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Prologo dall’Italia del futuro

Il nipote si avvicinò al nonno come se dovesse carpirgli un segreto di cui solo quest’ultimo era a
conoscenza. Si doveva trattare di qualcosa di molto importante, inviolabile e sacro, visto il modo
con cui il ragazzo, un adolescente dagli occhi desiderosi di sapere, guardava quell’omone
anziano.
“ Tu mi chiedi di raccontarti qualcosa del mio passato, se ho capito bene…Il problema è che la
mia vita è stata sempre molto monotona, senza grandi avvenimenti, da ricordare. Ti potrei invece
raccontare dell’Italia….”
“Dell’Italia ?” storse il naso, il nipote.
“ Si, proprio di questo Paese nel quale viviamo” rispose il nonno.
“E che ci sarebbe di così interessante ?” domandò il nipote, titubante.
Il nonno sorrise e ribattè: “ Tu giudichi l’Italia per quello che è oggi: un paese moderno, civile e
in pace con se stesso. Avresti dovuto vedere quando io ero giovane, all’inizio degli anni 2000.
Tutta questa concordia non c’era e molti vivevano alle spalle del prossimo. Il caos regnava
sovrano e il benessere era diffuso a macchia di leopardo”.
“Racconta allora, racconta….” Si mostrò incuriosito il nipote.
“Ti racconterò di quell’Italia così come la scoprivo dai giornali. Mi mettevo a sedere sul water e
ne sfogliavo uno, per leggere le notizie più importanti. A quel tempo la vita era talmente
frenetica che per trovare un po’ di pace e riposo o si dormiva o si andava al gabinetto” concluse
il nonno, che accompagnò il nipote al bagno.
“ Che cosa stai facendo ?!” insorse il ragazzo.
“ Proverò a ricordarmi del passato sedendomi su questo orinale. Non solo notizie ti darò, ma
anche storie che ho sentito raccontare, che ho vissuto o che mi sono state raccontate” spiegò in
modo grottesco il nonno.
Dall’Italia del futuro, l’uomo virò verso l’Italia del passato. Alla fine di ogni storia era solito
buttare giù lo sciacquone. Lasciò così in dote al nipote una trentina di racconti.

La rivolta delle statue

Capitolo 1
C’era aria di tensione nel comitato interno della Rai radiotelevisione Italiana. Il “Capostruttura”
aveva indetto una conferenza stampa in cui avrebbe esposto i dati di ascolto dei primi sei mesi
dell’anno e, stando alle previsioni, niente di buono si profilava all’orizzonte.
Tra i giornalisti più preoccupati vi erano i conduttori del telegiornale delle ore otto, che da un po’
di tempo aveva registrato un calo di telespettatori.
Di questo stavano discutendo Achille Manzi e Guido Ronconi, due “volti televisivi” noti al
grande pubblico, riuniti in una sorta di improvvisato conciliabolo.
“ Ci parlerà sicuramente della situazione critica che stiamo affrontando e ci tirerà le orecchie per
qualche fantomatico errore che abbiamo commesso. La realtà è che con tutta questa concorrenza
di reti televisive e con il sempre maggior accesso dei giovani a Internet, è diventato impossibile
sfoggiare dati di ascolto brillanti” provò ad immaginarsi i contenuti della conferenza, Achille
Manzi.
Guido Ronconi sembrò fargli eco, quando si mise ad affermare che il pluralismo televisivo aveva
polverizzato gli ascolti.
“ Pensa a quello che accadeva in passato” puntualizzò Achille Manzi “ Finchè la Tv in bianco e
nero la faceva da padrona, esistevano soltanto la prima e la seconda rete Rai, più qualche
televisione secondaria come Tele Montecarlo, Capodistria e la televisione Svizzera, che erano
seguite da una porzione molto ridotta di spettatori. Poi è arrivato Berlusconi e la Fininvest…”
“ Tre canali al prezzo di uno” completò la frase, Guido Ronconi, con velata ironia.
“ Tanti film interrotti dalla martellante e onnipresente pubblicità, ricordi ?”
“Come non potrei…”
“ Ad un certo punto, e proprio come conseguenza della massiccia quantità di spot pubblicitari
trasmessi, è nato l’Auditel, per misurare gli indici di ascolto dei programmi” continuò nella sua
personale storia della televisione, Achille Manzi” Bando dunque ai romanticismi, alle
improvvisazioni… Da quel momento se si faceva una trasmissione si correva il rischio di essere
“bastonati” dal pubblico. Alcuni programmi furono cancellati proprio perché non raggiungevano
dei sufficienti dati d’ascolto. Ma il bello doveva ancora venire…”
“Sono d’accordo” annuì Guido.
“ Il resto è storia recente” concluse la sua disamina, Achille “Le televisioni via cavo, Sky, ci
hanno portato via un’altra fetta di telespettatori. E noi ad annaspare alla ricerca disperata
dell’audience, riparandosi talvolta nella “televisione spazzatura”
“Talvolta ? Direi quasi sempre “ osservò argutamente, Guido.
“So già cosa dirà Bonomi nella sua conferenza, non ti preoccupare. Parlerà come al solito della
necessità di idee nuove” si sfogò Achille.
“ Lo sapremo tra poco, mio caro. Fervono i preparativi di una conferenza che fa già tremare i
polsi a qualcuno” fu abile a non infuocare la discussione, Guido.
Era pomeriggio inoltrato quando il dott. Bonomi, “Capostruttura” della Rai radiotelevisione
italiana, abbandonò i panni del buon padre di famiglia per assumere quelli severi dello spietato
censore. Il suo, più che un panegirico, fu una sorta di lamento funebre che soltanto alla fine fece
intravedere un barlume di speranza.
“ Quello che serve, colleghi, è una maggiore attenzione a ciò che ci circonda. “Guardare per
ideare” dovrà essere la nostra nuova parola d’ordine. Non ci possiamo accontentare
dell’ordinaria amministrazione e del fatto che a fine mese percepiremo lo stesso lo stipendio.
Abbiamo bisogno di idee, di contenuti, per varare finalmente programmi innovativi che siano
accolti con favore dal pubblico. Lungi da me l’intenzione di creare un clima di nostalgia per i
tempi in cui si riusciva a fare una televisione fantasiosa e originale, stile Renzo Arbore, per
esempio. Il mio è un invito a coloro che, per qualità e talento, sono in grado di apportare un
contributo fondamentale allo sviluppo della nostra azienda. Abbiamo la necessità che finalmente
autori giovani e capaci si facciano avanti, perché senza l’innovazione non riusciremo mai a
sostenere il peso della concorrenza. Sono comunque fiducioso e credo che qualcuno di voi non
esiterà a proporre, nel futuro prossimo, nuove idee per fare televisione”.
L’applauso doveroso della platea accolse tiepidamente l’intervento del “Capostruttura”, che
invitava tutti ad un maggior coraggio e dose di responsabilità.
“ Chissà chi raccoglierà il guanto della sfida lanciato da Bonomi ?” si chiese, sornione, Guido
Ronconi.
“ Noi, naturalmente” lo spiazzò Achille Manzi.
“ Io proprio non ti capisco. Con tutto quello che abbiamo da fare, dobbiamo anche occuparci di
trovare nuove idee…Mi sembra altamente improbabile. Lasciamo piuttosto che siano i
presentatori, gli show men e tutti gli artisti più o meno allo sbaraglio, a tirare fuori programmi
innovativi” eccepì Guido Ronconi, con sarcasmo e vena polemica.
“ Dimentichi una cosa in questa tua dichiarazione a senso unico” lo contrastò Achille “ Il
telegiornale che conduciamo vede i suoi indici di ascolto assottigliarsi giorno dopo giorno. La
gente è stufa di sentire sempre di quel genitore che uccide moglie e figli e poi si suicida. E prima
che ci sostituiscano con delle allegre e carine donne nude che facciano presa sui telespettatori più
per il fisico che per le notizie che annunciano, dobbiamo correre ai ripari”
Guido arricciò il naso ed obiettò: “ Mi sembra che tu tratteggi un futuro a tinte fosche”.
“ No, non sono pessimista” negò Achille “ Ci occorrerebbe piuttosto un concentrato di idee,
qualcosa che desse una spinta al nostro telegiornale e lo aiutasse a crescere”.
“ A che cosa stai pensando ?” lo interrogò, Guido.
“ A qualcosa o qualcuno che ci possa dare una mano con un progetto o un’idea geniale” rispose
senza esitazioni, Achille.
“ Hai qualche nome sul tuo taccuino ?”
“ Non ancora” ammise Achille “ Ma un mio amico regista potrebbe aiutarmi”.
Preso dalla fretta e convinto dell’assoluta necessità di concludere qualcosa di importante, si recò
subito dal suo amico Cesare Filidei, che lo accolse con estrema cordialità.
Achille ricambiò la cortesia e disse “ Sono venuto naturalmente per salutarti, ma anche perché
vorrei da te un favore. Conosci mica qualche mente geniale, che possa arricchire i contenuti di un
programma ? Ti sarei molto grato se mi indicassi qualcuno…”
“ Non mi farai mica concorrenza, vero ?” finse di inalberarsi, Cesare.
“ No, non ti preoccupare, non ho intenzione di rubarti il mestiere” lo rassicurò Achille “Mi
interessano nuove idee per il mio telegiornale”.
“ Mala tempora currunt ! “ commentò in latino, Cesare “ Persino i telegiornali soffrono di scarso
ascolto. Dove andremo a finire”.
“ Sono d’accordo ed è per questo che mi serve la persona giusta” ribattè Achille, determinato.
“ L’unico che conosco è Stelio Occhiena, un aspirante sceneggiatore e autore”
“Aspirante ? Io cerco una persona esperta, non alle prime armi” obiettò Achille.
“ Il nostro uomo non si può definire né in un modo né nell’altro” spiegò Cesare “E’ geniale sotto
tutti i punti di vista. Le sceneggiature che mi ha sottoposto meriterebbero tutte di essere
tramutate in film. Se Fellini fosse ancora vivo non esiterebbe a dare fiducia a questo autore che
mi ricorda molto da vicino Ennio Flaiano, con guizzi di follia e di umorismo alla Achille
Campanile” .
“ Chi lo sa se Fellini oggi avrebbe trovato ancora produttori disposti a finanziarlo…E il tuo
amico sarà pur bravo nel cinema, ma della televisione che sa ?” rimase perplesso, Achille.
La risposta di Sergio non si fece attendere.
“A quanto ne so, quest’anno ha proposto diversi programmi all’attenzione dei dirigenti Rai, tra
cui uno molto interessante sul potere dell’illusione e degli illusionisti” .
“ Bocciato vero ?”
“Si”
“ Forse perché non era valido, oppure non avrebbe incontrato il favore del pubblico” eccepì
Achille.
Sergio non era, però, della sua stessa opinione.
“ In realtà il nostro uomo non è bene introdotto in certi ambienti, dove si fanno passare certi
progetti soltanto sulla base delle conoscenze” .
“ Non generalizziamo”
“Eppure è così”
“ Sei dunque convinto che quell’uomo faccia al caso mio ?”
“ Vuoi qualcosa di straordinario, di rivoluzionario, di pazzo ?”
“ Si”
“ Ti do allora il suo numero” concluse Cesare.
L’impazienza di Achille partorì subito un appuntamento. I due uomini si trovarono in un parco
romano, nell’ora della pennichella pomeridiana.
“ Che ne dice di schiacciare un pisolino, prima di procedere ad una serrata conversazione ?” si
presentò in modo decisamente bislacco, Stelio Occhiena, che indossava un cappello a tesa simile
a quello che portano gli alpini, penna esclusa.
“ Questo luogo mi da una certa tristezza. Mi trasporta in una dimensione che non mi appartiene;
di quando andremo tutti in pensione, bivaccando sulle panchine come vecchi rincoglioniti “
osservò con una punta di sarcasmo, Achille.
“ A me non sembra proprio” scosse la testa Stelio.
“ Stavo cercando un tizio che mi avrebbe dovuto aspettare fuori dal cancello” .
“ Sono io”
“ Appunto”
“ Come mi ha fatto a riconoscere ?”
“ Quel cappello non lo poteva portare che una persona come lei”.
“Grazie. Lo considero un complimento. E la ringrazio anche di essermi venuto a cercare qui
dentro. Vuol dire che mi vuole veramente” si comportò in modo bizzarro, Stelio.
I due si accordarono su quale potesse essere la migliore strategia da adottare per fare impennare
gli indici di ascolto. Achille strabuzzò gli occhi di fronte al progetto di Stelio, che suonava come
una burla, ma finì lo stesso per accoglierlo. Tutto questo sarebbe stato messo in pratica tra due
giorni nel corso del telegiornale di mezza sera.

Cap. 2
“ Apriamo il telegiornale con una notizia che ha dell’incredibile. Strani movimenti hanno
coinvolto alcune tra le principali città italiane. Sembra impossibile, ma a scatenare il panico
sarebbero stati alcuni tra i più famosi monumenti dell’arte italiana. Per il momento non abbiamo
ancora dati certi su quante siano le statue in fuga. Ogni minuto rischia di riservarci sorprese
sempre più grandi. Per saperne di più sentiamo il nostro inviato da Roma, Marco Cavallo”
introdusse il primo collegamento, Achille Manzi, nelle sue vesti di conduttore del telegiornale
della sera.
“ Si, siamo qui da quello che un tempo era il monumento a Marco Aurelio e che adesso è
soltanto un piedistallo. Il grande imperatore romano famoso per le sue battaglie e per la sua
saggezza, non ce l’ha fatta più a rimanere al suo posto, circondato da una cappa di smog davvero
insopportabile e dal clacson rumoroso di macchine immerse nel traffico. Qualcuno tra gli abitanti
di Roma si è indignato per questa precipitosa fuga. Ci si è chiesti: Perché è andato via proprio
ora, dopo aver resistito quasi duemila anni ? Non ci sarà risposta a questa legittima domanda.
Resta il fatto che oggi Roma ha un monumento in meno”.
“Scusa Cavallo, ma il Marco Aurelio è stato avvistato da qualche parte nella città, oppure, come
si suol dire è “uccel di bosco” ? “ lo interrogò in diretta Achille Manzi.
L’inviato rispose: “ Si sa solo per il momento che l’imperatore romano è fuggito in sella al suo
cavallo, che non sono io naturalmente” .
“ Ringraziamo Cavallo anche per averci dispensato questa battuta e passiamo la linea a Lido
Berti da Firenze”.
“ Si, qui Firenze. Dobbiamo subito rilevare come ci sia una folla di curiosi che ha preso d’assalto
la Galleria dell’Accademia. Adesso la polizia ha inibito l’accesso al pubblico e sta cercando di
far rifluire le persone che sono riuscite ad entrare in precedenza. C’è un aria di sconcerto qui nel
museo fiorentino…Nessuno si sarebbe aspettato quello che sfortunatamente è accaduto qualche
ora fa”
Achille interruppe il suo inviato e, fingendo stupore, gli chiese: “ Ma che cos’è successo di così
tanto grave ?”
“ Qualcosa da far tremare i polsi a tutta la cittadinanza. Il David di Michelangelo se n’è andato,
senza avvertire neanche i custodi. Adesso di lui si sono perdute le tracce”.
“Ti interrompiamo, Lido, perché anche da Pisa abbiamo notizie terribili e sconcertanti” si inserì
in questo gioco di collegamenti, Achille, mostrando abilità e disinvoltura nel calibrare gli
interventi dalle varie sedi Rai.
Prese subito la linea, Giorgio Masi, dalla redazione pisana, dichiarando, allarmato: “ Anche qui
dobbiamo rilevare come la fantasia abbia superato al realtà. La torre di Pisa non c’è più e
nessuno sa dire con certezza dove si sia cacciata”.
“ Ne sei proprio sicuro, Masi ? Sembra impossibile…” ribattè dallo studio, Achille.
“ Chi meglio dei suoi abitanti può testimoniare questa improvvisa dipartita ?” si difese l’inviato.
“ No, non abbiamo tempo per interviste. Continua il tuo resoconto, comunque” puntualizzò,
Achille.
“ Nel primo pomeriggio alcuni cittadini si sono accorti che c’era qualcosa di storto nella Piazza
dei Miracoli. Non si trattava come al solito della Torre di Pisa la cui pendenza è nota in tutto il
mondo e ha ispirato importanti burle come quella che porta il marchio di “Amici Miei” il film di
Mario Monicelli. Oggi, accanto al Battistero non campeggia più la Torre più famosa del mondo e
subito i sospetti si sono indirizzati sui livornesi, nemici dichiarati della gente di Pisa. “Sono stati
loro a portarla via, con non si sa quale stratagemma” tuonano i pisani, ma la verità sembra essere,
allo stato dei fatti, molto lontana”
“ Non è l’ora dei processi, Masi. Dobbiamo innanzitutto documentare ciò che è accaduto, senza
farsi fuorviare da voci e proclami” lo riprese Achille Manzi, andando avanti con la trasmissione.
Il collegamento successivo fu con la città di Padova dove a riferire di una nuova fuga c’era
Amedeo Pession.
“ Nessuno voleva credere ai propri occhi questo pomeriggio, quando il simbolo artistico della
città, il Gattamelata, ha completamente fatto perdere le sue tracce. Si pensa che il vecchio
condottiero e capitano di ventura, possa aver fatto molta strada, dal momento che si è mosso in
sella al suo cavallo. E’ ovvio rilevare come a Padova ci sia aria di sconcerto e rassegnazione”.
“ Eh certo, lo capisco, Pession !” commentò dallo studio Achille Manzi, prima di togliergli la
linea.
Il conduttore del telegiornale mimò di tergersi il sudore dalla fronte e con somma e teatrale
preoccupazione, riportò alcune notizie provenienti dalle agenzie di stampa.
“ Leggo qui che i telefoni del Ministero dei beni culturali sono stati subissati di richieste d’aiuto.
In questi momenti è bene non perdere la calma. Le cose, vedrete, si rimetteranno a posto nel più
breve tempo possibile”.
Dalla regia rimbalzò una notizia che subito Achille riprese in diretta.
“ Amici telespettatori, stiamo per darvi in pasto uno scoop ! Dietro le quinte del nostro studio
abbiamo niente popò di meno che il più esimio rappresentante dei monumenti in fuga: il David di
Michelangelo. Vuole leggere un comunicato congiunto redatto insieme a tutti gli altri suoi
compagni di viaggio. Gli diamo dunque la parola”.
Un uomo tinto completamente di bianco entrò nello studio e con un foglio in mano cominciò a
leggere.
“ Con questo comunicato sindacale i beni artistici di tutta Italia indicono una settimana di
sciopero per protestare contro la situazione di abbandono in cui versano monumenti, sculture e
statue nel nostro paese. Vogliamo altresì sensibilizzare i cittadini sui rischi connessi con la scarsa
tutela dei beni culturali, soggetti ormai a grave incuria, e sempre alla mercè di qualche balordo
desideroso di avere il suo quarto d’ora di notorietà. Per sette giorni ci asterremo da ogni
prestazione, che nel nostro caso consisterà nella non presenza all’interno dei musei e vagheremo
per le città Italiane, tenendo comizi e organizzando petizioni e raccolte di firme. Se sarà
necessario fonderemo anche un partito. Del resto non è il patrimonio artistico il nostro petrolio
?”.
Il David di Michelangelo concluse la sua arringa e si concesse alla curiosità di Achille e alla
voracità delle telecamere.
“ Abbiamo un paio di domande da rivolgerle. La vediamo che indossa un paio di slip. Dove li ha
trovati ?”
“ Non voglio far pubblicità ad alcuna marca o negozio. Il fatto è che avrei offeso qualcuno se
fossi arrivato qui come Michelangelo mi ha fatto, ovvero in vesti adamitiche”
“Non si preoccupi. Abbiamo visto di peggio. Ma ci dica: ha qualche annotazione o critica da fare
ai turisti che ogni giorno prendono d’assalto la Galleria dell’Accademia per vederla ? “ continuò
nell’intervista, Achille.
“ Ho una lagnanza da fare”
“Ci dica”
“ Non mi piace come mi guarda la gente. I loro sguardi maliziosi mi hanno sempre infastidito”.
Achille riprese la parola e disse: “ La gente che è a casa ha sicuramente recepito il messaggio e
da ora in poi saprà come comportarsi. Noi gradiremmo per il momento rivolgere l’ultima
domanda al David di Michelangelo. Come avete fatto a mettervi d’accordo nel proclamare lo
sciopero ?”.
“ Il problema non è tanto comunicare tra di noi. Lo facciamo sempre e anche in modo efficace
grazie alla “telepatia”. Lo scoglio più arduo è stato, invece, mettere d’accordo tutti. Ma il barile
era pieno….”.
Achille ringraziò e congedò il David di Michelangelo, apprestandosi a cambiare pagina con le
altre notizie. Il telegiornale, però, venne improvvisamente interrotto per ordini superiori e sullo
studio oscurato, piombò il “Capostruttura” e altri alti dirigenti dell’azienda.
“ Che ti è saltato in mente, Manzi ?! Vuoi rovinarci ?” gridò quell’alta autorità all’indirizzo
dell’incauto conduttore.
“ Ma io…”
“ Lei cosa ? Abbiamo i centralini della Rai in tilt. Rispondiamo a gente che ci chiede come sia
possibile che delle statue si siano improvvisamente messe a camminare. Tutta l’Italia è in allarme
per colpa di questo scherzo di cattivo gusto. Chi si crede di essere ? La brutta copia di Orson
Welles, che invece di simulare un’invasione aliena, mette in piedi una paradossale fuga di
importanti monumenti italiani ? Meriterebbe l’immediato licenziamento” minacciò il
“Capostruttura”.
“ Mi faccia almeno spiegare, dott. Bonomi” tentò di difendersi Achille dal processo sommario
che gli veniva intentato “Lei alla riunione era stato chiaro. Dovevamo rinnovare la televisione
con nuove idee e progetti. Io l’ho presa alla lettera, inscenando una finta rivolta dei beni artistici
italiani, anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione di degrado in cui si trovano.
Abbiamo ingaggiato, quindi, una troupe di illusionisti al fine di dimostrare l’avvenuta dipartita di
quelle opere d’arte. Chi guardava, vedeva così solo i piedistalli dei monumenti. E per quanto
riguarda il David di Michelangelo, abbiamo assunto un modello di nostra conoscenza”.
“ Con queste parole pensa di discolparsi o crede che arriveremo persino a ringraziarla ?” si
intromise il direttore del telegiornale.
“ Non lo so. Giudicate voi. Io ho fatto solo del mio meglio. Chi non rischia, non sbaglia mai” si
rimise alla clemenza di quegli uomini, Achille.
“ Giudicare, è quello che faremo. Non si preoccupi, Manzi”.
Nessuno avrebbe scommesso una lira sulle possibilità da parte del noto conduttore televisivo di
evitare il licenziamento in tronco. I dati di ascolto, comunicati il giorno dopo, tuttavia,
cambiarono radicalmente gli scenari. Il telegiornale della prima rete ottenne dei risultati
sensazionali e per Achille Manzi si aprirono nuove opportunità di carriera. Egli diventò così il
nuovo “Capostruttura”.

Il mistero di Santa Cecilia


Capitolo 1
Nella più vicina caserma dei carabinieri, il custode del cimitero comunale si era recato per
sporgere denuncia contro ignoti. Ad accoglierlo vi fu un uomo in divisa, pronto a prendere nota
delle sue lagnanze.
“ Strani rumori provengono dal cimitero durante la notte. Se ne sono accorti per primi i
condomini delle case vicine ed hanno lanciato l’allarme. Non riuscivano a dormire, infastiditi da
qualcosa di molto simile ad un lamento ripetuto, o forse ad un litigio” cominciò a raccontare il
custode, non curandosi nemmeno in minima parte della reazione, ovviamente incredula,
dell’appuntato.
“ Un fatto decisamente fuori dall’ordinario. Ha mai fatto, a tal proposito, controlli di persona
dopo la chiusura notturna del cimitero ?” domandò il carabiniere.
“ Certamente”
“E che cosa ha notato ?”
“ Una volta mi è capitato di sentirli da lontano”
“ E naturalmente non ha capito da quale tomba provenissero…”
“ Tutt’altro, maresciallo”
“Appuntato, prego”.
“ Credo che venissero dalla cappella della famiglia Remigi”
“Crede, o ne è certo ?”
“ La certezza in questi casi è impossibile. C’è comunque un mio amico che può testimoniare di
aver udito gli stessi rumori” annunciò il custode, che presentò così l’uomo che lo accompagnava,
un signore alto e baffuto, che inforcava un paio di occhiali affumicati.
L’appuntato lo fece parlare e ottenne da lui una diretta conferma al racconto del custode.
“ Metterò allora tutto a verbale. Nel frattempo se volete favorirmi i vostri recapiti telefonici…”
concluse l’appuntato.
Congedò poi i due uomini e si mosse verso l’ufficio di un suo superiore.
Il maresciallo Casarsa era intento a visionare pratiche ben più importanti e accolse la richiesta
dell’appuntato Gargiulo con sufficienza.
“ Raccogli qualche sommaria informazione e poi archivia il tutto. Se dovessimo occuparci
sempre di cose così risibili non faremmo vita. E la nostra funzione sarebbe sminuita dagli incubi
di qualche folle”.
“Non si potrebbe presidiare la zona per renderci conto di persona dell’esistenza o meno di quei
rumori ?” propose una valida alternativa, l’appuntato.
“ Ma Gargiulo ! Se così facessimo non faremmo un buon servizio all’Arma. Non si può, per una
qualche scemenza, mettere in subbuglio un intero reparto. Meglio aspettare, invece, che qualcuno
si presenti spontaneamente per confermare le teorie bislacche del custode. Ma sono sicuro che
non verrà nessuno. Vedrà, mio caro Gargiulo, tutto si risolverà in una bolla di sapone…” lo
rassicurò, il maresciallo Casarsa.
L’appuntato rispettò alla lettera i suoi ordini e mise in piedi un’inchiesta condotta in modo
sbrigativo. Il primo passo fu quello di raccogliere il parere di altri testimoni e, nel caso in cui non
se ne fossero trovati, egli avrebbe archiviato il caso. Nessuno si presentò in caserma, eccetto una
vecchietta in vesti rabberciate.
“ Lei mi sta dicendo di aver sentito un boato dentro il mausoleo della famiglia Remigi ?”
ricapitolò Gargiulo, con evidente stupore.
“ Un boato, uno scoppio, o qualcosa che assomigliasse ad una scossa di terremoto” precisò la
vecchietta.
“ Ne è sicura ?”
“Si”
“ E come ha fatto ad accorgersene ?”
“ Ero lì”
“ Lì ? Il cimitero a quell’ora era chiuso, o sbaglio ?”
“Non sbaglia”
“ E allora…”
La vecchietta non perse la lucidità e disse: “ Io sono la perpetua del parroco che officia la messa
nella cappella del cimitero. Quel giorno aveva dimenticato un paramento e mi aveva chiesto di
andarglielo a riprendere. Era tardi e il cimitero aveva già chiuso i battenti. Io, però, avevo con me
la chiave che poteva aprire il cancello esterno”.
“ La gente parla piuttosto di rumori, non di uno scoppio o di un boato. Come se la spiega questa
divergenza di pareri e versioni ?” fu particolarmente incisivo e ficcante, sulla strada della verità,
Gargiulo.
“ Io sono soltanto una umile servitrice di un prete, non un’investigatrice. Quello che ho detto è
ciò che ho sentito. Nulla più” asserì con calma e dignità la vecchietta.
Dieci giorni passarono prima che Gargiulo si ripresentasse nell’ufficio del maresciallo Casarsa,
per esporgli i risultati delle sue ricerche.
“ Ancora con questa storia ?” tuono il suo superiore, arricciando i baffi neri come la pece.
“ E’ solo lo scrupolo di informarla, maresciallo” replicò educatamente, Gargiulo.
“ Che ha da dirmi allora ?” sospirò Casarsa, spazientito.
L’appuntato citò la testimonianza di quella donna e si zittì.
“ Le parole di una vecchia forse rincoglionita sono sufficienti secondo lei, Gargiulo ? Chiudere,
chiudere l’inchiesta. Abbiamo altro da fare, noi” dichiarò a chiare lettere il maresciallo.
Gargiulo era pronto per dedicarsi ad altro, quando fu richiamato precipitosamente dal suo
superiore.
“ Contrordine. Si procede” sentenziò il maresciallo Casarsa.
“ Motivo ?”
“ Una telefonata mi ha spiegato che è meglio se andiamo avanti” rivelò una mezza verità il
maresciallo.
“ Che cosa dovrei fare quindi ?” andò al sodo, Gargiulo.
Il maresciallo non ebbe esitazioni a proposito e disse: “ Bisognerebbe organizzare turni di
guardia davanti al cimitero, per evitare che qualcuno entri dentro. Io credo che tutti questi
schiamazzi, boati e rumori vari, siano prodotti da qualcuno che si intrufola di nascosto nel
cimitero. Chissà che non sia proprio il custode o gente di sua conoscenza…”.
Casarsa aveva sposato la tesi originaria dell’appuntato, ma non voleva dire chiaramente perché.
Solo successivamente, Gargiulo seppe che era stato un assessore del Comune, nonché abitante
del condominio che si affacciava sul cimitero, a richiedere un supplemento di inchiesta.
A capo di un presidio militare costituito in totale da tre persone, l’appuntato Gargiulo si era
ormai rassegnato a passare le sue notti lontano dalla famiglia e dai figli. Del resto il cimitero
chiudeva alle otto di sera ed era proprio da quel momento che iniziava il lavoro della pattuglia.
Nessun risultato tangibile occorse nella prima settimana di sorveglianza, poi tutto d’un tratto si
generò uno sconquasso che sembrò trascinare in un gorgo micidiale l’intero cimitero.
“Entriamo” fece cenno Gargiulo, mandando gli uomini in perlustrazione di quei luoghi.
Era una prassi che si svolgeva quotidianamente, tranne quel giorno, in cui il presidio non aveva
varcato ancora i cancelli del cimitero. Ogni lembo di terra venne battuto, setacciando ciascuna
tomba alla ricerca di dettagli e particolari che potessero far pensare a qualcosa di innaturale o di
anomalo. Si diede uno sguardo a eventuali passaggi segreti, aperture scavate nella roccia, rifugi
nascosti, ma nessun indizio degno di nota fu raccolto. Il riflessivo Gargiulo si giocò l’ultima
carta che aveva a disposizione e puntò dritto verso il mausoleo della famiglia Remigi. Non
sapeva cosa aspettarsi, ma si arrischiò lo stesso in un’azione solitaria che forse non aveva senso.
Le chiavi d’entrata gli erano state consegnate direttamente dal custode, affinchè le usasse qualora
si fosse presentata l’occasione e l’opportunità.
Gargiulo pensò che quel momento fosse arrivato e inserendo la chiave nella toppa spalancò la
porta che dava accesso alle tombe interne. Nessun segnale di effrazione o di scasso si poteva
rilevare, né altri elementi che rimandassero alla presenza clandestina di persone. Il carabiniere
sezionò ogni tratto del pavimento e dei muri che lo sormontavano, ponendo attenzione alla
eventuale esistenza di fessure o cavità. L’esplorazione non sortì gli effetti sperati, così che
Gargiulo si concentrò sulle fattezze esteriori delle tombe.
“ Silvio Remigi, combattente delle Repubblica di Salò, Paolo Remigi, partigiano della Brigata
Garibaldi” lesse a bassa voce i nomi dei defunti collocati uno sopra all’altro.
Erano stati sepolti insieme anche se ideologicamente si trovavano su due poli opposti. Se in vita
avevano militato su due sponde diverse, ci aveva pensato la morte a riunirli. L’unica anomalia
che Gargiulo riscontrò fu soltanto questa.

Cap. 2
Gli strani fatti occorsi nel cimitero, avevano nel frattempo messo in moto la stampa locale. Fu in
forza di questo improvviso allarme destato nella cittadinanza, che il famoso cronista di “nera”,
Francesco Cattaneo, decise di far visita al maresciallo Casarsa. Nell’ufficio di quest’ultimo si
consumò il casuale incontro tra il giornalista e l’appuntato Gargiulo, venuto appositamente per
relazionare sull’esito dei suoi appostamenti nei pressi del cimitero.
“ A quanto pare, maresciallo, mi trovo nella imbarazzante situazione di dover condividere con
voi certi segreti…” cercò di mischiare arguzia e buonsenso, il cronista.
Il maresciallo replicò con garbo e risolutezza.
“ Se l’ho fatta entrare è perché non abbiamo segreti. Può scrivere sul suo giornale che stiamo
facendo tutte le indagini del caso” .
“ Ma per ora che mi sapete dire ?” si dimostrò ficcante, Cattaneo.
Casarsa prese tempo e mise tutto nelle mani del suo collega.
“ L’appuntato Gargiulo saprà esserle d’aiuto. Ha condotto lui l’inchiesta sul cimitero di santa
Cecilia. Gli potrà fare tutte le domande del caso”.
Cattaneo fu costretto a cambiare ufficio, pur mantenendo i nervi distesi.
Il primo a parlare in quella vivace conversazione, fu Gargiulo.
“ Non abbiamo ancora alcun indizio. Gli appostamenti e le perlustrazioni non hanno dato gli
effetti sperati. C’era stato in verità un allarme…”
“ Ecco, questo mi interessa !” esclamò un fulmineo Cattaneo.
“ Uno scoppio, un fragoroso rumore…Non saprei come definirlo. Proveniva dall’interno del
cimitero. Siamo entrati e abbiamo controllato quel luogo, palmo a palmo, senza purtroppo
trovare niente”.
“ La cappella della famiglia Remigi era intatta ?” fece una domanda mirata, Cattaneo.
“ Perché mi dice questo ?” rimase perplesso, Gargiulo, di fronte a quell’uomo che forse sapeva
più di quanto affermava.
“ Ci sono voci secondo cui i problemi del cimitero in realtà derivino tutti da quella cappella”
introdusse un nuovo spunto di dibattito, Cattaneo.
“ Lei sa che ci sono anche tante leggende metropolitane…” fu scettico, Gargiulo.
Il cronista non intendeva trascurare nessuna possibile ipotesi, e si avvalse pertanto degli unici
indizi che aveva in mano.
“ In un passato assai risalente si credeva che in quel cimitero il fantasma di Silvio Remigi e
quello di suo cugino Paolo, uscissero dalla tomba e si affrontassero in un duello rusticano,
ovvero all’ultimo sangue…”
“ Due fantasmi ?”
“ Si, questa era una vera e propria credenza e sembra che qualcuno li avesse addirittura visti”
“Non ci credo. E mi piacerebbe interrogare queste persone”
“ Tutte morte”
“ Di vecchiaia suppongo…”
“Ma certamente” annuì Cattaneo, il quale precisò: “ Con questo non voglio affermare che queste
storie siano vere. Prendo atto, invece, del fatto che qualcuno, visto che i boati sembrano
provenire dal mausoleo, ha già proposto di riesumare le salme di quegli uomini e di trasferirle in
altri posti. E magari dividere, una volta per tutte, i due scomodi cugini” .
“ Qualche pazzo, naturalmente” soggiunse, Gargiulo.
“ Non direi proprio, appuntato. Nel posto dove sto andando c’è un ordine del giorno dedicato a
questo argomento” lo corresse il cronista.
“ E si può sapere che luogo dannato è quello ?”
“ Il consiglio comunale” rivelò con una punta di compiaciuto cinismo, Francesco Cattaneo.
I due si lasciarono con uno stimolo in più; quello di promuovere esami geologici approfonditi del
terreno per dare soluzioni valide al mistero che attanagliava il cimitero di Santa Cecilia. Se
dunque Gargiulo potè considerarsi alleggerito del peso di un’inchiesta che aveva ormai raggiunto
un punto morto, per Francesco Cattaneo il meticoloso lavoro di cronista iniziava proprio adesso.
C’era da fare un salto in consiglio comunale per assistere al dibattito che si preannunciava acceso
su quei misteriosi rumori che rovinavano il sonno a molte persone.
“Buonasera signor Cattaneo” lo accolse cordialmente il segretario comunale “ I consiglieri sono
già in ebollizione”.
“ Davvero ? Non mi voglio perdere niente di quello spettacolo” sorrise sornione, il cronista.
Aveva tra le mani non un semplice taccuino, ma un intera pila di fogli che a stento sarebbero
entrati nella valigetta. Si accoccolò su di una sedia e, in compagnia di altri giornalisti e curiosi, si
gustò il susseguirsi degli interventi politici.
Stava parlando il rappresentante del più importante partito di opposizione, enfatizzando il ruolo
della sua coalizione nel panorama politico cittadino.
Cattaneo, piuttosto che ascoltare quell’uomo si mise a preparare i fogli su cui avrebbe vergato
gli appunti. Il mestiere non gliel’avrebbe insegnato più nessuno, dal momento che lo conosceva
in modo approfondito. Alzò la soglia della sua attenzione soltanto quando prese la parola
Gregorat, il consigliere eletto in una lista civica.
“ Cari colleghi, non credevo che la memoria dei nostri cari estinti facesse così paura. Non mi
stupisco tanto del fatto che nel nostro Paese la “pacificazione nazionale” resti ancora una
chimera, quanto della meschinità con cui si affrontano problemi di poco conto trasformandoli in
questioni di Stato. Se i cugini Remigi ci fanno ancora paura, a distanza di molti anni dalla loro
morte, significa che c’è qualcosa che non va in noi, oppure nel nostro sistema. Due uomini dalle
idee diametralmente opposte, che hanno fatto battaglie completamente diverse, non hanno
suscitato indignazione in vita, possibile che ci facciano preoccupare proprio ora ?”
Un consigliere della destra intervenne per replicare duramente a Gregorat.
“ L’assurdità sta nell’avere messo insieme due persone che si odiavano fino al midollo. E ora li
sentiamo che si rivoltano nella tomba…”
“ Veramente molto comica la tesi del consigliere Zappalà. Pensare addirittura che i rumori
incriminati e di cui tutti noi vorremmo capire l’origine, non sono in fondo che i lamenti di due
uomini costretti a vivere insieme, nonostante la diversa estrazione politica ed ideologica. Rilevo
così come la fantasia non faccia proprio difetto ai nostri amici dell’opposizione” usò il sarcasmo,
Sguanci, un consigliere della maggioranza.
“ Mi sbaglio o anche voi chiedete che le tombe siano collocate in due cimiteri diversi ? “ replicò
a tono il capogruppo della “destra”.
“ Noi riteniamo necessario soltanto che si spostino le salme, in modo che non rimangano nella
stessa cappella. Potranno quindi restare all’interno dello stesso cimitero” ribattè Sguanci,
seccato.
“ Colleghi” riportò la calma, Gregorat “ Vi accapigliate, ma in realtà pensate la stessa cosa e per
una volta siete d’accordo sulla decisione da prendere. Il punto, tuttavia, non è questo”.
“Qual è allora ?” gridò qualcuno dai banchi della sinistra.
“ Se non mi interrompete forse ve lo dico” finse di irritarsi Gregorat, che, tuttavia non perse la
pazienza, anzi rilanciò: “ Vi siete mai chiesti come mai noi Italiani ci dividiamo su tutto ?
Persino sui morti abbiamo da transigere ed invece di farli riposare in pace, li soffochiamo
perpetuamente con le nostre diatribe e i nostri pregiudizi. Che colpa hanno i cugini Remigi,
passati ormai da molto tempo a miglior vita, dei tanti rumori, boati, che si sono sentiti in zona ?
Chi ha una mente razionale non può ammettere alcun legame, a meno che con questo si voglia
trovare il pretesto per eliminare un chiaro simbolo di convivenza politica seppur tra persone
decedute”.
Gregorat, con il suo discorso, si attirò uno stuolo di critiche, sia a “destra” che a “sinistra”,
costringendo il presidente del consiglio comunale ad interrompere la seduta. Mentre i consiglieri
si trattennero nel palazzo a confabulare, Gregorat sgusciò dalla porta e puntò l’uscita. Non aveva,
però, fatto i conti con Cattaneo, che ben presto lo affiancò e gli disse:
“Sei stato tagliente come una lama di rasoio…”
“ Tutto inutile” affermò sconsolato l’uomo ” Mi sembra di predicare nel deserto e di essere
soprattutto un profeta disarmato. Proprio non lo vogliono capire che quelle tombe non possono
essere trasferite….”
“ Ne sei certo ?”
“ Si, la volontà dei parenti è chiara: i cugini non devono essere divisi” rincarò Gregorat.
“ E quei boati, quel baccano…Soltanto il frutto di una psicosi collettiva ?” domandò, con piglio
giornalistico, Cattaneo.
“ Ma che ne so ! “ esclamò Gregorat, rassegnato “ A quanto ne so potrebbe essere stato anche
qualcuno che mirava a creare un caso. Non escluderei nemmeno la pista delle sette sataniche”.
“ Eppure chi ha esaminato da vicino le tombe non ha trovato segni di danneggiamento…” obiettò
Cattaneo.
“ Quei rumori potevano essere riprodotti tranquillamente da un sintetizzatore, o da qualcosa del
genere. La verità è ancora lontana” sentenziò Gregorat.
“ Un mistero”
“ Decisamente. E aggiungerei l’aggettivo “italiano”. Del resto, se a distanza di decenni non si è
ancora arrivati alla soluzione di misteri come quello di Ustica, riguardo a questo non possiamo
essere molto più fiduciosi” concluse, sagacemente, Gregorat.
Qualche giorno dopo la cappella fu messa a soqquadro e le salme dei due cugini furono
trafugate. L’agghiacciante scoperta convinse molti della necessità stingente di dimenticare,
quando sarebbe stato opportuno intensificare inchieste e ricerche. La parola d’ordine fu:
seppelliamo la verità. Il cimitero di Santa Cecilia divenne pertanto il quartier generale di corvi ed
avvoltoi e all’orrore di certe scoperte, si aggiunse, per ironia della sorte, l’omertà e la reticenza
dei “benpensanti”.
Lo Yes man

La moglie di Carlo salì le scale con impeto devastante causato dalla fretta di dover arrivare.
Sembrava che un triste e forse cruciale annuncio dovesse prima o poi uscire dalle sue labbra e
questa sensazione di snervante attesa rese ancor più enigmatico il suo incontro con lo spento
marito. L’uomo, che indossava abiti informali dopo una lunga giornata di lavoro, giocò subito
sulla difensiva e si dispose ad accettare la ramanzina della moglie.
“ Il problema è proprio questo “ partì in tromba la donna “ Tu dici sempre di si. Ecco da dove
nascono i nostri guai…”.
“ Un momento, Elisabetta” prese tempo Carlo “ Tu parli di guai che io non vedo. Sii più chiara”.
“ Si tratta di tua figlia” accennò la moglie, evitando di rivelare altri particolari.
Carlo mostrò subito preoccupazioni che non avevano fondamento.
“ Non mi dire che le è capitato qualcosa di grave”.
“No”
“ Che altro c’è allora”
“ Ha scritto un tema in classe su come ti comporti nei suoi confronti. La professoressa l’ha letto e
ha voluto sapere qualcosa di più da lei” .
“ Morale della favola ?”
“ Beatrice si lamenta di avere un padre che gliele da tutte vinte” dichiarò la moglie, spedita.
“ E non è contenta di questo ?” fece l’ingenuo, Carlo.
“ Per niente” tuonò sua moglie.
Gli raccontò quindi nei particolari l’andamento del colloquio con la professoressa, per poi
concludere: “ I ragazzi di oggi sono liberi in tutto e proprio per questo gradirebbero qualche
freno, degli impedimenti e genitori severi che li contraddicano”.
“ Mai avute lamentele da Beatrice, fino a questo momento” resse la parte del genitore modello,
Carlo.
Sua moglie, presa dallo sconforto, decise allora di imboccare un’altra strada.
“ Sono anch’io che ti chiedo di dirmi qualche volta dei “no”. Mi sono stufato di avere accanto un
cagnolino che soddisfa sempre i bisogni della padrona”.
“ E’ così che la metti ? Mi deludi, Elisabetta. Con te non ho mai smesso di essere carino ed
accondiscendente”.
“Troppo per i miei gusti” dichiarò sprezzante la moglie.
Carlo a quel punto battè in ritirata, abbandonando un dialogo che lo avrebbe visto soccombere.
Cominciava ad avvertire un senso di fiacchezza dovuto al pullulare di elementi che deponevano
contro di lui. Stava bene soltanto quando era a lavorare, o almeno così gli sembrava, prima che
un’improvvisa tegola si abbattesse sulla sua rosea carriera. L’amato direttore d’azienda, di cui
era il “braccio destro”, fu improvvisamente sostituito. Al suo posto arrivò un severo ed accigliato
tecnocrate che anteponeva i rigidi interessi aziendali alla distensione dei rapporti umani.
Carlo, conosciuto per la sua piaggeria, stavolta fu scavalcato da qualcuno più abile di lui, che
fino ad allora aveva vissuto all’ombra del successo, senza mai coglierlo. Gli soffiò così il ruolo
allettante di “alter ego” del direttore, guadagnandosi l’onore di poter sempre dire di si. Frustrato
da una situazione che gli stava sfuggendo di mano, Carlo sprofondò nella più cupa depressione.
Fu proprio allora che nella sua mente, devastata dalla disperazione, si materializzò la tentazione
di un gesto disperato. Alla fine, però, decise di trattenersi e di puntare verso soluzioni meno
scontate e soprattutto indolori.
Frà Donato da Tivoli era suo amico da sempre, avendo frequentato le stesse scuole e vissuto nel
medesimo ambiente. Da un po’ di tempo, però, l’aveva perso di vista e forse adesso era venuto il
momento di ritrovarlo. Viveva in un monastero situato sulla cima di un cucuzzolo, lontano dai
riflettori della quotidianità frenetica. Conduceva vita ritirata, insieme ad altri sei frati, dediti alla
coltivazione degli orti ed alla meditazione. Impiegò un po’ più del necessario per riconoscerlo,
ma l’affetto che gli tributò subito dopo ripagò abbondantemente questo ritardo. Frà Donato si era
costruito fama di saggio, che poggiava sui sani principi di una solida educazione di stampo
religioso. Non era, però, né un santo, né un eretico, ma soltanto un servitore di Cristo, cosciente
della sua missione. Conosceva i segreti delle erbe selvatiche ed era capace di preparate i più
disparati decotti e infusi. Non si era totalmente votato al mondo, nè disdegnava di accogliere i
pellegrini e tutta la gente raminga, con gli onori della più autentica ospitalità. Una celletta ed un
pasto era il minimo che si potesse loro consegnare; i consigli filosofici e religiosi, benchè
compresi nel prezzo, rappresentavano, invece, un’accattivante attrattiva.
“ Che ti è successo Carlo ? “ domandò bonariamente il monaco.
Era pronto per ascoltare la sua confessione che immaginava ricolma di colpi di scena e delle
solite miserie umane.
“ Sono qui per meditare e chiederti consiglio” rispose Carlo, con tono dimesso.
Frà Donato mimò di guardarsi intorno e poi replicò: “ E’ un caso che tua moglie non sia venuta
?”.
“ Si, l’ho lasciata a casa. Ma lei non c’entra con i miei problemi, o almeno non è la causa
principale, né quella scatenante” fu pronto a chiarire, Carlo.
Non indietreggiò neanche quando il frate gli puntò contro il bagliore del suo sguardo accecante,
chiedendogli di entrare più nei dettagli.
“ Il mio problema ? Dico sempre di si. E se fino ad ieri questo andava bene, oggi è un disastro”
affermò, contrito, Carlo.
Il frate stentò a comprendere la situazione, reclamando una dose supplementare di informazioni.
“ Ti farò allora qualche esempio” rilanciò Carlo “ Il mio ex direttore d’azienda voleva a tutti i
costi persone assertive, dei veri e propri “yes men”…”
“Yes, che ?” lo guardò spaurito, il frate.
“ Gente che non ti dice mai di no e che fiancheggia ogni decisione del potente di turno, senza
mettergli la pulce nell’orecchio, come si suol dire” spiegò Carlo.
“ Capisco, capisco. Ma non hai finito la frase. Il tuo direttore cercava persone con specifici
requisiti….L’ha poi trovate ?” ricompose la matassa del discorso, il frate.
“Certamente. Una di queste sono io. Sempre pronto ad accondiscendere e a dire di si” confessò
allegramente, Carlo.
“ Non ne sarei troppo fiero” commentò, salacemente, il frate.
Carlo ridacchiò con lui e poi aggiunse: “ I guai principali, tuttavia, li ho avuti con mia figlia. Si
sente delusa da un padre che non sa dire di no e di questo si è lamentata con la sua professoressa”
.
“ E’ molto più facile dire di si, che dire di no. A proposito, quante ore passi con lei ?”.
“ Perché me lo chiedi ?”
“Così”
“ Sicuramente poche”.
“ Dargliele sempre vinte è il modo migliore che hai per ripagarla del poco tempo che le dedichi
ogni giorno. Ma questo non va certamente bene. I genitori debbono anche ispirare fiducia ed
essere credibili. Certi dinieghi, quindi, fanno più bene che male” affermò con saggezza, frà
Donato.
Il suo sguardo imperturbabile si era fatto dolce, come nella più alta espressione di amore
materno.
“ I miei errori li ho individuati. Adesso voglio cambiare atteggiamento” dichiarò solennemente,
Carlo.
“ Bravo”
“ Ma da solo, però, non ce la posso fare. Ho bisogno di qualcuno che mi insegni a dire di no”
soggiunse, Carlo.
“ E sei venuto da me…”
“ Convinto che tu saprai darmi la spinta giusta”.
Frà Donato, prima di presentare al nuovo ospite la sua ricetta di cambiamento, gli mostrò ogni
lato del monastero.
“ A questo punto devo informarti di quelle che sono le nostre regole” precisò frà Donato “ Tu,
infatti, vivrai come un monaco, nella piena contemplazione religiosa e spirituale, privandoti di
ogni comodità e votandoti al duro lavoro dei campi. Solo così potrai affrancarti dalle tue
abitudini sbagliate e la tua condotta di vita diverrà più austera. Ecco che sulle labbra
cominceranno ad accamparsi anche dei “no”, oltre ai soliti e banali “si” che ti hanno sempre
contraddistinto”.
Carlo si sentì rigenerato e pronto per lanciarsi in quella nuova ed impegnativa avventura. Lo
scarso cibo e il freddo della sua cella, ne temprò il carattere. Gli esercizi spirituali e i canti
gregoriani lo catapultarono in una realtà parallela a quella in cui era sempre vissuto. Alla fine il
suo modo di pensare cambiò radicalmente ed il germe del dubbio si insidiò in lui, come un tarlo
in un mobile antico.
“ I progressi che noto in te sono molto elevati” registrò compiaciuto, frà Donato “ Un nuovo
spirito critico si è impossessato della tua mente, che è ormai capace di elaborare pensieri
autonomi e profondi. Ma ti manca ancora qualcosa per raggiungere la perfezione”.
“ Che cosa ?” chiese, sussurrando, Carlo.
“ Devi superare una prova finale” accennò soltanto, il frate.
I giorni passarono ma niente all’orizzonte si materializzò nelle forme di un esame risolutivo, che
avesse il pregio di laureare definitivamente Carlo, premiando così gli sforzi da lui profusi.
“ Ti sei dimenticato della tua promessa ?” domandò, irritato, a frà Donato, che lo guardava
dall’alto della sua suprema saggezza.
“ No”
“ Mi avevi detto che ci sarebbe stata una prova finale, ma io non vedo niente” sacramentò Carlo.
“ Non c’è più cieco di chi non vuol vedere” sentenziò il frate, con evidente eco evangelico.
“ Tu mi stai prendendo in giro. Mi sembra sia molto evidente…” s’inalberò Carlo.
“ Aspetta. Devi solo aspettare” fu evasivo il frate dall’aura ieratica.
Altri dieci giorni di attesa non lenirono i dubbi di Carlo, sempre più propenso a domandarsi se Il
frate facesse sul serio, o si prendesse invece gioco di lui.
“ La prova finale dov’è ? E’ più di un mese che la sto aspettando” protestò vigorosamente,
l’uomo.
Il frate, tuttavia, aveva in serbo per lui una sorpresa e per questo non si fece scrupolo di scuotere
la testa in segno di biasimo, provocando naturalmente la sua indignazione.
“ E’ inutile che tu aspetti la prova finale, dal momento che questa non consiste null’altro che
nell’attesa” fu sibillino frà Donato.
“Spiegati meglio” insorse Carlo.
“ Saper aspettare, aver pazienza, passare il proprio tempo ascoltando qualcuno o qualcosa; ecco
qual è la prova finale che ti ho messo davanti” pontificò frà Donato “ Nella vita bisogna saper
vedere quello che accade intorno a noi. Percepire il rumore di una foglia è come rispondere alle
grida di aiuto di una moglie o di un figlio. Tutto qui avviene silenziosamente e là dove c’è il
baccano si costruisce solo per distruggere. Qualche volta è meglio fermarsi ad ascoltare i gemiti
di un passerotto, piuttosto che strillare sonoramente e non essere sentiti. Per poter dire si o no, è
necessario avere una mente lucida e capace di discernere. Ma per far questo occorre estraniarsi
dalla realtà frenetica di tutti i giorni. Alle volte è meglio non fare che fare male, attendere
piuttosto che agire” .
Fu così che Carlo lasciò quell’eremo e l’uomo che lo abitava, convinto di poter diventare, se solo
l’avesse voluto, un uomo migliore.

Miss caviglia

“ Le posso garantire signor Sindaco che l’idea del concorso è quanto di meglio possa esservi in
una realtà come la nostra” assicurò Sirio Sarti, il segretario comunale del paese.
Stava cercando strenuamente di convincere il “primo cittadino” dell’assoluta necessità di
organizzare un evento come quello.
Il sindaco era naturalmente di parere opposto e motivava il suo diniego con ragioni di mera
opportunità.
“ Non si è mai visto un concorso così strampalato. La gente, la stampa, la televisione, riderebbe
di noi ed in primo luogo di me, che sono il primo rappresentante dello Stato” spiegò il sindaco,
una persona pasciuta che non smetteva mai di sudare, neanche in pieno inverno.
Il segretario comunale prese tempo e reclamò il privilegio di accendere una sigaretta.
“ Accordato” fece il sindaco.
Guardava continuamente l’orologio come se fosse prossimo un nuovo appuntamento. In realtà
stava inscenando una tattica per liquidare lo scomodo ospite.
“ Peccato signor sindaco. Io e Tancredi saremmo riusciti a racimolare un mucchio di sponsor.
Ma vedo che a lei questo concorso proprio non interessa…” giocò d’azzardo Sirio Sarti.
Il sindaco sembrò drizzare le antenne ed attenuò i toni rigidi mostrati in precedenza.
“ Ha parlato di sponsor…..Ho capito bene ?”
“ Si, anche da fuori paese”
“ Ne è proprio sicuro ?”
“ Si. Tancredi ha già fatto firmare i precontratti”
“ Esagerato !” esclamò il sindaco, a cui solleticava l’idea di rimpinguare le esangui casse
comunali.
“ Abbiamo pensato a tutto. Sarà un incredibile successo” gioì l’ineffabile segretario comunale.
Il sindaco, però, non aveva ancora deciso se acconsentire o meno a quell’evento ed espose in
poche parole quelle che erano le sue riserve in merito.
“ Un concorso di bellezza a Litisone non era più che sufficiente ? Ora ne volete due….Davvero
bizzarra la vostra idea di organizzare “ Miss caviglia” sui monti della Maiella !
“ Io non lo credo, ma anche se fosse ? E’ un’occasione che abbiamo per far conoscere il nostro
paese in tutt’Italia. A nessuno è mai venuto in mente di organizzare un concorso come questo. Al
massimo si è fatto “Miss muretto”, “Miss maglietta bagnata”, “Miss fondoschiena”, “Miss
gambissime”, “Miss topless”. Mai un concorso che premiasse la caviglia più bella” usò
l’eloquenza come arma di convinzione, Sirio Sarti.
Il sindaco, però, replicò a tono ed in maniera grottesca.
“ Non si è mai visto un concorso del genere, perché è talmente assurdo che soltanto un pazzo
potrebbe organizzarlo”
“ Non le permetto di offendermi” si irritò il segretario comunale.
“ Va bene, va bene ! Mi dica piuttosto che cosa potremmo guadagnarci noi, come Comune, oltre
al denaro che mi ha paventato” volle vederci chiaro il sindaco.
“ Fama, tanta fama e soprattutto rispetto” sottolineò Sirio Sarti “ Finalmente in Italia si organizza
un concorso di bellezza senza né culi né tette. Piacerà a tutti, persino alle femministe, dal
momento che le donne non vengono in alcun modo svilite. Anche il prete del paese è d’accordo
con noi” .
“ Lo immaginavo” ironizzò il sindaco.
Il segretario comunale ribattè con decisione“ E’ uno dei nostri più entusiasti sostenitori. E con lui
molta gente di Litisone. Stiamo dimostrando, noi dei monti abruzzesi, di essere più raffinati di
tanti intellettuali di città, che continuano a guardarci dall’alto verso il basso” .
“ Ancora una domanda, Sarti…” soggiunse, sornione, il sindaco.
“ La faccia pure”
“ Come pensate di far abbigliare le ragazze che parteciperanno al concorso ?”
“ Lei crede di prendermi in contropiede, signor sindaco. Ma si sbaglia !” sorrise, sardonicamente,
il segretario comunale.
“ Lungi da me questa intenzione !” esclamò il sindaco “ Mi chiedevo soltanto come le avreste
fatte sfilare in passerella. In costume da bagno ? No, non credo. La gente non si soffermerebbe
certo sulle caviglie, ma su qualcos’altro. Con la gonna corta ? Assolutamente no. Il pubblico
guarderebbe esclusivamente le gambe. Se non si vuole che la giuria, nel suo giudizio, sia
influenzata dalla bellezza di una ragazza, bisognerebbe anche coprire il viso delle concorrenti.
Magari con il velo, o con il burqa, che va tanto di moda oggigiorno”.
“ Lei fa della facile ironia, signor sindaco. La conosciamo tutti come un burlone. Ma abbiamo già
pensato a tutto. Faremo sfilare le ragazze con dei pantaloni lunghi fino alle ginocchia.
Cappellino in testa e due occhiali affumicati sul viso”.
“ Se fate indossare loro anche una giacca blu potreste organizzare anche una gara tra i migliori
sosia dei “Blues borthers” fece un’altra battuta lo scherzoso sindaco.
Sirio Sarti aveva ormai vinto la sua battaglia. Il concorso di “Miss caviglia” si svolse
regolarmente a Latisone quell’estate e fu un vero successo; clamoroso perché inaspettato.
Quell’esempio fu poi emulato da altri Comuni, negli anni successivi. Sorsero quindi nuovi e
avveniristici concorsi come “Miss ginocchio”, “ Miss polpacci”, “Miss occhi più belli” e
finanche “Miss tallone”. All’appello continuò a mancare e non fu mai bandito, il concorso per
l’elezione di “Miss intelligenza”.
La tavola dei meridionali
Sandro aveva approntato tutto quello che era necessario per fare una bella figura agli occhi di
tutti: amici, conoscenti e parenti. I preparativi per il suo matrimonio proseguivano spediti, senza
che nessuna ombra potesse addensarsi sul suo imminente sposalizio. Del resto il rapporto con
Maddalena, la ragazza che avrebbe impalmato di lì a poco, non aveva macchie né segreti e
dunque niente avrebbe potuto dividere un amore che sembrava indissolubile.
“Mia nonna me lo diceva sempre, mia cara Maddalena. Quando c’è l’amore, c’è tutto. E noi
siamo una coppia perfetta. Basta guardarci allo specchio. Io biondo e chiaro di pelle, tu mora e
scura. Io del nord, tu del sud. E’ proprio vero che l’amore più grande nasce dai più stridenti
contrasti” disse Sandro alla sua futura moglie, la sera prima del matrimonio.
“ Già” fece segno lei “ Quando ci sono tante differenze, ci si vuole più bene”.
Sandro non era semplicemente un cittadino del nord Italia, ma anche un esponente di punta di un
partito che nutriva qualche pregiudizio sui meridionali. Questo matrimonio sarebbe stata quindi
l’occasione migliore per dimostrare che finalmente ogni preconcetto era stato bandito.
“Ho in mente alcune sorprese che movimenteranno un po’ il pranzo nuziale” annunciò Sandro a
Maddalena, che non vedeva l’ora di sposarsi.
La ragazza ringraziò il suo fidanzato con parole che sembravano dettate dal cuore.
“ Sono contenta che non hai fatto storie quando si è trattato di stilare la lista degli invitati. I miei
saranno tantissimi”.
“Non c’è alcun problema Maddalena. Nessuno di loro si perderà, al ristorante. Te lo prometto”
ridacchiò sotto i baffi Sandro.
Il giorno dopo ebbe luogo quello che i giornali locali, con toni decisamente esagerati,
presentarono come una sorta di riconciliazione tra una parte d’Italia e l’altra. Dopo la cerimonia
religiosa, gli invitati si approssimarono al ristorante e si guardarono intorno per trovare i posti ai
tavoli. Subito un senso di disorientamento e di angoscia si impadronì di loro, dal momento che
nessun avviso era affisso per illustrare la composizione dei vari tavoli. Di fronte a tale
sbigottimento, arrivò provvidenziale l’intervento del responsabile del catering, il quale, in
perfetto dialetto lombardo, annunciò che ognuno avrebbe potuto scegliere il posto che più gli
aggradava, rispettando però alcune indicazioni di massima poste sulle pareti della sala.
“ Dovrebbe essere questa la sorpresa di cui mi ha parlato mia sorella” sorrise Adalgisa,
all’indirizzo dei numerosi invitati provenienti dalla Sicilia.
Fecero alcuni passi e si ritrovarono in una spaziosa sala, arredata in stile ottocentesco. Alzarono
gli occhi al soffitto e poi diressero lo sguardo simultaneamente alle pareti. Su di esse
campeggiava un cartello con sopra scritto: “Tavoli riservati ai meridionali”.
Era questa la sorpresa che nessuno si sarebbe mai aspettato.

La lotta e il lotto
Erano più di vent’anni che Sebastiano e Nicola non si incontravano. Da vecchi compagni di
avventura, si commossero quando incrociarono i propri cammini in un angusto ma pittoresco
caffè di Milano.
“Che fine hai fatto, Nicola ? Ho provato anche a telefonarti qualche volta, ma tu eri sempre
occupato”
“ Motivi di lavoro”
“Che fai adesso ?”
“Sono assicuratore”
“ Io invece faccio l’animatore”
“Turistico ?”
“No, culturale”
“Animatore culturale…..E’ una professione nuova !” lo canzonò Nicola.
“ Sai, io sono un fautore dell’immaginazione al potere. Ti ricordi il ’68 ?”
“Vagamente”
“Eppure anche tu eri uno dei protagonisti di quella stagione studentesca” eccepì con forza,
Sebastiano.
“ Ho rimosso quasi tutto, però” ribattè Nicola.
“ Non ti ricordi più la grande manifestazione di febbraio a Milano ? Fu uno scintillio di bandiere,
uno sfolgorio di cori….”
“ Personalmente non ricordo più niente. E’ passato così tanto tempo….” Confessò candidamente
Nicola.
“Ti ricorderai allora delle nostre bravate all’Università nel ’77….la militanza politica nei partiti
della sinistra extraparlamentare…..” rincarò Sebastiano.
“ Acqua passata” lo liquidò Nicola.
“Eppure a quel tempo eri uno dei più scatenati. Alcune leggende voleva che tu fossi uno dei più
bravi nel confezionare bombe molotov” mise il dito nella piaga, Sebastiano.
“Parla piano. Mi rovini la reputazione” gli intimò Nicola.
“ Parlate tutti così voi….”
“Noi, chi ?”
“ Si, voi che un tempo militavate nella sinistra extraparlamentare e che adesso siete bene
integrati nella società italiana. Ne conosco tanti come te….” proclamò tra il serio e il faceto,
Sebastiano.
“ Invece tu ieri protestavi in piazza e oggi protesti in piazza. Bravo, sei coerente, ma come si dice
a Napoli, e la tua famiglia viene da lì, “La coerenza è la virtù dei fessi” replicò tra lo stizzito e il
divertito, Nicola.
“Ricordati del ’68 e del ’77, mio caro. Non rimuoverli dalla memoria. Il loro ricordo non potrà
che farti bene” raccomandò in modo paternalistico, Sebastiano.
Si salutarono sommessamente, consapevoli del fatto che forse tra altri vent’anni si sarebbero
incontrati di nuovo.
“ Già me li ricorderò proprio il ’68 e il ’77….” Pensò tra se, un irridente Nicola.
Uscì dal caffè ed entrò in una tabaccheria.
“Vorrei giocare al volo il 68 e il 77 sulla ruota di Milano” disse alla titolare della ricevitoria.
Quando gli venne accettata la giocata, pensò tra se: “ Ecco che cosa ci faccio con il 68 e il 77”.
Non vinse, ma rimase egualmente soddisfatto.

Il calciatore gay
L’incredibile notizia del primo calciatore italiano gay fece il giro del paese e si conquistò le
prime pagine dei quotidiani sportivi e non. Chi se lo sarebbe mai aspettato che nell’ovattato e
innavvicinabile mondo del calcio un uomo potesse mettere a nudo la sua personalità più segreta,
correndo anche il rischio di essere esposto alla berlina ? Erano in molti a chiedersi se la sua
scelta fosse giusta o completamente sbagliata. La gente che si riuniva nei bar, o che si incontrava
casualmente, non risparmiava interesse per questa vicenda che coinvolgeva il centrocampista
della Roma, Bruno Ceccanti. Il suo outing divenne argomento privilegiato di conversazione della
più rovente puntata mai registrata della “Domenica sportiva”.
“Che cosa l’ha spinta a dichiararsi ?” volle vederci chiaro il conduttore del programma, il famoso
giornalista, Mino Beccari.
Il silenzio totale in studio anticipò rivelazioni che si presumevano eccezionali.
“ Mi sembrava un fatto doveroso dire quale fossero le mie reali preferenze” affermò
candidamente, Bruno Ceccanti.
“ Doveroso….Lei dice. Nel mondo del calcio…..” scosse la testa il conduttore.
“ Perché no ? “ rilanciò Bruno.
“ Lei è un tipo sicuramente molto coraggioso, e per questo non possiamo che congratularci con
lei” dichiarò il conduttore con parole che finirono per contagiare anche il pubblico in sala.
Non furono in pochi ad applaudire il primo calciatore italiano gay della storia, o almeno quello
che aveva osato dichiararlo prima di tutti.
“ Io tutto questo coraggio non ce lo vedrei” dissentì Bruno “ Anzi, il calcio si presta bene per
questo tipo di rivelazioni….”
“Ne è proprio sicuro ?” aggrottò la fronte il conduttore.
“ Ma certamente. Il calcio è per sua stessa natura gay” sentenziò Bruno.
“Veramente non la seguo….”rimase incredulo il conduttore.
“ Si, confermo quello che ho detto. Il calcio è uno sport per gay. Del resto si gioca in mutandine,
i giocatori quando fanno gol si abbracciano. I falli diventano punizioni ed esiste il fuorigioco
attivo e passivo” dichiarò perentoriamente, Bruno.
Ciò lasciò di stucco il conduttore, che arrossì, non sapendo più che cosa dire.
“ Spero di non averla messa in imbarazzo, dicendo questo. Sono parole mie e me ne assumo tutte
le responsabilità” lo trasse d’impaccio Bruno.
“Già se ne assume tutte le responsabilità…” inciampò sulle parole, uno scosso e provato
conduttore.
Da quel momento tutta l’Italia calcistica si rese conto che il suo sport più amato era meno
maschio di quel che si credeva.
La confessione
Don Artemio si era appena seduto in confessionale, quando un uomo aprì lo spioncino e con aria
contrita iniziò a parlare dei suoi peccati.
“Padre, sono molto dispiaciuto. Ho offeso mia madre e l’ho spinta contro il tavolo….”
“E poi che hai fatto di tanto grave ?” domandò il prete.
“ Ho tradito mia moglie, ma solo una volta” dichiarò con pudore, l’uomo.
Aveva la voce tremolante, così che don Artemio cercò di infondergli la sicurezza che gli
mancava.
“ Una volta sola….”
“Si, una volta sola”
“Già ti sei pentito, però….”
“Si, sono veramente pentito”.
“Non c’è dunque bisogno di essere così addolorato” lo tirò su il prete.
“ Altri peccati ho commesso, padre” rilanciò l’uomo, calato sensibilmente nella parte del
peccatore in cerca di redenzione.
“ Enunciameli”
“ Peccati soprattutto di gola, di invidia e ira”
“E poi ?”
“Poi ? Le sembrano pochi, padre !?” si inquietò l’uomo.
“ Non sono qui per giudicare, ma per assolverti” si schermì don Artemio.
“Sono tanti i peccati che ho commesso e di cui mi voglio assolutamente pentire” dichiarò
solennemente l’uomo.
“ Va bene. Fai pure” acconsentì il prete.
“ Per esempio, ieri non mi sono fermato sulle strisce per far attraversare una vecchietta”.
“ Già. E’ proprio un peccato grave…” commentò con un pizzico di ironia don Artemio.
“ Mi assolverà, però, non è vero ?” domandò, preoccupato, l’uomo.
“Si, ti assolverò. Ti vedo realmente pentito dei tuoi peccati” asserì don Artemio.
“ E poi volevo confessarle altri piccoli peccati….”
“Va bene, basta. Tutto ciò è sufficiente. Ego te absolvo in nomine patri et filiis et spiritus sancti,
amen” abbreviò la durata della confessione, don Artemio.
Il giorno seguente l’uomo fu arrestato per sequestro di persona, stupro e tentato omicidio.

I soldi non fanno la felicità


Guido Ghelli era quel fortunatissimo vincitore del concorso del superenalotto che si era messo in
tasca la cifra record di duecento milioni di euro. Nonostante i tentativi di rimanere nascosto e
nell’anonimato, la sua identità venne presto conosciuta e da quel momento iniziarono per lui una
serie di problemi. Fu vittima di un tentativo di sequestro di persona e la criminalità mafiosa si
mise sulle sue tracce. Un numero imprecisato di persone cominciò a bussare alla sua porta, per
chiedere favori, raccomandazioni, elargizioni di danaro. Le autorità civili ed istituzionali lo
pressarono affinchè si facesse promotore di interventi concreti a favore del territorio e della
popolazione della sua città. I mezzi di comunicazione lo martellarono con servizi sul suo passato
oscuro, sul suo presente e disegnarono arbitrariamente ciò che sarebbe potuto diventare in futuro.
La simpatia che lo aveva sempre circondato, divenne aperta ostilità della gente, che lo
considerava adesso come un usurpatore indegno di una fortuna che non gli apparteneva.
“ Devo riconquistare la mia vita, Carlo. Non mi va più di metterla a rischio. Voglio riacquistare
la libertà di cui godevo in passato, quando ero povero e simpatico” confessò all’unico vero amico
che gli era rimasto.
“ Ormai è troppo tardi…” si dolse, Carlo.
“ No, se facciamo in questo modo….” asserì Guido, confidando al suo amico una strana ma
potenzialmente efficace idea.
Affittò un elicottero e lo fece volare sopra la città. Ad un certo punto dal velivolo furono fatte
piovere migliaia di banconote da cinque euro. La gente per le strade si sentì beneficata dal cielo e
gioì di fronte a quello spettacolo indicibile. Si videro passanti complicarsi terribilmente la vita,
cercando di afferrare banconote, quando erano ancora ad un’altezza irraggiungibile.
“Guarda, Carlo, come sono contenti. Adesso però viene il bello….” annunciò entusiasta e
beffardo, Guido.
“ Che ha intenzione di fare ?” gli domandò, attonito, l’amico.
“ Chi l’ha detto che i soldi fanno bene ? Per me, invece, fanno male. E voglio dimostrarlo
proprio adesso” dichiarò in modo sibillino Guido.
L’elicottero allora riversò sulla città un’infinità di titillanti monete da un euro. Anche in questo
caso i passanti cercarono di afferrarle al volo, ma si procurarono delle piccole ammaccature alle
mani.
“I soldi fanno male, signori !” esclamò con l’altoparlante Guido, che volava ormai a bassa quota
con l’elicottero.
Credeva di essersi guadagnato la stima di qualche “mente pensante”, ma sbagliava. Il giornali
così titolarono il giorno dopo: “ Il sig. Ghelli è talmente ricco e potente da scatenare anche la
grandine”.
La banca dei prosciutti
Il direttore dell’agenzia di Milano centro si stupì non poco dell’irruzione da parte di un manipolo
di giornalisti agguerriti. Erano incuriositi da certe voci che giravano su quella strana banca, dove,
oltre ai conti correnti e ai mutui si vendevano anche i prosciutti.
“ Non capisco come si possa pensare una cosa del genere !” si indignò il direttore, conversando
con quel pugno di cronisti d’assalto.
“ Non ci si meraviglia di niente oggigiorno, soprattutto in Italia….” commentò beffardamente
uno di loro, un uomo dai capelli fulvi che si scioglievano sulle spalle.
“ Ma che dite ? Noi siamo una banca seria, con una reputazione da salvaguardare….Ora se mi
volete scusare….” tentò di liquidarli in fretta il direttore.
Gli occhiali che inforcava gli si erano appannati e chiaro traspariva l’imbarazzo e il disagio che
stava provando.
“ Si sa come vanno le cose oggi” intervenne una volitiva giornalista dai capelli platinati “ I
bancari si sono trasformati in meri venditori di prodotti. Non ci stupiremmo quindi di vederli
piazzare un prosciutto, piuttosto che un’obbligazione o un fondo comune”.
“ Lei offende la sensibilità di un’intera categoria !” stigmatizzò il direttore.
Un altro giornalista, intanto, stava facendo una piccola ricognizione in tutte le stanze
dell’agenzia.
“Che fa lei ? Le par di essere a casa sua ?” lo fulminò il direttore, che si avvicinò minaccioso a
quell’uomo.
Non ce la fece però ad arrestarne il trionfale cammino che lo condusse nel luogo incriminato.
“ Ecco dove sono i prosciutti !” esclamò, divertito, il giornalista con la coppola in testa.
“ Quello è l’archivio ! Non si può entrare !” berciò il direttore.
Messo alle strette, si sforzò di trovare una scusa plausibile.
“Non vedete che sono i regali che ci hanno fatto i nostri clienti….”
“ Tutti quei prosciutti ? Natale è finito da un po’….E questa sembra più una macelleria che una
banca” puntò sull’ironia la giornalista bionda platinata.
“ Non vorrete mica che vi sveli le nostre strategie aziendali ?” si inalberò il direttore, che ormai
non sapeva più a quale santo rivolgersi.
I giornalisti lo guardarono senza profferire parola alcuna.
“ E’ soltanto una specie di gioco a premi escogitato dal nostro ufficio marketing. C’è poca
liquidità a giro ? Ebbene, se un cliente apre un nuovo conto corrente e ci versa mille euro, noi li
regaliamo un prosciutto” spiegò il direttore, con franchezza.
I giornalisti rimasero allibiti, anche se poi alla fine si decisero ad accendere un conto corrente.
Del resto un prosciutto gratis era un’occasione che nessuno di loro volle farsi sfuggire.

I baccelli di Pitagora
Il preside convocò per un colloquio il prof. Ranzani, che entrò nell’ufficio con aria spaurita e
meravigliata.
“ La vedo pallido, professore. Che c’è che non va ? Non penserà che l’abbia chiamata qui per
farle una ramanzina….”
Il prof. Ranzani rimase ammutolito, non sapendo che cosa attendersi da quell’austero uomo, che
agitava le mani con velocità folle.
“ L’ho fatta chiamare perché mi preme dirle due cose. Noto innanzitutto con dispiacere che lei ha
deciso di non aderire al nostro progetto pilota di insegnamento tecnologico, mediante l’utilizzo di
internet….”.
L’espressione facciale del preside divenne severa a tal punto da incutere un certo timore nel prof.
Ranzani, il quale sbiancò fino a trasformarsi in una creatura diafana.
“ Quello che non mi convince di lei è il suo metodo di insegnamento. Sembra quello di un
professore di trent’anni fa ! Nel frattempo sono successe molte cose nel mondo e lei invece
dimostra di non averne recepita nemmeno uno. Che cos’è per lei l’avvento del computer e di
internet ? Le risponderò io: assolutamente niente” tuonò il preside, facendo tremare anche il
ritratto del presidente della Repubblica, che campeggiava alle sue spalle.
“ Non è esattamente così, signor preside. Internet lo uso quando sono a casa. Non lo ritengo però
un efficace strumento didattico per i ragazzi. Preferisco che leggano i libri e si facciano
un’opinione con i giornali, e le discussioni che teniamo in classe” obiettò audacemente, il
prof.Ranzani.
“ Lei crede sempre alla retorica dell’”apertura mentale”….ma lo sa che i ragazzi di oggi vivono e
muoiono sul computer e guardano solo le immagini. Se ne infischiano di quello che c’è scritto,
figuriamoci se sono in grado di farsi un opinione….lei è un idealista, un paladino, o che cos’altro
?” arguì beffardamente, il preside.
“ Me lo dica lei” allargò le braccia il professore.
“ Mi sembra un donchisciotte del 2000. Ma i ragazzi di oggi non sono più quelli degli anni ’70,
attenti alle ideologie e influenzati da esse. Agiscono in base ai bisogni propri e a quelli indotti
dalla società. Se ne fregano di pensare con la testa propria. C’è già qualcuno che pensa per loro e
dirige…” dichiarò senza peli sulla lingua, il preside.
“ E’ per questo che mi oppongo a questa dittatura del pensiero. Del resto, se non lo fa un
professore di filosofia, chi lo dovrebbe fare ?” eccepì con veemenza il prof. Ranzani.
“ Le do un mese di tempo. Se non aderirà al progetto della scuola, prenderò gli opportuni
provvedimenti” minacciò il preside, congedandolo subito dalla sua stanza.
Ritornato a casa, il prof. Ranzani riflettè sull’ammonimento del preside e, non avendo altra
scelta, decise di aderire al progetto-internet, seppure in maniera molto tiepida. Avrebbe
gradualmente alternato la navigazione sulla rete, con le discussioni in aula.
“Oggi parleremo di un argomento molto curioso, che non si trova nei libri di scuola, se non in
modo molto marginale” annunciò ai suoi scolari, il giorno successivo.
Questi furono molto contenti di abbandonare per un attimo il monopolio dei libri.
“ L’argomento di oggi è: i baccelli di Pitagora” rivelò il professore.
“ E’ filosofia o agricoltura ? “ domandò, esterrefatto Domenico.
“ Ma no ! Parleremo del’odio di Pitagora per le fave. Le detestava a tal punto da raccomandare ai
suoi allievi di non mangiarle “ rispose il prof. Ranzani.
“ Ma perché questo ?” chiese, allibito, Francesco.
“ Sarete voi a dirmelo” affermò, sibillino, il professore.
Tiro fuori dallo zaino un computer portatile e lo consegnò ai suoi allievi.
“Adesso non vi resta che ricercare su Internet le ragioni per cui Pitagora non sopportasse le fave”
concluse il prof. Ranzani, lasciando così campo libero ai ragazzi.
Dopo strenue ed esasperate navigazioni sulla rete, uno scolaro di nome Riccardo, si assunse
l’onere della grandiosa scoperta.
“ Le fave erano collegate con il regno dei morti. Si riteneva infatti che con la morte l’anima
dell’uomo si sarebbe ricongiunta con un baccello. Ecco perché Pitagora ordinava di non cibarsi
delle fave, poiché queste erano sacre”.
“Bravo, bravo !” esclamò il prof. Ranzani, con il cipiglio di chi vuol canzonarsi di qualcuno.
“ Per me, però, c’è un’altra soluzione” irruppe, Ahmed.
“Sentiamo”
“ Le fave sono nocive per chi è affetto da una malattie chiamata “favismo”. E questo Pitagora,
secondo me, lo sapeva già ai suoi tempi” affermò risolutamente il ragazzo.
“ Bravo, bravo !” continuò su quel tono, il prof. Ranzani.
“Chi ha ragione ?” domandò un ragazzo dal centro dell’aula.
“Ragione, in che senso ?” storse il naso, il professore.
“ Quali delle due teorie è giusta ?”insistè il ragazzo.
Il prof. Ranzani a quel punto svelò il suo punto di vista.
“ Voi pensate che Internet incarni la verità assoluta, non è vero ? Eppure io sono convinto che ci
sia una terza, una quarta, una quinta verità, che non si trova sulla rete. Mi sono spiegato ?”.
“Forse si. Io penso, infatti, che l’odio di Pitagora per le fave fosse dettato dal fatto che quel
filosofo, a differenza di molti altri suoi colleghi, fosse eterosessuale” affermò tra il serio e il
faceto, Pasquale.
In molti risero a quella che poteva essere una battuta, ma che il prof. Ranzani ritenne anche
un’ipotesi plausibile. Lo dimostrava il fatto che il ragazzo, invece di Internet, aveva usato il
cervello.
Gli uomini di una volta
Nina si sedette accanto alla nonna, che tesseva pazientemente la sua tela.
“ Gli uomini ai tuoi tempi erano come quelli di adesso ?” domandò con curiosità all’indirizzo
dell’anziana donna, il cui volto corrugato era sinonimo di esperienza di vita.
“Perché me lo chiedi ?” si stupì Clara.
“ Volevo fare un paragone e soprattutto sapere se ai tuoi tempi gli uomini erano migliori” precisò
Nina, con disinvolta determinazione.
Spostò la sua palma verso il viso della nonna e lo accarezzò con delicatezza e affetto.
“ Gli uomini di una volta erano rudi, selvaggi, ma in fondo serbavano un cuore grande e
complice di tante galanterie. Erano protettivi, forti e facevano di tutto per farti sentire
importante” affermò la donna, ricordando i tempi andati.
“ Quelli di oggi invece sono insensibili, indifferenti, poco virili. Un vero disastro !” scosse la
testa Nina.
La nonna cercò di consolarla con parole che però ebbero l’effetto contrario.
“ Ai miei tempi era frequente imbattersi in giovani dal petto villoso, irsuti, baffuti e così via.
Sprizzavano ormoni da tutti i pori. Non come oggi che gli uomini sembrano donne e viceversa”.
“Non ci sono più gli uomini di una volta !” recitò il suo lamento funebre, Nina.
“ Si, sempre pronti a fare una pazzia per la propria donna… Sempre pronti a far valere le proprie
ragioni senza timidezze o codardie” si fece trasportare dall’entusiasmo, Clara.
“Se trovassi un uomo così me lo sposerei !” esclamò in forma di sentenza, Nina.
L’occasione non tardò a presentarsi. Nina conobbe un ragazzo che sembrava la fotocopia di un
uomo d’altri tempi. Lo frequento per un po’, ma alla fine capì che non l’avrebbe potuto o forse,
dovuto, sposare: aveva pochi soldi nel portafoglio.
I ladri di Pisa

Osvaldo parcheggiò la sua Golf ai lati di una chiesa e proseguì a piedi fino al Palazzo comunale
di Pisa. Aveva un appuntamento alle dieci in punto e ci teneva a non arrivare in ritardo. L’usciere
gli diede il via libera per l’ufficio del sindaco, che in quel momento era sotto sopra per
l’intervento di alcuni muratori.
“ Mi deve scusare signor Reverberi, ma siamo tutti impegnati in lunghi lavori di ristrutturazione”
si schermì il sindaco, mentre dalla stanza accanto un operaio saldava alcuni pezzi metallici.
“ Sono cose che succedono quando si deve mettere ordine” commentò, sibillino, Osvaldo.
“ Ordine ? Non si tratta di questo” obiettò il sindaco “ Dobbiamo svecchiare. Questo è la nostra
priorità”.
“ Vale anche per gli assessori della sua giunta ?” gli pose una domanda galeotta, Osvaldo.
“ Ci sono giovani che sono già vecchi e vecchi che sono rimasti giovani” se la cavò con una frase
ad effetto, il sindaco.
Osvaldo, però, non era della sua stessa opinione.
“ Sono già troppi i politici italiani che hanno superato l’età pensionabile. Sarebbe meglio che si
lasci spazio ai giovani”.
“ Questo è un suo punto di vista, signor Reverberi. Legittimo ma soggettivo. Le devo comunque
confessare che nel nostro Comune i giovani non mancano….”
“ Lo so. Due di loro hanno appena attirato le attenzioni del mio giornale” dichiarò, sornione,
Osvaldo.
“ Sono il fiore all’occhiello del nostro Consiglio. Due ragazzi, ma che dico…Uomini, che hanno
saputo dire di no ai loro corruttori” soggiunse, ammirato, il sindaco.
“ Già, la storia di Vichi e di Gespi è quanto mai curiosa. Denunciare gli imprenditori che hanno
tentato di corromperli non è una cosa che si vede tutti i giorni, soprattutto nel mondo della
politica” si arrischiò in una provocazione gratuita, Osvaldo.
“ Non cado nelle sua rete, e in quella tesa dal giornale in cui scrive. Oggi sembra una moda
quella di mettere sulla graticola i politici. E’ diventato uno sport nazionale biasimarli. Eppure ce
ne sono ancora molti di onesti” replicò a tono il sindaco.
“ Non ne dubito. Sono qui, infatti, per parlare di Vichi e di Gespi e delle loro gesta edificanti” si
difese a fatica, Osvaldo.
“ Speriamo che sia vero” si augurò il sindaco “ Il suo giornale è noto per come si scaglia contro i
politici, anche oltre il dovuto”.
L’incontro si concluse con una stretta di mano e l’auspicio di rivedersi in un prossimo quanto
non precisato futuro. Osvaldo si mise subito al lavoro e contattò i due consiglieri comunali, Vichi
e Gespi, per avere un’intervista. Essi gliela concessero di buon grado, sicuri di ottenere in
cambio una discreta fetta di notorietà. Osvaldo ringraziò e se ne tornò a Genova, alla sede del
giornale, pronto a relazionare sull’accaduto.
“ Finalmente ho trovato due politici veramente onesti” sostenne davanti al direttore, che lo
guardava con gli occhi di ghiaccio.
“ Ne sei sicuro ?”
“ Si, sicurissimo. Li ho intervistati personalmente, ho raccolto testimonianze ed ho capito che
sono due persone integerrime, come ormai non ce ne sono più molte. Hanno addirittura
denunciato gli imprenditori edili che hanno tentato di passar loro una mazzetta” confermò le sue
impressioni, Osvaldo.
“ Ci metteresti la mano sul fuoco, insomma…”
“ Certamente. Li ho visti persino all’opera, in Consiglio comunale. Se le davano di santa ragione.
Naturalmente a parole….Ma non erano come i “ladri di Pisa” che la mattina litigano e la notte
rubano insieme” .
“ Ah no ?!” ribattè sornione, il direttore del giornale.
Osvaldo si mise allora in allarme e bofonchiò qualcosa all’indirizzo dell’uomo, che sapeva più di
quanto lasciava trapelare nelle sue insinuazioni.
“ Hai già scritto il tuo articolo ?”
“ Si”
“Cambialo, allora” ordinò il direttore.
“ Ma se non l’hai ancora letto…” protestò Osvaldo.
Il direttore accese il computer e si collego al sito internet dell’Ansa.
“ Leggi qui” disse ad Osvaldo.
Il giornalista si affacciò allo schermo del computer e ripetè ad alta voce alcune parole.
“ Arrestati due consiglieri comunali. Ieri notte si sono introdotti nei depositi di un’impresa per
rubare materiale edilizio….I loro nomi sono Fausto Gespi e Mario Vichi…Incredibile !”.
“ Già, incredibile” gli fece eco, il direttore.
“ Sono stati presi nel sacco come due delinquenti comuni….” osservò amareggiato, Osvaldo.
“ Ho già pronto il titolo dell’articolo” dichiarò ineffabile, il direttore.
“ E cioè ?”
“ I ladri di Pisa. La mattina litigano e la notte rubano”.
“ Ma sono contro ogni forma di tangente” aggiunse ironicamente Osvaldo.
Lo stupore si mischiò al riso esilarante che cominciò a spuntargli sulle labbra. Poteva finalmente
dare del ladro ad un politico, senza essere per questo perseguito.
Il budgettometro
Il direttore generale della Banca Azzurra, riunì i dipendenti delle varie filiali in un elegante
salone della provincia romana. Era a tutti chiaro che dovesse fare un annuncio a dir poco
importante. Si levò la giacca e rimase con la cravatta appesa al colletto della camicia bianca.
Fece sedere tutti e poi iniziò a parlare. Accanto a lui vi era un uomo che non aveva niente a che
vedere con la struttura e l’organizzazione bancaria.
“Miei cari colleghi, vi ho convocati oggi non per torturarvi con le solite frasi di rito. A quelle ci
hanno già pensato i miei collaboratori…. Io sono qui, invece, per illustrarvi i nuovi obiettivi
economici e produttivi della nostra banca. Come sapete, siamo piccoli ma tosti e non ci vogliamo
far sfuggire alcuna opportunità commerciale” esordì brillantemente il direttore.
Proiettò poi delle diapositive sul video e cominciò a commentarle. I dipendenti ascoltarono il suo
intervento in religioso silenzio.
“Detto questo, miei cari, per far si che il budget che ho assegnato a ciascuna filiale non rimanga
solo sulla carta, ma venga realizzato, ho deciso di farvi provare in via sperimentale un nuovo
metodo che spero sia molto redditizio”.
Si fece consegnare dall’uomo che gli stava vicino, un piccolo apparecchio che sembrava una
radio tascabile e disse: “ Questo affare è stato brevettato da Gaspare, il signore che mi sta
accanto. E’ un rilevatore dei risultati economici e produttivi raggiunti da ogni singolo direttore di
banca. Se questi si discostano dal budget che vi abbiamo assegnato, il rilevatore comincia a
lampeggiare. In questo modo saprete con sicurezza se i vostri sforzi sono sufficienti per
conseguire gli obiettivi della nostra azienda.
Fu allora il momento di Gaspare che spiegò nei minimi termini il funzionamento
dell’apparecchio da lui ideato, chiamato “budgettometro”. I direttori di filiale avrebbero dovuto
inserire ogni giorno i dati della produzione e il rilevatore avrebbe calcolato lo scostamento
rispetto al budget attribuito.
“ Dove lo metteremo ?” domandò un direttore alla soglia della pensione.
“ Lo dovrete portare sempre con voi” rispose mellifluo, il direttore generale.
“ Ma i clienti lo vedranno….” Obiettò una collega, vestita con un tailler azzurro.
“ L’apparecchio è piccolo. Potrete nasconderlo bene nei vestiti, oppure in borsa. Dovrete
portarvelo anche a letto, la notte, magari al posto di vostro marito o di vostra moglie. Del resto
non è detto che sia meno importante di loro….”
Il direttore generale rise di gusto e con lui risero i numerosi direttori di filiale convenuti.
“Con questo marchingegno, unito al vostro impegno, sono certo che riusciremo ad raggiungere i
traguardi commerciali che ci siamo posti” concluse l’uomo, che perlomeno aveva una notevole
capacità di parlare in pubblico.
Saputa la notizia, i sindacati si opposero recisamente all’introduzione del “budgettometro”, in
quanto lesivo della dignità dei lavoratori. Alla fine, però, riuscirono soltanto ad evitare che
nascesse per i lavoratori l’obbligo di portarsi il rilevatore a letto. Potevano infatti tranquillamente
lasciarlo sul comodino.

Il pastore sardo d’azione


Gavino si presentò alla sede di partito, conscio del fatto che vi avrebbe trovato un ambiente
ostile. Le sue feroci critiche nei confronti dei vertici dirigenziali non erano andate giù a chi
teneva il bastone del comando.
“Caro Ruiu, ci dispiace comunicarti che il coordinamento interno del partito ha deliberato la tua
espulsione. Per evitare tutto questo, puoi soltanto rassegnare le tue dimissioni” lo informò il
segretario del partito sardo d’azione.
Il gelo calò sopra Gavino, il quale ribattè amareggiato: “ Non potete farmi questo. Di che cosa mi
accusate ? Non ho fatto niente di cui debba pentirmi !”
La sua rabbia divenne intemperanza e per frenarlo dovettero intervenire in tre. Alla fine si
acquietò, cercando spiegazioni che nella sua mente non trovava.
“ Non ho rubato, non ho ammazzato nessuno….Qual’è allora la mia colpa ?”
“Semplice” intervenne un compagno di partito “ Tu hai infangato la nostra reputazione con quei
continui articoli sui giornali. Ci hai messo in cattiva luce, ecco tutto….”.
“ Mio caro Ruiu” riprese a parlare il segretario del partito “ Tu hai abusato del tuo intelletto e noi
siamo il partito sardo d’azione, non di pensiero. Ti sei mai chiesto se forse hai sbagliato a venire
in questa formazione politica ?”.
“Il mio obiettivo era quello di studiare e di iscrivermi a questo partito” confessò Gavino.
“ E va bene. Puoi aver sbagliato le tue scelte” agì in tono paternalistico il segretario di partito “
Capita nella vita. In fondo tuo padre era un pastore e tu hai iniziato facendo il pastore. Chi
diavolo te l’ha fatto fare di cambiare lavoro ?”
Gavino si arrabbiò talmente contro i suoi compagni di partito che sbattè la porta e se ne andò. Il
problema è che adesso non sapeva che fare, a meno che non gli fosse subito venuta in mente una
valida idea per il suo futuro.
“E se fondassi un partito ?” pensò tra se.
L’idea balzana si trasformò, come succede spesso in questi casi, in un progetto avanzato. Gavino
fondò il partito del pecorino sardo, che ottenne un buon responso alle elezioni regionali della
Sardegna. Questo lusinghiero risultato elettorale lo spronò ad estendere i suoi sogni di gloria in
ambito nazionale. Di questo nuovo progetto rese edotti i giornalisti che da tutta Italia accorsero
alla sua conferenza stampa.
“ Sono soddisfatto che siate in molti” aprì il suo discorso Gavino “ Ciò significa che la parabola
politica del partito del pecorino sardo comincia ad interessare molte persone. Non vorrei però
darvi una delusione, questo pomeriggio, se vi dico che l’esperienza di questo partito è ormai
giunta al capolinea….”
I compagni di partito e i giornalisti si guardarono allibiti.
“Non vi preoccupate, amici” li tranquillizzò Gavino “ Noi chiuderemo un partito per crearne
vent’otto, quante sono le regioni d’Italia. Il filo conduttore sarà uno solo: il cibo. Come in
Sardegna è stato fondato il partito del pecorino, così in Campania fonderemo il partito della
pummarola e della mozzarella, in Emilia, il partito del parmigiano, in Liguria quello del pesto, in
Lombardia quello della Mostarda e della polenta, e così via….”
“ E in Sicilia ?” domandò beffardamente un giornalista.
“ Il partito della cassata e dei cannoli” rispose senza dare una piega, Gavino.
Era chiaro comunque che qualcuno si stava divertendo alle sue spalle. L’ilarità che trapelava dal
fondo della sala ne era la più evidente testimonianza. Per smussare questi toni, Gavino dovette
faticare molto.
“ Amici, non era forse un filosofo ad affermare che “l’uomo è ciò che mangia” ? Noi Italiani
l’abbiamo preso alla lettera e abbiamo fatto del cibo la nostra più importante industria nazionale,
grazie alla quale siamo conosciuti in tutto il mondo. Io allora vi chiedo: come può ripugnarvi
un’idea come questa ? Un progetto così capillare e significativo ! Già nel dopoguerra c’è chi
provò a fare una cosa simile, seppure su scala molto ma molto ridotta. Vi ricordate il partito della
bistecca ? Ciò dimostra che la cultura culinaria è uno dei punti di forza della nostra nazione.
Perché allora non farci un partito ? Che dico, un partito….Ventotto ! “
“ Qual è l’obiettivo, in poche parole, di questo partito ?” domandò un giornalista, divertito.
“ Semplice. Noi chiediamo una fetta di pecorino gratis al giorno per ogni abitante della Sardegna,
una scodella di ribollita per gli abitanti della Toscana, una fetta di fontina per ogni piemontese, e
così via” rispose esaurientemente, Gavino.
I giornali diedero ampio spazio alla sua iniziativa politica, ricoprendola però di dileggio.
Pensarono allo scherzo di un buontempone che voleva farsi pubblicità e quasi nessuno diede
credito all’idea di uno Stato federale fondato sulla caciotta e sulla fontina. Gavino, però, seppe
smentire anche le persone più scettiche e si presentò alle elezioni politiche italiane,
guadagnandosi anche un seggio in Parlamento. La sua avventura durò, come quella dei suoi più
illustri predecessori, soltanto una legislatura. Finita quella esperienza, per Gavino si aprirono le
porte delle televendite. Egli promosse niente meno che caciotte, fontina, e pecorino sardo.

La cattedrale nel deserto


“Siori, venghino, siori. Venghino al più strabiliante spettacolo dell’umanità. Nani, ballerine,
saltimbanchi, intellettuali, eruditi, e chi più ne ha più ne metta, sono presenti in questa oasi della
pianura marchigiana” strillò l’assessore comunale, all’indirizzo dei tanti curiosi che erano accorsi
in quel luogo.
C’erano pure i giornalisti ad intervistare quell’uomo, che rappresentava in modo caricaturale
un’alta Istituzione dello Stato.
“Avv. Berri, non crede di esagerare con tutto questo ? “ gli domandò uno dei giornalisti
convenuti.
“ Lei pensa che sia tutta una pagliacciata, non è vero ? Ebbene si sbaglia. Questo è un vero e
proprio happening” dichiarò l’assessore.
“Happe…che ?”
“ Un evento altamente culturale organizzato dal Comune, che sta attirando migliaia di visitatori
in un’area altrimenti desolata e brulla” spiegò l’avv. Berri.
“ Lei vuol farci credere che questa cattedrale nel deserto sia una sorta di museo all’aria aperta ?”
storse il naso il giornalista.
“ Più o meno”
“In realtà lei sa meglio di me che qui doveva passare l’autostrada e che davanti a noi vi sono due
piloni di cemento che improvvisamente si interrompono nel bel mezzo della campagna. E
l’autostrada che avevate progettato è rimasta lettera morta, nonostante i soldi stanziati per
realizzarla” obiettò il determinato giornalista di fronte a quello scempio.
“Dettagli, dettagli. Bazzecole. Guarda come si diverte la gente, piuttosto” minimizzò l’assessore.
“E i tanti avvisi di garanzia che piovono sulla sua testa e su quella del sindaco ?”
“Facezie”.
Intanto un gruppo di attori inscenava una commedia di Shakespeare, mentre allegri cantastorie
dilettavano il pubblico, che si dilettava con i drink e gli aperitivi gentilmente offerti
dall’Amministrazione comunale.
“ Questo sarebbe a carico dei contribuenti ?”
“ No, dell’Amministrazione comunale”
“E quindi dei contribuenti”.
“ Astori, Astori, lei è una persona veramente pignola. Neanche quando c’è da divertirsi lei si
diverte. E poi, sempre con quel tacquino….Sembra un giornalista degli anni ‘30” si spazientì
l’assessore.
Accese una sigaretta ed iniziò nervosamente a fumare.
“Ma che cos’è quello ? “ si spaventò il giornalista.
“Calma, Astori, calma….”
“Calma ?! Ma quelle macchine stanno ruzzolando dall’autostrada. Non ha messo i cartelli di
interruzione ?” provò timore e sgomento il giornalista.
“Ma come glielo devo dire, Astori ? Lei con me non si deve preoccupare. E’ tutto uno spettacolo,
uno show. Quelle macchine non sono vere macchine, ma automobili telecomandate. Ho invitato
un gruppo russo specialista in questi spettacoli….”
“Spettacoli ? Per poco non mi veniva un infarto….”
“ Lei è sempre il solito esagerato, Astori”
“Ma che cosa vuole dimostrare con questa ennesima trovata di cattivo gusto ?”.
“ C’è chi ha detto che l’autostrada così com’è non serve a niente. Io, invece, voglio smentire
queste malelingue. L’autostrada, nei limiti delle sue possibilità e della sua lunghezza, funziona.
Eccome, se funziona….”
Mentre l’assessore stava parlando un manipoli di carabinieri vennero a prelevarlo e li misero le
manette.
“Anche questo fa parte dello spettacolo ?” ironizzò Astori.
A questo punto il copione imponeva soltanto il silenzio.

Il museo dell’amore

Giacomo si affacciava continuamente alla finestra del suo appartamento per gustare appieno il
magnifico panorama di un parco pubblico nel cuore della città. La zona residenziale in cui
abitava gli lasciava in dote spicchi di verde in mezzo al cemento e questo era per lui più di una
consolazione. Al resto provvedeva la visione idilliaca di una muliebre figura che ogni tanto si
sporgeva dal davanzale per ritirare i panni stesi. Giacomo se ne era innamorato e non aveva
esitato, dopo mesi e mesi di contemplazione, a volerla conoscere. I loro ripetuti incontri nel
parco erano stati forieri di un legame sentimentale così forte da sfociare anche in un prepotente
coinvolgimento passionale. La preoccupazione più grande per loro era adesso quella di trovare il
posto giusto in cui fare l’amore.
“ Casa mia è l’ideale” sostenne con forza Giacomo “ I miei genitori lavorano e sono fuori fino
all’ora di cena”.
“ Ho un’idea migliore” gli propose Susanna “ Se vieni da me stasera ne parliamo”.
“Da te ?” si spaventò senza motivo, Giacomo.
“ Si, da me. C’è forse qualcosa di sbagliato in questa scelta ?”
“ No, ma…Dentro il parco pubblico non ci sono mai stato dopo una certa ora” eccepì il ragazzo.
“ Essendo la mia casa all’interno del parco, è chiaro che io abbia le chiavi per aprire il cancello
esterno” precisò puntigliosamente Susanna, il cui vivace temperamento si era arricchito di una
nota di inflessibile intransigenza.
Quella sera Giacomo arrivò all’appuntamento vestito con abiti troppo eleganti, che si addicevano
poco alla natura di quell’incontro. Fu Susanna a farglielo risaltare immediatamente.
“ Ti sembra di andare ad un pranzo di matrimonio ?”
Il ragazzo accusò il colpo e decise di giocare sulla difensiva, rintanandosi dietro ad un mutismo
che non lasciava spazio al contraddittorio.
“ Non dobbiamo mica andare a cena fuori” soggiunse la ragazza, sussurrando.
Era chiaro che volesse evitare, con il suo tono di voce basso, di essere udita da qualcuno.
“Chi c’è in casa ?” domandò Giacomo.
“ I miei genitori”
“ I tuoi genitori ? E noi….”
“ Noi cosa ?! Non è qui che resteremo” tuonò Susanna, facendo segno a Giacomo di uscire di
casa.
Il ragazzo si trovò ancora una volta ad obiettare.
“ Sicura che non andiamo a cena fuori ?”
“ Sicura”
“ Se usciamo allora, dove andiamo ?”
“ Stai zitto e seguimi” tagliò corto, Susanna.
Le sue gambe non fecero molta strada, dal momento che la ragazza andò a puntare la torretta del
parco, con l’intento di entrarvi dentro.
“Dove diavolo vuoi andare ?” chiese stupito, Giacomo.
Susanna non si curò di rispondere, ma estrasse tempestivamente un mazzo di chiavi dalla tasca e
si mise ad aprire la porta.
Le proteste veementi di un incredulo e sconcertato Giacomo, continuarono a farsi sentire.
“ E questo sarebbe il posto ideale per fare le nostre cose ? “.
“ Non è un magazzino, ma un museo” ribattè Susanna, mentre saliva le scale.
Arrivarono all’ultimo piano, con Giacomo che ansimava.
“ Chi lo ha detto che nei musei si va solo per vedere le opere ?” ironizzò il ragazzo.
“ Ma certo” annuì sarcasticamente, Susanna “ Quando ne ho avuto l’occasione l’ho sempre fatto
qui”.
“ In un museo…”
“Si”.
“ Mi pare impossibile” scosse la testa, esterrefatto, Giacomo.
La ragazza si mosse celermente verso uno dei locali interni del museo e ritornò soltanto dopo
alcuni minuti.
“ Che cosa è quello ?” domandò uno spaurito Giacomo, a Susanna che recava con sé un oggetto
“ E’ un materasso. Non lo vedi ?! Se non vogliamo farlo in piedi…” argomentò la ragazza, che
sembrava aver pensato a tutto eccetto una cosa.
“ Ma gli allarmi qui non funzionano ?”
“ Certamente che funzionano !” esclamò Susanna “ Questo è un museo nel vero senso della
parola e non una caricatura. Ma perché scattino è necessario che qualcuno sfili i quadri dalla
parete”.
Giacomo tirò un sospiro di sollievo, pur non sentendosi ancora al sicuro da ogni possibile
insidia.
“ Perché mi guardi così ?” protestò Susanna nei confronti di quel ragazzo che la stava fissando
continuamente.
“ Mi chiedevo come avessi fatto a procurarti le chiavi” spiegò così il suo silenzio, Giacomo.
“ Sono o non sono la figlia dei custodi del parco ? “ si pavoneggiò Susanna “Sono andata in
ferramenta e ho fatto un duplicato”.
L’attenzione di Giacomo, intanto, si era concentrata su alcune opere d’arte esposte nel museo. Le
contemplò con aria stranita e con la consapevolezza di stare leggendo qualcosa di
incomprensibile.
“ Mi sembri disorientato, tesoro” notò, perfidamente, Susanna.
Giacomo espresse scetticismo sulla possibilità di conciliare amore e cultura.
“ Non è la prima volta che vengo in questo museo. Mi preoccupa, però, doverci fare cose
diverse dal guardare quadri o sculture, che comunque mi hanno sempre lasciato freddo e
confuso”
“ Tu dovrai vedere solo me e dubito che rimarrai freddo” replicò scherzosamente, Susanna.
“ Come opera d’arte sei la migliore che c’è qua dentro” le fece un complimento, Giacomo.
“ Se Piero Manzoni fosse ancora vivo, mi avrebbe certamente fatto entrare nella sua collezione”
dichiarò solennemente, Susanna, non curandosi di risultare chiara ed accessibile.
Giacomo, infatti, chiese immediate spiegazioni.
“ Chi è costui ? Uno stilista ?”.
“ Un artista, vorrai dire” lo corresse Susanna “ Firmava le sue modelle come avrebbe fatto con
un quadro, trasformando così una donna in una vera e propria opera d’arte”.
“ Un personaggio del genere non deve aver fatto tanta strada, vero ?” si immaginò il ragazzo.
La logica era dalla sua parte, ma non la verità dei fatti.
“ Ti sbagli, tesoro” lo smentì ancora una volta, Susanna “ Manzoni è un accreditato artista
internazionale. Qui puoi vedere una sua opera, anche se nel mondo lo conoscono soprattutto per
la composizione “Merda di artista”.
“ Puoi mica ripetermelo rimase perplesso e stordito, Giacomo.
“ Merda di artista. E’ un opera che si chiama così. E’ una specie di scatoletta che invece di
contenere il tonno, raggruppa le feci di un ipotetico artista” spiegò Susanna.
“Veramente schifoso !”
“Tremendamente artistico, direi”.
“ Sei sicura che sia un artista accreditato a livello internazionale ?” storse il naso Giacomo,
individuando l’aspetto grottesco della situazione.
La ragazza fece un gesto affermativo con la testa e subito dopo aggiunse: “ E’ molto strano che
la figlia del custode del parco debba catechizzare il figlio del preside. I ruoli mi sembrano
ribaltati”.
“ Tu studi storia dell’arte” rilevò Giacomo ridacchiando sotto i baffi. Si dispose poi ad ascoltare
una sommaria presentazione delle opere da parte di Susanna. Udite quindi le quotazioni di
mercato da queste raggiunte, concluse con una battuta.
“ Aveva sicuramente ragione Ennio Flaiano quando diceva che: “ “L’arte è un investimento di
capitali, la cultura un alibi”.
“Chi è Ennio Flaiano ?” domandò la ragazza, inebetita
“ Questa volta sei tu ad essere impreparata” rilevò Giacomo.
Susanna ignorò volutamente tale provocazione ed andò avanti per la sua strada.
“ Vuoi che lo facciamo sotto questo “taglio” di Fontana, o vicino al dinosauro ?” chiese a
Giacomo, improvvisamente.
Il ragazzo non recepì prontamente quel messaggio, anzi, annaspò nei dubbi.
“ Il taglio dov’è ?”
“ Non lo vedi ? E’ in mezzo a questa tela, intitolata “Concetto spaziale”. Un capolavoro !” si
esaltò Susanna.
Tale entusiasmo venne giudicato fuori luogo da Giacomo, che replicò con insolenza: “ E questa
sarebbe la tanto strombazzata e celebrata arte contemporanea, che costa fior di quattrini ? Non lo
vedi che è solo un buco nella tela ? Ci riuscirebbero tutti” .

Susanna scoppiò a ridere, ribellandosi nel contempo alla tesi propugnata dal suo amico.
“ Il punto non è questo, caro tesoro. Il valore di un’opera si misura soprattutto dalla sua
originalità. Nessuno prima di Fontana aveva tranciato una tela per dimostrare che oltre alla
larghezza e alla lunghezza, vi è anche la profondità dello spazio. Senza contare che quest’opera
mi produce una grande eccitazione, pari a quella che provo se faccio l’amore accanto al
dinosauro”.
“Non erano tutti estinti ?” ci scherzò su, Giacomo.
“ Stavo parlando del “grande rettile”, ovvero di quella gigantesca opera realizzata da Pino
Pascali, esponente dell’arte povera” precisò la ragazza.
La replica di Giacomo fu di un’ironia leggermente più sfumata che in precedenza.
“ Oh, finalmente abbiamo qualcosa che costa poco”
“Perché ?”
“ L’hai detto tu”
“No, io non ho detto niente di tutto questo”
“Hai parlato di arte povera”
“Ecco, dove sta l’inghippo !” esclamò Susanna “ Povera non significa che costa poco, ma che
utilizza materiali di scarso valore”.
“ Continuo a non capirci niente” capitolò Giacomo.
La ragazza non perse le speranze di inculcargli qualche utile concetto .
“ Tutte queste opere, quando il museo ha aperto i battenti, costavano poco. Poi i loro autori sono
divenuti famosi a livello internazionale e i prezzi sono conseguentemente lievitati”
“Fammi un esempio” reclamò Giacomo.
“ Vedi quel quadro lì “ indicò al ragazzo, Susanna.
“Si”
“ Si chiama “Hiroshima” ed è stato dipinto da un artista di nome Tancredi. Ebbene, costui era
talmente disperato e perseguitato dagli insuccessi delle sue opere, che decise di suicidarsi
buttandosi nel Tevere” fu particolarmente convincente, Susanna.
L’arte, a questo punto, poteva tacere. Aveva inizio l’amore. I due amanti decisero di coricarsi
vicino al “grande rettile”, stendendo il materasso che riusciva a contenerli abbondantemente. Si
liberarono dal peso opprimente di un mucchio di vestiti e, pelle contro pelle, esaurirono i
preliminari dell’amore con intensa complicità. Cominciarono così a gemere ed ansimare, ma
rimasero avvinghiati l’uno all’altro soltanto per pochi istanti.
Alcuni malviventi forzarono la serratura della porta e riuscirono ad entrare nella torretta. Si
trovarono davanti lo spettacolo di due persone che non volevano lasciarsi.
“ Legateli insieme “ fu la soluzione escogitata da quello che sembrava il capobanda.
Susanna e Giacomo furono subito messi uno di faccia all’altro, legati come due salsicce. I
malviventi, poi, sfilarono i quadri di maggior pregio dalla parete, facendo squillare l’allarme. Se
la diedero quindi a gambe, lasciando i due esterrefatti amanti in una posizione così scomoda e
compromettente. In quel museo sperimentale ed innovativo essi risaltavano in bella evidenza e ci
sarebbe stato anche qualche critico disposto a scambiarli per un’opera d’arte sull’amore. Per la
polizia, che accorse sul luogo del furto, invece , erano soltanto degli illegali ed incauti visitatori.
I funerali del cuoco

In una chiesa romana ebbero luogo i funerali del famoso chef, Luca Gringoli, detto anche il
“ciociaro”, per via delle sue origini alto-laziali. Una folla composta si sistemò tra le panche,
partecipando al cordoglio della moglie Faustina, che era visibilmente frastornata. Pianto e
lacrime lasciarono il posto all’omelia del sacerdote, un uomo alto e severo, che diede un breve
ritratto dello scomparso.
“ Luca Gringoli non era soltanto una persona apprezzata in campo culinario, ma sapeva
fagocitare intorno a se molte amicizie. La sua qualità più importante era proprio l’umanità e quel
prepotente bisogno di socialità che lo contraddistingueva fino a farlo diventare un ambasciatore
dell’amicizia in terra romana…”
“ Addirittura ! “ esclamò a bassa voce il principe dell’Uliveta, conosciuto nobile romano.
“ Non puoi mica stupirti” lo zittì Ezechiele, rettore dell’Università di Camerino e amico
personale del “caro estinto”.
“ Che intendi dire ?” mormorò il principe.
“ Luca ha messo l’amicizia sopra ogni cosa, tanto che i soldi e l’interesse personale passavano
sempre in secondo piano” ribattè Ezechiele.
“ Lo credo bene, mio caro rettore. Senza quelle amicizie di cui parli non sarebbe potuto arrivare
dove è arrivato. Ci siamo capiti, vero ?” introdusse una nota maliziosa di realismo, il principe.
“ Chi ha peccato scagli la prima pietra, diceva qualcuno. Forse che noi siamo stati sempre
immuni da favori, aiuti e raccomandazioni ?” fece professione di sincerità, Ezechiele.
I due uomini si acquietarono, lasciando che le parole del sacerdote giungessero anche alle loro
orecchie.
“ Noi conosciamo Luca come amico, ma egli è stato anche un esimio rappresentante della cucina
italiana. Un grande cuoco, ma che dico: uno chef meraviglioso, che tutto il mondo ci invidia…”
“ Queste sono balle !” protestò con voce sottile, il principe.
“ Che c’è che non va ancora ?” tento di capire Ezechiele.
“ L’hai sentito il prete ? Parla di Luca come di un cuoco eccellente. Se sapesse tutto nei minimi
dettagli….” ridacchiò il principe, che siccome era in piedi in fondo alla chiesa, aveva scarse
possibilità di essere sentito da tutto il resto dei fedeli.
“ Stai malignando in un luogo di culto. Così non va !” lo redarguì Ezechiele, che comunque ci
teneva a conoscere i pareri di quell’uomo petulante e sarcastico.
“ Allora mi zittisco”
“ No, continua. Ma con giudizio”
“ Mi fa ridere chi definisce Luca “cuoco eccellente” Gli darei da mangiare i piatti che
cucinava…Minestre più simili a brodaglie, bistecche che sapevano di gomma. Meno male che
negli ultimi tempi si è messo a dirigere gli altri, invece che cucinare lui stesso. Altrimenti, non
saprei che danni avrebbe fatto” andò giù con un giudizio tagliente, il principe.
“ Già, anche a me è capitato di assaggiarli e per poco mi dovevo ricoverare per problemi
intestinali “ confessò Ezechiele. ”Non diciamolo troppo in giro, però. La gente è convinta che
fosse bravo”.
“ Si, questo lo so. Il fatto che fosse lo chef di importanti uomini dello spettacolo e di politici lo
rendeva automaticamente superiore agli altri. Ma era più bravo come comunicatore che come
cuoco” concluse il principe, prima di ascoltare l’ultima parte dell’omelia.
Il prete si era intrattenuto più del solito ad elencare le qualità e lodare le doti di Luca. Sembrava
che qualcuno gli avesse scritto un copione che lui adesso era costretto a recitare.
“ Cari fratelli, che siete qui riuniti in occasione di questo triste evento. Non ci sono parole per
dire quanto Luca ci mancherà. Egli ha lasciato un vuoto incolmabile tra di noi…”
“ Ecco, lo sapevo ! Tutti quelli che muoiono lasciano un vuoto incolmabile. Ma qualcuno che era
meglio se fosse morto, non c’è mai ?” imprecò il principe.
“ Fai piano, che ti sentono” gli pestò un piede per fargli abbassare il tono di voce, Ezechiele.
“ Ahi, mi fai male !”
“ Così stai zitto”
“ Mai e poi mai starò zitto” si ribellò il principe “ E inoltre non credo proprio che saranno in
molti a rimpiangere Luca Gringoli. Più che un vuoto incolmabile ha lasciato un buco
incalcolabile. Guarda! C’è anche il curatore fallimentare nelle prime file”.
“ Tu fai della facile ironia” obiettò Ezechiele.
“ Non credo. Luca ha lasciato una montagna di debiti con il suo ristorante. E scommetto che
molti di quelli che oggi sono a battersi il petto in chiesa domani assaliranno il curatore
fallimentare per iscriversi nella lista dei creditori” sostenne a spada tratta, il principe.
“ Mi sembra che tu affretti un po’ i tempi” storse il naso, Ezechiele.
“Vedremo”
La messa intanto era finita ed i fedeli stavano sciamando fuori dalla chiesa. Bastò che il curatore
fallimentare mettesse un piede fuori perché un drappello di persone, che provenivano dall’interno
e avevano assistito alla funzione, reclamasse soldi arretrati e debiti mai onorati.
“ Hai visto ?! E’ successo prima di quanto pensassi” si leccò i baffi il principe.
Per oltre un’ora aveva malignato e adesso era contento di aver colto nel segno.

Il neo del comunista

“Compagni ! E’ arrivato il momento di uscire dalla clandestinità. Non possiamo più vivere in una
cappa di vetro. La nuova immagine del comunista non deve più assomigliare a quella dello
sfigato proletario che non arriva alla fine del mese, ma va rilanciata in toto. Se avete recepito il
messaggio, adesso portatelo a tutti” catechizzò i suoi uomini, Arturo, il nuovo enfant prodige del
partito comunista.
Guardava quei ragazzi eleganti e incravattati con l’aria ispirata del fanatico predicatore, che
riceveva in cambio attenzione smisurata ed un assoluto consenso.
I discepoli di un’idea nuova, sia pur radicata nella tradizione centenaria della “sinistra”, si
mossero per mettere in pratica quella lezione, sciamando come api, anche se sembravano soltanto
degli studenti in attesa di una laurea. Si riversarono nei quartieri dei ricchi delle città a fare opera
di proselitismo, vendendo porta a porta il quotidiano di partito. Al grido di “ comunismo per
tutti”, dopo aver messo in soffitta lo slogan “Proletari di tutto il mondo unitevi”, ottennero dei
successi che i più non si aspettavano. Grazie a questi, il capo di quelle virtuali milizie, Arturo,
divenne il nuovo segretario del partito comunista italiano. Su queste parole nel giorno
dell’investitura: “ Compagni ! Vi ringrazio di aver riposto questa sconsiderata fiducia in me che
sono soltanto un fedele servitore di voi tutti. Cercherò pertanto di adempiere alla mia missione
con spirito combattivo e il massimo rispetto di quelli che sono i nostri valori. Viviamo nei tempi
cupi del consumismo di massa, dove l’uomo è schiavo del progresso e non il suo principale
artefice. Quanti di voi sognano finalmente l’avvento di una nuova era ?”.
I delegati presenti nell’auditorium accolsero con entusiasmo il discorso di esordio del nuovo
segretario, inappuntabile nel suo abito vellutato color bleu. Ci fu, però, qualcuno che storse il
naso ed ebbe da eccepire.
“ Non si è mai visto un politico con un neo così grande” commentò un uomo dall’aria rude.
“ Gorbaciov” ribattè il delegato che gli stava accanto.
“ No, Gorbaciov aveva una “voglia” rossa sulla fronte, non un prepotente neo nero che sa di
fascismo. Questo particolare potrebbe non giovare alla futura carriera politica di Arturo Melli”
profetizzò l’uomo che aveva parlato per primo.
“ E’ bravo, ma troppo brutto. Vuoi dire questo ?” cercò di capirci qualcosa l’altro delegato.
“Proprio così. Nella società dell’immagine come la nostra un politico che non si presenta bene
corre ad handicap”
“ Andreotti e Fanfani allora, dove li metti ?”
“ Altri tempi, appunto”.
Arturo non potè sentire il dialogo dei due delegati di partito, ma in certo senso era consapevole
delle difficoltà che avrebbe affrontato con quel neo gigantesco. Le prime a scuotere la testa e a
provare senso di fastidio nel guardarlo erano di solito le donne, per una sorta di misterioso
meccanismo perverso che creava in loro un senso di ribrezzo molto forte. Arturo ne era
fermamente convinto, tanto da investire della questione persino sua moglie.
“ Tu credi che io faccia schifo con questo neo ?” le domandò, con la coda tra le gambe.
“ No, assolutamente. De resto se non fosse così, non ti avrei certamente sposato” si mantenne
pacata, la moglie Rosa.
“ Potresti averlo fatto per interesse…” sorrise Arturo.
“ Interesse di cosa ? Sei sempre stato senza una lira…” proseguì nella finta schermaglia, Rosa.
Era una fortuna per Arturo aver incontrato una donna così saggia e leale, da cui non ci si
aspettavano mai malizie, ma soltanto buoni consigli da mettere rigorosamente in pratica. Il
giovane esponente del partito comunista si sentiva al sicuro quando stava con lei e la interrogava
ogni qualvolta avesse dovuto risolvere un problema spinoso.
“ Per me vai bene così” concluse Rosa “ Semmai c’è da dire che non sei troppo telegenico. Ma
per chi sta all’opposizione come te, le possibilità di apparire sono molto poche e quindi non devi
preoccuparti. Se un giorno avrai bisogno dei mezzi televisivi, allora penserai a levarti
quell’ingombrante neo”.
Arturo si sentì completamente risollevato e pronto a recitare una parte importante in seno al
partito.
“ E’ venuto il momento, cari compagni, di cambiare completamente la nostra immagine di
partito” dichiarò Arturo alla riunione del comitato interno. “ Non possiamo più permetterci di
regalare voti a causa di alcune nostre decisioni impopolari. E’ giusto avere l’aria dei duri e puri.
Sbagliato è abusarne. Quello che vi sto dicendo è che il futuro del nostro partito risiede nella
parola “simpatia”. Nessuno guardando a noi dovrà più aver paura e considerarci gli eredi di
quelli che “mangiavano i bambini”. Dobbiamo impegnarci affinchè una parte dell’elettorato non
ci consideri più ostili”.
“ Come pensi di convincere l’Italiano medio, ossia quello che ha la villa al mare e un gruzzolo in
banca ?” domandò sagacemente, uno dei membri del partito.
“ Buona domanda la tua” riconobbe Arturo.
“ Destinata probabilmente a rimanere senza risposta” soggiunse il suo compagno Dino
Arturo scosse la testa e lo corresse: “ No, non è così. Dimostriamo all’Italia che siamo maturi e
che non siamo prigionieri di schemi ideologici. L’Eurocomunismo è si un modello a cui ispirarci,
ma è necessario anche che guardiamo oltre….”
“ Oltre ? Cioè dove ?” rimase perplesso un altro compagno di partito.
“ Alla Cina per esempio”.
“ Stai pensando di riesumare le “Guardie rosse” di Mao, i tribunali del popolo o chi altro ?” fu
particolarmente sarcastico Dino.
“ Niente di tutto questo” negò recisamente Arturo.
“ Che cosa allora ?”
“ Penso ad un comunismo meno provinciale e più internazionale, che guarda alla Cina perché là
anche i capitalisti sono iscritti al partito” espose la sua tesi visionaria, Arturo.
“ Confindustria comunista è uno spettacolo che non mi vorrei perdere” sorrise divertito uno
scettico Dino.
Arturo aveva, però, assunto una tale posizione di forza in seno al partito che nessuno, eccetto
poche eccezioni, osava contraddirlo in modo manifesto. Il dissenso montava, invece, in privato
ed erano in molti quelli che contestavano le sue scelte. Alcuni pensarono addirittura che con
quel neo nero non avrebbe potuto che partorire idee di destra ed essere inesorabilmente sconfitto
alle successive elezioni. Se dunque lo scetticismo intorno a lui dilagava, il suo tasso di popolarità
cominciava a registrare un sensibile aumento. Molta gente non lo aveva mai visto in faccia, ma
era rapita dalle sue esotiche idee e dal senso di mistero sprigionato dalla sua totale assenza dai
mezzi televisivi. Arturo si era riproposto di non apparire in video fintanto che non si fosse levato
quel voluminoso e antiestetico neo. Per il momento si faceva fotografare di profilo o tenendo
pose che nascondevano quel suo segno particolare.
Domenica dieci Giugno vi furono le consultazioni elettorali per Camera e Senato. Erano davvero
in pochi quelli che si attendevano un’affermazione così evidente del partito comunista di Arturo
Melli, che registrò una crescita del dieci per cento rispetto alla precedente tornata. Il sorriso
ritornò agli scettici compagni di partito, anche se il loro giudizio su Arturo non si modificò di
una virgola.
“ Adesso mio caro, devi farti l’operazione. Avrai tutti i riflettori davanti e non sfuggirai al
responso dei telespettatori” sembrò ordinargli sua moglie, subito dopo l’esito elettorale.
Quello che lei diceva, lui faceva. Arturo non si preoccupava troppo del suo aspetto, gli altri
invece si. Era quindi giunto il momento di levarsi quell’irsuto e sgraziato neo. Una semplice
operazione chirurgica avrebbe dovuto risolvere il suo problema e invece, sfortunatamente gliene
creò un altro. Il neo fu si tolto, ma al suo posto comparve una tremenda ed inquietante cicatrice.
Complotto o tragica casualità ? Arturo non seppe rispondere, ma si presentò qualche giorno dopo
alle televisioni. La sua intervista girò per tutte le reti e finalmente il pubblico italiano lo potè
vedere in volto. Non fu un sollievo per tutti, dal momento che Arturo, definito scherzosamente
Il “politico misterioso”, sfoderò ai quattro venti quell’inquietante cicatrice.
Accadde così che tanta gente continuò ad aver paura dei comunisti.

Siamo uomini o pendolari ?


Erano le sei di un pomeriggio uggioso che stava rantolando verso la fine. Un treno si fermò alla
stazione scaricando un manipolo di individui stanchi. Erano i famosi “pendolari”, conosciuti per
la loro disponibilità a viaggiare quando gli altri sono ancora a letto, gli unici in grado di superare
tutti i record di sopportazione previsti dal Guinness dei primati. E tra loro vi era anche Rinaldo,
un onesto lavoratore che si faceva quaranta chilometri al giorno per giungere a destinazione. La
sua filosofia di vita era compressa in un ragionamento che egli soleva sviluppare con il suo
migliore amico, Carlo, pendolare come lui.
“ il mondo, mio caro, si divide in due categorie: da un parte gli uomini, dall’altra i pendolari. Gli
uomini sono quelle persone libere di organizzarsi la vita come vogliono, senza ostacoli di sorta o
impedimenti che ne offuschino il suo corso quotidiano, i pendolari, al contrario, dipendono
piuttosto dagli orari dei treni, dal traffico sulle strade, dalla pressione delle gomme, dal buono e
cattivo funzionamento dei semafori. Gli uomini mangiano in case riscaldate all’ombra del
focolare domestico, i pendolari, invece, pasteggiano in tavole più fredde che calde, perfino sui
cofani delle macchine o in angusti spazi d’ufficio invasi dalle carte. Gli uomini si votano ad una
sana dieta mediterranea, i pendolari, al contrario, prendono quello che trovano. Gli uomini
progettano la loro vita, i pendolari, invece, hanno una vita piena di progetti che non riescono mai
a realizzare. Gli uomini guardano i treni passare, i pendolari, invece, ci salgono sopra e devono
anche pagare il biglietto. Vedono di più il controllore dei loro figli, anche perché a casa non ci
sono mai. Gli uomini lavorano per vivere, i pendolari vivono per lavorare. Gli uomini timbrano il
cartellino, i pendolari il biglietto del treno. Ma ciò che differenzia maggiormente i primi dai
secondi è che gli uomini sostanzialmente viaggiano per divertirsi, mentre i pendolari viaggiano
per lavorare. Ma il loro viaggio non è certo un’occasione di evasione, né l’anticamera di
un’allettante vacanza. Noi pendolari siamo gli ultimi “maledetti” della società tecnologica
moderna, che invece di buttar via la loro vita in alcol e droga, la smarriscono in estenuanti
spostamenti in giro per il mondo. Siamo i nuovi forzati del lavoro, che si sobbarcano lunghe
trasferte per mantenere la propria misera occupazione, o racimolare quattro spiccioli per mandare
avanti le famiglie”.
“Potresti scriverci un libro” commentò divertito, Carlo.
“ Davvero. Vent’anni di pendolarismo mi hanno fato conoscere un mondo che non credevo
potesse esistere. Pensa che in tutto questo tempo ho assistito anche a dieci suicidi sui binari….”
“ E’ venuto allora il momento che la tua azienda ti avvicini a casa. Se penso all’Aldeghieri….”
Affermò risoluto, Carlo.
“Già, è un po’ che non lo vedo” asserì Rinaldo.
“ E’ perché l’hanno avvicinato già da due settimane, quel fetentone” rivelò Carlo.
“Avrà si o no fatto il pendolare per due-tre mesi….” Si stupì Rinaldo.
“ Il solito raccomandato italiano” concluse Carlo.
Rinaldo, verde di rabbia, chiese un appuntamento al direttore del personale della sua azienda.
“Egr. Rocchi, mi voleva parlare, non è vero ? “
“Si e con una certa urgenza” partì in quarta Rinaldo, deciso a far valere le sue ragioni.
“Anch’io intendevo chiamarla per parlargli di una certa cosa”
“Ovvero ?”
“Di uno spostamento lavorativo”
Rinaldo si rilassò, pensando in positivo.
“ Non ce la faccio più a fare il pendolare, dott. Rosi. Sono vent’anni ! Gradirei fermarmi per un
po’, senza più quei viaggi in treno così estenuanti”.
“ Lei ha perfettamente ragione. La mia proposta, infatti, viene incontro alle sue esigenze”
concordò il direttore del personale.
Le aspettative di Rinaldo aumentarono a vista d’occhio, e un nuovo orizzonte di ottimismo si
schiudeva di fronte a lui.
“ Il trasferimento a Piacenza avverrà dal prossimo mese ?” chiese, sulle ali dell’entusiasmo, al
dott. Rosi.
“ Quale Piacenza ?! Io intendendo mandarla a Cagliari” mise in chiaro, il direttore del personale.
“Ma così, invece di avvicinarmi, mi allontana….” Protestò Rinaldo.
“Si, ma così finirà il suo lungo pendolarismo, che lei giustamente ha sempre considerato nocivo
per la salute. Senza contare che in tal modo lei avrà un’importante progressione di carriera”
replicò a tono il dott. Rosi.
“ E mia moglie, e i miei figli….” Rimase quasi senza parole, Rinaldo.
“Lo potrà portare con sé, naturalmente. L’aria della Sardegna non potrà che farle bene…E’
proprio vero che di tipi disponibili e diligenti come lei ce ne vorrebbero di più nella nostra
azienda !” lo incensò il dott. Rosi, con un ragionamento che aveva un retrogusto beffardo.
Messo con le spalle al muro, Rinaldo finì per accettare, chiudendo forse per sempre la sua lunga
parentesi da pendolare.

L’uomo e l’animale
Le ferie d’Agosto erano un vero e proprio rompicapo per Alberto, impiegato di banca e marito
non proprio modello, costretto ad inventarsi dei giri alquanto improbabili, per accontentare il
desiderio di evasione di sua moglie. Quest’anno, poi, alcuni eventi avevano reso più turbolenti i
loro rapporti che peraltro non si erano mai incrinati del tutto. La scelta di solcare le rive del
Tamigi e di guardare dal basso verso l’alto la “Torre dell’orologio”, ossia di andare a Londra, era
nelle sue intenzioni un modo per riportare la calma e la distensione all’interno del menàge
familiare.
Del resto, se avesse optato per una mèta classica come la riviera romagnola, sarebbe stato
sicuramente indotto in tentazione dalla massima: “Agosto, moglie mia non ti conosco” e questo,
insieme a tante altre cose, era ciò che Alberto voleva assolutamente evitare. L’ultimo tradimento
da lui perpetrato ai danni della sua consorte non era stato indenne da una passione fulminante che
aveva rischiato di mandare all’aria il suo matrimonio. Per fortuna, sua moglie non si era accorta
di niente, o almeno questo era ciò che lei voleva fargli credere. La vacanza in Inghilterra
giungeva a proposito e apriva una fase di riflessione nella condotta dissennata di Alberto, che
cercando se stesso rischiava di perdere quella che era stata fino a quel momento la donna della
sua vita.
“ E’ stata proprio una bella idea quella di venire a Londra, non trovi tesoro ?” sorrise
ipocritamente l’uomo, per convincere la donna della bontà della sua scelta.
“ Ma certo, amore. Stare qui ad Hyde Park è un vero e proprio sollievo” commentò entusiasta,
Gabriella “ Erano anni che desideravo vederlo. Ma dov’è lo “speaker’s corner” ?”
“ Vuoi dire il luogo dove qualche folle inscena un comizio ?” fu spicciolo Alberto.
“ Proprio quello. Voglio avvicinarmi e sentire anch’io che cosa dicono” si ripropose, Gabriella.
“ Parlano in inglese. E chi li capisce ?” obiettò Alberto.
“ Lascia fare a me. Sarà tutto semplice” dichiarò, sibillina, Gabriella.
Attese che l’ultimo uomo avesse cessato di parlare e si sostituì a lui, nei panni dell’oratore.
“ Che diavolo mi combini, Gabriella ?” imprecò Alberto, stupefatto.
Credeva che si fosse bevuta il cervello, ma in realtà stava tramando un’appetitosa vendetta.
“ Hey guys ! I’m an italian philosopher, and I’m going to speak in Italian. I will ask some
questions to my husband, understand ?” esordì con impeto, Gabriella, anticipando ai suoi
ascoltatori che non avrebbe parlato in Inglese.
La folla, invece di scemare, crebbe di numero, nonostante fossero in pochi quelli in grado di
capire un idioma come l’Italiano.
“ E’ vecchia come il cucco la distinzione tra uomo e animale“ proseguì come un razzo, la donna
“ Eppure molti di voi non sanno o non hanno le idee chiare a proposito. Voglio fare una
domanda a mio marito. Tu, amore, mi potresti spiegare che cos’è un uomo e che cos’è un
animale ?”.
“ Su due piedi, non saprei…” tentennò Alberto.
“ Se non lo sai, rischi di comportarti come un animale senza accorgertene” fu sferzante e
profondamente realista, Gabriella.
Suo marito si affrettò a rettificare ciò che aveva detto precedentemente.
“ A ripensarci qualcosa di differente c’è”.
“Bene”
“ L’uomo è provvisto di intelligenza”
“ Si, è quello che tutti dicono, ma che dovrebbe essere dimostrato con prove certe, visto il gran
numero di stupidi che ci sono a questo mondo. E poi ?” si mosse con disinvoltura, Gabriella.
“ E poi non so che dirti” rimase quasi senza parola un inebetito, Alberto.
Sua moglie scosse la testa in segno di disappunto e pronunciò parole di biasimo nei suoi
confronti.
“ Vergogna mia caro maritino ! C’è un punto sul quale tu dovresti essere molto preparato e
invece mostri molte lacune” .
“ Quale ?”
“ Il sesso”
“ E che ci combinerebbe in tutto questo ?” sgranò gli occhi Alberto.
“ Ma come, me lo chiedi anche….”
“ Si”
“ La posizione dell’amore”
“ E allora ?”
“ Gli animali si accoppiano da dietro, mentre gli uomini preferiscono guardarsi in viso” spiegò
Gabriella.
“ C’è più umanità in tutto questo, vero ?” arguì Alberto.
Stentava, però, a credere che sua moglie si fosse imbarcata in un ragionamento così sottile, per
un mero interesse culturale, e non per fini più reconditi e meno nobili.
“ Ma c’è di più, Alberto. Un uomo si distingue da un animale soprattutto perché ha…”
“ Ha…Cosa ha ?”
“ Me lo devi dire te”
“ Ci penso ma non mi viene in mente niente” ribattè suo marito.
“ La cos…..”
“ La costanza”
“ No”
“ La cospirazione”
“ Ma no !”
“Mi arrendo”
“ Così presto ?”
“ Non ho idee”
“ Io invece si”
“ Quindi ?”
“ La coscienza traccia un solco tra uomini ed animali” affermò saggiamente, Gabriella.
“ Già, la coscienza… Tutti noi che siamo uomini l’abbiamo” prese atto, Alberto.
“ Solo che tu ce l’hai sporca” aggiunse, in modo corrosivo, Gabriella.
“ Che vuoi dire ?” s’adombrò Alberto.
“ Semplicemente che tu hai la coscienza sporca” ripetè la moglie. Si rivolse poi al folto pubblico
e disse in modo roboante: “ Mio marito ha la coscienza sporca. Lui sa perché, ed anche io”.
“ Basta, basta con le scenate. Ho capito che tu sai” alzò bandiera bianca, Alberto “Ma dovevi
aspettare di venire proprio in Inghilterra, e ad Hyde Park per giunta, per rinfacciarmi i miei errori
?”
“ Ogni momento era buono per dirtelo. Ho solo aspettato il luogo ed il momento più opportuno”
asserì con un tocco di sana perfidia, Gabriella, che si era affrancata dal ritratto sgualcito della
moglie remissiva.
“ Che diavolo stai dicendo ? Hyde Park è tutto fuorchè il luogo più opportuno. Ti mancava di
fare un inserzione su un giornale e tutta l’Inghilterra l’avrebbe saputo. Vergogna !” passò dalla
difesa all’attacco, Alberto.
“ Forse sarebbe stata una buona idea. L’importante è che tu abbia recepito il messaggio. E poi
non sempre gli uomini sono migliori degli animali. Prendi per esempio il cane. E’ più fedele
dell’uomo” replicò a tono Gabriella, prima che un matrimonio che sembrava compromesso
ritornasse a splendere di luce propria.
I contrappassi
Il prof. Galdieri era profondamente scosso dal nuovo caso di bullismo che era scoppiato nella
scuola in cui insegnava. Temeva che questo clima di violenza avrebbe contagiato anche gli
allievi della sua classe. Provò così ad insistere sul potere educativo della scuola.
“ Stamani, ragazzi, parleremo, dei contrappassi. Si tratta di una forma di punizione che Dante
Alighieri utilizza nella Divina Commedia. Chi si macchia di un certo reato è condannato ad una
pena opposta. In certi casi, però, la pena è simile “ annunciò il professore.
“Ci faccia qualche esempio” richiese un’occhialuta ragazza al primo banco.
“ Gli ignavi, per esempio, sono condannati a correre dietro ad un’insegna in continuo
movimento. Se dunque nella loro vita non si sono mai impegnati in niente adesso, all’Inferno,
sono obbligati a darsi da fare” spiegò il professore.
“ Qual è il motivo per cui Dante usa i contrappassi ?” domandò un’altra ragazza con i capelli
ricci.
“ Dante vuole colpire alla radice quella che è l’origine di un certo peccato, facendo riflettere il
reo sul significato di un certo atto illecito. In questo modo l’espiazione del peccato è molto più
efficace” rispose il professore.
Lorenzo, uno scolaro vispo e disincantato, scosse la testa, mostrando tutto il suo disappunto. Ciò
non potè non risaltare alla vista del prof. Galdieri, il quale gli chiese: “ Che cos’è che non ti va
?”.
“ Queste cose usavano nel Medioevo. Adesso non hanno più senso, sono inutili. Non servono
nella vita, perché non capitano mai” replicò Lorenzo, con tracotanza.
Il prof. Galdieri non trovò le parole adeguate per opporsi e cambiò subito l’argomento delle
proprie lezioni. La sera stessa, però, il ragazzo che lo aveva messo in difficoltà tentò di dare
fuoco ad un “senza tetto”. Fu colto sul fatto ed arrestato. Il giudice lo condannò alla pena dei
servizi sociali, da svolgere in un centro di assistenza per clochard. Fu così oggetto di uno di quei
contrappassi di cui aveva contestato l’importanza e disconosciuto l’esistenza.
La prostituta e il trans
Una prostituta si mise ad insultare un trans che batteva il suo stesso marciapiede.
“Sei una puttana, una zoccola, una troia !” inveì nei suoi confronti, con accuse che suonarono
subito grottesche.
Il trans le inghiottì senza fare una piega, anzi quella sera rimediò un numero molto più alto di
clienti, rispetto alla sua collega.
Quel quadretto per niente idilliaco si ripetè la sera successiva, con la prostituta che ancora una
volta non riusciva a digerire il successo del trans.
“ Sei una maiala, una poco di buono ! “ le vomitò ancora addosso parole incresciose e fortemente
offensive.
Il trans abbandonò per un attimo la sua flemma inglese e si avvicinò a lei, con l’intento di
mettere in chiaro le cose.
“ Tu fai come quel cervo che dà del cornuto allo stambecco. Se io sono una troia, te cosa sei ?”.
La prostituta replicò stizzita: “ Non in quel senso te lo dicevo. Critico il tuo modo di fare con gli
uomini. Te li prendi tutti e lasci le briciole a chi come me fa questo mestiere ormai da vent’anni
e ci deve mantenere la famiglia”.
Il trans incassò l’odio profondo della prostituta, ma seppe introdurre nuovi e più convincenti
argomenti per opporvisi.
“ Tu la vedi quella donna che passa ogni sera alle 23 ?”
“Si, perché ? “
“ E’ elegante, distinta e sexy. Eppure tu non ti accapigli mai con lei”
“E perché dovrei ?”
“ Anche lei fa la prostituta, anche se di alto bordo. Un tempo tipi come lei le chiamavano
“squillo”, adesso hanno coniato il termine “ escort”. In questo modo risultano rispettabili, più di
quanto siamo noi. E guadagnano molto di più…..” rivelò il trans, con una punta di amarezza.
La prostituta capì allora che nella vita tutto era relativo e da quel momento non denigrò più il
trans.
Non c’è posto per il mostro
Arturo Rinaldo poteva essere un uomo di mezza età come tanti altri. Su di lui però incombeva
l’infamante accusa di aver molestato e stuprato la nipote di quattro anni. Appena era uscita la
notizia e il “mostro” sbattuto in prima pagina, un velo di discredito si era riversato sopra la sua
figura. Non erano pochi quelli che lo accusavano sulla base dei suoi lineamenti fisici, giudicando
troppo folte le sue ciglia ed eccessivamente asimmetrico il volto. Arturo si fece due anni di
carcerazione preventiva, così come prevedeva la legge italiana, ma poi in giudizio fu assolto da
tutti i reati che gli erano stati ascritti. Per lui quella che poteva sembrare una liberazione si rivelò
un autentico incubo. I giornali che tanto si erano affannati nel linciarlo, registrarono la sua piena
assoluzione in millimetrici trafiletti destinati a passare inosservati anche ai più attenti lettori. Il
verdetto formulato dalla società civile nei suoi confronti rimase dunque quello di colpevolezza.
Perfino i ben informati cercarono di evitarlo credendo che nelle accuse mosse a suo tempo contro
di lui, ci dovesse essere sicuramente qualcosa di vero. La conclusione di questa dolorosa vicenda
coincise con l’emarginazione sociale di Arturo: dovunque andava gli veniva chiusa la porta in
faccia. La sua esasperazione raggiunse il livello massimo, quando anche il prete gli negò l’ostia,
sul presupposto che fosse divorziato e non separato come effettivamente era.
Abbandonato dalla famiglia e dagli amici più cari, anche per il suo carattere non conciliante,
decise di farla finita. Si procurò una pistola e si diresse al parco pubblico. Prima di compiere
l’insano gesto si sedette sulla panchina a prendere fiato. Mentre cercava il coraggio per uccidersi
vide un uomo sedersi accanto a lui. Aveva il volto corrugato e lo sguardo triste, ma il suo umore
era sorprendentemente allegro. Attaccò discorso con facilità estrema.
“ La vedo abbattuto. Su con la vita ! Che problemi può avere uno come lei, che io non abbia già
avuto, moltiplicati per mille ?”.
Arturo rimase interdetto e sbigottito di fronte a quell’uomo, che in modo così impertinente aveva
violato la sua riservatezza. Preferì però lasciarlo parlare, piuttosto che replicare. L’uomo gli
raccontò l’epilogo amaro della sua vita, costellata di eventi drammatici e dolorosi. Tutto era
iniziato con un avviso di garanzia inviatogli dal tribunale di Torino che lo accusava di
corruzione. Si era fatto vari anni di carcere e poi aveva ricevuto un’agognata assoluzione in
secondo grado di giudizio. Nonostante questo non aveva smarrito il suo spirito ironico e a tratti
dissacrante.
“La medicina migliore in questi casi è la pazienza. Non devi mai perdere la speranza e,
soprattutto, ridi di te stesso e degli altri” raccomandò l’uomo ad Arturo.
“Che devo fare ?”
“Ridi come un pazzo, come un pazzo !”
Arturo allora si alzò di scatto e cominciò a ridere come un ossesso. Prese la pistola e la gettò
lontano. La follia l’aveva reso felice.
L’estrema unzione
Il vecchio don Moreni predicò dal pulpito, spiegando a chiare lettere il vangelo della domenica. “
State vigili, perché nessuno di voi sa quando il Signore vi chiamerà !” ripetè più volte con tono
allucinato.
L’eco delle sue parole rimbombò nella chiesa e giunse alle orecchie dei fedeli come un duro
monito.
Dopo la messa il prete si svestì in tutta furia, ma fu intercettato immediatamente da un uomo
sulla cinquantina, il quale gli disse: “ Parroco, abbiamo bisogno di lei”.
“ Ma veramente io dovevo….” Blaterò qualche parola don Moreni.
“ C’è bisogno del suo aiuto. Andrea Errico è in fin di vita e necessita dell’estrema unzione”
rivelò l’uomo, trafelato.
Don Moreni si aggiustò i pochi capelli bianchi che gli erano rimasti e, raccolto il messale oltre ad
altri oggetti importanti per il suo ufficio, si diresse verso la casa del moribondo.
“Ma come è successo ? “ domandò al suo vivace interlocutore.
“ Improvvisamente. Nessuno se lo aspettava, soprattutto per la giovane età di Andrea” rispose il
signor Silvio.
“ E’ proprio paradossale ! “ commentò don Moreni “ Proprio qualche minuto fa ho celebrato una
messa in cui ho sottolineato come nessun uomo deve sentirsi sicuro, dal momento che Dio può
chiamarlo in qualsiasi momento”.
“ Questo momento è venuto per il povero Errico….” Affermò sconsolato, Silvio.
L’automobile dei due viaggiatori si incanalò in una stradina per poi giungere all’isolata casa del
moribondo.
“ Per fortuna siete venuti. Temevano che non ce l’avreste fatta” li accolse la figlia di Andrea
Errico.
L’uomo era steso sul letto in stato apparente di incoscienza. Don Moreni fissò insistentemente
colui che vegliava al capezzale del moribondo.
“ Non si preoccupi, non è ancora morto” dichiarò solennemente quell’uomo, decisamente
provato dalla sofferenza.
Don Moreni realizzò che quello sarebbe stato il momento propizio per compiere la sua opera.
Iniziò a recitare delle preghiere e poi, immergendo l’aspersorio nell’acqua, si apprestò ad
impartire l’estrema unzione. Una fitta gli lacerò però il cuore e cadde stremato a terra. Non
riprese mai più conoscenza, sotto lo sguardo esterrefatto degli astanti. Il morto era lui e il
moribondo, invece, continuò a vivere ancora per un po’ di tempo.

Uffa questi ufo !


Le metropoli italiane si svegliarono con una triste sorpresa: i telefoni cellulari non funzionavano
più. Da ogni parte si creò una vera e propria crisi di panico, soprattutto quando si capì che tale
interruzione era destinata a prolungarsi a tempo indefinito. Qualcuno provò a raggiungere i paesi
vicini, per vedere se qualcosa sarebbe cambiata, ma la situazione era la medesima. Il Governo
italiano, chiamato a pronunciarsi, non seppe dare una risposta precisa, raccomandando però alle
persone di rimanere calme perché al problema si sarebbe ovviato nel più breve tempo possibile.
Queste rosee previsioni non si avverarono e la popolazione italiana che usava i cellulari, ovvero
la maggioranza, perse coscienza della propria identità e iniziò a brancolare nel buio. Il disagio
divenne insostenibile quando anche le trasmissioni televisive e quelle via web si oscurarono.
Questo stordimento complessivo non poteva non preludere ad un evento di estrema gravità per il
genere umano: lo sbarco degli Ufo. Il cielo si coprì di oggetti volanti non identificati, che
atterrarono sulle città, sui paesi e sulle campagne, mettendo in luce degli omini verdi con intenti
bellicosi. Il loro scopo era quello di impadronirsi dei centri di potere sparsi nella Penisola.
Appena questo disegno fu realizzato si potè affermare con certezza che L’Italia era passata sotto
il loro dominio. Per l’ennesima volta un popolo invasore aveva conquistato questa nazione, nota
in gergo come “Il Belpaese”. Un senso di fatalismo cominciò ad albergare tra gli Italiani che non
mimarono nessuna resistenza, anche perché ostaggio del vecchio detto: “Con la Francia o con la
Spagna, basta che se magna”. L’unico che osò eccepire qualcosa fu un noto cantante che scrisse
un ritornello di successo come “Con gli Ufo mi stufo”. Del resto, se si guarda fino in fondo, che
interesse potevano avere gli Italiani a sollevarsi contro la nuova dominazione aliena ?
Mangiavano come prima, pensavano (poco) come prima e l’amore lo facevano sempre alla
missionaria con qualche puntatina più fantasiosa. Nessuno poi notò grandi differenze tra i vecchi
politici italiani, e quelli nuovi: mangia pane ad ufo erano, mangiapane ad ufo sono rimasti.
Nuovi “gattopardi” si erano impossessati dell’Italia. Il loro motto era sempre lo stesso:
“Cambiare tutto per non cambiare niente”. Avevano il viso di color verde, ma i medesimi difetti
degli italiani.
L’Accademia della ruspa
Migliaia di lettere di protesta giunsero ai principali quotidiani italiani, denunciando l’improvvida
scelta del governo di abrogare l’Accademia della Crusca, tempio della lingua italiana.
Intellettuali, professori e finanche casalinghe si dolsero di quella incresciosa dipartita,
dimenticando che gli Italiani la lingua l’avevano imparata attraverso la televisione. Questa onda
emotiva venne cavalcata da alcuni imprenditori del ramo costruzioni che decisero di far risorgere
una nuova Accademia sulle ceneri della precedente. Imposero soltanto una modifica nel nome, in
tono con la professione che esercitavano. L’Accademia della Crusca si sarebbe trasformata in
quella della Ruspa.
Tra i collaboratori di questa nuova istituzione vi era anche Tommaso, impiegato a tempo pieno in
una libreria del centro storico di Firenze. Convocato dai finanziatori dell’Accademia fu subito
messo al corrente della nuova politica aziendale.
“ Oggi il mondo non è più quello di una volta. Gli umanisti sono una categoria sorpassata.
Quello che conta nelle cose è il suo aspetto commerciale, ovvero, parlandoci chiaro, il tornaconto
economico” esordì Mario Tasca, imprenditore edile.
Tommaso impallidì, sentendosi per la prima volta come un pesce fuor d’acqua.
“ Non devi preoccuparti. Faremo di te uno dei nostri più importanti collaboratori. Basta che tu ci
dia retta” tentò di rassicurarlo l’uomo, con sorriso affabulatore.
“ Che cosa dovrei fare, allora ?” domandò attonito il ragazzo, fresco di laurea e quindi inesperto
del mondo del lavoro.
“ Devi capire innanzitutto che la tutela della lingua italiana va fatta in modo intelligente, dal
momento che ormai gli italiani hanno espulso dal loro vocabolario tante parole che nel passato
avevano un uso più massiccio. Il linguaggio di oggi è molto semplice, non trovi ? “ pontificò
Mario Tasca.
“Non capisco, ma….”
“Ti adegui ?”
“ Non so…”
L’uomo con pazienza spiegò meglio il suo punto di vista.
“ Nel XXI sec. nessuno si sognerebbe più di usare certe parole. Del resto i giovani hanno coniato
un loro linguaggio, fatto di abbreviazioni, storpiature e quant’altro. Tuteliamo dunque l’Italiano
vivo e non quello morto”.
Tommaso rimase interdetto, ma provò ugualmente ad inventarsi qualcosa. Approfondì lo studio
delle parole latine che ancora sopravvivevano nella lingua italiana e presentò a Mario Testa un
progetto di pubblicazione in merito.
“ Ma ti sei ammattito ?” gli si avventò contro l’uomo, adirato “ Questo non è ciò che intendevo
con i miei ragionamenti. Il latino è una lingua morta e anche se qualche parola sopravvive nella
lingua italiana, è solo per lo zelo di qualche prete rincoglionito, o per la leziosità di vanagloriosi
giuristi. Noi dobbiamo pubblicare qualcosa che interessi veramente alle persone. E perché abbia
successo deve parlare il loro stesso linguaggio, ovvero quello dell’Italiano medio”.
“ E quale sarebbe ?” domandò, disorientato, Tommaso
“ Quello parlato dalla gente che lavora, che fa fatica ad arrivare alla fine del mese, che ha
famiglia e la deve mantenere. Quello dell’Italiano che è insediato stabilmente nella società e non
vive in una torre d’avorio. Noi dobbiamo tutelare la lingua parlata dalla maggioranza degli
Italiani” rispose con determinazione Mario Tasca.
Tommaso ci riflettè tutta la notte e poi la mattina prese la saggia decisione di pubblicare un libro
che godesse della massima popolarità possibile. Ebbe un grandissimo successo di lettori, visto
che trattava del ruolo delle parolacce nella lingua italiana.
Il perfetto lumbard
“ Con questo abbiamo finito ?” domandò Alberto Brambilla agli altri membri della
commissione.
“ No, ce n’ è un altro “ dichiarò a chiare lettere l’unica donna presente.
“Speriamo sia meglio degli altri….” sospirò Alberto Brambilla.
Il commissario che gli stava accanto annuì.
“ In effetti dei dieci giovani lombardi che abbiamo esaminato non ce n’è stato uno che ci abbia
convinto. Sia ben chiaro, erano tutti volti interessanti, di bella presenza, ma nessuno che
“bucasse” veramente lo schermo”.
“ O che avesse un minimo di cultura. Forse che in Lombardia negli ultimi vent’anni abbiamo
allevato soltanto capre ignoranti ? Questi ragazzi sono sconcertanti” aggiunse Alberto Brambilla.
“ Abbiamo comunque la possibilità di ricrederci. Manca infatti un candidato” fu ottimista Amelia
Canziani.
Il presidente della commissione si mise a leggere il profilo dell’ultimo ragazzo.
“Bene, bene “ osservò con piacere “ Il nuovo candidato si chiama Andrea Colombo, è tifoso
dell’Inter e come libro preferito ha scelto “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Gadda.
Perfetto ! Mi sembra che possa fare al caso nostro”.
“ Sentiamolo prima di decidere, però…” ebbe da eccepire Amelia Canziani, che riteneva
prematura una decisione a favore del nuovo candidato, senza averlo ancora ascoltato.
L’ultimo ragazzo entrò nella sala brulicante di commissari in trepida attesa. L’avevano già eletto
vincitore prima di averlo visto e per questo il suo ingresso venne percepito traumaticamente. Il
colore della sua pelle era talmente scuro da farlo sembrare un africano. Egli era un africano, in
carne ed ossa, anche se di nazionalità italiana e d’accento lombardo. Questa apparente
contraddizione disorientò i commissari, i quali si guardarono tra di loro in modo stralunato.
Soltanto Alberto Brambilla rimase ligio alla sua etichetta distaccata e inappuntabile, cambiando
però immediatamente la sua propensione favorevole verso il giovanotto. Cominciò ad
interrogarlo in modo accanito e arcigno, al fine di scoprirne i punti deboli e farlo fuori dalla
competizione.
“Lei dice di chiamarsi Andrea Colombo…” iniziò sospettoso il capo dei commissari.
“ Io mi chiamo Andrea Colombo !” esclamò il ragazzo.
“Nome d’arte ?”
“ No, di battesimo”
“ Non si direbbe”
“ E perché ? Colombo è un nome lombardo che più lombardo non si può”
“Brambilla lo è forse di più” lo corresse il capo dei commissari.
Il botta e risposta tra i due continuò con toni molto accesi.
“ Lei è originario di….”
“ Bergamo”
“ E prima ?”
“Prima ?!”
“ Si, prima di venire a Bergamo….”
“ Ah, ho capito ! Lei vuol sapere da dove provengono i miei genitori. Uno è di Milano, l’altro è
di Milano” stette al gioco il ragazzo.
“ Molto spiritoso. Io intendevo sapere da dove veniva lei !”
“ E chi se lo ricorda ! Ero troppo piccolo quando mi hanno adottato…Dall’Africa, come vede”
rivelò argutamente Andrea.
A quel punto intervenne un membro della commissione il quale disse: “ Bando ai convenevoli.
Passiamo alle domande. Innanzitutto vorremmo sapere che cosa l’ha spinta a presentarsi a questo
concorso che seleziona il prossimo conduttore del telegiornale di TV lumbard”.
“ Il mio essere più lombardo di tanti lombardi doc” rispose senza tentennamenti Andrea, che
suscitò l’incredulità dei commissari.
“ Mettetemi alla prova, allora” li sfidò il ragazzo.
Le domande cominciarono a fioccare copiosamente su di lui, minacciando di sommergerlo sotto
un peso insostenibile. Egli, però, usò lo straordinario stratagemma di rispondere ogni volta in
dialetto e questo disarmò gli attacchi proditori dei commissari, che alla fine lo congedarono per
non essere costretti a lodarne il valore e la prestazione.
“Che si fa adesso ?” domandò il dott. Bosa
“ Non abbiamo altra scelta: dobbiamo bocciarlo” sentenziò Alberto Brambilla.
“ Bocciarlo ? Ma se è stato nettamente il migliore !” si indignò Amalia.
“ Migliore, da che punto di vista ?” gli chiese, in tono di sfida, il capo dei commissari.
“ Da tutti i punti di vista, naturalmente” obiettò Amalia.
“ Non per ciò che riguarda l’aspetto fisico”
“Ma se gli altri erano dei molluschi !”
“ Non mi sto riferendo alla bellezza. Quel tipo non sarebbe mai credibile nella veste di
conduttore di una televisione a forte impronta lombarda” spiegò il suo punto di vista Alberto
Brambilla.
“ Il nostro presidente ha ragione” gli fece eco Antonio Ravizza, uno dei commissari “ Questo
ragazzo è bravissimo, ma, per così dire, inadeguato al ruolo che dovrebbe ricoprire. Il nostro
pubblico non capirebbe….”
“ E allora meglio un incapace che uno come lui…” semplificò con amarezza, Amalia.
“Purtroppo si” riconobbe con onestà Alberto Brambilla.
Una telefonata improvvisa impedì qualsiasi altra replica.
“ Ah è lei onorevole ! “ rispose con ossequio il capo dei commissari “ Chi è che conosce ? Ma
davvero ?! Ho capito e so come comportarmi”.
“ Chi era ?” gli domandò Antonio Ravizza.
“ L’onorevole “ guardò in alto Alberto Brambilla.
“ Che ti ha detto ?” insistè Antonio Ravizza.
“ Ha illuminato la nostra scelta su chi sarà il nuovo conduttore di TV lumbard” dichiarò con un
guizzo di retorica il capo dei commissari.
“ E chi sarà ?” lo guardò, interdetta, Amalia.
“ Andrea Colombo” rivelò con un colpo di teatro Alberto Brambilla.
Quello che non potè il merito, scaturì da una raccomandazione.
Morti di realismo
Il prof. Cotti sedette su una comoda poltrona e attese in platea che gli venisse consegnato il
premio nobel per la Medicina. Quel traguardo prestigioso, giunto in modo davvero insperato, lo
aveva collocato automaticamente tra i professionisti più insigni e valenti d’Italia. Il professore,
dopo lunghi anni di gavetta e lavoro ordinario, aveva finalmente coronato il suo sogno di fama,
soldi e successo. Appena ricevuto il premio fu complimentato da un alto dirigente di una
multinazionale farmaceutica il quale gli disse: “ E’ con vivo piacere che mi congratulo con lei !
Le sue ricerche sull’immunodeficienza da realismo cronico sono state finalmente premiate. E le
comunico che la nostra casa farmaceutica ha varato una medicina che potrà rallentare questa
malattia”.
“Rallentare ?” domandò interdetto, il prof. Cotti.
“ Si, per il momento non siamo riusciti ancora ad identificare un farmaco che possa debellare
questa malattia” spiegò il dirigente in doppio petto.
Altri incontri seguirono con incessante rapidità. Giornalisti italiani si assieparono intorno a lui e
cominciarono a subissarlo di domande.
“ Come ci sente ad essere Premio nobel per la Medicina ?” esordì un cronista biondo del Corriere
della Sera.
“ Sto ancora sognando” rispose, disorientato, il prof. Cotti.
“ A proposito di sogni, potrebbe parlarci per sommi capi della sua teoria sul realismo e della
malattia conseguente,che travolgerebbe migliaia e forse milioni di Italiani ?” domandò un
cronista di “Repubblica”.
“ Su due piedi è impossibile” scosse la testa il professore, inducendo il cronista a replicare: “Ci
faccia degli esempi allora”.
“ La sindrome da realismo cronico è stata da me scoperta per caso. Sono entrato in casa di amici,
mentre questi stavano vedendo un reality show. Ad un certo punto il padrone di casa è morto….”
“Infarto ?” vociò qualcuno, mentre qualche altro si impegnava in sorrisi maliziosi che
insinuavano il sospetto nemmeno tanto velato che il professore fosse in realtà un menagramo.
“ All’inizio mi sembrava anche a me “crepacuore”, ma poi ho registrato casi simili che non
potevano essere in alcun modo ricondotti a questa patologia. Le persone morivano in modo
apparentemente inspiegabile, mentre guardavano un reality show alla televisione. Studi e
ricerche mi hanno fatto arrivare alla conclusione che soltanto una malattia specifica, che io ho
ribattezzato “da realismo cronico”, era alla base di queste improvvise scomparse” spiegò in
modo dettagliato il professore.
“ Realismo cronico…..Sembra un film !” esclamò un giornalista de “L’Espresso”.
Il professore non si scompose e rincarò: “ Ho fatto ulteriori ricerche, coinvolgendo anche
sociologi, antropologi e altri intellettuali. Abbiamo realizzato che nel nostro Paese si è perduto il
senso della scoperta, del sogno, delle emozioni, delle illusioni. Si vuol soltanto guardare alla
realtà in modo nudo e crudo, senza volerci più stupire. Boccaccio e il neorealismo erano molto
più poetici. Qui ormai abbiamo toccato il fondo e la gente si ammala”.
“ Ma così facendo lei non fa altro che ingrossare arbitrariamente la categoria dei malati, ad
esclusivo vantaggio delle case farmaceutiche” tuonò un giornalista dell’estrema sinistra.
La claque del professore reagì in modo poco elegante e strattonò quell’uomo che per ultimo
aveva parlato. Ne nacque una colluttazione che fu sedata a fatica.
“Un po’ di sano realismo non vi farebbe male” furono le uniche parole che seppe pronunciare il
prof. Cotti, mentre tutti gli altri giornalisti che gli stavano intorno denunciavano l’ennesima sua
presa in giro.

Conclusioni dall’Italia del futuro


Il nonno buttò giù lo sciacquone per l’ultima volta e disse al nipote:
“ Ti sono piaciute queste storie ?”
Il nipote non ebbe esitazione a rispondere: “ Si, molto. Ammetto che hai tanta immaginazione e
l’hai usata parecchio”.
Il nonno insorse: “ Non è immaginazione. E’ la verità. Queste storie sono capitate veramente”.
Il nipote scosse la testa e ribattè: “ Mi stai prendendo in giro. Nell’Italia che io conosco certe
storie che mi hai raccontato non sarebbero mai avvenute”
Il nonno uscì allora dal bagno, aprì un armadio, tirò fuori un fascicolo ed esibì al nipote alcuni
trafiletti di giornale da lui ritagliati e conservati nel tempo.
“ Questi ti bastano ?”
Il nipote lesse e capì.
L’imbarazzo lo aveva assalito, così che il nonno cercò di rincuorarlo.
“ Non è colpa tua se non conosci la storia passata. A scuola ormai non vi insegnano più niente e
state tutto il giorno davanti a computer e diavolerie varie. Non sapete allora che l’Italia è
diventata così come la vediamo ora, grazie al duro lavoro della gente e al sacrificio dei servitori
dello Stato”.
“ Chi sono i servitori dello Stato ?” domandò il nipote.
“ Gente che ha sacrificato la vita per assicurare il benessere ai cittadini. Senza di loro non
potremmo parlare liberamente” spiegò il nonno.
Il nipote comprese in pieno la lezione e anni dopo si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza,
diventando magistrato.

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