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EDEN ANTO

Un amico mio, profondo in zoologia, e convinto da lungo tempo che se il più vecchio
degl'ippopotami viventi camminasse ritto sulle zampe posteriori, somiglierebbe tutto,
almeno da tergo, al dottore Marcòn, assessore in una cittadina del Polesine, non
importa quale, e gonfiato da piccolo notaio a gran riccone, non importa come; tanto
che sarebbe pura giustizia chiamarlo ippopotamo d'oro, costui, e non vitello. Due
immani piedi che invadono, l'uno il levante l'altro il ponente; due divergenti gambe
colossali; un zimarrone mostruoso; [160]nessuna traccia di collo, ma due vaste spalle
curve e un testone tanto affogato in esse che la tesa del cappello posa sulla schiena; un
enorme braccio proteso in fuori sopra una massa troppo corta; ecco il dottore
Marcòn a posteriori.
Egli sguazzava l'altro giorno per le pozzanghere della piazza dove abita, con la ilarità
pesante, nell'andatura, di un ippopotamo che fiuta l'acqua.
— Avvocato! — gli gridò un pretino arrancandogli dietro affannosamente. —
Avvocato! La permetta!
Marcòn sguazzava sempre via per le pozzanghere senza voltarsi. Il prete lo inseguì
ripetendo: Avvocato! Avvocato! Avvocato Vasco! — fino a che lo raggiunse, gli si
appigliò allo zimarrone. Soltanto allora il notaio si voltò, senza fermarsi.
— Scusi, sa — diss'egli sorridendo e [161]toccandosi il cappello. — Non sono mica
l'avvocato. Servitor suo.
L'altro rimase lì di stucco, contemplando la schiena mostruosa allontanarsi
placidamente.
Veduto così, Marcòn pareva tutto Vasco. Solo, Vasco era forse un hippopotamus
minor che si distingueva pure dall'altro per le gambe ercoline, per il testone inchinato
un poco a sinistra con una linea di melanconica mansuetudine.
Lo strano è che il dottore Marcòn sfangava appunto verso l'abitazione dell'avvocato
Vasco. Chi sa che inquietudine nella mole mansueta, nel roseo faccione liscio
dell'hippopotamus minor se avesse presentito il venire dell'hippopotamus maior! Ma
egli, probo, mite e timido uomo, di origine e abitudini signorili, scivolato lentamente,
a settant'otto anni, senza macchia e senza lagno, in una povertà [162]tuttavia nascosta
ma paurosa, non pareva pensare in quel momento al suo creditore Marcòn, nè ad
alcuna miseria di questo mondo. Stava nel suo studio, ora scrivendo sopra un gran
foglio di carta turchina, ora meditando sul frontispizio di un volume in quarto,
ingiallito dai secoli. Sviscerato bibliofilo, possedeva una certa cultura classica, larga
ed imperfetta, bizzarramente colorita di quel suo ingegno fantasioso che si
compiaceva dei pregiudizi più insoliti, dei riavvicinamenti più inattesi, delle induzioni
più poetiche, più abborrite dalla grammatica. L'età grave gli aveva tolto ormai di
attendere alla sua professione; dalla famiglia non aveva che tribolazioni; dei vecchi
amici solo qualche libro gli restava vivo e fedele.
Quel giorno la sua serva era uscita senza chiudere la porta e il dottore
Marcòn [163]infilò senz'altro la scala buia, venne su soffiando, aggrappandosi alla
ringhiera, sostando ad ogni tre scalini.
— Senti il bestione — disse forte dall'alto la voce aspra della signora Vasco.
— Sarà andato al caffè, già, signor bestia — diss'ella sporgendo dalla ringhiera
l'allampanata figura, il secco viso bilioso. — Quanto ci vuole a tirar su quella pancia?
Oh Dio, dottore, scusi per carità, credevo che fosse mio marito.
— Niente, signora Carlotta — rispose Marcòn, pacifico. — È fuori di casa quell'altra
pancia? —
La signora Carlotta corse a vedere, ritornò subito dicendo che Vasco era nel suo
studio, e vi accompagnò il notaio.
— Zanetto — diss'ella spalancando l'uscio — guarda il dottore... Eh, vado vado —
soggiunse, perchè il dottore si [164]era voltato a lei con una faccia molto eloquente.
Intanto Zanetto, recatasi una mano alla papalina, si veniva levando su su dal
seggiolone, guardava con due occhietti bambinescamente timidi e dolenti l'enorme
visitatore piantato sulla porta a braccia e gambe aperte, con il cappello nella destra e la
mazza nella sinistra.
— I miei complimenti, dottore — diss'egli, umile. — Si accomodi. —
L'altro disse solo:
— Patròn. —
E venne avanti cercando con gli occhi una sedia. L'avvocato finì di alzarsi; trottò a
corti passi frettolosi, crollando il ventre, le spalle e la nappa della papalina, a prendere
ed accostare due sedie.
Vi calarono piano piano a sedere, guardandosi, il Marcòn molto duro, l'altro molto
trepidante.
[165]

— La permette? — fece il dottore coprendosi.


— Per amor del cielo! — rispose premuroso il signor Zanetto; e, incoraggiato da
quell'ombra di cortesia, trasse la tabacchiera, offerse una presa al Marcòn, ne assorbì
un'altra egli stesso; dopo di che i due personaggi, affondando il mento nello sparato,
chini gli occhi e aggrottate le ciglia, fecero pulizia a buffetti nella camicia e nell'abito.
Finalmente il dottore Marcòn, spazzati via con quattro dita gli ultimi granelli di
tabacco, rialzò la faccia.
— Dunque? — diss'egli.
Il povero Vasco si lasciò lentamente andare sulla spalliera della seggiola e, allargate le
braccia cadenti, guardando in alto rispose:
— Non posso, proprio non posso.
Marcòn inarcò le sopracciglia, agitò le grosse labbra pendenti.
[166]

— La guardi bene — diss'egli. — La guardi bene, perchè La sa i nostri patti.


— Eh, sissignore. So i patti. Cosa vuole? Faccia. Mi rincresce per la Carlotta che si
cruccerà, povera donna, con la sua tenerezza per me, immaginandosi che abbia a
crucciarmi molto io. Io invece... cosa vuole?
Vasco abbassò la voce, fece un gesto solenne.
— Ghiaccio, signor mio — diss'egli — ghiaccio in punto... Oh bene — soggiunse —
Le dirò che, essendo ghiaccio, cupio dissolvi, questo sì, cupio dissolvi.
Il ventre e le spalle gli sussultarono d'un breve riso amaro.
— Bravo da senno! — proruppe Marcòn. — Dica che non Le importa nè di debiti nè
di creditori, caro Lei! Perchè non si dà le mani attorno? Questo [167]Suo cognato a cui
si doveva rivolgere? Questo figlio che Le doveva mandar denari?
— Sissignore, lo voleva, poveretto, perchè il cuore è grande; ma poi è mio figlio,
quindi disgraziato. Come ufficiale di marina gli tocca andare in Africa, si figuri. Non
parliamo, questa sarà una gloria della mia famiglia. Mio figlio scrive beato. Cosa
vuole? Beato. Scrive una lettera che fa tenerezza, da eroe. Ma intanto gli occorre un
cavallo subito, perchè gli ufficiali di marina potranno essere comandati a terra, e il
ministro li obbliga a fornirsi di cavalli. Non crede? Le farò vedere la lettera.
— Gli mandi dell'asino — urlò Marcòn — che gli andrà benone!
Il povero avvocato, ferito nel suo amor paterno, nella sua buona fede, si storceva tutto,
mettendo dei brontolii sommessi, [168]qualche «o Dio» di meravigliato e timido
risentimento.
— E il cognato? — chiese Marcòn.
— E il cognato... il cognato... — borbottò Vasco che di questo burbero parente aveva
uno spavento orribile. — Per dirle la verità, non gli ho ancora parlato; volevo appunto
andare da lui stamattina.
— Voleva? Ma vada, vada subito. Non abita qui vicino? L'aspetto. —
Vasco, levatasi la papalina con la sinistra, si grattò la nuca con la destra; quindi,
potendo il terrore presente più del futuro, sospirò il suo solito ossequioso «con
permesso», e uscì tentennando, con una faccia lugubre.
La signora Vasco udì giù per le scale i tonfi misurati del suo passo gridò, «serva sua,
cavaliere» e corse allo studio del marito.
[169]

— È andato via, quel cane? — diss'ella aprendo. Vide Marcòn, strillò e fuggì tanto in
furia che costui, quand'ebbe finito di girar verso lei la sua mole, il suo faccione
sorridente, non la vide più.
Rimase lì un poco a considerar l'uscio, e poi si alzò, fece pian piano il giro dello
scrittoio, guardò che cosa diavolo stesse scrivendo quell'imbecille di Vasco.
In capo al gran foglio di carta turchina si leggeva:

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