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Alberto ghia (matricola 321753) – corso di laurea in Lettere/triennale

LA NARRAZIONE SPORTIVA, FRA FORME EPICHE E ROMANZESCHE

1. INTRODUZIONE
Lukács chiude il suo saggio Teoria del romanzo con l’indicazione di Dostoevskij come autore
epico, come colui cioè che ha recuperato l’unità di uomo e mondo esterno, colui che ha ritrovato il
senso. Senso che, a suo dire, si trova nella letteratura epica classica ed in una certa maniera anche in
Dante, malgrado questo postuli il ritrovamento dell’unità del senso in un mondo al di là della realtà
vissuta. L’unità epica per Lukacs è stata persa perché tra io e mondo si è creato un abisso, che ha
portato alla creazione delle forme, ed in particolare compito della forma è quella di mostrare la
frantumazione dell’io e la sua disgregazione dal mondo; allo stesso tempo, però, si augura che
l’unità presente nel mondo antico si ripresenti e, secondo il filosofo, questa unità mostra segni di
ricostruzione già nel romanziere russo.
Al giorno d’oggi, sembrerebbe che tale riunione di anima e mondo se ancora non si sia mostrata,
poco manchi al suo riaffiorare. Lo sbandierato ritorno dell’epica da parte del collettivo Wu Ming lo
scorso anno è poco più che una presa in giro, ma ci sono già prodotti narrativi, comunemente
indicati come romanzi, che condividono alcune delle qualità che Lukács, Bachtin ed Ortega
indicano come epiche: si tratta del cosiddetto romanzo sportivo.
Attenendoci alle teorie di Bachtin, ci troviamo in presenza di forme epiche romanzizzate, perché
troviamo comunque alcuni degli elementi epici affiancati da spie proprie del genere-aperto
romanzo. Con Ortega, infine, condividono alcune delle caratteristiche da questi opposte a quelle
romanzesche del Don Chisciotte, ma è il tema soprattutto che ricollega al filosofo spagnolo; nel suo
saggio L’origine sportiva dello stato evidenzia come le prime forme di umanità si siano raccolte
attorno ad associazioni che ricordano i moderni club sportivi, e riconducendo nelle considerazioni
sul Chisciotte la materia allo stock mitico, sorge uno spontaneo ed istintivo tentativo di
collegamento fra i primi prodotti culturali ed il mito.
L’indagine è stata condotta su testi di narrativa sportiva legati alla pallacanestro perché era
necessaria una conoscenza discreta dello sport per poter svolgere un’analisi esauriente (in
particolare il problema si è posto per Ortega); credo comunque che non sia difficile per chi
padroneggi bene il calcio trovare esempi forse più illuminanti di quelli che ho proposto. Ho cercato
di vagliare un corpus che potesse rivelarsi esemplare del panorama, analizzando tre romanzi di ex
giocatori che parlano del loro sport (Tre volte in vano di Emiliano Poddi, ed. Instar Libri; Di lì a
poco sarebbe piovuto, di Marcello Nicodemo ed. Oltreleparole.net; E se c’ero, dormivo di
Francesco Piccolo, ed. Feltrinelli), e di un ex giocatore che parla d’altro (Il mangiatore di pietre di
Davide Longo, ed. Marcos y Marcos). Utile si è anche dimostrato il racconto di Nicodemo
disponibile sul suo sito www.marcellonicodemo.it Diverso ed uguale.

2. QUALCOSA DI PIU’ SUI ROMANZI ANALIZZATI


2.1 Di lì a poco sarebbe piovuto
Alfredo è un giovane giocatore di pallacanestro dalla sensibilità esasperata e dalla carriera
terribilmente discontinua. Un giorno incontra Marco, un ragazzo da lui molto diverso, delicato e
forte allo stesso tempo, semplice fino all'estremo eppure in grado di insegnargli molte cose, di farlo
entrare senza quasi accorgersene in un solco positivo di gioia esistenziale e di continuo progresso. I
due ragazzi aprono un jazz club a Chieti, la città di Alfredo, e col passare dei mesi e degli anni,
attraverso il procedere del loro lavoro comune, della carriera sportiva, gli studi di Alfredo ed altri
avvenimenti significativi, la loro unione diventa fortissima. Alla fine, però, Marco muore e Alfredo
parte per un viaggio negli Stati Uniti.
2.2 E se c’ero, dormivo
C'è una ragazza sfuggente e amata, di nome Claudia. C'è Dario, figura ideale e idealizzata di leader
del movimento studentesco di una città di provincia. E c'è il mondo del basket, raccontato in tutta la
sua tensione mozzafiato. Amore, politica e sport stanno come universi comunicanti in questa

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cronaca della fine di un'adolescenza vissuta intensamente e ricordata con struggimento e ironia. Il
libro tratta le scorribande e le traversie di chi incomincia a capire che la vita è molto complicata,
certe volte assurda, certe volte dolorosa, ma che è meglio ascoltare bene il proprio cuore, anche
quando la testa non sta attenta.
2.3 Tre volte invano
Tre volte invano è la storia di un ragazzo, Emiliano, che gioca a pallacanestro praticamente da
quando è nato, ma non è un fenomeno, anzi, il più delle volte le partite finiscono senza che lui abbia
segnato un punto. Finché un giorno, e non un giorno qualsiasi, ma quello della finale, il ragazzo fa
fuori mezza difesa avversaria con una finta sola e la butta dentro. Passano i mesi, gli anni, e il
ragazzo è ormai un playmaker, ha un ruolo e uno scopo nella vita, probabilmente continuerebbe
così per tutta la vita, se a due minuti e diciassette secondi dalla sirena di un’altra finale non franasse
per terra rompendosi un ginocchio. Da lì in avanti, per lui, è come se attorno al campo di basket
crescesse una barriera sempre più alta. Ora, per il ragazzo, la sfida è superare quella barriera, a
costo di andare sotto i ferri una volta, due volte, tre volte, ma non è detto che ci riesca.
2.4 Il mangiatore di pietre
Una fredda serata di settembre, in una valle del Piemonte, dalle acque di un torrente, affiora il
cadavere di un uomo: qualcuno lo ha ucciso con due colpi di fucile.
Il corpo è quello di Fausto, trentenne pregiudicato. A ritrovarlo è Cesare, che tutti chiamano il
Francese: emigrato a Marsiglia ancora bambino, si era messo nei guai con la giustizia ed era stato
espulso dal Paese. Tornato alle sue montagne, ha ereditato dallo zio un "mestiere" antico, tutt'altro
che legale, cui ha iniziato, giovanissimo, proprio Fausto. La sua sorte non sorprende: la gente è
certa che siano stati "quelli del suo giro a fargli il servizio". D'altronde, Fausto ha una cattiva
reputazione, ha "rovinato" più di una donna, ha imbastardito quel lavoro. Ma c'è qualcuno che,
pochi giorni prima del delitto, risalendo al buio un sentiero verso il confine, ha visto quell'uomo con
un gruppo di persone. E' Sergio, poco più che un ragazzo, stanco di vivere sotto il dominio paterno,
fatto di mucche da accudire, di formaggi da rivoltare. Sergio ha intuito che la morte di Fausto ha
interrotto un "lavoro" a metà. Portarlo a termine, con l'aiuto di Cesare, cambierà la sua vita.

3 ORTEGA E BACHTIN
Gli studi del filosofo spagnolo e del collega russo permettono un’analisi in parallelo dei loro
concetti di epica e romanzo.
3.1 Il tempo
La teoria dei due studiosi è abbastanza concorde: prevedono per il romanzo uno sviluppo che
affondi le proprie radici nel presente, ed uno sviluppo per il protagonista (il tempo cioè passando lo
deve modificare, come se in ogni romanzo fosse in germe un romanzo di formazione); per l’epica
invece un tempo distante, ben differenziato dal presente, cui non si può risalire tramite la sola
memoria.
Parlando di sport, è quasi impossibile non presentare forme in divenire, secondo i due pensatori
proprie del romanzo: eppure proprio il momento sportivo tende ad essere superato, annullato, reso
come continuum, cui però si alterna la vita propria dei protagonisti: Alfredo con l’università e il
locale, il narratore di E se c’ero dormivo alle prese con la politica e con una ragazza. È interessante
soprattutto la figura di Emiliano, che si infortuna: se nei primi romanzi vediamo un intrecciarsi
delle vicende, un alternarsi di sport, più propriamente epico, e vita quotidiana, più romanzesca, in
Tre volte in vano la struttura è fortemente dicotomica: se prima Poddi si dedica di rado a momenti
privati del protagonista, dopo l’infortunio il basket non sparisce, ma non è più vissuto, viene
presentato come passato. E’ come se l’esperienza sportiva (il gioco fine a se stesso, il momento di
gara ma anche l’allenamento) si presentasse come un continuum – a volte interrotto dalla vita
quotidiana – che non ci appartiene. Il gioco continua, non finisce mai, non è un tempo personale,
come quello della vita privata, è impersonale, comune a quanti condividano quello sport,
ugualmente separato dal presente tanto che si tratti di una partitella informale, quanto di un incontro

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avvenuto decenni fa. A proposito: “Quella notte giocai la finale innumerevoli volte”1, “(il proprio
turno) che non arrivava mai. Perché mentre la tua partita era volata via in un niente, le altre
scorrevano lentissime e si trascinavano punto a punto fino al traguardo dei venti…”2 che mostrano
molto bene la reversibilità del tempo sportivo. Un qualcosa di molto simile alla visione del mondo
tutto uguale dal punto di vista del Sole che ritroviamo nell’Ecclesiaste (1,9): ecco allora due
citazioni che richiamano proprio il libro biblico: “Diceva l’Ecclesiaste3: tutto ciò che fai è già nel
pensiero di Dio, che in base ad una mia particolare esegesi significa che a Zio Fabio devo
leggergli il passaggio prima ancora che lui lo abbia concepito”4 e “Perché a Sant’Anna eravamo
ancora nel Vecchio Testamento”5 e cioè lontani dalla visione del tempo in sviluppo di prima e dopo
la venuta di Cristo.
Questo elemento emerge anche negli altri testi analizzati, malgrado in Poddi sia più marcato questo
modulo temporale, tanto che ciò che accade in questo regime temporale può arrivare a condizionare
il quotidiano, contraddicendo almeno in parte la teoria dei generi di Bachtin: “A noi la semioscurità
di Marra non dava fastidio (…) Più o meno consapevolmente, molti di noi avrebbero tentato di
riprodurre quelle stesse condizioni di luce (…) la notte in cui avremmo perso la verginità” 6. In
Francesco Piccolo l’elemento cestistico è marginale, eppure troviamo: “E mannaggia, il tempo si
fermò un’altra volta. Quando fai canestro hai la sensazione di sospensione per tutto il tempo da
quando la palla lascia l’ultima punta del dito fino a quando tocca il promo brandello di retina”7 e
“Il tempo scorreva e adesso accelerava addirittura (…) aspettavo quel momento che si sarebbe poi
ripetuto per anni, ma tutti i gesti di quella partita erano uguali a quelli che avevo già compiuto ed
avrei compiuto ancora…”8; l’esperienza temporale in Nicodemo invece la si comprende meglio per
contrappasso: non appare tanto la reversibilità del tempo sportivo, quanto invece la complessità del
tempo quotidiano nel romanzo Di lì a poco sarebbe piovuto, mentre nel racconto Diverso e uguale
ecco riapparire come congegno narrativo proprio la reversibilità del tempo sportivo, due partite ben
diverse vanno sovrapponendosi.
Più difficile è un’analisi della situazione in Longo: qui infatti sorge il grande problema dell’analisi
di questo romanzo, e se cioè l’aver giocato a pallacanestro ha impresso nell’autore quegli
atteggiamenti che altrove troviamo narrati, ed in particolare che traccia ha lasciato il tempo
reversibile “vissuto”. Nell’atteggiamento di Cesare troviamo quel tanto di abitudinario – “Cesare
da undici anni scendeva due volte la settimana”9 – traccia indelebile di una certa ‘scuola’ narrativa
piemontese e che non può esserci d’indizio, ma anche informazioni a proposito del suo lavoro:
Cesare è uno spallone, e “Sentiva di appartenere a una lunga catena di uomini che si erano
spostati di notte, … tutti avevano percorso piste segnate dai padri e da altri uomini di cui si era
persa memoria”10. Ancora, un personaggio riprende Cesare con queste parole: “Il mondo è
cambiato, Cesare, e non ero sicuro che te ne fossi accorto. È stato il mio modo di dirtelo.” 11 Il
romanzo si conclude con l’uccisione di Cesare, che morendo “Guardò attraverso il vetro sporco di
rosso il sentiero che suo padre, suo nonno e altri prima di loro avevano salito. L’ultimo pensiero fu
che, dopo di lui, nessuno più”.12 Legato alle occupazioni umane tipiche della montagna, si veda il
film Il vento fa il suo giro (ed ancora una volta, l’Ecclesiaste!13): qui, però, la conclusione non è così
tragica e ritroviamo quella forma aperta di cui stiamo per parlare; si tenga presente solo che più che
1
Poddi, cit., p. 16
2
Poddi, cit., p. 97
3
Ecc. 9,1: Infatti ho esaminato tutto questo e ho constatato che i giusti e i savi e le loro azioni sono nelle mani di Dio
4
Poddi, cit., p. 112
5
Poddi, cit., p. 116
6
Poddi, cit., p. 18
7
Piccolo, cit., p. 128
8
Piccolo, cit., p. 152
9
Longo, cit., p. 45
10
Longo, cit., p. 64.
11
Longo, cit., p.133
12
Longo, cit., p. 205
13
Ecc. 1,6:Soffia a mezzogiorno poi gira a tramontana e volgendo, volgendo il vento se ne va e sopra le sue spire ritorna il vento

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una distanza temporale in ragione di prima e dopo nei romanzi analizzati, qui l’incommensurabile
separazione fra tempo epico e tempo narrativo avviene in ragione di reversibilità ed irreversibilità.
3.2 La struttura
Quando l’uomo smette la sua divisa che lo colloca all’interno di una forma temporale reversibile,
l’opera si conclude, inevitabilmente. La parte epica del testo cede il posto al romanzo. Solo in
alcuni testi la fine coincide con la fine del momento epico (Longo, Piccolo); in Poddi il momento
epico vero e proprio finisce a circa due terzi del testo, con un evento sensazionale: si blocca il
cronometro (come da regolamento) a 2’ e 17” dalla fine: il protagonista è caduto, si è infortunato ad
un ginocchio, la sua carriera in pratica è finita. Il capitolo seguente si apre con un ricordo volto al
passato, le esperienze successive al trauma vengono narrate in modo abbastanza sbrigativo, quasi
senza interesse. Pare sia chiaro all’autore che il tempo epico non spetti più al protagonista: se prima
ci informava che “Per noi il calendario non era quello con i giorni ed i mesi, ma quello delle
partite”14, quando gli verrà chiesto quando si fosse fatto male, risponderà una data precisa,
quotidiana, pur essendogli possibile dire, secondo tempo epico, durante la partita per accedere
all’interzona. Il testo si trascina ancora avanti, poi si conclude spiegando il titolo.
In Di lì a poco sarebbe piovuto abbiamo più o meno lo stesso sviluppo narrativo: finisce il
campionato, Alfredo torna a casa e Marco, il suo compagno, muore. Potrebbe concludersi
benissimo qui, invece un ulteriore capitolo ci parla di Alfredo in America, ed anche in questa chiusa
troviamo la spiegazione del titolo.
Queste due opere sembrano aderire molto bene alle teorie dei due studiosi, i quali assegnano
all’epica una forma chiusa, perché non comunicante con il presente ma allo stesso tempo aperta,
perché trovandoci in un tempo diverso da quello quotidiano, di per sé concluso e perfetto, inizio e
fine non sono categorie con valore estetico.
Legato al discorso del tempo concluso, Bachtin sviluppa l’idea della profezia epica, contrapposta
alla predizione romanzesca15 : la prima è caratterizzata dal risolversi completamente nel tempo
dell’epica, dunque separata dal quotidiano e di riguardare esclusivamente il protagonista.
Effettivamente, il lettore ha poco a che fare con la mandorla di Emiliano16. Nel momento in cui cade
a terra, quando la sua carriera eroica si conclude, il protagonista si rialza, si mette a correre per
riprendere la partita, ma si inserisce il piano del ricordo di lui che cerca di spaccare una mandorla
per sua cugina, ma il colpo inferto è troppo forte e il frutto si spappola. Il dottore che deve operarlo,
una trentina di pagine dopo, usa l’espediente della mandorla per spiegare cosa ha subito il suo
ginocchio: la metafora è particolarmente riuscita, e si ritrova anche la profezia, malgrado appunto la
reinterpretazione che secondo il formalista russo caratterizza la predizione romanzesca. Questa
mandorla allegorica però non ci riguarda, è lì solo per l’eroe/protagonista, non è richiesto il nostro
intervento a portarla in un futuro per noi lettori.
3.3 L’ argomento e l’ eroe protagonista
Bachtin sostiene che protagonista dell’epica sia il passato epico tradizionale e la tradizione
nazionale, eventi narrati (e non descritti, per Ortega) di un tempo completamente distinto dal
presente di autore e lettore: sembra coincidere con quello che Ortega definisce stock mitico. Per
quanto riguarda Il mangiatore di pietre, si è già detto che la professione svolta dal protagonista è un
lavoro antico, tradizionale, e la fine, già citata, lascia presumere che sia una forma chiusa. In Tre
volte in vano, Da lì a poco sarebbe piovuto e E se c’ero, dormivo ritroviamo l’azione sportiva in un
tempo separato dal presente perché tutti si concludono epicamente con la fine della carriera sportiva
dell’eroe – che dunque nel momento in cui narra non è più eroe, ma solo narratore – e se si accetta il
gesto sportivo come primo e creativo, gesto fondante della cultura umana, nato non da gesti
necessari quanto dall’energia superflua, come sostiene Ortega nel saggio La nascita sportiva dello
stato, ritroviamo quello stock mitico, quei gesti primi della nostra cultura, non per questo
abbandonati, al massimo maggiormente codificati.

14
Poddi, cit., p. 45
15
Bachtin, Epos e Romanzo, p. 472.
16
Poddi, cit., pp. 90, 129

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Per quanto riguarda l’eroe, si fanno necessarie creature uniche, che appartengano allo stesso mondo
dei loro desideri, non legati al desiderio di essere se stessi che puzza di romanzo di formazione.
Essendo necessario questo legame, se devono essere cosa unica il mondo in cui si trovano, i desideri
degli eroi e gli eroi stessi, non possiamo che trovare un punto di vista unico. Il punto di vista risulta
essere quello del mondo epico, quello dello stock mitico, che detta desideri, necessità, modi di
comportamento: “Mio padre passava la palla con la presunzione che tutto il mondo fosse allineato
sul suo stesso asse di pensiero17”. Nei romanzi sportivi, spesso il desiderio latente o esplicitato è
quello di vincere, ma riguarda solo il protagonista quando è eroe. Questi eroi difatti si presentano
come a mezzo servizio. Si è già detto che il tempo sportivo è separato in quanto reversibile, dunque
anche sospendibile: fra una partita e l’altra, fra un allenamento e l’altro, il protagonista esce dal
tempo epico, si fa persona qualsiasi, priva di ogni unicità, alle prese con i problemi quotidiani e con
la forma del romanzo di formazione. Per quanto riguarda l’unicità, Emiliano diventa. “Perché
sapeva (Teddy, il sesto uomo), e tutti i miei compagni lo sapevano, che quando nella mia mente
scattava una certa molla, dopo non era più possibile fermarmi. (… )Chiamatela trance agonistica,
se volete, o stato di grazia, o invasamento, ma sono tutte definizioni approssimative. (…) Io in quei
momenti diventavo. Diventavo e basta, senza bisogno di aggiungere altro. Diventavo per il fatto di
mutarmi in qualcuno o forse meglio in qualcosa di diverso da quello che ero stato fino ad un
secondo prima. Diventavo nel senso di essere vento18”. Ecco l’eroe che, nella condivisione del
punto di vista, emerge. La molla, come la identifica l’autore, (prima codificato come istinto), è il
farsi epico del protagonista, è il tempo reversibile che lo sgancia definitivamente dal suo essere
quotidiano, lo assorbe e lo sottrae alle regole del romanzo di formazione: tutto si fa incosciente,
nessuna ricerca di risposta, la domanda e la risposta è già data, il senso è immanente, sosterrebbe
qui Lukács. Piccolo ci aiuta a capire: se per essere eroi il punto di vista deve coincidere con il
mondo epico, e dunque con il gioco, farsi anzi tutt’uno con il mondo, rivolgersi con la mente al
mondo quotidiano non permette di scollarci da questo. “Giocavo e pensavo ad altro, giocavo e
pensavo che se continuavo a pensare ad altro non sarei mai diventato un buon giocatore, che quelli
di noi o della squadra avversaria che sarebbero diventati buoni giocatori di basket stavano in
campo e pensavano sempre e soltanto a quello che stavano facendo, che avrebbero dovuto fare”19.
Qualcosa di simile al diventare di Poddi lo troviamo in un compagno di squadra di Alfredo, nel
romanzo di Nicodemo: “Mi sembrava incredibile che il Salvatore pigro e indolente che conoscevo
potesse trasformarsi in una tale belva irrefrenabile da canestri”20: Tutti i personaggi dell’epica,
secondo Ortega, devono essere unici. E allora anche l’allenatore può essere unico, come in Poddi:
“I nostri coach potevano sì essere stati battezzati con nomi diversi, ma una volta passati dalla
porta girevole, per un gioco di diminutivi simile ad un incantesimo si trasformavano tutti in Rino.
Per di più, da un giorno all’altro decisero di farsi crescere la barba e di colpo diventarono uguali
anche fisicamente”21. E più avanti: “La voce di questo Rino, chiunque sia…”22:. Arrivati nel mondo
epico, ci sono giocatori unici, unici allenatori, tutti tanto uguali che si confondono per nome e per
qualità fisiche, ma non confondersi con la maschera del folklore popolare: non si parla di
personaggi con un certo taglio comico a caratterizzarli, ma di uomini che per la loro essenza epica si
fanno uniche. È l’archetipo dell’allenatore del tempo epico incarnato in diverse persone quotidiane.
3.4 Virtuosismo e ansia di originalità in Ortega
Ortega è l’unico a sottolineare il virtuosismo che sta dietro alle opere epiche. L’autore ed il
pubblico, sostiene, conoscono già le vicende narrate, e per tanto il lavoro che c’è alle spalle
dell’autore è virtuosistico, nel senso che ripropone eventi noti in vesti diverse. Negli scrittori
analizzati (con l’esclusione però di Longo) emerge nella narrazione degli eventi: tutti si guardano
bene dal descrivere i gesti, che sono sempre identici; come in tutti gli sport, si ricorre ad un notevole
17
Poddi, cit., p. 64.
18
Poddi, cit., p. 81.
19
Piccolo, cit., p. 55
20
Nicodemo, cit., p. 178-9
21
Poddi, cit., p. 11
22
Poddi, cit., p. 70

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lessico tecnico, che non viene spiegato. Vocaboli e circonlocuzioni come zona tre due, tiro
poggiato al tabellone in fase di transizione, conclusione in penetrazione, taglio, doppio blocco,
arresto e tiro in Nicodemo, palla a due, difesa a uomo, ricciolo, perno, pivot, possesso in Poddi,
lunetta, cambio di mano, giro e cambio di mano, terzo tempo in Piccolo sostengono questa tesi; non
tutte sono parole inaccessibili a chi non pratichi o non segua il gioco, anzi alcune le troviamo spesso
sui giornali negli articoli sportivi. A maggior ragione, ci si rende conto che cosa si intenda per
assenza di ansia di originalità: la narrazione sportiva non è assolutamente originale, si basa su
tecnicismi, non si descrive: scomposta nelle sue parti e ricomposta in diverso ordine può essere
un’altra partita, ma la sostanza è sempre quella. È sempre il gioco, quello non cambia. Al di fuori
del gioco, però, queste regole non valgono: la storia tende all’esclusività ed all’originalità, malgrado
siano moduli abbastanza condivisi l’infortunio, la protesta studentesca, i primi amori, la vita
universitaria, la gestione di un locale.

4. WU MING, UNA FALSA SPERANZA.


Risale circa all’anno scorso l’uscita del saggio “New Italian Epic” a firma del collettivo letterario
Wu Ming. Nel libercolo si propongono di evidenziare quali siano i caratteri della nuova epica
italiana, ma ad una disamina puntuale sembra che si voglia riconoscere come epica il romanzo
storico moderno, entrando spesso in aperto contrasto con le proposte di Ortega, Bachtin e di Lukács.
Si riconosce ad esempio all’epica il punto di vista multiplo o inusuale (cui sii oppone il punto di
vista unico di Lukács, Ortega e Bachtin), la vicinanza dell’autore alle vicende (contro la separazione
assoluta dal mondo narrato sempre di Bachtin ed Ortega), la necessità di farsi fondatori (contro
l’assenza di originalità ed il riutilizzo dello stock mitico di Ortega), la sovversione di registri e
lingua (che Bachtin segnala come caratteristica del romanzo), la preoccupazione per la perdita del
futuro (quando Bachtin e Ortega insistono nella assoluta separazione del tempo epico da quello
presente e della loro incomunicabilità: difficilmente troviamo una comunicazione fra presente e
futuro, cercarla fra passato epico e futuro appare ancora più improbabile). Unico elemento
parzialmente assimilabile pare essere lo spirito avventuroso, su cui Ortega è parzialmente d’accordo
ma Bachtin e Lukács contrari, assegnando lo spirito di iniziativa al personaggio del genere
romanzo.
Con i romanzi di cui abbiamo parlato fin ora, secondo Wu Ming avremmo ben pochi motivi per
classificarli come forme vicine all’epica, o almeno per ciò che fin ora è stata considerata epica
all’interno di queste opere. Torna in Piccolo il forte respiro etico, con le manifestazioni
studentesche; in Longo – fra tutti quello che più facilmente si può avvicinare all’epica del collettivo
– ritorna la forma-passeggiata, l’illusorio ritorno all’ordine nel finale (ricordando che è un giallo) ed
un certo mistilinguismo, più che epico però di ascendenza pavesiana e fenogliana; in Poddi notiamo
un certo straniamento in seguito alla rottura del ginocchio, che però abbiamo già analizzato con più
efficacia come rottura del momento epico.

5 L’EPICA SECONDO LUKÁCS


In Lukács l’epica si presenta come una forma narrativa aperta, in cui c’è identità fra essenza ed
esistenza, assoluto e particolare, mondo e sfera soggettiva. In un momento successivo, questa
unione si spezza, e si creano le forme di romanzo: l’idealismo astratto e il romanticismo della
disillusione.
In primis, troviamo queste caratteristiche nel mondo sportivo non narrato.
Fondamentale è l’idea della domanda cui non si dà risposta, o meglio, la domanda che non si fa
perché si ha già la risposta, nell’identità di mondo e soggetto che abbiamo nell’epica. In un gara, la
domanda che più facilmente ci si aspetta è “chi vincerà?”. La non-risposta, la risposta immanente
all’universo della domanda, è “qualcuno vincerà”: in questo la pallacanestro ci aiuta, poiché non è
possibile concludere la partita in pareggio, come potrebbe avvenire invece in una partita di calcio. I
tifosi invece sostengono la vittoria di una parte, pertanto sbagliandosi ricadono in una forma
romanzesca. La risposta “qualcuno vincerà” non può che essere data o dallo spettatore casuale (chi

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cioè non parte con prevenzioni di sorta) oppure da una categoria generalmente disprezzata: quella
arbitrale. Se si assume il gioco come senso all’interno del mondo che è determinato dal tempo
reversibile, il senso del senso è che il mondo è dato da probabilità, visto che la risposta è quella del
“qualcuno vincerà”. Nel “qualcuno”, sta la risposta epica al mondo disgregato di oggi. I tifosi
sembrano appartenere alla forma dell’idealismo astratto: all’inizio della partita difatti si cerca di far
coincidere la realtà interna limitata (e cioè una risposta simile a “noi vinciamo” alla domanda “chi
vincerà?”) con la realtà esterna; con lo scorrere tradizionale del tempo ci si può accorgere che la
propria risposta, la propria soggettività quando cerca di oggettivarsi non trova corrispondenza, e
così ingaggia lotta con il mondo, atomizzando la risposta in singole manifestazioni del mondo epico
del tempo reversibile, e non nella sua più complessa struttura. In tal modo, ciò che dovrebbe essere
dato come unità lo si ritrova invece scisso in piccole unità coincidenti con le singole partite. Di
questi ragionamenti però si trova solo una debole conferma in Piccolo: nel passo, Gianni Rivera
commenta alcuni eventi legati ad una sconfitta. “Noi ci stiamo chiedendo tutti come possa uno
sportivo, perché il tifoso per noi è soprattutto uno sportivo, abbandonarsi a simili eccessi. Il nostro
è un gioco: noi giochiamo per divertire coloro che vengono ad assistere alle nostre partite. (…) ci
sembra veramente fuori dal mondo: è incredibile che si possa arrivare a questo. (…) perché è
inconcepibile che per un gioco, come noi veramente crediamo che sia, si possa arrivare ad eccessi
di questo genere”.23 Nelle parole messe in bocca a Rivera da Piccolo, il gioco sembra essere un
semplice fatto culturale, qualcosa di diverso dal mondo del tempo reversibile ed epico come fin ora
è stato identificato. Gli atteggiamenti brutali delle tifoserie ultras sono sempre una forma di
combattività, diversa da quella descritta nelle opere di Foscolo, Gohete, ma forse più facilmente
verificabile al giorno d’oggi.
Ad un’analisi più propriamente centrata sui romanzi e non sul mondo del gioco, appare evidente che
si debba far coincidere l’eroe epico con lo sportivo, o meglio non l’eroe individuale quanto la
collettività-squadra di cui fa parte. Non si presenta la ricerca, l’eroe-cercatore della forma romanzo:
per quanto anzi possa essere importante la domanda cui si accennava prima, la risposta stempera la
ricerca. L’avventura non può concludersi nella conquista dell’oggetto di valore ricercato, perché
l’avventura è totalizzante, determina il mondo stesso, coincidendo con il gioco: l’avventura non si
conclude mai. Possono cambiare i personaggi, ma nemmeno troppo: si gioca sempre in cinque
contro altri cinque giocatori, tutto ciò che può accadere è che dal mondo quotidiano vengano
chiamate altre persone a farsi eroi, ad entrare nel tempo reversibile. “No, chi gioca accelera e va, e
se proprio deve capire allora capisce che probabilmente c’è una specie di dio della pallacanestro
che assegna ad ognuno un numero di canestri nella vita, da distribuire fra partite – decisive e non
-, allenamenti, tiri di riscaldamento e partitelle fra amici”24.
Si è già detto dell’importanza della domanda all’interno dell’esperienza di essenza del mondo ed
esistenza dei singoli. Se si è all’interno del mondo del senso, in cui essenza ed esistenza coincidono,
è inutile porre domande di cui si sa già la risposta: manca l’elemento della ricerca, perché tutto è già
dato. I nostri eroi si ritrovano, dopo un apprendistato, tutto si fa istintivo, la risposta si da
automaticamente quando si pone la domanda: in Nicodemo “mentre il torello che mi marcava si
abbassava seguendo il prevedibile movimento del pallone”25, “la prima volta che ho tirato quasi
non mi sono accorto di farlo, tanto istintivamente ho eseguito il mio tipico palleggio-arresto-e tiro.
Il pallone si è infilato docilmente nella retina, come era giusto che fosse, facilmente” 26; in Piccolo
“insieme all’allenatore che rosso in viso di sicuro aveva urlato parole di battaglia prima di entrare
in campo per l’inizio della partita, e noi di sicuro stavamo ripetendo quell’urlo rituale e selvaggio
che facevamo ogni volta, accanto alle panchine, con frasi diverse o più spesso uguali (…), e lo
abbiamo fatto per tutti gli anni che abbiamo giocato senza dimenticarlo mai una volta;” 27 , “loro

23
Piccolo, cit., pp. 110-111
24
Piccolo, cit., p. 164
25
Nicodemo, cit., p. 68
26
Nicodemo, cit., p. 215
27
Piccolo, cit., p. 27

La narrazione sportiva, fra forme epiche e romanzesche 7


Alberto ghia (matricola 321753) – corso di laurea in Lettere/triennale

non rispondevano, forse perché era una domanda di quelle che non hanno bisogno di risposta”28,
“poi urlare uno schema e al comando vedere i miei compagni muoversi verso i punti che
sapevano”29, “quando avevo la palla durante un contropiede ed eravamo due contro uno facevo
sempre così”30 in Poddi “Poi venivano gli esercizi. Ogni tanto Rino sosteneva di averne inventato
uno nuovo (…) ma dopo due passaggi era subito chiaro che di nuovo non c’era che un nome
americano per un esercizio vecchio”31, “Ci sono un sacco di cose che dai per scontate quando
giochi a basket”32, “a Sant’Anna, a poche orme da dove il mare ripeteva da millenni il suo
racconto di forme sempre uguali”33 – ricordando che Lukács indica come Tolstoj si sia avvicinato
all’epica ma non l’abbia raggiunta perché in lui ancora cultura e natura sono distanti. In Poddi
invece sembra che spesso gli eventi culturali siano legati a manifestazioni naturali: oltre al già citato
farsi epico del protagonista del diventare e la profezia della mandorla, bisogna almeno ricordare
che il primo palazzetto in cui giocava, il pallone di Marra, era una tensostruttura e “vicino alla
panchina della squadra ospite, c’era quello che noi chiamavamo il polmone, una specie di grande
vescica”34. Più avanti, il pallone di Marra viene spostato ed ampliato; “non si sentiva più il suo
respiro. E la sua pelle sembrava più spessa (…). La cosa più difficile da accettare era che non
respirasse. (…) Chissà in che modo era morto, il vecchio pallone, se gli avevano staccato la spina e
si era sgonfiato come nella finale, o se lo avevano fatto a pezzi quando ancora respirava” 35.
Richiami del genere, soprattutto in sede di similitudine sono soventi; qualcosa del genere troviamo
anche ne Il mangiatore di pietre, ma questo solo elemento non può aiutarci a rinviarlo al mondo
epico.
Così come Dostoevskij e Tolstoj segnano un possibile punto di ritorno all’epica, in Dante inizia il
movimento opposto, cioè il farsi romanzo dell’epica, passaggio che si realizza con la vittoria
dell’architettura sull’organicità: nella Divina Commedia troviamo sì l’immanenza del senso, ma in
un mondo ultraterreno. Effettivamente, è a questo stadio che possiamo far risalire al massimo
l’epicità lukácsiana di questi testi, così come siamo arrivati ad una forma romanzizzata per quanto
concerneva Bachtin ed Ortega: l’epicità si realizza in un mondo-altro, retto da leggi temporali
diverse da quelle cui siamo abituati nella quotidianità, ovvero le leggi della reversibilità. Nel mondo
quotidiano il protagonista e gli altri personaggi sono immersi alla ricerca del senso, che non si dà
più come immanente. A proposito del tempo, notiamo un coincidere fra quello sportivo e quello
indicato da Lukács come epico: il filosofo ungherese lo descrive come immobile, afferrabile con un
solo sguardo: immobile nel suo divenire, riavvolgibile, in un certo senso, dilatabile e velocizzabile,
proprio perché afferrabile in un solo sguardo, perché nell’epica il punto di vista dei protagonisti è
interno al mondo, ma il nostro è quello esterno, del tutto uguale dal punto di vista del sole (ancora
Ecclesiaste36). Ed ecco, allora, un esempio tratto da Poddi: “avremmo potuto sperare che il tempo
non scorresse nel consueto modo lineare. Infatti laggiù (nel pallone di Marra) al posto del tabellone
c’era solo un cronometro (…) Avevamo poi la sensazione, dal campo, che i minuti corressero più
veloci se eravamo in vantaggio noi e più lenti se stavamo perdendo. (…) Certe partite erano
durate finché non le avevamo vinte”37. Si tengano comunque in considerazione anche le citazioni a
proposito del tempo in Ortega e Bachtin.

6 CONCLUSIONE

28
Piccolo, cit., p. 29
29
Piccolo, cit., p. 32
30
Piccolo, cit., p. 133
31
Poddi, cit., p. 44
32
Poddi, cit., p. 87
33
Poddi, cit., p. 104
34
Poddi, cit., p. 10
35
Poddi, cit., pp. 39-40
36
Ecc. 1,9
37
Poddi, cit., p. 78

La narrazione sportiva, fra forme epiche e romanzesche 8


Alberto ghia (matricola 321753) – corso di laurea in Lettere/triennale

Il primo elemento degno di nota è che in ogni caso, l’esperienza epica non è totalizzante. Si ha epica
solo quando c’è sport, solo quando gli eroi sono in campo. Prendo a prestito il termine eroe, per
indicare in narratore, colui che ha fatto/vissuto l’esperienza di raggiungere il senso, la riunificazione
di anima e mondo. Non è prettamente l’eroe del mondo epico, che agisce per interposta persona
(cioè per bocca del cantore o delle Muse). In tutti i romanzi, il soggetto del romanzo è un io che
compie l’azione, e la narra a poco a poco. Si nota abbastanza bene che i protagonisti qui agiscono
meglio in campo che nella vita (per Longo, il campo coincide con il suo mestiere). Sul campo
sembrano non avere timori, sanno cosa devono fare, agiscono senza porsi domande. Quando però
sono al di fuori, sono imbevuti di elementi romanzeschi e vita quotidiana; il tempo stesso si
presenta in forme diverse per i momenti epici ed i momenti romanzeschi. Allo stesso modo di
personaggi e tempo, si nota un oscillare fra forma aperta e forma chiusa, dovuta al fatto di cosa si
vuole indicare con forma, se l’evento in sé o se si vuole considerare non tutto l’intrigo, ma
solamente la parte epico-sportiva.
Se l’epica dunque non può dirsi forma unica di questi testi, che a ragione possiamo chiamare
romanzi, ci si sta riavvicinando sempre più (ma non nelle forme indicate da Wu Ming, che anzi
possono trarre in inganno) con queste narrazioni sportive, di cui l’opera di Poddi sembra essere la
più prossima alla compiutezza.

7 BIBLIOGRAFIA
Michail Bachtin, Epos e romanzo, in Problemi di teoria del Romanzo (B. e altri), Einaudi, 1976.
Grigory Lukács, Teoria del romanzo, Pratiche ed., 1994 (1916).
Francesco Piccolo, E se c’ero, dormivo, canguri/Feltrinelli, 1998.
José Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Guida 2000 (1914).
José Ortega y Gasset, L’origine sportiva dello stato, SE, 2007.
Marcello Nicodemo, Di lì a poco sarebbe piovuto, oltreleparole.net, 2004.
Davide Longo, Il mangiatore di pietre, Marcos y Marcos, 2005.
Emiliano Poddi, Tre volte in vano, Instar Libri, 2007.
Wu Ming, New Italian Epic, Einaudi Stile libero, 2009.

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