell'elenco dei primi tre. Il problema era
che quelli davanti a me appartenevano entrambi alla mia cerchia da
otto ed erano i più veloci di tutta l'accademia. Adesso non ricordo
bene gli ordini di arrivo in finale ma di certo Menandro vinse nello
stadion e Sofrone staccò tutti nel mezzofondo.
Al passaggio del nipote sotto gli spalti, il sommo Archita lanciò una
corona di alloro sul circuito di gara definendolo a gran voce degno
del Pelide piè veloce e trascinando l'intera folla in un applauso
scrosciante. Quanto a me, non volli mai guardare oltre le spalle di
chi mi era davanti e mi sentivo davvero in uno stato pietoso.
Con mezzo braccio fuori uso, Timone aveva compiuto l'impresa
eroica di arrivare in finale nelle gare di lotta. Dopo aver liquidato
due esterni nei preliminari, aveva beccato di fronte Corego degli
sporeìs e il loro incontro aveva infiammato tutta l'Agelaia.
Il suo avversario era uno dei più massicci fra gli alunni, aveva una
forza inusitata nelle prese e avanzava più di un conto in sospeso
con il mio vicino di branda, così la sfida fu brutale oltre ogni modo.
Alla fine, anche se contuso all'inverosimile e barcollante, Timone la
spuntò con la maggiore tecnica e resistenza e il pubblico gli regalò
gli applausi che avrebbe meritato anche nel lancio del giavellotto.
Lui aveva spazzato via ogni pronostico mentre io avevo deluso le
aspettative di Agatocle.

26
Quella stessa sera, quando tutti dormivano già nelle loro brande,
fui convocato da Clearco.
Non sapevo di cosa volesse parlarmi e seguii l’inserviente col cuore
in gola fin sull’uscio del suo studio. Una volta dentro, mi fermai
poco oltre il vano d’ingresso e restai in silenzio.
Era di spalle, accanto alla finestra, e sembrava osservare qualcosa
giù nella corte della scuola.
«Ho incontrato tuo padre dopo le gare», m’informò a brucia pelo.
«Ha intenzione di ritirarti dall’Agelaia».
D’istinto abbassai la testa, trattenendo a stento le lacrime.
«Trova che i tuoi miglioramenti non siano sufficienti e mi ha detto
che, visti i risultati degli altri iscritti, il problema non può essere il
metodo di addestramento ma i limiti di suo figlio e per questo non
pagherà la prossima retta».
Si voltò verso di me, guardandomi con un’occhiata obliqua.
«Dunque?», continuò, quasi stesse attendendo una mia risposta.
È passata una vita da allora ma la sensazione che provai in quel
frangente ce l’ho ancora impressa dentro.
Tutta l’afflizione e l’avvilimento si trasformarono in rabbia feroce
in uno schiocco di dita e l’unico istinto che provavo era quello di
urlare come un pazzo e rovesciare il tavolo che avevo di fronte.
Che ne sapeva quel bastardo di quanto impegno, sudore, dolore e
sacrificio avevo spillato fra le pareti di quella struttura?
Mi aveva trascinato lì, allontanandomi dalla mia casa, da mia madre
e dalle mie cose, e mi aveva consegnato nelle mani di un estraneo
che mi aveva battuto, umiliato, punito al solo scopo di rendermi ciò
che il suo orgoglio di cavaliere desiderava.
Ma adesso criticava i frutti a metà della maturazione, si lamentava
di quanto speso in semi e concime e voleva strappare le radici senza
curarsi del destino della pianta.
Serrai i pugni e pensai agli altri della mia cerchia, all’umiliazione e
alla misera fine dei miei giorni nell’accademia.
«Mi dispiace, maestro», riuscii appena a sussurrare con un filo di
voce, «non volevo disonorare questo istituto…».

27
«Sbagli. È lui che mi ha screditato», m’interruppe deciso Clearco,
«mettendo in dubbio il mio giudizio. Perciò gli ho risposto che le
gare non sono ancora terminate e che avrebbe dovuto parlare solo
alla fine dei giochi».
«Nell’ultimo anno mi hai mandato solo al korykos», mormorai, ma
Clearco scattò contro di me in un lampo e mi colpì con un ceffone
tanto forte da farmi vacillare.
«Non osare contraddire le mie scelte, Mys», mi ringhiò in faccia.
«Ora torna a letto. Domani vincerai quell’alloro e tuo padre dovrà
pagare il doppio della retta per il resto della tua formazione. Va’».
Lo salutai a capo chino e feci come aveva ordinato, asciugandomi le
guance nella penombra del corridoio.
Più la testa sul cuscino invocava il sonno, più le immagini generate
dalla mia paura si affastellavano dietro le palpebre in una bruma di
angoscia che mi stritolava le viscere. Io a terra, col viso sanguinante
e sporco di sabbia, e mio fratello vincitore che mi additava divertito
accanto ad Agatocle. Mia madre che scuoteva la testa rassegnata e
gli altri della cerchia che mi guardavano muti, con l’indignazione a
stento trattenuta agli angoli della bocca. Venivo sollevato di forza e
a fine giornata la mia sacca era già pronta davanti alle grandi porte
della scuola. Nessun arrivederci, nemmeno quello di Timone.
Per scacciar via quelle scene ossessionanti, presi a ripetere in mente
ogni più piccolo movimento di braccia, di busto e di gambe facevo
durante le mie sessioni al sacco. Ripescai a forza la visione di Eurito
il toro di fronte a me, provando a ricordare gli allenamenti a coppia
della stagione precedente, i suoi colpi, gli allunghi, le finte e la serie
di trucchetti che usava come i pestoni sui piedi, le testate di striscio
alle tempie e le tirate di orecchio.
Era un grosso, maledetto picchiatore che ti rovinava a ogni sventola
ma non gli avevo mai concesso di vedermi sollevare l’indice destro
in segno di resa.
Poi, d’un tratto, la voce rauca dell’inserviente gracchiò la sveglia
nella camerata prima del canto del gallo.
Vuoi per la stanchezza o per l’insonnia, mi levai di dosso il lenzuolo
e finalmente provai uno strano senso di rilassamento.
Hypnos mi aveva saltato nel suo giro ma in cambio si era portato
via l’ansia.

28
All’alba il cielo plumbeo e la pioggia insistente avevano cancellato
il bel tempo delle settimane precedenti. I giudici attesero per quel
che poterono, poi si riunirono in consiglio e annullarono l’agone di
caccia. Per questo, l’Agelaia si riempì molto prima del previsto e a
metà mattinata ogni palmo dell’accademia era gremito di volti lividi
e intabarrati nelle mantelle di lana.
I servi volavano da un capo all’altro della struttura a transennare
con picchetti e nastri rossi i quadrati di lotta, sgomitavano per farsi
largo nella calca con le panche per gli spettatori e con i seggi delle
prime file, destinati ai maggiorenti della città. Più che a dei giochi,
sembrava si dovesse assistere a una sfida di tragedie teatrali.
Le gare di pancrazio si svolgevano nel grande gymnasion mentre le
skamme del pugilato erano state allestite nel centro della corte e nei
due giardini aperti ai lati dell’ampio atrio dell’accademia.
In pratica, gli spettatori si spostavano come formiche lente da un
punto all’altro della scuola per seguire questo o quell’incontro e il
vociare era assordante come a mezzogiorno nella ressa del mercato.
Fu il turno degli adulti quello a sfidarsi per primo e il caso volle
che proprio Bias ricevesse l’onore di aprire le competizioni della
sua categoria.
Dalle finestre del primo piano, dove attendevano gli atleti giovani,
scorsi la figura di mia madre con in braccio Calliope e al suo fianco
due vicine di casa. Scesi di corsa ma quando fui giù l’avevo persa di
vista e non potei salutarla. Tuttavia, sgusciai tra la fiumana ferma
davanti alle scale e mi spinsi nella corte, stipata all’inverosimile di
spettatori, fino che a non la intravidi seduta accanto a mio padre
fra i posti che delimitavano il lato lungo della skamma.
Credo che mi avesse notato, perché illuminò i suoi occhi verdi in
un sorriso nella mia direzione mentre l’arbitro faceva entrare sul
tappeto di sabbia i due contendenti. Poi mio padre le sussurrò
qualcosa al collo e lei spostò la sua attenzione sull’avversario di mio
fratello. Era asciutto, tutto nervi, e aveva la testa rasata simile a un
uovo. Niente al confronto della linea atletica e aggraziata di Bias.
Al via del giudice, l’onore della famiglia iniziò a mostrare tutta la
sua agilità danzando a guardia alta intorno al rivale e incalzandolo
con una serie di diretti precisi ma privi di forza. L’altro ne schivava
la metà e intanto prendeva le misure. In uno scambio veloce, Bias

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lo colpì allo stomaco con un sinistro basso e fu rapido a chiudere la
combinazione con un destro a giro sul sopracciglio mancino del
tipo, che prese a spruzzare sangue come una fontana. L’avversario
non cadde ma accusò la botta e così mio fratello si sentì in dovere
di sorridere e schernirlo abbassando le difese. Tant’è che prese due
sberle in sequenza così dure da buttarlo quasi a terra. Per la prima
volta sentii Agatocle ammonirlo a muso duro e subito Bias ritornò
in sé, pressando il mediocre che aveva davanti fino a che indovinò
un destro potente al fianco e un diretto in pieno volto che gli regalò
la vittoria. Mio padre scattò in piedi e lo osannò come Herakles il
massacratore, trascinandosi dietro le prime file degli amici presenti.
Al secondo turno, però, il grande titano andò ben presto a corto di
fiato e riuscì a scamparla solo perché il diciottenne ferrigno che lo
martellava scivolò in un mezzo passo falso, facendosi randellare al
mento e al naso in una doppietta a dire il vero inaspettata. Ancora
una volta, l’eroe di Naxos lo festeggiò orgoglioso ma il suo trionfo
non convinse del tutto i più. Senza un vero allenamento e con il
vizio del vino e dei simposi fino a tarda notte, Bias era abile di certo
ma nulla di realmente irresistibile. A riprova di ciò, la torre delle
sue speranze crollò nella prima gara delle eliminatorie. Lucone, il
suo avversario, aveva la sua stessa età ma pesava quasi mezzo
talento in più: le braccia erano due tronchi di quercia, il petto
ampio come un carro e possedeva due colonne di tempio al posto
delle cosce. Per niente rapido, aveva però una capacità di incassare
impressionante ed era come se non avvertisse i pugni che riceveva,
al punto che la sua scorza non mostrava né tagli né sangue,
nemmeno sotto le randellate più violente in pieno viso, al massimo
l’ombra di un ematoma. Mio fratello lo assalì subito con una tale
veemenza che il pubblico si meravigliò del suo ardore. Era un toro
inferocito alla carica, incitato dalle grida continue degli astanti, ma
si scontrava con un nemico di granito. Se avessero fatto la conta dei
colpi, Bias avrebbe vinto nel primo quarto di clessidra per cento a
zero. Ma quando Lucone si portò a uno, il toro crollò sulle zampe
di dietro e mugghiò d’istinto il suo dolore. Col fiato spezzato per la
botta poderosa al fianco sinistro, mio fratello calò subito il gomito
per difendersi il corpo e così lasciò parte del viso scoperta.

30
Il diretto gli impattò come una carica spartana sull’occhio e lo rese
inerme sotto i successivi affondi dell’avversario. Al quinto colpo di
fila, Bias rovinò all’indietro con la faccia devastata in una maschera
di sangue. Spinsi quelli che erano davanti a me e mi gettai d’impeto
in seconda fila, chiamando a gran voce il suo nome. Demolito, in
ginocchio e con un braccio puntellato nella sabbia nel tentativo di
rialzarsi, ebbe la forza di sollevare la testa per fissarmi e sputare
verso di me prima che una badilata mancina di Lucone sulla
mascella lo spiaccicasse di nuovo schiena a terra nella skamma.
Mi voltai di spalle nello stesso momento in cui l’arbitro, prima di
attendere il suo indice alzato, decretava la fine dell’incontro per
salvarlo da un esito peggiore e ancora oggi mi chiedo quale sia stata
la reazione di Agatocle a quella sconfitta poiché, senza badare più a
nulla, m’intrufolai di nuovo nella calca puntando alle scale, trafitto
nell’animo dall’odio inspiegabile del mio eroe.
A metà del giorno la cappa di nubi sopra Taras diradò e il vento
caldo tornò a spirare favorevole, allontanando il temporale a nord.
L’aria era di nuovo piacevole e chiazze d’ambra indoravano il cielo
sopra i declivi poco distanti dalla città bassa. Qualcuno propose di
riaprire la sfida di caccia ma il consiglio arbitrale comunicò che era
troppo tardi, che il fondo del boschetto consacrato sarebbe stato
un pantano e che le bestie non sarebbero uscite dalle loro tane
prima del tramonto. In compenso, però, le gare di pancrazio e di
pugilato dei giovani iniziarono prima del previsto e fui sorteggiato
come quarto in ordine di competizione.
Avrei voluto battermi all’apertura ma il caso si era opposto e così
per evitare di farmi prendere di nuovo dall’ansia andai a seguire il
mio amico Eurito, primo a gareggiare nel pancrazio.
L’incontro non fu granché: l’altro, per quanto massiccio e forte, si
limitava ad annullare le sue prese e a rifilargli gomitate. Era esperto
e puntava a farlo stancare per poi provare la sottomissione ma non
sapeva che, nella sua strana testa, Eurito neanche aveva iniziato a
lottare. Poi mi adocchiò a bordo skamma mentre ribaltava una
mossa in ginocchio e gli vidi abbozzare un sorriso divertito.
E allora capii che il tipo era spacciato.
In meno di cinque respiri, i presenti sentirono lo schiocco secco dei
gomiti spezzati e le urla bucarono il tetto dell’accademia.

31
Animale com’era, Eurito il toro non attese neanche che l’arbitro gli
sollevasse il braccio in segno di vittoria e scese dal tappeto di
sabbia per venirmi accanto. «Hai visto?», mi disse mentre due servi
aiutavano l’atleta sconfitto a uscire dall’area di gara. «Un primato
di velocità!». Sedette accanto a me sudato e sporco e mi rivelò che
avrebbe voluto partecipare nel pugilato invece che nel pancrazio.
«Sai che bella sfida tra me e te in finale?», aggiunse.
Gli volevo bene e mi sfogai con lui, buttando fuori tutta la tensione
repressa fino a quel momento e rivelandogli ciò che mi aveva detto
Clearco la sera precedente. Lui mi fissò stranito, poi mi batté una
mano sulle spalle, ridacchiando. «E poi sarei io la zucca vuota della
cerchia?», sussurrò sornione. «Prima fai coppia fissa con me e poi
vai per un anno da solo al korykos. Un motivo ci sarà, no? Quanto
a tuo padre, si vede che l’avrà incontrato a casa di mia madre». Mi
fece l’occhiolino ma non capii. «Svegliati, Mys. Clearco ieri è uscito
dallo stadio accanto a lei. Li ho visti. E a meno che al tuo vecchio
non piacciano le cose a tre, il maestro ti ha rifilato una frottola».
Restai imbambolato.
C’era voluto il più candido dell’Agelaia per farmi comprendere
come stavano davvero le cose.

Quando misi i piedi sul quadrato di sabbia, ero finalmente svuotato


da ogni pensiero. Poco prima di entrare nella skamma, mentre mi
allacciava gli oxys sugli avambracci, Timone mi aveva confermato il
motivo per il quale non mi allenavo più con loro.
Combattere con me era pericoloso.
Avevo sempre creduto che, nelle prove di pugilato, lo spartano mi
avesse messo in coppia fissa con Eurito per farmi indurire al più
presto e per abituarmi subito alle mazzate di quelli più grossi. Ero
entrato nella scuola che ero svelto ma gracile e nella lotta gli altri
mi schienavano senza troppo sforzo. Dovevo irrobustirmi e insieme
imparare a reggere i colpi, ignorando il dolore e anzi lavorandoci
sopra. Di solito nella cerchia ruotavamo a settimane alterne, così
che in ogni disciplina avessimo modo di confrontarci tutti a turno.
Tuttavia, dopo il periodo di noviziato, Clearco decise che nella
lotta con i pugni io dovevo vedermela solo con il bestione del mio
gruppo. Per gli altri andava più che bene.

32
Io, per quanto magro, picchiavo con rabbia e mi risollevavo a ogni
caduta al tappeto come se la skamma mi bruciasse sotto la schiena.
Mezzo spappolato, questo è sicuro, e a volte capace di muovere a
stento le braccia, ma comunque mi rialzavo e dovevano sudare per
farmi arrendere. Quanto a Eurito, a nessuno dispiaceva scansarsi le
sue poderose legnate al corpo.
Poi, nell’ultimo anno, dopo un incontro particolarmente acceso, il
maestro ci aveva divisi e io ero andato al korykos.
Avevo cercato di protestare con uno dei coadiutori e con me anche
il mio compagno – che era finito a ruotare di nuovo nella cerchia –
ma non c’era stato verso di far cambiare idea allo spartano.
Pensavo a una sorta di punizione. Del tipo, se dopo tutto questo
allenamento mirato ancora devi imparare a vincere con regolarità,
allora meglio che ti batti contro il muro.
Ma anche al sacco, tra infinite combinazioni, prove a un braccio
per volta, esercizi di forza, di velocità e di resistenza, uscivo piegato
in due come se avessi tirato pugni a un avversario vero.
Solo con la consolazione di non venire maciullato di colpi.
Mentre l’arbitro ripeteva i nostri nomi, guardai verso la platea e mi
accorsi che Agatocle era seduto in quarta fila sull’altro lato della
skamma. Mi aveva praticamente di fronte ma aveva optato per non
farsi vedere nei primi seggi. Eh già, pensai, il suo campione è già
caduto. Ancora gli brucia per la dura sconfitta ed è meglio non
apparire davanti quando a combattere è il figlio minorato.
Il giudice chiamò l’inizio della sfida e io neanche feci caso a chi mi
stava di fronte. Bloccai una sventola diretta al mento e d’istinto mi
infilai nella guardia del mio avversario, caricando un sinistro corto
all’addome che lo sollevò da terra. Il tipo replicò con un destro al
corpo che nemmeno sentii, poi cercò di accorciare la distanza e in
quell’attimo si condannò alla resa.
Subii i primi due diretti sui pugni e un altro alla tempia, poi finsi di
piegarmi a sinistra e quando intuii partire il suo destro d’incontro,
sollevai l’avambraccio mancino a protezione dello zigomo e
l’anticipai con un allungo tremendo a incrociare.
Cadde all’indietro ma non lo pressai.
Anzi cercai mio padre tra la ressa e ricambiai il suo sguardo.

33
Quindi mi portai sotto il tipo, appena rimessosi in piedi, gli rifilai
un destro alla spalla di disturbo e caricai un sinistro a uncino che
gli impattò dritto sotto il mento.
La sabbia volò così tanto quando l’altro crollò a terra, che Timone
e parte di quelli in prima fila se la ritrovarono in bocca e urlarono
di soddisfazione per l’inusitata violenza di quella combinazione.
Avevo vinto nel tempo impiegato a vuotare due coppe di vino.
Lo sfidante fu portato via sottobraccio e il mio vicino di branda
prese a inneggiare il mio nome, incitando gli altri a fare lo stesso.
Allora tutti iniziarono a ripetere Mys, Mys, Mys...
Tutti, compreso mio padre.

Nella finale, metà dell’Agelaia era accalcata intorno alla skamma.


Con uno zigomo rotto, l’addome sanguinante e un labbro spaccato,
saltellavo e schivavo ancora con tutto il fiato che avevo in corpo. La
mia intera cerchia era riunita a un passo dal tappeto di sabbia e
Clearco si era portato nei seggi della prima fila.
In piedi accanto alla schiera degli alti magistrati, Agatocle strillava
come un invasato a ogni colpo che davo o scansavo.
Al terzo incontro, l’eliminatorio, avevo accusato un dolore pulsante
alle costole per una staffilata di rimando e stavo per cedere quando
a un tratto la voce stentorea del maestro aveva spaccato ogni brusio
intorno a me. «Destro-destro-sinistro al fianco, maledizione!».
Come un lupo che sente l’odore del sangue, mi ero fiondato avanti
contro Aristodemo dei seminatori a capo chino, caricandolo quasi a
spallate, e senza pensare avevo impresso tutta la forza che ancora
mi restava in quel movimento che mi veniva ormai naturale più che
respirare. Alla fine della giornata, Timone disse che era stata quella
reazione a decretarmi vincitore. Il pubblico era rimasto di sasso per
il rumore dei miei pugni e anche quelli degli altri gruppi da otto,
tra cui gli stessi compagni del mio avversario, si erano guardati in
faccia increduli.
Dolorante com’ero, io avevo solo avvertito i gemiti del mio sfidante
e la vibrazione che dalle nocche fasciate mi arrivava fino ai polsi.
Livido e con due costole incrinate, Aristodemo aveva sgranato gli
occhi di terrore mentre cercava invano di alzarsi dalle ginocchia e
subito aveva mostrato l’indice destro.

34
Da lì avevo vinto la semifinale con la stessa combinazione e poi ero
arrivato alla sfida decisiva.
Kleitos era un animale feroce, poco meno potente di Eurito ma con
più cattiveria nel combattere. Era un esterno e nello scontro prima
del nostro aveva sconfitto il migliore della cerchia dei figli del mare.
Però ne era uscito fuori con un brutto taglio sotto l’occhio destro e
con il naso malconcio e contro di me aveva deciso di fare l’ariete e
di abbattermi senza pietà nel minor tempo possibile.
Non so cosa mi saltò in mente, ma dopo i primi tre scambi iniziai a
invitarlo a colpirmi. Saltellavo e schivavo, prendendone uno su tre,
ma erano mazzate pazzesche che ti ammaccavano fino alle ossa.
Eppure resistevo, galvanizzato dalle grida di mio padre, e anzi più
Kleitos ruggiva il suo accanimento più io mi sforzavo di mostrarmi
immune alle sue sventole. Dopo mezza clessidra io sembravo carne
frollata ma lui combatteva ormai senza guardia e di nuovo risentii il
tono arrochito di Clearco. «È tuo, Mys. Adesso, adesso!».
Urlai con tutta la rabbia che avevo dentro e presi a tempestarlo di
diretti al volto caricandoci dietro l'intero peso del mio corpo.
Il primo andò a segno, poi il quarto e il quinto. La ferita gli si riaprì
e vidi il sangue scorrergli sulla guancia. Lui si coprì d’istinto e fu in
quel momento che gli andai sotto e scaricai un destro a giro preciso
sopra il suo orecchio. Kleitos barcollò per la gran botta e gli mollai
lo stesso colpo di sinistro sulla mandibola.
Cadde di lato, come il fusto di un pino secolare aggredito dalla sega
del boscaiolo, e l’arbitro dovette togliermelo da sotto mentre i miei
cazzotti gli martellavano come un maglio la testa nella sabbia.
Ero euforico, instancabile e sprizzavo energia da ogni fibra.
Mio fratello non esisteva più. Agatocle aveva le braccia spalancate e
strepitava a squarciagola che ero suo figlio.
Avevo compiuto un prodigio. Avevo meritato l'alloro.

35
L'ultimo periodo nella scuola di Clearco fu come il miele prima
della medicina amara. Quando arrivavo a casa nei permessi, mio
padre mi accoglieva con affetto e per mia madre e Calliope erano
giorni di festa grande. Di contro, Bias mostrava il suo fastidio
acuendo l'indifferenza nei miei confronti. Era scostante, accigliato,
a stento mi rivolgeva la parola e quando Agatocle provava a
trascinarlo in qualche discussione a tre, mio fratello replicava a
monosillabi e trovava sempre il modo di abbandonare la
conversazione.
L'eroe di Naxos fingeva di non accorgersene ma io ancora ci
soffrivo e non mi spiegavo cosa lo infastidisse tanto in me. Era per
la vittoria alle Agelaiadi? Perché io avevo trionfato nella stessa
specialità dove lui, il maggiore e favorito tra i due, aveva
miseramente fallito?
Forse per una volta si era sentito davvero sconfitto, sia in pubblico
che nei pensieri di Agatocle, e aveva attribuito a me la colpa di
tutto.
Lui che non aveva mai avuto rivali agli occhi paterni.
A ogni mio ritorno, la distanza fra noi aumentava fino a che mi
arresi e accettai lo stato delle cose. L’amarezza si trasformò in
delusione e da ultimo stinse nel distacco e quindi nella noncuranza
reciproca.
Comunque, era bello vedere il mio vecchio finalmente fiero di tutti
i suoi figli. Lo accompagnavo all’agorà, al mercato dei tessuti e alla
fattoria di campagna e per strada la gente ancora si ricordava di me
nella skamma. Alcuni lo fermavano e gli chiedevano cosa ci facessi
a Taras. Col talento che ha, devi mandarlo quanto prima in Attica, in
Sicilia o a Rodi, perché lì ci sono i gymnasion migliori, quelli che
sfornano tutti gli Olimpici, lo esortavano.
Agatocle nicchiava, si schermiva con un sorriso e replicava che
sarei servito di più alla mia patria, ma in fondo sapevo che
quell’idea lo affascinava molto. Tanto più che alla nostra cara città
sarebbe bastato e avanzato il suo ardito primogenito come erede
della tradizione politica di famiglia.
Uno potente strategos fra le mura di Taras e l’altro famoso in tutte
le poleis dell’Egeo e della Magna Grecia per le sue vittorie
atletiche.
Sono sicuro che si augurava questo per il nostro futuro. E anche io.

36
Mancavano tre mesi al termine della mia esperienza nell’Agelaia e
mia madre Euridice mormorava già di un viaggio a Corinto che
avrei fatto nella buona stagione allorché quei rognosi dei Lucani
decisero di assaltare dieci navigli mandati dai pritani in aiuto di
Locri, in rotta con Kroton. Il giorno dopo che arrivò la notizia,
l’Assemblea si riunì in gran fretta e quasi all’unanimità decretò
l’invio dell’esercito per radere al suolo Metapontion, una fra le più
fiorenti città lucane. Gli scontri, proprio come accade oggi, furono
aspri e si protrassero a lungo.
Ero tornato a casa da meno di due pleniluni quando un messo della
nostra cavalleria bussò alle porte in piena notte.
Mi alzai dal letto seminudo e, a un passo dall’atrio, trovai mia
madre davanti all’ingresso, accanto alla sua ancella fidata che la
sosteneva per le spalle.
Terrea in volto, annuiva mordendosi il labbro inferiore.
Mi avvicinai col fiato sospeso, giusto in tempo per intravedere il
viso tirato del cavaliere mentre le porgeva tra le mani l’elsa della
spada di mio padre. La lama dell’eroe di Naxos oscillò insicura fra
le sue dita tremanti mentre il giovane accompagnava il suo mi
dispiace, signora con il saluto militare. La porta si richiuse alle sue
spalle ed Euridice cadde in ginocchio, singhiozzando con l’arma in
grembo.
L’avanguardia della cavalleria di Taras era caduta in un’imboscata
mentre attraversava una forra nell’interno della regione nemica.
L’ipparco e la sua scorta si erano battuti come leoni ma purtroppo
non avevano trovato scampo.
Le spoglie di Agatocle ci furono consegnate quattro giorni dopo.
Prima del solenne funerale di Stato, celebrammo i riti privati in una
casa invasa da parenti, amici e clienti di mio padre. Non mi ero mai
reso conto di quanto fosse rispettato e benvoluto a Taras. Tra
crateri, coppe, drappi ricamati e mille altri doni funebri si
sarebbero potuti stipare cinque carri da salmerie e con le ciocche
offerte in segno di dolore sul catafalco le prefiche riempirono due
cuscini di lino rosso.

37
Quanto a me, passai gran parte del tempo nel peristilio, piangendo
in silenzio abbracciato a Calliope, e degli amici che vennero a
trovarmi volli vedere solo Timone. L’indomani, lungo la parte di
Platea Magna che dalla nostra villa portava al tempio di Persefone,
seguii il feretro in testa al corteo con lo sguardo inchiodato sulle
spalle dei lettighieri. Del discorso che Archita tenne dal colmo delle
gradinate, in mezzo agli altri magistrati, afferrai qualche passaggio e
nulla più. Ero imbambolato, sconvolto dalla stanchezza e dal senso
di smarrimento, ma durante quella lode ai caduti, al loro spirito di
sacrificio e alle innumerevoli virtù dei nostri soldati, incrociai gli
occhi cupidi di Anticrate incollati alla sagoma scura di mia madre e
mi piazzai dietro di lei, voltandomi a fissarlo bieco prima di sputare
in terra. Di tutto il ditirambo del grande pitagorico, il succo fu che
i figli efebi dei cavalieri uccisi avevano l’opportunità di sostituirli
nei diversi collegi di appartenenza. In pratica, Bias avrebbe preso il
posto di Agatocle nel Pritaneo e nella Boulé, ma in guerra nessuno
degli eredi sarebbe stato più di un semplice cavaliere, data la loro
manifesta inesperienza militare. Di colpo, mio fratello si ritrovava a
ricoprire da appena ventenne le cariche cui aveva sempre aspirato.
La morte del mio vecchio aveva realizzato in uno schiocco di dita
metà di tutti i suoi sogni. Quanto al potere supremo e alla carica di
strategos, per quelli sarebbe stata solo una questione di tempo.
Durante il mese di lutto, Anticrate iniziò a passare a casa quasi ogni
tre giorni. Era un cugino di secondo grado di mia madre, un tipo di
Thurii che aveva un’impresa edile e che da qualche anno si era
trasferito a Taras per sfruttare la richiesta di nuovi fabbricati nella
città bassa e la presunta parentela con l’ipparco per aggiudicarsi i
lavori. Mio padre lo sopportava a stento e lo invitava ai banchetti
solo per amore di Euridice.
Capii subito perché, quando iniziò a gironzolare per la villa sempre
più spesso. Si muoveva come un padrone, dava ordini ai servi e in
più iniziava a portarsi dietro anche gli amici alle nostre cene.

38
Provai a parlarne con Bias ma il nuovo capofamiglia era così preso
dalle sue trame politiche, dalle speculazioni disastrose sulle attività
paterne e dai suoi riti notturni fra le ricche abitazioni dell’acropoli
che nemmeno mi diede ascolto. Anzi, m’interruppe sentenziando
che Anticrate era un uomo dabbene, che gli andava a genio e che
gli aveva proposto un affare interessante in cambio della direzione
della nostra fattoria. Non tentai neppure di protestare.
L’unica strada per evitare il peggio era cercare di aprire gli occhi di
mia madre. Così le dichiarai ciò che pensavo di Anticrate e della
sua presenza fissa nella nostra casa, calcando la mano su certi
atteggiamenti che nemmeno un parente si sarebbe mai sognato di
mantenere fra le mura di un altro congiunto, ma Euridice sminuì le
mie critiche e anzi mi esortò a essere meno restio nei confronti di
quel cugino tanto disponibile e gentile con noi in quel frangente
funesto. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e peggior
cieco di chi ficca la testa nella sabbia, giusto? Neanche a dirlo, la
fragilità emotiva e un profondo bisogno di sicurezza avevano
trasformato mia madre in una specie di talpa senza orecchie.
Agatocle era stato un uomo autoritario e forte, quel genere di padre
e marito la cui presenza ingombrante eclissa e protegge allo stesso
tempo. Poche parole, frasi decise simili a comandi, ma anche gesti
di dolcezza e affetto per lei e per mia sorella che ammorbidivano in
parte la sua austera autorevolezza. Con gli anni ho compreso come
la sua assenza abbia creato immediatamente un baratro nell’animo
di Euridice, il terrore di una enorme solitudine dopo aver trascorso
metà della sua vita in una confortante condizione di dipendenza.
Tornai sull’argomento svariate volte ma era sempre peggio, anche
perché il rapporto tra Bias e il suo prozio sembrava consolidarsi col
passare dei giorni. Quindi alla fine mi arresi all’idea che quel tipo
era destinato a prendere il posto del mio vecchio e non ci volle
molto prima che il pensiero divenisse una scomoda realtà.
Due mesi dopo il mio sedicesimo compleanno, i due convolarono a
nozze. Mio nonno Peritas era morto da poco e spettò a mio fratello
sostituirlo nel ruolo di kyrios - ossia di tutore legale – per il
matrimonio.

39
Tra doni di fidanzamento, cessioni per la dote, contratti di ipoteche
in caso di divorzio e garanzie firmate dallo sposo, Bias e Anticrate
stilarono un intero rotolo di contratto e di certo ognuno pensava di
averla fatta sotto il naso all’altro. Quanto a me, ero così schifato da
tutta quella situazione che quando fu il momento di controfirmare
il documento in qualità di testimone davanti al ministro del tempio,
ebbi in animo solo di sussurrare a mia madre se lo voleva davvero.
Lei annuì con un sorriso ingenuo marchiato sulle labbra e allora
siglai, augurandole buona fortuna. Solo qualche tempo dopo seppi
che avevamo ceduto la metà della rendita della nostra fattoria e la
sua direzione a fronte dell’usufrutto di quattro casupole scalcinate
nel cuore della città bassa. Il capolavoro tra gli affari a perdere del
mio scaltro fratello.
La cerimonia organizzata nel peristilio fu una festa tra forestieri.
Per quanto ricordo, c’erano solo pochi locresi di lato materno e la
cerchia fastidiosa dei thurioti, amici dello sposo. A parte noi della
famiglia, i parenti di Agatocle si contavano sulle dita delle mani e
restarono il minimo indispensabile prima di iniziare a svignarsela.
Com’era usanza, Euridice e le sue ancelle si trasferirono nella casa
del nuovo marito e anche Calliope dovette seguirli.
Si trovava dalle parti del Mare Piccolo, vicino ai cantieri navali.
Se fosse stata nell’acropoli, avrebbe potuto considerarsi una dimora
dignitosa ma, data la zona, per mia madre fu come ritrovarsi in
miseria. La mancanza di mia sorella si fece sentire subito e passavo
a trovarla quasi a giorni alterni, studiando gli orari in cui Anticrate
era già fuori nell’agorà o alla fattoria. Trovavo sempre il modo di
portarle qualche regalo e le dedicavo parecchio tempo, cercando di
tirarle su il morale. Prima la morte di nostro padre, poi il distacco
forzato dai suoi spazi, da me e dalle sue abitudini avevano spento il
luccichio nei suoi occhi. Inveiva sempre contro mia madre, odiava
a morte il suo prozio e patrigno e mi supplicava piangendo di farla
tornare alla sua vita normale o sarebbe arrivata fino al punto di
scappare. La calmavo come potevo e poi, dopo essermene andato,
camminavo da solo per la città, rimuginando gonfio di frustrazione.
Quindi andavo a sfogarmi nel grande gymnasion nell’agorà.
In breve, quel luogo divenne il mio rifugio preferito.

40
Mi allenavo coi pesi, al korykos e nella corsa e quando c’erano gli
amici del mio gruppo da otto dell’Agelaia si finiva sempre con una
sfida in coppie alla maniera spartana. Eurito picchiava ancora da
paura e durante i nostri incontri mezza palestra si fermava intorno
alla skamma, schiamazzando mentre ci punzecchiavamo salaci tra
una combinazione e l’altra. A volte capitava che Sofrone tornasse
da Thurii per un paio di giorni e allora Clito il vecchio organizzava
una gara di pentathlon nella quale io facevo da arbitro.
A fine giornata, sul fare del tramonto, compravamo un otre di vino
annacquato e scortavamo stanchi e felici il vincitore di turno fino al
bel sepolcro di Ikkos, eretto in un crocicchio a mezzo stadio dalla
Porta Temenide. Lì chi aveva primeggiato poggiava il suo premio –
al meglio una corona di gelsomini – sulla lapide commemorativa
del più importante atleta di Taras, dominatore secolare e indiscusso
nella stessa specialità, e libava agli déi in sua memoria. Mentre le
ombre si allungavano a ridosso delle mura, noi ci sedevamo sotto il
piedistallo di quel monumento funebre e restavamo a chiacchierare
fino all’ultimo anelito di luce, ingollando a turno dalla ghirba.
Era bello essere di nuovo tutti insieme come nell’accademia.
Ci faceva sentire ancora uniti da un legame speciale, anche se non
vivevamo più giorno e notte nella caserma di Clearco e ognuno di
noi stava affrontando i primi passi di quella che sarebbe stata la sua
strada nel mondo: Menandro aveva preso a frequentare le lezioni
della scuola pitagorica, Timone seguiva Ippia nelle esercitazioni
militari, Clito il vecchio aiutava il fratello maggiore nella gestione
delle rendite di famiglia, Filomelo faceva altrettanto e Damacete, il
tuo mediatore, non era ancora lo strozzino bastardo di adesso e si
limitava a imbarcarsi sporadicamente col padre Alcanto quando
questi lo obbligava a partire per qualche spedizione di tessuti più
impegnativa o proficua del solito.
Quanto a Eurito, passava così tanto tempo nella palestra cittadina
che il ginnasiarca decise di prenderlo con sé come maestro di lotta
per i più giovani. Gli passava un mensile da miseria ma a lui non
importava. «È un buon modo di aspettare la chiamata alle armi»,
ripeteva sorridendo, «e almeno sono sempre in allenamento».
Anch’io mi trovavo nella sua stessa condizione.

41
Di norma Bias avrebbe dovuto coinvolgermi nei commerci lasciati
in piedi da Agatocle ma il nostro rapporto si riduceva a incrociarsi
un paio di volte sotto lo stesso tetto e a cenare insieme in occasione
di qualche banchetto in cui era d’obbligo mostrare una parvenza di
unione familiare. Quindi, di mattina mi limitavo a seguire le lezioni
del precettore rifilatomi da mio padre prima di morire – più per
obbligo morale nei suoi confronti che per reale interesse – e poi
vivevo la giornata così come veniva, cercando di racimolare qualche
soldo da aggiungere al fisso settimanale ridicolo che mi concedeva
il mio amato fratello per rispettare la forma agli occhi di mia madre
e di Anticrate.

Con l’efebia vennero i due anni di arruolamento e d’un tratto ebbi


l’impressione di ritornare nella scuola di Clearco. Nella caserma a
sud dell’acropoli ritrovai quasi la mia intera classe: oltre alla cerchia
dei domatori di cavalli, la camerata ospitava anche i seminatori e i
figli del mare. Ovviamente, com’era prevedibile, facemmo subito
gruppo e trascinammo anche gli altri della compagnia a eccellere
nelle esercitazioni, tanto che il nostro lochos divenne ben presto il
migliore di tutto il battaglione.
Sull’esempio degli altri eserciti della Grecia, la regola imponeva che
ogni recluta dovesse essere adottata da un soldato di fine leva.
A Sparta questa è una prassi storica e fondamentale, ragion per cui
anche a Taras non poteva andare diversamente. In gergo militare si
dice trovarsi un amante e nella pratica significa affidarsi alla guida e
ai consigli di un veterano che ti faccia da mentore, per evitare di
commettere guai e terminare al meglio la preparazione militare.
In realtà nessuna recluta sceglie ma, a meno di non conoscersi già
da prima dell’ingresso alla guarnigione, si viene estratti a sorte dal
gruppo dei congedanti. La fortuna mi sorrise perché fui assegnato a
Licurgo, il figlio di un vecchio amico di famiglia che si ricordava di
me quando ero ancora un bambino. Era sempre cordiale e attento a
che nessuno mi pestasse i piedi, pronto a correggere i miei errori da
inesperto e soprattutto rispettoso del legame di amicizia fra i nostri
padri. Non di rado però poteva andarti peggio e se rifletti appieno
sul significato della parola amante capirai cosa intendo dire.

42
Eccetto per le lunghe guardie notturne sull’acropoli e intorno alle
mura della città bassa, la vita in caserma non era poi così male per
noi dell’Agelaia.
Chiamiamola pure un ripasso dei vecchi precetti inculcatici dallo
Spartano e un ampliamento dell’addestramento militare, stavolta a
ranghi completi e con panoplie integrali. In aggiunta, i superiori
non erano Lacedemoni e le loro lavate di testa sembravano carezze
rispetto alla vera collera di Clearco e dei suoi coadiutori.
Ma la guerra è un’altra cosa e noi avemmo modo di capirlo subito.
Ci sono generazioni che, dopo aver prestato il servizio obbligatorio,
restano oltre un decennio a disponibilità dello Stato senza mai
staccare lo scudo e la lancia impolverati dai loro supporti infissi
nelle pareti dell’andron di casa. Lo dico perché è stato il caso di
mio nonno paterno - che per tutta la durata della pace regionale
poté dedicarsi anima e corpo a migliorare la posizione sociale della
sua discendenza.
Altre classi di leva, invece, sono così invise al divino Ares che dalla
fine dell’efebia sino alla vecchiaia dormono con elmo e xiphos sul
comodino e a lungo andare l’unica entrata che vedono è la paga dei
tassiarchi. Questi li riconosci subito perché, non sapendo cos’altro
fare quando le loro città siglano i trattati di tregua, si organizzano
in gruppi da sedici e armi in spalla li vedi oltrepassare le colline a
settentrione o le montagne a sud della Lucania in cerca di ingaggio
come mercenari.
A me è andata a metà strada fra questi due casi e tuttavia ringrazio
il divino Pollùce per avermi tirato fuori dalle mischie in tempo per
onorarlo sulla sabbia di Olimpia almeno una volta nella vita.
Eravamo all’inizio di Munichione e avremmo dovuto celebrare la
fine dell’arruolamento il penultimo giorno del mese quando arrivò
una staffetta a cavallo dai reparti di una guarnigione di nord-ovest.
C’erano novità importanti dall’area del protettorato e gli ufficiali si
chiusero nella stanza del Consiglio insieme ai messaggeri stremati.
La riunione procedé blindata, nessuno dei locaghi usciva, neanche
per pisciare, e le compagnie dei diversi battaglioni iniziarono a
diventare nervose perché volevano essere aggiornate dai tassiarchi
su ciò che stava accadendo. Quando furono avvisati gli strateghi e
la Boulè, capimmo che stavamo per essere spediti in battaglia.

43
A tutte le compagnie fu ordinato di farsi trovare in ranghi pronti
alla marcia fuori dalle mura meridionali alle prime luci dell’alba
successiva. Ogni oplita doveva portarsi dietro scorte di viveri per
almeno quattro giorni e aveva un pomeriggio per organizzare la sua
partenza e salutare i familiari. La destinazione era la zona stretta tra
la fascia costiera sull’Adriatico e le ultime propaggini dell’altopiano
collinare dell’interno, a cinquecento stadi a nord del Mare Piccolo.
I rapporti di prima mano raccontavano di una sommossa di tutte le
tribù peucete nostre alleate: Bytontinon, Rups, Silbion, Egnatia e il
resto delle loro maggiori città erano insorte contro l’egida del
protettorato. I nostri presidi regionali erano stati attaccati, i soldati
massacrati e le torri di controllo occupate. Spalleggiati dai Messapi,
i Peuceti si erano spinti oltre e avevano assaltato i fortilizi costieri
di Taras, imprigionando i comandanti, razziando gli accampamenti
e requisendo le galee usate come spola per i rifornimenti.
Eccitata dalle parole degli strateghi in alta uniforme, l’Assemblea
ratificò subito il decreto emesso della Boulé: intervento immediato
dell’intero esercito e delle truppe ausiliarie, repressione di ogni
disordine e distruzione di metà delle città insorte con riduzione in
schiavitù degli abitanti. Reparti di cavalleria furono inviati a Thurii
e a Herakleia per richiedere l’intervento di contingenti in appoggio.
Tornato dalla caserma, riempii la mia sacca da viaggio e mi affrettai
a casa di Anticrate per salutare mia madre e Calliope.
C’era agitazione per le strade, quasi avessimo dovuto scontrarci con
i nemici dentro le nostre mura. Donne e schiavi si accalcavano sulle
soglie dei fornai e dei beccai per riempire di pani e carni sotto sale
le borse dei loro figli e mariti in partenza, le porte dei templi erano
spalancate per i sacrifici e coppie di soldati battevano le insule con
le copie dei registri militari per richiamare alle armi i reduci sotto i
sessanta. Quando varcai l’atrio, mia sorella mi corse incontro dalle
scale buttandomi le braccia al collo con le lacrime agli occhi ed
Euridice mi baciò sulla fronte. In assenza del mio patrigno - via per
non ricordo quale lavoro da sbrigare nella sua città natale – pranzai
con loro due cercando di stemperare l’ansia di quegli sguardi con
una finta serenità di spirito, davvero difficile da simulare. Seppi che
Bias era già passato da lì di sfuggita e che era partito subito dopo lo
scioglimento dell’Assemblea per guidare il suo reparto di cavalieri.

44
Solo tre mesi prima era stato promosso al grado di filarca, grazie ad
alcune amicizie nel Pritaneo, e il tempo di mostrare sul campo le
sue doti di combattente non si era fatto attendere.
Prima di ritornare al mio lochos, Euridice mi regalò un pendente di
legno a forma di toro. Era dipinto di rosso e suo padre Peritas lo
aveva indossato durante gli anni nell’esercito, come portafortuna.
Lo accettai volentieri e con la mente rividi l’immagine di Agatocle
che, avvolto nel suo mantello candido e in groppa al corsiero, ci
sorrideva sollevando il braccio destro davanti alle porte di casa.
Avrei preferito la sua spada come amuleto ma evitai di chiedere.
Di certo pendeva dal fianco di mio fratello e, nonostante tutto, mi
augurai che avesse davvero il potere di renderlo vittorioso.

I ribelli Peuceti ci impegnarono per cinque, infuocate stagioni di


guerra. Con sforzo non indifferente, Taras aveva messo in piedi una
milizia di circa quindicimila opliti e tremila cavalieri praticamente
da sola. Da Thurii, infatti, avevano inviato soltanto tremila fanti e
cinquecento soldati a cavallo mentre Herakleia forse arrivò a meno
di duemila uomini. E pensare che eravamo la sua madrepatria.
A ogni modo, la tattica di attaccare una per volta le città rivoltose,
se da un lato fu logorante, dall’altro si rivelò la scelta più giusta per
soffocare nel sangue fino all’ultimo singulto indipendentista.
Il merito fu di Ippia, diventato lo strategos con più esperienza
militare sul campo, che riuscì a convincere tutti gli altri comandanti
di armata sul buon esito del suo piano militare a lungo termine.
Inizialmente, l’idea del consiglio di guerra era quella di dividere
equamente le forze a disposizione e di sferrare attacchi combinati
alla totalità dei villaggi e delle città insorte. I quasi cinquemila della
cavalleria, forti della loro mobilità, avrebbero fornito appoggio
negli scontri più duri a seconda della necessità, spostandosi
agilmente da un punto all’altro della regione, data la vicinanza dei
luoghi.

45
La questione stava per essere messa ai voti quando Archita prese la
parola e ricordò a tutti che, prima ancora di muovere i battaglioni
contro i rivoltosi, bisognava riappropriarsi dei presidi regionali e
dei fortilizi costieri. «Dobbiamo ricreare i nostri cardini di forza sul
territorio», valutò, «e per me, le mosse di Ippia sono quelle giuste
da seguire per ricostituire il protettorato. Senza quelle basi, non
potremo contare su vie sicure per i rifornimenti e se attaccheremo
all’unisono, sgretolando l’efficacia del nostro esercito, alle prime
difficoltà gli avversari gioiranno in cuore e si batteranno fino allo
strenuo davanti ai bastioni di ogni loro possedimento».
Benché esitanti, gli altri generali si piegarono al pensiero del grande
filosofo e il padre del mio amico Timone poté mettere in pratica la
sua strategia.
Ciò si rivelò un bene, sia in termini di vittorie che dal punto di vista
delle perdite umane, poiché ci accorgemmo presto che i Peuceti si
erano mossi per tempo. Oltre ai ribelli, mi aspettavo di trovarmi di
fronte in armi anche unità di Messapi, loro alleati, ma fin dall’inizio
mi accorsi che tra le loro nutrite file c’erano mercenari mamertini,
sanniti e addirittura gli implacabili guerrieri del Thybris.
Non ti racconterò molto altro su questa campagna militare.
Le mischie sono uguali in ogni guerra, così come lo sono il tanfo
del sangue mischiato al fango, al sudore e al piscio, le urla invasate
dei nemici alla carica, che si trasformano in grida di dolore sotto i
colpi delle lance, e i lamenti dei compagni di fila caduti e calpestati
nella polvere dai fratelli di lochos delle linee posteriori.
Il clangore degli scudi percossi, degli elmi squassati e delle lame
spezzate è lo stesso, monotono sottofondo metallico ovunque tu sia
a imporre la ragione delle armi. Soltanto i pianti dei bambini e le
preghiere delle donne cadute nelle mani dei vincitori all’inizio sono
qualcosa di indelebile, una voce deforme che ti si accende nelle
orecchie quando di notte poggi la testa sullo strapunto della tenda
e che t’insegue finanche nei sogni. Poi fai l’abitudine anche a quelli,
o t’imponi di andare a letto ubriaco per non sognare più nulla.
Per tre anni non rividi casa, eppure combattevamo in lungo e in
largo a poche centinaia di stadi dalle mura della nostra città.

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Non sapendo cosa significasse una licenza, scrivevo a mia madre e
ne ricevevo risposta soltanto quando i corrieri o i servi riuscivano a
raggiungermi dove era stato spostato il mio battaglione.
Partecipai in prima linea ai duri assedi di Rups e Silbion.
In quest’ultimo, durante una sortita alle spalle dei nemici, salvai il
tassiarca circondato da una dozzina di sanniti gettandomi con altri
tre commilitoni tra le lame dei mercenari. Restai ferito a una coscia
e a un fianco, unico ancora in vita insieme al mio comandante
prima dell’arrivo dei rinforzi. Quando la città cadde, Ippia mi
tributò un encomio davanti ai ranghi schierati della compagnia e mi
offrì un donativo di cento dracme come ricompensa per il mio
coraggio.
Nel mezzo di uno scontro furibondo nella battaglia di Kerina,
trascinai fuori dalle schiere Eurito ferito alla testa e me lo caricai
sulle spalle, disobbedendo agli ordini e portandolo al sicuro fuori
dalla mischia. Due giorni dopo, rimasi inginocchiato accanto a
Cleito il vecchio mentre esalava l’ultimo respiro trattenendosi le
viscere dal ventre squarciato e, insieme a Timone, pagai a peso
d’oro un mercante affinché riportasse il suo corpo a Taras per
riconsegnarlo a suo fratello maggiore.
Vidi la testa del povero Sofrone esposta sulle mura di Egnatia, dove
era stato catturato insieme al suo squadrone di cavalieri thurioti, e
la fine di diversi compagni dell’Agelaia tra i seminatori e i figli del
mare, ma il mio animo rimase sempre saldo e fiero nel momento di
reggere gli urti del nemico. Non ho mai pensato di essere migliore
degli altri ma posso dire di essermi battuto con freddezza in ogni
mischia, badando soltanto alla mia lancia e allo scudo di chi mi era
al fianco.
Il resto lo hanno fatto gli dèi oppure il ciondolo rosso che portavo
al collo.
Le resistenze degli insorti iniziarono a cedere quando mandammo
l’intera cavalleria ad attaccare la regione dei Messapi. Dovevamo
indebolire l’alleanza nemica e Ippia trovò la via più rapida affinché
questo accadesse. In poche settimane, i nostri cavalieri crearono lo
scompiglio incendiando e razziando ovunque il territorio compreso
tra Kailia e Mandyrion.

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Così i Messapi rispedirono a casa oltre la metà delle unità a difesa
dei loro domini e i Peuceti videro assottigliarsi d’improvviso le loro
file di armati. Quando le dispute tra i capi delle tribù rivoltose
divennero insanabili, l’intera strategia difensiva si sgretolò,
trascinando ogni città insorta a fronteggiare da sola il proprio
destino. A quel punto, anche i mercenari mamertini e sanniti
presero armi e bagagli e ritornarono a casa: davanti alla defezione
messapica, avevano chiesto il doppio di quanto pattuito per
continuare il loro duro servizio ma i Peuceti erano alla fame.
Soltanto i guerrieri del Thybris, da tori inflessibili, rimasero fedeli
ai loro giuramenti. Nel quinto anno di guerra, Thurii ci inviò altri
tremila opliti e il nostro esercito si lanciò all’attacco delle ultime
cinque rocche peucete, portandole rapidamente alla capitolazione.
Dilagammo tra le mura nemiche come demoni dell'Oltretomba,
bramosi di bottino e ansiosi di violenza, ma non trovammo altro
che miseria nera ad attenderci oltre le soglie dei templi, delle case e
tra le vie offuscate dal fumo degli incendi. Ciò che ne ricavammo
furono solo intere carovane di schiavi laceri, smagriti e dagli occhi
spenti che spedimmo subito a Reghion e a Messana a un prezzo di
favore.
Ritornammo a Taras sul finire dell’estate, osannati da due ali di
folla mentre sfilavamo lungo la Platea Magna per raggiungere le
guarnigioni dell’acropoli. Oltre alla nomina di locago per l’anno
successivo, dalla guerra riportavo cinquecento stateri, due giovani
servi messapi e un animo avvelenato dalle barbarie.

Ero entrato a far parte della Boulé da appena due mesi quando, in
piena assemblea, ci raggiunse l’annuncio della morte di Archita.
Non ricordo su quale decreto dibattevamo quando d’un tratto uno
dei pitagorici della sua accademia entrò nel Consiglio dell’agorà e si
affiancò allo stratego Leucippo, mormorandogli qualcosa sul collo.
Indifferente alla discussione, seguii quella scena e mi accorsi dello
sgomento che calava repentino sul viso dell’anziano generale.
«Silenzio!», esclamò stentoreo il vecchio gerarca. «A nulla valga
ogni altra parola! Oggi i numi celesti ci straziano il cuore! Il nostro
amato Archita è annegato a largo di Sepiunte!».

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Per il tempo di un respiro, la sala piombò di colpo in un vuoto di
morte a cui seguì subito una ressa di voci accorate che gettarono il
Consiglio nella confusione più totale. Con molta fatica, Ippia riuscì
a imporre la sua autorità e a richiamare al contegno i presenti.
Quindi portò l’accademico di fronte al consesso, pregandolo di
raccontare tutto ciò che aveva saputo su quella tremenda disgrazia.
Lo studioso annuì e si schiarì la gola, visibilmente provato.
La notizia era giunta nella scuola pitagorica a metà della mattinata,
quando una nave era sbarcata ai moli del Mare Grande. Era l’unica
sopravvissuta alla tempesta che aveva travolto i sei scafi del grande
filosofo nelle acque a metà fra le coste italiote e quelle illiriche.
La burrasca era stata così violenta da spezzare gli alberi e le carene
e nessuna delle altre navi della flottiglia era riuscita a scampare alla
forza devastante dei marosi. Tutti gli equipaggi erano annegati e il
cadavere del più importante uomo di Taras era stato ingoiato dagli
abissi. Eravamo stravolti. Archita era stato il faro della nostra città
fin da quando avevo memoria e si può dire che qualunque famiglia
aveva tratto vantaggio dalla sua illuminata direzione politica.
Le riunioni dell’Assemblea, i pritani, gli strateghi e qualsiasi altra
forma di magistratura non erano altro che neve al sole di fronte alla
sua figura carismatica. Senza mai prevaricare o fare sfoggio del suo
acclarato potere, quel saggio intenditore del bene aveva influenzato
per decenni la vita della nostra polis, rendendola ricca, potente e
popolata sopra tutti i più grandi e importanti centri della Magna
Grecia. E per quanto in quel periodo ci fossero anche altri valenti
politici, la sua improvvisa scomparsa era destinata a lasciare una
enorme voragine istituzionale.
Subito dopo il resoconto dell’accademico, furono inviati dei messi
al porto per convocare d’urgenza il capitano della galea superstite.
L’uomo, un tipo coriaceo di mezza età, si presentò con altri due
marinai e testimoniò su quanto avevamo appreso.
Gli occhi arrossati e il viso sgualcito dall’insonnia confermavano il
resoconto prodotto dalla sua voce, incrinata dallo sfinimento.

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Non c’erano dubbi in merito all’accaduto e anche quelli che si
erano presentati con lui giuravano sulla tragica fine della vera guida
di Taras: nel ringhiare della tempesta, l’avevano riconosciuto
mentre cadeva fuori bordo dalla sua ammiraglia tra le incornate
poderose dei marosi.
Avvisata, la loro ciurma aveva provato a sfidare il tridente di
Poseidon per avvicinarsi all’altra nave fracassata e tentare di
recuperarne il corpo ma un’onda enorme sulla murata di babordo
li aveva quasi travolti in pieno e così erano stati costretti ad
abbandonare quell’intento.
Frantumi di legno e cadaveri in quantità erano stati risucchiati alla
svelta sotto le ingorde creste schiumose del mare.
Con gli animi gonfi di tristezza, decidemmo di dichiarare un intero
mese di lutto cittadino. Tutte le riunioni dell’Assemblea furono
sospese, le palestre chiuse e le rappresentazioni al teatro di Dioniso
cancellate. I templi furono lasciati aperti solo per i sacrifici e anche
le porte del Pritaneo sull’acropoli vennero sigillate. Alle donne fu
imposto di uscire di casa col capo coperto da un velo nero e, non
avendo spoglie da ardere sulla pira, fu dato appalto a quattro artisti
fra i migliori di erigere il maestoso cenotafio che troneggia anche
adesso al centro della vecchia agorà.
Tuttavia, mentre il popolo e la maggior parte dei magistrati ancora
si asciugavano le guance rigate di lacrime, una infame decina già si
riuniva di nascosto nottetempo per sfruttare la situazione a proprio
vantaggio. La cosa venne fuori quando uno fra questo gruppo di
sciacalli, sentendosi a un tratto estromesso dal giro dei maneggi, si
trasformò in delatore dei suoi stessi compagni di cricca e denunciò
pubblicamente il bubbone che pure lui aveva aiutato a infiammare.
Archita doveva essere morto da meno di una stagione e io non ero
a Taras quando ciò accadde ma dalle parti del confine orientale con
la mia torma, ad arginare le nuove incursioni dei drappelli lucani su
quel lato del nostro territorio.
Fatti salvi gli ordini militari, con Bias ormai non avevo più rapporti.

50
Diventato primo filarca della cavalleria, mi aveva fatto trasferire tra
le sue file dal mio battaglione di fanteria, annullando di fatto la mia
promozione a locago. Avevo provato a parlarci con le buone ma in
breve la discussione era degenerata in un diverbio accesso e poi
quasi in rissa quando, davanti ad alcuni suoi amici fuori al tempio
di Hera, mi aveva zittito spintonandomi fra le urla. L’avevo colpito
in faccia quasi di riflesso, senza pensarci, e gli avevo spaccato il
naso.
I presenti si erano subito prodigati per trattenerci, prima che la sua
reazione ci ricoprisse di vergogna per le vie dell'acropoli.
Stravolto e sanguinante, Bias mi aveva cacciato pubblicamente di
casa e io avevo occupato per ripicca una delle quattro catapecchie
lasciategli da Anticrate nella città bassa. Lui però l’aveva saputo e
aveva mandato subito le ronde a buttarmi fuori da quel posto.
Così non avevo avuto altra scelta che chiedere ospitalità a Licurgo,
il mio prezioso amante di caserma ai tempi dell’efebia.
Ricordo che ero fra le colline dalle parti di Metaponton quando ci
raggiunse la staffetta inviata dal Consiglio. Seduto con i ragazzi
della mia squadra, consumavamo il rancio quando la avvistammo
risalire il crinale dell'altura sulla quale ci eravamo appostati e in
testa al gruppo riconobbi Timone.
Fui richiamato dal capo reparto mentre ancora mangiavo e pensai
che fosse perché il mio fratello di Agelaia volesse salutarmi.
Non era quello il motivo e lo capii non appena incrociai la sua
espressione tirata.
«Devi seguirci, cittadino», esordì atono in mezzo agli altri soldati.
Con la destra mi porse un rotolo col sigillo di suo padre Ippia.
Lo afferrai fissandolo negli occhi e l'aprii lì dov'ero. Sbiancando.
Si trattava di un ordine disposto dalla Boulé e ratificato dai dieci
rappresentanti dell'Assemblea. Dovevo rientrare immediatamente
in città per presenziare come testimone al processo a carico di mio
fratello: Lui e altri sette notabili erano accusati di cospirare ai danni
dell'ordinamento di Taras e di voler uccidere il nuovo ipparco e tre
strateghi. Restai impietrito e senza parole.
Avevo avuto modo di conoscere la bassezza morale di Bias ma non
potevo credere che la sua smania di potere l'avesse spinto a tanto.
Muto, riconsegnai il documento a Timone in un sospiro avvilito.

51
«Raccogli alla svelta le tue cose», disse coinciso, «perché dobbiamo
ripartire subito».
Con la testa annegata in un mare di pensieri, preparai la mia sacca e
risalii a cavallo, ignorando le domande dei compagni di squadra.
Era inutile spiegare ciò che sarebbe diventato l'unico argomento di
discussione dell'intera torma durante la cena.
Misi la bestia al passo, sfilando come un'ombra oltre i cerchi degli
altri gruppi di cavalieri, e raggiunsi la staffetta al centro del colle.
Timone mi guardò appena, poi lanciò un'occhiata al capo reparto
annuendo. «Consegna lancia e xiphos, soldato», mi sentii intimare
dal veterano. Senza battere ciglio, feci come aveva ordinato e il mio
fratello di Agelaia vociò immediatamente l'ordine di partenza alla
scorta. Mentre scendevamo il fianco brunito del rilievo, mi portai
in testa al corpo di guardia e mi affiancai al suo corsiero.
«Cittadino?», gli ripetei in tono infastidito. «Pensi ne fossi stato a
conoscenza?».
Timone replicò senza nemmeno voltarsi. «Si riunivano anche a casa
tua. E voleva ammazzare mio padre, quello che l'ha sostenuto dopo
la morte di Agatocle. Quello che vi ha sostenuti...».
«Mi ha sbattuto in strada tre mesi fa», l'interruppi esasperato. «Lo
sanno tutti nella Boulè. Pensi davvero che io avrei potuto coprirli?
A questo si è ridotta la tua fiducia in me? Io che venero Ippia sopra
ogni altro uomo della città?».
«E' il tuo sangue», mormorò quasi rassegnato, «e ha sempre saputo
tenerti al guinzaglio con la sua personalità...».
Furibondo, lo afferrai per i folti riccioli sulle tempie troncandogli le
parole in bocca e lo strattonai con violenza verso di me.
Col viso sgualcito dal dolore, lui alzò il braccio sinistro per fermare
il baluginare delle lance alle mie spalle.
«E' sangue marcio», gli scandii rauco d'odio all'orecchio, «e per me
non vale più nulla. Proprio come il tuo».
Quindi lasciai la presa e una coppia di cavalieri corse a serrarsi ai
miei fianchi con le lame sguainate.

Varcai le porte di una Taras inquieta a metà del giorno successivo.


Drappelli di opliti giravano in armi per le vie intorno all'agorà e
nell'acropoli non c'era portone di villa che non fosse vigilato.

52
Fui portato nella sala del Consiglio e i pritani fecero convocare il
mio ospite Licurgo, chiedendogli se volesse accettare la presenza di
guardie fisse davanti alla sua casa per evitare eventuali contatti tra
me e gli accusati. Non potevano imporgliele, giacché lui era un
cittadino al di sopra di ogni sospetto, ma gli dissero che in caso
contrario era facoltà della Boulé farmi spostare nel Pritaneo, il che
equivaleva a un isolamento completo.
Quell'uomo magnanimo accettò le condizioni dei magistrati solo
per il profondo affetto che nutriva nei miei confronti e non mancò
di mettere in ridicolo alcuni di loro, chiedendogli se avessero usato
la stessa misura cautelare per i loro figli, rei di essersi fatti vedere in
giro non molto prima con buona parte degli imputati.
Accompagnato da lui, andai a far visita alla mia famiglia nella zona
dei cantieri navali del Mare Piccolo e solo la sua conoscenza con i
soldati di guardia riuscì a farmi varcare le porte dell'abitazione di
Anticrate.
Risposi al saluto affranto del mio patrigno agguantandolo per il
collo e scagliandolo di peso in una delle colonne dell'atrio. «Con te
farò i conti quando questa faccenda sarà finita!», gli ringhiai contro
con gli occhi sgranati per la rabbia. Sparì senza fiatare, strisciando
sul pavimento come il verme schifoso quale era. Mia madre assisté
alla fine della scena e mi corse incontro inveendo. L'afferrai per le
spalle esili e la bloccai bruscamente, scaraventandola su uno dei
letti del salone.
«Il campione di Agatocle!», urlai fuori controllo, «il migliore dei
suoi figli, l'erede, il vanto della famiglia! Adesso dimmi che non è
vero, madre, giuramelo davanti a Zeus e a Persefone! Giuramelo
sulle ceneri di mio padre e dei tuoi avi oppure darò fuoco a questa
maledetta casa!».
Euridice scoppiò a piangere, gettandosi di colpo ai miei piedi.
Calliope riconobbe la mia voce e uscì dal gineceo, scendendo in
fretta i gradini per buttarsi fra le mie braccia.
«Non lo so», iniziò a singhiozzare nostra madre, «io ormai non so
più niente. Quale colpa ho, Mys? Dove ho sbagliato con voi?».
Le lacrime di mia sorella mi cadevano sul collo, mischiate al calore
del suo respiro gravido di afflizione.

53
Incrociai il biasimo impregnato nei tratti del caro Licurgo, fermo a
tre passi da noi.
Contro chi impazzisci? sembrava dirmi la sua espressione silenziosa.
Non ti accorgi che, di questa sciagura, loro due non sono altro che le
vittime?
Ritornai in me e mi sciolsi dall'abbraccio di Calliope con un bacio
in fronte. Quindi aiutai Euridice a tirarsi su e le strinsi le mani.
«Lui dov'è?», chiesi a mezza voce.
Mia madre scosse la testa, sconfortata. «Non viene qui da almeno
due giorni di mercato e credo che sia sorvegliato a vista nella villa
sull'acropoli. I miei servi sono passati da lì ma non hanno saputo
darmi certezze».
«Cosa ha detto Anticrate?», proseguii assorto.
Euridice abbassò gli occhi per la vergogna. «Mi ha ripetuto mille
volte di essere all'oscuro di tutto e che sarebbe stato un pazzo ad
assecondare quanto riportano le voci. E' convinto che sia tutta una
montatura di un sicofante pagato dagli avversari di Bias per farlo
fuori insieme a tutta la sua fazione».
Restai con loro fino al pomeriggio in attesa che il mio patrigno
rincasasse. Speravo di poterlo torchiare a quattr'occhi per fargli
sputare dai denti almeno una parte di verità ma ci raggiunse nel
peristilio verso il tramonto, portandosi dietro una coppia di amici,
e a quel punto feci segno a Licurgo di andarcene.
Sull'uscio di casa, mia madre gettò uno sguardo alle sentinelle dal
battente dischiuso e strizzò le palpebre, sfinita dall'avvilimento.
«Cosa gli accadrà, adesso?», sibilò mentre mi abbracciava.
«Se è colpevole morirà», sentenziai aspro, «e la vergogna ricadrà a
vita sopra le nostre teste».
Mai avrei creduto che, oltre all'infamia, gli dèi all'ascolto potessero
aggiungere anche la rovina.

All'alba del quarto giorno dal mio rientro, Timone e i suoi tirapiedi
ci svegliarono di soprassalto con infiniti colpi alla porta di Licurgo.
Arrivai nell'atrio ombroso quando i servi avevano appena aperto e
il drappello dei cavalieri già correva per le sale del piano inferiore
in un vociare d'ordini convulso.
«Come osate?», sbraitai riconoscendo uno di quelli della staffetta a
Metaponton, «Chi vi ha autorizzati?».

54
L'uomo mi spinse di lato mentre il padrone di casa mi raggiungeva
urlando furente.
Il mio vecchio compagno di Agelaia gli andò incontro e gli si parò
davanti sfrontato.
«Abbiamo l'ordine di perlustrare tutti i locali e le abitazioni della
città, dall'acropoli alla Porta Temenide», tagliò corto. «Uno degli
accusati è fuggito dal suo luogo di custodia. Scusaci per il disturbo
ma dobbiamo agire con rapidità».
L'ospite osservò torvo i quattro soldati che si avviavano correndo ai
vani del piano superiore. «Chi?», mugugnò irritato.
Timone puntò il mento irsuto verso di me. «Suo fratello. Un servo
di nome Callisto si è presentato nel cuore della notte a casa di Ippia
per avvisarlo. Una dozzina di tipi incappucciati ha aggredito la
guardia davanti alla sua dimora e l'ha scortato via da qualche parte.
I soldati assaliti che sono rimasti in vita dicono si tratti di mercenari
sanniti».
Mi sentii mancare il fiato.
Quel gesto sottoscriveva la sua colpevolezza e la nostra amara fine.
D'un tratto ripescai l'immagine dell'affezionato intendente di mio
padre alla fattoria che, tenendomi sulle spalle, mi portava in giro
tra i filari di ulivi e mi spiegava i tempi della semina e del raccolto,
l'alternanza delle colture e i rudimenti dell'allevamento.
Era un uomo buono e onesto, un amministratore la cui fiducia era
stata ricambiata da Agatocle con stima e autonomia di operato.
Chissà quali e quante vessazioni l'avevano esasperato a tal punto da
indurlo a tradire il primogenito del suo vecchio padrone.
Mi sedei a una panca dell'androne con la testa fra le mani e pensai
a quale enorme sciagura si era rivelata la morte di nostro padre.
D'improvviso, con la mente ottenebrata da mille scenari, sollevai lo
sguardo e fui travolto dall'afflizione scolpita nei tratti di Licurgo
che osservava impotente la sua casa rivoltata dai soldati come una
bettola di quart'ordine. Non meritava di patire tanto in onore della
vecchia amicizia. Così mi alzai di scatto e ritornai nella camera da
letto a raccogliere le mie cose, poi riapparvi nell'atrio con la sacca
in spalla e lo affiancai. «Sarò sempre in debito con te», mormorai,
«ma non posso sopportare oltre». Quindi mi rivolsi a Timone.

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«Tu, accompagnami al Pritaneo e richiama i tuoi cani. Resterò lì
fino a che vorrete così tuo padre e gli altri strateghi lasceranno
dormire in pace tutti i cittadini fino al giorno del processo».
Il figlio di Ippia esitò, forse per dar tempo ai suoi di terminare il
controllo, ma la rabbia mi infuocava così tanto le viscere che subito
gli andai sotto, a meno di una spanna dal suo naso. «Apri bene le
orecchie, fratello», lo minacciai gelido, facendo cadere a terra il
mio fardello con un tonfo, «se adesso non usciamo tutti da qui, i
tuoi dovranno trapassarmi cento volte prima di riuscirmi a staccare
dal tuo cranio sanguinante. E ti giuro che neanche tua madre ti
riconoscerà dopo che mi avranno ucciso».
Credo che Timone riconobbe nei miei occhi la stessa furia che vi si
accendeva prima di entrare nella skamma della scuola di Clearco
perché annuì senza indugiare oltre e vociò ai suoi che era tempo di
andare via. Nonostante tutto, il buon Licurgo provò a convincermi
a restare lì fra le sue mura ma lo baciai su entrambe le guance come
a un fratello e lo ringraziai ancora per la sua infinita disponibilità.
Poi infilai la porta e seguii i soldati della ronda.
Non eravamo arrivati a più di tre pertiche dalla casa del mio ospite
e a stento nella bruma mattutina riuscivo a distinguere la fine della
strada quando un tintinnio metallico mischiato a uno scalpiccio di
uomini in corsa risalì dal fondo della via. Era un gruppo di opliti
che cercavano Timone. «Eccoti, signore», esordì trafelato il primo
in testa. «Forse sappiamo che fine ha fatto. Una coppia di marinai
intenta a scaricare stanotte ai moli del Mare Grande ha visto un
tipo incappucciato e sei uomini armati salire a bordo di un gozzo.
Puntavano a un mercantile alla fonda poco lontano».
«Era lui?», l'incalzò agitato il mio vecchio amico d'infanzia.
«Non sono riusciti a distinguere l'uomo ma dicono che quelli che
gli erano intorno indossavano i mantelli di capra dei sanniti».
Timone mise le ali ai piedi e si fiondò al porto maggiore della città.
La coppia di testimoni dové ripetere la deposizione fino alla nausea
e a un tratto a uno dei due marinai tornò alla mente il dettaglio che
inchiodò definitivamente mio fratello: mentre saliva a bordo della
barca, l'incappucciato aveva accennato un cedimento della gamba
sinistra ed era stato sostenuto da uno della sua scorta armata.

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Allora Timone non ebbe più dubbi poiché, alla sua ultima presenza
nel Consiglio, Bias si era presentato zoppicante per una caduta da
cavallo.
«Va' da mio padre e riferiscigli che il fuggitivo è riuscito a lasciare
la città via mare», ordinò al suo secondo. Poi si voltò verso di me,
lanciandomi un'occhiata di rassegnata compassione. «Quanto a lui,
riaccompagnatelo pure all'abitazione di Licurgo...».

Per paura di altre fughe, l'indomani gli strateghi e i pritani aprirono


la sala del Consiglio, anche se era giorno di riposo, e allestirono in
fretta e furia le giurie per dare inizio al processo nel pomeriggio.
Sebbene svolti con incredibile rapidità, i dibattimenti si protrassero
per cinque intere giornate poiché la regola imponeva che ogni
accusato dovesse essere giudicato in una seduta singola.
Nell'ultima convocazione, però, la commissione sfinita derogò alla
prassi e accolse la richiesta degli accusatori di procedere in unica
istanza nei confronti di Filanto e Cimone, rei di essere fratelli di
sangue oltre che indiziati entrambi di congiura.
Pensavo che l'assenza di Bias mi avesse trasformato da testimone
designato a semplice spettatore, nondimeno fui presente in prima
fila oltre le sbarre a ciascuna delle udienze e ascoltai il medesimo
castello accusatorio ripetuto a ogni turno e le raffazzonate arringhe
di difesa degli incriminati e dei loro logografi. A parte il verdetto di
colpevolezza unanime per la totalità degli imputati, non ho molto
da aggiungere su questi processi.
Anzi no. A ben riflettere, ci fu una cosa che mi colpì molto: come,
dopo le prime sedute, i congiurati cercarono disperatamente di
alleggerire le loro posizioni sfruttando la fuga di mio fratello. Messa
spalle al muro, infatti, la maggior parte fra loro dichiarò di essere
stata letteralmente traviata da Bias, quasi il filarca avesse avuto il
potere sovrumano di plasmare le loro menti e di estinguere in uno
schiocco di dita la loro capacità di discernimento.
Il quadro assurdo che ne venne fuori presentava lui come il grande
burattinaio e gli altri della sua cricca quali nient'altro che uomini di
pezza, incapaci di contrastare la sua personalità e di disobbedire al
suo volere. Questo per farti capire con quale feccia si ubriacava ai
simposi notturni il primogenito della mia famiglia.

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Le condanne a morte per annegamento furono comminate al calare
del sole nel giorno successivo all'ultima udienza e l'intera città si
precipitò ad assistere al volo dei prigionieri che, mani e piedi legati,
venivano gettati fra le onde dal promontorio meridionale del Mare
Piccolo.
L'unico a evitare quella fine da vivo fu Filanto.
A quanto dicono, fu scaltro a sorbire il veleno prima della salita
verso il salto roccioso e a pochi passi dallo strapiombo si accasciò a
terra esanime. Ma anche così, il suo cadavere non fu risparmiato e
condivise comunque il destino del fratello maggiore.
Io non ero presente alle esecuzioni.
Nella seduta del pomeriggio precedente, quella conclusiva dove si
citava in giudizio Bias in contumacia, i magistrati avevano ratificato
la stessa pena degli altri anche a mio fratello e non potendo
procedere per la sua assenza ci chiamarono a turno al banco dei
testimoni per farci confessare dove si trovava o dove fosse diretto.
Qualcuno fra gli strateghi scampati alla congiura era convinto che i
suoi familiari sapessero presso chi era corso a invocare accoglienza.
Di fronte alla giuria inquieta, interrogarono mia madre e Calliope
senza ottenere altro che preghiere e pianti, quindi sentirono più a
lungo Anticrate e al mio turno mi torchiarono con illazioni, false
spiate e minacce nella speranza che ritrattassi le mie dichiarazioni.
Inventare una storiella convincente solo per tentare di salvare me e
la mia famiglia si sarebbe rivelato ancor più dannoso e infamante
rispetto a ripetere all'infinito la mia estraneità a ogni fatto di quella
vicenda. Non ci avrebbero messo molto a verificare che mentivo e a
quel punto, oltre ad aggravare la situazione, sarei stato condannato
anche come spergiuro dinnanzi agli dèi e agli uomini.
Fu Leucippo a leggere il verdetto della giuria.
Esilio di dieci anni per i congiunti del capo cospiratore scappato.
Esilio. E confisca di tutte le proprietà della famiglia di Agatocle,
compresi gli schiavi.
Ci diedero solo il tempo di quella notte per organizzare la partenza
e metà del giorno seguente per imballare i nostri averi e caricarli su
un paio di barrocci presi in affitto da Anticrate.

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Quindi, al tramonto, mentre gli altri congiurati venivano condotti
alla punta del promontorio, un drappello di opliti ci scortò oltre le
mura esterne di Taras fino al sentiero nei pressi della palude Salina.
A piedi, ci dirigemmo verso nord est attraversando il territorio dei
Messapi e in circa tre giorni coprimmo più di trecento stadi per
raggiungere la città di Brun. Da lì c'imbarcammo a caro prezzo
sulla galea di un crotoniate che ritornava in patria carico di anfore
di vino e sacchi di spezie orientali.
Appena sbarcammo sui moli del porto di Kroton, rivelai a Euridice
e a mia sorella quali erano le mie vere intenzioni. «Non posso
venire con voi», dissi a mezza voce mentre Anticrate trattava il nolo
di un'altra coppia di carri nella confusione dei pontili.
«Cosa dici?», impallidì Calliope. «Dove altro potresti andare?».
Euridice mi prese le mani, fissandomi con occhi tormentati.
«Vuoi metterti a cercarlo?».
«Neanche se mi obbligasse Zeus in persona, madre», replicai duro.
«Bias per me non esiste più». Poi puntai l'indice sinistro tra la ressa
al margine dell'approdo, dove il mio patrigno spiccava tra gli altri
per il suo gesticolare da imbonitore. «Ma se venissi a Thurii con
voi, finirei di certo per ucciderlo. Ho deciso che andrò a sud, forse
a Rhegion o a Locri, per adesso non ha importanza. Ciò che conta,
invece, e che voi restiate in salute e fiduciose di rivedermi presto.
Vi farò avere mie notizie, così nell'attesa potremo scriverci».
Le lacrime rigavano i loro volti quando, sacca in spalla, le baciai
entrambe prima di infilarmi nel dedalo di vicoli affacciati sul porto.
Un altro pezzo dei loro cuori cadeva d'improvviso in frantumi.

Dopo aver lasciato ciò che restava della mia famiglia, cercai per
prima cosa un giaciglio asciutto sul quale poter trascorrere la fine
di quella giornata. Tra le tante taverne annidiate alle spalle dei
moli, riuscii a trovarne una con un paio di camere ancora libere al
primo piano e affittai la stanza più lontana dalle scale.
Era un buco cadente ma per uno abituato a dormire all'aperto nel
gelo e nel freddo notturno del campo militare andava più che bene.
Così pagai al garzone quanto richiesto e mi ci ficcai dentro subito,
poggiando la sacca in un angolo e gettandomi di peso sul letto.

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Nei giorni precedenti, la rabbia e la sofferenza mi avevano divorato
l'animo e per tutto il tempo del viaggio fino a Kroton la mia testa si
era arrovellata senza interruzione tra mille pensieri, specialmente di
notte. D'improvviso però il corpo si era opposto e ogni riflesso di
sentimento si era tramutato in un'incredibile stanchezza fisica. Al
limite dell'esausto, dormii dal pomeriggio fino all'alba seguente e
mi risvegliai affamato, oltre che di nuovo cupo nell'animo.
Scesi giù tra i tavoli ancora vuoti e andai a sedermi direttamente di
fronte al bancone dell'oste, chiedendo qualcosa da mettere nello
stomaco insieme a pane e vino. L'uomo era solo e mi servì avanzi
della sera precedente mentre ripuliva le panche e l'impiantito del
locale. Adesso non ricordo più il suo nome, ma si mostrò affabile e
loquace e in breve mi ritrovai a chiacchierarci mentre mangiavo.
Per il modo in cui parlava e i tratti olivastri del viso, doveva essere
uno straniero trapiantato da molto in quella città - forse originario
di Selinute o di Leontini - e sembrava essere parecchio aggiornato
su quello che accadeva nelle altre poleis della lega italiota e di
Sicilia.
Dopo aver rassettato alla buona, prese addirittura uno sgabello e
mi sedette accanto per farmi compagnia nel vuotare la brocca del
suo stesso rosso diluito. I suoi modi erano tanto schietti e genuini
che l'avresti pagato volentieri già solo per l'innata simpatia.
Comunque, pur guardandomi bene dal raccontargli le mie vicende,
nel discorso saltò fuori che provenivo da Taras e avevo intenzione
di trasferirmi più a sud, indeciso tra Reghion e la città in cui era
nata mia madre.
Allorché sentì che l'alternativa era Locri, il locandiere ingollò un
bel sorso e poi schioccò la lingua. «Sarai mica un mercenario,
orfano della sua squadra, che va in cerca di ingaggio?», mi chiese a
mezza voce.
Finsi di essere un atleta e così riacquistò la sua espressione gioviale.
«Allora non c'è nemmeno da rifletterci, amico mio», valutò sicuro.
«Evita problemi e punta dritto a Epizeferi».
Domandai a che tipo di problemi si riferisse e l'oste mi rivolse uno
sguardo stupito. «Ma che fai? Parti all'avventura? Non sai che a
Reghion la situazione è rovente?».
Scossi appena la testa, masticando un boccone di pane.

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«Questa taverna è un porto di mare», esordì convinto, «ci entra
gente da qualsiasi parte della penisola e ogni giorno ascolto notizie
di tutti i tipi. Non più di due lune fa, a un tavolo di mercanti c'era
uno che si lamentava di non aver potuto far scalo da quelle parti.
Mormorava che la città era in rivolta. L'intera popolazione era
insorta in armi contro le truppe di Dionisio il Giovane per
rovesciare suo figlio Apollocrate dal seggio di reggente e la zona del
porto era in stato d'assedio insieme all'acropoli. Per quanto aveva
saputo, tutto era scoppiato per l'ennesima tassa pretesa dall'avido
rampollo del tiranno. La gente aveva protestato nell'agorà e i
mercenari sicelioti avevano ridotto in fin di vita alcuni cittadini,
gettando pece sul fuoco. Il popolo esasperato aveva trucidato gli
sgherri di Apollocrate nella piazza e aveva lanciato l'attacco alle
caserme del porto e sull'acropoli per cancellare la macchia
siracusana dalla sua terra, mentre il tiranno meditava la fuga. Allora
qualcuno tra i compagni di bevute gli ha chiesto come pensava
potesse andare a finire lì e il mercante ha fatto spallucce, spiegando
che in rada un pescatore gli aveva detto che i soldati resistevano
arcigni all'assedio in attesa di rinforzi da Locri, per riprendere il
controllo della zona dei moli e della città bassa».
Riflettei che forse era meglio cambiare versante, magari puntando a
Hipponion, ma l'oste storse la bocca in una smorfia di disgusto.
«Bah! E che ci va a fare un atleta in quel covo di ribelli? I Bretti
l'hanno ridotta a nient'altro che una squallida borgata. Non hanno
storia e non conoscono la civiltà. Sono soltanto una costola infetta
dei Lucani. Parlavi di Epizeferi, no?».
Intinsi l'ultimo pezzo di schiacciata nell'olio del tegame e finii la
mia colazione salata, ricordandogli che era stato lui a informarmi
che Dionisio il Giovane stava iniziando a perdere il controllo dei
suoi possedimenti.
Le rivolte erano un morbo contagioso, aggiunsi, e io volevo restare
a lungo in salute.

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Il tipo accennò un sorriso, versandosi un'altra coppa di vino. «E'
vero che dicono sia la copia deforme e molliccia di suo padre e che
il figlio Apollocrate sia anche peggio, ma stai sicuro che a Locri
non avrai problemi. L'aristocrazia è fedele alla sua dinastia da oltre
trent'anni e per questo la città è stata a lungo beneficata dal vecchio
padrone di Sicilia. Certo, adesso non è più prospera come all'epoca
perché Dionisio il Giovane sta alleggerendo parecchio le casse ma il
suo esercito la tiene sicura da attacchi esterni e resta davvero un bel
posto in cui vivere: ampie strade, mercati pieni, grandi templi,
quartieri di commercianti, teatri e colture di uva, fichi e grano per
stadi e stadi, dalle campagne fuori alle mura fin quasi a Kaulon».
Quando ti trovi di fronte a un bivio e non sai che strada prendere,
lancia sempre una moneta.
Non sono un tipo esperto di consigli, ragazzo, ma questo è uno dei
pochi che posso darti.
Di sicuro avrai la metà delle possibilità di indovinare la via giusta.
Se invece darai ascolto alle chiacchiere e ai ho sentito dire, stai pur
certo che imboccherai irrimediabilmente il sentiero più impervio.
A riprova di ciò, abbandonai l'idea di spostarmi sulla costa
controllata dai Bretti e mi lasciai convincere dalla bontà del vino
del taverniere. Se le sue parole erano sincere come il rosso che
vendeva, il male minore era obbedire alla tirannia locrese di
Dionisio il Giovane e intanto cercare i parenti di mia madre con la
speranza che riuscissero a darmi un lavoro.
Così ripresi la mia sacca, saldai il conto e lo salutai, ringraziandolo
per il suggerimento. Poi ritornai giù ai moli e impiegai mezza
mattinata per trovare una galea che facesse scalo da quelle parti.

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