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L’arte del cemento armato nell’architettura dei grandi strutturisti italiani del secondo

dopoguerra
La peculiarità di Nervi e di Morandi è stata quella di utilizzare il nuovo materiale con capacità
tecniche di prim’ordine, e di essere nel contempo capaci nei loro progetti di sopravanzare col colpo
d’ala della loro arte una tecnica ormai matura.
Entrambi, con maestria forse ineguagliata, hanno sopra-tutto padroneggiato, in base alle loro
inclinazioni, due rami delle costruzioni in cemento armato, Nervi le grandi volte, per le quali mise a
punto il suo ferrocemento, e Morandi il cemento armato pre-compresso, di cui fu uno dei pionieri.
Entrambi hanno operato anche fra le due guerre, Nervi già con capolavori come lo stadio di Firenze
e le aviorimesse di Orbetello, Orvieto e Torre del Lago, e Morandi, più giovane, con opere meno
importanti ma significative, come il cinema Giulio Cesare a Roma. Entrambi sono stati quindi dei
pionieri della tecnica del cemento
armato negli anni dopo la Prima
Guerra Mondiale, nel corso dei quali
essa si evolveva e maturava; lo furono
con le loro inclinazioni, Nervi con
l’ardire guidato da una straordinaria
intuizione statica, e Morandi sorretto
dalla sua solida preparazione tecnica
che, giovanissimo, gli consentì di
progettare e realizzare
nell’autorimessa Piccini a Roma, uno
dei primi esempi di telai iperstatici in
cemento armato.
Nel dopoguerra entrambi mostrano il
loro talento. Dapprima sviluppano gli
apporti tecnici che consentiranno loro
di realizzare le opere concepite: è del
Fig. 1. P.L. Nervi, Volta in ferrocemento della sala principale di Torino- 1943 il brevetto di Nervi del
Esposizioni, Torino, 1948
ferrocemento, ed è del 1948 il primo
brevetto del sistema Morandi di
precompressione. La scelta dei
materiali già precorre i loro
capolavori. Le grandi volte sottili di
Nervi, con ingegnosi sistemi di
prefabbricazione, entrano nella storia
dell’architettura con il Palazzo
Esposizioni di Torino (Fig.3), il
Lanificio Gatti e il Palazzetto dello
Sport di Roma; la precompressione
consentirà a Morandi di sviluppare i
suoi ponti più belli, come,
dimenticandone tanti, la Passerella sul
Lussi a Vagli di Sotto in Garfagnana,
il Ponte Vespucci a Firenze, il
Viadotto Polcevera a Genova, ma
anche i portali con nervature oblique
del bellissimo Salone sotterraneo del
Fig. 2. R. Morandi, Salone sotterraneo dell’auto nel Parco del Valentino, Parco del Valentino a Torino (Fig.4).
Torino, 1959 In questo fervore di progetti e
capolavori in cemento armato che
hanno popolato, armonizzandovisi, il paesaggio italiano degli anni cinquanta e sessanta, emerge
un’altra figura di progettista innovativo, Sergio Musmeci, il cui percorso culturale e progettuale ci
conduce poi a capire il cammino e l’opera di Schlaich. Musmeci, uomo geniale che spazia
dall’astronomia alla filosofia con ugual competenza, che suona il jazz magistralmente e si laurea
non solo in ingegneria civile ma anche in aeronautica, che è un matematico di primissimo ordine
che domina il calcolo vettoriale e l’analisi matematica, inizia sin dalla sua tesi di laurea a occuparsi
di volte sottili, alla ricerca, come Schlaich, della leggerezza. Va a bottega in quegli anni negli studi
di Nervi e Morandi e capisce che il suo talento gli permette di osare.
Nervi e Morandi sono stati
sicuramente audaci,
percorrendo i confini della
tecnica del cemento
armato di quegli anni, ma
Musmeci vuole di più, è
un ingegnere geniale, ma
si sente anche un architetto
e sente di avere un ruolo
nel campo dell’architettura
che è quello di andare al di
là, di rischiare non più ai
confini del cemento
armato ma ai confini delle
possibilità formali e
tecniche del costruire.
Musmeci è fra i
pochissimi che può farlo:
Fig. 3. S. Musmeci, Modello del Ponte sullo Stretto in tensostruttura, conosce l’architettura e gli
Messina, 1969 architetti – è amico di
Bruno Zevi e di Manfredi
Nicoletti, autore di una bella monografia su di lui– e sa dove vuole arrivare col progetto, ma ha
anche i mezzi per realizzare i suoi sogni, una preparazione tecnico-scientifica fuori dal comune e la
perizia costruttiva imparata nello studio dei suoi due grandi maestri, oltre che un genio matematico
senza eguali, che gli consente di essere un pioniere del-l’ottimizzazione strutturale, e di valutare il
comportamento delle sue strutture, spaziando da una parte fra varie tecniche dell’analisi matematica
e dall’altra nell’artigianale manualità dei modelli fisici. In anni in cui lo strumento quotidiano
dell’ingegnere era il regolo e non il computer, Musmeci aveva il suo computer nella capacità di
affrontare ingegnosamente calcoli sofisticati piegandoli allo scopo del progetto.
Sono anni, questi, in cui la ricerca sul tema del rapporto formale fra architettura e struttura è sentito.
Se da una parte Musmeci scrisse un articolo dal titolo “Architettura e struttura” in cui descriveva le
sue ricerche sulla generazione della forma, dall’altra Cesare Brandi in quegli stessi anni mandò alle
stampe per i “Saggi” Einaudi un libro dal titolo “Struttura e Architettura” sugli studi linguistici in
architettura, alla ricerca di una struttura linguistica che, assai spesso, è legata in modo talvolta
manifesto e talvolta meno evidente alla struttura fisica.
Musmeci purtroppo muore giovane, nel 1981, e nei non molti anni della sua attività elabora tanti
splendidi progetti di cui rimangono bellissimi modelli, ne realizza alcuni, ma soprattutto concepisce
il Ponte sullo Stretto di Messina in tensostruttura, di cui rimane uno splendido modello (Fig.5), e
realizza il suo capolavoro, il Ponte sul Basento a Potenza.
Egli, con le sue opere e con i suoi studi sulla generazione della forma ha rappresentato in quegli
anni la ricerca più avanzata della qualità del progetto e dell’opera in cemento armato in Italia, e
forse nel mondo. In Italia i risultati formali e artistici di Musmeci, ma anche di Nervi e Morandi,
non hanno però avuto sviluppi da tale punto più avanzato perché, purtroppo, nessuno di loro ha
lasciato eredi e, per lunghi anni, gli studi su struttura e architettura sono stati trascurati a favore di
altri temi dell’ingegneria strutturale.
Musmeci morì quando iniziarono a diffondersi i PC e divenne sempre più facile ed economico
accedere all’informatica. La sua scomparsa ha cioè coinciso con il passaggio dalla cultura
industriale delle ciminiere alla cultura impalpabile dell’informazione, dei software e dei computers,
agli strumenti di cui sentiva l’urgenza; al passaggio cioè dalla prevalente produzione di beni a
quella via via crescente di servizi, e non solo informatici.

L’influenza delle nuove tecnologie e della diffusione dell’informatica su architettura e


struttura
In effetti è l’intera economia che, con l’inarrestabile diffusione dell’informatica, ha visto molta
parte del prodotto spostarsi progressivamente dal settore industriale a quello dei servizi, e così come
l’ingegneria, anche l’architettura, come del resto le altre arti, non poteva non registrarlo.
Il finire degli anni ’70 e
l’inizio degli anni ’80
hanno segnato dunque un
altro momento sensibile
nel rapporto fra
l’economia e le tecnologie
dell’architettura e
dell’ingegneria, questa
volta non solo di
costruzione e produzione
ma anche di progettazione.
Musmeci è stato l’ultimo e
alto rappresentante della
cultura industriale del
boom economico, della
struttura pensata e
disegnata arti-gianalmente
dal progettista in uno
studio più o meno piccolo,
e realizzata con le cassaforme di legno dal-l’artigianalità sapiente dei capi-cantiere del dopoguerra
Fig. 4. G. Behnisch + Partner, F. Otto, Olympia Stadium, Monaco di portatori di un’arte antica
Baviera, 1972. In primo piano le tensostrutture progettate da Schlaich e del costruire.
Bergermann con lo studio di progettazione Leonhardt und Andrä Ma è stato anche il
progettista visionario, che
ha capito di poter osare, con i suoi modelli e i suoi procedimenti di calcolo ottimo, che erano lì
pronti ad accogliere le nuove metodologie di calcolo automatico. Egli non solo ha capito che da lì a
poco il calcolo elettronico avrebbe rivoluzionato la progettazione, ma ne ha anche sentito la
mancanza, ansioso di entrare in questa nuova era di nuove possibilità con la forza di chi è già ai
vertici della cultura progettuale di un’epoca d’oro del cemento armato, ma è cosciente che gli
mancano gli strumenti che stanno per arrivare ed è già pronto ad usarli con la consapevolezza che
traspare dalla sua bella monografia “La statica e le strutture” sulla ricerca del minimo strutturale.
I suoi progetti abitano già la tridimensionalità, per esempio nella naturale ricerca dell’andamento
delle nervature nelle volte, o nel susseguirsi espressionista dei piani e degli spigoli delle coperture
piegate fatte con Carlo Mollino al Teatro Regio di Torino. E’ una tridimensionalità che lui indaga
con i modelli fisici e con straordinaria immaginazione, quella stessa che lo porterà a concepire nella
tridimensionalità la qualità statica, ma anche estetica, di molte sue opere, e soprattutto del suo
visionario ponte in tensostruttura sullo Stretto di Messina e del ponte sul Basento.
Altri percorreranno il cammino che a Musmeci il destino ha negato su quella strada che, purtroppo,
in Italia è stata ad un certo
punto trascurata per
percorrerne altre.
La diffusione
dell’informatica è il frutto
maturo di una civiltà,
quella occidentale, volta
alla conoscenza che, da
Aristotele in poi, è
scientifica innanzitutto.
Non è casuale che con gli
anni ’70 e i primi anni ’80
sia giunta a maturazione
non solo questa tecnica,
ma la  in senso lato,
pervadendo la cultura, non
solo nostra, e il mondo,
l’occidente innanzitutto,
ma anche l’intero pianeta.
Non è allora solo
l’informatica con la
Fig. 5. R. Piano, R. Rogers, Centre Pompidou, Parigi, 1981. Vista del
rappresentazione digitale e
cantiere con in primo piano le Gerberettes progettate da Peter Rice
il calcolo automatico ad
aver cambiato il progetto e
il suo prodotto. Sono anni in cui potenti moltiplicatori economici come per esempio gli investimenti
nella conquista dello spazio e nella ricerca militare portano alla crescita esponenziale della
conoscenza scientifica e tecnologica con la produzione di nuovi materiali e lo sviluppo degli studi
sul loro comportamento. Come vedremo, già lo Stadio Olimpico di Monaco (Fig.6) è stata una
palestra progettuale per molti, fra cui Schlaich stesso. Tensostrutture ardite, con quantità di cavi mai
fino allora viste, acciai speciali e giunti d’ogni foggia, lavori raffinati che solo acciaierie riuscite a
lasciare il settore del-l’industria pesante per quello delle tecnologie avanzate possono fare.
Superando i limiti di una produzione industriale standardizzata, i progettisti si rivolgono alla PHB-
Pohlig Heckel Bleichert – dal 1988 PHB Stahlguss GmbH – che realizza con l’uso pionieristico di
acciaio in getti miriadi di giunti speciali che incanalano le forze fra i differenti cavi. E poi c’è la
copertura con lastre di acrilico che preconizza l’uso strutturale del vetro e segna l’ingresso delle
plastiche in architettura, lo sviluppo di polimeri e collanti per l’ingegneria civile, nonchè delle
tecnologie avanzate che vi stanno dietro.
Le nuove tecnologie digitali di calcolo e rappresentazione affiancano cioè i nuovi materiali, creando
sinergie per nuove soluzioni progettuali. Conoscendo più esattamente il ruolo che ciascun elemento
strutturale gioca nella trama tridimensionale dell’edificio e le caratteristiche fisico-meccaniche del
materiale, esso può essere progettato con una forma commisurata al suo ruolo strutturale e
architettonico, scegliendo nel contempo con che materiale farlo, spesso diverso da quello
dell’elemento contiguo. Si possono quindi isolare le funzioni specifiche di ciascun elemento
pervenendo con studiata specificità all’assemblaggio di componenti frutto di tecnologie diverse.
L’esito estremo della costruzione è spesso non solo nella complessità dell’edificio, ma anche
nell’architettura del dettaglio. Il Beaoubourg è un’altra costruzione emblematica in questo. Per
meglio aderire allo spirito dell’edificio – anzi si potrebbe dire della fabbrica, e non solo di cultura –
di Piano e Rogers, assecondandone l’immaginazione, Peter Rice si rivolge anche lui alle acciaierie
PHB perché vuole caratterizzare l’immagine di grande meccano dell’edificio con delle travi
reticolari rimaste infatti famose, realizzate in acciaio per getti, che sembra quasi si inseriscano
letteralmente in esili ritti che, invece, trafiggono le gerberette a cui le travi sono in realtà collegate
limitando così l’inflessione dei ritti (Fig.7). L’uso delle gerberette è emblematico di quel fare
architettura; Rice risolve nel dettaglio il grande assemblaggio della fabbrica, e per far questo ricorre
alla tecnologia industriale di cui era un grande conoscitore, usa norme sperimentali per utilizzare gli
acciai per getti negli elementi strutturali giganteschi del Beaoubourg, applicando anche, da pioniere,
gli studi di meccanica della frattura che proprio in quegli anni avevano avuto rinnovato impulso nei
centri di ricerca. Il risultato fu che, mostrando interamente sé stessa, come voluto da Piano e
Rogers, quella straordinaria fabbrica nel centro di Parigi s’imprime anche nella mente del visitatore
per le grandi travi reticolari di Rice ai cui estremi lo sguardo è richiamato dal dettaglio delle
sculture in fusione delle gerberette.
La conseguenza di questo sviluppo tecnologico è quella che venne chiamata High-Tech-
Architecture, ove Piano, Rogers e Foster su tutti, ma anche Grimshaw, Hopkins e altri sembra
innalzino le loro costruzioni in una gigantesca officina, dove membrature giganti s’intersecano
lasciandosi infine assemblare solo perché differenti dettagli di materiali diversi riconoscono alla
fine i pezzi a cui congiungersi.
L’Architettura High-Tech poteva involversi in uno stile internazionale del puro gusto di esibire
luccicanti strutture e giunti griffati come un oggetto di design. Bisogna riconoscere che sono stati
gli stessi Foster, Piano e Rogers a rifiutare questa etichetta, a non volersi chiamare High-Tech ma
architetti e basta, ed infatti per la strada maestra dell’architettura hanno metabolizzato questa
esperienza, regalandoci le loro tante belle architetture del 2000.
Loro stessi hanno anche intuito che, con ingegneri sensibili che ne guidassero la mano – come gli
Ove Arup e i Peter Rice – avrebbero potuto cogliere l’essenza di questa loro esperienza, progettando
vere e proprie architetture strutturali come il Millennium Bridge o, ancor più, sempre Foster, il
viadotto di Millau, conscio però che solo la maestria di Michel Virlogeux, “ingénieur en chef des
ponts et chaussées”, avrebbe interpretato e concepito al meglio la sua intuizione e, alla fine,
l’avrebbe realizzata.
Il ruolo di questi ingegneri di grande sensibilità, non pochi della Ove Arup, è stato determinante
nell’apparizione delle architetture High-Tech. Fra essi, col biglietto da visita di aver affiancato Jørn
Utzon nel realizzare la Sydney Opera House, emerge sicuramente Peter Rice. Rice ha una
sensibilità speciale per l’architettura e, quando si rompe il sodalizio fra Piano e Rogers, fonda con il
primo lo studio di progettazione ”Atelier Piano & Rice”. Come vedremo anche in Schlaich, Rice,
pur riconoscendo all’architetto la responsabilità complessiva del progetto, col suo operare non
rinuncia al proprio ruolo in cui le competenze tecniche, affiancate da conoscenza e passione per
l’architettura, possono apportare un carattere talvolta decisivo all’edificio. Rice spesso è andato
anche oltre, e le sue grandi competenze tecniche sono state pure occasione di messa in discussione
nei fatti della ripartizione di competenze nel progetto di architettura; le sue soluzioni tecniche
innovative, infatti, hanno sì avuto rilevanza formale – come già visto nel caso del Beaubourg, ma
anche nei Lloyds di Londra – ma alla fine sono arrivate ad averne anche nella concezione
dell’edificio, giacchè certe sue proposte innovative hanno aperto nuove complessive soluzioni
progettuali nell’intreccio delle diverse competenze tecniche. Se, come diceva Rice, è l’architetto
che decide, concepisce l’edificio e ne deve approvare le soluzioni tecniche, è però anche vero che
un tecnico della sua capacità era in grado di determinare l’esito del progetto d’architettura. E’ ciò
che è poi avvenuto con Fainsilber per le Serres del Musée National des Sciences et de l'Industrie de
la Villette, a Parigi. Chiamato a partecipare al progetto, Rice, sciolto l’”Atelier Piano & Rice”, crea
con Francis e Ritchie la RFR, un team progettuale di ingegneri ed architetti con le specifiche
competenze necessarie per trovare soluzione alle esigenze di trasparenza di Fainsilber, che voleva
che le Serres apparissero né dentro il Museo, né al di fuori nel parco, ma sospese nell’ambiguità del
loro spazio, definito solo dai riflessi delle superfici vetrate. La ricerca di una soluzione radicale
impegna le varie facce del multiforme ingegno di Rice e lo porta ad approdare all’uso strutturale del
vetro. Ancora una volta c’è da una parte la capacità pragmatica di coinvolgere l’industria –
dall’impresa esecutrice alle nuove industrie da lui via via rese partecipi al progetto– dell’acciaio, del
vetro ed aeronautiche, per conseguire un obiettivo fino allora mai raggiunto; dall’altra è evidente la
capacità di immaginare l’obiettivo progettuale nel suo insieme, dai suoi componenti più grandi –
come le grandi lastre di vetro, grandi come non mai, e la trama di aste e cavi –ai suoi particolari più
minuti – come i giunti puntuali delle lastre – dove si gioca la sfida con la frattura del vetro.
L’esperienza dell’High Tech è metabolizzata ma ormai superata, la sottolineata presenza delle
grandi membrature d’acciaio e dei giunti scultorei in evidenza è lasciata per la leggerezza, la
trasparenza, l’impalpabilità del riflesso. La lezione imparata con l’High Tech è forse indispensabile,
la grande cultura tecnica, la capacità di calcolo, la padronanza della tecnologia e l’utilizzo del
materiale sfidano la fragilità, ma l’approdo è ormai tutto diverso, con l’intelligenza di chi non ripete
pedissequamente il risultato raggiunto. L’approdo è la leggerezza di un nuovo materiale, il vetro
strutturale – che Schlaich userà magistralmente in alcuni suoi capolavori – ed in cui la tecnologia
delle industrie e la competenza scientifica del progettista sono ancora in primo piano, fin nel
particolare del vincolo puntuale delle grandi lastre di vetro, poi brevettato da Rice e che ha infine
portato alle facciate in vetro strutturale delle Serres e dato l’avvio all’uso strutturale del vetro.
Purtroppo anche Rice, come Musmeci, non ha potuto vedere appieno i frutti delle sue geniali
intuizioni perché è morto prematuramente nel 1992.

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